Etty Hillesum, un`“anima millenaria”

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Etty Hillesum, un`“anima millenaria”
Kasparhauser
Lichtung. Luci 10 | 2014
Lichtung. Luci
Kasparhauser
Lichtung. Luci 10 | 2014
A cura di Giacomo Conserva
Rivista di cultura filosofica. Redazione: Marco Baldino, Giacomo Conserva,
Jacopo Valli.
Pubblicazione on line protetta dal diritto d’autore. La distribuzione avviene a
mezzo rete ed è gratuita. Non è consentita la commercializzazione del materiale
qui raccolto.
Kasparhauser ISSN 2282-1031
2
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
Indice
Introduzione
4
Giacomo Conserva e Jesse S. Cohn
Viaggiatori mentali
5
Giuseppe Crivella
Dylan Thomas: la cerebrale lebbra degli emblemi
18
Giuseppe Crivella
Robbe-Grillet: come il congegno disfatto di un orologio
30
Marco Baldino
Büchner: il delitto come pensiero
45
Francesca Brencio
Arthur Rimbaud: il peso insopportabile
50
Marco Nicastro
Vincent Van Gogh: un pennello fremente di febbre e di
emozione
64
Maurizio Montanari
Deleuze-Guattari: la letteratura minore nell‘argot di
Céline
87
Giacomo Conserva
Adorno, Fortini/Gryphius, Alciati
97
Sonia Caporossi
Wittgenstein: un monologo
105
Fabio Ciriachi
Il concetto di concetto: suggestioni sul senso del dire
119
Stefano Scrima
Brutti filosofi
135
Gli autori
139
3
Lichtung. Luci
Introduzione
di Giacomo Conserva
C‘è una ragazza che sta bruciando
C‘è una bambina che sta bruciando
da qualche parte.
La sua carne si decompone, la fiamma nera diventa luce.
I suoi occhi vedono la luce.
La bellezza divina per i neoplatonici passa
nell‘universo, lo organizza, gli dà un senso (tracce di
questo modo di vedere si trovano notoriamente alla base
del pensiero di Tommaso d‘Aquino e di Heidegger). Il
mondo non sarà salvato dalla bellezza perché lo è, di base,
già; occorre solo (solo) sintonizzarsi sulla più profonda
connessione delle cose, e imparare a limitare,
soggettivamente e collettivamente, il peso materiale e
mentale della iniquità.
Sarà vero questo, non sarà vero?
Quello che raccogliamo più sotto sono (fra le altre cose)
sforzi di indagare come poesia, arte, filosofia si
confrontino con bellezza, senso, sofferenza.
Una luce (un brillare); mille luci.
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
Viaggiatori mentali
di Giacomo Conserva e Jesse S. Cohn
I.
William Blake, ―Il Viaggiatore Mentale‖ (Pickering Manuscript). 2.
Jesse S. Cohn, ―Il viaggiatore mentale di Blake‖, 2000. 3. Bibliografia di
ricerca su The Mental Traveller. 4. Nota finale.
I.
Il Viaggiatore Mentale
di William Blake (traduzione di G. Conserva)
Ho viaggiato attraverso un Paese di Uomini,
un paese di Uomini & di Donne anche,
ed ho udito & visto cose tanto orribili
come i freddi vagabondi della Terra non hanno mai
conosciuto.
Perché lì il Bambino nasce in gioia
che è stato generato in atroce dolore,
proprio come noi Raccogliamo in gioia il frutto
che con amare lacrime abbiamo seminato.
E se il Bambino nasce Maschio
viene dato ad una Vecchia Donna
che lo inchioda sopra una roccia,
cattura le sue grida in coppe d‘oro.
Lei stringe spine di ferro attorno al suo capo,
gli fora sia mani che piedi,
gli taglia fuori il cuore al fianco
per fargli sentire sia caldo che freddo.
Le sue dita numerano ogni Nervo
proprio come un Usuraio conta il suo oro;
lei vive delle sue grida & lamenti,
e ringiovanisce mentre lui invecchia.
Finché lui diventa un giovane che versa sangue
e Lei diventa una Vergine luminosa;
allora lui strappa via i suoi Legami
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Lichtung. Luci
e la stringe giù per la sua gioia.
Lui pianta se stesso in tutti i suoi Nervi,
proprio come un Allevatore il suo marchio
e Lei diventa la sua dimora
e Giardino fruttevole settanta volte.
Un‘Ombra Anziana, presto lui svanisce,
vagando attorno un Terrestre Giaciglio,
tutto pieno di gemme & d‘oro
che con industria si è procurato.
E queste sono le gemme dell‘Animo Umano,
i rubini & le perle di un occhio che soffre per amore,
l‘infinito oro di un cuore tormentato,
il gemito del martire & il lamento dell‘innamorato.
Esse sono la sua carne, esse sono la sua bevanda;
egli nutre il Mendicante & il Povero
ed il Viaggiatore in cammino:
per sempre aperta è la sua porta.
Il suo dolore è la loro eterna gioia,
fanno risuonare i tetti & le pareti;
finché dal fuoco del focolare
una Piccola Bambina salta fuori.
E Lei è tutta di solido fuoco
e gemme & oro, così che nessuno la mano
osa stendere per toccare la sua forma di Bambina,
e avvolgerla nelle sue fasce.
Ma Lei giunge all‘Uomo che ama,
sia giovane o vecchio, o ricco o povero;
essi scacciano via l‘anziano Ospite,
un Mendicante alla porta di un altro,
lui se ne va via lontano piangendo,
Finché qualcun altro lo accolga dentro:
Spesso cieco & piegato dagli anni, aspramente afflitto,
Finché non può conquistare una Ragazza.
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
E per allietare la sua Vecchiaia che raggela,
il Povero Uomo la prende fra le braccia;
la Capanna svanisce dalla sua vista,
il Giardino & le sue amabili Gioie.
Gli Ospiti si spargono per il paese,
poiché l‘Occhio alterandosi altera tutto;
i Sensi si avvolgono dalla paura
e la piatta Terra diventa una Palla;
Le Stelle, il Sole, la Luna, tutti svaniscono via,
un deserto vasto senza confine,
e niente rimane da mangiare o bere,
ed un oscuro deserto tutto attorno.
Il miele delle sue labbra di Bambina,
il pane & il vino del suo dolce sorriso,
il gioco selvaggio del suo occhio vagante
lo tirano indietro all‘Infanzia;
perché mentre mangia & beve lui diventa
più giovane & sempre più giovane ogni giorno;
e sul deserto selvaggio tutti e due
vagano in terrore & spavento.
Come la Cerva selvatica lei fugge via,
la sua paura pianta più di un cespuglio selvaggio;
mentre lui la insegue notte & giorno,
da varie arti di Amore incantato;
da varie arti di Amore & Odio,
finché il vasto deserto è tutto piantato
di Labirinti di ingannevole Amore,
dove si aggira il Leone, il Lupo & l‘Orso;
finché lui diventa un capriccioso bambino,
e lei una Vecchia Donna piangente;
allora più di un Amante vaga qui,
il Sole & le Stelle sono tratte più vicino,
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Lichtung. Luci
gli alberi portano alla luce dolce Estasi
a tutti quelli che nel deserto si aggirano,
finché più di una Città vi viene Costruita,
e più di una piacente casa di Pastore.
Ma quando trovano il Bambino corrucciato,
terrore colpisce attraverso tutta la vasta regione:
gridano: ―il Bambino! Il Bambino è Nato!‖
e scappano via da ogni parte.
Perché chi osa toccare la forma corrucciata,
il braccio gli si rinsecchisce fino alla radice;
Leoni, Orsi, Lupi tutti fuggono lamentandosi,
ed ogni Albero fa cadere i suoi frutti.
E nessuno può toccare quella forma corrucciata,
a meno che non sia una Vecchia Donna;
lei lo inchioda sopra la Roccia,
e tutto avviene come ho raccontato.
2.
Il viaggiatore mentale di Blake
di Jesse S. Cohn*
―Il Viaggiatore Mentale‖ di William Blake non è solo
un‘opera ―ciclica‖ nel senso del Finnegans Wake di Joyce
o di Piedra del sol di Octavio Paz: è la descrizione di un
mondo ciclico, un universo di spazio-tempo circolare in
cui tutte le cose si ripetono. Qui, i normali processi ciclici
della natura sono esagerati, spinti a estremi innaturali: così,
una terra arida prima germoglia (vv. 27-28) per poi
rinsecchirsi in un ―deserto‖, e i cieli stessi si allontanano (v.
65) per poi riavvicinarsi (v. 88). La vita umana sembra
seguire lo stesso schema: i Viaggiatori trovano una casa (vv.
38-39), e vengono cacciati via (v. 61); si riuniscono in
reverente attesa (v. 5), e fuggono pieni d‘orrore (vv. 94-96)
— volta dopo volta, all‘infinito. Ogni movimento
individuale cancella sé stesso entro una totalità statica.
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
Un mondo di infinita ripetizione è un mondo di
infinitamente ripetute crudeltà e miserie, e in effetti sono
queste l‘oggetto principale della narrazione. Attraverso gli
occhi del Viaggiatore eponimo, vediamo un bambino
indifeso
dato ad una Vecchia Donna
che lo inchioda sopra una roccia,
cattura le sue grida in coppe d‘oro (10-12)
Sfruttato e tormentato, sopravvive e raggiunge l‘età
adulta, mentre la sua tormentatrice ―diventa giovane‖ (v.
20); noi lo vediamo prendere il sopravvento sulla
―Vergine‖, e ―legarla giù per la propria gioia‖, sfruttandola
così come lei aveva sfruttato lui:
Finché lui diventa un giovane che versa sangue
e Lei diventa una Vergine luminosa;
allora lui strappa via i suoi Legami
e la stringe giù per la sua gioia (21-24)
Osserviamo lei diventare sempre più giovane, mentre
lui si trasforma progressivamente in un vecchio pieno di
rimpianti (v. 44 e v. 29). Cacciato dalle manovre di lei
dalla propria casa, la insegue per il ―vasto deserto‖, finché
―lui diventa un capriccioso Bambino/ e lei una Vecchia
Donna piangente‖, e tutto quanto il ciclo è pronto per
ricominciare.
Ma Lei giunge all‘Uomo che ama,
sia giovane o vecchio, o ricco o povero;
essi scacciano via l‘anziano Ospite,
un Mendicante alla porta di un altro,
lui se ne va via lontano piangendo (49-53)
[..................................................................]
mentre lui la insegue notte & giorno,
da varie arti di Amore incantato;
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Lichtung. Luci
da varie arti di Amore & Odio,
finché il vasto deserto è tutto piantato
di Labirinti di ingannevole Amore,
dove si aggira il Leone, il Lupo & l‘Orso;
finché lui diventa un capriccioso bambino,
e lei una Vecchia Donna piangente (79-86).
Oppresso ed oppressore cambiano di posto volta dopo
volta, ma nessuno dei due può raggiungere una vittoria
permanente, poiché la poesia finisce dove era iniziata: una
―Vecchia Donna/[...] lo inchioda sopra la Roccia/ E tutto
avviene come ho raccontato (vv. 102-104).
Le narrazioni lineari collocano le azioni dei personaggi
entro un quadro in cui esse hanno un senso: una causa dà
origine ad un‘azione diretta ad una meta, e che ha un
risultato. In una narrazione circolare come quella de ―Il
Viaggiatore Mentale‖, le azioni sono il risultato di sé stesse,
cosicché non indicano nessuna origine o meta finale, e
semplicemente fanno riferimento a sé stesse. Secondo i
criteri convenzionali, una narrazione simile appare quasi
letteralmente senza senso: è ―chiusa in sé‖ come la nemesi
dei poemi epici di Blake, lo spettrale Urizen (Il libro di
Urizen, I. 3). Ogni azione annulla sé stessa, e vice versa.
Dove è dunque il senso della conclusione — ―e tutto
avviene come ho raccontato‖? (v. 104, corsivo aggiunto)
Come possiamo dare un senso a quanto viene fatto nel
―Viaggiatore Mentale‖?
Una risposta potrebbe trovarsi in una sezione che pare
servire come il fulcro di tutta questa totalità ciclicamente
ruotante.
Questo
elemento
appare
isolato,
apparentemente fuori contesto, nella sedicesima stanza del
―Viaggiatore Mentale‖, dove incontriamo un verso che
Arthur Adamson acutamente identifica come il ―momento
cruciale‖ del testo (v. 48). Ecco il verso: ―Poiché l‘Occhio
alterandosi altera tutto‖ (v. 62). Per dare un senso al
―tutto‖ cui questa enigmatica frase si riferisce, potremmo
provare a contestualizzarlo chiedendoci cosa Blake pensa
attorno agli Occhi.
Secondo Linda M. Lewis, Milton fu il padre poetico le
cui opere William Blake si sentí più fortemente ―obbligato
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
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a revisionare‖ (v. 148); un modo di scoprire tutto quanto
Blake pensava su un argomento qualunque è proprio lo
scoprire che valutazioni egli dava delle opinioni espresse
Milton su di esso. In effetti, è proprio lo schema
psicologico presentato da Milton le Libro 5 del Paradiso
Perduto che Blake pare deciso a screditare nel suo
manifesto giovanile Non c‘è nessuna religione natura.
Laddove Milton descrive la Caduta dell‘umanità come una
rivolta dell‘Immaginazione contro il ―Dominio della
Ragione‖ e la ―Guardia dei 5 Sensi‖ (Paradise Lost, 5, vv.
100-112), Blake inverte queste proposizioni, dichiarando
che è l‘Immaginazione a dovere giustamente dominare la
varie facoltà, e che questo suo posto è stato usurpato dalla
Ragione. Ritenere che i desideri & le percezioni dell‘uomo
dipendano unicamente dagli organi di senso‖, asserisce
Blake, porta inevitabilmente alla conclusione che essi
―devono essere limitati agli oggetti di senso‖ — ―che se non
fosse per il Principio Poetico o Profetico, quello Filosofico
& Sperimentale sarebbero rapidamente alla mercé delle
cose & rimarrebbero immobili, incapaci di fare altro dal
ripetere volta dopo volta lo stesso squallido ciclo‖ (Blake
1). L‘‖universo‖ percettivo di una umanità i cui cinque
sensi siano stati disciplinati dalla Ragione, secondo Blake,
è ―un ciclo squallido‖, un circolare ―mulino dai complicati
ingranaggi‖(v. 2).
Non è difficile capire che l‘universo circolare del
Viaggiatore Mentale è un altro esempio di ―mulino dai
complicati ingranaggi‖, e il suo asse sembra essere questa
alterazione dell‘Occhio che fa sí che ―i Sensi si rinserrino
dalla Paura‖ (v. 63). Sembra conseguirne che il motivo per
la circolarità senza senso della narrazione si trova in
qualche modo secondo Blake in questa alterazione
dell‘Occhio — che è anche una alterazione dell‘―Io‖, una
trasformazione del Sé. Colui le cui ―porte della
percezione‖ sono state aperte dall‘Immaginazione vede un
mondo ―infinito‖ piuttosto che un regno di penuria
(Blake, ―Il Matrimonio del Cielo e dell‘Inferno‖ 39); se i
cinque sensi sono governati dalla Ragione si vede un
mondo di risorse finite, in cui il guadagno di una persona
è la perdita di un‘altra. Cosí, Blake considera le
conseguenze della filosofia empiristica una sorta di
11
Lichtung. Luci
egoismo materialisticamente legittimato: l‘infinita reciproca
crudeltà dell‘universo che Blake descrive è una
conseguenza di questo restringimento dei sensi. Mentre
l‘Immaginazione percepisce un regno di pienezza da
godere e condividere, il puro empirista (come Blake
scrisse in un poema aforistico all‘inizio della sua opera)
ritiene che le proprie ―gioie‖ devono derivare dalla ―altrui
sventura‖, e cerca quindi di ―imprigionare l‘altro per il
Proprio piacere‖ (Il Pezzo di Terra & il Sassolino, vv. 1011) ― che è esattamente il crimine che uomo e donna si
infliggono reciprocamente nel Viaggiatore Mentale.
L‘universo delimitato di questo ―mulino dai complicati
ingranaggi‖, in quanto spazio radicalmente chiuso su di sé,
è la scena di giochi a somma zero. ―L‘uomo non è
migliorato dal danno di un altro‖ risponde Blake a Bacone
in una nota (v. 768). Ma questo è esattamente quanto
l‘uomo e la donna del Viaggiatore Mentale cercano di fare
quando a turno si ―legano‖ e raccolgono il ―frutto‖ delle
sofferenze dell‘altro (vv. 24-27). In un mondo ciclico,
naturalmente, simili sforzi di accumulare ricchezza sono
futili tanto quanto ingiusti: i diversi Giocatori
semplicemente fanno a turno nel derubarsi l‘un l‘altro.
Anche se il Viaggiatore ci dice che la sua storia racconta di
―cose cosí orribili/ come i freddi viaggiatori della Terra
non hanno mai conosciuto‖ (vv. 3-4), noi freddi viaggiatori
della Terra non siamo estranei in questo strano paese;
pure noi alteriamo il mondo con i nostri Occhi ristretti e
giochiamo inutili giochi di guadagno e perdita. L‘allegoria
di Blake ci invita a guardare in faccia l‘irrazionalità che ci
imprigiona: il senso di questa narrazione lo troviamo nel
modo in cui essa rispecchia la nostra propria mancanza di
senso.
C‘è qualche modo per abbandonare la ruota, per
redimere l‘Occhio e l‘―Io‖ dalla loro materialistica
corruzione? In quanto Viaggiatore Mentale ― un veggente
introspettivo la cui visione giunge dall‘Immaginazione
piuttosto che dalla Ragione ― il narratore del poema non
partecipa della squallida economia percettiva del mondo
che evoca. Così, come suggerisce Morton D. Paley, sfugge
al legame reciproco in cui restano intrappolati torturatori e
vittime della narrazione circolare (vv. 123-124). In questo
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trascendere, assomiglia al protagonista di un capitolo del
Matrimonio del Cielo e dell‘Inferno che viene condotto
da un angelo moralizzante attraverso tutta una serie di
scene orripilanti che portano infine ad un ―mulino‖. Come
annoiato da tutte queste fantasie di giustizia/ vendetta
divina, il narratore si trasporta in un luogo più piacevole —
lasciandosi dietro l‘angelo. Alla fine, racconta, ―mi levai e
andai in cerca del mulino, & lì trovai il mio Angelo che
sorpreso mi chiese come avevo fatto a sfuggirmene‖. Il
protagonista risponde, ―Tutto quello che abbiamo visto
dipendeva solo dalla tua metafisica‖ (Blake, vv. 40-41).
(trad. di G. Conserva)
* Ringraziamo sentitamente l‘autore per la gentile concessione. The
Explicator 58.3 (Spring 2000): 130-133;
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https://www.youtube.com/watch?v=p8aax-k5wTU [testo:
http://www.sing365.com/music/lyric.nsf/Some-Kinda-Lovelyrics-VelvetUnderground/464F1217FC179C45482569880029FF1C].
E.P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia
in Inghilterra, 2 voll., trad. it. di B. Maffi, Il Saggiatore,
Milano 1969 (1963).
[molti dei testi qui citati sono recuperabili in rete tramite libgen.org, o
altri siti]
4.
Nota finale
«Nel poema Il Viaggiatore Mentale di William Blake
abbiamo una visione del ciclo della vita umana, da nascita
a morte a rinascita. I due protagonisti del poema sono una
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figura maschile ed una figura femminile, che si muovono
in direzioni opposte: una invecchia mentre l‘altra
ringiovanisce, e vice versa. La relazione ciclica fra di loro
attraversa quattro punti cardinali: una fase figlio-madre,
una fase marito-moglie, una fase padre-figlia, ed una
quarta fase di quanto Blake identifica come spettroemanazione... Nessuna di queste fasi è del tutto vera...»
(Northrop Frye, Anatomy of Criticism, Princeton UP,
2000 (1957), p. 322 passim).
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Lichtung. Luci
Dylan Thomas: la cerebrale lebbra
degli emblemi
di Giuseppe Crivella
Scrive Dylan Thomas alla fine di uno dei suoi più noti
racconti giovanili, intitolato Nella direzione del principio:
Di chi era l‘immagine del vento, l‘impronta sullo
scoglio, l‘eco che chiedeva una risposta? Essa era
aurea e anguicrinita. Si muoveva nel campo salato,
ingoiante, al storia e le rocce, le oscure anatomie, lo
stesso mare ancorato. Infuriava nell‘utero infecondo
[…]. Egli vide la reietta immagine disegnata con un
piede d‘incubo intinta nel veleno e incorniciata dal
vento, impronta del pollice che lei affondò sulla mano
come un‘ombra palmata, interrogazione dell‘eco […].
Una voce quella sera traversò la luce e le onde, una
forma assunse i mutevoli umori, da dove la cantaride
marina verde-oro tinge lo strascico del polpo una
virulenza strisciò attraverso la spuma, e dai quattro
angoli della mappa un cherubino nella forma di
un‘isola soffiò le nuvole verso il mare.
1
Per penetrare nella dizione lirica di Dylan Thomas è
necessario sforzarsi di immaginare la vitrea porosità di un
vuoto stillante il deserto crepitare di forme senza nome:
un violento impeto alla contorsione, un grumoso serto di
avvolgimenti ritmicamente astratti, giustapposti l‘uno
all‘altro a formare l‘ordinata trina lungo l‘orlo di un
delicato merletto, al cui centro però è giunto a depositarsi
qualcosa di infestante, forse di diabolico. E ancora, si
pensi allo schiudersi appena accennato di bocche
consumate, nel cui soffocante sibilo è il contatto profondo
con l‘estrema squama di un silenzio figurato nelle viscide
sinuosità di un serpente di cui sia invisibile il capo. Un
infittirsi filamentoso di mani, dita, unghie che si strappano
senza posa da un corpo comune, lanciate nel buio come
1
D. Thomas, Poesie e racconti, a cura di A. Marianni, Einaudi,
Torino, 1996, p. 574-575.
18
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
gelide comete per cercare di afferrare, o anche solo
accarezzare, le ultime propaggini dell‘essere, ma al tempo
stesso metamorfosate in fiori, i cui petali sono lembi di
sudari sporchi, nere schegge di pianto, pagine lacere e
frammenti di ossa.
È così che al nisus imaginativus2 di Dylan Thomas non
è possibile porre argine, sovrapporre vagli di codici,
imporre disciplina interna. Per lui, evocare la cosa è
produrla in una assediante scintillazione di corpi informi,
figure dell‘irrappresentabile e friabili corone di echi
visionari, al cui immoto marasma di ramificazione semiorganiche è impossibile sottrarsi.
Out of a war of wits, when folly of wods
Was the world‘s to me, and syllables
Fell hard as whips on an old wound,
My brain came crying into the fresh light,
Called for confessor but there was none
To purge after the wit‘s fight,
And I was struck dumb by the sun.
Praise that my body be whole, I‘ve limbs,
Not stumps, after the hour of battle,
For the body‘s brittle and the skin‘s white.
Praise thet only th wits are hurt after the wit‘s fight.3
Siamo dinanzi ad una eruzione graduale di nessi
riposti, segreti, appena intravisti seppur tenaci o pressoché
infrangibili per quanto inaspettati: non assicurati da alcun
vincolo di somiglianza o manifesta inerenza reciproca, essi
rispondono unicamente alle leggi ferree ed aberranti di
una ghirlanda analogica perspicua solo alla voyance del
2
Con questa formula ci riferiamo qui a G. Steiner, Grammatiche della
creazione, Garzanti, Milano, 2003, soprattutto pp. 243-258.
3
D. Thomas, cit., p. 394. Uscendo da una guerra di acutezze,/ Quando
la follia delle parole/ Era per me quella del mondo, e le sillabe/ Si
abbattevano come staffili su una vecchia ferita,/ Il mio cervello entrò
urlando dentro la fresca luce,/ Chiamai un confessore ma non c’era/
Che mi assolvesse dopo quella lotta,/ E fui ammutito dal sole./ Sia
lode al cielo che il mio corpo è integro./ Ho membra, non moncherini,
dopo quella battaglia,/ Perché fragile è il corpo e bianca è la pelle;/
Lode al cielo che solo il senno è ferito/ Dopo una guerra d’arguzie.
19
Lichtung. Luci
poeta, che raccorda intreccia declina apparizioni di mondo
secondo le linee spiraliformi di una siris infinita.
Fermiamoci pertanto un attimo alla immagine della
spirale appena evocata: essa non va intesa qui come la
regolare figura geometrica, ma piuttosto come il corpo di
un aspide strettamente avvolto su se stesso, attraversato da
un fremere sottile e continuo; tale aspide-spirale, al nostro
minimo segno di avvicinamento prende a muoversi, scatta
verso di noi, per rinserrarsi poi subito diventando un
blocco compatto, un nero segno di minaccia e terrore
posato accanto alle nostre mani, abbandonato davanti ai
nostri passi, remoto e incombente. Ma sia che si svolga, sia
che si rinserri, tale spirale va pensata anche come un
rutilante interfoliarsi di fuochi immaginifici, nelle cui
congestionate espressioni il reale è trasfigurato nelle
risonanze emesse da una dolorante conchiglia verbale, nel
cui incavo madreperlaceo l‘odore stesso della salsedine da
cui proviene colpisce il lettore con una sgargiante raffica di
immagini: cupole e aironi, schiume ed albe, lingue in
sfacelo e rintocchi di Angelus, nel cui sfocato allinearsi
esso si fa crampo intrappolato dall‘immortale grido della
rugiada:
Night in the sockets round,
Like some pitch moon, the limit of the globes;
Day lights the bone;
Where no cold is, the skinning gales unpin
The winter‘s robes;
The film of spring is hanging from the lids.
Light breaks on secret lots,
On tips of thought where thoughts smell in the rain;
When logics die,
The secret of the soil grows through the eye,
And blood jumps in the sun;
Above the waste allotments the dawn halts.4
4
Ivi, pp. 26-28. La luce nelle orbite contorna,/ Luna di pece, il limite
dei globi;/ Il giorno illumina l’osso;/ Dove non fa mai freddo, la
raffica che spella/ Slaccia le vesti dell’inverno;/ La membrana
primaverile dalle palpebre pende.// La luce appare su segreti
appezzamenti,/ Sugli scarti del pensiero dove i pensieri esalano alla
20
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
Il linguaggio di Dylan Thomas si fa carico di una
inventività disperante e dilaniata, indomita, corposa e
precipite, forgiata in un dinamismo plastico pari forse solo
ad alcuni componimenti dell‘ultimo Rimbaud. In lui
l‘abnorme e l‘irrelato scandiscono diffusamente il
plasmarsi multiplo di astrali architetture visionarie, nelle
cui contratte calamitazioni a distanza viene ad essere
trascritto un cifrarsi nebuloso di segni ed oggetti trasvalutati
nei loro portati di senso.
Si prenda ad esempio la dimensione equorea, così
ricorrente nella prima produzione del grande poeta
gallese: essa ritorna sempre contrassegnata dalla icasticità
della forza primordiale; essa chiama in causa e coordina
per effrazioni reciproche tutte le contraddittorie
sfaccettature che a quella appartengono, ma che raramente
vengono esplicitate e ―attivate‖ contestualmente. Lo
scenario marino è sempre un paesaggio di palpitazioni
primigenie ― spesso molto affine alla spiaggia che
attraversa e contempla Stephen Dedalus nel capitolo
dell‘Ulysses ispirato a Proteo5 ― in cui l‘uomo non è
ancora pienamente presente, ma solo alluso adombrato, e
forse escluso, da un gioco di possibilità organiche che
scorrono ardenti nelle vene della terra:
I dreamed my genesis in sweet of sleep, breaking
Through the rotating shell, strong
As motor muscle on the drill, driving
Through vision and the girdered nerve.
From limbs that had the measure of the worm, shuffled
Off from the creasing flesh, filed
Through all the irons in the grass, metal
of suns in the man melting night
[…]
I dreamed my genesis and died again, shrapnel
pioggia;/ Quando le logiche muoiono,/ Il segreto del suolo cresce
attraverso l’occhio/ E il sangue balza nel sole;/ Sopra i terreni esausti
l’alba arresta il suo corso.
5
J. Joyce, Ulisse, ed. it. a cura di G. De Angelis, Mondadori, Milano
1999, pp. 38-53.
21
Lichtung. Luci
Rammed in the marcing heart, hole
In the stitched wound and clotted wind, muzzled
Death on the mouth that ate the gas.
Sharp in my second death I marked the hills, harvest
Of hemlock and the blades, rust
My blood upon the tempered dead, forcing
My second struggling from the grass.6
Una circolazione febbrile e sottile di schegge e detriti
― pastose recrudescenze dell‘informe ― si mette in
moto, invadendo lo spazio della visione dalla fissità della
luna alle ben irrorate membra di alberi e piante; ma in
questa circolazione v‘è sempre qualcosa che
improvvisamente blocca, paralizza e arresta il corso delle
cose, le trasforma oscuramente in sembianti d‘altro, le
allontana dal loro lucus generativo, elevandole su di un
piano di significazione che ostruisce e impossibilita la
scorrevolezza della vita naturale. Il pensiero e la parola
dell‘uomo dilagano con la foga corrosiva di una
contaminazione inarrestabile. Ed è proprio in questo
momento che nasce la poesia di Dylan Thomas: in essa
tutto ciò che tenderebbe a cristallizzarsi in simbolo o
testimonianza del passaggio deformante dell‘uomo, viene
delicatamente degradato a mera effervescenza simulacrale,
deposito segnico stremato ed esautorato d‘ogni rimando
semantico, e quindi riassorbito un in intrico immemoriale
di immagini pure assolute, le quali non smettono di
inoltrarsi nella cavernosa sonnolenza di ciò che è anteriore
all‘umano: midolla schiumanti soffiate sul sole, squame di
testuggini diventate linfe che percorrono arterie di cristalli,
6
D. Thomas, cit., p. 30. Sognai la mia genesi nel sudore del sonno,
rompendo/ Il guscio rotante, potente come il muscolo/ D’un motore
sul trapano, inoltrandomi/ nella visione e nel nervo travato.// Da
membra fatte a misura del verme, sbarazzato/ Dalla carne grinzosa,
limato/ Da tutti i ferri dell’erba, metallo/ Di soli nella notte che gli
uomini fonde [...].// Sognai la mia genesi e di nuovo morii, shrapnel/
Conficcato nel cuore in marcia, strappo/ Nella ferita ricucita e vento
coagulato, morte/ Con museruola sulla bocca che ingoiò gas.//
Scaltrito nella mia seconda morte contrassegnai le alture,/ Messe di
lame e di cicuta, ruggine/ Il mio sangue sui morti temprati, forzando/
La mia seconda lotta per strapparmi dall’erba.
22
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
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teschi covati dal mare e naufragi di tendini invischiati nelle
cortecce dei giunchi. È così che la poesia diventa liturgia
dell‘alogico, chiamata a celebrare il cerchio bollente dei
tempi in gestazione; e solo in tal senso è possibile parlare
con cognizione di causa di imagery, intendendo
quell‘ancestrale afflato panico che, con nozione desunta da
note pagine kantiane7 [7], potremmo definire anche
Einbildungskraft, a designare quella intensa forma di
eidetismo8 [8] che si nutre di immagini dialettiche calate in
un processo di ecolalia differita del visibile. L‘immagine è
satura di una endogena tensione sussultoria; da essa uno
screziato mulinare di frantumi irradia proiezioni di mondi
destinati ad essere sopraffatti dal verminoso intrudersi
dell‘eternità nelle fibre tenui e cedevoli del tempo, vissuto
qui come una ferita sacra da cui il passato stilli con la
tremante pace di una nuvola. Anche per il gran gallese
possono valere senza dubbio pertanto le splendide e
penetranti analisi che Bonnefoy dedica alla poesia di
Pierre-Albert Jourdan:
les mots, les quelques mots de la poésie [di Dylan
Thomas] sont bien tournés, la plupart, vers l‘au-delà
de leur capacité ordinaire – celle qui s‘en tient à l‘idée
qu‘il dirait grise, à, l‘image qui flambe faux à la sortie
du sommeil – et autant qu‘il le peut il cherche à
dégager sa parole, maintenue au plus près d‘une
perception purement sensible […]. Son attention
recherche la chose que sa notion n‘a pas encore
atténuée, la couleur ou l‘odeur qu‘aucun adjectif n‘a
compromises, l‘évidence qui le dissuade de continuer
de parler. D‘où un rayonnement, dans ses pages, qu‘il
semble qu‘on pourrait dire, sans chercher plus le
recommencement, le retour de la réalité naturelle en
son être propre, qu‘un emlpoi comme silencieux des
mots dégagerait d‘une brume, découvrant des
7
I. Kant, Critica della facoltà di giudizio, ed. it. a cura di A. Gargiulo
e P. D’angelo, Laterza, Roma 2005, soprattutto la Nota prima riferita
alla soluzione dell’antinomia del gusto, in cui si affronta il problema
dell’idea estetica come inexponible Vosrtellung, pp. 365-378.
8
G. Celati, Finzioni occidentali, Einaudi, Torino 1975, p. 199.
23
Lichtung. Luci
correspondences que nos langues savaient peut-être,
mais que le concept a perdu.
9
La poesia di Dylan Thomas nasce da un folle rogo di
visioni venute a librarsi davanti all‘inquieta voyance del
poeta attraverso una ottenebrante chiarità di nomi rescissi
dalla inerzia delle cose. La parola non designa, non
nomina, non significa: il linguaggio quindi non viene
trasceso verso la decantazione pura di un metalinguaggio
perfetto e trasparente a se stesso, ma s‘abbassa verso una
sfera transverbale in cui il significante è come portato ad
annichilirsi, mettendo il concetto a diretto contatto con la
bruciante superficie delle cose. La poesia sorge come il
portato alchemico di questa combustione dell‘immateriale
nella corteccia fibrillante del sensibile, divenuto lingua in
grado di proferire se stesso: esemplare in tal senso è una
delle liriche più note del gran gallese Especially when the
october wind, nel corso della quale una turbinosa trama
isotopica di termini afferenti alla dimensione
propriamente linguistica si innesta su una serie di presenze
naturali che sembrano voler ―alienare‖ la parola umana,
sradicandola dalla sua essenziale ma anche frustrante
appartenenza alla sfera di matrici semantiche codificate ed
ossificate (syllabic blood, tower of the words, wordy
shapes, the spider-tongued, the dark-vowelled birds10):
Especially when the october wind
With frosty fingers punishes my hair,
Caught by the crabbing sun I walk on fire
And cast a shadow crab upon the land,
By the sea‘s side, hearing the noise of birds,
Hearing the raven cough in winter sticks,
My busy heart who shudders as she talks
Sheds the syllabic blood and drains her words
9
Y. Bonnefoy, La Vérité de parole, Gallimard, Paris 1988, p. 312. In
effetti tutto il saggio può benissimo essere letto come una riflessione
perfettamente aderente alla poetica di Dylan Thomas, a cominciare dal
titolo che evoca in un allineamento significativamente paratattico e
asindetico i quattro dati portantia attorno a cui orbita tutta la sua lirica:
les mots, les noms, la nature, la terre, cfr. pp. 311-323.
