II. L`EDUCAZIONE DELLE DONNE (a cura di M. Scardozzi, A. Peretti
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II. L`EDUCAZIONE DELLE DONNE (a cura di M. Scardozzi, A. Peretti
II. L’EDUCAZIONE DELLE DONNE (a cura di M. Scardozzi, A. Peretti) Nel sistema scolastico italiano, dalla legge Casati del 1859 alla riforma Gentile del 1923, la distinzione tra “maschile” e “femminile” era molto netta. L’idea che le donne avessero bisogno di educazione al ruolo di madri e di mogli, piuttosto che di istruzione, fu alla base di un’offerta scolastica più povera, contraddittoria e in ogni caso diversa rispetto a quella destinata ai maschi. Nello stesso tempo, però, le scuole offrirono alle donne la prima possibilità di un accesso di massa a un lavoro qualificato, quello di insegnante. Già a fine Ottocento la figura della maestra si impose nell’immaginario collettivo (si pensi a De Amicis) come un nuovo tipo di donna: ricca di connotati materni, come da tradizione, ma nello stesso tempo “fiera e superba” di contribuire “ al miglioramento morale della nostra Nazione” (Dizionario illustrato di pedagogia, 1897) (Fig. 19 Demetrio Cosola, Il dettato, 1891). Seguiremo ora solo alcune tappe di questo ampio itinerario: il lento progresso dell’istruzione di base nella provincia; alcune istituzioni pisane importanti, come le “scuole infantili di carità”, le scuole di S. Ranieri, la scuola normale femminile. 1. Leggere e scrivere, una conquista difficile (M. Scardozzi) Il primo censimento nazionale, nel 1861, registrò ben 17 milioni di analfabeti su poco meno di 22 milioni di abitanti; nel confronto con le altre nazioni europee l’Italia si collocava negli ultimi posti della graduatoria e il ritardo fu colmato molto lentamente. L’analfabetismo era più alto nelle regioni meridionali che in quelle settentrionali, più alto nelle campagne che nei centri urbani, più alto tra le femmine che tra i maschi: la lenta crescita dell’istruzione di base lasciò persistere a lungo tali differenze. Rispetto alle altre province toscane, quella di Pisa occupava una posizione intermedia: dal 1861 al 1931 il pisano presenta un tasso di analfabetismo maschile di poco inferiore alla media regionale, mentre quello femminile era superiore (Fig. 20 Analfabeti sulla popolazione di 6 anni e oltre in Toscana) Nonostante i progressi realizzati dall’Unità in avanti, nel 1931 ancora una donna su 4 era analfabeta (tasso del 24%). Questo dato provinciale, inoltre, nascondeva situazioni molto differenziate: mentre a Pisa e a Calci l’analfabetismo femminile era rispettivamente del 14 e del 19%, nei comuni più poveri e isolati si arrivava al 35% (Fig. 21) Tra i fattori che hanno reso tanto difficile la lotta all’analfabetismo, il più importante è stato certamente il modesto impegno finanziario dello Stato. Fino al 1911 infatti l’istruzione elementare, che pure era obbligatoria, fu completamente a carico dei comuni. I bilanci comunali, già gravati da numerose incombenze, dedicarono poche risorse alle scuole e ancor meno a quelle femminili. Un prospetto delle scuole elementari pubbliche, maschili e femminili, presenti nei comuni della provincia nell’anno 1862/63, (Fig. 22 Statistica del Regno d’Italia. Istruzione primaria. Istruzione elementare pubblica per comuni. a.sc. 1862-63) illustra la situazione in modo eloquente. Si tenga presente che esistevano molte scuole private: per ora si preferisce non affrontare un problema, come quello del rapporto pubblico/privato, tanto rilevante dal punto di vista storico e tanto attuale. Col tempo le scuole pubbliche aumentarono: nel comune di Pisa, ad esempio, le scuole (cioè le aule) femminili diventarono 25 nel 1896/97, con poco più di 1.000 alunne, ma quasi tutte le classi appartenevano al “corso inferiore” (fino alla III), una maestra aveva anche 76 bambine e nei sobborghi esistevano quasi soltanto pluriclassi (dalla I alla III nella stessa aula). 