Untitled - Dottorato di ricerca in composizione architettonica

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Untitled - Dottorato di ricerca in composizione architettonica
SEMPLICE SENZA SEMPLIFICARE
Intervista a Luigi Snozzi
Giuliano Zerillo
Un assolato pomeriggio d’inizio primavera ho avuto il piacere d’incontrare Luigi Snozzi nel suo studio di Locarno. Snozzi è il più autorevole rappresentante della cosiddetta “scuola ticinese” sulla cui costituzione svolge un ruolo importante l’intreccio tra cultura tedesca
ed italiana, ove Politecnico di Zurigo e Scuola di Venezia ne rappresentano il cardine.
I cammini di ciascuno del gruppo della “scuola ticinese” si sono divisi, ed ognuno ha assunto ruoli importanti nella cultura architettonica internazionale, dove Snozzi si è imposto pur tenendo un profilo sobrio, negli atteggiamenti e nel progettare.
G.Z. Quali sono gli elementi, che secondo lei, sono alla base del progetto di
architettura? Quale processo determina il passaggio dall’atto creativo alla realizzazione dell’opera?
L.S. Non chiedi poco! Prima di tutto è il luogo dove si interviene, quella è
sicuramente una parte fondamentale. Quando progetto, raramente vado a vedere
il luogo in cui intervengo, per un semplice motivo: quando si va a vedere un
luogo senza che si è ancora fatto un progetto, non si sa cosa guardare, perché il
luogo ha una tale quantità di elementi, per cui si potrebbe rimanere lì una vita
intera e poi, quando si ritorna, ci si accorge che quello di cui avevi bisogno non
l’hai visto. Quando devo fare un lavoro, sulla base di cartografie, mi pongo una
domanda, cioè riduco ogni mio pensiero ad una sola domanda, parto da mille
domande ed arrivo ad una sola. Ad esempio quando ho fatto il progetto della
“Metropoli di Olanda”, siamo andati in Olanda, ma puoi immaginarti che per
capire una metropoli grande quanto tutto il territorio olandese non basta una vita
di un architetto, ci vorrebbero dieci vite o venti, o trenta vite di un architetto per capire un tale contesto. Io sono
arrivato ad una sola domanda e la mia domanda era questa: “è possibile progettare una metropoli dove l’uomo
può orientarsi come nella città storica?”. Questa domanda l’avevo posta anche a Gregotti e Gregotti mi ha detto
che ero un matto, e che la metropoli è una cosa completamente diversa, ed è specifico della metropoli il fatto che
non si possa controllare tutto lo spazio. Ebbene io mi sono posto quella domanda ed ho mantenuto sempre quella,
per questo motivo quando sono andato a visitare l’Olanda l’ho visitata in un giorno, non sono dovuto stare in Olanda un anno per capire cos’è l’Olanda. Io in un giorno ho visto quello che mi interessava per rispondere alla
mia domanda, e questo è un po’ il mio modo di fare normalmente, e quasi in ogni lavoro io mi pongo sempre una
sola domanda o cerco sempre di ridurre le domande ad una. Poi il bello è che quando siamo andati a consegnare il
lavoro in Olanda, la commissione ha posto ai quattro architetti, c’era Rem Koolhaas e altri tre olandesi, un elenco di cento domande sulla metropoli, mezz’ora prima di consegnare il lavoro, ed ognuno doveva dire quanti di
questi problemi aveva risolto. Io le ho lette ed ho notato che in tutte quelle domande non c’era la mia, non mi ero
posto nessuna di quelle domande che ponevano loro, nessuna. Quando mi chiesero a quante domande avevo risposto, io ho detto di aver risposto a tutte. Ecco questo è il problema: siccome l’opera di architettura è sempre
un’opera di sintesi, è logico che se ti poni una buona domanda contieni tutto, e li mi sono accorto come cento
domande, che non mi ero mai posto, erano contenute in quella mia di partenza. Ho risposto a cento domande partendo da una sola, ecco, questo è il progetto di architettura.
G.Z. Spesso si usa il termine “scuola ticinese” per identificare una serie di opere architettoniche che a partire dagli anni ’60 hanno assunto un rilievo internazionale. È giusto nello specifico caso ticinese usare la definizione di “scuola”?
L.S. Secondo me la “scuola ticinese” non è mai esistita, c’era un gruppo di giovani architetti, amici, che si dividevano il lavoro tra di loro. Capitava spesso che quando uno di noi aveva un lavoro voleva farlo con un altro,
così si è lavorato varie volte insieme, io ho lavorato con Botta, con Galfetti, ho lavorato con Vacchini ecc., però
non è una scuola, secondo me, perché è un gruppo che non è mai riuscito a sintetizzare una teoria. L’unica cosa di
gruppo che si è fatta era la lotta contro i regolamenti edilizi del comune o del cantone, oltre a quello niente. Mi
rammarico un po’che le nuove generazioni avrebbero dovuto mettere insieme quelle che erano le nostre visioni
del momento, perché noi andavamo in modo molto pragmatico, quindi la vera scuola in quel senso lì non è mai
esistita. Il filo conduttore per noi erano i grandi architetti che seguivamo, soprattutto ci ha aiutato molto Venezia
ai tempi di Tafuri. Tafuri ci ha messo molto in crisi, ma per noi era importante, così come importanti erano Aldo
Rossi, soprattutto, Gregotti, Gino Valle ecc., quel periodo della scuola di Venezia è stato per noi molto proficuo.
Vi abbiamo imparato un mucchio di cose ed avevamo il vantaggio che come svizzeri-ticinesi riuscivamo a leggere le loro opere subito, in italiano, gli svizzeri tedeschi o francesi dovevano aspettare che le traducevano e le traduzioni tante volte arrivavano cinque o sei anni dopo, quindi potevamo anticiparli, ma sicuramente Venezia è stata un punto di riferimento importantissimo.
G.Z. In futuro un luogo fisico, che è stato creato, come l’Accademia di Architettura di Mendrisio, può generare una “scuola” ticinese, intesa come un pensiero comune sull’architettura?
L.S. Potrebbe, dipende tutto da quello che faranno i nuovi arrivati. Ad ogni modo l’università del Canton Ticino è un’università interessante, funziona bene, è anche seria. L’avevo lanciata io l’idea di fare la scuola, soltanto che io non avevo i presupposti né politici né economici per poter avere un influsso sul Ticino e sulla politica
ticinese. Botta queste possibilità ce l’aveva, infatti in pochi mesi riuscì a far accettare a tutti i partiti del Canton
Ticino l’idea della scuola. Era una scuola di cui si parlava ormai da cento anni in Ticino, e Botta in pochi mesi
riuscì a svilupparla. No avendo mai insegnato, quando doveva far partire il progetto, Botta mi convocò - io avevo
già insegnato in varie facoltà - dicendomi “questa scuola la voglio fare per te”, e abbiamo discusso su come fondarla, scoprendoci su due posizioni opposte. Io avevo in testa un altro tipo di università. La mia idea di scuola era
una scuola che si occupasse di un solo problema, ossia le Prealpi, che trattasse la nostra situazione del Ticino,
pensando anche di far tesoro delle esperienze che noi avevamo già fatto. L’idea principale che mi ero posto era
questa: oggi c’è il problema delle grandi città della pianura, tutte le grandi città moderne sono in pianura, Milano,
Venezia etc. sono sulla pianura del Po. Succede che queste città s’ingrandiscono e cominciano ad invadere i piccoli paesi delle Prealpi, il Ticino, ad esempio, sentiva già l’influsso di Milano, e forte. Chi è che si oppone a questa avanzata delle città? Non certo le commissioni dei monumenti storici, che vedono nell’avanzata delle città il
male assoluto per cui tentano di proteggere i luoghi storici cercando di isolarli, che è un operazione assurda, impossibile. Per cui io sono partito da un’altra idea: ben venga la città sui villaggi, ti aspettiamo con la gioia nel
cuore, perché solo così possono nascere altre situazioni che non sono quelle protettive sicuramente. Fondare la
scuola su questa idea. Naturalmente per la nomina dei vari professori non bisognava assumere l’élite dei grandi
architetti mondiali, come Botta immaginava, per farla internazionale, bastava prendere gente capace che si occupava di questo tema, non c’era bisogno del marchio di grande architetto. Su questa divergenza con Botta ci siamo
poi divisi, lui è riuscito a far nascere questa scuola, che io stimo, rispetto, da cui però mi ha sempre tenuto fuori.