10
D. Thomas, cit., pp 22-24.
24
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
Shut, too, in a tower of words, I mark
On the horizon walking like the trees
The wordy shapes of women, and the rows
Of the stat-gestured children in the park.
Some let me make you of the vowelled beeches,
Some of the oaken voices, from the roots
Of many a thorny shire tell you notes,
Some let me make you of the water‘s speeches.11
La parola plurale della lirica attraversa e sonda questa
finitudine, trascrivendone le riposte potenzialità
semantiche in una ardita intelaiatura di armoniche mentali,
nel cui concentrico ripercuotersi a latitudini infinite un
trascolorante mosaico di folgorazioni colpisce la sensibilità
stessa del poeta adulterandola nel luogo di una stordita
turbolenza disseminativa dalla quale il segno e la cosa
riemergono sempre coi segni reciprocamente scambiati.
Da qui spire psichiche si distendono a forgiare nuovi
paesaggi di simboli. Il vettore analogico adesso però non è
diretto dal principio delle affinità formali tra gli elementi
messi in gioco; piuttosto esso procede per contrasti e
conflitti figurali, accoppiamenti di immagini remotissime
declinate attraverso una allegorizzazione perpetuamente
riverberata lungo direttrici di significanza aperte alle più
controverse traversie dell‘immaginario. È quindi un
crudele sortilegio scompositivo quello che regge tutta la
poetica del gran gallese. Se infatti il cosiddetto objective
correlative di Eliot ha il compito precipuo di stabilire una
linea di derivazione condizionante tra due dati solo
apparentemente irrelati ― noto è l‘esempio dell‘acqua e
della terra per il cavolo, e dello stesso cavolo per le
emozioni che esso inevitabilmente suscita, così che «the
11
Ivi, p. 23. Specialmente se il vento d’ottobre/ Con dita gelate
punisce i miei capelli,/Artigliato dal sole cammino sulle fiamme/E
getto un granchio d’ombra sulla terra,/ In riva al mare, udendo il
chiasso degli uccelli/ Il cuore indaffarato che trema se lei parla/
Sparge sangue sillabico, drena le sue parole.// Rinchiuso in una torre
di parole,/ Traccio sull’orizzonte che cammina con gli alberi/ Verbali
forme di donne e le file/ Dei bimbi nel parco che hanno gesti di stella./
Fatemi farvene alcune con vocali di faggi,/ Alcune con voci di
quercia, dirvi note/ Dalle radici di molte spinose contee./ Fatemi
farvene alcune con discorsi dell’acqua.
25
Lichtung. Luci
only way of expressing emotion in the form of art is by
finding an ―objective correlative‖; in other words, a set of
objects, a situation, a chain of events which shall be the
formula of that particular emotion»12 ― in Dylan Thomas
avviene qualcosa di assolutamente diverso: i campi
associativi vengono schiacciati senza preavviso e senza
mediazione l‘uno sull‘altro, in una coincidenza forzosa e
implosiva, mediante la quale si trova ad essere espulso
dalla poesia di Thomas tutto il pulviscolo emozionale che
in Eliot garantiva la continuità tra le due figure nonché la
legittimità del nesso, attivando invece una sorta di
vertiginosa relazione circolare tra le immagini così che la
commistione di umano e animale, di equoreo e celeste, di
terragno ed aereo crea una dimensione fluida di
trasmutazioni continue e inesorabili:
Fishermen of mermen
Creep and harp on the tide, sinking their charmed, bent
pin
With bridebait of gold bread, I with a living skein,
Tongue and ear in the thread, angle the temple-bound
Curl-locked and animal cavepools of spells and bone,
Trace out a tentacle,
Nailed with an open eye, in the bowl of wounds and weed
To clasp my fury on ground
And clap its great bllod down;
Never shall beast be born to atlas the few seas
Or poise the day on a horn.13
La parola poetica deve per forza di cose deragliare
verso forme allotrope di sensibilità, le percezioni
12
Th. S. Eliot, The sacred wood, essays on poetry and criticism,
Barnes & Noble, NY, 1966, p. 34.
13
D. Thomas, cit., pp. 100-102, I pescatori di tritoni strisciano e
arpeggiano/ Sulla marea, tuffando il loro magico spillo ricurvo/
Innescato con aurea mollica; io con una viva matassa,/ Lingua e
orecchio nel filo, pesco nel pozzo/ Dell’animale caverna d’incantesimi
e d’osso fasciata/ Chiusa da riccioli e tempie,/ Scopro un tentacolo,
afferrato/ Con l’occhio aperto, nella scodella di piaghe ed erbacce/ Per
stringere al suolo la mia furia/ E abbattere il suo nobile sangue./ Mai
bestia nascerà a segnar nell’atlante i pochi mari/ O a soppesare il
giorno sopra un corno.
26
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
adulterarsi come se le terminazioni nervose dell‘uomo
fossero state innestate su di un reticolo cerebrale in cui
vengono a inscriversi la vibratilità infinitesima della
medusa, le oscillazioni di petali e stami, la fredda
desertificazione dei mari lunari, le lente danze dei polpi.
Dell‘objective correlative di Eliot rimane solo la
correlazione immensa, illimitata, puntiforme ed amorfa di
tutto con tutto, in una sorta di panpsichismo che trasforma
il respiro umano in una pioggia scintillante d‘ali involate
verso l‘indaco del cielo racchiuso nella capsula lucente di
un ranuncolo. Dylan Thomas mette in atto una sofisticata
rabdomanzia figurale che arriva a liquefare la presenza del
reale in una soffusa geminazione di immagini poste
sempre in corrispondenza sulla base della loro costitutiva
antinomicità, ma proprio per questo sottilmente attrattive
l‘una dell‘altra: in questa ricca fluttuazione di segni
riportati sempre al loro statuto di raffigurazioni concrete il
linguaggio pulsa in lunghi squarci d‘apparizioni sconnesse
vorticanti attorno all‘impreciso affiorare di poli analogici
che attraversano tutta la lunghezza dei componimenti. Un
sobbollimento impervio ma tenace si placa allora in un
assestamento carico di conflittuali dinamiche interne,
supremamente trattenute però dalle ferree soluzioni
ritmico-prosodiche trovate dal gran gallese.
Si vedano ad esempio le liriche a rombo, scritte cioè in
modo che dal vertice superiore al centro della figura un
elemento grammaticale occupi sempre il verso secondo la
lunghezza crescente dello spazio disponibile ― da una
sola parola ad una intera frase ― così che il punto
mediano della losanga diventa simultaneamente la zona di
rovesciamento speculare di tutta la lirica, la quale, se nella
disposizione dei versi inizia a decrescere, nel discorso
lirico prende ad avviarsi verso una chiusa folgorante e
perentoria, come accade in modo magistrale in The/ Born
sea14. Si tratta di uno schema che trova il proprio
contrappunto nei componimenti a clessidra, ove,
capovolgendo lo schema dei precedenti ― nei Collected
poems del ‘52 questi seguono immediatamente quelli a
rombo ― sono il primo e l‘ultimo verso ad occupare la
14
Ivi, p. 194.
27
Lichtung. Luci
massima estensione, mentre il centro si contrae in un
unica parola attorno alla quale far ruotare lo sviluppo di
tutta la lirica, come avviene in That he let the dead lie
though they moan15, in cui Rock (Roccia) costituisce il
momento di transizione dalla prima metà della lirica ―
dedicata alla descrizione della condizione dei morti evocati
nel primo verso ― alla seconda, in cui si accavallano
immagini di movimento e caduta, in parte a contestare, in
parte a rafforzare quelle immediatamente precedenti,
quasi a voler comprimere nelle sorvegliate e contrattili
architetture del verso la misura aurea della divina
sproporzione tra la cosa e il segno, l‘idea e il linguaggio, il
concetto e l‘immagine.
I segni verbali qui diventano emblemi condotti
perversamente al loro stato più intenso di crisi, diffrazione
e dissolvimento, fino ad assumere il ruolo di controfigure
della coscienza, dell‘io lirico che non unifica, non
accentra, non circonda le cose comprimendole nelle
fredde regioni del dicibile ma, simile alla vibrazione di un
oggetto dimenticato, si apre ad una eccentricità predicativa
il cui incontenibile éclat assorbe ogni stato
dell‘immaginario. Probabilmente nessuno ha delineato
con maggior acume critico di Piero Bigongiari ― in saggio
del ‘69 dedicato a Yves Bonnefoy ― questo metodo, che
porta l‘io a confondersi con un indifferenziato elementare,
da cui eruzioni di simboli in decomposizione si
susseguono col ritmo alterno di una distruzione creatrice:
[siamo di fronte a] una totale designificazione della
figura che in tale processo riduttivo dei segni verso il
significato attinge i suoi culmini metamorfici, cioè
appunto il processo induttivo del significato verso tutti
i significabili compresi in quel sistema segnico messo
in atto dalla finitudine dell‘immagine.
16
La finitudine dell‘immagine, esibita nelle disarticolanti
sinossi figurali di sistemi segnici ormai sprovvisti di uno
statuto linguistico dominante, non trascrive e non traduce
15
Ivi, p. 200.
P. Bigongiari, La poesia come funzione simbolica del linguaggio,
Rizzoli, Milano 1972, p. 287.
16
28
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
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più nulla; piuttoto essa diventa una ferita in seno alla quale
gli oggetti stessi si contraddicono e contraddicono la loro
irrecuperabile e altrimenti impronunciabile oggettività;
tramite essa fisionomie al tempo stesso astrali e telluriche
fiottano nei precordi stessi della materia, fattasi turbinoso
specchio nel cui diffuso punto cieco è possibile cogliere il
puro tremore di immagini che diventano visione:
I, in my intricate image, stride on two levels,
Forged in man‘s minerals, the brassy orator
Laying my ghost in metal,
The scales of this twin world tread on the double
[...]
Image of images, my metal phantom
Forcing forth through the harebell,
My man of leaves and the bronze root, mortal, unmortal,
I, in my fusion of rose an male motion,
Create this twin miracle.17
17
D. Thomas, cit., p. 34. Io, nella mia immagine intricata, avanzo su
due piani,/ Forgiato con minerali d’uomo, oratore d’ottone,/ Depongo
il mio spettro nel metallo,/ Mi bilancio sui due piatti di questo mondo
gemino.[...]// Immagine di immagini, mio fantasma di metallo/ Che
urge attraverso il convolvolo,/ Mio uomo di foglie e di radice di
bronzo, mortale, immortale,/ Io, fusione di rosa e maschio impeto,/
Creo questo miracolo gemello.
29
Lichtung. Luci
Robbe-Grillet: come il congegno
disfatto di un orologio.
di Giuseppe Crivella
Con le seguenti parole si chiude Les gommes, seconda
prova romanzesca18 di Alain Robbe-Grillet e opera pilota
del cosiddetto Nouveau Roman, pubblicato nel 1953:
dans l‘eau trouble de l‘aquarium des ombres passent.
Le patron est immobile à son poste. Son buste massif
s‘appuie sur les deux bras tendus, largement écartées;
les mains s‘accrochent au rebord du comptoir; la tête
penche, presque menaçante, la bouche un peu tordue,
le regard vide. Autour de lui les spectres familers
dansent la valse, comme des phalènes qui se cognent
en ronde contre un abaj-jour, comme de la poussière
dans le soleil, comme les petits bateaux perdus sur la
mer, qui bercent au gré de la houle leur cargaison
fragile, les vieux tonneaux, les poissons morts, les
poulies et les cordages, les bouées, le pain rassis, les
couteaux et les hommes.
19
Sono parole che puntano a comporre l‘immagine di
una decantazione lenta, quasi un sonnambolico deporsi
del reale nel torpido rollio di riflessi i quali, nel loro flebile
sommuoversi, già finiscono col cancellare qualche aspetto
saliente di ciò che per un attimo vi era apparso, ignoto e
banale, privo di durata ma insistente, annegato nella fatua
18
Il suo primo romanzo fu pubblicato nel 1949 e si intitolava Un
régicide.
19
A. Robbe-Grillet, Les gommes, Ed. de Minuit, Paris 1953, p. 264.
Nell’acqua torbida dell’acquario passano delle ombre. Il proprietario è
immobile al suo posto. Il suo busto massiccio s’appoggia sulle due
braccia tese, molto divaricate; le mani s’aggrappano ai bordi del
bancone; la testa penzola, quasi minacciosa, la bocca un po’ contorta,
lo sguardo vacuo. Attorno a lui degli spettri familiari danzano il
valzer, come falene che sbattano in circolo contro un’abat-jour, come
polvere nel sole, come le piccole imbarcazioni perdute sul mare, che
cullano a seconda del moto ondoso il loro carico fragile, le loro
vecchie botti, i pesci morti, pulegge e cordami, le boe, il pane
raffermo, i coltelli e gli uomini. [Traduzione mia].
30
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
concretezza di superfici che, in seno alla loro spenta
desolazione, sembrano aver riassorbito ogni ipotesi di
profondità.
È anche però un‘immagine-matrice: da essa si liberano
gli scatti intrusivi e verticali di una visione che evacua il
pensiero, estromette dalla osservazione i tempi lunghi
della riflessione, distorce, disinnesca, dissocia e diffrange la
stabilità della contemplazione, appiattendola unicamente
sulla impaginazione ottica del mondo emendato non tanto
di ogni consistenza, ma piuttosto di una sua specifica
ponderabilità meditativo-cognitiva. Tra il reale e il
pensiero l‘occhio s‘insinua come un iperbolico tramite di
captazioni ellittiche stratificate negli strappi imponderabili
seppur palmari di un aporetico apparire; aporetico ed
impuro, contratto nelle traversie eversive di un visibile
bleso e attratto in una comatosa silloge di indeducibili ―
forse anche indecidibili ― nessi tra atti e intenzioni, effetti
e moventi, determinazioni e gesti che sabotano la
macchinosa chirurgia ricostruttiva del pensiero rendendola
piuttosto un disegno ― freudianamente, quasi un‘analisi
― interminabile e lacunosa, una ricerca, oramai
cancerogena, del centro connettivo di tutto fattosi però a
questo punto strangolato sguardo incuneato nel negarsi
perentorio delle cose per eccesso di presenza.
Ma che cos‘è la presenza qui? Presuntiva, gommée,
cedevole, essa è un volto di cera che s‘eclissa al solo
sfiorarlo, poroso specchio nel quale gli spezzati spessori
della scrittura calano per uscirne definitivamente devastati
dalla solida elusività di uno spettrale limbo oltre il quale il
linguaggio stesso si fa corpo in poltiglia, mobile museo di
disfacimenti nella cui pulverulenta spoglia qualcosa di
perduto per sempre ancora sembra tendersi verso la
raffigurazione, in una nera ressa di segni isolanti che
corrugano l‘incrinato schermo dello sguardo.
In Robbe-Grillet la narrazione instaura una
coincidenza infesta e infernale tra parola e cosa, superficie
e sguardo. Uno scambio convulso ma sottile, quasi
insensibile, tra oggetto e occhio è ciò che egli persegue; in
tal modo noi vediamo il soggetto ritrarsi in una muta pausa
di registrazione, durante la quale il mondo si deposita
dinanzi ad esso come la desolata totalità di una inerzia
31
Lichtung. Luci
materiale prima e mentale poi, destinata a crollare
costantemente sotto il peso catastale della propria contratta
superfluità, anonima e oggettiva, ostinata e silenziosa,
minerale ed immota. Eppure, all‘interno di tale Théâtre
de Métamorphoses ― per citare almeno un altro grande
protagonista del Nouveau Roman, Jean Ricardou ―, ad
essere labirintico non è il reale, ma il soggetto, così che in
Robbe-Grillet il passo disorientato e le endogene forze di
smarrimento custodite nelle cose arrivano sinistramente a
combaciare, deflagrando nello straziato attrarsi e
sovrapporsi, per analogie degeneri, in spaccati narrativi
che ogni volta da capo riprendono le situazioni ritratte
alterandone dall‘interno i tratti di riconoscibilità.
Si prenda ad esempio Wallas, ectoplasmico
protagonista di Les gommes: non solo la sua indagine, ma
la sua stessa identità, fin dall‘inizio, ovvero dal primo
incontro con l‘insidioso e ambiguo Laurent, si tramuta in
un capogiro vanamente interrogante, in una ricerca cieca
che riesce a guadagnare solo progressivi e corrosivi
margini di oscurità, in un accerchiamento ottenebrante di
coordinate sempre riferibili a più ordini di lettura i quali,
incardinandosi l‘uno all‘altro secondo un asse verticale che
li mette tutti in rotazione continua, facendoli ora collimare
ora collidere, scardina la loro coerenza orizzontale,
sintattica. In tal modo nei romanzi di Robbe-Grillet non
siamo mai messi di fronte allo svolgersi ― o, al massimo,
all‘involversi ― di una linea diegetica, ma piuttosto a ciò
che con Raymond Bellour potremmo chiamare arbre
narratif20, ad intendere cioè una narrazione incessante e
blandamente regolata da protocolli interni di sviluppo dei
filamenti diegetici i quali, pur propagandosi da un unico
tronco di eventi, finiscono con lo sfibrarlo, rendendo tale
nucleo iniziale una sorta di origine parentetica
ampiamente sostituibile e rivedibile, se non proprio
decisamente removibile, in quanto soggetta a distrofie
cronologiche talmente fitte e ricorrenti da tramutare
l‘ormai logoro istituto della narrazione in una formidabile
variazione sul nulla.
20
R. Bellour, Entre-images 2: mots, images, POL, Paris 1999, p. 228.
32
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
Il romanzo à la Robbe-Grillet è allora un coacervo di
eventi atopici: in esso ciò che viene a mancare da subito è
la stabilità di un piano di esposizione su cui disporre più o
meno ordinatamente la catena dei fatti, i gesti delle figure,
i nomi delle cose, la successione degli episodi, la relazione
tra i luoghi. Ma perché ciò accade? Perché Robbe-Grillet
affronta la materia romanzesca scorciandola secondo ciò
che potremmo definire precisi e drastici ―tagli tropologici‖:
in sostanza egli tratta paesaggi e ambienti, tempi e
situazioni come fossero simboli instabili, matrici fluide
d‘una significazione aperta, polimorfa, capricciosa,
proiezioni e irradiazioni multipolari di un dato
brutalmente mondano, finito, terreno e, proprio per
questo, privo di una definibilità acclarata.
Non siamo di fronte a tracce o indizi, ma piuttosto
dinanzi a figurae di un‘absentia assolutamente irriducibile
nel suo trasparente esondare oltre ciò che la designa come
tale, seppur, al tempo stesso, chirurgicamente inquadrata
dalle estenuate pause descrittive, nel cuore delle quali essa
si colloca ora come uno sfondo slittante, ora come una
reticolare linea di fuga la quale, pur inanellando lungo il
suo sviluppo tutti i vari episodi secondo la coordinata della
similarità, invece di condurre fuori dalla rappresentazione
piomba senza preavviso in un punto interno a questa,
celato in un‘intercapedine dell‘evidenza che, nel momento
stesso in cui si mostra, occlude allo sguardo tutta una
porzione del visibile ritratto facendo sì che questo esploda
in scalene incrinature ottiche ove visione e abbaglio
finiscono con l‘intrudersi l‘una nell‘altro.
Ma nello specifico che cosa dobbiamo intendere con
l‘espressione figurae dell‘absentia. Absentia di cosa? La
domanda, appena posta, incontra subito un ostacolo:
l‘absentia qui è un valore assoluto e irriducibile, non
rimanda a nulla perché essa è tutto: la vacatio, per sommo
paradosso, occupa ogni spazio, intride e satura di sé tutti
gli angoli del reale. La figura è tropologicamente reattiva
non perché nel suo complesso gioco di rimandi debba
esprimere l‘assenza di qualcosa di specifico, ma perché nel
suo costante eludere i raccordi che potrebbero bloccarla,
essa deve mimare il luogo e l‘atto stesso di una assenza in
33
Lichtung. Luci
sé, ovvero di una absentia in re e non di una semplice
absentia rerum.
Attraverso l‘astratto intarsio di frantumi e muchi emessi
da un reale indocile e mendace in cumuli contrattili di
percezione e memoria zampillanti freneticamente
apparenze affette da qualche indefinibile distorsione, nel
romanzo di Robbe-Grillet ricordo e dissolvenza stringono
una malata complicità che porta all‘azzeramento reciso e
irreversibile di ogni coefficiente psichico all‘interno del
(dis)farsi narrativo.
Potremmo allora dire che gli husserliani atti di coscienza,
ovvero tutto il fascio di ingenti e strutturanti irradiazioni
intenzionali, qui brillano appena sull‘annodato torpore
delle cose come una soffocata opalescenza, quasi una sorta
di estrema e vacua accensione del reale venuto a
illuminarsi soltanto per una impersonale autoscopia, in
forza della quale il vitreo occhio di nessuno improvviso
spalanca il proprio ottuso lucore di sguardo dal cuore
stesso dell‘inerte, tramando, torpido e tenace, una
intricatissima ragnatela di osservazioni tutte poste rasoterra
allo spaesato oggettivarsi di un mondo tramontato in una
demente invadenza di immagini slegate.
Ecco allora un‘altra delle caratteristiche salienti della
poetica di Robbe-Grillet: nelle sue opere, romanzesche e
cinematografiche, le immagini sono visceralmente
percorse da un continuo tremito vegetale che le porta
oscuramente ad accavallarsi, ad incrociarsi e sovrapporsi,
ma anche a scoppiare le une nelle altre, come per una
travagliata germinazione scissipara che assesta non pochi
contraccolpi alla centralità testimoniale del narratore. E
dunque, se per molta narrativa la domanda portante è ―chi
vede i fatti riportati?‖, qui la questione si fa più radicale
diventando: ―che cosa vede chi sta guardando (e
narrando)?‖. Lo spostamento del problema permette cosí
di annichilire risolutamente la persona loquens.
Proprio per questa serie di motivi Wallas fattualmente
per tutto lo svolgimento della vicenda non agisce mai. Egli,
sfocatissimo portavoce del narratore, viene utilizzato
unicamente come un mobilissimo e discontinuo
catalizzatore di eventi intorno al quale creare un campo di
attrazione ove far convergere fattori, elementi e linee di
34
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
forza, il censimento dei quali tuttavia non consente in
alcun modo di portare alla luce l‘architettura effettiva della
trama: ecco allora che fin dalle prime battute il corpo
dell‘assassinato misteriosamente scompare per non
riapparire più, i suoi cognomi raddoppiano
simmetricamente al raddoppiarsi delle pistole che
avrebbero potuto sparargli ― una della quali appartiene
addirittura a Wallas ―, si moltiplicano i moventi validi
dell‘omicidio cosí come aumentano sempre di più le
persone vagamente informate su di esso, in una farsesca e
caotica farandola di congetture le quali, sempre più
numerose ― e proprio per questo reciprocamente
escludentisi ―, finiscono con l‘offuscare, negare,
cancellare completamente l‘intermittente realtà del fatto:
Wallas ne sait plus d‘où lui revient cette image. Il
parle – tantôt au milieu de la place – tantôt sur des
marches, de très longues marches – à des personnage
qu‘il n‘arrive pas à séparer les uns des autres, mais qui
étaient à l‘origine nettement caractérisés et distincts.
Lui-même a un rôle précis, probablement de premier
plan, officiel peut-être. Le souvenir devient
brusquement très aigu; pendant une fraction de
seconde, toute la scène prend une densité
extraordinaire. Mais quelle scène?
21
Romanzo tumultuosamente incoativo Les gommes,
romanzo che piétine sur place, a fronte dei molteplici
spostamenti di Wallas, strutturato attorno ad uno sfigurato
mimetismo descrittivo: l‘oggetto riprodotto dalla scrittura è
a sua volta già incassato all‘interno di una narrazione e
dunque viene ad essere il portato di una immagine
seconda. Il romanzo nasce elevando il proprio realismo
alla seconda; la narrazione si svolge ― ma sarebbe più
21
Les gommes, p. 238. Wallas non sa più da dove gli provenga questa
immagine. Egli parla – ora al centro della piazza, ora su degli scalini,
scalini molto larghi – a personaggi che non riesce a separare gli uni
dagli altri, ma che erano in origine nettamente caratterizzati e distinti.
Egli stesso ha un ruolo preciso, probabilmente di primo piano,
ufficiale forse. Il ricordo diventa bruscamente molto acuto; in una
frazione di secondo tutta la scena raggiunge una densità straordinaria.
Ma quale scena? [Traduzione mia].
35
Lichtung. Luci
corretto dire si avvolge ― lungo nuclei di eventi che a loro
volta risultano ripresi da frammenti di un récit il quale
sembra aver già preso risolutamente le distanze dal reale.
Si tratta dunque di un realismo inguainato nel circolare
isolamento di un linguaggio senza contatto con ciò che
designa, separato da questo attraverso un fragilissimo gioco
di maschere, o meglio, attraverso un‘ossessione inesorabile
di travestimenti ed equivoci, sdoppiamenti e discronie che
disordinano l‘opera, lasciando che in essa si aprano,
all‘altezza dei punti di sutura tra gli avvenimenti, i sottili
lampeggiamenti di una lacuna la quale associa per
effrazione e divarica così la parola dalla cosa.
Il linguaggio in Robbe-Grillet contorna la zona di
emersione da cui l‘oggetto stenta ad apparire; al suo posto
sopravviene una profusione slegata di immagini nella cui
delicata e ardente irruzione è contenuta una riserva
verticale di sensi tanto più rigorosamente irreggimentati
nella linea narrativa, quanto più refrattari a situarsi in essa
al fine di darle una fisionomia coerente. Ritorni e
ripetizioni si fanno eco circondando un linguaggio che
racconta la propria distruzione perseguita mediante il suo
compattarsi in una dura corteccia di vicende che
avviluppano e strangolano la cedevole polpa del reale. E
tuttavia
cet univers brut est plus complexe qu‘on ne pense.
Tout élémentaire qu‘elle soit, l‘intervention du voyeur
transforme le monde solide des choses en un monde
évanéscent de la pensée. Travail disproportionné de
l‘esprit affronté à des difficultés imaginaires, ou tout au
contraire impuissant à concevoir une réalité qui
dépasse ses facultés d‘absorption. Surplaces de la
pensée ressassante. Éclairs d‘idées aussitôt disparues
et dont la trace elle-même s‘efface bientôt. Pour les
héros de Robbe-Grillet […], d‘une façon
particulièrement fruste, le spectacle est souvent à
l‘intérieur sans que l‘intéressé prenne garde ni que
l‘auteur nous previenne de cette brusque prééminence
des images inconsistentes du passé (ou de
36
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
l‘imagination) sur celles tangibles du présent (ou de la
réalité).
22
Esiste quindi nei romanzi di Robbe-Grillet uno
strabismo ingenito della parola: questa infatti scatena uno
sdoppiamento in cui essa stessi viene a perdersi, naufraga,
o piuttosto vi si riassorbe in una nascita ininterrotta di
segni, splendenti e nascosti, visibili o occulti23, a partire dai
quali ogni scena diventa insensibilmente il decrepito teatro
di una azione che nel proprio farsi crea i presupposti
materiali dell‘evento passato da cui essa discende. Si
prenda ancora una volta Les gommes: qui tutto è retto
dall‘aspra certezza ― propria di Wallas ma, alla fine del
romanzo, anche nostra ― che ogni fatto sia irreversibile e
reiterabile; la morte di X è avvenuta senza dubbio, ma
nonostante ciò essa continua ad accadere, a ripetersi di
quadro in quadro, tramite però il ricorso a configurazioni
di elementi e concause che variano chiamando in causa un
poligono aperto di personaggi dalle identità ironicamente
ridondanti. Se proviamo a guardare il centro di questo
romanzo non troviamo altro che un‘immagine
perfettamente sfocata, una sorta di schermo forato, uno
specchio inspiegabilmente cieco su cui sia stato steso uno
strato di vernice bianca. È stata senza dubbio Yvonne
22
C. Mauriac, l’alittérature contemporaine, Albin Michel, Paris 1969,
p. 281. In ogni caso l’intero saggio offre molti spunti di notevolissima
pregnanza critica, tra cui il parallelismo tra i romanzi e i primi film di
Robbe-Grillet: cfr. pp. 274-292. Questo universo informe è più
complesso di quanto non lo si creda. Per quanto possa essere
elementare, l’intervento del voyeur trasforma il mondo solido delle
cose in un mondo evanescente del pensiero. Lavoro sproporzionato
dello spirito messo di fronte a delle difficoltà immaginarie o, tutto al
contrario, impotente nel concepire una realtà che oltrepassi le sue
facoltà d’assorbimento. Surplace del pensiero rimuginante. Lampi di
idee presto scomparse e la cui traccia stessa si cancella
immediatamente. Per gli eroi di Robbe-Grillet […], in un modo
alquanto frusto, lo spettacolo è spesso all’interno senza che
l’interessato se ne accorga, né che l’autore ci informi di questa brusca
preminenza delle immagini inconsistenti del passato (o
dell’immaginazione) su quelle tangibili del presente (o della realtà).
[Traduzione mia].
23
Cfr. anche B. Morrissette, “Surfaces et structures dans les romans
de Robbe-Grillet”, in The French Rewiew, vol 31, N. 5 (April 1958),
pp. 364-369.
37
Lichtung. Luci
Guers la prima a cogliere questo aspetto saliente della
narrativa di Robbe-Grillet:
l‘exactitude descriptive de l‘auteur ne serait-elle que
fausse clarté? Or ces choses compactes, solides,
précisément décrites, en établissant un contraste
frappant avec une signification fuyante, créent
justement l‘atmosphère kafkaesque et ambiguë qu‘une
telle technique voudrait transmettre. Dans Les
Gommes le héros-détective voit dans une vitrine un
mannequin représentant un peintre devant un tableau.
Un paysage grec est peint sur la toile alors que a sous
les yeux un carrefour dans une ville du vingtième
siècle. Le contraste ainsi établi entre la réalité
ambiante et la réalité imaginaire a pour effet «une
réalité d‘autant plus frappante qu‘elle est la négation
du dessin censé la reproduire».
24
Il fatto che regge tutta la vicenda brilla d‘oscurità:
abbiamo il sospetto di due morti, ma un solo nome.
L‘intricata intelaiatura di passaggi e contatti tra questi dati
di partenza svia non solo Wallas, ma anche gli uomini di
Bona, tra cui l‘assassino, il quale, subito dopo il delitto, si
rende conto che potrebbe aver sparato all‘uomo sbagliato,
se non addirittura ad un cadavere. La realtà, ci dice
Robbe-Grillet, è ineluttabile: c‘è stato un omicidio; tuttavia
essa è anche insidiosamente contorta: moventi e
spiegazioni arrivano in seconda battuta attorno alle cose e
le circondano come un corte flebile ma tenace. Wallas si
trova a cercare le cause di un fatto inspiegabile anche per
24
Y. Guers, “La technique romanesque chez Alain Robbe-Grillet”, in
The French Review, Vol. 35, N. 6 (May, 1962), p. 570. Fra virgolette
caporali la citazione di Robbe-Grillet tratta da Les gommes, p. 121.
L’esattezza descrittiva dell’attore non sarà allora un falsa chiarezza?
Ora, queste cose compatte, solide, precisamente descritte, nello
stabilire un contrasto manifesto con una significazione fuggevole,
creano giustamente l’atmosfera kafkiana e ambigua che una tale
tecnica vorrebbe trasmettere. In Les Gommes l’eroe-detective vede in
una vetrina un manichino che rappresenta un pittore davanti ad un
quadro. Un paesaggio greco è dipinto sulla tela mentre ha sotto gli
occhi un incrocio in una città del ventesimo secolo. Il contrasto così
creato tra la realtà circostante e la realtà immaginaria ha per effetto
«una realtà tanto più incisiva, dal momento che essa è la negazione del
disegno deputato a riprodurla». [Traduzione mia].
38
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
chi l‘ha provocato. Le sue indagini quindi cercano di
inquadrare in un disegno omogeneo brani di realtà che
solo accidentalmente si trovano interconnessi secondo una
linea di realizzazione unitaria.
Crescendo attorno al darsi in contumacia delle cose, il
linguaggio di Robbe-Grillet finisce col non trovare più un
punto che sia esterno ad esso, al suo spazio di
distribuzione e strutturazione. Ma non è soltanto un
processo di divaricazione crescente quello che si compie
tra la parola e la cosa: come già notato sopra, la seconda si
annulla, e nel suo annullarsi produce una nuova
dimensione di designazione vuota, in cui il linguaggio
irrompe producendo una sorta di controfigura verbale
della cosa. La biforcazione tra le due si rovescia in un
bifrontismo speculare della parola rispetto a se stessa.
Si prendano ancora una volta a titolo d‘esempio le
allucinate deambulazioni di Wallas, le quali sembrano
tutte orientate la reperimento di una traccia definitiva e
inconfutabile in grado di spiegare senza residui tutti gli altri
indizi inventariati. In realtà la sua ricostruzione non ha un
centro e non avendo un centro non riesce a stabilire livelli
e gradi di dipendenza tra gli elementi reperiti; il quadro
generale che egli appronta è sempre soggetto a continui
seppur minimali riassestamenti interni che finiscono con
lo smontarlo. L‘asciutto realismo di Robbe-Grillet è tale
perché da esso è stato espunta completamente l‘idea di un
soggetto coordinante; il disegno esplicativo che Wallas
schizza con grande fatica eredita la stessa fisionomia di
insanabile discontinuità dalla condizione di minuta
frammentazione e dispersione in cui versa il reale, in cui
egli si muove come galleggiandovi.
Osserviamo ancora una volta: è un solitario senza
volto, non ha psicologia, non emerge con tratti caratteriali
marcati. In egual modo egli non possiede elementi per
identificare né il responsabile dell‘omicidio né la vittima;
nello stessa maniera tutti coloro che ruotano attorno alla
sua figura continuano ad ignorarlo o comunque a non
riconoscerlo. Ciò comporta che la medesima sequenza
possa ripetersi sempre, pur esibendo di volta in volta
connotati variati. Osserva a tal proposito Alain-Michel
Boyer:
39
Lichtung. Luci
énigme du destin et de l‘identité de l‘homme, pion ou
jeton poussé au gré des joueurs, être aveugle dans un
univers indéchiffrable: le roman s‘achève sur une
question qui est peut-être absence de question dans les
yeux vides, le visage énigmatique et figé du patron du
café Sphynx, Sphynx éternelle, ici pur pouvoir
d‘interroger, sans nul souci de réponse. À l‘énigme
proprement policière, se substitue celle que pose
l‘existence même de l‘homme, en proie à l‘énigme du
monde. Interpréter, dèchiffrer ne suffit plus, il faut
exorciser les signes. Alors que le détective cherche à
élucider une énigme, le lecteur, en quête d‘un sens, ne
découvre qu‘un récit, qui se révèle peut-être ce sens et
cette énigme.