2. Un’esperienza pisana d’avanguardia : gli asili infantili (Alessandra Peretti) L’istituzione di asili infantili inizia in Toscana negli anni ’30 dell’Ottocento, sotto la spinta di un movimento di opinione che parte dai settori più sensibili dell’aristocrazia e della borghesia liberale e coinvolge molte donne, spesso di origine straniera e di religione non cattolica. Nel 1831 giunge a Pisa per motivi di salute Matilde Calandrini, una signora ginevrina di religione protestante e di lontana origine lucchese, appassionata di educazione infantile (Fig. 23 Ritratto di Matilde Calandrini). Entrata in corrispondenza con i maggiori educatori del tempo (Ferrante Aporti, Mayer, Lambruschini), fonda nel 1833 con l’aiuto del filantropo pisano Luigi Frassi una Scuola infantile di Carità per bambine povere dai tre ai sette anni, che sovvenziona personalmente e di cui cura i principi educativi e la formazione delle maestre. (Fig. 24 Prospetto economico e rapporti sullo stato sanitario e morale della Scuola infantile di carità per le femmine in Pisa, 1837) Fin dall’inizio, l’ambiente clericale pisano guarda con sospetto gli asili, sia per l’adesione al progetto di educazione popolare di tutto l’ambiente liberale toscano, sia per l’accusa di proselitismo protestante rivolta alla Calandrini, che nel 1846 verrà espulsa dal Granducato. Mentre l’originario regolamento degli asili non faceva discriminazioni religiose, nel 1837 viene limitato l’accesso alle sole bambine cattoliche (Fig. 25 Regolamento organico per la Scuola infantile di carità aperta alle bambine in Pisa, 5 marzo 1837: Titolo III art. 8), limitazione che verrà superata solo dopo l’unità. Intanto gli asili si sviluppano, scelgono sedi via via più ampie e decorose, accolgono maschi e femmine sia pure in sezioni separate, raccolgono intorno a sé una fitta rete di insegnanti e ispettrici e di beneficenza privata, che coinvolge molte importanti famiglie dell’aristocrazia e borghesia pisana. Quello che caratterizza comunque questa istituzione, che pure viene a trovarsi spesso sotto l’egida di autorevoli personaggi maschili, è il suo configurarsi come un mondo prevalentemente femminile (Fig. 26 Giornale della Direttrice, 14.1.1843-13.12.1844). Dalle piccole scolare fin su alle direttrici e presidenti, che a norma di regolamento sono sempre donne, il suo ricco archivio è pieno di nomi femminili: dalla prima direttrice Adele Bonhomme alle presidenti Zaira Landucci, Elisa Finocchietti e Maria Di Vestea, da Elena Comparetti Raffalovich a Teresa Benzoni Martini. Alla fine del secolo negli asili viene introdotta la coeducazione, con la creazione di sezioni miste, e alla sede di via del Museo, poi via Derna, si aggiunge un nuovo edificio al Carmine, che verrà intitolato alla regina Elena. Il nome della fondatrice verrà assunto da questo asilo solo nel secondo dopoguerra (Fig. 27 Un asilo agli inizi del ‘900). Tra il 1870 e il 1890 si sviluppa anche il dibattito sui nuovi metodi di insegnamento. In un primo tempo restii all’innovazione (v. il fallito tentativo di Elena Raffalovich), gli asili di carità di Pisa si convertono poi al metodo froebeliano, che propone una pedagogia attiva che assecondi la spontanea evoluzione del bambino attraverso il gioco e il rapporto con la natura. Il carattere laico, o meglio aconfessionale degli asili viene ribadito in varie occasioni, sia con una deliberazione del 1894 tesa a rimuovere le immagini sacre dai locali, sia col rifiuto ribadito nel 1901 dal Consiglio direttivo presieduto da Maria Di Vestea dell’introduzione della preghiera cattolica. 3. L’ago e l’alfabeto: le scuole di S. Ranieri e la Pia Casa di Carità (Mirella Scardozzi) Rimasero in vita, dopo l’Unità, un gran numero di istituzioni antiche, dotate spesso di cospicue rendite: il nuovo Stato non fu in grado di riformare e utilizzare al meglio questo “patrimonio del povero”, a vantaggio della diffusione dell’istruzione di base. A Pisa esistevano due istituzioni del genere, destinate all’educazione femminile: le scuole di S. Ranieri e la Pia Casa di Carità. Le scuole di S. Ranieri Erano una delle scuole per “povere zittelle”, istituite dal granduca Pietro Leopoldo nel 1783 anche a Firenze, Siena e Pistoia. Molto innovative ai loro tempi, per la gratuità e la laicità dell’insegnamento, apparivano obsolete dopo l’Unità. Il loro fulcro era il lavoro piuttosto che l’istruzione: abbandonata la tessitura (di stoffe di seta e poi di cotone), sperimentarono la confezione di cappelli di paglia (attività allora molto fiorente in vaste zone della regione) e infine si dedicarono prevalentemente al lavoro a maglia. Producevano su commissione dei privati. Nel 1879 furono riformate e cioè ampliate con l’aggiunta di una Scuola di lavori femminili, post elementare: un manifesto (Fig. 28) presentò alla cittadinanza la nuova istituzione. Un aspetto importante della riforma fu l’introduzione del disegno. La scuola durava 2 o 3 anni e aveva sede, come in precedenza, nell’ex convento di S. Michele in Borgo. Nel 1881 le Scuole di S. Ranieri erano una delle 12 scuole professionali femminili riconosciute dal Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio; in questa veste parteciparono alle Esposizioni industriali, in primo luogo a quella di Torino