Io infatti a Mendrisio vado ogni tanto a far critiche, qualche conferenza, ma non ho mai partecipato attivamente,
io ho in testa un’altra cosa.
G.Z. Un concetto interessante nelle sue architetture al di là del luogo è il rapporto tra architettura e natura.
L.S. È uno dei temi fondamentali. Io adesso insegno in Sardegna, insegno solo al primo anno, perché mi rifiuto d’insegnare al secondo, terzo, quarto e quinto, perché gli studenti sono talmente corrotti, che non c’è più niente
da fare, sono persi, al primo anno riesci più o meno ad indirizzarli un po’, e la prima frase che dico ai miei studenti è una frase non mia, è una frase di Paolo Mendes da Rocha che dice che la natura è una merda. È una prima
frase shock, è una frase che rimarrà loro impressa per tutta la vita, diranno che è una frase blasfema, diranno di
tutto, e per me è la frase più importante per l’architettura. Io dico che bisogna sempre lavorare in antitesi alla natura, mai con, se la natura va in un verso, tu vai all’opposto, bisogna ribaltare tutto, è l’unico modo per trovare un
rapporto decente con la natura. Paolo Mendes diceva che la natura ci fa forse il più grande regalo che qualcuno
possa farci, ci dà a disposizione la sua natura e ci dice: “ per favore cambiatemi, io non ho fatto questo paesaggio
per voi, io l’ho fatto per me, e se volete un vostro paesaggio dovete modificarmi, ma per modificarmi dovete
sempre contrariarmi, mai seguirmi”. Questo è un po’ il principio di tutto il mio insegnamento, viene da questa
piccola frase di Paolo Mendes.
G.Z. Nelle sue opere il materiale che utilizza di più è il cemento, un materiale che lei dice di amare molto.
L.S. Lo amo per varie considerazioni, lo amo perché è il più vituperato di tutti i materiali del mondo: la “betonizzazione”, la cementificazione delle città e tutte queste “balle”. Tanti non si rendono conto che il 90% di tutto
quello che si costruisce, si costruisce in beton, tranne quello che è trasparente è quasi tutto in beton. Io trovo che
il beton ha queste qualità: primo, è un materiale naturale, sabbia dei nostri fiumi, acqua, cemento e poi ferro, che
si può anche considerare un materiale naturale, ed ha delle proprietà incredibili, per esempio è l’unico prodotto
con cui si può realizzare un volume e renderlo unitario con un solo materiale, come si costruiva qui da noi. Noi
qui siamo nel Sopraceneri, le nostre case erano di pietra, tetti e pareti di pietra a vista e i tetti erano delle pareti di
sbieco di pietra anche loro, per cui c’era questa unità di tutto il volume architettonico. Poi, non ha bisogno neanche di zoccoli quando arriva nel terreno, è veramente sintetico in tutto, è per quello che mi ha sempre attratto,
d’altra parte il nostro beton vicino alle case di pietra si armonizza alla perfezione, perché ci sono vari tipi di
beton, per esempio i beton del Sottoceneri sono molto peggio dei nostri, il colore della sabbia cambia, e diventano giallicci.
G.Z. Il mestiere dell’architetto è stato sempre discusso, e le opere progettate e realizzate hanno sempre avuto
un’influenza sulla città, è possibile affermare che il mestiere dell’architetto sia un mestiere sociale?
L.S. Io ho pensato di no, ho sempre pensato di no, che l’architettura può cambiare l’architettura, ma non
l’uomo. Oggi, dopo l’esperienza che ho fatto a Monte Carasso, mi sono riveduto su questo punto. Nell’intervento
fatto nel paese di Monte Carasso ho visto una popolazione cambiare in modo totale. Io ero entrato in un piccolo
paese in cui la gente era al margine della società, basti pensare che nelle nostre scuole del Ticino quando uno non
sapeva rispondere gli si diceva: “ vieni da Monte Carasso?”. Monte Carasso era il simbolo dell’asino, dello stupido, erano visti così. Io abitavo vicino Monte Carasso ed avendo l’ufficio a Locarno, ci passavo tutti i giorni, ma
per vent’anni non mi sono mai fermato una volta tre minuti. Era un villaggio sperso, al margine di tutto, era anche un villaggio che non aveva né piazze né niente, tutti i villaggi ticinesi più o meno hanno la loro piazza con il
municipio, Monte Carasso aveva solo un convento, che era obsoleto anche quello, e poi alcune casette attorno,
ma senza una struttura di paese, per cui lo si ignorava, era un paese totalmente ignorato. Oggi se vai a Monte Carasso, trovi una popolazione molto attiva, fanno mostre di pittura, scultura, ci sono teatri, si fanno concerti, è impressionante il cambiamento che ha fatto quella popolazione. Volere o no, l’architetto ha un ruolo sociale.
C’è un fenomeno abbastanza strano, per esempio nel paese di Monte Carasso dove io ho fatto delle regole, ce
n’erano centocinquanta e le ho ridotte a sette, ma non c’è nessuna regola che riguarda la forma architettonica, né
la forma né i materiali, i materiali si possono utilizzare tutti, si può costruire in ferro, in metallo, in plastica, puoi
fare anche il “kitsch architettonico”, è ammesso. Nonostante questo tutte le nuove case che son state fatte dagli
abitanti, non da me, sono tutte in calcestruzzo, non c’è più nessuno che fa un tetto inclinato, tutti fanno tetti piani,
c’è stata una specie di imitazione, un fenomeno che non è mai successo nel Canton Ticino, una cosa molto nuova.
G.Z. Il ruolo dell’architetto, da quando lei ha iniziato la sua professione ad oggi, è cambiato?
L.S. Io penso di no, tutti parlano del grande cambiamento della nostra professione, io penso che è rimasta uguale da quando è iniziata. Si tratta di porre qualcosa sulla Madre Terra, eventualmente un tetto per coprire
l’uomo dalle intemperie, è sempre stato lo stesso, io non vedo un cambiamento sostanziale. Cos’è cambiato? Sono cambiate molte cose, sono cambiati i materiali da costruzione, la tecnica, le tecnologie, ma quelle sono, alla
fine, secondarie.
G.Z. Soprattutto nella realizzazione delle grandi opere c’è una distanza tra progetto e costruzione dell’opera
stessa e le figure professionali che entrano in gioco sono diverse. È possibile che alla fine del processo edilizio il
progettista non riconosca più la sua opera?
L.S. Capita. Specialmente oggi, dove sono le grandi imprese che hanno in mano tutto, può capitare che una
tua opera finisce per essere mal interpretata. Oggi si usa la tecnologia come elemento di risalto, si fa tutto per
l’occhio, però alla fine chi va a visitare le grandi opere, le visita per dieci minuti, fa migliaia di fotografie, e poi
va via dimenticando tutto. Davanti l’Acropoli di Atene Le Corbusier è arrivato, e si è fermato quarantacinque
giorni, e in quei quarantacinque giorni ha cambiato tutto il pensiero sull’architettura del mondo. Questa era
l’architettura, mica quei fenomeni di adesso per i quali l’architettura è diventata un oggetto di consumo come tanti altri. Io Rem Koolhaas, in questo senso, lo considero uno dei miei grandi avversari.