25
Robbe-Grillet sembra aver risolto il problema kafkiano
della durata indefinita della trama ricorrendo a una
soluzione
molto
diversa
ma
sostanzialmente
complementare a quella dello scrittore praghese. Anche in
Les gommes la vicenda si protrae interminabilmente, ma
non secondo le dinamiche di quel labirinto lineare
precisamente fratturato in segmenti sempre più brevi a cui
fa riferimento Deleuze ― citando Borges26 ―, optando
piuttosto qui per uno sviluppo sinistramente spiraliforme.
Nel suo avvitarsi attorno ad un punto cieco che non smette
di mutare aspetto, però la spirale si muove, scivola altrove
rispetto al suo luogo d‘origine, si deforma ed esplode
lasciando al suo posto uno sfibrato groviglio di punti
25
A.-M. Boyer, “L’énigme, l’enquête et la quête du récit: la fiction
plicière dans Les gommes et Le voyeur d’Alain Robbe-Grillet”, in
French Forum, Vol. 6, N. 1 (January 1981), p. 77. Sottolineatura
nostra. Enigma del destino e dell’identità dell’uomo, pedina o fiche
gettata secondo il gusto dei giocatori, essere cieco in un universo
indecifrabile: il romanzo si chiude su una domanda che è forse
assenza di domanda negli occhi vuoti, il viso enigmatico e fisso del
proprietario del caffè Sfinge, eterna Sfinge, qui puro potere
d’interrogare, senza alcuna preoccupazione di risposta. All’enigma
propriamente poliziesco subentra quello che pone l’esistenza stessa
dell’uomo, preda dell’enigma del mondo. Interpretare, decifrare non
bastano, bisogna esorcizzare i segni. Nel momento in cui il detective
cerca di chiarire un enigma, il lettore, alla ricerca di un senso, non
scopre che un racconto, che si rivela essere forse questo senso e
questo enigma. [Traduzione mia].
26
Cfr. G. Deleuze, Logique du sens, Ed. de Minuit, Paris 1976, p. 77.
40
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
irrelati, sfocati residui di un punto-zero contrattosi fino alla
sparizione.
Il romanzo assume globalmente la figura di uno spazio
densamente astratto non perché esso non abbia una
ossatura definita, ma piuttosto proprio perché in esso il
nitore con cui è delineata la struttura dedalicamente
ricorsiva e l‘icasticità alienante tramite la quale si profilano
personaggi, ambienti, situazioni, dialoghi, fanno in modo
che sempre nuovi elementi possano svincolarsi dal
complesso generando narrazioni accessorie, protocollari,
parallele. Non è la vaghezza dei dati a rendere la vicenda
sfumata, è la loro esasperata esattezza notazionale a
trasformare la trama in un disegno disarticolato di
attuazioni diegetiche equivalenti e coesistenti in un sistema
di integrazioni reciproche la quale rende la narrazione
satura di informazioni indecidibili.
Per Robbe-Grillet non sarà allora scorretto parlare di
ibrida ma pura fenomenalità delle cose: ibrida, perché in
lui tutto ciò che appare si situa in un punto di fusione tra la
realtà e l‘immaginazione, il sogno e il delirio. Frantumi di
un mondo oggettivo si intrudono nella grumosa pasta
informe di una visione sconfinante sempre in una massa
allucinogena multiforme. Pura, in quanto la fenomenalità
del suo mondo, proprio in forza della sua matrice di
molteplice ibridazione, non rimanda a nulla di diverso da
essa, a nulla di concreto al di là di ciò che si manifesta con
la dura ostinazione di un miraggio, il quale non svanisce
neppure dopo che se n‘è accertata la natura illusoria.
Forse solo in questo senso va interpretato lo scarto
lessicale di Yvonne Guers, la quale, allontanandosi da
Roland Barthes che aveva parlato di littérature objective27,
preferisce usare l‘aggettivo objectal28, ad indicare la perfetta
e paradossale fisionomia di un mondo narrativo che tanto
più si compone di oggetti che evacuano ogni componente
umana, quanto più tali oggetti si stagliano in un noeud
d‘agencements intentionnels che finiscono con il
riammettere quella componente, sebbene declinata
27
Cfr. il secondo saggio di Essais critiques dal titolo “Littérature
objective”, apparso per la prima volta su Critique nel 1954, ora in R.
Barthes, Oeuvres complètes II, Seuil, Paris 2005, p. 293-303.
28
Y. Guers, Op cit, p. 577.
41
Lichtung. Luci
secondo degli stati aberranti29. Inoltre, se è vero che
l‘esasperata clarté dei dati ripetutamente offerti fa ruotare
senza sosta la storia su se stessa, è anche vero che le
deliberate sovrapposizioni tra un l‘impianto extradiegetico
a focalizzazione interna (prospettiva di Wallas) e a
focalizzazione zero30 (narratore pseudo-onnisciente)
permettono di spiegare in pieno il reticolare
disarcionamento conoscitivo di cui siamo vittima. Ciò
accade perché questionnant et conjectural31 è il mondo
stesso per Robbe-Grillet, scandito da quell‘anaphorique
léger qui à la fois désigne et se tait32. È Roland Barthes a
servirsi di questa formula; poco oltre egli mette in luce il
dispositivo stilistico a doppio regime che innerva tutta la
scrittura di Robbe-Grillet: da una parte domina una
marcata inspiration chosiste33, la quale lascia campeggiare
al centro della sosta descrittiva la cosa attorniata da un
freddo alone di insignificanza; dall‘altra parte troviamo un
utilizzo spiazzante del visuel34, intendendo con ciò la
tendenza a lavorare unicamente per temps litotiques35,
mediante cui il mondo è condotto a squadernarsi dinanzi a
noi come un artefatto intrico geometrico, in seno al quale
il linguaggio si degrada in una compagine inerte di nomi e
nei cui complessi riverberi l‘appareil descriptif di RobbeGrillet si scopre mystificateur.
Più o meno negli stessi anni in cui Barthes sviluppava
queste tesi, Maurice Blanchot dedicava un suo scritto a Le
voyeur, poi raccolto nel 1959 in Le livre à venir col titolo
di La clarté romanesque. Si tratta di un testo forse troppo
trascurato dalla saggistica successiva, nel quale l‘autore
29
In questo senso il caso de La jalousie è più che emblematico.
Cfr. soprattutto G. Genette, Figure III, ed. it. a cura di L. Zecchi,
Einaudi, Torino, p. 237. In effetti Robbe-Grillet riesce a sconvolgere
puntualmente anche queste classificazioni. A volte nel romanzo
vengono riportate informazioni che Wallas non può conoscere, ma che
non servono a nulla per quanto riguarda una maggiore intelligenza
della vicenda.
31
I due termini sono di Roland Barthes, Op cit, p. 548. Il saggio si
intitola Le point sur Robbe-Grillet, uscito per la prima volta su
Préface nel 1962.
32
Ivi p. 549.
33
Ivi, p. 454.
34
Ivi, p. 296.
35
Ivi, p. 301.
30
42
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
individua due connotati salienti strettamente interconnessi:
l‘esistenza di un‘ immagine centrale e la presenza di uno
sguardo dalla felpata immobilità36.
Il primo connotato s‘offre secondo i procedimenti di
una descrizione ― come già visto poco più sopra ― senza
ombre, investita di una chiarezza illimitata seppur sempre
solo parziale, nel cui seno tutto finisce col farsi misteriosa
e compatta visibilità. Tuttavia, anche se l‘immagine
centrale sembra occupare perfettamente il punto di fuga
dello spazio narrativo e psichico dei romanzi, in realtà essa
ha qui il valore di un dato oscuro, da cui è possibile vedere
non tanto ciò che questa mostra, quanto piuttosto il fatto
che ciò che la sua surface rayonnante illumina non è altro
che la controparte d‘apparenza ingannevole di un mondo
al quale non è dato accesso. L‘immagine è centrale non
rispetto ad altre immagini o ad altre sequenze narrative,
ma unicamente rispetto ai diagrammi di ricostruzione e
dénouement che di volta in volta i personaggi mettono in
campo (e con loro il lettore). L‘immagine centrale
costituisce quel piano di raffigurazione grazie al quale la
scena può avere luogo. In realtà noi non vediamo mai
quella immagine, ma piuttosto osserviamo attraverso di
essa ciò che questa rivela a partire dal suo ineliminabile
remous avuegle:
la scène à laquelle nous n‘assistons pas, n‘est rien
d‘autre qu‘une image centrale qui se construit peu à
peu par une superposition subtile de détails, de
figures, de souvenirs, par la métamorphose et
l‘inflechissement insensible du dessin ou d‘un schème
autour duquel tout ce que voit le voyageur [Blanchot
sta parlando de Le voyeur] s‘organise et s‘anime.
37
36
M. Blanchot, Le livre à venir, Gallimard, Paris 1959, pp. 219-226.
Ivi, p. 221. La scena alla quale noi non assistiamo non è nient’altro
che una immagine centrale che si costruisce a poco a poco attraverso
una sovrapposizione sottile di dettagli, di figure, di ricordi, attraverso
la metamorfosi e l’attenuazione insensibile del disegno o di uno
schema attorno al quale tutto ciò che vede il viaggiatore s’organizza e
si anima. [Traduzione mia].
37
43
Lichtung. Luci
Ma suddetta immagine ― foyer vivant38 di uno spazio
irriducibilmente en abîme rispetto al suo volume di
strutturazione ― sarebbe mutila e inutile senza l‘altra
caratteristica, ovvero lo sguardo immobile. In RobbeGrillet questo sguardo veicola tutto il taglio della
narrazione, essendo preposto a ricevere e riprodurre le
vicende che gli si dipanano dinanzi. Tale riproduzione
però avviene in modo completamente arbitrario,
discontinuo, imponderabile. L‘occhio infatti sembra non
far altro che aprirsi e chiudersi di fronte alla scena, non
trattenendone che particole dissociate e periferiche, zone
indistinte, aspetti costanti seppur riportati come in una
sovrimpressione di sezioni temporali diverse, chiamate a
fondendosi in quel «molteplice indecidibile dell‘evento»39,
di cui la letteratura è al tempo stesso effige e ombra, e
dove appare come le vide en quoi tout se fait
transparence.40
38
Ivi, p. 223.
A. Badiou, L’essere e l’evento, a cura di G. Scibilia, Il Melangolo,
Genova 1995, p. 197. La meditazione in questione è dedicata a
Mallarmé, autore che, a nostro giudizio, risulta molto affine a RobbeGrillet.
40
M. Blanchot, Op cit, p. 222.
39
44
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
Büchner: il delitto come pensiero
di Marco Baldino
Le cronache criminali di Lipsia registrano, alla data del
13 novembre 1823, l‘esecuzione del soldato Johann
Christian Woyzeck, assassino della propria amante. Il
processo era stato accompagnato da una lunga disputa
medico-giuridica sullo stato mentale dell‘imputato e sulla
natura della cosiddetta monomania.
Straordinaria analogia, quindi, con il caso Pierre
Rivière — Francia, Aunày, nei pressi di Vire e di Caen — il
quale, il 3 giugno 1835, sterminava la propria famiglia a
colpi di roncola. Condannato a morte il 12 novembre
1835, fu poi graziato il 10 febbraio 1836. Morì suicida, in
carcere, nel 1840. Anche il processo Rivière fu
accompagnato da vaste polemiche tra medici e giuristi, che
raggiunsero la stampa, aventi per oggetto lo stato mentale
del soggetto e la natura della monomania. Pierre Rivière
lasciò un‘imponente Memoire in cui spiega le ragioni del
proprio gesto, riportata alla luce dall‘equipe di Foucault
nel 1973.
J. Ch. Woyzeck invece non lasciò dietro a sé alcun
documento scritto. Supplì, tuttavia a questa lacuna, la
penna di una giovane e geniale scrittore romantico, morto
all‘età di soli 24 anni, Georg Büchner, che, in un intervallo
di tempo non meglio precisabile, comunque compreso tra
il ‘23 (anno della morte del Woyzeck) e il ‘37 (anno della
morte di Büchner) scrisse il dramma Woyzeck. Büchner
morì il 19 febbraio 1837, a Zurigo, dove si era stabilito da
pochi mesi. A partire dal 1835 si era invece stabilito in
Francia, dove dimorò presumibilmente fino verso la fine
del 1836, cioè giusto il periodo del processo Rivière. Ora,
niente prova che Büchner fosse al corrente del caso
Rivière, ma si potrebbe sospettare che questi abbia voluto
dare a Woyzeck quella parola che Rivière aveva saputo
prendere da sé nella sua Memoire, quella parola che
doveva servire all‘incolto milite omicida di manifestare
45
Lichtung. Luci
l‘intreccio di meditazione e dolore che lo aveva condotto
al delitto.
Passaggi e peculiarità del dramma di Büchner
1. Secondo la scienza (il medico-professore) Woyzeck
è affetto da «una bellissima aberratio mentalis partialis
della seconda specie». Tale ―affezione‖ è dunque
―bellissima‖, cioè interessante per il sapere medicopsichiatrico allora appena toccato da quei progressi che, in
breve, porteranno la psichiatria ad una chiara
istituzionalizzazione. In secondo luogo, essa è ―parziale‖:
Woyzeck non è matto su tutti gli aspetti della vita, ma
delira solo su un punto. Qui si innesta il discorso della
monomania, poi abbandonato dalla psichiatria.41
2. Woyzeck soffre in effetti di allucinazioni, ma queste
allucinazioni sembrano portare con sé l‘eco di un sapere
arcano (la ―follia‖ non è ancora perfettamente
medicalizzata e, vedremo, come questa sia ancora
avvicinata all‘animalità, all‘immoralità, a una qualche
forma di hybris meditativa).
Visioni essenziali di Woyzeck
Vede una testa rotolare proprio in corrispondenza di
quella striscia chiara sopra l‘erba, la sera. Vede che un
fuoco correre per il cielo e sotto sente un rimbombo,
come di trombe. Quando il sole è a picco, a mezzogiorno
(si noti la corrispondenza con tema classico della
letteratura visionaria: «l‘ora del mezzogiorno nell‘Antichità
era un‘ora fasta e nefasta, l‘ora non solo della sospensione
di ogni attività sotto la vampa accecante del sole, ma anche
l‘ora delle visioni proibite, con il loro seguito di delirio»42
ed è come se il mondo prendesse fuoco, una voce terribile
41
Oggi straordinariamente rilanciato a dal delitto di Cogne (30
gennaio 2002).
42
P. Klossowski, “Nietzsche, il politeismo, la parodia”, trad. it. di A.
Serra, Mimesis, 12, 1997.
46
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
parla a Woyzeck (N.B. si tratta della stessa voce che, più
tardi, Büchner associerà al delitto: «Ammazza, ammazza la
lupa del diavolo!»).
3. Sebbene Büchner non lo dice esplicitamente, lo
spettatore e il lettore sono sollecitati a costruire da sé
un‘analogia tra Woyzeck e l‘animale: 1) il cavallo
ammaestrato dei baracconi (Scena V): l‘uomo della
baracca così presenta il suo prodigio: «un animale
umano... eppure un animale, une bête»; 2) Woyzeck,
come sostiene il medico-professore, è effettivamente poco
più che una bestia, questi giura infatti di averlo visto
pisciare contro il muro, come un cane (Scena VI). E
quando Woyzeck invoca la natura, il dottore replica che
l‘uomo è uomo proprio perché libero dalla natura, egli
controlla, con la volontà, il musculus constrictor che
consente di trattenere l‘urina; 3) Woyzeck muove le
orecchie in modo asinino (Scena XV); — il dottore ne fa
oggetto di una singolare lezione ―accademica‖; 4) il
capitano (Scena I) rimprovera a Woyzeck la sua debolezza
nei confronti della pulsione sessuale (Woyzeck ha un figlio
illegittimo dalla prostituta Maria) e quindi non ha morale,
è une bête.
4. L‘amore animale di Woyzeck (Franz) per Maria è
poi alla base della sua ossessione (Woyzeck è geloso) e
quando Maria lo tradisce con il tamburmaggiore e tutta la
città lo sbeffeggia, lui, i cui pochi soldi della diaria non
sono sufficienti a mantenere il figlio e la madre e che
pertanto si sottopone a grotteschi esperimenti medicoalimentari per qualche spicciolo in più, si abbandona al
delirio. Ecco di nuovo la voce che gli sussurra dal ventre
della terra. «Ammazza, ammazza la lupa del diavolo».
Corre in città, si batte col rivale e ne ha la peggio, acquista
un coltello, uccide Maria.
5. Infine, ecco il discorso giuridico, appena accennato,
in quest‘opera incompiuta, per bocca di un poliziotto: «un
bel delitto, un delitto ben fatto, proprio bello. Tanto bello
che non si poteva pretendere di più» (Scena XXVIII).
47
Lichtung. Luci
Conclusioni
A.
In via del tutto generale, si potrebbe assumere che
Woyzeck (come Rivière) abbia espresso, nella sua
Memoire, il conflitto tra l‘urgenza del pensiero e la
compressione a cui la sua vita fu esposta. Tale
compressione fu tanto forte da rendere impossibile a quel
pensiero l‘accesso al linguaggio. La pulsione a pensare si
manifestò quindi in un gesto estremo, ma pieno di
sostanza meditativa, a volte eccessiva, tralignante
(«Woyzeck. Tu sei un buon uomo, un buon uomo. Ma
pensi troppo, e questo affatica, consuma», Scena I,
Capitano) — qui il delitto va compreso come una forma di
pensiero. Woyzeck è, in un certo senso, un pensiero che
si leva dai margini con il bête e si impone allo sguardo dei
saperi ufficiali come uno sconquasso. Ma i saperi ufficiali
(qui psichiatria e giurisprudenza) non hanno nessuna
intenzione di lasciarsi sconquassare e rispondono quindi a
questo modo: folle o criminale, folle o criminale. Esiste
tuttavia una trama della follia che la medicina ha
classificato come ―monomania‖ e che consiste in una sorta
di intermittenza della ragione e che potrebbe, se non altro,
rendere giustizia di un rapporto articolato con la ragione
stessa: il soggetto è solo puntualmente pazzo, pazzo solo
su un punto e savio su tutto il resto.
B.
Woyzeck è eterogeneo all‘umana compagine, alla
dimensione socialmente omogenea; egli è la piega
immorale, folle e delittuosa del pensiero; egli è la parte
dell‘umano che commercia con il bête, che si consuma
nell‘idiozia e quindi, essenzialmente, esso è non-pensiero:
«C‘è bel tempo, signor capitano. Vede, un cielo cosí bello,
grigio; verrebbe voglia di piantarci un chiodo e
impiccarcisi, solo per quella lineetta, fra sì e ancora sì, e
no. Signor capitano, sí o no? il no c‘è perché c‘è il sí, o il sí
c‘è perché c‘è il no? Ci devo pensar su» (Scena IX).
Pensare qui significa una dolorosa lotta con ciò che parla
dall‘arcana dimensione del ‗fuori‘: teste che rotolano sul
fondo del prato, fuochi che corrono per il cielo, voci
48
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
terribili che sussurrano dal cuoio della terra... E che non
trova rappresentanza nel flusso omogeneo del pensiero.
Woyzeck è l‘aria disperata e stravolta che si dipinge sui
volti di vite ritagliate con ferocia nel corpo dell‘esistente e,
con un moto d‘esclusione, escluse dal pensiero affinché
quella vita diventi una vita Umana. Woyzeck è un
surriscaldamento del pensiero, un pensiero senza
linguaggio, un pensiero che cerca la coerenza del proprio
delirio in un gesto che si imponga alla societé in modo
dirompente, in un modo che non possa più essere
ignorato, in un delitto. Woyzeck è un pensiero
surriscaldato, privo di linguaggio, contiguo ai territori
dell‘immoralità, dell‘animalità, della stupidità («Quanto
siete stupido! Tremendamente stupido! Woyzeck», Scena
I, Capitano), della follia che «corre per il mondo come un
rasoio aperto» (Scena IX, Capitano).
49
Lichtung. Luci
Arthur Rimbaud: il peso insopportabile
di Francesca Brencio
L‘angelo e il bambino
E già il nuovo anno aveva esaurito la prima luce,
luce che piace ai bambini, e a lungo richiesta
e presto scordata: sepolto nel sorriso e nel sonno,
tacque il languidetto bambino; lo abbraccia un letto di piume,
e tutt‘intorno per terra: strepitosi sonagli,
e conservando il loro ricordo, carpisce sonni felici,
e riceve i doni dei celesti, dopo i doni della madre.
Stira la bocca sorridente, e le labbra appena dischiuse sembrano
invocare Dio: accanto alla testa l‘angelo sta sospeso,
chino, e cerca di cogliere i deboli sussurri
del cuore innocente, e pendendo dalla sua visione,
contempla i tratti eterei;
in ammirazione delle gioie della fronte serena,
in ammirazione delle gioie della mente,
e dell‘intatto fiore di Noto: «Bambino simile a noi,
vieni, sali con me al cielo, entra nei regni celesti;
abitaci, tu degno delle regge celesti viste nei sogni;
la terra non ti seppellisca, figlio celeste!
Per nessuno c‘è fede senza rischi: mai gioie serene
confortano i mortali; dallo stesso profumo del fiore
viene su qualcosa d‘amaro, e i cuori commossi sono sollevati
da una triste gioia; mai il piacere gode senza nube
e traspare una lacrima nel riso incerto.
Che? la fronte pura ti marcirebbe a causa di una vita amara,
e l‘affanno con le lacrime ti turberebbe gli occhietti azzurri,
e l‘ombra del cipresso ti strapperebbe le rose del volto?
Questo no: penetrerai con me nelle regioni degli dei,
e unirai la tua voce ai concerti dei celesti,
spierai gli uomini sotto di te, e le passioni degli uomini.
Vieni: per te il Nume spezza i lacci dell‘esistenza.
Ma la madre non sia velata a lutto:
non faccia distinzioni tra feretro e culla;
rilassa il sopracciglio triste, né i lutti
contristino il volto: piuttosto sparga gigli a piene mani:
infatti l‘ultimo giorno fu per il puro il giorno più bello».
Ora sta avvenendo questo: avvicina lieve l‘ala alla bocca rossa,
recide l‘ignaro e porta l‘anima del reciso sulle ali azzurre,
con un volo delicato lo trasporta su nelle sedi celesti: ora il piccolo letto
custodisce soltanto delle membra smorte, alle quali tuttavia non è venuta meno
la grazia,
ma non lo anima più il respiro e rende la vita.
È trapassato… ma ancora sulle labbra che sanno di baci
Espirano sorrisi, e aleggia il nome della mamma,
e morendo ricorda i doni dell‘anno che nasce.
Penseresti che quegli occhi spenti siano socchiusi per un sonno
tranquillo;
ma quel sonno, più che mortale per il nuovo onore,
50
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
non so perché avvolge la fronte di luce celeste,
e dimostra che egli non è più una radice della terra ma figlio del cielo.
Oh! Con quanta pena la madre pianse la perdita,
e con quante lacrime bagnò il caro sepolcro!
Ma ogni volta che chiude gli occhi nel dolce sonno
dalla rosea soglia del cielo rifulge un bambino,
Angelo, e si diverte a richiamare la dolce madre.
Si scambiano sorrisi: poi, perso nell‘aria,
con le ali nivee svolazza attorno alla mamma stordita,
e congiunge quelle labbra con labbrucce divine1
Smarrisco il mondo e muoio lo dimentico
l‘ho sepolto nella tomba delle mie ossa
George Bataille
2
I.
«Poeta, Rimbaud lo fu in modo assoluto, perentorio»3.
Eppure, come ricorda Isabelle Rimbaud, quando ―
durante la malattia ― ella leggeva al fratello qualcosa,
«quando capitava un verso, anche uno solo, mi supplicava
di saltare. Aveva orrore della poesia»4.
Arthur Rimbaud morì il 10 novembre del 1891 a
trentasette anni; accanto a sé non c‘era più traccia di fede
nella poesia5; eppure di lui rimangono i versi che, come
1
A. Rimbaud, “L’ange et l’enfant”, in A. Rimbaud, Poesie latine, in
Opere, a cura di D. Grange Fiori, Mondadori, Milano 1975, p. 424
sgg.
2
G. Bataille, Nietzsche. Il culmine e il possibile, trad. it. a cura di A.
Zanzotto, Rizzoli, Milano 1970, p. 99
3
V. Segalen, Il doppio Rimbaud, trad. it. a cura di F. Pietranera, Ed.
Rosellina Archinto, Milano 1990, p. 5.
4
Ibidem, p. 50.
5
«Vostro fratello ha la fede, figliola che mai ci avevate detto? Ha la
fede, e anzi non ho mai visto una fede di qualità simile!» scrive
Isabelle Rimbaud alla madre riportando le parole che il sacerdote le
disse nel momento della confessione di Arthur prima della morte (cfr.
Isabelle Rimbaud alla madre, in A. Rimbaud, Opere, cit., p. 629).
Tuttavia, come sottolinea Yves Bonnefoy a proposito della
conversione in extremis di Rimbaud alla religione cattolica, «per
un’anima incapace di dimenticare la promessa di Gesù, la conversione
di Marsiglia non è stato il primo impeto di speranza. Ma tutte le altre
volte, finché Rimbaud fu cosciente, Dio sembrava non rispondere.
Spesso detestato per la morale da lui avallata, atteso talvolta
51
Lichtung. Luci
dice Coulon, «sono il suo cervello, il suo sangue e la sua
carne direttamente messi sulla carta»6. Forse è per questo
che per capire Rimbaud «bisogna studiarlo e bisogna,
soprattutto, amarlo»7, bisogna, come dice Bonnefoy,
«separare la sua voce dalle tante altre voci che ad essa si
sono mescolate»8 e pensare questa attraverso la misura del
silenzio.
Cresciuto dalla madre nella piccola Charleville, «una
città superlativamente idiota fra tutte le città di provincia»9,
senza la figura paterna accanto, desideroso di fuggire da
quel posto per realizzare la libertà libera e con essa i
propri sogni, poco più che adolescente, Rimbaud
sperimenta la solitudine dell‘esistenza «grigiastra». Egli
avvertì il suo legame con Charleville come un cappio che
lo stringeva, come un luogo che inebetiva le sue capacità e
lo confinava fuori dal mondo. Il 2 maggio del 1870 scrive
a Izambard:
«Sono spaesato, malato, furibondo, istupidito,
stravolto; aspiravo a bagni di sole, a passeggiate senza
fine, riposo, viaggi, avventure, bohémienneries
insomma» .
10
Qualche mese dopo (il 2 novembre) scrive ancora al
suo interlocutore:
«Signore, sono tornato a Charleville il giorno dopo
aver lasciato lei. Mia madre mi ha accettato, e io –
eccomi qua, l‘ozio assoluto. Mia madre non ha
l‘intenzione, pare, di mettermi in convitto fino al
ingordamente, nella Saison en enfer o nelle Illuminations, il Dio
cristiano fu sempre un assente, e se l’opera di Rimbaud può avere
valore di testimonianza, lo è davvero e soltanto di quella morte del
divino che anche Nietzsche ha descritto. Si faccia pure, se lo si
desidera, della conversione di un morente il segno del risveglio di Dio.
Ma che non si cerchi la sua presenza in una poesia che spesso ha
tentato di provocar- lo senza incontrare null’altro che il suo silenzio».
Y. Bonnefoy, L’impossibile e la libertà, trad. it. a cura di G.
Caramore, Marietti, Casale Monferrato 1988, p. 114.
6
F. Liuzzi, Arturo Rimbaud, Formiggini, Roma 1926, p. 9.
7
Ibid., p. 8.
8
Y. Bonnefoy, L’impossibile e la libertà, cit., p. 1.
9
A. Rimbaud, “Lettera a Georges Izambard”, in Opere, cit., p. 440.
10
Ivi, p. 441.
52
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
gennaio ‘71.[…] Muoio, mi decompongo nella
mediocrità, nella meschinità, nel grigiastro. Che
vuole, mi sono tremendamente incaponito a voler
adorare la libertà libera, e… un mucchio di cose da
fare pietà, vero?»
11
Charleville è quel posto, o «natio borgo», in cui il
giovane Arthur si decompone; esso assurge a paradigma di
inettitudine e di miseria; nella lettera del 28 agosto 1871 a
Paul Demeny scrive:
«Situazione dell‘imputato: da più di un anno ho
abbandonato la vita normale, per quel che lei sa.
Chiuso perpetuamente in questa inqualificabile
contrada ardennese, senza frequentare un solo uomo,
raccolto in un lavoro infame, inetto, ostinato,
misterioso, rispondendo col silenzio alle domande,
alle apostrofi grossolane e cattive, mostrandomi
dignitoso nella mia posizione ex-tra-legale, ho finito
col provocare risoluzioni atroci, da parte d‘una madre
inflessibile quanto settantatré amministrazioni dai
berretti di piombo. Mi ha voluto imporre un lavoro –
da ergastolano, a Cherleville (Ardennes)! Un posto
per il tal giorno, diceva, oppure, quella è la porta.
Rifiutavo questa vita; senza dire le mie ragioni:
sarebbe stato pietoso. Fino a oggi, sono riuscito a
eludere le scadenze. Lei, si è ridotta a questo:
augurarsi perpetuamente una mia partenza avventata,
la fuga!»
12
La povertà interiore e la solitudine che Rimbaud
avverte nella sua città non fanno che frustrare il suo
desiderio di realizzazione, e di libertà.
A Théodore de Banville scrisse il 24 maggio 1870 così:
«Maestro, […] ho diciassette anni. L‘età delle
speranze e delle chimere, dico- no, – e, ragazzo
sfiorato dalle dita della Musa – scusi la banalità, – mi
son messo a dire la mia fiducia, le mie speranze, le
mie sensazioni, tutte le cose dei poeti – che io
chiamo: primavera. […] Fra due anni, fra un anno
forse, sarò a Parigi. – Anch‘io, signori del giornale,
11
12
Ivi, p. 445.
A. Rimbaud, “Lettera a Paul Demeny”, in Opere, cit., p. 464 sgg.
53
Lichtung. Luci
sarò Parnassiano! – ho in me qualcosa, non so bene…
che vuol salire… – Giuro, caro Maestro, di adorare
per sempre le due dee, la Libertà e la Musa» .
13
La povertà e la solitudine di cui si fa qui parola non
sono solo certa prigionia e desolazione tipiche di un
adolescente, ma sono quelle del poeta, il cui essere è
avvertito per di più, come un essere dal «sangue cattivo»:
«Mi è proprio evidente che sono sempre stato razza
inferiore. La rivolta, non mi è possibile capirla […].
Non ho mai fatto parte di questo popolo; non sono
mai stato cristiano; io sono della razza che nei
supplizi cantava» .
14
Sono la solitudine e la povertà di chi comprende
l‘insoddisfazione proveniente dalla quotidianità, da quella
medietà che egli ritiene sterile e grigia di fronte all‘ideale,
di fronte alle ambizioni. Tutto il mondo a lui circostante
― affetti, casa, lavoro ― appariva agli occhi di Rimbaud
come una condanna.
La vita, nella sua manifestazione immediata, nella sua
concretezza era una condanna, quella vita per lui così
ordinaria e che imponeva delle esigenze necessarie per la
propria sussistenza era il vero limite di fronte al suo essere
poeta, o meglio, così egli lo intese, come un limite da
superare, da oltrepassare in vista dei «bagni di sole» e dei
dettami
della
Musa.
Probabilmente
questa
insoddisfazione, questo senso di voler com-prendere il
mondo e il suo senso più intimo rappresentano la prima
tappa per l‘affermazione di quella condotta di vita che in
più di un‘occasione fece di Arthur Rimbaud un «povero
da strada»15, un barbone dalle dita fortunate.
13
A. Rimbaud, “Lettera a Théodore de Banville”, in Opere, cit., p.
439 sgg.
14
A. Rimbaud, “Sangue cattivo”, in Una stagione in Inferno, in
Opere, cit., pp. 217 e 221.
15
Si ricordi come Mathilde Verlaine rimase scandalizzata dalla
scoperta dei pidocchi sul cuscino di Rimbaud quando egli era ospite
presso la casa dei coniugi Verlaine, e facendone parola al marito, egli
rispose che Rimbaud amava portarli con sé per poterli attaccare ai
preti (la testimonianza è riportata in G. Robb, Rimbaud, trad. it. a cura
di M. Mascarino, A. Palladino, Carocci, Roma 2002, p. 115). Anche il
54
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
La sua ribellione, ovvero quella che chiama la sua
ripugnanza contro il dovere imposto e ordinario, si
manifesta sin da subito persino nella eccessiva eccellenza
di studente, perché le sue ripugnanze producono
obbedienza e ipocrisia, nei primi tre anni e mezzo passati
all‘Istituto Rossat nel periodo 1861-1864, dove vinse
tredici premi e si guadagnò undici note di merito. Nella
sua ricerca della perfezione scolastica e intellettuale
insieme, egli aveva già l‘idea di:
«Osservare ogni cosa da vicino, descrivere la vita
moderna con coraggiosa precisione e il mo- do con
cui essa corrompe il genere umano […] al fine di
accelerarne la distruzione» .
16
Osservare il mondo al fine di smascherare tutte le
menzogne che esso racchiude ed ergersi nel- la propria
solitudine come un osservatore esterno, un anatomista del
vissuto, un nuovo Prometeo che priva il mondo ― il suo
mondo, Charleville ― del senso più intimo, in cui perfino
gli affetti sono spogliati di ogni valore.
Tuttavia, Rimbaud sperimentò questa solitudine non
soltanto nella sua città, ma anche nel rapporto con la
madre; sebbene fosse una donna intelligente e sensibile,
M. me Rimbaud non seppe comprendere quel sentirsi
abbandonato che Arthur avvertì sia nei suoi confronti sia
nei confronti del padre, capitano dell‘esercito francese mai
ritornato a Charleville dopo il 1860:
«E la Madre, chiudendo il libro del Dovere,
se ne andava, soddisfatta e fiera. Non vedeva
negli occhi azzurri e sotto la fronte piena
di protuberanze, l‘anima del suo bambino
in preda alle ripugnanze.