del 1884, esponendo ricami o “lavori femminili” di diverso tipo. Non conosciamo ancora la loro evoluzione successiva, ma nel 1933 furono trasformate in scuola femminile di Avviamento professionale. La Pia Casa di Carità Istituzione antica, la Pia Casa fu trasformata in orfanotrofio femminile da Pietro Leopoldo nel 1781/82. Aveva sede nell’edificio detto “delle Stinche”, oggi occupato dai Dipartimenti di Filosofia e di Storia (Fig. 29 La cappella del Palazzo della Carità, oggi biblioteca di Filosofia e storia). In una pubblicazione del 1845 si legge che le 105 ragazze allora ospitate venivano “…ammaestrate nel leggere, nello scrivere, nell’abbaco e in uno dei mestieri che si addicono alla povera loro condizione. Molte si occupano per altro nel tessere e i panni lini lavorati nell’istituto sono ricercatissimi. Non è a dirsi quanto numerose siano le ricerche che di queste fanciulle vanno ogni dì facendosi dai giovani (che bramano impalmarsi) non solo di Pisa, quanto ancora di tutta la vicina provincia”. Alle ragazze che si sposavano la Pia casa conferiva una dote di £. 352, come facevano anche, per un importo più modesto, le Scuole di S. Ranieri. Nel 1865 il Soprintendente B. Scorzi chiese di sopprimere la tessitura, “attesa la concorrenza delle grandi fabbriche”, e di sostituirla con la stiratura. Per ricostruire il numero delle ragazze ospitate, e la diversa mescolanza di studio e lavoro prevista nel tempo dall’istituto, sono utili una serie di opuscoli a stampa (Fig. 30 Regolamento 1901, Fig. 31 Orfanotrofio femminile di Pisa, Relazione del presidente comm. Ettore Calderai, Pisa, 1893 ). 4. Le signorine: dal Conservatorio all’Istituto magistrale (Mirella Scardozzi) Nati in età moderna per “conservare” l’onore delle fanciulle, i conservatori femminili rimasero a lungo, nell’Italia unita, uno degli strumenti preferiti per l’educazione delle giovani di buona famiglia. Nella provincia di Pisa esistevano numerose istituzioni di questo tipo: la più importante era il Conservatorio di S. Anna di Pisa, ma c’erano anche il S. Lino di Volterra, il S. Chiara di San Miniato, il S. Marta di Montopoli (Figg. 32, 33 Conservatorio di S. Chiara a S. Miniato in un opuscolo del 1934: veduta d’insieme, dormitorio). Con il Regolamento per i Conservatori della Toscana, del 1785, Pietro Leopoldo aveva laicizzato i conservatori, vietando a maestre ed educande di vestire l’abito religioso. La laicità di queste istituzioni fu ribadita nel 1867 dalla prima legge nazionale in materia, che pose i conservatori alle dipendenze del Ministero della Pubblica Istruzione. Proprio in conseguenza di questa legge, il Conservatorio pisano di S. Anna si dotò nel 1868 di un nuovo “Regolamento interno” (Fig. 34 R. Conservatorio di S. Anna di Pisa, Regolamento interno..[..], 12 dicembre 1868): l’accesso, si specificava, era riservato a ragazze “di onorata e civile famiglia”. Il S. Anna era infatti un educandato d’élite, come attestano la varietà degli insegnamenti impartiti, l’importo della retta annua (£. 600, equivalenti a più di un anno di salario operaio), le comodità offerte (le “bagnature” a Viareggio e, dagli anni Settanta, la villeggiatura nella Certosa di Calci). Proprio per questo, però, le regole “claustrali” erano rigidissime: visite dei genitori una volta a settimana (una al mese i fratelli); controllo della posta; divieto di uscire dall’istituto anche durante le feste o le vacanze. Il tempo massimo di permanenza era dagli 8 ai 18 anni di età. Le famiglie che non potevano o non volevano chiudere le figlie in conservatorio dovevano ricorrere a precettori oppure a scuole private. A Pisa c’era, ad esempio, la scuola diretta dalla contessa Olga Arlotti di Crollalanza (1879-1882, almeno) oppure quella aperta nel 1889 dalla filantropa scozzese miss Garruthers. La domanda di una scuola femminile postelementare si ampliò tanto, verso la fine del secolo, da spingere diverse ragazze di Pisa e provincia a fare le pendolari con Livorno, dove esisteva già una scuola normale (cioè magistrale) femminile pubblica. Dopo accesi dibattiti in consiglio comunale e sulla stampa cittadina, nel 1908 fu finalmente istituita la scuola normale femminile “Giosuè Carducci”, grazie ad una convenzione tra il Comune, che la finanziava, e il Conservatorio di S. Anna, che metteva a disposizione i locali (Fig. 35 Le prime allieve della Carducci, 1911, III classe). Anche il convitto della scuola normale fu ospitato dal S. Anna, che continuò comunque a funzionare anche come conservatorio: dal 1937 il complesso fu dato in gestione alle suore Salesiane di Don Bosco.