Le archistar di solito si rinchiudono nel loro orticello, non lavorano mai al di là del lotto che gli viene assegnato. Si richiudono nel loro orticello e fanno il loro monumento, questa è un po’ la loro idea, ed hanno anche
successo. Io tutti i concorsi che ho fatto, gran parte, li perdo proprio perché quando devo inserirmi in zone urbane
non riesco mai ad occuparmi della sola area che assegnano, ho sempre bisogno o di modificare una strada, o di
modificare qualcosa e questo, naturalmente a livello pratico, crea difficoltà ai politici.
Io oggi sono contento di avere la mia età, perché sono stufo, sono stufo perché non vedo avvenire, sono molto
pessimista anche se sono sempre stato ottimista. Più avanzo e più vedo che i giovani d’oggi si trovano in una situazione tremenda per l’architettura, quindi io son contento di esserne quasi fuori. Ma è vero che nell’avvenire è
difficile capire cosa può succedere.
G.Z. Secondo lei l’architettura è arte, ed in quanto tale l’opera di architettura ha pari dignità di un’opera
d’arte?
L.S. Io penso di sì, malgrado che come architetto rifiuto di considerarmi un’artista, cioè io faccio il mio lavoro
come si fanno tanti altri lavori, e tento di rifiutare questo appellativo di artista. Poi in effetti è vero che
l’architettura presenta grandi opere artistiche, non c’è niente da fare, o le ha presentate, l’architettura è portatrice
di valori che vanno al di là dell’opera stessa.
G.Z. La sua collaborazione professionale con Livio Vacchini è stata molto importante, che contributo le ha
dato?
L.S. Io ho lavorato con Vacchini per otto, nove anni, i primi anni, poi abbiamo litigato su una cosa stupida, lui
voleva costruire la sua casa, ed io gli proposi di fare un prototipo di un quartiere di operai e progettare la prima
casa del quartiere. Immagina che Vacchini era proprio il contrario, a livello politico, in quanto era il buon borghese cui piaceva la poltrona. Così mi disse: “allora falla tu”. Ed io ho disegnato un nuovo quartiere, con la sua
prima casa, e un giorno gliel’ho fatta vedere. Lui la guarda e la prima cosa che dice è : “ dov’è il bidet?” Ed io gli
spiego che il bidet non c’è, nella casa i servizi sanitari sono ridotti al minimo e non c’è il posto per un bidet, nelle
case operaie il bidet non è essenziale. Ci siamo divisi sul bidet, un litigio incredibile e lo stesso giorno se ne è andato dall’ufficio. Siamo rimasti grandi amici, fino alla fine, anzi siamo rimasti più amici di prima, però su questo
non ha mollato.
Livio Vacchini era proprio l’opposto di me. Usava sempre materiali estremamente moderni. Lui, quando pubblica le sue opere, non le pone mai nel contesto effettivo. Ad esempio, quando ha fatto la Posta di Locarno, in
pieno centro, ha pubblicato l’edificio. Io gli facevo sempre l’osservazione: “ma perché pubblichi sempre il tuo
edificio senza niente attorno?” e lui diceva :”ma tu hai mai visto una chiesa di Palladio, di Borromini con il contesto? Tu vedi la chiesa di Borromini e basta, perché la chiesa di Borromini contiene il contesto, non c’è bisogno
di disegnarlo”. Infatti tutte le sue opere sono sempre singole, non vedi mai Piazza Grande, vedi il suo edificio,
come un elemento astratto. Questi erano i problemi che avevamo insieme, lui era proprio l’opposto. Lui usa i vetri riflettenti perché dice che il paesaggio non gli interessa, perché il paesaggio lo fa lui. Io, invece, utilizzo sempre vetri normali, nelle mie case non potrei usare vetri a specchio. Eravamo su due posizioni in fondo molto contraddittorie, ma dall’altro lato erano due posizioni che avevano molto da fare insieme. È per questo che
m’interessava molto il rapporto con Livio, io ho imparato moltissimo da lui. E poi ogni giorno ricevevo un piccolo biglietto da Vacchini. Una volta avevamo riattato una casa, ed avevamo fatto una piccola galleria con la porta d’ingresso, lui avrebbe dovuto realizzare una galleria proprio nell’edificio di fronte. Allora nel biglietto mi
scrive : “Caro Luigi, ti ringrazio. Io voglio fare una galleria dall’altra parte e quindi sono andato a vedere la tua,
la tua è talmente oscena, schifosa, talmente sbagliata, ti ringrazio così so cosa non devo fare!”. Ecco, questi erano
i biglietti gentili di Livio, sempre così. Ed aveva anche ragione, non che non avesse ragione. Livio aveva delle
qualità, per esempio è il primo architetto che è riuscito a leggere il Partenone, il difetto del Partenone. Infatti un
giorno arriva in ufficio e mi dice :”Ho fatto una trovata incredibile”. Ed io rispondo :”quale?”. E lui: “la trovata
che i greci erano dei poveri cristi che non sapevano costruire”. ”Cosa non sapevano costruire?”, gli chiedo, e lui
“il Partenone”, e mi spiega perché. Dice che il Partenone ha le metope, quei sassi che nascondono le travi di legno che sostenevano il tetto, ed il tetto è a due falde. Lui si accorge che le metope che nascondono le travi, i greci, le mettono anche dove non ci sono le travi, cioè dicono una bugia. Io gli faccio notare che sbaglia quando arriva alla conclusione che i greci non erano capaci a costruire, perché erano talmente capaci a costruire che sapevano dire le bugie in una maniera straordinaria, io non ho mai visto un capolavoro dell’architettura senza grandi bugie. Anche Siza nel Museo che fa a Santiago de Compostela, aveva fatto una parete sospesa al soffitto vicino
l’ingresso, quando arriva sul cantiere, perché Siza va sempre sul cantiere, si accorge che quella parete sembra che
si muova, che non è fissa, allora cosa fa, infila sotto una grande putrella di ferro, enorme, e degli appoggi di ferro
che portano neanche un grammo, è tutta una balla, e dopo lui è soddisfatto. Siza è un architetto che non ha teorie.
Infatti quando insegnava a Losanna solo i bravissimi potevano seguirlo. Siza non è un grande insegnante, perché
non ha punti di riferimento, non ha teorie su cui si basa il suo discorso, non le ha mai avute e non le vuol neanche
avere, quindi si adatta a quello che il suo pensiero gli suggerisce. E’ una specie di poeta, scrive le sue rime. Io conosco molto bene Siza, abbiamo fatto anche ultimamente un lavoro insieme, abbiamo fatto una chiesa, è molto
diverso da me, ma c’è qualcosa che ci unisce, cos’è non lo so. Di solito lui parte con i suoi schizzi, va in tutte le
direzioni, comincia con un quadrato e finisce con un rotondo, fa tutta una serie di ipotesi, che non è il mio modo,
io vado molto più diretto.
G.Z. Qual è l’architetto italiano contemporaneo che ammira maggiormente?
L.S. Io in Italia ammiro molto Francesco Venezia, è rimasto un mio amico da tempo, ogni tanto ci sentiamo, è
un grande architetto, purtroppo gli danno poco lavoro. Poi c’è Gregotti, che come architetto non è che lo stimo
molto, però bisogna ammettere che come uomo, come teorico per me è importante. Poi c’è Gino Valle, non tutto
quello che fa Gino Valle mi piace, però era un uomo interessante, io sono stato con lui due anni a Salisburgo, nella commissione di Salisburgo, era un tipo formidabile, sempre ubriaco. È strano perché se si pensa agli anni ’60,
bisogna ammettere che lo IUAV di Venezia ha dato il suo contributo all’architettura direi mondiale, era un momento veramente forte e poi è scomparso c’è stata la débâcle totale. Io vedo persino Aldo Rossi, si può criticarlo
in mille maniere, però è una figura importante, morto Aldo Rossi non se ne parla più, cioè è come scomparso,
non si sente più niente di Aldo Rossi, io non ho più sentito niente, a parte chi lo imita male.