Tutto il giorno sudava obbedienza; intelligente,
molto; eppure qualche nero tic, qualche mania,
indicavano in lui le acerbe ipocrisie.
[…] Pietà! Era amico soltanto di bambini scarni
cognato di Verlaine, desideroso di incontrare il futuro grande poeta
trovò «un ignobile, vizioso, disgustoso, indecente piccolo scolaro»
(Cfr. G. Robb, Rimbaud, cit., p. 119).
16
Biglietto di Arthur Rimbaud a Delahaye, in G. Robb, Rimbaud, cit.,
p. 61.
55
Lichtung. Luci
che, fronti nude, occhi stinti sulle guance,
celando magre dita nere e gialle di fango
sotto vesti vecchiotte e puzzolenti di sciolta,
conversavano con la dolcezza degli idioti!
[…] A sette anni, faceva romanzi sulla vita
del vasto deserto, dove splende una Libertà
felice» .
17
Questo medesimo sentimento torna anche altrove,
nelle Strenne degli orfani:
«La stanza è piena d‘ombra; si ode vagamente
il sussurro di due bambini mesto e dolce
[…] Un‘assenza si avverte in ogni cosa…
Non c‘è dunque per queste creature una madre,
dal fresco sorriso, dagli occhi trionfanti?
[…] Il sogno d‘una madre, è il tiepido tappeto,
il nido di bambagia dove i bimbi acquattati,
dormono un dolce sonno di candide visioni!…
Ma questo, – è un nido senza tepore né piume,
dove i piccoli han freddo, e paura, e non
dormono;
nido ghiacciato amaramente al vento…
il vostro cuore ha capito: – bambini senza madre.
Non più la madre a casa! – e assai lontano il
padre!… » .
18
Rimbaud non fu mai un figlio a casa, o meglio, un figlio
e un fratello che sentì la casa come dimora e rifugio. Forse
il desiderio della fuga nasce proprio da questa presa di
coscienza, da questo sentimento che fa avvertire ad Arthur
come tutto gli sia estraneo; e forse ha qui origine quel
disincanto del mondo che egli sperimenta sin da
adolescente, e che frantuma nell‘indifferenza delle
consuetudini del piccolo villaggio ardennate tutti i suoi
sogni e tutte le ambizioni di gloria.
«A ogni essere, parecchie altre vie mi sembrano
dovute»19, scrive in Una stagione in Inferno. Viene da
domandarsi quali siano queste altre vie, se è vero che «in
un solaio in cui mi chiusero dodicenne ho conosciuto il
17
A. Rimbaud, “I poeti di sette anni”, in Opere, cit., p. 92 sgg.
A. Rimbaud, Le strenne degli orfani, in Opere, cit., pp. 5-7.
19
A. Rimbaud, Una stagione in Inferno, in Opere, cit., p. 251.
18
56
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
mondo, ho illustrato la commedia umana»20. Ma Rimbaud
sperimentò la delusione non soltanto a Cherleville, ma
anche altrove: Parigi, Londra, l‘Abissinia non erano poi
così diverse tra loro.
II.
Rimbaud compose L‘angelo e il bambino poco più che
quindicenne, nel primo semestre del 1869. Sebbene il
titolo possa far presumere qualcosa di serafico tale da
legare l‘immagine dell‘angelo a quella del fanciullo, in
realtà il contenuto della poesia parla d‘altro: tratta
dell‘ideale che un angelo persegue nel recidere la vita di
un bambino. L‘interrogativo non è perché un quindicenne
scriva di morte, ma come la morte non sia solitudine, ma
una condizione privilegiata di relazioni. Ciò che merita di
essere considerato non è tanto il discorso che l‘angelo
pronuncia nel momento che precede la morte del
bambino, quanto come il bambino, una volta morto, possa
realizzare pienamente il suo rapporto con la madre.
L‘immagine finale dei sorrisi e dei baci racchiude molto
della condizione affettiva ed esistenziale del giovane
Rimbaud.
Proprio nell‘inversione del significato che la vita e la
morte o che la solitudine e la comunicazione rivestono in
questa lirica si compie il miracoloso, il serafico ― e non è
un caso che il giovane Rimbaud scelga l‘immagine
dell‘angelo. In questo senso l‘opera poetica di Rimbaud
fin dall‘inizio va al di là del cliché del poeta maledetto, del
rivoluzionario, del bohemien. Una volta sperimentata la
vita come assenza di pienezza, rimane solo la morte come
realizzazione di questa, o meglio, come custode di una
promessa che attende il suo soddisfacimento.
Se è valida l‘affermazione di Cioran per la quale Rimbaud
è un ingegno che si è distrutto per aver voluto dare un
senso alla propria esistenza21, allora in questa sua
20
A. Rimbaud, Illuminazioni, in Opere, cit., p. 301.
Cfr. E. M. Cioran, La tentazione di esistere, trad. it. a cura di L.
Colasanti, C. Laurenti, Adelphi, Milano 1984, p. 24.
21
57
Lichtung. Luci
distruzione egli sperimenta la vertigine del proprio essere a
metà.
Perciò, come ha giustamente osservato Camus,
possiamo dire che
«la grandezza di Rimbaud non sta nei primi gridi di
Charleville né entro i traffici dell‘Harar ma prorompe
nell‘attimo in cui, dando alla rivolta il linguaggio più
stranamente appropriato che mai le sia stato
conferito, dice ad un tempo il suo trionfo e la sua
angoscia, la vita assente al mondo e il mondo
inevitabile, il grido verso l‘impossibile e la realtà
ruvida da stringere, il rifiuto della morale e la
nostalgia irresistibile del dovere. Nel momento in cui,
portando in sé l‘illuminazione e l‘inferno, insultando
e salutando la bellezza, ha fatto di una contraddizione
irriducibile un duplice e alterno canto, è poeta della
rivolta, e il massimo» .
22
Leggendo I deserti dell‘amore si ha la sensazione che
mai fu scritta da lui poesia più triste, mai fu sentita in
modo così radicale la sua condizione di perdita della
purezza della vita, di solitudine, di mancanza di
comunione ― corporale prima che spirituale. L‘opera
inizia dicendo:
«Questi scritti sono di un giovane, giovanissimo
uomo, la cui vita si è sviluppata un po‘ dappertutto;
senza madre, senza paese, noncurante di quel che è
noto, in fuga davanti a ogni forza morale, come già lo
furono molti uomini giovani, e meritevoli di
compassione» .
23
Poco oltre continua:
«Io ero abbandonato, in quella casa di campagna
senza fine: a leggere in cucina, a far asciugare davanti
agli ospiti il fango dei miei vestiti, alle conversazioni
in salotto: mortalmente agitato dal mormorio del latte
la mattina e dalla notte d‘un secolo fa […]. A tutto ciò
22
A. Camus, L’uomo in rivolta, in Opere, trad. it. a cura di L.
Magrini, Bompiani, Milano 2000, p. 717 sgg.
23
A. Rimbaud, “I deserti dell’amore”, in Opere, cit., p. 195.
58
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
piangevo enormemente. Infine sono sceso in un
luogo pieno di polvere, e, seduto su una catasta di
legna, ho lasciato che si esaurissero insieme a quella
notte tutte le lacrime del mio corpo» .
24
E nel Battello ebbro scrive:
«Ma è vero, ho pianto troppo! Son desolanti le Albe.
Ed è atroce ogni luna, ed è amaro ogni sole» .
25
Queste parole ricordano i versi di Orazione della sera
dove si legge:
«Il mio cuore triste è a volte alburno
ove sanguina il cupo giovane oro dei succhi» .
26
Il tema è sempre il medesimo: l‘impossibilità di
raggiungere quella comunanza tanto agognata, quella
pienezza irrisolta il cui orizzonte fugge in una fuga eterna27.
III.
Solitudine è perciò il venir meno di tutto ciò che è
oggetto di desiderio, di amore, di appartenenza. La prima
solitudine fu quella della madre, la seconda quella di Dio
e della Vergine28, la terza quella dell‘amore, la quarta
quella della poesia.
In questa condizione, Rimbaud consegnò al fallimento
la propria esistenza ― per eccesso di orgoglio, di coraggio,
perché si può essere falliti anche per eccesso, non solo per
difetto ― rendendola poco più che un malinteso29. E il suo
fallimento fu triplice: fu quello dell‘incapacità di farsi
veggente ― così come si era proposto nelle lettere a
24
A. Rimbaud, “I deserti dell’amore”, in Opere, cit., p. 197 sgg.
A. Rimbaud, “Battello ebbro”, in Opere, cit., p. 149.
26
A. Rimbaud, “Orazione della sera”, in Opere, cit., p. 81.
27
A. Rimbaud, “Credo in Unam”, in Opere, cit., p. 19.
28
Cfr. A. Rimbaud, “Le prime comunioni”, in Opere, cit., pp. 131141.
29
P. Claudel, Prefazione a Arthur Rimbaud, Oeuvres, in A. Rimbaud,
Opere, cit., p. 730.
25
59
Lichtung. Luci
Izambard e Demeny del 187130 ―, quello della carità e
della pietà, che segnavano le poesie della giovinezza, e
infine quello dello spirito di verità. Soprattutto
quest‘ultimo sarà ciò che egli denuncerà in modo
implacabile nella Stagione in Inferno, la sua sregolatezza
programmatica di tutti i sensi che avrebbe dovuto
condurlo a comprendere la verità, a farsi verità dopo aver
partecipato della visione.
Tuttavia, in cosa altro mai può riposare l‘essenza della
poesia e della sua verità, osserva Bonnefoy, «se non nella
confessione del fallimento»31 e nel riconoscere che
l‘affannarsi del poeta per cercare la realtà nella sua essenza
lo spinge proprio nella direzione opposta di questa ricerca,
cioè nel perdere la realtà e con essa se stesso? Cercare la
purezza della vita, l‘eternità, attraverso il loro opposto
conducono Rimbaud a una perdita di esse:
«Rivoltarsi contro la loro presente miseria, ingiuriarla
con il pretesto dell‘Ignoto, essere odio prima di
essere amore, è davvero questo il mezzo per
ristabilire la felicità e l‘amore originari? Non è forse
escludersi ancora un po‘ di più dal grande festino
rifiutato?»
32
Solo attraverso la presa di coscienza del proprio
fallimento risulta chiara l‘espressione:
«Una sera ho fatto sedere la Bellezza sulle mie
ginocchia. – E l‘ho trovata amara. – E l‘ho insultata» .
33
Ormai Rimbaud ha consapevolezza non solo di questo
suo fallire, ma di come sia impossibile attuare la
riconciliazione: del passato col presente, di Charleville con
Londra, di se stesso con Dio, della poesia con la vita. È la
coscienza dell‘impossibile che si apre a lui nei suoi
30
Cfr. A. Rimbaud, “Lettera a Georges Izambard”, e “Lettera a Paul.
Demeny”, in Opere, cit., p. 448 sgg. Sul tema del poeta veggente in
Rimbaud cfr. inoltre G. Robb, Rimbaud, cit., pp. 84-96; G. Deleuze,
Critica e Clinica, trad. it. a cura di A. Panaro, Raffaello Cortina
Editore, Milano 1996, pp. 45-48.
31
Y. Bonnefoy, L’impossibile e la libertà, cit., p. 48.
32
Ivi, p. 47.
33
A. Rimbaud, Una stagione in Inferno, in Opere, cit., p. 211.
60
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
multiformi aspetti. «Conosco ancora la natura? Mi
conosco? ― Basta con le parole. Seppellisco i morti nel
mio ventre. Gridi, tamburo, danza, danza, danza, danza!»34
Impossibile è la libertà libera, impossibile la salvezza,
impossibile la poesia senza il pensiero della morte.
«Il vecchiume poetico era per buona parte nella mia
alchimia del verbo. Mi abituai all‘allucinazione
semplice […]. Più tardi spiegai i miei sofismi magici
con l‘allucinazione delle parole! Finii col trovare
sacro il disordine del mio spirito. Stavo in ozio, preda
di una febbre pesante […]. Dicevo addio al mondo in
una sorta di romanze […]. Amai il deserto, i frutteti
bruciati, le botteghe avvizzite, le bevande intiepidite.
Mi strascicavo per vicoli puzzolenti e, chiusi gli occhi,
mi offrivo al sole, dio di fuoco […]. Divenni un‘opera
favolosa: vidi che in tutti gli esseri c‘è un destino di
felicità: l‘azione non è la vita, ma un modo di
sprecare una qualche forza, uno snervarsi.»
35
Tuttavia, la coscienza dell‘impossibile e di come esso
rappresenti il limite ultimo verso il quale necessariamente
egli tende, non lo irretiscono, non lo imprigionano.
Rimbaud vuole, ancora e comunque, ciò che gli fu negato,
ciò che il mondo gli ha negato: la purezza, l‘eternità, la vita
e ― soprattutto ― la pienezza. Vuole la felicità, la vita
chiara, quel raggio di luce che fa cantare la sta- tua di
Memnone. Così, per ritrovare quella promessa, egli sceglie
«le corrispondenze».
«È ritrovata.
che? – l‘Eternità.
È il mare andato via
col sole.
Anima sentinella,
Mormoriamo l‘assenso
della notte di niente
e del giorno di fuoco.
Dai suffragi umani,
dai comuni slanci
34
A. Rimbaud, “Sangue cattivo”, in Una stagione in Inferno, in
Opere, cit., p. 221.
35
A. Rimbaud, Una stagione in Inferno, cit., p. 243 sgg.
61
Lichtung. Luci
tu là ti liberi
e voli a seconda.
Poi che da voi sole,
braci di raso,
esala il Dovere
senza un: finalmente.
Là niente speranza,
non c‘è un orietur.
Scienza con pazienza,
il supplizio è certo.
È ritrovata.
Che? - l‘Eternità.
È il mare andato via
col sole.»
36
L‘eternità è il mare andato via col sole ― in un‘altra
stesura dirà «sciolto nel sole»37; ora è nel lampo
dell‘analogia che si compie la promessa, il ritorno alla
purezza, la realizzazione della pienezza. Tuttavia, in questo
lampo in cui sembra che l‘unione venga realizzata, che la
pro- messa venga soddisfatta e con essa il peso dell‘attesa
alleggerito dal compimento, il poeta non dimentica lo
scarto che l‘impossibile genera e come, ancora una volta,
la pienezza non sia una meta a portata di mano: di qui
l‘incapacità della sintesi, di essere sintesi. «In quel
periodo» scrive nelle Minute «era la mia vita eterna, non
scritta, non cantata, ― qualcosa come la Provvidenza nella
quale si crede e non si canta.»38 Ancora una volta non c‘è
possibilità di nutrire l‘illusione e non c‘è possibilità per la
realizzazione della comunione, della pienezza. Accettare
tragicamente questo scarto è l‘unico modo che può fare
dell‘eternità un momento della vita, che può rendere «la
vita chiara», almeno per un attimo, una tenera certezza che
36
A. Rimbaud, L’eternità, in Opere, cit., pp. 167-169.
Cfr. A. Rimbaud, Una stagione in Inferno, cit., pp. 249-251. Qui la
poesia dice: «È ritrovata! / Che? L’eternità. / È il mare sciolto / nel
sole. / Anima mia eterna, / osserva il tuo volto benché / la notte sia
sola / e il giorno sia in fiamme. / Dunque ti liberi / da umani suffragi, /
da slanci comuni! / Tu voli a seconda… / – Mai la speranza. / non c’è
un orietur. / Scienza e pazienza, / certo è il supplizio. / Non più
domani, braci di raso, Vostro ardore, è il dovere. / È ritrovata! Che? –
l’Eternità. / È il mare sciolto / nel sole».
38
A. Rimbaud, “Età dell’oro”, in “Minute per Una stagione in
Inferno”, in Opere, cit., p. 277.
37
62
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
può far intuire il ritrovamento di quella purezza originaria
tanto desiderata.
Si può forse affermare che nel suo cammino Rimbaud
opera una sola scelta: la via deludente della distruzione,
l‘abuso delle droghe per comprendere che esse non sono
tanto una sostanza quanto una rêverie, non un
avvicinamento all‘essere quanto una rassegnata passività39.
E viene imposto alla parola il peso di un destino che non
può che giungere al silenzio, e Rimbaud consegnò ad esso
la parte più importante della sua poetica. Spesso, infatti,
solo il silenzio rende ragione di un‘intera esistenza di cui
non è possibile comprendere il senso con le parole.
«Ritrovare la purezza non nella coscienza ma in ciò che
la nega: questo è stato il tentativo di Rimbaud.»40 Una
stagione in Inferno «significa ciò che dice, alla lettera e in
ogni senso»41. Non si tratta di una sofferenza gratuita, ma
necessaria come altrettanto necessaria è la discesa agli
inferi «da cui tornerà redentore»42. In de profundis
Rimbaud torna dagli inferi; egli ha visto e la visione lo ha
reso partecipe; la visione si è offerta a lui nella sua
materialità, nelle sue manifestazioni fisiche; l‘Inferno che
Rimbaud ha esperito si è presentato al poeta nella vita; per
questo egli dice:
«Mi sarà lecito possedere la verità in un‘anima e un
corpo» .
43
Così la solitudine e quella infelicità e tristezza che lo
hanno accompagnato nella vita sono diventate in Rimbaud
una ricerca di senso, sebbene distruttiva. Infatti, anche
laddove vi è una distruzione è possibile rintracciare un
senso per quella stessa distruzione, un senso disperato ma
pur sempre senso.
Questo Rimbaud lo sapeva, «piccola rosa in un
giardino e metafora di Dio»44.
39
Cfr. Y. Bonnefoy, L’impossibile e la libertà, cit., p. 37.
D. Ropps, Rimbaud, Morcelliana, Brescia 1935, p. 62.
41
Lettera di Isabelle Rimbaud, in G. Robb, Rimbaud, cit., p. 215.
42
Y. Bonnefoy, L’impossibile e la libertà, cit., p. 29.
43
A. Rimbaud, “Addio”, in Una stagione in Inferno, in Opere, cit., p.
265.
44
D. Ropps, Rimbaud, cit., p. 170.
40
63
Lichtung. Luci
Vincent Van Gogh: un pennello
fremente di febbre e di emozione*
di Marco Nicastro
Per colui che possiede curiosità artistica e sensibilità
estetica, entrare in contatto da solo a solo con l‘opera di
Vincent Van Gogh, uno dei più originali pittori della storia
dell‘arte
occidentale,
è
certamente
esperienza
entusiasmante. Nel museo della capitale olandese a lui
dedicato (la cui visita ha fornito lo spunto ultimo per
questo contributo) si può facilmente essere investiti dalla
potenza dei suoi quadri che, pur riprendendo la lezione
della pittura di Millet, di Rembrandt, Hals e altri
fiamminghi (in particolare per la resa delle ombre e della
luce o dei soggetti tratti da una realtà quotidiana priva di
orpelli ma dalla forte carica sentimentale), di Delacroix e
Rubens (per la loro sapienza nell‘uso del colore), e infine
dei suoi contemporanei più all‘avanguardia, gli
Impressionisti, presentano importantissimi elementi di
novità, in particolare relativamente all‘uso del colore e al
modo di stenderlo sulla tela.
Da una serie di opere risalenti alla prima produzione
artistica del pittore olandese, in cui egli cerca di
perfezionare le sue capacità rappresentative rifacendosi
prevalentemente ad un utilizzo del colore e ad una
composizione del quadro vicini alla tradizione del
realismo (soggetti umili, paesaggi rurali in toni scuri e
tendenzialmente più cupi), si passa nei piani superiori del
museo ai dipinti che tanto lo hanno reso famoso, coi loro
colori sgargianti e puri, coi loro contrasti forti, con le
peculiari pennellate, brutali e vorticose.
Vincent Van Gogh fu un pittore caratterizzato da una
spasmodica tensione verso il miglioramento. In dieci anni
di attività artistica ci ha lasciato più di 1000 disegni e
*
Espressione usata da Van Gogh in un’analogia tra l’opera di
Rembrandt in pittura e quella di Shakespeare in letteratura (lettera a
Theo del 24 giugno 1880).
64
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
schizzi e 800 tra dipinti e acquerelli. Disegnava
innanzitutto per un fortissimo bisogno personale di catarsi
e per la necessità di mantenere un equilibrio interiore:
Per dimenticare, mi sdraio sulla sabbia vicino a un
vecchio tronco d‘albero e ne faccio un disegno,
fumando la pipa, guardando il cielo azzurro cupo o
il muschio e l‘erba. Questo mi calma (Lettere a
Theo**, p. 126). […] ecco perché chiedo
perentoriamente tela e colori: solo così sento la
vita, quando riesco a spingere a fondo il lavoro (p.
281).
[…] quando uno ha dentro di sé il fuoco e l‘anima
non può reprimerli – e preferisce bruciare piuttosto
che soffocare. Quello che si ha dentro deve uscire
fuori. A me, ad esempio, dipingere un quadro
permette di respirare, e se non lo facessi, mi
sentirei più infelice di quanto non sia (Lettera alla
sorella Willemien, Einaudi, p. 336).
Nei primi anni della sua attività ufficiale di pittore
dedicò moltissime energie al perfezionamento della sua
tecnica di rappresentazione della figura umana, forse
anche perché essendo un autodidatta per vocazione e
indole personale, si sentiva in difetto rispetto a chi era
riuscito a seguire un percorso accademico tradizionale e
ad essere riconosciuto come pittore a partire da esso. Il
quadro a detta di molti più significativo di questo primo
periodo è I mangiatori di patate (1885), nel quale è
possibile individuare una grande attenzione e un religioso
rispetto per la durezza della condizione in cui versavano
specifiche categorie di lavoratori; la forza espressiva delle
loro mani nodose e dei loro volti scavati e quasi
caricaturali dice molto del tentativo dell‘artista di creare
volutamente nell‘osservatore una forte impressione
emotiva, che andasse al di là della semplice constatazione
di una cruda realtà. Quest‘opera rivela anche il suo
**
I brani delle lettere di Van Gogh al fratello Theo sono tratti da
Lettere a Theo, a cura di M. Cescon, Guanda, Parma 1984; in tutti gli
altri casi da Lettere, a cura di Cynthia Saltzman, traduzione di
Margherita Botto, Laura Pignatti e Chiara Stangalino, Einaudi, Torino
2013.
65
Lichtung. Luci
autentico interesse per ciò che era umile, basso, scartato
dagli altri.
Ancora ventenne, in un periodo di fervore religioso,
andò a vivere per qualche tempo in un poverissimo
paesino di minatori predicando il Vangelo in condizione
di autentica povertà, cosa che gli attirò l‘antipatia dello
stesso clero locale che lo vedeva come un tipo eccentrico e
pericoloso per il suo zelo così radicale. Van Gogh era un
uomo che viveva di assoluti, capace di immergersi
completamente in un‘attività o in un progetto quando lo
sentiva veramente suo, come fece, in una prima fase della
sua vita, con la religione.
Tuttavia, la sua intolleranza alle regole, all‘ipocrisia e
all‘ottusità propria di certi rituali di apprendimento tipici
dei normali percorsi di studio e di formazione religiosa
emerse ben presto. Ad esempio, a proposito della sua
formazione da evangelizzatore, a quei tempi, diceva al
fratello:
[…] Preferirei morire, piuttosto che venir
preparato alla missione religiosa dall‘accademia; e
ho avuto una lezione da un falciatore tedesco che
mi è servita assai più di una lezione di greco
(Lettere a Theo, p. 80).
Ma ne aveva anche per i formatori nelle
accademie d‘arte, non meno ipocriti secondo lui:
Devi sapere che con gli artisti è la stessa cosa che
con gli evangelisti. Esiste una vecchia scuola
esecrabile, tirannica, l‘esasperazione della
desolazione insomma, uomini provvisti di una
corazza, un‘armatura di acciaio di pregiudizi e
convenzioni; quando essi si trovano alla testa degli
affari distribuiscono gli incarichi e con un sistema
di aggiramento tentano di difendere i loro protetti
e di escludere l‘uomo semplice. […] Tale stato di
cose ha il suo lato negativo per colui che dissente
da tutto ciò e che protesta con tutta l‘anima, con
tutto il cuore, e con tutta l‘indignazione di cui è
capace. Per conto mio rispetto gli accademici che
non sono come quelli là. […] Ora, una delle
ragioni per cui sono fuori posto, per cui per anni
sono stato fuori posto, è semplicemente perché
66
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
ho idee diverse da quelle dei signori che danno
lavoro ai tipi che la pensano come loro. Non è
una questione di vestito, come mi è stato
ipocritamente rimproverato, è una questione
molto più seria, te lo assicuro (ivi, p. 84).
A causa di questa sua propensione a fare solo ciò che
sentiva veramente contestando regole e consuetudini
inveterate dovette presto uscire tumultuosamente dalla
casa paterna, dove si sentì e fu sempre come un estraneo,
specie dopo la sua decisione di abbandonare una vita
lavorativa e un percorso formativo regolare, ma anche per
le stranezze comportamentali, gli atteggiamenti estremi, e
l‘inclinazione alla libertà di pensiero e di condotta di cui
egli fu sempre consapevole e orgoglioso:
Involontariamente sono diventato per la famiglia
una specie di personaggio impossibile e sospetto.
[…] Io sono un uomo istintivo, capace di fare cose
più o meno insensate, delle quali mi accade più
tardi di pentirmi. Mi succede anche di parlare e
agire un po‘ troppo rapidamente, quando invece
sarebbe meglio pazientare. […]. Ora, colui che è
assorbito da tutte queste cose [lo studio della
letteratura e dell‘arte, ndr], diventa scandaloso,
shocking per gli altri, e senza volerlo manca più o
meno a certe forme e convenienze sociali. Però è
un peccato prendersela a male (ivi, pp. 81-82).
Nonostante la sua sincera spinta umanitaria, che
dimostrò di possedere anche quando concluse la sua fase
di ricerca spirituale, si contrappose sempre alla religiosità
bigotta dell‘epoca incarnata per antonomasia dall‘austera e
limitata figura paterna. Di tale condizione, emblematico
risulta il quadro realizzato subito dopo la morte del padre
Natura morta con Bibbia (1885), in cui il pittore
contrappone ai colori smorti di una vecchia Bibbia e di
una candela spenta il giallo vivace di un piccolo libro
moderno posto accanto, La joie de vivre di Emile Zola,
uno dei suoi scrittori preferiti. Quei due libri vicini ma
molto diversi rappresentano bene il rapporto di Van Gogh
col padre e forse con l‘autorità in generale: la ricchezza e
la vitalità emotiva dell‘esistenza che si contrappongono ad
67
Lichtung. Luci
una condizione di freddezza e di insensatezza (il tutto
realizzato magistralmente nel quadro attraverso il gioco di
luce e il contrasto cromatico):
Papà non è un uomo per il quale posso sentire
quello che sento per te [il fratello Theo, ndr]. […]
Naturalmente gli voglio bene, ma si tratta di un
sentimento del tutto diverso da quello che provo
per te. […] Papà non può comprendermi e
seguirmi; e io non posso accettare il suo sistema,
che mi opprime e mi soffocherebbe (ivi, p. 108).
Forse proprio per questo mancato riconoscimento da
parte della sua famiglia fu sempre forte il suo bisogno di
riconciliazione e di calore umano, che finì per riversare
tutto sul rapporto con Theo, con le donne, con gli altri
artisti. L‘amore per una donna, ad esempio, era per lui
un‘esperienza radicale come tutte quelle che viveva, non
meno arricchente della pittura. Sentiva un profondo
bisogno di comunione, di comprensione e di autenticità
emotiva, aspetti che non riuscì mai a trovare durante la sua
ricerca spirituale nell‘ambito di un‘istituzione religiosa.
Cercò la soddisfazione di questo bisogno anche all‘interno
di un rapporto di coppia, un rapporto intensamente e
matericamente vissuto come la composizione dei suoi
dipinti:
Mi sentivo ancora raggelato fin nel profondo
dell‘anima dalla fredda parete di una chiesa, reale
o immaginaria che fosse. E non volevo rimanerne
stordito. Vorrei essere con una donna, mi dissi;
non posso vivere senza amore, senza una donna.
Non potrei apprezzare la vita se non ci fosse in
essa qualcosa di infinito, di profondo, di reale. […]
ho bisogno di una donna; non posso, non devo,
non voglio vivere senza amore. Sono un uomo e
come tale ho le mie passioni; devo andare da una
donna se non voglio diventare di ghiaccio o di
pietra. […] la scintilla di fuoco di cui
abbisogniamo è l‘amore, e non esattamente
l‘amore spirituale (ivi, p. 112).
Van Gogh fu un uomo continuamente alla ricerca della
propria vocazione, del proprio modo di stare con gli altri e
68
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
nel mondo, e con un bisogno di autenticità che lo
macerava continuamente. Diceva al fratello:
il mio tormento non è altro che questo: in cosa
potrò riuscire? […] A cosa potrei essere utile, a
cosa potrei servire? C‘è qualcosa in me; che è
dunque? (ivi, p. 88).
Quando individuava una strada che riteneva potesse
essere quella giusta vi si dedicava anima e corpo, mettendo
a rischio perfino la propria sopravvivenza (come durante il
periodo di predicazione presso il piccolo villaggio di
minatori). Quando poi sentì, evidentemente a ragione, di
aver trovato la sua vera strada, quella dell‘arte, vi si gettò
coerentemente a capofitto come a voler ricuperare il
tempo perduto nei precedenti peregrinaggi esistenziali e
con uno spirito di abnegazione ed un‘umiltà fuori dal
comune. Raggiunse con maggiore chiarezza questa
consapevolezza in uno stato di miseria assoluta, dopo aver
dormito all‘addiaccio per giorni vagando per le campagne
brumose del Borinage, costretto a scambiare alcuni suoi
disegni per qualche pezzo di pane. Fu l‘esito di un
percorso di scarnificazione, quasi un viaggio a ritroso verso
la semplicità e la ricchezza dell‘essere originario:
Ebbene, è stato proprio in questa miseria che mi
sono sentito ritornare la forza e mi sono detto «
nonostante tutto ritornerò ancora a galla,
riprenderò la matita che ho abbandonato nel mio
grande scoraggiamento e mi rimetterò a
disegnare». E da allora mi sembra che sia tutto
cambiato per me, e ora sono in cammino, e la
mia matita è diventata un poco più docile e
sembra diventarlo di più giorno per giorno (ivi, p.
91).
Sentiva di essere portato per l‘arte ― d‘altronde alcune
sue abilità comparvero relativamente presto nella sua vita,
come ci è dato sapere da alcuni schizzi giovanili
pervenutici ―, forse anche di avere un talento, ma questo
non rallentò mai la sua ansia di ricerca, di
perfezionamento, di autocorrezione, né il bisogno di un
confronto schietto e leale con altri artisti ed intenditori
69
Lichtung. Luci
d‘arte. Il dialogo ed il confronto con suo fratello, con
alcuni amici e soprattutto con altri colleghi, era per lui un
pensiero fisso, una condizione imprescindibile per la
crescita artistica e personale. Si sentiva un pittore, lo
dichiarava apertamente, ma intendendo con ciò non una
condizione di privilegio acquisita quanto piuttosto una
condizione di ricerca dolorosa, di esplorazione di linguaggi
diversi dal proprio, in un processo di evoluzione continuo
che prevedeva la necessità di confrontarsi e di apprendere
da scuole artistiche diverse, senza limitarsi a seguire un
sistema, per quanto riconosciuto o apprezzato.
Quanto a Mauve (pittore fiammingo sposato con
una cugina di Van Gogh, ndr), gli sono molto
affezionato e mi considero fortunato di poter
imparare da lui; ma non posso limitarmi a un
unico sistema o ad un‘unica scuola. Amo anche
altri che sono diversi da lui e lavorano in modo
del tutto diverso. Mauve si offende del fatto che io
abbia detto «sono un artista» cosa che non
intendo ritrattare, perché, naturalmente, un
significato aggiunto di questa parola è: «sempre
alla ricerca, senza mai trovare». Per me il termine
significa: «sto cercando, sto lottando, ci sono
dentro con tutte le mie forze» (ivi, pp. 118-122).
Van Gogh dimostra come l‘arte, quella autentica, non
sia un esercizio solipsistico di creazione quanto piuttosto
un‘attività legata alla dimensione dell‘altro, alla necessità di
comunicare agli altri il proprio Sé e di confrontarsi con
quanto di tale comunicazione gli altri recepiscono. Ciò che
lo faceva soffrire non erano tanto le critiche quanto la
difficoltà a trovare dei partner tolleranti e rispettosi capaci
di mettersi in relazione innanzitutto con lui, in quanto
uomo, e con la sua pittura in quanto suo prodotto più
autentico, invece che lasciarsi bloccare dalle sue ruvidità e
dalle sue eccentriche apparenze, oppure da pregiudizi sul
modo giusto o sbagliato di fare arte.
Questo bisogno di sincero contatto umano prima di ogni
cosa fu sempre centrale nella sua vicenda:
Quando si vive con gli altri e si è uniti ad essi da
un affetto sincero si è consapevoli di avere una
70
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
ragione di vita e non ci si sente più del tutto inutili
e superflui: abbiamo bisogno l‘uno dell‘altro per
compiere lo stesso cammino e la stima che
abbiamo di noi stessi dipende molto anche dai
nostri rapporti col prossimo […] Io sento il
bisogno di una famiglia, di affetto, di rapporti
cordiali col prossimo; non posso vivere privo di
tutto questo senza sentire un profondo senso di
vuoto (ivi, p. 79).
Per un uomo come lui alla strenua ricerca della propria
dimensione esistenziale, bisognoso di relazioni calde e di
comprensione, l‘indifferenza o il rifiuto degli altri erano
devastanti; anche perché quel rifiuto veniva solitamente
rivolto non solo alla sua arte e alle sue idee sull‘arte, ma
alla sua persona, a quel suo singolare modo di essere per
cui tanto aveva sofferto e lottato prima di definirlo. Ciò
che per lui era una conquista esistenziale, l‘esito prezioso
di un cammino verso l‘autenticità, molti lo scartavano con
ribrezzo. I rifiuti che ricevette in amore lo segnarono per
l‘ipocrisia e il disprezzo con cui vennero dati; come pure
lo segnò l‘intenzione di suo padre di farlo internare,
ancora giovane, per le sue scelte di vita. Il suo modo di
essere, lontano dal modus vivendi di molti suoi
contemporanei, era considerato follia. Così la difesa
strenua del proprio sentire più profondo e della propria
individualità e unicità come artista s‘impose fin dall‘inizio
della sua carriera e costituì un leitmotiv anche della sua
esperienza di pittore oltre che della sua vita.