LINEAMENTI DELL’ARCHI-ETHICA
Postille di ontologia sociale all’architettura
Leonardo Caffo
Abstract: In questo articolo evidenzio alcuni punti per un possibile programma di ricerca che integri, in un solo progetto, architettura e
filosofia morale. Propongo di chiamare archi-etica questo progetto, e cerco di delinearne l’impianto realista di base (fondamento morale) e
la base testualista emergente (architettura come oggetto sociale).
Vite in Città. Se ho ragione state leggendo questo articolo in una città: non importa quale, né la sua forma o la
lingua che vi si parli, ciò che importa è che lo spazio intorno a voi sia “cittadino” – ma familiare in modo
naturale. La città, e tutto il complesso di relazioni di cui è palcoscenico, rappresenta il migliore dei case-study
possibili per discutere cosa sia l’archi-etica: una teoria con cui propongo di leggere, in chiave filosofica, molti dei
progressi tecnici e teorici dell’architettura. In primo luogo è un’idea, ancor prima che una proposta strutturata: la
convinzione che gli spazi costruiti, in quanto precedentemente progettati, siano specchio degli spazi mentali. In
secondo luogo è una visione complessiva della realtà: riunisce oggetti sociali e naturali nell’insieme percettivo
più vasto della nostra esistenza – disegna l’Umwelt in continuo divenire che è garantita dal progettare gli spazi
che occupiamo. Ed è per questo che dobbiamo tentare un’esplorazione archeologica (e morale 1) dell’idea di città
consapevoli, tuttavia, che stiamo cercando di descrivere qualcosa di più grande; consideriamo dunque, per un
attimo, il celebre dipinto “La città ideale”2:
Non pretendo certo di operare un’analisi artistica dell’opera 3 , quanto – piuttosto – di farne comprendere le
motivazioni filosofiche speculari a quelle dell’archi-etica come teoria generale che qui stiamo tratteggiando. È
singolare osservare le proporzioni, geometricamente limpide e perfette, che l’umano nel suo più alto fiorire – il
Rinascimento – si auspicava per la migliore delle città possibili. È singolare, ma è ovvio. Lo spazio della città
ideale non è soltanto geometrico, ma soprattutto morale: nessuna parte della città è “migliore” dell’altra, non ci
sono bei centri e disagiate periferie, ma un unico territorio in cui condividere relazioni nella parità di un orizzonte
architettonico. Ogni mattone grida: “forma è sostanza”. L’opposto ideale di questa uniformità architettonica è
4
rappresentata da Manhattan, nel ritratto che ne fa Rem Koolhaas, nel suo dirompente Delirious New York . In
questa anti-Parigi, contro-Londra, opposta-Venezia, la realtà è sospesa verso “un’assenza di gravità morale” in
cui gli interessi dei cittadini sono stati completamente subordinati a quelli della sperimentazione architettonica –
ed è forse il disagio di Gor’kij, emblema dell’intellettuale a passeggio per una città evanescente, che descrive al
meglio questo sacrificio della dimensione morale dell’architettura: “gli uomini prigionieri della Città sono
centinaia di migliaglia […]. I bambini camminano in silenzio, guardandosi attorno con occhi spenti, con tale
tensione e serietà da star quasi male per questo sguardo, che nutre la loro anima di deformità scambiata per
bellezza” 5.
Città e oggetti. Una prima idea, dunque, che vorrei sostenere è che in architettura non si può fare “tutto e il
1 Ho già abbozzato un primo tentativo di questa ricerca su questa stessa rivista: L. Caffo (2012), L’architettura morale della città, in
«Bloom: trimestrale di architettura», n. 15 (Dic/2012), pp. 4 - 8. Il rapporto tra architettura e morale è stato anche recentemente indagato
sempre su queste stesse pagine, in A. Cuomo, L’etico e il sacro dell’architettura, nel n. 16 (Mar/2013), pp. 51 – 54 di questa stessa rivista.
2
Anonimo, ”La città ideale”, 1480-1490 ca. Tempera su tavola, cm 67,5x239,5 – Urbino, Galleria Nazionale delle Marche.
3 Per quanto “pop” considero, tra le analisi migliori del dipinto, quella rintracciabile in P. Daverio (2012), il Museo Immaginato, Rizzoli,
Milano, pp. 94 – 95.
4
R. Koolhaas (2001), Delirious New York: un manifesto retroattivo per Manhattan, Electa, Milano.
5 M. Gor’kij (1907), “Borendom”, in The Indipendent, 8 Agosto 1907.
contrario di tutto”. I criteri minimali da rispettare non sono solo geometrici, ma anche morali. Fare della città
caso esemplare, scaturisce da un’esigenza: se supponiamo, come credo 6, che il morale e i sociale interagiscono,
in modo davvero intimo, pur essendo diversi, non possiamo non preoccuparci del “dove” questo rapporto andrà
ad estrinsecarsi. L’architettura è una realtà sociale che si caratterizza in forma “materiale”. Le analogie con
l’ontologia sociale sono almeno tre:
1. Costruzione: realtà sociale/spazi architettonici; in entrambi i casi assistiamo al processo di “costruzione” 7
e, sia per il primo che per il secondo “progetto” preliminare, i parametri devono essere dati dal sistema
morale che ho difeso nei primi tre capitoli;
2. Influenza (della morale): gli spazi architettonici, come tutti gli spazi della realtà sociale, possono influenzare radicalmente la morale individuale e collettiva. Pessime periferie conducono alla delinquenza proprio come, ricordiamo quando detto nei capitolo due e tre, pessime forme sociali possono condurre allo
smarrimento di sé;
3. Reversibilità: gli spazi architettonici, come qualsiasi spazio sociale, si caratterizzano come reversibili.
Possono essere cambiati, decostruiti e ricostruiti e, ancora una volta, il tutto deve essere fatto secondo i
valori normativi dell’etica.
Gli oggetti dell’architettura, e ciò che regola la costruzione delle città, non sono dunque – come potrebbe
sembrare prima facie – spazi, punti, linee e fondamenta quanto, piuttosto, giustizia, libertà, regole e convivenza.
Decostruzione e Architettura. Come ha mostrato Jacques Derrida8, intendendo i prodotti architettonici come
testi, possiamo in linea di principio operare decostruzioni nei confronti di spazi costruiti per cercare di
comprendere cosa resta se guidiamo il processo decostruttivo secondo un determinato parametro, ad esempio
l’etica. Se l’architettura è costruzione, allora deve essere possibile una decostruzione: cosa resta del fatto se
togliessimo gli elementi della discordia? Questa mia proposta è attraversata da un’idea abbastanza originale di
decostruzione che non intendo, con Derrida (potremmo dire, dunque, “con l’originale”), come l’idea che un
oggetto (diciamo un “testo” per attenerci alla doxa) possa essere spremuto come un limone verso qualsiasi
significazione il decostruttore voglio attribuirgli (la pratica reader-oriented tanto detestata da Umberto Eco
studioso dell’interpretazione) quanto, piuttosto, con Richard Rorty (che però la critica nel suo definirla) come
l’idea che esista una struttura, come lo scheletro per un corpo, a cui si può arrivare eliminando il superfluo (sono
le sovrainterpretazioni) e cercando di raggiungere l’essenziale: il cuore degli oggetti, delle teorie e dei testi. È la
decostruzione operata avendo presupposto uno sfondo realista sia nei confronti degli oggetti naturali che di quelli
morali ma avendo invece assunto, al contrario, un antirealismo (il testualismo debole) nei confronti degli oggetti
sociali. Certo, cosa davvero volesse intendere Derrida con decostruzione non è semplicissimo; alcuni interpreti,
come Jonathan Culler 9, hanno sostenuto che la decostruzione sia molto più vicina alla pratica criticata da Rorty
che a quella detestata da Eco ma, a conti fatti, non è essenziale sapere cosa fosse nelle intenzioni del suo
formulatore quanto, piuttosto, quanto questa pratica possa tornare utile nel progetto di ricerca che qui sto
delineando. Prendiamo un Junkspace, nell’idea del genio di Koolhaas10: cosa resta di uno spazio spazzatura alla
prova della decostruzione?