Tuttavia, nonostante le asperità caratteriali Van Gogh
riusciva ad essere un amico fedele. Quando si legava ad
una persona credeva fermamente nel valore di quel
rapporto, portandolo avanti al di là di tutto, se necessario.
La pittura divenne sì, ad un certo momento, lo scopo
primario della sua esistenza, ma i rapporti interpersonali e
la necessità di calore umano costituirono sempre un
elemento altrettanto importante nella sua vita. Ciò è
testimoniato emblematicamente dalla sua relazione con la
prostituta Sien e il figlio di questa, di cui si prese cura
amorevolmente per un lungo periodo ― pur nella propria
miseria ― donando loro una casa ed un po‘ di tranquillità.
La relazione suscitò comprensibilmente scandalo e venne
71
Lichtung. Luci
duramente osteggiata dai suoi familiari, innanzitutto. Ma
lui continuò a crederci e a difenderla strenuamente, fino a
quando fu costretto a scegliere con dolore tra il suo
sostentamento ― personale e artistico ― garantito dal
fratello, e quell‘amore cosí singolare e disinteressato.
D‘altronde, l‘altruismo per Vincent era la via privilegiata
per reagire alla depressione e alle sconfitte della vita:
decise di diventare missionario e di dedicarsi agli ultimi
dopo la sua prima grande delusione amorosa in età
giovanile; poi si dedicò a Sien, dopo aver visto crollare le
proprie speranze di fidanzamento con la cugina Kee. E
che dire infine del suo desiderio, in un periodo
particolarmente critico della sua vita, di fondare ad Arles
la ―Casa gialla‖, un luogo da lui immaginato e progettato,
che doveva accogliere artisti per dipingere, dialogare,
confrontarsi e trarre reciprocamente ispirazione? Non era
forse terribilmente altruistico, cioè mirante al superamento
del proprio ego e delle proprie ambizioni solipsistiche, il
progetto di creare una comune di artisti che si
scambiassero stimoli e lavori, che si nutrissero
intellettualmente a vicenda? Questa casa doveva essere un
luogo di rinascita; gialla, del colore del sole fonte di vita (il
giallo divenne poi il colore di Van Gogh per antonomasia),
avrebbe visto alle pareti i suoi girasoli, anch‘essi gialli.
Quasi il sogno di un‘immersione, assieme ad altri artisti, in
un mondo di luce nel quale e a partire dal quale poter
creare.
Colpisce poi la forza nel credere ai propri sentimenti e
alle proprie idee, che probabilmente gli garantì la
perseveranza necessaria nel corso della sua poco
considerata carriera artistica e di un‘esistenza spesso cosí
grama; egli ne aveva già dato prova in gioventù, quando
l‘amore controverso ed unilaterale verso una cugina lo
portò a insistere per tre giorni coi suoi genitori solo per
avere un colloquio chiarificatore con lei (rischiando di
bruciarsi una mano per provare la serietà dei suoi intenti!);
oppure quando percorse quasi 70 chilometri a piedi per
raggiungere la casa di un pittore olandese suo
contemporaneo che ammirava, per poi tornarsene
immediatamente indietro senza nemmeno presentarsi,
72
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
colpito e deluso dall‘aspetto freddamente ordinario del
suo studio.
Questa
forza
caratteriale,
questa
potenza
dell‘immaginazione e del sentimento, indici di una
personalità estremamente vitale, egli le traspose nella
propria arte, ritengo primariamente attraverso tre
elementi: il particolare dinamismo della pennellata, il
carattere materico dei suoi dipinti, l‘uso del colore.
Che grandi invenzioni sono il tono e il colore! E
chiunque non impari a sentirli, vive lontano dalla
vera vita (ibidem, p. 107, corsivo mio). […] So per
certo che possiedo un istinto per il colore e che
mi verrà sempre di più e che la pittura l‘ho fin nel
midollo delle ossa (ivi, p. 161).
Per Van Gogh il colore era sentimento e vita. Egli
vedeva la realtà come un‘infinita gradazione di colore,
comprendendola essenzialmente sulla base dei colori.
Solo che possedeva un apparato percettivo, sia in termini
cognitivi che emotivi, decisamente più sensibile del
normale. Egli non solo percepiva in modo abnorme, ma
reinterpretava ed esprimeva la realtà in modo
assolutamente originale, sulla base del fortissimo
sommovimento interiore che gli stimoli fisici avevano
determinato in lui.
Voglio passare attraverso le gioie e i dolori della
vita per poterli dipingere dalla mia esperienza
personale (ivi, p. 127, corsivo mio). Vedo disegni
e dipinti nelle capanne più povere, nell‘angolo più
lurido. E la mia mente è attratta da queste cose
come una forza irresistibile. Le altre cose vanno
perdendo sempre più interesse e più me ne
libero, più rapidamente il mio occhio afferra le
cose per il loro valore pittorico (ivi, p. 153).
Van Gogh non voleva rappresentare la realtà,
avvicinarsi ad essa nel senso consueto del termine, cioè
attraverso un perfezionamento della tecnica figurativa
(almeno da un certo periodo della sua vita artistica in poi).
Egli voleva più che altro ricreare nel quadro la realtà così
73
Lichtung. Luci
come lui la vedeva, ossia attraverso il filtro delle sue
emozioni e della sua concezione coloristica.
Colorista è l‘uomo che sa subito come analizzare
un colore quando lo vede in natura e dice, ad
esempio: «quel grigio-verde è giallo, più nero e
blu». In altre parole, l‘uomo che sa trovare i grigi
della natura sulla sua tavolozza. […] è dovere del
pittore essere completamente preso dalla natura e
usare tutta la sua intelligenza nel suo lavoro per
esprimere il sentimento (ivi, pp. 155-156).
[…] Invece di cercare di rendere esattamente ciò
che ho davanti agli occhi mi servo del colore in
modo più arbitrario per esprimermi con intensità
(ivi, p. 287).
L‘uso estremamente personalizzato dei colori in tinte
pure e i contrasti cromatici tra complementari per
risaltarne la potenza determinavano effetti parossistici,
come quelli che probabilmente lui, non senza tremore,
riusciva in certi momenti a esperire. Un esempio
emblematico di questa acutissima suscettibilità cromatica,
usata per esprimere stati interiori estremi, è il dipinto Il
Caffè di notte (1888), in cui il pittore crea un effetto
allucinato della scena attraverso il forte e inquietante
contrasto tra i colori complementari - rosso e verde - delle
pareti, dei tavoli e della superficie del biliardo. La
corposità del colore presente un po‘ in tutto il quadro
serve a ricreare una scena realistica, come a dire che
quelle emozioni così intense rappresentate dai colori
accesi sono una realtà concreta, viva, possibile. La realtà
che il pittore voleva descrivere era quella dei Caffè, posti
dove secondo lui un uomo poteva rovinarsi, diventare
pazzo, perfino commettere dei crimini. E forse anche per
la prospettiva non proprio convenzionale del dipinto si ha
quasi l‘impressione di poter entrare nella scena e di essere
travolti da quell‘ondeggiamento percettivo ed emotivo reso
magnificamente anche tramite il giallo vibrante delle
lampade.
L‘utilizzo poco convenzionale del colore per esprimere
stati d‘animo estremi ed una visione non convenzionale
della realtà è visibile anche in alcuni ritratti; ne ricordo
74
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
uno tra i tanti che potrebbero essere presi ad esempio: il
Ritratto di Camille Roulin (1888).
In questo dipinto, l‘accostamento verde-rosso e gialloblu genera un effetto di rafforzamento reciproco esagerato
(contrasto che nelle riproduzioni che ho avuto modo di
analizzare è sempre ben lontano dall‘originale, capace
invece di suscitare un‘emozione di viva sorpresa quando vi
si posano gli occhi per la prima volta); questo effetto, unito
alle brevi pennellate che ricordano la tecnica
impressionista, lascia addosso a chi guarda la sensazione di
una straordinaria energia che effonde dalla figura del
ragazzino, probabilmente corrispondente all‘energia che
Van Gogh sentiva crescere dentro di sé alla visione di quel
soggetto. Ecco come egli, da un certo momento in poi,
riuscì a concepire il ritratto, secondo quella
reinterpretazione assolutamente soggettiva del dato reale:
Vorrei fare un ritratto di un amico artista, che
sogna i grandi sogni, che lavora come l‘usignolo
canta, perché è questa la sua natura. Quest‘uomo
dovrebbe essere biondo. E vorrei mettere nel
quadro la stima e l‘amore che ho per lui. Lo
ritrarrei dunque così come è, il più fedelmente
possibile per cominciare. Ma il quadro non
sarebbe terminato così; per finirlo farò il colorista
arbitrario. Esagererò il biondo dei capelli
arrivando ai toni arancione, ai giallo cromo, al
limone pallido. Dietro la testa, invece di
dipingere il muro banale del misero
appartamento, dipingerò l‘infinito, farò uno
sfondo semplice del blu più ricco, più intenso
che riuscirò ad ottenere. Questa semplice
combinazione, la testa bionda illuminata da
questo blu sontuoso, rende un effetto misterioso
come di stella nell‘azzurro profondo (ivi, p. 288,
corsivo mio).
Il colore diventa cosí l‘elemento che permette a Van
Gogh di realizzare la sua visione della realtà, di
permettergli di piegarla alle sue esigenze e tensioni
interiori.
Tuttavia, probabilmente era nel confronto con la natura
che Van Gogh riusciva a dare il meglio di sé. Dinnanzi alla
75
Lichtung. Luci
natura, come abbiamo detto, egli si ritrovava, riusciva a
calmarsi.
Comincio ad essere così abituato a rimanere
seduto direttamente davanti alla natura che riesco
a lasciare libera la mia sensibilità personale molto
di più rispetto all‘inizio; mi gira meno la testa, e a
volte mi sento più me stesso proprio quando
sono davanti alla natura (Lettere ad Anthon Van
Rappard, Einaudi, p. 224; corsivo dell‘autore).
[…] Non è il linguaggio dei pittori ma quello della
natura che bisogna ascoltare. Il sentimento che
suscitano le cose stesse, la realtà infine, è più
importante dei sentimenti che suscitano i dipinti
(Lettere a Theo, p. 153).
La natura era una sorta di madre a cui egli riusciva a
tornare per ritemprarsi dopo i momenti di
sconvolgimento emotivo o le crisi depressive. Ad essa si
abbandonava e da quel contatto spesso ne usciva più
fiducioso, più creativo, seppur solo:
Mi sono lasciato impregnare dall‘aria delle colline
e dei frutteti. La mia ambizione si limita a
qualche zolla di terra, al grano che germoglia. Un
uliveto, un cipresso… (Lettera a E. Bernard, p.
641).
Che altro si può fare, pensando a qualsiasi cosa
di cui non si capisca la ragione, se non guardare i
campi di grano? […] Io ho bisogno di vedere i
campi di grano e difficilmente potrei
sopravvivere a lungo in una città. (Lettera a
Willemien, p. 612).
Questo amore per la natura, questa propensione ad un
rapporto diretto ed intenso con lei si evincono dalle
dettagliate e delicate descrizioni di paesaggi che lo avevano
ispirato e dal desiderio di creare materialmente sulla tela
quella realtà così esteticamente preziosa che era riuscito a
cogliere di volta in volta. L‘impressione che spesso
lasciano nel lettore certi suoi resoconti (oltre che,
ovviamente, molti suoi dipinti) è che egli volesse quasi far
sorgere concretamente dalla tela quella realtà che
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
percepiva tanto intensamente ― direi quasi eroticamente
― e l‘unico modo che aveva per fare ciò era, più che la
forma della rappresentazione, il colore, nelle sue
componenti cromatiche e materiche.
Mi ha colpito con quanta solidità quei piccoli
tronchi fossero radicati al suolo. Iniziai a
dipingerli col pennello, ma le pennellate vi si
perdevano. Così le radici e i tronchi li strizzai
fuori dal tubetto e li modellai un poco col
pennello. Sì, ora che stanno lì, sorgono dal suolo,
profondamente radicati in esso (Lettera a Theo,
p. 160, corsivo mio).
[…] Ultimamente, mentre dipingevo, ho sentito
una certa potenza coloristica che si andava
risvegliando in me, più forte e diversa da quella
sentita finora.[…] ho cercato spesso di lavorare in
una maniera meno arida; ma ora che una certa
debolezza mi impedisce di lavorare nel solito
modo, sembra che potrebbe aiutarmi più che
ostacolarmi; ora che mi lascio andare un po‘ e
guardo un po‘ più di traverso le ciglia anziché
fissare intensamente e analizzare la struttura delle
cose, sono direttamente portato a vedere le cose
più come macchie di colore in contrasto
reciproco tra loro (ivi, p. 197, corsivo mio).
L‘allentamento dei nessi strutturali delle cose e
l‘aggiramento del modo convenzionale di rappresentarle e
perfino di percepirle, dovuto forse anche allo stato di
debilitazione fisica in cui egli si trovava spesso a lavorare
per le precarie condizioni economiche, facilitarono da un
certo momento in poi il sorgere di una nuova concezione
della rappresentazione. Del resto per lui i dolori e
l‘angoscia vera della creazione artistica avevano inizio solo
quando si abbandonava l‘ambito della descrizione, cioè
l‘aderenza convenzionale al soggetto rappresentato.
Questa concezione prevedeva dunque un superamento
della forma a favore di un uso soggettivo non solo dei
colori ma anche del pennello, un utilizzo che fosse
funzionale ad esprimere qualcosa del mondo interno del
pittore che nella realtà non c‘era.
77
Lichtung. Luci
Il pennello in quanto prolungamento della corporeità
dell‘artista doveva trasmettere qualcosa di lui, ad esempio
delle sue emozioni dinnanzi alla realtà rappresentata, ma
anche qualcosa di essenziale della realtà stessa ―
potremmo dire in nuce ― contribuendo, assieme al
carattere materico del colore, ad un‘emersione più viva del
soggetto dalla tela. Attraverso le pennellate ora lievi e
veloci, ora ruvide, ora vorticose, Van Gogh voleva
rappresentare il dinamismo e la vitalità sempre in
fermento dell‘esistenza che riusciva a percepire tanto
intensamente soprattutto dinnanzi alla natura, il suo
soggetto preferito. E riusciva talmente bene in ciò che
dinnanzi a Campo di grano con allodola (1887) si può
quasi sentire il vento uscire dalla tela, il lieve fruscio del
grano che ondeggia, la sua fragranza, e una profonda
sensazione di solitudine e di pace. L‘effetto è ottenuto
grazie alle delicate e precise variazioni cromatiche e all‘uso
del pennello; pennellate veloci prevalentemente verso
un‘unica direzione ― sia per dipingere il cielo con le nubi,
sia per dipingere il grano verde ― che generano un effetto
estremamente dinamico e armonico al tempo stesso.
La tecnica fu per lui un modo per arrivare meglio allo
scopo finale della ricerca artistica ― la scoperta e la
definizione dell‘autenticità di ogni artista ― e non il fine
principale da raggiungere per potersi definire un artista
vero. La tecnica doveva sottostare a quella che lui definiva
espressione dell‘artista, e se in qualche modo poteva
essere d‘intralcio al raggiungimento di quello scopo era
meglio abbandonarla. La tecnica poteva offrire i mezzi per
esprimere la propria sensibilità estetica, ma tali mezzi
dovevano essere usati in modo essenziale e parsimonioso
affinché non nascondessero l‘artista. Il rischio era
altrimenti che questi avrebbe potuto soffocare la propria
originalità e l‘autentica portata del proprio messaggio.
D‘altronde per Van Gogh l‘arte doveva essere azione
ispirata:
Nella vita come nel disegno bisogna a volte agire
con rapidità e decisione, prendere a fare una cosa
con energia e disegnare i contorni con la rapidità
di un lampo. E bisogna essere tanto compresi
nella cosa che in breve tempo si traccia sulla carta
78
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
o sulla tela ciò che prima non c‘era e in un modo
che uno non sa bene come sia riuscito ad
imprimerlo (corsivo mio, ndr). Non c‘è posto per
la riflessione o le controversie nell‘azione in sé.
L‘agire velocemente è una funzione dell‘uomo e
bisogna passarne di ogni sorta prima di essere in
grado di farlo. Il nocchiero a volte riesce a servirsi
della tempesta per poter portare avanti la nave,
anziché lasciarla affondare (ivi, p. 136).
[…]è l‘emozione e la sincerità del senso della
natura che ci conducono, e queste emozioni sono
talvolta così forti che si lavora senza accorgerci del
lavoro, e talvolta le pennellate vengono giù una
dopo l‘altra - e i rapporti di colori - come le
parole in un discorso […] (ivi, p. 279).
Certo, agli altri Van Gogh doveva apparire come un
uomo piuttosto strano; preso com‘era dalla sua arte, dalla
sua passione, dalla noncuranza per le convenzioni sociali
(prima tra tutte la cura di sé). Ancora giovane pareva già da
tempo vecchio e trasandato. Difficilmente tollerava le
imposizioni che derivano da attività regolamentate
gerarchicamente, come difficilmente sopportava le
costrizioni nel seguire un metodo che soffocasse la libertà
di esplorare e di creare secondo le proprie esigenze. Ciò
lo portò ad abbandonare diversi lavori e percorsi di studio
accademici e a incrinare dei rapporti di amicizia con altri
artisti. Di queste sue inclinazioni egli non fece mai
mistero:
In un certo senso sono lieto di non aver imparato
a dipingere, perché in tal caso potrei aver
imparato a trascurare un effetto come questo (gli
effetti cromatici e materici, ndr). […] ma trovo che
nel mio lavoro c‘è in fondo un‘eco di quello che
mi ha colpito. Vedo che la natura mi ha detto
qualcosa, mi ha rivolto la parola e che io l‘ho
trascritta. […] e non si tratta del linguaggio
addomesticato o convenzionale, che è oggetto di
studio, derivato dalla maniera o da un metodo
(ivi, p. 160).
[…] A volte mi è difficile rinunciare ad
un‘amicizia, ma se dovessi entrare in uno studio
79
Lichtung. Luci
per essere costretto a pensare e parlare di cose
senza alcuna importanza, a evitare qualunque cosa
seria e a non esprimere i miei veri sentimenti
sull‘arte, ciò mi renderebbe più malinconico che
se dovessi starne lontano del tutto. Proprio perché
mi piacerebbe trovare e conservare un‘amicizia
vera, mi è difficile adattarmi a un‘amicizia
convenzionale (ivi, p. 171).
Di certo da questo ed altri passi già citati si può notare
un certo assolutismo di vedute ed una tendenza a
idealizzare i rapporti di amicizia tra gli esseri umani; come
pure si può arguire una scarsa tolleranza alle critiche da
parte delle persone a lui più vicine, specie se rivolte al suo
continuo sforzo verso il raggiungimento dell‘autenticità nel
modo di essere uomo e pittore. Il bisogno di sostegno
emotivo e di approvazione dalle persone con cui stabiliva
legami significativi e l‘impulsività nelle reazioni che
seguivano sistematicamente alla frustrazione di quei
bisogni giocarono un ruolo importante nel compromettere
molte rapporti nel corso della sua esistenza. Del resto ciò
è coerente con il suo percorso di crescita, segnato dalla
pressione di un ambiente familiare bigotto che si ostinava
a non capire ― e forse non poteva ― le urgenze di verità
e di autenticità che caratterizzarono fin da giovanissimo il
Nostro.
Van Gogh poté sopravvivere, non solo materialmente
ma forse anche psichicamente, solo grazie al costante e
amorevole finanziamento del fratello Theo, l‘unico che gli
rimase affettivamente vicino per tutta la vita. Nonostante
quell‘aiuto, egli viveva comunque tra mille difficoltà
perché buona parte del denaro era usato per acquistare il
materiale per dipingere; e dipingendo moltissimo, era
costretto a lesinare sul cibo, i vestiti, e altri minimi confort.
Come si può pensare di vivere di sola arte, di nutrirsi e di
vivere quotidianamente di sola arte, si chiederebbero le
persone assennate?
Il fatto è che per Van Gogh la pittura non era solo
un‘attività artistica; essa era la vita stessa, la vita come a lui
si manifestava e il modo migliore per comunicare col
mondo. Egli amava lasciarsi trapassare dalla vita, passando
intere giornate all‘aria aperta, passeggiando per chilometri
80
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
immerso nella natura; si lasciava impressionare dalla
visione di un volto o dalla contemplazione di un paesaggio
e sentiva poi il bisogno di trasmettere ogni impressione,
ogni sentimento, ogni movimento interiore che da tali
visioni derivavano attraverso il suo pennello. I movimenti
forti, ruvidi e tormentati di esso, i colori che usava erano le
vibrazioni fisiche ed emotive che lo scontro con la realtà
generava in lui. Egli era in un modo nuovo, ingenuamente
e totalmente, un trasmettitore della potenza e del
dinamismo della vita, delle sue pulsazioni e della sua
bellezza violenta.
Tuttavia, nonostante certi estremismi e stranezze, dalle
sue lettere si può scorgere una lucidità, una
consequenzialità logica nei ragionamenti, una finezza di
analisi interiore, una consapevolezza delle proprie
difficoltà caratteriali, un trasporto emotivo ed un interesse
per l‘altro, che non sono tipici di un quadro di
deterioramento psicotico. Furono piuttosto, a mio parere,
le penose condizioni di deprivazione materiale in cui visse
per tanti anni (scarsa alimentazione, fumo e uso di alcool,
preoccupazioni quotidiane di sopravvivenza), la continua
sottovalutazione dei suoi ideali puri di amicizia o di
amore, e soprattutto l‘indifferenza verso la sua arte ― la
strada privilegiata e per lui più autentica di espressione ―
a debilitarlo moralmente e psichicamente, ad isolarlo
sempre più dal resto della comunità e, conseguentemente,
ad accentuare ancora di più la sua sensibilità fuori dal
comune ed i suoi nodi caratteriali più critici evidenti fin
dalla giovinezza (una propensione all‘impulsività, una certa
visione idealizzata dei rapporti interpersonali, una fragilità
narcisistica che lo inclinava alla depressione).
La salute psichica non è una condizione data a priori e
tendenzialmente stabile garantita da una favorevole
dotazione genetica o da alcune buone esperienze
educative dell‘infanzia. Questi elementi certo svolgono un
ruolo molto importante nel favorirne la comparsa e nel
mantenerla più a lungo nel tempo, ma non saranno mai in
grado di spiegare da soli la complessità di un essere
umano e della sua vicenda esistenziale. Ognuno di noi si
muove piuttosto lungo un continuum di equilibrio
psichico nel corso della propria esistenza e su di esso
81
Lichtung. Luci
influiranno in senso positivo o negativo anche le
condizioni di vita materiali e le risposte che l‘ambiente
familiare o sociale in senso ampio sapranno dare a
determinati bisogni personali, sia consapevoli che inconsci,
propri di uno specifico individuo durante le diverse fasi
evolutive della sua vita.
Nessuno può garantire per la propria salute mentale
essenzialmente sulla base del proprio passato; altri fattori
incidono, e c‘è sempre un punto di rottura che può essere
oltrepassato a causa dell‘impatto di eventi traumatici o di
condizioni di vita oggettivamente molti difficili da tollerare
per la psiche del singolo. Le condizioni materiali precarie,
la scarsa cura di sé, la mancata accettazione di molti e
l‘isolamento in cui Van Gogh si trovò a vivere per lunghi
anni probabilmente acuirono le sue fragilità e alterarono
progressivamente il suo equilibrio; tale condizione lo
portò a uscire sempre più spesso dal consesso umano coi
suoi accessi psichici, ma anche ad incrementare
ulteriormente la sua già profondissima sensibilità umana
ed estetico/percettiva fino a limiti intollerabili.
Vincent Van Gogh è una figura troppo articolata per
poterla definire tramite certe categorie che la psichiatria
tradizionale ha usato nei suoi confronti: schizofrenico,
epilettico, maniaco-depresso. Fu un uomo veramente
altruista, che non seppe mai colpevolizzare gli altri per le
proprie sventure, preferendo di gran lunga scagliarsi
invece contro sé stesso, anche violentemente, specie
quando si trovava isolato dal resto della comunità,
impossibilitato a quello scambio umano ed artistico per lui
tanto necessario. Affetto da un‘abnorme sensibilità nei
confronti della realtà sentiva di essere, ed effettivamente
era, un uomo le cui ―porte della percezione‖ furono
sempre molto più aperte rispetto alle persone comuni e
probabilmente anche rispetto a tanti altri artisti; tale
apertura favoriva l‘ingresso di un‘eccessiva quantità di
realtà cui egli in certi momenti non riusciva a resistere e
che lo portava ad una condizione esistenziale parossistica
che potremmo definire anomala.
L‘arte era l‘unico aspetto della vita e l‘unico strumento
col quale egli riusciva a liberarsi da questo eccessivo
ingresso di realtà, trovando un modo per elaborarla e
82
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
comunicarcela così come lui la percepiva. I contrasti
cromatici, le continue sovrapposizioni delle tinte pure, gli
addensamenti di colore, le sue pennellate così tortuose e
dinamiche non sono altro che ciò che in certi momenti
egli, esasperato e immerso nella solitudine, riusciva a
percepire e che cercava strenuamente di condividere per
allentare la tensione e l‘estasi, trattandosi di stati interiori
che rischiavano di fargli letteralmente scoppiare il cuore.
La sua pittura densa e materica era il simbolo della
consistenza della vita, della densità di significato e di
bellezza che egli vi percepiva e di un desiderio quasi
carnale di radicamento in essa; i colori così netti e decisi
rappresentavano la sua capacità di commuoversi
estaticamente dinnanzi alla realtà, di risuonare di luce di
fronte al suo continuo spettacolo; infine i movimenti del
pennello così forti e coraggiosi, a volte ruvidi,
simboleggiavano il continuo evolversi della vita, il suo
fluire ininterrotto che finisce per travolgere chi riesce ad
immergersi nella sua contemplazione.
Gli accessi di Van Gogh, a mio avviso, furono proprio
causati da un‘incapacità di contenere in certi momenti
questa sua mobilità interiore, questo pieno di vita che solo
l‘arte gli permise di esprimere ma che gli uomini che lo
circondavano, purtroppo per lui, non riuscirono a
comprendere appieno, rimanendo perlopiù abbastanza
indifferenti a quel tentativo di comunicazione, o
disprezzando la sua persona.
La sua produzione pittorica, specie quella dell‘ultimo
periodo, fu l‘estremo tentativo di reagire alla propria
solitudine alzando, per così dire, il volume della propria
voce interiore.
Si spinse nel Sud della Francia per trovare ispirazione, o
meglio «per vedere un‘altra luce, per vedere questo sole
più forte». Egli, immalinconitosi molto negli ultimi anni,
sempre più stanco e debilitato fisicamente, sempre più
disilluso relativamente al destino dei propri quadri e
dell‘arte in generale, ma pur sempre innamorato della vita
― «mi piace vedere gente e cose, e mi piace tutto ciò che
costituisce la nostra vita» ― ci regalò i suoi più grandi
capolavori, dipinti di un‘originalità cromatica e tecnica
assoluta.
83
Lichtung. Luci
Come in passato Van Gogh aveva più volte cercato di
sconfiggere la depressione e la solitudine rendendosi utile
agli altri, mettendosi evangelicamente al servizio degli altri
(dei poveri, degli sfruttati, degli emarginati), così, in
seguito, egli usò la sua arte per mettersi al servizio di tutta
l‘umanità, per donare e condividere la sua ricchezza
interiore cosí potentemente sbocciata, specie con l‘acuirsi
della sua sofferenza e della sua solitudine.
Ciò che lo prostrò definitivamente negli ultimi anni
della sua vita fu soprattutto la consapevolezza lucida della
cecità del mondo dinnanzi al massacrante lavoro di molti
artisti, la difficoltà dell‘arte di farsi ascoltare, di poter
essere apprezzata e riconosciuta, soprattutto se proponeva
coraggiosamente una sensibilità nuova; infine, la miseria,
l‘isolamento, l‘abbattimento cui spesso era destinato
l‘artista, in molti casi impossibilitato anche solo a
sopravvivere del suo lavoro. E i vistosi riconoscimenti che
alcuni pittori ottenevano solo molto tempo dopo la loro
morte, dopo essere vissuti in condizioni di povertà
assoluta, non erano per lui che ulteriori schiaffi della
società in faccia alla nobiltà dell‘intento artistico,
movimenti di pochi utili solo a speculare economicamente
su dei capolavori senza che da ciò potesse poi trarne
qualche beneficio chi l‘arte la praticava umilmente giorno
per giorno, senza che le persone comuni, o i poveri,
potessero poi accedere più facilmente alla conoscenza
dell‘operato degli artisti, esserne istruiti e goderne.
In uno dei suoi ultimi accessi Van Gogh cercò di
ingerire alcuni colori. Al di là dell‘alterazione psichica da
cui può evidentemente sorgere questo gesto, non è forse
possibile vedervi anche la drammatizzazione parossistica
di uno dei principali scopi della sua vita, quella di
comprendere così a fondo i colori della realtà da
appropriarsene, fino a divenire colore lui stesso? Quello
di identificarsi definitivamente con la potenza espressiva e
coloristica dell‘arte cosí come lui la intendeva?
E proprio sulla base di queste dinamiche e di un potente
simbolismo di fondo mi piace leggere il suo gesto estremo
che per me non fu un tentativo di suicidio convinto,
generato dall‘odio verso la vita e verso sé stesso, nutrito da
una perdita di interesse per gli aspetti piacevoli o
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
gratificanti dell‘esistenza. Forse egli cercò di colpire e di
sedare quel cuore che a volte più che pulsare scoppiava
letteralmente di vita dinnanzi alla grandezza delle cose; un
turbinio di sensazioni che solo attraverso l‘arte poteva
adeguatamente rappresentare e significare, in un cammino
di esplorazione sempre più estrema del colore e di sé
stesso. Un percorso, un‘evoluzione umana e artistica che
non era riuscito a condividere veramente con nessuno
come invece avrebbe fortemente voluto.
Ho appena mandato a Theo una dozzina di disegni
di tele a cui sto lavorando, mentre per il resto la
mia esistenza è vacua come quando, a 12 anni, ero
in collegio senza imparare niente di niente. Un
sacco di pittori che di certo non farebbero le mie
12 tele né in 2 né in 12 mesi stanno in città o in
campagna, considerati artisti e persone intelligenti.
[…] Tra artisti non sappiamo più cosa dirci, non
sappiamo se riderne o piangerne, e non facendo né
l‘una né l‘altra cosa, beh, ci riteniamo soddisfatti
quando abbiamo un po‘ di colore e di tela, che a
volte ci mancano, e possiamo almeno lavorare. Ma
qualunque idea di vita regolare, qualunque idea di
risvegliare in noi o in altri pensieri o sensazioni
dolci, tutto ciò deve necessariamente sembrarci
pura utopia. Cosí, benché l‘Angelus di Millet sia
stato pagato oltre mezzo milione di franchi non
credere che più anime percepiranno ciò che c‘era
nell‘anima di Millet. Oppure che borghesi o operai
cominceranno a mettersi in casa, per esempio, la
litografia di quell‘Angelus. Non credere che perciò
i pittori che lavorano ancora in Bretagna tra i
contadini ne ricaveranno più sostegno, meno
miseria nera come quella in cui è sempre vissuto
Millet, né soprattutto più coraggio. Spesso,
purtroppo, ci mancano il fiato e la fede. Però se
vogliamo lavorare dobbiamo assoggettarci sia alla
tenace crudeltà dei tempi sia al nostro isolamento,
a volte difficile da sopportare quanto l‘esilio. Ma di
fronte a noi, dopo gli anni così relativamente
perduti, stanno la povertà, la malattia, la vecchiaia,
la follia, e sempre l‘esilio.
[…] Che altro si può fare, pensando a qualsiasi cosa
di cui non si capisca la ragione, se non guardare i
campi di grano? Non dobbiamo forse, per lo
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Lichtung. Luci
meno, rassegnarci a crescere senza poterci
muovere, come una pianta, rispetto a ciò che
talvolta la nostra immaginazione desidera, e ad
essere falciati quando saremo maturi come il
grano? (Lettera a Willemien, pp. 610-612, corsivo
mio).
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Anno 3, Numero 10
Deleuze e Guattari: la letteratura
minore nell‘argot di Céline
di Maurizio Montanari
Una letteratura minore non è la letteratura d'una lingua
minore ma quella che una minoranza fa in una lingua maggiore.
G. Deleuze e F. Guattari, Franz Kafka, per una letteratura minore
Lettini postumi. Quella tentazione da evitare
Jacques Lacan esaminò a fondo la vita e le opere di
James Joyce, enucleando dai suoi scritti quell‘elemento, la
scrittura, capace di sostenere un soggetto in difetto della
metafora paterna, e pertanto legato ad una precarietà
dell‘essere più esposta ai venti della vita. Lo chiamò
sinthomo, ponedolo al di la del sintomo guaribile,
inaugurando una feconda prospettiva clinica grazie alla
quale fu possibile isolare, una per una, soggetto per
soggetto, quelle ‗doti‘ personali ( artistiche, espressive,
letterarie ) le quali fungono da strumento non organico di
supplenza e di sostegno. Al di la del giudizio artistico. In
altre parole, una medicina con la quale operare una sorta
di guarigione permanente di uno stato precario sottostante.
Nel film ―Fuga da Alcatraz‖ il cattivo direttore del
penitenziario fa portare via la tavolozza dei colori ed i
pennelli al detenuto Chester Dalton ‗Doc‘, che aveva fatto
della pittura il punto di tenuta di una insostenibile vita da
ergastolano. E lui, si mozza le dita. Se da un lato questo ha
permesso agli analisti una sorta di ‗innovazione‘ nel
trattamento clinico di tanti individui, potendo isolare
l‘elemento curativo da loro stessi fabbricato aiutandoli nel
renderlo più maneggiabile, dall‘altro ha inaugurato una
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Lichtung. Luci
moda piuttosto arida: stilare diagnosi ex post dell'autore
(defuntissimo) attraverso una lettura , rigorosamente a
posteriori, clinica e scarnificata, delle sue opere. Questo
passa per una grottesca ricostruzione di ‗setting‘ virtuali nei
quali l'artista diventa immaginario ‗paziente‘ e si sdraia sul
lettino ad uso della celebrità di chi sforna il libro. Il tutto
senza considerare che si diventa 'paziente' solo se c'è una
sofferenza che richiede. Questo è ciò che non va fatto.
Letteratura e testimonianza
Questa grottesca modalità vale massimamente per gli
scrittori. Deleuze e Guattari sostengono che Kafka e la sua
scrittura senza Edipo e senza la Lettera al Padre, siano di
difficile collocazione, ma puntano decisamente il dito
sull'eccessiva stratificazione clinica e analitica di ogni suo
gesto, di ogni sua movenza. Scrivono: ―Noi crediamo
soltanto a una politica di Kafka, che non è né immaginaria
né simbolica. Crediamo a una o più macchine di Kafka,
che non sono né struttura né fantasma‖43.
L‘eccesso di lettura dell‘invenzione personale di
ciascuno, sia esso un letterato o meno, la uccide.
Nevrotico o psicotico, insomma, chissenefrega.
Un esempio di ciò lo troviamo nel modo col quale
Albert Camus, ma soprattutto Louis Ferdinand Céline,
hanno utilizzato la scrittura per supplire ad una divisione
originaria, un esilio interiore che si è protratto per tutta la
vita. Si pensi a quanto Camus si presterebbe a questa
lettura ‗clinicizzata‘, in particolare il suo Jacques del Primo
uomo. Privo di padre, assoggettato ad un femminile
violento, sadico, e capriccioso. Viene salvato da ―un
padre‖, il professore, che interviene e pone un interdetto
43
G. Deleuze e F. Guattari. Franz Kafka, per una letteratura minore,
trad. it. di A. Serra, Quodlibet. 2010. Tutte le citazioni di D. e G. qua
contenute, provengono da questo testo.
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
tra lui e la nonna, aprendo al giovane la strada degli studi
che lo renderà Albert Camus. Se solo questo fosse, nulla
resterebbe delle atmosfere torride di separazione e
solitudine descritte ne La peste e Lo straniero. Algerino
vestito da francese, Parigino con nostalgia dell'Africa. Una
scissione ab origine, una rottura mai rimarginata , un senso
della separazione scritto nella pelle che lo porta a riflettere
sulla solitudine dell‘esiliato. ―Si può essere felice e
solitario?‖ , o ancora : ―Chi pensa alle loro solitudini?‖
scrive, mentre la peste divide in due la città, mariti da
mogli, fratelli da sorelle. Camus non poteva non sostenere,
sino alla fine, una riconciliazione tra la Francia occupante
e l‘Algeria, divenuta preda di estremismi. Nella sua ultima
produzione (raccolta negli scritti politici ―Mi rivolto
dunque sono‖) assiste impotente al conflitto tra una
nazione che deve essere liberata da un invasore feroce, ma
al contempo epurata dalla violenza integralista che
ripudiava in toto. E per questo scrive articoli, rilascia
interviste. Piega il suo francese colto alla comprensione di
fatti di attualità. Nel suo scrivere le due anime, sempre
conviventi di Camus, non possono che condurlo ad una
equidistanza propria di chi possiede un anima scissa tra
due appartenenze, egualmente forti ed egualmente
incisive. Egli dunque non può che ricucire, per tutta la vita
e nel corso di tanti suoi racconti, le sponde di due terre
entrambe native.
Molto più forte è stata la tentazione di ridurre l‘opera,
specie quella finale, di Louis Ferdinand Céline al canto
rabbioso di un vecchio isolato preda di un declino
paranoico condito da invettive deliranti. Quando Deleuze
e Guattari parlano di ‗letteratura minore‘ non intendono
una letteratura di una lingua minore, ma ―quello che una
minoranza fa di una lingua maggiore‖. Più di tutti il dr
Destouches incarnò questo spirito di riterritorializzazione
delle parole, desideroso di forgiare una lingua nuova,
89
Lichtung. Luci
inappartenente e volutamente non omogenea, un argot per
sfrondare un francese ritenuto ormai vecchio ed inutile,
inadatto a descrivere il declino di una guerra e di una
nazione. Decorato per i suoi meriti nella prima guerra
mondiale, seguirà un declino legato alle sue scelte, alla
scrittura dei Pamphlet, al suo antisemitismo. La sua
inappartenenza radicale, sia al regime di Vichy che alla
Francia Repubblicana, l‘esilio, e la condanna per
―indegnità nazionale‖ sono la lente attraverso la quale
leggere la trasformazione del suo argot, che da nuovo
strumento di lettura la realtà, muta in veicolo di odio puro
verso tutto quel mondo che gli negherà sino alla fine il
riconoscimento letterario ed umano. ―Di grande, di
rivoluzionario, non c‘è che il minore. Odiate ogni
letteratura da padroni‖ scrivono Deleuze e Guattari. Ecco
dunque la forza della lingua di Céline, portatrice di un
messaggio senza compiacimenti, lontana da lusinghe.
Scritta per testimoniare e non per apparire. ―Quanti stili, o
generi, o movimenti letterari, sognano una cosa sola:
assumere una funzione maggiore del linguaggio, offrire i
proprio servizi come lingua di stato‖ ricordano D. e G. .
Questo è l‘argot di Céline. Uno strumento per superare il
francese, ―una vecchia lingua, decrepita, disseccata dagli
accademici e dai gesuiti (...) che non riesce a prendere
dentro di se né la realtà, né la verità (….)‖44. La penna di
Céline dunque come potente strumento per sfrondare gli
abbellimenti inutili, una lingua nuova per narrare due
guerre ed i suoi sopravvissuti, per smascherare ogni
orpello manieristico dei suoi concittadini riducendoli a
due o tre movimenti, violenti, bassi e prevedibili. Un
linguaggio per inquadrare la tragicità di un secolo sul quale
Destouches, da buon medico che aveva visto centinaia di
poveri sofferenti, non poteva tacere. D. e G scrivono che:
―il secondo carattere delle letterature minori consiste nel
44
P. Badellino, Louis Ferdinad Céline in foto, Effepi, 2012.
90
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
fatto che in esse tutto è politica. Nelle ‗grandi‘ letterature,
invece, il fatto individuale (familiare, coniugale, ecc.) tende
a congiungersi con altri fatti altrettanto individuali, mentre
il contesto sociale serve solo da contorno e sfondo‖.
L‘argot è infatti una neo lingua utile a narrare il mondo
che il protagonista di Matrix ha la dannazione di vedere:
le orrende macerie fumanti dietro il plastico e fasullo
rivestimento che il sistema opera per gabbare i suoi
abitanti. Come sostiene Paolo Badellino: ―l‘argot è una
lingua che: ripesca nel diabolico calderone le parole una
ad una, quasi con le pinze, acquistando via via sicurezza,
esattamente come accade allo psicoanalista che si fa via via
più sicuro man mano che il paziente gli fornisce nuovi
elementi‖.45
Finita la guerra, attraversata la Germania distrutta,
patito l‘esilio a Sigmaringen, arriva l‘isolamento. La sua
condanna a morte letteraria da parte dell‘intellighenzia
francese che lo vuole ignobile e dimenticato. È a quel
punto che il suo argot muta in una ―lingua dell‘odio che ti
stende secco il lettore… l‘annichilisce!.... Una lingua che
non si fa con un glossario, ma con le immagini dell‘odio‖46.
Sprezzante verso la sua Francia ingrata, un tempo amata
sino a sprofondare nei deliri di arianesimo e purezza del
popolo francese, da reietto sceglie una sepoltura da vivo.
Chiuso in un esilio volontario dentro al ventre della
nazione, incombe su di essa con la sua invettiva. Il dr
Destouches perde ogni possibile Patria, ed il suo francese
compie un ultima trasformazione, divenendo solo un arma
per colpire e uno strumento per sopravvivere. Colpire in
modo sordo e trasversale la schiera dei suoi nemici, ormai
talmente fitta da costituire un assedio invincibile, anche
per la sua parola. Guadagnare un anticipo per comprare la
45
46
Ibidem.
Arts, febbraio 1957
91
Lichtung. Luci
lavatrice.47 ―Ciò che Céline ha fatto del francese‖ ―
ribadiscono D. e G,
―seguendo un'altra linea,
l‘esclamativo spinto all‘estremo. L‘evoluzione sintattica di
Céline: dal Voyage a Mort à crédit, poi da Mort à
crédit sino a Guignol‘s band I ― dopo, Céline non
ebbe più niente da dire, a parte le sue disgrazie, non ebbe
cioè più voglia di scrivere, aveva solo bisogno di soldi. E
vanno sempre a finire così le linee di fuga del linguaggio: il
silenzio, l‘interrotto, l'interminabile, o peggio. Ma che
creazione folle intanto, che macchina di scrittura! Tutti
lodavano ancora Céline per il Voyage quando lui era già
molto più avanti, in Mort à crédit, poi nel prodigioso
Guignol‘s Band,in cui la lingua aveva ormai solo
intensità‖.
Leggendo in filigrana Da un Castello all‘altro si ha a
che fare con una scrittura che pare aver perso ogni
possibile speranza di riscatto, di riabilitazione. Parole che
non trovano più la forza di fare sosta in quella pietà e
passioni che solo uno stolto non può non scorgere nel
Viaggio al termine della notte48. Si tratta di una raffica ad
47
D. Ciò forse vuoi dire che scrivere è un bisogno. R. Sì, ma per colpa
della lavatrice. La moglie pensa: “Una lavatrice, una che funziona,
costa 200.000 mila franchi…” Lei ci pensa e, dato che è femmina,
mica lo dice che ci pensa. Il marito, lui, sa scrivere, articoli qua e là…
Lei pensa sempre alla lavatrice. E un bel giorno davanti alla vetrina
gli fa: “Guarda, è uscita l’ultima Sagan, se ne parla tanto. Quante
che ci guadagna a copia? 20%. Ah, 100 franchi a libro)?” Pensa
sempre alla famosa lavatrice, lei!… Egli fa, a lui: “Senti, tu non
potresti?… − Oh, io, no, lo sai bene − Oh, ma sì che lo potresti fare
un romanzo uguale. È mica così straordinario, l’ho letto”. Allora, via!
Ecco che ne arriva un altro, di romanzo! Spedito a Gallimard… Ogni
anno zavorra di quattrocento romanzi, il Gallimard. Li butta nella
Senna! Nessuno che se li fila! Valgono su per giù come tutti gli altri,
ma non escono… Una lotteria! Intervista a L.-F. Céline, di Madeleine
Chapsal, http://lf-celine.blogspot.it/
48
“Buona, ammirevole Molly, vorrei se può ancora leggermi, da un
posto che non conosco, che lei sapesse che non sono cambiato per lei,
che l'amo ancora e sempre, a modo mio, che lei può venire qui quando
vuole a dividere il mio pane e il mio destino furtivo. Se lei non è più
bella, ebbene tanto peggio! Ci arrangeremo! Ho conservato tanto della
sua bellezza in me, così viva, così calda che ne ho ancora per tutti (...)
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
alzo zero, contro tutto e tutti, l‘ultima bomba a rancore
esplosa consapevole che nulla e nessuno mai gli ridarà il
posto agognato. Come ben scrive Francesco Biamonti :
―ce l‘ha con tutti, in definitiva: con Sartre, con Aragon, con
Vailland che aveva giurato di ucciderlo, con Elsa Triolet,
con Claudel, con Montherlant... I suoi nemici sono
dappertutto, dalla Costa Azzurra alla Scandinavia, nelle
case editrici, nel bunker di Berlino‖. È lo stesso Céline
che lo confessa : ―I nazisti mi detestano al pari dei
socialisti, e i comunisti anche, senza contare Henri de
Régnier o Comoedia. Si intendono tutti quando si tratta di
sputarmi addosso. Tutto è permesso tranne che dubitare
dell‘Uomo. Allora non c‘è più niente da ridere. Ho fatto la
prova. Ma io me ne frego, di tutti. Non chiedo nulla a
nessuno‖49.
Nel 1945 appare su ―Le Temps Modernes‖ uno scritto
di Jean-Paul Sartre dal titolo Ritratto di un antisemita.
L‘obiettivo de l‘autore de La Nausea è Louis Ferdinad
Céline, il Bardamu di Viaggio al termine della notte,
tacciato di collaborazionismo e di simpatie filonaziste. La
deriva antisemita di Celiné sancita dalla sua produzione
(Bagatelles pour un massacre, 1937, L‘École des cadavres,
1938 e Les Beaux draps, 1941) non è mai stata messa in
discussione dai suoi cultori e tantomeno dai suoi
detrattori. Nell‘Aprile del 1945 viene spiccato da un
tribunale francese un mandato di cattura per Céline
accusato di ‗tradimento‘. Al netto di questa verità, Céline
non fu mai organico al regime di Vichy, e nemmeno
all‘establishment nazista. Tra il 1941 e il 1944 pubblicò
infatti un articolo, venticinque lettere, e tre interviste. La
se la morte, domani, venisse a prendermi, non sarei, ne sono certo,
mai tanto freddo, cialtrone, volgare come gli altri, per quel tanto di
gentilezza e di sogno che Molly mi ha regalato nel corso di qualche
mese d’America”.
49
Céline a Elie Faure, 1934.
93
Lichtung. Luci
sua inappartenenza strutturale si evince dal fatto che
alcune delle sue opere vennero ostacolate sia dal Governo
di Vichy che dai tedeschi. Questo non gli eviterà di essere
messo all‘indice, allorquando iniziarono le epurazioni dei
‗collaborazionisti‘ che avevano, a vario titolo, sostenuto il
governo di Vichy. Furono 40.000 i francesi messi
all‘indice, alcuni dei quali condannati a morte.
Il ―Conseil National des écrivains‖ fu l‘organo deputato
a stilare un elenco dei libri impubblicabili perché scritti da
intellettuali compromessi con il regime. La voce di Sartre
fu assai determinante nel volere la messa al bando di
Céline, desiderando che Destouches venisse ignorato al
suo ritorno in patria.
Nel 1947 dopo aver appreso della pubblicazione del
testo di Sartre (che recava le parole: «Se Céline ha potuto
sostenere le tesi socialiste dei nazisti, è perché era pagato»)
prende carta e penna e scrive A l‘agité du Bocal, violento e
dissacrante pamphlet rivolto contro Sartre, nel quale, tra le
altre cose mette in luce cosa nasconda la veemenza delle
accuse rivolte contro di lui: Sartre, il censore, il resistente,
aveva avuto la possibilità di mettere in scena una sua opera
teatrale Les Mouches in piena occupazione al teatro
cittadino, con presenza di militari tedeschi. La frase «Il
fallait bien vivre» pronunciata da Simone de Beauvoir,
compagna di Sartre, segna un periodo ben stigmatizzato da
Frederic Spotts nel suo libro The Shameful Peace: How
French Artists & Intellectuals Survived the Nazi
Occupation. In questo testo troviamo le parole di Sartre e
della compagna ―Un sottile veleno corrose le nostre
migliori intenzioni» (Sartre); «Al principio ebbi un solo
pensiero, non fare la fine del topo» (de Beauvoir). Picasso
che continuò a lavorare sotto l‘occupazione nazista
disse:«Passivamente, non cedo al terrore e alla forza, ma
non è coraggio, è inerzia‖. Quanto a Matisse, lamenta
Spotts, ―nel suo rifugio di Vence non avvertì nemmeno il
problema morale della Resistenza‖.
94
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
Jean Paul Sartre, il più forte dito puntato contro gli
scrittori collaborazionisti, non riuscì a nascondere allo
spirito di Céline le sue pecche.
Sartre, che prese posizione a favore di Israele al
momento della creazione dello Stato ebraico (si veda:
Riflessioni sulla questione ebraica del 1946), puntando il
dito contro l'antisemitismo, si accomoda volentieri sulla
cattedra parigina di Henri Dreyfus-Le Foyer, professore
ebreo allontanato dall‘insegnamento a causa della politica
antisemita di Vichy. La de Beauvoir (la paladina del
femminismo ante litteram) dirottava sul letto del ‗Cobra‘
(nominativo col quale chiamava Sartre) le studentesse più
accondiscendenti, oltre a lavorare per la radio nazionale
francese controllata dai tedeschi. Ecco allora, lettere di
odio. Lingua per colpire e smascherare le oscene verità:
―Tenia (...) e filosofo, per giunta… fa un po‘ di tutto…
Sembra che, in bicicletta, abbia anche liberato Parigi. (…)
Voi avete avuto comunque il vostro piccolo successo al
―Sarha‖, sotto lo stivale, con le vostre Mouches‖.
Ancora: ―Elenchi? Elenchi? A quando quello integrale,
nominativo, di tutti quelli che hanno guadagnato
qualcosa con i tedeschi? Eccolo il vero elenco dei
collaboratori‖50. Ultima torsione del suo francese, parole
violente usate per strappare quel velo di ipocrisia che lo
condanna all‘oblio, in tempo di vincitori e vinti. Il curatore
del blog http://lf-celine.blogspot.it/, Andrea Lombardi,
sostiene che: ―Oltre la prima rivoluzione dell‘argot, Louis
Ferdinand Céline supererà l‘impasse creativa dopo Morte
a credito con l'ancor più straordinaria creazione della
‗petite musique‘, la scrittura emozionale, dei puntini di
sospensione e esclamativi per tentare di replicare pause,
enfasi e ritmo del parlato ‗tridimensionale‘ trasferendolo
con uno sforzo stilistico immane nel ‗bidimensionale‘ del
segno sulla pagina. ‗Rivoulzione‘, quest'ultima, che LFC
50
L.-F. Céline, À l’agité du bocal. In «La lettre de Céline sur Sartre et
l’existentialisme», 1 48.
95
Lichtung. Luci
stesso definirà sempre di gran lunga superiore a quella da
lui fatta con argot/Viaggio. Il passaggio da Viaggio/argot
alla Trilogia/ ‗petite musique‘ ha il suo ponte proprio nello
stile dei ‗famigerati‘ pamphlet, che risultano cosí affatto
opere minori dal punto di vista stilistico‖.
La sua eredità letteraria, sepolta a Medoun nella tomba
col vascello, è ingombrante. Inappartenente, indocile,
libera e refrattaria a qualsiasi ereditiero che abbia provato
nel corso degli anni a farla propria. La sua ultima
produzione è un pacco di lettere da un esilio volontario,
una maledizione verso tutto ciò che gli stava attorno.
Gonfia di una disperazione non addomesticabile, resta
come un monito, una cicatrice mai richiusa e sanguinante ,
a ricordare come solo una letteratura alta , fatta cioè del
medesimo impasto pulsionale del suo autore, lontana da
inchini o salamelecchi col potere, sia degna di tal nome.
Il primo Luglio 1961 Céline muore. Muore in una
solitudine colma di rancore e un deserto rotto solo dalla
moglie Lucette e dal gatto Bebert. Muore per come è
sempre stato, un parvenu della letteratura. Muore
mandando ―al diavolo libri e tirature! M‘è capitato di
scrivere quel che mi passava per la testa, però io non
voglio essere altro che un semplice medico di benlieue‖51.
Muore solitario ma, a differenza di Camus, per nulla
felice. Il suo argot muore con lui.
Tanto materiale ancora, oltre a quello che ho utilizzato,
lo si trova su http://lf-celine.blogspot.it/, curato da Andrea
Lombardi.
51
Intervista a Semaine du Monde, 23 Luglio 1954.
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Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
Adorno, Fortini/Gryphius, Alciati
di Giacomo Conserva
Gli scritti sociologici di Adorno
A Th.W. Adorno è stato molte volte rimproverato lo
stile (oltre il contenuto): per obscurum ad obscurius ―
non solo analisi complicate, concetti non autoevidenti, un
idiosincrasico modo di argomentare ― ma anche un
lessico spesso desueto, frasi aggrovigliate, giochi di parole.
Brecht parlava di mandarini cinesi, di albergo sull‘orlo
dell‘abisso: il tutto infatti si univa ― pur nel deciso
antinazismo ― ad una presa di distanza da tutti gli
schieramenti in lotta nel periodo delle guerre civili e delle
guerre mondiali. Naturalmente, p.e. Fortini riconosceva
non solo una prefigurazione da parte della Teoria Critica
dei problemi della società tardocapitalistica, ma anche una
omologia possibile fra lo stile ed il contenuto: l‘aspirazione
ad una liberazione da realizzarsi non solo a livello utopico
(o tanto meno da delegare a istanze autoritarie e differire
sine die) ma anche qui ed ora ― nel discorso, nella
scrittura (nel comportamento); è del resto nota per
esempio l‘affinità fra una figura come Walter Benjamin
(strettamente associato ad Adorno) e la mistica.
Bene: posto tutto questo, fare i conti con gli scritti
sociologici empirici di Adorno è un‘esperienza del tutto
imprevista e imprevedibile: studi condotti in gruppo, sulla
base di una ricca messe di interviste e dati, oltre che di una
profonda successiva elaborazione; e ― fra le altre cose ―
di una chiarezza cristallina. Le tecniche propagandistiche
di Martin Luther (un predicatore americano di estrema
destra degli anni ‘30), la mentalità autoritaria (un colossale
97
Lichtung. Luci
progetto collettivo degli anni ‘40, cui collaborò, redigendo
infine materialmente parecchi dei capitoli), colpa e difesa
(sulla elaborazione ― o rifiuto di elaborazione ―
dell‘esperienza del nazismo nella Germania del primo
dopoguerra), le stelle sulla terra (analisi della colonna
astrologica di un quotidiano USA).
Forse il mondo è più complicato di quanto ce lo
raffiguriamo. C‘è stato chi (Habermas) ha pensato di
liquidare Adorno e Horkheimer come discepoli di
Nietzsche (la fonte di tutti i mali), portatori di un
irrazionalismo di fondo immaturo e pericoloso. Più
banalmente, li si può semplicemente considerare passati,
superati, andati. Quindici anni dopo il crollo dell‘URSS, e
dopo pure il dispiegarsi della barbarie del Nuovo Ordine
Mondiale, si può forse dire qualcosa di positivo sulla
saggezza delle loro impostazioni politiche. E gli scritti
sociologici insegnano che l‘aspirazione a un Altro (cfr.
Dialettica negativa) non necessariamente vuole dire non
sapere o non volere fare i conti con la realtà.
Th.W. Adorno, Soziologische Schriften, II (1,2)‘, Suhrkamp Verlag,
2003.
T.W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, 2004 (1966).
J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, Laterza, 2003
(1985).
F. Fortini, Il passaggio della gioia, pp. 274-280, ‗Saggi ed epigrammi‘,
Mondatori, 2003 [è del ‘67; prima sui Quaderni Piacentini, poi in
‗Verifica dei poteri‘].
Fortini, Gryphius
Vai via, getrübtes jahr: un verso di Fortini: da ―anno
‘64‖, in ‗Ospite ingrato‘ e poi, credo, nell‘Oscar di Poesie
scelte.
98
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
L‘anno sessantaquattro
1.
Correvo in auto la luminosissima Brianza
e foglie rotolavano pulite nella danza
d‘aceri e tigli brune e gialle precipitose
tra cementi d‘officine piccole e stecchi di rose
robinie color volpe campings semidivelti
i tavoli dei bar ristoranti capovolti
le piume d‘un coniglio nella palta
di sangue impresso e fisso sull‘asfalto
le operaiette dei turni affollate allo spaccio
e lassù nel turchino prealpino di ghiaccio
la notizia che l‘anno finiva.
2.
Va‘ via, getrübtes Jahr, va‘ via mit deinen Schmerzen.
Stanotte affili Bórea le trombe delle feste.
Battano gli impiantiti di dancings e di casolari
le impiegate tenui e le dure comari.
E anche la ubriaca magra dei muratori
che tra spini di siepe scuote a sfida i colori
del viso decorato di nero bianco e rosso
e la gonna che striano erba e creta di fosso
anche lei calchi e stritoli l‘annata sotto il tacco
quando dai poli sibili di radio la distacchino
e dormire nel grigio che viene.‖
Lessi questo testo nel ‘74 ― una figlia appena nata,
caos nella mia mente e nella mia vita. Quanto erano
martellanti le parole, eletto il lessico, improbabili e
indispensabili gli accostamenti; quanto plumbeo, dopo la
foga dei periodi, il tocco di campana dei versi conclusivi
delle due strofe. In mezzo, inatteso e immotivato, lo stacco
dell‘inizio della seconda strofa: alcune misteriose parole
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Lichtung. Luci
tedesche ― un richiamo a una dizione ‗sublime‘,
dichiaratamente barocca (―affili Borea la tromba delle
feste‖); mille migliaia di anni luce lontano dallo squallore
accatastato del paesaggio e delle scene evocate, e dalla
brutalità della disperata conclusione (mentre scrivo queste
righe, mi viene in mente. ‗no future no future no future‘).
Le parole tedesche venivano da Gryphius, scoprii da
qualche parte: il poeta tedesco del ‘600, delle devastazioni
della Guerra dei 30 Anni ― l‘eroe di Walter Benjamin
nel suo saggio sull‘origine del dramma tedesco (saggio
posto sotto la costellazione della malinconia e della rovina
― e, quindi, di una paradossale messianica attesa).
Qualche mese fa, in un sito internet (la rivoluzione
tecnico-scientifica!) dedicato a ad Andreas Greif,
autonominatosi Gryphius, ho trovato la poesia. Una
emozione molto forte, naturalmente. E una scoperta,
pure. Fortini, dalla sua posizione di rivoluzionario
calvinista, di moralista aspro, dice: Vai via, anno affannato;
vai via con i tuoi dolori. E la poesia si conclude con il nulla
che avvolge e inghiotte l‘individuo (come il neocapitalismo
stava avvolgendo il mondo di Fortini allora).
Gryphius dice qualcosa d‘altro:
Fine dell‘anno 1648
Vattene via, anno affannato! Vattene via con i miei dolori!
Vattene via con la mia angoscia ed ammassata pena!
Porta via tutti questi cadaveri! Tempo costretto, passa
e porta via con te il peso di questo cuore.
Signore, cui la nostra esistenza è come un chiacchierio e
uno scherzo,
non cade via il mio tempo come fusa neve?
Lascia allora, mentre il mio sole è ancora al mezzogiorno,
100
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
che io non scompaia come una candela che si è esaurita.
Signore, ci sono stati abbastanza colpa,
angoscia e sofferenza a sufficienza sono state sopportate,
concedi adesso un poco di tregua, che io possa fare i conti
con me stesso.
Concedi che questo pugno d‘anni
lieto li viva prima della mia tomba.
Non rifiutarmi il tuo dono d‘amore.
La differenza da Fortini è abissale: (intanto c‘è da dire
che il riferimento ai cadaveri è del tutto puntuale: altrove
egli parla di trincee, città in rovina, fortini, macchine
d‘assedio, campagne devastate, corpi fatti a pezzi) ― de
me fabula narratur
[si parla di me] ― sono
corresponsabile, non solo giudice o vittima. E la speranza
riguarda me, non solo gli altri (il proletariato, i dannati
della terra, chi vogliamo).
Forse c‘è una lezione in tutto questo.
F. Fortini, Saggi ed epigrammi, a c. di L. Lenzini, Mondadori 2003, p.
971
http://www.lehrer.uni-karlsruhe.de/~za874/homepage/gryphius.htm
A. Gryphius, ‗Dramen‘, Deutscher Klassiker Verlag, 1991 (con
vastissimo commento).
The Sex Pistols, ―God save the Queen‖, Virgin, 1977.
Andrea Alciati
Il Libro degli emblemi di Andrea Alciati (1531, poi
innumerevoli altre edizioni e traduzioni) fu un libro
fondamentale; lo stile, i temi, i motivi furono alla base
della fioritura enorme di opere di emblemi e imprese che
caratterizzarono la civiltà europea nella seconda metà del
101
Lichtung. Luci
‘500 e nel ‘600. Un titolo ― un‘immagine ― un
commento (o narrazione): il tutto al servizio di una visione
allegorica del mondo che Benjamin è stato fra i primi ad
indagare; un mondo ossessionato dalla caducità e dalla
vanità di ogni gloria e gioia terrena. Ma in Alciati (che fu
un eminente giurista e docente, e operò fra il ducato di
Milano, la Francia, la Germania, e di nuovo l‘Italia, a quel
punto saldamente dominata dagli Asburgo) il quadro è
molto diverso: pace, equilibrio, misura; i mali del mondo
esistono, vengono visti e analizzati ― ma ragione e
speranza permettono di guardarli per quello che sono, nel
loro venire avanti e nel loro scomparire. Le immagini
(aggiunte a posteriori) sono paesaggi rinascimentali, scene
mitologiche, exempla ― con un verismo tranquillo (e
duro, a volte) che non sarebbe durato molto. La lingua è il
latino degli scritti dotti del Rinascimento ― piena però di
un eloquio basso e tecnicismi, con un fermo aggancio al
mondo effettuale.
Dagli epigrammi greci (che Alciati collaborò a tradurre
in una edizione inizio ‘500 della Antologia Palatina) viene
desunta la capacità di riassumere in pochi tratti i dettagli di
una situazione interpersonale e di una storia, e di
collocarla in un mondo ben preciso (Quest‘albero, questa
curva del sentiero, questa pietra, questa montagna).
L‘enorme erudizione classica che sta a monte è non un
peso ma, come negli Adagia di Erasmo (suo
contemporaneo), uno strumento lieve e preciso per
scandagliare gli eventi.
Tutto ciò appunto non era destinato a durare (il
traduttore di Erasmo in francese venne condannato al
rogo a metà del ‘500). Ben altro tono venne assunto dalle
culture in lotta al tempo delle guerre di religione e della
guerra dei 30 anni (per non parlare della conquista delle
Americhe). ―Con i suoi lutti, con i suoi danni/ la guerra è
tanto tempo che c‘è‖.
102
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
Pure, un po‘ di quella serenità dura.
Andrea Alciati, A book of emblems. – The Emblematum Liber in
Latin and English, a c. di John F. Moffitt, Mc Farland, 2004.
Walter Benjamin, Il drama barocco tedesco, Einaudi. 1980 (1928).
Albrecht Schöne, Emblematik und Drama im Zeitalter des Barock,
Beck, 1993 (1a ed. 1964).
Erasmo da Rotterdam, Adagia, Salerno, 2002 (scelta parziale, con il
testo a fronte).
http://www.mun.ca/alciato/index.html
http://www.ces.arts.gla.ac.uk/html/AHRBProject.htm
Emblema CLXXVIII (177 nell‘edizione di Moffitt)
Ex bello pax
Dopo la guerra, la pace
Ecco un elmo, portato un tempo da un intrepido
soldato, e spesso cosparso del sangue dei nemici. Adesso
che c‘è la pace, ha permesso alle api di usarlo come
alveare, e i favi producono dolce miele. Che le armi
103
Lichtung. Luci
rimangano da parte; che sia lecito iniziare la guerra solo
quando non si possono altrimenti godere le arti della pace.
104
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
Wittgenstein: un monologo*
di Sonia Caporossi
ad Emilio Garroni
Descrivi l‘aroma del caffè.
L. Wittgenstein
Quaderno privato. Da non pubblicare, a rischio di
sembrare matto, o quantomeno, retrivo.
Appunto disordinato, numerato alla rinfusa.
Giorno: corrente. Rilettura: passata. Lettori posteri
presunti: il minor numero possibile.
Titolo del paragrafo, se occorre un titolo.
Inutilità di una metafisica che graverà per sempre sulle
nostre teste.
Sto meditando in questi giorni sull‘essenza metafisica
del linguaggio. In definitiva, sulla sua connaturata
ontologia. Tautòs lògos. L‘essenza definitoria interna alla
struttura stessa del linguaggio, qualsiasi linguaggio, che
nasce per forza di cose, come conseguenza, quando ad
un significante come immagine acustica facciamo
corrispondere storicamente e quindi, arbitrariamente, un
determinato significato o valore concettuale.
Occorre cominciare a buttar giù qualche paradossale
contraddizione. Bene, diamoci pure da fare, cercando di
evitare, il più possibile, citazioni dall‘Isagoge di Porfirio.
Aristotele proprio non posso sopportarlo.
***
105
Lichtung. Luci
Paragrafo Primo. La metafisica del linguaggio
PREMESSA
CONCETTUALE,
IN
FORMA
DI
POSTULATO
A) È ontologicamente impossibile parlare della
metafisica fuori da termini, canoni e confini metafisici.
Perché?
È come indagare le motivazioni private e personali
che un cane ha di mordersi, ogni giorno un po‘, la coda.
Non possiamo sapere fino in fondo perché lo fa;
possiamo, al massimo, analizzare come lo fa. Nel
momento stesso in cui indaghiamo il motivo per cui un
cane si morde la coda, non stiamo facendo altro, in
definitiva, che applicare il nostro sistema di riferimento
mentale etologico ai parametri di comportamento di un
individuo vivente che non pensa e non ragiona come noi.
Pur tuttavia, la necessità dello scoprire il perché è ciò che
ci spinge in quanto umani.
E l‘operazione in sé è quantomeno pretenziosa.
Proposizione 1
Tutto il linguaggio è metafisico.
E questa è una bella crassa, grassa, giuliva oca
tautologica.
È come dire: Dio è Dio. Dio è divino. Dio è se stesso.
Usciremo mai fuori, noi poveri esseri umani, dalla
necessità psicologica del tì estìn? Non credo sia possibile.
Il tì estìn ci domina. Socrate continua pedissequamente a
penetrarci fra i lombi con la mollezza della mente che si
traveste da forzuta energheia. La carne dell‘orrore
tautologico. L‘orrore, l‘orrore del colonnello Kurtz
applicato alla pretesa filosofica di sapere. L‘orrore
intrinseco e umano, troppo umano del linguaggio.
106
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
Lo stesso orrore che è in Dio. L‘orrore stesso che è
Dio.
Prendiamo come esempio l‘assunto medievale:
aliquid stat pro aliquo. Nel rinviarsi incessante dei segni,
nell‘ondeggiare mellifluo del linguaggio in seno al senso,
nasce in noi la possibilità della comunicazione. Niente di
più confortante della possibilità di potersi capire a
vicenda. E allora, mi si dirà, dove sta l‘orrore in tutto
questo? Se in definitiva, nell‘uso quotidiano e
comunitario delle definizioni, ci capiamo a vicenda?
È un po‘ come quando Derrida parlava di
decostruzione come di una specie di movimento che la
filosofia compie intorno ed ai margini della metafisica,
non potendosi mai pienamente sbarazzare di essa. E poi
gli storici della filosofia, per questo suo atteggiamento
analitico – critico terroristico (da buon algerino!), hanno
shiftato
il
termine
da
―decostruzione‖
a
―decostruzionismo‖ (caro, vecchio Paul De Man!),
facendolo ricadere in pieno in quella metafisica dalla
quale pure per tutta la vita aveva tentato di divincolarsi,
nonostante affermasse la totale impossibilità di riuscirci in
pieno.
Derrida è decostruzionista.
X è y.
Dio è se stesso, solo cambiato di segno.
E allora? La metafisica forse non sta tanto, come
voleva Derrida, nella metafora? Non è questo il punto. È
vero che nella metafora ci sta la poesia. È vero che la
metafisica appare invece come la prosa del pensiero,
come la baldanza della definizione che pretende di dire,
di sapere, e lascia agli altri il mero fare. Come la
presunzione del ―che cos‘è‖. Come l‘orrore di una
copula sodomitica e socratica che esige un suo
corrispettivo in moneta sonante, nella parte nominale
ben recitata da tutti noi, che siamo gli attori.