Junkspace. Per quanto perverso l’operato umano, qualsiasi città, conserva in sé un principio di partenza: le
vostre vite sono i pupi che si esibiranno nei suoi teatri. Se provassimo ad arrivare sulla luna a cavallo di una
banana, a meno di non trovarci protagonisti di un romanzo di fantascienza scritto da un fruttariano, probabilmente
non riusciremmo a esaudire i nostri sogni spaziali. Cavalcare banane nello spazio è esattamente ciò che possiamo
chiamare sovrainterpretazione delle funzioni di un particolare oggetto, la banana: allo stesso modo la città ha
delle caratteristiche che non si possono forzare oltre un certo limite. Se possiamo avere dei dubbi su quale sia il
numero massimo di banane che possiamo mangiare di seguito, prima di avere un’indigestione (divergenza e
variabilità di interpretazioni), siamo certi che ci sono delle cose che una banana non può fare: come farsi
psicanalizzare perché non è più il frutto maturo di una volta. La architettura è come una banana, e la
6
Ho difeso una prima versione di questa tesi in L. Caffo (2012), La possibilità di cambiare: azioni umane e libertà morali, Mimesis,
Milano – non c’è spazio in questo articolo, ma la mia tesi (che regola il mio attuale lavoro di ricerca) è che l’ontologia sociale e suoi
oggetti siano fenomeni emergenti della realtà morale e dei suoi oggetti: facendo dell’architettura una teoria pratica del mondo sociale, si
capisce perché cerco di indagarne i principi morali.
7 In questo caso mi riferisco al processo di costruzione, tramite la Documentalità, proposto da M. Ferraris (2009), Documentalità: perché è
necessario lasciar tracce, Laterza, Roma – Bari.
8 In modo esplicito, anche se ritornello delle sue ricerche, in J. Derrida (2008), Adesso l’architettura, Libri Scheiwiller, Milano.
9 Il suo saggio “In difesa della Sovrainterpretazione” (reperibile in Italiano
in U. Eco (1995), Interpretazioni e Sovrainterpretazioni,
Bompiani, Milano.) è molto esplicito su questo punto e, personalmente, mi sento di concordare sull’interpretazione esegetica che l’autore
fa rispetto alla decostruzione nelle intenzioni di Jacques Derrida.
10 Cfr. R. Koolhaas (2006), Junkspace. Per un ripensamento radicale dello spazio urbano, Quodlibet, Macerata.
socializzazione che la investe deve tenere conto che ci sono delle cose per cui le banane architettoniche sono
adatte, e altre per cui non sono adatte. Le proprietà degli oggetti pongono dei limiti al ventaglio di interpretazioni
legittime. Questo non vuol dire, qui un punto crociale di tutta la mia argomentazione, che esistano dei criteri
formali e incontrovertibili grazie a quali i limiti dell’interpretazione possano essere fissati con dei criteri formali
in campo architettonico – quale sia il numero delle banane da non mangiare prima dell’indigestione – ma che
esita invece, reinterpretando la semiotica del testo fornita da Eco in chiave architettonica, un darwinismo
culturale che emerge nelle realtà sociali - come l’architettura – che istituzionalizzano la morale: la città, per
quanto spazzatura possa produrre, ha la funzione di consentire alle nostre vite uno spazio comune di sviluppo,
reciprocità e convivenza: come direbbero i filosofi italiani della biopolitica (penso ad Agamben, ma anche a
Esposito) in una sola parola – di comunità. È questo nucleo minimale di proprietà morali la partenza per ogni
architettura possibile, e ciò che resta della decostruzione.
Darwinismo Architettonico. Più che darwinismo culturale, dunque, si può ipotizzare una sorta di darwinismo
architettonico: nel tempo certe letture dell’architettura si dimostrano soddisfacenti per la maggior parte delle
comunità: nessuno vuole che i propri figli appena nati, ad esempio, vengano sepolti vivi dalle macerie di ospedali
mal costruiti per puro gusto estetico di “palazzi senza fondamenta”; chiamiamo questo meccanismo di tutela,
giusto per mancanza di originalità, “zoccolo duro della architettura”. In sostanza, non solo è ipotizzabile un
«principio popperiano» 11 per cui se non è possibile trovare le interpretazioni migliori è almeno possibile trovare
le peggiori ma, in aggiunta, è anche possibile sostenere che le peggiori indirizzino verso le migliori in
opposizione; una sorta di passaggio da un realismo architettonico negativo a un realismo architettonico
positivo12 – “se non voglio qualcosa è perché voglio qualcos’altro” – per parafrasi: se non voglio che i miei figli
vengano sepolti vivi da ospedali costruiti senza fondamenta è perché voglio qualcosa di “buono” per loro che
pretendo, presumibilmente, sia garantito dalla realtà sociale, e dunque anche architettonica, che fa da abito
esterno alla morale (voglio che i palazzi abbiano fondamenta decenti, e che scene infernali come quelle del
terremoto dell’Aquila non si ripetano di continuo). L’architettura è il modo con cui le comunità disegnano la loro
Sistema Architettonico. Dall’idea che l’architettura sia fenomeno emergente della morale vengono fuori, come
funghi d’autunno, problemi e obiezioni. Perché esistono architetture diverse? Perché l’architettura di Milano
porta i suoi abitanti a guidare in un modo (e meno male, aggiungo io) radicalmente diverso dall’architettura di
Palermo? Un sistema architettonico basata sulla morale è investito dai problemi e dalle caratterizzazioni di
qualsiasi altro sistema epistemologico: come sostenuto da Thomas Khun, infatti, qualsiasi teoria T per essere
accettata come paradigma non deve spiegare tutti i fenomeni possibili con cui avrà a che fare quanto, piuttosto,
risultare migliore delle altre teorie in competizione. Io credo ci siano i presupposti per un programma di ricerca
che mostri come la morale sia la spiegazione dello sviluppo dell’architettura e dei suoi fenomeni interni, come il
postmoderno che, non a caso, hanno attecchito prima al suo interno che in altre discipline, come la filosofia, in
cui bisognerà aspettare La condizione postmoderna di Lyotard del 1979.
Epistemologia e Ontologia. Credo che anche in architettura ci sia spazio per una distinzione necessaria:
epistemologia dell’architettura (come conosciamo il modo migliore di organizzare gli spazi architettonici) e
ontologia dell’architettura (come dovrebbero essere gli spazi architettonici). Su questa distinzione, pensiamoci
come si deve, si base ogni forma di realismo architettonico: non è una questione artistica – rappresentare le
“cose” nella loro crudezza con Gustave Courbet o Rosa Bonheur – ma, appunto, una questione filosofica.
Bisogna infatti sottrare l’architettura dal dominio dell’arte 13 verso quello della morale e della costruzione della
realtà sociale: architettura, in quanto capacità di architettare e vedere tramite progetti, prima che vengano
realizzati, significa avere capacità politica – comprendere cosa sarà giusto prima che lo sia (afferrare gli oggetti
prima di vederli). Essere realisti, in architettura, significa comprendere che ci sono dei modi migliori di altri per
dare a chi li abiterà gli spazi che si progettano: al di là dei capricci artistici dell’architetto come umano.
Progettare. È la progettazione, infatti, che rende l’architettura una pratica morale: si può essere antirealisti
quando la si intende come ontologia sociale, ma mai quando la si considera come specchio della morale.