Attori di atti inconsulti del linguaggio.
107
Lichtung. Luci
Atti unici? Sì, secondo la saussuriana parole, eppure
universalmente comunicabili. Non facciamo che recitare
una sceneggiatura linguistica monocorde fondata sul
nostro proclitico copulare indefesso, eppure ci capiamo
gli uni con gli altri. Ci intendiamo, in quel ―che cos‘è‖,
nell‘ ―x è y‖, nelle miriadi di risposte multiple al ―tí estín‖,
nell‘istanza metafisica stessa del linguaggio. Alla
metafisica non si sfugge.
È come la morte. Anzi, di più.
Poi è arrivata una frotta di filosofi strutturalisti a
rompere le uova nel paniere del Sistema, in pieno
Novecento, una flotta da Invincibile Armata a rivoltare
l‘Ottocento come un guanto, come un condom al
contrario che rende sterile chi non l‘indossa, a
incappucciarci di critiche al sistema metafisico,
utilizzando (consapevolmente?) di esso lo stesso identico
linguaggio metacorporale.
Una sorta di critica metafisica essa stessa, astratta
perché astraente, che non esulava dal Sistema proprio in
quanto ne svolgeva la critica, la critica della critica della
critica della et cetera; che poteva pure tacciarsi di essere
antimetafisica, ma per quello stesso ―essere‖ pur
definibile in qualche cosa, in qualche modo, certo oltre la
metafisica non era.
Come cristo tutto questo sia stato possibile, e
soprattutto come sia potuto essere passibile di movimenti
adeptici e di consensi, io non lo so.
Il tempo è prezioso: non intendo scoprirlo.
Ma che cos‘è il tempo? Mio grande, mio dolce, mio
docile Agostino…Perché mai hai sentito l‘intima necessità
di domandartelo?
108
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
Proposizione 2
Ogni singola parola è un‘astrazione che rimanda a
qualcos‘altro, in un cortocircuito metafisico di senso e
significato.
Quando? Dove? Perché?
―Il segno è infatti una cosa che, oltre all‘aspetto
sensibile con cui si presenta, porta a pensare qualcosa di
altro a partire da sé.‖ (Agostino, De doctrina christiana
I.1.1).
Il dualismo di senso e significato oggi sostituisce
dicotomie di una metafisicità ben più manifesta, e che un
tempo si travestivano da Dio e Diavolo, da bene e male.
Occorre andare al di la del bene e del male. Sì. Ma
quando? Dove? Perché? E soprattutto: come? Fra senso
e significato, non c‘è una pura e semplice relazione di
uguaglianza, ma neanche una pura e semplice relazione
di inferenza. Non univoca, almeno. E non preferenziale.
Un segno rimanda non ad un altro segno, ma ad altri
segni. A volte, a molti altri.
Praticamente, rinvia ad un sano: ―non mi ci
raccapezzo‖. Ecco perché è sempre esistita la metafisica.
Seppure consista bellamente in una presa in giro con cui
il linguaggio deride se stesso (con cui il linguaggio di
Derrida derida se stesso!), ci sembra di raccapezzarci in
essa. Appare sbrogliarci dalle secche del pensiero, del
linguaggio. Si manifesta come una volontà superiore di
ordine rispetto all‘ineffabilità del sentire, rispetto
all‘inesprimibilità dell‘aroma del caffè, che mai e poi mai
riuscirò a definire se non in qualche modo. Ovvero
poeticamente, come a dire: esteticamente.
Ma essa serve davvero ai nostri scopi?
Proposizione 3
La metafisica è fallace.
109
Lichtung. Luci
Non è difficile, dal criticismo in poi, affermare la
fallacità della metafisica, ovvero l‘essenza eterea del
linguaggio, nebulosa, gravida di umori e febbri sospese e
tracciate dalla linea del mercurio temporale del vivo
pensiero. Per gli antimetafisici, che non sanno di essere
ultrametafisici, la metafisica sbaglia perché possiede
un‘istanza definitoria astraente, la quale afferma
postulando a priori ciò che andrebbe verificato a
posteriori. Ah, la métaphysique! Bisogna proprio
prenderla a martellate in pieno viso; bisognerebbe,
nevvero?, filosofare col martello.
Ma è come dire che la metafisica sbaglia, perché è
metafisica. E non c‘è qualcosa di sbagliato in questa stessa
proposizione?
Proposizione 4
L‘assunto dello strutturalismo è, parafrasando l‘incipit
de Il Ritratto di Dorian Gray: tutta la metafisica, come
l‘arte, è perfettamente inutile.
Non serve a nulla, non serve nulla. Non serve a nulla
in quanto le categorie kantiane, una volta assorbite
nell‘intelletto, esauriscono la loro funzione costitutiva del
pensiero per diventare semplici strumenti nelle mani del
soggetto pensante ― pensato. Non serve nulla, perché la
metafisica ―lascia tutto cosí com‘è‖, un po‘ come la
filosofia secondo le mie Ricerche Filosofiche. Non a
caso, per secoli, la filosofia si è identificata esclusivamente
con la metafisica, con sommo gaudio di Platone ed
Aristotele, della Padristica occidentale, di Spinoza e di
Leibniz, del pensiero comune cosí com‘è pensato. Non
serve nulla, perché in realtà non si mette al servizio di
niente e di nessuno: è lì, nel non luogo metafisico,
nell‘iperuranio della pretenziosità calata dietro il sipario
della scienza, nei retroscena di velluto rosso della Loggia
110
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
Nera di Lynch, che non cerca e non trova vie d‘uscita
dalla dannazione dell‘attrazione sensibile del male, dal
proprio autocratico isolamento. Essa non tenta di
correggere il proprio atteggiamento astrattamente
definitorio, là dove un tentativo di definizione del reale in
termini di linguaggio non è più possibile, a meno di
incaponirsi nell‘assurda pretesa pseudoscientifica di voler
definire il necessario attraverso il contingente, l‘assoluto
attraverso il relativo, e non (questo sì!) tentare anche solo
di cogliere l‘astratto nel concreto.
Secondo lo strutturalismo, la metafisica non serve,
perché è sbagliata. Ed è sbagliata, perché non serve. Ma
anche l‘arte è perfettamente inutile, come sosteneva
giustamente Oscar Wilde.
Dov‘è che l‘arte sbaglia?
Proposizione 5
Intendere è come un cogliere di colpo.
Questo ―cogliere di colpo‖, su cui mi dibatto da anni
nelle mie solitarie austriache meditazioni, prive del
galateo intellettuale di Oxford, è possibile proprio perché
rimanda ad una dimensione estetica di significato in base
alla quale nulla, dico nulla è definitorio: neanche questa
stessa frase. Ma ha luogo una tale dimensione quando si
trapassa nel campo dell‘espressione linguistica?
Finché sento, tutto è bene. Quando cerco di
esprimere in forma di linguaggio ciò che sento, attraverso
l‘istanza definitoria, lí comincia il campo di dominio della
metafisica. Ma allora, se il linguaggio è metafisico per sua
stessa interna costituzione, che cosa non lo è?
Il mio intendere non lo è. Non lo è e continua a non
esserlo nemmeno mentre parlo. Quanto io sento, io
sono, senza l‘intimo bisogno di una y a predicato. La
111
Lichtung. Luci
parola è un sovrappiù al mio sentire. La parola è
espressione della sensazione e del sentimento.
Io sento, quindi intendo. Ma che cosa succede
quando cerco disperatamente di tradurre in parole le
immagini interiori di questo mio privatissimo sentire?
Che strumenti devo utilizzare per poterlo anche soltanto
esprimere in qualche modo?
Occorre volgersi allo strumento privilegiato della
poesia, ciò in cui si insinua insidiosamente la metafisica
stessa del linguaggio. Io debbo parlare per metafore. E
debbo farlo proprio per farmi capire dagli altri.
Il linguaggio personale è perpetua parole. È
inesauribile poesia in forma di rosa. Pier Paolo, aiutami.
Che cosa intendevi dirmi?
Proposizione 6
La definizione è nel linguaggio ciò che Dio è nella
teologia: il simbolo delle modalità di funzionamento di
un tipo di pensiero, di un particolare sistema di
riferimento mentale.
Il verbo essere, copula nell‘analisi logica, per sua
natura sembra subire le peggiori storture quando viene
usato in gergo filosofico, nelle istanze definitorie, in
quanto racchiude in sé il germe stesso, nosoforo e
malsano in quanto tale, della forma logica della
definizione: ―x è y‖. Eppure, questo è il modo peculiare
che noi tutti abbiamo di parlare. È la natura stessa del
linguaggio! Dov‘è che sbagliamo? Non potremmo
esprimerci nei nostri sentimenti, nelle nostre emozioni,
impressioni, sensazioni, in un linguaggio diverso da
quello che già possediamo.
Ce ne dobbiamo fare una colpa?
Dio mio, sono un porcospino, in quanto tale mi rotolo
spesso, e rotolarsi sporca, e rotolandomi mi rendo
112
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
impuro. Dov‘è che sbaglio, se sono un porcospino?
Dov‘è che sbaglio, se mi rendo impuro?
Proposizione 7
Quale è la forma logica del cogliere di colpo in senso
estetico? Essa, semplicemente, non esiste.
Si potrebbe dire anzi che non possiede neanche una
forma, se la sua ―forma‖ è estetica. Se è tale, infatti, è
anche in continuo mutamento agli occhi della mente e
della percezione sensoriale; si presenta come un
―intreccio di somiglianze e di differenze‖.
Un insieme di Cantor del pensiero? Non mi sembra
proprio. Piuttosto: una ghirlanda variopinta del
sentimento. Poesia in forma di rosa. Poesia metaforica a
getto continuo, in fluida mobilità. Petali e petali rossi di
sentimento mi sbocciano nel cuore ad ogni primavera del
pensiero. La primigenia istanza del capirsi passa
attraverso tutto questo.
E tale è anche e soprattutto la funzione storica
dell‘arte.
Proposizione 8
X non è tanto y quanto a,b,c,d,e…Dove
a,b,c,d,e…sono connessi con x riguardo un diffuso fondo
di senso comune, solidale con l‘oggetto per quanto
riguarda il concetto di sé: il mutamento della varietà
riconoscibile.
Qui ―mutamento‖ non significa necessariamente
―metamorfosi in continua evoluzione‖ alla maniera di
Eraclito e, in parte, di Hegel. Può anche solo significare
un impuro manifestarsi eterogeneo di elementi (che non
sia un coacervo indistinto, bensì recuperabile in una pur
vaga parvenza di forma logico – razionale a base estetica),
di cui uno differisce dall‘altro ma è simile ad un terzo che
113
Lichtung. Luci
ha elementi in comune con il secondo il quale è solidale
con un quarto che non ha niente a che fare con gli altri
due e così via, come le parentele trasversali di una
famiglia ricolma di figliolanze imbastardite e prive di
ideali ariani. Le parole sono come cugini di primo,
secondo, terzo, quarto grado. A volte neanche si
conoscono a vicenda, eppure si rimandano l‘una con
l‘altra, perché hanno lo stesso sangue, perché sono
solidali riguardo le sensazioni, e quindi i concetti, di sé e
degli altri. Infatti, a rimandarsi le une con le altre, prima
di tutto, sono le sensazioni dei senzienti. Le parole, per
dirla in breve, sono un campo fecondo in cui crescono
folte le spighe della solidarietà.
Proposizione 9
La metafisica è superata non solo perché, insomma,
inutile nel senso sopra descritto, ma anche
paradossalmente proprio perché non se ne può fare a
meno.
Non se ne è mai potuto prescindere, per Dio! Non ce
ne libereremo mai. Questo è il punto. La poniamo come
problema ogni singolo giorno della nostra esistenza,
perché essa è ovunque e sempre. Impossibile disfarsene.
È nella natura stessa del linguaggio. E nel momento in cui
parliamo, la riduciamo a oggetto di riflessione, la
possediamo, la facciamo nostra, la superiamo nei suoi
presunti legacci impedenti: essa non è più un problema,
bensì, semplicemente, il nostro modo di esprimerci.
Riflettiamo ad esempio sul concetto di sublime, del
quale darei questa metafisicissima ed intrinsecamente
tautologica definizione: il sublime è l‘impensato o ciò che
non è stato ancora pensato. Ma per il fatto stesso che
esiste un termine che lo determina, un nome che lo
denomina, il sublime è già stato pur pensato in qualche
modo! Dunque esiste un termine metafisico, perché
114
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
astratto ed astraente, per indicare un pensato che in
quanto già pensato in qualche modo, non può fare a
meno di essere continuamente pensato e ripensato,
appunto in qualche modo; di conseguenza, esiste almeno
nel pensiero che lo pensa, nel pensatore che pensa quel
pensiero, nel pensatoio del pensatore, sospeso in una
cesta con i discepoli stesi a terra a percepire il contatto
con le proprie sensazioni. Il nostro personale
phrontistèrion da esseri semplicemente umani non è mai
monadico, com‘è invece il pensatoio di Dio. Anzi, è
sempre interconnesso da miriadi di relazioni multiple
intersecantesi all‘infinito, nel comune fondo di
conoscenze ed esperienze dell‘umanità.
Dio è Dio.
L‘uomo è l‘uomo.
X continuerà sempre ad essere y.
Proposizione 10
Un concetto metafisico, una volta pensato, è
ineliminabile dal pensiero che pensa nel qui ed ora del
pensiero stesso.
Ma del resto, può esistere un pensiero che non pensi
solo ed esclusivamente hinc et nunc? Solo Dio è eterno e
fuori del tempo.
Ma Dio pensa?
È questo un problema esemplare che ci riguarda? Sì:
homo sum, ultrahumanum nihil a me alienum puto. Ed è
un problema che possiamo risolvere in modo definitivo?
No. Ma proprio per questo, a ben vedere, il noumeno
kantiano non è un impedimento alla conoscenza, perché
possiamo provarci almeno in modo definitorio; ovvero,
direbbe Kant, in modo metafisico. Ma se metafisico è per
sua stessa natura il linguaggio, dunque, tenteremo ogni
volta di risolvere problemi come questo in modo
contemporaneamente anche teoretico, oltre che pratico,
115
Lichtung. Luci
in virtù dei nostri stessi strumenti linguistici e di pensiero,
ed a partire dal fondo comune di senso estetico in cui
siamo immersi a testa china.
Un tentativo definitorio di parlarne può essere il
seguente.
Se anche Dio pensasse, penserebbe in modo diverso
dal nostro. In ambedue i casi, sia che pensi o che non
pensi, come facciamo a saperlo?
Tutto ciò che ci rimane, per ora, è un‘affermazione in
forma di domanda. Ma non è forse anche questa, ben
lungi dall‘epokè, una forma di conoscenza? E se ci
scrivessi sopra un poema, che forma di conoscenza
sarebbe?
La più metafisica. La più perfetta e sublime. Una
poesia.
Proposizione 11
La metafisica del linguaggio sopravvive benissimo sul
filo del rasoio di un paradosso metaforico inestinguibile.
Il paradosso consiste nel fatto che la metafisica,
nonostante la sua inutilità vada a braccetto con la sua
eterna sussistenza nell‘universo mentale, viene superata
continuamente nel momento stesso in cui viene messa in
questione: proprio quando viene problematizzata, non è
più un problema. Io ne parlo, e nell‘attimo in cui lo
faccio, la posseggo in tutte le sue molteplici accezioni. Io
ne parlo, e nel momento esatto in cui mi esprimo, ci
sono in mezzo, mi ci calo, è cosa mia, rientra nel mio
personale ma universalmente comunicabile orizzonte di
senso.
Io sono un uomo metafisico che si dibatte sorridendo
e pieno di speranze nella fluida metamorfosi del tropo.
Io detengo in me la possibilità di comunicare con il
mio prossimo, all‘interno e sulla soglia dell‘immenso
campo semantico di ogni possibile semiosfera. E da
116
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
quella soglia io osservo ciò che c‘è oltre, ciò che c‘è
dopo, disegno il volto di Dio a mia immagine e
somiglianza. Niente e nessuno può fermarmi. Io raccolgo
in me, in un florilegio cornucopico metaforico, tutta
l‘incessante poesia, possibile ed impossibile, del
linguaggio. Io racchiudo in me le infinite possibilità
estetiche e logiche della metafisica. Il diavolo se la porti,
la posseggo metafisicamente nella sua totalità!
Proposizione 12
Non esiste nulla di cui non si possa parlare. Non
esiste nulla di cui si debba tacere.
C‘è forse un limite espressivo alla poesia? No. Che la
prosa si adegui, se può. Ma la prosa già lo fa, da millenni.
Non c‘è trucco, non c‘è inganno. La metafora è il
fondamento del nostro modo di sentire, di pensare, di
parlare. Ci ho pensato, pensato infinite volte. La
metafisica è il prose poem del pensiero. La sua istanza, io
lo so, è metaforica. In questo aveva ragione Derrida. Solo
che non c‘è il minimo problema in tutto questo. Solo che
la metafisica non la si può decostruire, a meno di un
tentativo di suicidio fisico ed intellettuale. Perché essa è la
natura del nostro stesso pensiero – linguaggio. Quindi
Derrida aveva, anche, torto.
Quanta poesia c‘è nella prosa?
Quanto orrore cosmico dell‘intelletto risiede nelle
grandiose possibilità del sentimento?
Quanta poesia ipnoterapeutica c‘è nella filosofia?
***
Appunto disordinato, numerato alla rinfusa. Scritto
per puro caso. Con il filo di sangue che macchia ogni
giorno il mio rasoio di Occam.
117
Lichtung. Luci
Giorno: corrente. Rilettura: infinite volte, e con
sfumature metaforiche sempre diverse. Le sfumature le
ha operate il barbiere di Occam. Come la zigrinatura
obliqua della capocchia di uno spillo, come la tonsura
circoscritta di un chierico vagante, un circolo di senso e
significato mi vortica danzando nel cervello. La soluzione
più giusta è sempre quella più semplice. Così si risolvono
davvero i problemi: scoprendo che non ce ne sono mai
stati.
Lettori posteri presunti: il maggior numero possibile.
Perché è bene che quanto di ovvio vi sia in queste pagine
venga rimuginato.
Perché è bene che se ne parli.
Perché è nell‘ovvio che c‘è davvero la meraviglia.
[Il presente testo è già stato pubblicato in Nazione Indiana il 26 giugno
2013]
118
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
Il concetto di concetto: suggestioni
sul senso del dire
di Fabio Ciriachi
Antefatto
La mail di Giacomo Conserva circa il prossimo
numero di Kasparhauser ― ricevuta il 7/11/2014 alle
13,38 ― cosí esordisce: ―Il tutto dovrebbe avere a che fare
con il senso dell‘arte. della bellezza etc etc‖.
Sarà per quel senso in grassetto, percepito come un
perentorio ordine visivo, ma non riesco a dare peso ai
complementi di specificazione che lo seguono, e la mia
ipotesi di lavoro è attratta in modo irresistibile ed esclusivo
da quella sola potente parola-cardine.
Di ―senso‖ il vocabolario Treccani on line dà sei
definizioni, suddivise a loro volta in diciassette specifiche
dove sono citati Petrarca, Dante, Foscolo, Tasso, Parini,
Alfieri, Leopardi, Calvino; un ―testo‖ lungo e
circostanziato che, quand‘anche non aggiungesse nulla di
nuovo a quanto già si crede di conoscere in materia,
suggerisco di leggere per intero cosí da favorire, a mo‘ di
rito condiviso, una degustazione il più possibile neutra dei
materiali che seguono: talmente frammentari ed
eterogenei — nell‘intento di favorire, per suggestione,
possibili discorsi altri — da prestarsi alla sconvenienza di
letture acide o basiche.
Sènso s. m. [lat. sēnsus -us, der. Di sentire «percepire»,
part. pass. sensus].
1.
a. La facoltà di ricevere impressioni da stimoli esterni o
interni (affine quindi a sensibilità): gli animali sono dotati
di senso; ahi troppo tardi, E nella sera dell‘umane cose,
119
Lichtung. Luci
Acquista oggi chi nasce il moto e il s. (Leopardi); in questo
sign., è raro il plur.: i miserandi avanzi che Natura Con
veci eterne a sensi altri destina (Foscolo), ad altre forme di
sensibilità.
b. Più comunem., ciascuna delle distinte funzioni per
cui l‘organismo vivente raccoglie gli stimoli provenienti dal
mondo esterno e dai suoi stessi organi e, previa opportuna
trasformazione, li trasmette al sistema nervoso centrale,
informandone o no la coscienza. Nel linguaggio com., i
cinque s., la vista, l‘udito, il gusto, il tatto, l‘odorato, che
corrispondono, meno il tatto e con l‘aggiunta della
funzione vestibolare, ai s. specifici della fisiologia, così
denominati per il particolare grado di differenziazione del
substrato anatomico e delle funzioni, che ne giustifica la
contrapposizione ai s. somatici, i quali comprendono le
varie forme della sensibilità generale e i cui recettori sono
sparsi per l‘intero organismo. Organi di senso (dove
senso ha il sign. più ampio definito prima) sono gli
strumenti periferici della funzione sensitiva (organi di s.
generale) o sensoriale (organi di s. specifico, cioè occhio,
orecchio, vestibolo, mucosa olfattiva e mucosa gustativa);
usualmente, per organi di senso, o assol. sensi,
s‘intendono per lo più questi ultimi: percepire, conoscere,
apprendere attraverso i s., per mezzo dei s.; le cose che
cadono sotto i s., le cose concrete, visibili e tangibili; un
errore dei s., l‘illusione dei s. (che più propriam. sono
errori o illusioni della mente nel giudicare ciò che i sensi
percepiscono, trasmettono). Trasposizione dei s., presunto
fenomeno parapsicologico molto raro consistente in un
apparente spostamento di facoltà percettive (per es.,
«vedere» con la nuca) in soggetti isterici gravi, sonnambuli,
ecc. In passato, è stato denominato sesto s. un ipotetico
senso nascosto, globalmente capace di percepire per vie
extranormali, e spec. funzionante in sensitivi e
chiaroveggenti; l‘espressione è rimasta nell‘uso com. con
valore generico e approssimativo, per indicare capacità di
previsione o d‘intuizione particolarmente sviluppate.
c. Sempre al plur., l‘esercizio della facoltà di sentire,
l‘attività degli organi di senso: avere, perdere l‘uso dei s.;
120
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
quindi, la coscienza di sé stesso e dei proprî atti, in
locuzioni come perdere, riacquistare i s., meno com.
tornare in sensi, e sim., che indicano la perdita o il
riacquisto della coscienza in seguito a svenimento.
d. Come simbolo della vita fisica: A questa tanto
picciola vigilia D‘i nostri s. ch‘è del rimanente (Dante), a
questo breve spazio di vita che ancora ci rimane; spec. in
contrapp. alla vita spirituale: la maggior parte de li uomini
vivono secondo senso e non secondo ragione, a guisa di
pargoli (Dante). In partic., i s., gli appetiti fisici, soprattutto
la lussuria e la gola: Regnano i s., e la ragion è
morta (Petrarca); con più diretto riferimento alla
sensualità: i piaceri dei s. o del s.; i peccati del s.;
mortificare, castigare i s., e sim.
2. estens.
a. Coscienza, consapevolezza in genere: Ma io, forse
già polvere Che senso altro non serba Fuor che di te...
(Parini); o la percezione e coscienza di fatti interni: s.
intimo (o interno), espressione della filosofia e della
psicologia, usata per designare l‘avvertimento di sé e dei
proprî stati interiori, in contrapp. Al s. esterno, come
percezione delle realtà sensibili collocate al di fuori della
propria persona fisica; per ils. Fondamentale (sinon. Di
sentimento fondamentale), v. sentimento, n. 2 e.
b. L‘avvertimento di sensazioni interne, di natura fisica
o, talora, psichica, spec. se non ben definite: avvertire un s.
di fame; provare un s. di benessere, di malessere, di
stanchezza, di pesantezza alla testa, di languore allo
stomaco, d‘amaro in bocca, ecc.
3.
a. In altri casi, indica più espressamente uno stato
d‘animo,
una
sensazione,
un
atteggiamento
psichico: sentiva dentro di sé come un s. di vuoto; la sua
partenza ha lasciato in tutti noi un s. di rimpianto; provare
un s. di tristezza, d‘amarezza, di sconforto, ecc. Molto
com. nell‘uso fam. l‘espressione fare senso, di cosa che
produce una impressione forte e non gradevole (simile a
121
Lichtung. Luci
disgusto o ripugnanza) o un turbamento psichico in
genere: vedergli perdere tutto quel sangue mi faceva senso;
spettacoli di miseria che fanno senso.
b. Spesso, sinon. Di sentimento (ma con qualcosa di
più indefinito): quando mi fia... ogni altro senso, Ogni
tenero affetto, ignoto e strano (Leopardi); specificando il
tipo e il contenuto del sentimento: alle sue parole, provai
un s. di vergogna; tacque per un s. di dignità, per un s. di
pudore. Anche di sentimenti rivolti ad altri: lo guardava
con un s. di pietà; provava per lui un s. di gratitudine (o di
rancore, d‘odio, d‘invidia, d‘avversione); celeste è questa
Corrispondenza d‘amorosi sensi, Celeste dote è degli
umani (Foscolo). In frasi d‘ossequio, spec. nella chiusa
delle lettere, anche l‘espressione del sentimento (sempre
al plur.): gradisca i s. della mia devozione; con i s. della
mia più profonda stima, ecc. In altri casi, al plur. (letter.),
di sentimenti elevati: uomo, donna di alti s.; Spirerò nobil
sensi a‘ rozzi petti (T. Tasso); Liberi s. a rio servaggio in
seno Lieve a trovar non è (Alfieri).
c. La capacità di sentire, in quanto presuppone un
discernimento tra il reale e l‘irreale, tra il bene e il male,
tra il bello e il brutto, tra il conveniente e lo sconveniente,
ecc.: avere molto sviluppato il s. morale; essere privo di s.
della giustizia; essere scarso di s. critico; essere
assolutamente privo di s. umoristico, del s. del ridicolo;
possedere, coltivare, offendere il s. del bello, il s. estetico;
avere, non avere il s. della decenza, della misura,
dell‘equilibrio (spirituale); essere privo di s. pratico, della
capacità di discernere l‘opportunità nei fatti della vita
pratica. Dottrina del s. morale, teoria filosofica svolta dai
moralisti inglesi del Settecento, secondo cui la coscienza
umana possiede una capacità innata, quasi istintiva e
infallibile, di distinguere il bene dal male e di provare
piacere per le azioni buone altrui e proprie, senza alcun
riferimento a vantaggi ulteriori.
d. Capacità discretiva e insieme intuizione indica anche
nelle espressioni avere, perdere il s. dell‘orientamento;
significa invece capacità naturale d‘intendere le cose, di
122
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
apprezzarle nel loro giusto valore, di giudicare rettamente
nelle due locuz. buon s.(v. buonsenso) e s. comune (v. la
voce).
4.
Il contenuto e il valore significativo di un elemento
linguistico; è sostanzialmente sinon. Di significato anche se
alcune scuole linguistiche distinguono il senso, più
generale e comprensivo e quindi più mutevole nei diversi
contesti, dal significato, più specifico e costante, e altre
scuole usano i due termini nel rapporto opposto. In
partic.:
a. Di singole parole o locuzioni: spiegare, intendere,
discutere il s. d‘un vocabolo; s. proprio, figurato, traslato,
metaforico; in questo passo il termine è usato in s.
estensivo; in s. ampio, nel pieno s. della parola; usare,
interpretare una parola nel s. deteriore.
b. Di frasi, costrutti, discorsi, il concetto in essi
racchiuso, ciò che la frase o altro vuol significare in quel
particolare contesto: maestro, il s. lor m‘è duro (Dante,
delle parole scritte sopra la porta dell‘inferno); parole che
hanno un s. riposto, recondito, profondo, piene d‘un s.
misterioso; il s. del verso è chiaro, oscuro, ambiguo;
capire, intendere, afferrare, cogliere il s. della frase;
interpretare in altro s., dare un altro s. alle parole di
qualcuno; esporre, riassumere in breve il s. d‘un discorso.
Anche riferito a interi libri (soprattutto nell‘esegesi della
Bibbia): interpretare il testo biblico secondo i varî s., e,
specificando, nel s. letterale, tipico, anagogico, allegorico,
morale, ecc. (v. anche ermeneutica).
c. Locuzioni: leggere a senso, facendo intendere, con le
necessarie pause e col tono della voce, il senso di ciò che
si legge; sapere, ripetere a senso qualcosa, conoscerne o
ripeterne il contenuto con parole proprie, non
testualmente e non a memoria; tradurre a senso,
preoccupandosi di rendere il significato generale, anziché
tradurre alla lettera parola per parola. Costruzione a senso
(lat. constructio ad sensum), in sintassi, l‘incongruenza
123
Lichtung. Luci
grammaticale dell‘accordo di un sostantivo singolare con
un verbo plurale, o viceversa (questo tipo di sintagma,
detto in greco κατὰ σύνεσιν o κατὰ σύνθεσιν, è anche
indicato con l‘espressione sinesi del numero). Doppio
senso, duplice interpretazione a cui una parola o una frase
si presta, e la frase stessa che si presta a questa duplice
interpretazione (spec. quando uno dei due significati abbia
carattere malizioso o osceno): storiella a doppio s.;
conversazione piena di doppî sensi.
d. Contenuto logico, contenuto d‘idee sostanzialmente
valido (in questa accezione si usa solo al sing.): cerca di
dire cose che abbiano senso (o che abbiano un s. comune,
con lo stesso sign.); per lo più in frasi negative: parole,
frasi, discorsi senza s., privi di s., vuoti di senso; non c‘è
senso in quello che dici. Con sign. più ampio, anche
riferito ad azioni e comportamenti: ciò che fai non ha
senso, non ha giustificazione, è illogico, inopportuno,
inutile, assurdo; e similmente: un mio intervento ora non
avrebbe senso; una protesta da parte vostra sarebbe senza
senso. V. anche nonsenso. Riferito a grandi avvenimenti e
processi, la percezione della loro importanza, della loro
portata, o della loro particolare natura: avere, intendere il
s. della storia, degli eventi (o di un evento);il s. della vanità
della storia umana che l‘aveva colto poco prima in cortile,
lo riprese (I. Calvino).
5.
Usi estens. e fig., che si sviluppano dalla prec.
accezione:
a. Ai sensi, a senso, conforme a, secondo quanto è
disposto da, in frasi del linguaggio forense e burocr.: ai
sensi dell‘art. 97 della legge...; a senso di legge, a senso o ai
sensi del regolamento, ecc.
b. In un certo s., sotto un certo aspetto, per qualche
rispetto: in un certo s. hai ragione tu; questo è vero, ma
soltanto in un certo senso.
124
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
c. Equivale più o meno a modo in alcune frasi tipiche,
come: gli puoi scrivere in questo s.; m‘ha risposto in
questo s.; soprattutto quando ci sia un‘alternativa, una
doppia possibilità: rispondere in s. affermativo, in s.
negativo, affermativamente o negativamente; io consiglierei
di fare in questo s. piuttosto che nell‘altro; comunque
vadano le cose, nell‘un s. o nell‘altro, per noi va sempre
male; la questione si è risolta nel s. migliore, nel s. più
favorevole, nel s. più vantaggioso per noi.
6.
Orientazione, direzione secondo la quale si effettua un
movimento; più precisam., in matematica, su una retta o
un arco di curva AB, distinzione tra due modi di percorso,
uno da A a B, l‘altro da B ad A (sinon. Di verso): io ero
diretto nel s. opposto al suo; s (o verso) di rotazione (s.
orario, s. antiorario); s. positivo, s. negativo; s. di
percorrenza di una curva; nel s. della lunghezza, della
larghezza, della diagonale; lo esaminava attentamente
girandolo e rigirandolo in tutti i sensi. In usi estens. o fig.:
il s. del pelo, della stoffa (meglio il verso); andare nel s. del
progresso. Nella circolazione stradale (per calco del fr.
sens), il verso che può o non può essere seguito dai
veicoli, nelle locuz. s. unico, dove i veicoli possono
circolare soltanto in un verso e non nel verso opposto; s.
vietato, nel quale i veicoli non possono immettersi; s.
obbligatorio, quello indicato come il solo nel quale un
veicolo possa proseguire la sua marcia, escludendo al suo
conducente ogni altra possibilità di scelta (nelle
segnalazioni stradali il s. vietato è indicato da un cartello
circolare rosso, attraversato orizzontalmente da una striscia
bianca; il s. obbligatorio è indicato da un cartello pure
circolare di colore azzurro, con una freccia bianca rivolta
verso l‘alto, o a destra o a sinistra a seconda della
direzione che si prescrive debba essere tenuta; si usano
anche frecce a due direzioni, come pure cartelli
rettangolari con freccia bianca in campo azzurro, sulla
quale è la scritta indicativa).
Materiali
125
Lichtung. Luci
Primo — Due mie poesie degli anni Ottanta, inedite in
volume e uscite sul numero 6 di ―Night Italia‖ nel 2011,
così recitano:
Confusione 1
(a Marcel Proust)
Un giorno ho puntato
la macchina fotografica
sul mio passato
ho messo a fuoco all‘infinito
e ho scattato. Era una ricerca
del tempo perduto e così
per non perdere altro tempo
ho subito portato
il rullino a sviluppare.
Ma è venuto tutto nero.
Sembra che il pasticcio sia a monte.
La fonte di tutto sarebbe
una mia apertura alla vita
finita poi male. Aprendomi, infatti,
io così sensibile avevo preso luce;
da allora il mio passato
è chimicamente alterato
contiene ma non mostra;
le sue foto, tutte nere,
sono il tempo non ritrovato
il buio presente.
Confusione 2
Dice un proverbio: ―Il gioco è bello
quando dura poco‖. Come crederci
se sto giusto vivendo il contrario?
Un lungo gioco totale
con una persona che non voglio
nominare. Grazie a questa esperienza
posso invece affermare
―se credi ai proverbi
126
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
non sai cosa perdi‖. Anche se
non permetterò mai che la frase
―se credi ai proverbi non sai cosa perdi‖
diventi anch‘essa un proverbio
perché ciò che è vero una volta
non è detto che sia vero sempre
anche se, proprio per questo,
una volta può essere vero che
―ciò che è vero una volta non è detto
che sia vero sempre‖ e altre volte no
quindi altre volte
ciò che è vero una volta è vero anche sempre.
Ne consegue che a certi proverbi
è il caso di credere e ad altri no.
E nessuno può dire
a quali, come e perché, nessuno per fortuna
ne sa niente.
Secondo ― In una poesia tratta dalla mia terza
raccolta, Pastorizia (Empirìa, 2011), si legge quanto segue:
Empirismo
Un ferro tondo tutto quanto torto
non dà forse un‘idea di debolezza
smentita solo quando nel toccarlo
se ne constata tutta la durezza?
Era così contorto quel tondino
che dava l‘impressione, convincente,
che fosse molto facile piegarlo
e la fatica non costasse niente.
Ma prova a torcerlo se ti riesce
soltanto con le mani come sembra
possibile vedendo quanto è torto.
Col ferro l‘apparenza conta niente.
Con cosa invece l‘apparenza regge?
Con tutto quanto non si può toccare,
127
Lichtung. Luci
col pensiero è più facile ingannare
il tatto invece ha un senso e ci protegge.
Terzo ― L‘editoriale di Le Monde del 9 agosto 2014,
dal titolo ―Khmer rouges, un verdict frustrant‖, cosí si
conclude : ―…Enfin cette tragédie est aussi liée au contexte
international de l‘époque. Les Etats-Unis, en procédant à
des bombardements aussi secrets qu‘aveugles sur le
Cambodge au temps de la guerre du Vietnam, ont sans nul
doute contribué à la radicalisation de la guérilla «rouge».
Puis, en raison de leur condamnation de l‘invasion du
Cambodge par le Vietnam, alors allié de l‘URSS, et des
impératifs de la guerre froide, les pays occidentaux et
d‘autres continuèrent, pendant des années après 1979, à
reconnaitre l‘opposition en exil, dont les Khmers rouges.
Fermant les yeux sur leurs crimes passés, l‘ONU continua
à reconnaitre ses dirigeants, qui occupèrent les sièges du
Cambodge aux Nations unies. En ce sens, nombreux sont
les acteurs qui ne se sont pas retrouvés assis, à Phnom
Penh, sur les bancs des accusés‖.
Quarto ― Il 18 agosto 2014, col titolo ―Segnali‖, nel
mio diario bretone annoto quanto segue : ―I radi accessi a
internet e alla stampa mi consentono comunque di
registrare due belle notizie: i diecimila di Tel Aviv che
manifestano contro la politica di aggressione militare del
governo Nethaniau a Gaza; e l‘olandese che restituisce la
medaglia di ―giusto‖ ricevuta per aver salvato un bambino
ebreo durante l‘ultima guerra.
Sono questi i segnali che servono per andare,
credibilmente, verso una soluzione pacifica del conflitto
israelo-palestinese, perché marcano una decisa presa di
distanza dai fautori della violenza. Non credo occorrano
sottili alchimie politiche per convenire sulla impraticabilità
della soluzione armata; vuoi per il divario fra le forze in
campo, vuoi perché alla mia coscienza — ma anche a
quella condivisa, immagino — repelle una soluzione che
passi attraverso lo sterminio di uno dei due contendenti.
È certo che, finora, questa politica di sterminio sia stata
condotta in particolare da Israele; e poco contano le
128
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
obiezioni dei filoisraeliani secondo i quali se Hamas avesse
avuto a disposizione armi più raffinate si sarebbe
macchiata di crimini identici se non peggiori. Nei fatti, le
forze armate israeliane massacrano i civili palestinesi, e
non il contrario. Nei fatti, coloni israeliani occupano
illegalmente territori da cui i palestinesi sono scacciati. Nei
fatti la striscia di Gaza è una grande prigione a cielo aperto
verso la quale è chiara l‘intenzione israeliana di
strangolarne in tutti i modi economia e vivibilità al fine,
evidente, di provocare l‘esodo in massa della sua
popolazione così da avere spazio per nuove colonie.
È altrettanto certo, mi sembra, che nel perpetrare
questa sua politica di massacri, Israele abbia un grande
alleato in Hamas, che gli fornisce alibi facilmente
spendibili nelle varie informazioni acquiescenti cui non
serve altro che qualche maldestro razzo palestinese per
continuare a mostrare Israele nei panni di vittima costretta
a difendersi; con buona pace di chi ha una coscienza che
si può mettere a tacere con poco.
Questa breve nota non vuole, né potrebbe, essere
esaustiva di nulla, in merito a un problema che si trascina
dalla nascita stessa dello stato di Israele e che fa i conti, in
particolare ora, con le catastrofiche politiche occidentali in
ambito mediorientale. È immune, quindi, da ogni rilievo
che miri a dimostrare ragione o torto di questi o di quelli
in base a precise citazioni o a puntuali excursus storici con
tanto di nomi e date a riprova di, a dimostrazione che,
eccetera. Qualunque sia la genesi di quanto accade oggi, i
fatti, nella loro cruda sostanza, sono chiari e visibili. Da
una parte c‘è un ―gigante‖ a livello economico,
tecnologico, diplomatico, militare (atomica compresa).
Dall‘altra una popolazione civile che, fosse anche per le
cattive politiche dei suoi governanti, subisce da decenni
abusi, privazioni, massacri ricorrenti, ghettizzazioni: in una
parola, una lenta condanna all‘estinzione.
La comunità internazionale non può non farsi carico
della cosa e sforzarsi, nei modi che saranno ritenuti
migliori, di risolverla fiancheggiando, con autorevolezza, le
parti in causa nel corso di trattative alle quali nessuno
potrà sottrarsi fino al raggiungimento di una soluzione
condivisa. Certo, non sarà facile fermare le violenze; il
129
Lichtung. Luci
rapimento e l‘uccisione dei tre giovani israeliani, che ha
dato il via all‘ultima carneficina, lo sta a dimostrare. È
molto più facile appiccare il fuoco che spegnerlo. Ma è lì
che dovrà misurarsi la capacità dei governi, delle
diplomazie, dell‘opinione pubblica, di tutti noi che
abbiamo a cuore il popolo palestinese, di gestire e trattare
con nervi saldi la faccenda (non che le altre vittime
innocenti non meritino la nostra attenzione e cura, ma la
sorte peggiore, ancora adesso, incombe soprattutto sui
palestinesi). Non illudiamoci: uccideranno ancora, gli uni
e gli altri, perché vi sono interessi nelle parti in gioco cui
conviene il conflitto perenne. Ma se ci si dimostrerà capaci
di non rispondere al sangue col sangue, anche l‘omicidio
strumentale si rivelerà inutile e cesserà. Isolare i
guerrafondai e appoggiare in tutti i modi chi spinge nella
direzione della giustizia; mantenendo questa rotta, se lo
sforzo sarà continuo e ampiamente condiviso, la pace
conseguirà come un fenomeno naturale.
Per aver espresso, in altre sedi, opinioni simili a quelle
di questa nota sono stato tacciato, da alcuni compagni, di
―equidistante‖, di ―filoisraeliano‖, di stare ―dall‘altra parte
della barricata‖; e, da filoisraeliani (ebrei e non), di
―antisemitismo‖. Entrambi questi estremi, che si confutano
a vicenda lasciando sospeso e improbabile un giudizio che
voglia essere fondatamente univoco, la dicono lunga sulle
posizioni non pacifiche né concilianti degli accusatori:
faccio distinguo poco ortodossi, e dai compagni vengo
sospettato di trescare con la parte avversa, mentre per i
filoisraeliani continuo a essere antisemita e basta (anche
l‘ONU delle risoluzione contro i nuovi insediamenti lo
sarebbe, a sentire i più esagitati tra loro); e poiché ciascun
fautore delle due parti coinvolte sente di avere sacrosanti
motivi per essere nel giusto, vive come sconfitta qualunque
traccia di cedimento, fosse anche espressa in termini di
analisi un po‘ meno scontata di quella che gravita
nell‘ambito della soluzione bellica.
Come si fa a voler aiutare la pace e a non essere in
grado di vedere che senza uno sforzo per uscire dalla
logica della contrapposizione frontale si torna al
drammatico stallo di ora? Se non proveremo, tutti, a
rinunciare a una quota tollerabile delle nostre più legittime
130
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
ragioni sarà difficile pervenire a una soluzione praticabile e
duratura. Certo, per riuscire davvero in questa impresa
sarebbe fondamentale un‘analisi spietata e pubblica che
individui, con sempre maggiore precisione (quindi senza la
scorciatoia della propaganda) quali sono i governi e i
gruppi di potere cui conviene, e perché, un conflitto
perenne. Potrebbe derivarne una sorta di grande dialogo
collettivo sempre più circostanziato e preciso, grazie ai
nuovi contributi, che non lascerebbe spazio, decantati
degli inevitabili tentativi di inquinamento, a
nascondimenti, elusioni, trucchi, come una ―Wikipedia
della verità‖ costruita con l‘appassionata decisione dei più
di farla finita coi fabbricanti di morte.
Quinto ― Tra settembre e ottobre 2014, sulla mia
bacheca di facebook pubblico questi due post:
―Il concetto di «orizzonte» può essere alterato da un
semplice torcicollo; il concetto di «visuale», da un piccolo
grano di polvere nell‘occhio. Ma a correre più pericoli è il
concetto di «concetto», con quella contrazione lessicale
che rischia di lasciare lontano il suo trarre origine da
«concepito», così adatto a ricordare, invece, quanto ogni
concetto sia figlio (come noi) di una dualità che rende
parziale la nostra sola partecipazione, ed errato il crederla
bastevole. Andiamo a cercare, dunque, per ogni concetto
che facciamo nostro, l‘altro che assieme a noi l'ha messo al
mondo, l'interlocutore sconosciuto col quale, senza
saperlo, ragioniamo‖.
―Pensare filosoficamente non è andare a caccia di visioni
del mondo con un armamentario sapienziale raffinato e
potente, ma spogliarsi via via proprio di ogni
armamentario per diventare — da inoffensivi — il più
possibile capaci di accogliere le ricchezze dell‘insolito che
potrebbero non stare necessariamente nei ristretti obiettivi
di un progetto (anche ambizioso) ma lì dove alla nostra
intelligenza — fattasi inerme e recettiva — di colpo è
consentito accedere. Il pensiero filosofico, quindi, non si
attiverebbe con «io cerco» ma con «io mi metto in
condizione di essere trovato»".
131
Lichtung. Luci
Sesto ― Su Repubblica on line del 7 novembre 2014
leggo la seguente notizia:
―Città del Messico ― Sono stati uccisi da sicari del
gruppo di narcotrafficanti Guerreros Unidos i 43 studenti
scomparsi lo scorso 26 settembre da Iguala, nello stato
messicano di Guerrero. E i loro corpi sono stati dati alle
fiamme. Il procuratore generale federale, Jesus Murillo
Karam, ha reso noto che tre uomini arrestati nei giorni
scorsi nell'ambito dell'inchiesta hanno confessato di essere
gli esecutori della strage.
«Sono conscio dell'enorme dolore che può arrecare
questa notizia», ha detto Murillo aggiungendo che i tre ―
tutti appartenenti al gruppo narco Guerreros Unidos ―
hanno raccontato di aver preso in consegna i ragazzi,
fermati dalla polizia municipale di Iguala, e di averli portati
nella vicina località di Cocula. Circa 15 sarebbero morti
per asfissia prima di arrivare alla discarica dove sarebbero
stati uccisi gli altri. «I detenuti hanno detto che hanno
gettato i corpi nella parte bassa della discarica, dove li
hanno bruciati. Hanno fatto turni di guardia per assicurarsi
che il fuoco bruciasse per ore, versandoci sopra
combustibile, pneumatici e altri oggetti», ha riferito il
procuratore, sottolineando che alcuni studenti erano
«ancora vivi quando è stato dato loro fuoco». Le fiamme
hanno bruciato tutta la notte e il calore sprigionato era tale
che i sicari hanno dovuto aspettare la sera del 27
settembre per rimuovere le ceneri, spezzare i resti delle
ossa e versarli in buste nere di plastica per la spazzatura,
che hanno poi gettato nel vicino fiume San Juan, dove
sono state ritrovate da sommozzatori della polizia. Murillo
ha aggiunto che lo stato dei poveri resti degli studenti
rende difficile l'identificazione e che saranno inviati a un
laboratorio specializzato in Austria per analizzare le tracce
di Dna.
Gli studenti, tutti sui 20 anni, erano stati arrestati da
agenti corrotti e consegnati ai membri del potente cartello
del narcotraffico locale. La polizia, nei giorni scorsi, aveva
arrestato l'ex sindaco di Iguala, Josè Luis Abarca, e sua
moglie con l'accusa di aver ordinato l'omicidio dei giovani
colpevoli di aver organizzato una contestazione durante un
132
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
suo comizio. Ancora latitante il responsabile della
sicurezza pubblica dell'ex primo cittadino‖.
Settimo ― Se anche tentassi un recupero in extremis
di temi più direttamente relativi al ―senso dell‘arte e della
bellezza‖ non riuscirei a nascondere in modo credibile il
mio niente da dire in proposito. Ho vaghi ricordi di una
loro ―poetica‖ trattazione nell‘ordine alfabetico dei
Sillabari di Goffredo Parise, ma non posso verificare, ché i
libri sono a Roma e io, ora, vivo a Bruxelles. Né sento di
rifugiarmi nella bellezza del Parc de Woluwé coi suoi
laghetti di folaghe e cigni, col pieno sole di oggi, così raro
qui dove Jacques Brel ha potuto scrivere versi memorabili
come: ―Avec un ciel si gris qu´un canal s´est pendu / Avec
un ciel si gris qu´il faut lui pardonner‖.
E al dunque fungono solo da appoggi per la resistenza,
i pochi libri portati da Roma che sorvegliano, accanto al
pc, il lavoro di scrittura: i racconti di Witold Gombrowicz,
Bacacay, Mammifero italiano, di Giorgio Manganelli,
il Manuale di Epitteto con la traduzione di Giacomo
Leopardi, Ognuno incatenato alla sua ora, della poeta di
etnia Jenish Mariella Mehr. Sulla pagina luminosa del
display una storia in corso, fra le tante possibili, registra
quanto segue: «Il peso che lo schiaccia, però, non riguarda
in modo generico gli altri; non sottoscriverebbe mai, lui,
―l‘enfer, c‘est les autres‖, troppo teatrale e fredda, come
pena, per sentirsene rappresentato, troppo generica e
connessa a tempi ormai lontani e quasi fortunati, a
misurarli col dolore di adesso, no, lui sa fin troppo bene
che il ‗suo‘ inferno in realtà sono i ‗suoi‘ altri, i mediocri e
così a lui somiglianti altri che è riuscito a convogliare, col
massimo degli sforzi, accanto all‘intero corso della sua vita,
e dio solo sa quanto avrebbe desiderato, invece, la
presenza di qualche figura ammirevole, e grande, e
luminosa, anche, a dargli lustro, una figura a lui rivolta e
con lui in palese contatto e intima condivisione, che per
sola virtù di somiglianza, per minima adiacenza d‘ombre,
fosse riuscita a farlo apparire, agli occhi del mondo, meno
miserabile e fallito di quanto ormai sa di essere; e in un
modo, teme, definitivo».
133
Lichtung. Luci
La finzione salva dalla realtà, sempre, ma tende a
prosciugare chi la agisce senza l‘uso accorto della distanza.
Ridotto al minimo, mi congedo col solo memento che
sono capace di opporre a questi tempi di carneficina:
―seminare gentilezza‖.
134
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
Brutti filosofi
di Stefano Scrima
La bellezza, senza dubbio, non fa le rivoluzioni.
Ma viene il giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno di lei.
A. Camus, L‘uomo in rivolta.
Socrate, padre della filosofia occidentale, era
clamorosamente brutto. Così brutto che accanto alla sua
sapienza negativa gli storici tenevano con particolare enfasi
a ricordare questa sua qualità di satiro paonazzo, quasi
come se le due cose non potessero viaggiare separate. In
effetti Alessandro Magno era astuto, non saggio, e
bellissimo, o quantomeno affascinante, mentre il suo
maestro Aristotele aveva gli occhi piccoli e troppo vicini.
La bruttezza pare un viatico per la riflessione, non c‘è
dubbio, per quanto banale possa risultare questa verità. Mi
viene in mente Leopardi. Ma è anche vero che se tutti gli
uomini brutti fossero saggi per necessità, il mondo non
sarebbe il porcile che è.
Lasciamo dunque la parola ad un brutto illustre:
[Essere brutto] mi ha reso consapevole del fatto che il mio
aspetto era un ostacolo da superare. E penso che mi aiutò
almeno in un modo, poiché notavo che chi si riteneva bello
si accontentava del mondo cosí com‘era. I belli tutt‘al più
erano riformisti. Ciò mi ha richiesto un impegno maggiore
soprattutto nei miei rapporti con le donne: imparare a
parlare bene, diventare – per così dire – un buon
intellettuale e affascinante. Il che ha prodotto conseguenze
buone e cattive.
52
52
J. Gerassi, Talking with Sartre, Yale University 2009; tr. it.
Parlando con Sartre, il Saggiatore, Milano 2011, p. 76.
135
Lichtung. Luci
Gira e rigira gli uomini vivono per piacere alle donne,
un‘altra verità incontestabile. Sartre lo sa, e ammette di
aver sviluppato le sue qualità speculative e riflessive
proprio grazie al suo strabismo. E cosa fondamentale:
notava che «chi si riteneva ― e qui la sfumatura
necessiterebbe un approfondimento ― bello si
accontentava del mondo cosí com‘era». Certo, che
importa ai belli di cambiare le cose? Loro stanno bene
così. Sono i brutti i frustrati che riflettono sul loro peccato
originale ― i brutti Paolo, Agostino e Tommaso ci
hanno fatto vedere come ― e che si inventano possibili
mondi diversi.
Un altro pazzo, non proprio bello, lancia il sasso e
nasconde la mano:
Analizzare la relazione che Sartre ha intrattenuto
intellettualmente e filosoficamente con Camus e prendere in
considerazione il fascino dell‘uno e la bruttezza dell‘altro
(come lo stesso autore di Parole ha confessato), non
spiegherebbe sicuramente tutto, ma non sarebbe privo d‘un
certo interesse.
53
Onfray è convinto che Sartre fosse invidioso di Camus
perché era bello (e quindi stupido?). È qualcosa di
plausibile, perché no? La vita e i rapporti umani sono fatti,
prima che di ragione, di chimica. Fatto sta che Camus,
bello, filosofava. Che scandalo. E tra l‘altro, proprio
come dice Sartre ― stando alle prime opere
dell‘algerino ― il mondo a lui andava proprio bene così
com‘era: non bisogna sperare, anzi si deve accettare
l‘assurdo. Poi con gli anni, forse con la vecchiaia portatrice
53
M. Onfray, L’Ordre libertaire. La vie philosophique d’Albert
Camus, Flammarion, Paris 2012; trad. it. L’ordine libertario. Vita
filosofica di Albert Camus, Ponte alle Grazie, Milano 2013, p. 440.
136
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
di decadenza e bruttezza, le cose cambieranno anche per
lui.
Camus, bello, giovane, sulla spiaggia, attraverso il
personaggio di Patrice del romanzo incompiuto La morte
felice
accordava i battiti del suo sangue alla violenta pulsazione del
sole delle due e, sprofondato tra gli odoro selvaggi e i
concerti degli insetti sonnolenti, guardava il cielo passare dal
bianco all‘azzurro puro e poi subito svaporare fino al verde e
riversare la sua dolcezza e la sua tenerezza sulle rovine
ancora calde. […] Non riusciva a immaginare eternità né
felicità sovrumana fuori dalla curva delle giornate. La felicità
era umana e l‘eternità quotidiana. Tutto stava nel sapersi
umiliare, nel coordinare il proprio cuore al ritmo delle
giornate invece di piegare il loro alla curva della nostra
speranza.
54
Sta così bene con se stesso che non ha senso, per lui,
sperare in niente di meglio. E invece Sartre alla stessa età,
già brutto, era anche già nauseato. Di se stesso.
Il caso ha anche voluto che al loro aspetto fosse assegnato
un involucro adeguato: il grigio entroterra francese a Sartre
e l‘assolata Algeria a Camus, metafore del disagio
e dell‘appagamento.
In realtà Onfray dice che se la presero tutti con Camus
perché era un povero bambino algerino e non un
borghese snob, uno che non poteva aver ricevuto la
stessa educazione ― come se aver letto i libri di Hegel
cambiasse veramente qualcosa dall‘averne letto i riassunti
o dal non averli letti affatto. Ma molto più probabilmente,
dico io (ma anche Onfray è d‘accordo), perché era bello
e malgrado ciò filosofava. E per giunta filosofava
glorificando questa nostra vita misera trascorsa a
54
A. Camus, La mort heureuse (1936-1938, pubblicato postumo nel
1971), Gallimard, Paris 1971; tr. it. di G. Bogliolo, a cura di J.
Sarocchi, La morte felice, 1ª ed., BUR, Milano 1975, p. 110.
137
Lichtung. Luci
trasportare massi su per le rupi più alte, per poi,
totalmente impotenti, vederli ricadere nel nulla.
L‘ho già detto, poi le cose per Camus sono cambiate.
E tuttavia il bel filosofo aveva mutuato questo suo sentire
dalle riflessioni di un altro filosofo ― brutto! ―, un
certo Nietzsche.
E adesso come la mettiamo?
138
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
Gli autori
Marco Baldino. Bellano (Lc) 1955. Autore di saggi e articoli sul
tema della località filosofica e sul problema dell‘accesso al
pensiero. Nel 1990 ha fondato la rivista italiana di geofilosofia
«Tellus», che ha diretto fino al 2001. È curatore e coautore dei
volumi: Geofilosofia (Lyasis, 1996); Sul liberalismo (Labos,
2000); Per una filosofia free-lance (Labos, 2001). Ha tradotto
scritti di Martin Heidegger, Georges Bataille, Gilles Deleuze e
Stéphane Mosès. È autore del volume Margini e paraggi. La
filosofia dell‘ultimo Novecento (Aracne, 2012). Nel 2013, per la
rivista spagnola Debats, ha pubblicato il saggio: ―Ernst Jünger.
Por una teorìa del bandolerismo‖. Attualmente è coeditor della
la rivista online Kasparhauser.
Francesca Brencio (Spoleto, Italia – 1976) PhD in Filosofia e
Scienze Umane, è Adjunct Fellow nella School of Humanities
and Communication Arts della University of Western Sydney
(Australia). Attualmente è Visiting Researcher alla AlbertLudwigs Universität in Freiburg (Germania) sotto la supervisione
del Prof. Dr. Dr. Andrzej Wiercinski. Dal 2000 al 2007 ha
collaborato con la cattedra di Estetica dell'Università degli Studi
di Perugia, lavorando a fianco della professoressa Anna
Giannatiempo Quinzio, dal 2003 al 2005 è stata socio
fondatore della Scuola Umbra di Counseling Filosofico, affiliata
alla SICOF di Torino, e docente nella stessa struttura per il
medesimo periodo di tempo. Nel 2001 ha ricevuto la Menzione
Speciale per la miglior tesi di laurea all‘interno del Premio di
Filosofia bandito dal Collegio Siciliano di Filosofia e dall‘Istituto
per gli Studi Filosofici di Napoli; nel 2006 ha ricevuto il
medesimo riconoscimento per la tesi di dottorato. Studiosa di
Martin Heidegger, negli ultimi anni i suoi lavori si sono
concentrati sul rapporto tra il pensiero di Heidegger e
l‘idealismo tedesco, con particolare attenzione al posto occupato
da Hegel nella speculazione heideggeriana. Di recente, il suo
campo di ricerca si è spostato sulla relazione fra l‘analitica
esistenziale heideggeriana con la psicologia e con la psichiatria,
partendo dalla centralità della nozione di negatività. Accanto
all‘impegno strettamente accademico si ricordano le
139
Lichtung. Luci
pubblicazioni nel campo delle arti visive e dell‘estetica
d‘avanguardia. È membro della Internationale Hegel
Gesellschaft in Berlin, della Sociedad Española de Estudios
sobre Hegel, della Sociedad Iberoamericana de Estudios
Heideggerianos, dell‘International Institute for Hermeneutics e
della Nordic Society for Phenomenology, del RIPA (Réseau
International de Psychanalyse Appliquée) e di PIPOL
(Programme International de Psychanalyse Appliquée
d‘Orientation Lacanienne). Dal 2011 è collaboratrice di Libera
Parola ─ Centro di Psicanalisi Applicata e membro dei C.Ps.A
(Consultori di Psicoanalisi Applicata). Dal 2014 è membro della
Società Italiana di Sessuologia ed Educazione Sessuale. Tra le
sue opere, oltre ad un notevole numero di saggi pubblicati in
riviste italiane e straniere, le monografie in italiano La negatività
in Heidegger e Hegel (2010, Aracne), Scritti su Heidegger
(2013, Aracne). In lingua inglese si segnalano: ―Care and beingin-the world: Heidegger‘s philosophy and its implications for
psychiatry‖, in European Psychiatry. The journal of the
European Psychiatry associations, vol. 29, Supplement 1, 2014;
―Foundation and poetry. Heidegger as a reader of Hölderlin‖, in
Studia Philosophiae Christianae, 1 (2014), pp. 181-200; ―Life
and negativity. The inner Teleology in Hegel‘s philosophy of
Nature‖, in Revista Opinião Filosófica, vol. 5, n. 1, 2014, p. 5468; ―The nocturnal point of the contraction‖. Hegel and
melancholia, in D. Skorzewski and A. Wiercinski (eds.),
Melancholia: The Disease of the Soul (Lublin: KUL, 2014);
―World, time and anxiety. Heidegger‘s existential analytic and
psychiatr‖, in Folia Medic‖, special issue on the XVIth
International Conference on Philosophy, Psychiatry and
Psychology (forthcoming 2015); ―Heidegger and Binswanger:
just a misunderstanding?‖, in The Humanistic Psychologist
(forthcoming 2015).
Sonia Caporossi (Tivoli, 1973) è docente, musicista, musicologa,
scrittrice, poetessa, critico letterario, artista digitale; si occupa
inoltre attivamente di estetica filosofica e filosofia del linguaggio,
ultimamente nell‗ottica di una ridiscussione metodologica del
costruttivismo. Si è laureata in lettere con lode a Roma nel 2000
con Silvana Cirillo presso la cattedra di Walter Pedullà con una
tesi dal titolo Il miracolo e la crisi: la letteratura italiana negli
anni del Boom economico (1955/1965) e successivamente in
140
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
filosofia nel 2005, sempre con lode, avendo studiato estetica con
Emilio Garroni e filosofia teoretica con Mario Reale, con una
tesi dal titolo La concezione del Romanticismo nell‘estetica e
nella critica di Benedetto Croce. Come compositrice e
polistrumentista ha militato in vari gruppi di musica rock
sperimentale. Ha partecipato con i Wellen alla colonna sonora
di Blue(s) (1997), cortometraggio di Domenico Liggeri. Suona il
basso elettrico nel gruppo di art – psychedelic rock Void
Generator, con i quali ha all‗attivo Phantom Hell And Soar
Angelic (Phonosphera Records 2010), Collision EP
(Phonosphera Records 2011), recensiti e distribuiti ampiamente
all‗estero, e la partecipazione a due compilation, Fuori dal
Centro (Fluido Distribuzioni, ITA 1999) e Riot On Sunset 25
(272 Records, USA 2011). Ha collaborato per diversi anni alla
rivista Musikbox in qualità di saggista specializzata in krautrock e
musica cosmica tedesca. Suoi contributi di critica letteraria,
storiografica e filosofica, poesie e prose, sono apparsi su
Musikbox, Verde, MareNero, Scrittori Precari, Fallacie Logiche,
Storia & Storici, Poetarum Silva, WSF, Neobar, Il Giardino Dei
Poeti, Idee/Inoltre, In Realtà La Poesia, Atelier, Cadillac,
Nazione Indiana, Kasparhauser, Filosofia In Movimento, Italian
Studies in Southern Africa, Dialettica & Filosofia . È stata
direttore e caporedattore del sito aperiodico Terra Di Poiesis, la
cui esperienza è ormai chiusa. Attualmente dirige il blog Critica
Impura all‗interno del quale, oltre all‗impegno redazionale e
scrittorio, pubblica le proprie fotografie ed elaborazioni di
computer art. A quattro mani con Antonella Pierangeli, a
gennaio 2013 ha pubblicato per Web ― Press Edizioni Digitali
l‗ebook Un anno di Critica Impura. Ha realizzato a maggio del
2013 il video di digital art Parole Salve, associato a Cose Salve,
happening artistico per ricordare il terremoto dell‗Emilia
patrocinato dal Comune di Reggio Emilia. Nel 2014,
nell‗ordine, ha pubblicato un nuovo album con i Void
Generator (Supersound, Phonosphera Records), un volume di
monologhi fra i letterario ed il filosofico, intitolato Opus
Metachronicum (Corrimano Edizioni, Palermo) la curatela
antologica Poeti della lontananza insieme ad Antonella
Pierangeli (Marco Saya Editore, Milano).Vive e lavora nei pressi
di Roma.
Fabio Ciriachi: poeta e narratore. Con la silloge ―Dissidenze‖, in
7 poeti del premio Montale (All‘insegna del pesce d‘oro, 1991)
è tra i vincitori del Premio Montale 1990 sezione inediti. Ha
pubblicato racconti: «Solo per somiglianza» in La mia città senza
grazia, antologia del Premio Anna Maria Ortese 2004 (Empiria,
141
Lichtung. Luci
2005), «Un poeta all‘inferno» in Renault 4 – Scrittori a Roma
prima della morte di Moro (Avagliano, 2007). Le raccolte di
poesia L‘arte di chiamare con un filo di voce (Empiria, 1999), Il
giardino urbano (Empiria, 2003), Pastorizia (Empiria, 2011). La
raccolta di racconti Azzurro-cielo e verde-pistacchio (Edimond,
2008). I romanzi Soprassotto (Palomar, 2008), L‘eroe del giorno
(Gaffi, 2010, premio Passioni), Le condizioni della luce (Gaffi,
2013). Ha tradotto dal francese l‘opera di David Mus Qu‘alors
on ne se souviendra plus de la mer Rouge (Ragage/Empiria,
2005). Ha recensito libri per la Repubblica, il Manifesto, l‘Unità.
Giacomo Conserva: analista, psichiatra, psicoterapeuta, essere
umano. Sono nato nel 1948. A 16 anni per un anno a Chicago
(e poi molti viaggi). Ho diretto l‘SPDC di Parma, e un CSM. Ho
collaborato a Erba Voglio, Waves, A/traverso (prima e seconda
serie), Poliscritture; nel 78/79 Radio Area a Parma. Due
matrimoni; due figli. 5 anni di analisi dall‘‘80. Condirettore di
―Kasparhauser‖. Ho un blog multilingue, ―Oltre la società
psichiatrica avanzata‖ [http://gconse.blogspot.it]; sono fra l‘altro
membro dei gruppi Facebook ―Contro la riapertura dei
manicomi‖ e ―Filosofia e nuovi sentieri‖, ―Bateson Deleuze
Foucault‖, ―L‘ordine del discorso‖. Ho curato e tradotto
―Poesie‖ di William Blake (Newton Compton, 1976, 4 ristampe
– l‘ultima rivista e anche in kindle). Nel 1990 ―Derive
metropolitane‖ (libr. A/traverso). Mi sono negli ultimi anni fra
l‘altro occupato di Ellen West, Marguerite Pantaine Anzieu,
Louis Wolfson, Schreber, e di parecchie altre cose e persone.
Nel 2004 ―Un approccio alle emozioni‖ e ―Nel Regno
dell‘Ansia‖, anni dopo entrambe pubblicati sul mio blog; 20102011: ―Sartre, la psicanalisi esistenziale e l‘antipsichiatria‖, sul
sito di Poliscritture; 2013 (aprile-maggio) 6 installments su ―La
nausea‖ sul blog. Ho scritto parecchie poesie e songs, tradotto
testi di Auden, Acker, George, Delany etc. Conosco inglese
francese tedesco spagnolo portoghese latino greco antico, e un
po‘ di russo. Ho fatto il disc-jockey.
Giuseppe Crivella si occupa di fenomenologia, estetica e
filosofia delle immagini. Si è laureato con una tesi su Georges
Didi-Huberman dal titolo "Per inane soluta. Didi-Huberman e
le eterotopie dell'immagine". Attualmente è PhD in filosofia
142
Kasparhauser ■ Rivista di cultura filosofica
Anno 3, Numero 10
teoretica presso l'Università degli Studi di Perugia, con un
progetto di ricerca dedicato a Husserl, dal titolo "Verso le
matrici antepredicative della fenomenologia trascendentale".
Suoi articoli sono apparsi su Kasparhauser. È possibile trovare
buona parte dei suoi scritti presso il sito academia. edu.
Maurizio Montanari: psicoterapeuta – psicoanalista, fondatore e
responsabile del centro di Psicoanalisi applicata LiberaParola
(www.liberaparola.eu). Membro della Eurofederazione di
psicoanalisi; collaboratore del Centro depressioni e disturbi
dell‘umore di Modena; consulente e membro del Comitato
scientifico nazionale LDAP, Lega Italiana contro i Disturbi
d‘ansia, da Agorafobia e da attacchi di Panico; docente per corsi
di formazione medici presso Scuole Regionale in formazione
specifica in medicina generale; autore de Il posto del panico, il
tempo
dell‘angoscia.
Collabora
con
la
rivista
http://www.psychiatryonline.it. Ha collaborato con alcune
cattedre Universitarie (Psicologia dinamica, Medicina). Vive e
lavora tra Modena e la Lunigiana. Accudisce Ginevra, nata da
poco. È sempre intento a migliorare il suo tempo in maratona.
Marco Nicastro (Caltagirone 1979) vive e lavora a Padova. È
psicoterapeuta ad orientamento psicoanalitico; si occupa, nello
specifico, di adolescenza e età adulta. Ha pubblicato la raccolta
di versi Trasparenze (Oèdipus edizioni, 2013) e, in ambito
clinico, Pensieri psicoanalitici (Arpanet edizione, 2013).
Stefano Scrima è redattore della rivista filosofica ―Diogene
Magazine‖ e direttore della collana ―I Quaderni di Diogene‖ per
le Edizioni del Giardino dei Pensieri. Ha scritto Esistere Forte.
Ha senso esistere? Camus, Sartre e Gide dicono che…, Edizioni
del Giardino dei Pensieri, Bologna 2013; Sum, ergo cogito. La
―Fame rabbiosa di essere‖ di Miguel de Unamuno, in Paolo
Vincieri (a cura di), Sull'identità personale, d.u.press, Bologna
2013; e curato Il mito di Prometeo. Il lavoro che c'è, il lavoro
che manca, Edizioni del Giardino dei Pensieri, Bologna 2013 e
il Dizionario della filosofia greca, Edizioni del Giardino dei
Pensieri, Bologna 2012.
143