Progettare significa dare spazio materiale alla morale: anche quando andiamo a spasso nel metafisico con
l’obiettivo di edificare, non libri filosofici, ma progetti architettonici, dobbiamo cominciare con la domanda di
11 U. Eco, Interpretazioni e Sovrainterpretazioni, cit., p. 65
12 Quel fenomeno filosofico, e sociologico, che è stato, ma soprattutto è, il “nuovo realismo” – M. Ferraris (2012), Manifesto del nuovo
realismo, Laterza, Roma Bari – ha, non a caso, suscitato interesse anche in campo architettonico: a titolo d’esempio, giusto per rimanere
ancora in bottega, si veda il numero monografico dedicato al realismo di Bloom: trimestrale di architettura n. 14 (Sett/2012).
13 Cosa che invece fa ancora Vittorio Gregotti, che intende il realismo architettonico come un realismo artistico: V. Gregotti (2004),
L'architettura del realismo critico, Laterza, Roma – Bari.
Quine – che cosa c’è? – e cercare di capire se l’esistenza dell’architettura, ovvero la stipulazione di oggetti
materiali, conseguenti a quelli morali, che regolano le nostre pratiche etiche, sia solo figlia di accordi hobbesiani
oppure, come ho cercato di dire, non sia qualcosa che sta nel mondo nel senso che sta in noi, e noi siamo parte di
questo mondo, (ed è forse da questa prospettiva “integrativa” che è possibile un semi-realismo: realismo morale
architettonico, ma antirealismo sociale sempre in architettura) e ogni scissione che pone l’uomo al di qua o al di
là del mondo è pura (e antropocentrica) astrazione. Passi pure, con un Heidegger molto frainteso e poco capito,
che il problema dell’essere si dia solo per chi è stato «gettato nell’esserci» (Dasein – tipicamente è la specie
Homo Sapiens secondo i filosofi, come mostrato nel capitolo quattro, a osservare la struttura del mondo in una
falsa posizione esterna), questo non significa che non siamo dentro lo stesso mondo che cerchiamo di studiare e
edificare quando ci facciamo la domanda delle domande – come mai qualcosa piuttosto che niente? E così, allo
stesso modo, essere dentro un modo che sembra nato con architetture eternamente cangianti non impedisce di
comprendere quale siano, a prescindere dalle contestualizzazioni contingenti, le cose essenziali della sfera
architettonica. Se architettare, se fare epistemologia del progetto, non avesse principi e parametri che ci
trascendono, e si potesse dire tutto e il contrario di tutto a suo proposito, allora non avrebbe neanche più senso
uno studio critico dell’architettura che ne problematizza e ne indaga il senso: basterebbe parlarne e costruire a
caso e aspettarsi, probabilmente, che chiunque possa tirare su delle palazzine e progettare città; non stupiamoci,
però, se il mondo ci cadrà addosso dalle fondamenta.
L’UTOPIA DEL GRADO ZERO
Luigi Manzione
Per fare qualcosa di tuo devi dimenticare quello che hai imparato. E quando cominci a dimenticare qualcosa trovi
qualcosa… di altro. Certo, magari ci provi senza mai riuscirci. Credi di stare facendo qualcosa di interamente tuo e un
anno dopo lo guardi e ci vedi le radici da cui proviene inconsapevolmente la tua arte. Marcel Duchamp, 19641
La fatale debolezza dei manifesti è la loro intrinseca mancanza di concretezza. Rem Koolhaas2
La modernità è tutta attraversata dalla dialettica continuità/rottura: incitamenti incendiari alla “tabula rasa”
convivono con accorati appelli alla tradizione. Accade poi – anche oggi – che una stessa figura segua, nella sua
esperienza di autore-creatore, percorsi più o meno tortuosi che la riportano fuori della conquistata libertà di espressione, verso una condizione di ossequio alla tradizione. Lo spiegava Roland Barthes cinquanta anni fa,
quando scriveva che “accedendo al classico, lo scrittore diviene l’epigono della sua creazione primitiva; la società
fa della sua scrittura una maniera e lo rende prigioniero dei suoi miti formali”. 3 Nei periodi di crisi, come
l’attuale, la riflessione sui fondamenti e sulle prospettive diventa sempre più essenziale e urgente, anche in architettura.
Ancora un manifesto
Nella chiave della relazione continuità/rottura, si muove il “manifesto per l’architettura”4 elaborato
dall’Associazione italiana di architettura e critica (A.I.A.C.), il quale si propone di stimolare un dibattito in un
territorio, quello della teoria dell’architettura, notoriamente paludoso negli ultimi anni. Proporrò qui alcune riflessioni su questo manifesto in dodici tesi,5 il cui titolo impegnativo è subito mitigato dalla precisazione che si tratta
di “proposte” per costruire nel tempo il testo definitivo, mediante un approccio suscettibile di uno sviluppo partecipato e interlocutorio.
La prima tesi invoca il recupero del grado zero. Il riferimento è a Barthes, che citavo più sopra, anche se gli
architetti ascrivono di solito questa nozione a Bruno Zevi,6 su incitazione del quale hanno portato, in senso metaforico, il manuale di storia dell’architettura sul tavolo da disegno, liberandosi con disinvoltura di quella che Harold Bloom definiva l’”angoscia dell’influenza”, che arde invece nei percorsi creativi dei romanzieri e dei poeti. 7
Con una certa spensieratezza, gli architetti sfogliano le pagine del suddetto “manuale” come meccanismo propedeutico all’ispirazione, senza sospettare che anche lì si tratta di un “agone”, di un confronto-scontro serrato con
coloro che li hanno preceduti. Non esiste, in realtà, grado zero in architettura, almeno nel senso generico che nel
nostro campo si è accordato a questa espressione, ma un continuo trasmigrare della tradizione nel nuovo e viceversa. Qualcosa di non molto diverso da quanto, in altri termini, sosteneva un iconoclasta mai pentito come Marcel Duchamp… Tutto questo denota un processo circolare che coinvolge un insieme composito di elementi (linguaggi, tecniche, teorie, progetti, etc.). Esiste piuttosto una “ricerca paziente”, che si compie “per prove e per errori” e che si sedimenta nel tempo sul corpo vivo dell’architettura.
La seconda tesi riguarda il linguaggio (al singolare), e si collega alla precedente riguardo alla costruzione di
“nuovi linguaggi formali”. La forma non è però il fine dell’architettura – lo diceva novanta anni fa Mies van der
Rohe8 –, ma il risultato. Un’architettura degna di questo nome è sempre espressione di un’epoca, oltre che di un
contesto e di un autore (a parte quella “senza architetti, ovvero senza architetti di cui si conosca il nome, che ci ha
fatto scoprire Bernard Rudofsky).9 Ora, aspirare ad essere espressione di un’epoca non è qualcosa che si può assumere come scopo. Si tratta anche qui di un risultato, non di un principio, altrimenti si tramuta in moda o in
formalismo, in una versione per così dire estesa della maniera a cui faceva cenno Barthes.
La critica, secondo la terza tesi, è operativa. Posizione legittima, di cui conosciamo le fonti, ma in fondo opinabile. Si potrebbe dire, come ha detto Manfredo Tafuri, che invece la critica è storia, e sarebbe un’altra posizione legittima, ma altrettanto discutibile. La domanda che mi pare si dovrebbe porre a monte è: che cos’è, e soprattutto a cosa e a chi serve la critica oggi? E ciò a partire dalla singolare circostanza che vede l’architettura come
l’unica disciplina (più o meno artistica) che invoca la critica in funzione operativa. Qualche anno prima di Zevi,
1
In Calvin Tomkins, Marcel Duchamp: The Afternoon Interviews, New York, Badlands Unlimited, 2013.
R. Koolhaas, Delirious New York. Un manifesto retroattivo per Manhattan, Milano, Electa, 2001 (1978).
3
R. Barthes, Le degré zéro de l’écriture, Paris, Seuil, 1953, p. 61.
4
Pubblicato in http://presstletter.com/2013/01/manifesto-per-larchitettura-associazione-italiana-di-architettura-e-critica/
5
Queste osservazioni si ritrovano, nella forma originaria, in alcuni scritti da me pubblicati su http://presstletter.com/
6
B. Zevi, Il linguaggio moderno dell’architettura. Guida al codice anticlassico, Torino, Einaudi, 1973.
7
H. Bloom, L’angoscia dell’influenza. Una teoria della poesia, Milano, Feltrinelli, 1983 (1975).
8
Cfr. L. Mies van der Rohe, “Bauen”, G, 1923 (trad. it. in M. De Benedetti, A. Pracchi, Antologia dell’architettura moderna. Testi, manifesti, utopie, Bologna, Zanichelli, 1988, p. 400).
9
B. Rudofsky, Architecture sans architectes. Brève introduction à l’architecture spontanée, Paris, Chêne, 1980 (1964-77).
2
Saverio Muratori aveva promosso l’idea della “storia operante”, come a dire che l’architettura ha comunque bisogno di un tutore per farsi. Diversamente dagli scrittori, in ansia per l’“influenza”, sembra che gli architetti siano
afflitti da un’”angoscia della critica”, dopo essersi smarcati non senza difficoltà da quella della storia. Per alleviare questo malessere, il manifesto affida alla critica il compito di prefigurare “prospettive”. Essa dovrebbe avere,
allora, un ruolo di stimolo per la creazione architettonica: ma come può orientarne il corso il critico (di professione?) che ha una limitata o nulla esperienza concreta del progettare e del fare architettura? Sarebbe utile discutere
di tali possibilità e, se esistono, modalità. Discorso critico e discorso poietico devono certamente confrontarsi e
interagire, ma non dovrebbero farlo ciascuno con le proprie specificità e i propri intenti?
Nella quarta tesi troviamo, finalmente, l’invito al sospetto, dopo anni di incitazione all’adesione irriflessa alla
novità assoluta e al “presente permanente”, secondo la volgarizzazione ad uso degli architetti della elaborazione
teorica dei fondamenti stessi della modernità. Sospettare delle “ideologie del disegno” è opportuno, ma non si
dovrebbe estendere, in generale, il sospetto alle ideologie dell’architettura? Scambiare un’ameba per
un’architettura non è un’operazione a lungo termine rischiosa per l’identità stessa dell’architettura? Nel medesimo ordine d’idee, i giochi facili di deformazione (per esempio quelli di Bjarke Ingels), al di là dell’impressione di
novità e di piacevolezza che comunicano, si collocano in una tendenza da cui siamo travolti da quasi venti anni (e
qualcuno si attarda ancora a chiamarlo “nuovo”).10 La quale ha scambiato la novità e la piacevolezza con i caratteri propri dell’architettura, che sono invece altri, e in parte ancora da scoprire. Una tendenza, ancora oggi imperante, che riproduce proprio le chimere del disegno, semplificate e ridotte a puro esercizio didattico. Non è giunto
il momento di ritornare a pensare l’architettura e le sue ragioni, non solo di forma e di linguaggio, ma ambientali,
sociali, politiche? Le ragioni della sua esistenza e della sua sopravvivenza nell’epoca di una delle più profonde
crisi globali? Per fare questo, abbiamo bisogno – come suggerisce la quinta tesi – di utopia? Di “proiezioni utopiche (…) finalizzate alla costruzione di uno spazio reale”? Se si tratta di utopie, la realtà è esclusa per definizione. Se, in etimo, u-topia è “non-luogo”, la costruzione di uno spazio reale altro da quello esistente, portatore di
valori e significati propri, è piuttosto eu-topia (“buon-luogo” o, almeno, un luogo in cui valga la pena vivere). Del
resto, la storia mostra tutto l’appeal che l’utopia ha esercitato sugli architetti e, in particolare, la deriva talvolta
mostruosa dei tentativi di tradurre l’utopia in realtà. Non sarebbe più utile cominciare a riflettere, all’insegna di
una consapevole radicalità, su come superare l’inadeguatezza e la limitatezza della condizione presente, inventando nuovi mo(n)di concretamente possibili per l’architettura?
Liberarsi dalle costrizioni, come indica la sesta tesi, dovrebbe essere la chiave per far evolvere l’architettura al
di fuori dei divieti di ogni sorta che l’hanno imbrigliata nel corso del Novecento, ancor più delle regole rigide degli ordini e degli stili del passato (si è visto, non tanto “amico” come credevano i teorici nostrani del Postmodern). Il “bisogno di libertà” espressiva e spaziale può essere soddisfatto, non dimenticando però che tante proposte apparentemente “libere” e “liberatorie” di archistar (o aspiranti tali) mascherano, in realtà, un ideale di efficienza taylorista, giocato sul lato del mercato e della professione. Come dire, “no romance without finance”…
Anche “sconfiggere l’ossessione del controllo” è un obiettivo oggi necessario. Non si corre tuttavia il rischio di
generare confusione quando si accostano pêle-mêle elementi molto diversi, ciascuno dei quali preso separatamente, o male assortito, potrebbe produrre, come di fatto nel passato ha prodotto, effetti opposti di quelli sperati? Ad
esempio, nutro il sospetto che la “partecipazione” difficilmente potrà convivere – nel mondo reale di chi
l’architettura la abita, e non la progetta o la teorizza soltanto – con il “non finito”, nozione piuttosto intellettualistica, partorita dai critici e (come captatio benevolentiae?) dagli artisti.
“Il paesaggio si costruisce”, recita l’ottava tesi. Chi potrebbe negarlo? Il paesaggio è un’invenzione, per usare
la parola di Anne Cauquelin: è qualcosa che non preesiste all’immagine – e all’immaginario – che lo costruisce
in/per mezzo di una prospettiva discorsiva.11 Allo stesso modo, la sua percezione è anch’essa un’operazione retorica, ossia un’azione di “messa in forma stilistica”. Pertanto, quando si “difende” un paesaggio si difende una costruzione intellettuale, una messa in forma specifica dell’ambiente da parte dell’uomo. Anche i “valori” del paesaggio sono, in fondo, parametri di giudizio relativi e non assoluti, legati ad una condizione storica data. Occorrerebbe quindi promuovere una cultura diffusa e una visione del paesaggio in grado di superare il provincialismo
dei difensori “a prescindere” dell’esistente (declinato nelle diverse forme del vernacolare, del locale, del tradizionale, etc.), di cui sono noti gli effetti letali sugli apparati normativi che regolano la produzione edilizia,
prim’ancora dell’architettura, in Italia e che, nella maggior parte dei casi, contribuiscono a degradare il paesaggio
stesso con la proliferazione di “villette geometrili” (per dirla con Gianni Celati), tetti a falde, materiali pseudolocali-tradizionali e via discorrendo.
10
Ingels non ha inventato nulla di veramente nuovo, dal momento che gli storici dell’architettura si occupavano di deformazione già negli
anni ’70: si veda, ad esempio, il classico studio di Pierre Pinon, Alain Borie, Pierre Micheloni, Forme et déformation des objets architecturaux et urbains, Marseille, Parenthèses, 2006 (1978).
11
A. Cauquelin, L’invention du paysage, Paris, P.U.F., 2000 (1989).
Da questo punto di vista, le due tesi seguenti si collocano in diretta continuità: la nona, che perora
l’inesistenza di alternative ad un “approccio ecologico”, e la decima che rimette in gioco il rapporto tra recupero
(o permanenza) e trasformazione. Siamo ossessionati dall’”ansia della perdita”, è vero, ma nello stesso tempo
disseminiamo il nostro percorso nel mondo di segni, oggetti, memorie volatili. Ci preoccupiamo di conservare il
passato, senza accorgerci che probabilmente noi non apparterremo ad alcun passato tramandato. Il punto essenziale, a mio avviso, risiede nella stratificazione prima che nella demistificazione del falso storico e del recupero
come ideologia diffusa (e falsamente rassicurante). La chiave dovrebbe essere ricercata, ancora una volta,
nell’apporto originale e significativo di un’epoca alla costruzione dell’architettura, della città e del paesaggio. Il
secondo Novecento è stato, com’è noto, l’epoca in cui la categoria del recupero ha fatto la sua comparsa nella
cultura architettonica. Dopo la seconda guerra mondiale, gli architetti si sono progressivamente ritirati dalla città
consolidata per occuparsi della periferia, in senso lato, lasciando così le decisioni sui tessuti storici e densi agli
storici e ai burocrati. Sarebbe opportuno riflettere su una banale circostanza: ogni epoca storica ha lasciato le proprie tracce sul palinsesto della città e del paesaggio, con risultati spesso alterni. Come si può pensare di negare ad
una generazione – quella contemporanea e, presumibilmente, alle prossime – questa semplice, antica possibilità?
Ripartire dal grado zero?
La scommessa attuale non è probabilmente quella del “grado zero” come è stato inteso finora, a meno che non
si riduca tutto al legittimo sospetto verso l’eclettismo contemporaneo, e al tentativo di azzeramento di questo.
Dalla parte di Barthes, mi rivolgerei piuttosto a La morte dell’autore e a Il piacere del testo.12 In una prospettiva
non rigidamente ancorata all’autore come possessore unico del senso, non sarebbe infatti interessante ridisegnare
il profilo di chi pensa/fa architettura come artefice di un’opera intenzionalmente “plurale” e “pubblica”? Non come il geloso custode di una poetica – penso, per esempio, a Peter Zumthor o all’Aldo Rossi di Autobiografia
scientifica13 – ma come un soggetto che con-divide e co-inventa? Qui la differenza tra reinvenzione e ripetizione
è essenziale. Sulla ripetizione, e implicitamente sulla poetica personale, Rossi scriveva: “La coazione a ripetere
può essere una mancanza di speranza ma mi sembra ora che continuare a rifare la stessa cosa perché risulti diversa è più che un esercizio, è l’unica libertà di trovare.”14 Rossi si è dedicato interamente a questa impresa, in
un’epoca che appare ormai distante anni luce. Non occorre adesso ricercare, o reinventare, altre forme di libertà,
riappropriarsi della speranza concreta dell’architettura? La difficoltà attuale risiede nel fatto che, spacciata spesso
per reinvenzione, la ripetizione – di cui sono saturi gli schermi luminosi del web e le pagine patinate delle riviste
di architettura – è stata promossa principalmente da chi ha assunto (o riassunto, visto che Baudelaire ne è stato
lontano precursore) il nuovo come paradigma assoluto.
Anche qui, di fatto, nulla di realmente nuovo. Come sottolineava Barthes, “la forma bastarda della cultura di
massa [ancor più nella versione globalizzata...] è la ripetizione vergognosa: si ripetono i contenuti, gli schemi ideologici, la cancellatura delle contraddizioni, ma si variano le forme superficiali: sempre libri, trasmissioni, film
[e architetture] nuovi, attualità, ma sempre lo stesso senso.”15 Se oggi uno dei nodi è il falso pluralismo
dell’architettura dello spettacolo, occorre ripartire da zero non tanto sull’orizzonte del linguaggio, quanto su
quello del senso e del discorso, con una presa di posizione politica, prima ancora che linguistica o stilistica. Occorre in altri termini ripartire dalla scrittura in quanto entità che investe il rapporto tra autore-architetto e società,
radicando (e radicalizzando) nel nostro campo la prospettiva indicata da Barthes. È qui che si può riproporre la
questione del grado zero. Ma di quale grado zero? Zevi si chiedeva, quasi venti anni dopo la pubblicazione del
saggio del semiologo francese, se in architettura esistesse “veramente” il “grado zero” à la Barthes. E alla domanda complementare, “gli spiriti creativi non rivoluzionano assommando il positivo del passato e del presente
alla loro immaginazione del futuro?”, rispondeva in modo sostanzialmente affermativo.16
Per Zevi, il problema essenziale era il disvelamento – Tafuri avrebbe detto forse la “demistificazione” –
dell’essenza anticlassica. Per Barthes, invece, in una prospettiva oppositiva del tipo classico/anticlassico, si sarebbe trattato probabilmente di un falso problema. Il “grado zero” non era per lui una qualità chiaramente reperibile presso alcuni autori, ma piuttosto una condizione “ideale” verso cui tendere: un progetto che, alla fine del
saggio del 1953, si sovrappone all’”Utopia del linguaggio”. L’identificazione del “grado zero” con l’azzeramento
tout court, variante raffinata della tabula rasa, è dunque all’origine di un equivoco, e di una indistinzione che ha
permeato certa parte della riflessione teorica in architettura negli anni ’70-’80 del Novecento. Nella vulgata architettonica, il “grado zero” è stato infatti strettamente connesso al linguaggio, mentre Barthes differenziava con
precisione la lingua, lo stile e la scrittura. La scrittura, ossia la lingua trasformata dalla sua destinazione sociale, è
12
R. Barthes, “La mort de l’auteur” (1968), Œuvres Complètes, Paris, Seuil, 2002, t. III ; idem, Le Plaisir du texte, Paris, Seuil, 1973.
A. Rossi, Autobiografia scientifica, Parma, Pratiche, 1990.
14
Ibidem, p. 69.
15
R. Barthes, Il piacere del testo, cit., p. 41.
16
B. Zevi, Il linguaggio moderno dell’architettura, cit., (postilla n. 6).
13
qualcosa che si elabora proprio nel rapporto tra scrittore e società, tra letteratura e storia. Non a caso, in certi passaggi Barthes usa la parola scripteur e non écrivain. Da architetto, mi chiedo se in relazione al nostro campo le
differenze tra “lingua” (“linguaggio” come variante introdotta da John Summerson,17 poi ripresa da Zevi), “stile”
e “scrittura” siano chiaramente percepibili, e in quali forme.
Scrittura e lingua(ggio) sono dunque entità differenti: entrambe, ma diversamente, in rapporto con la storia e
con la società. Un rapporto, questo, che incombe sull’intero campo di azione dello scrittore. La scrittura è un “insieme di segni dati senza alcuna relazione con (…) la lingua o con lo stile”. Essa ha una funzione (esprimere, comunicare) ed un ruolo: imporre un aldilà del linguaggio, che è appunto la storia, rendendo così manifesta la posizione che ciascuno assume nei confronti e all’interno della storia stessa. Il “grado zero” denota, alla fine, un certo
tipo di scrittura, quella che Barthes denomina “scrittura neutra” o “bianca”, la quale ritrova al limite la propria essenza nell’assenza di ogni segno. E che, simmetricamente, tenta di realizzare, con alterne fortune, il sogno dello
“scrittore senza Letteratura”.
Oltre la crisi
Queste parole (linguaggio, stile, scrittura, società, storia) non sollevano richiami densi al nostro mondo; non
ripropongono, attualizzandoli, antichi interrogativi? Ci si può chiedere, allora, se il “manifesto per l’architettura”
permette di intravedere, non dico i principi e gli strumenti, ma almeno i margini di possibilità per “varcare la soglia del buon senso”, come si propone di fare nella sua conclusione. Se sia capace, cioè, di costruire le fondamenta di una “progettualità in grado di indicare per il futuro strade visionarie e non necessariamente percorribili
nell’immediato”. Per cercare risposte dovremmo interrogarci in primo luogo sulla perdita di effettualità e di senso
dell’architettura, almeno di quella che abbiamo conosciuto finora, nell’epoca del mercato globale (e delle sue crescenti disuguaglianze). Su questo terreno dovremmo essere tutti chiamati a riflettere (progettisti, storici, critici,
amministratori, cittadini, abitanti). È lì, infatti, che risiede ancora il nucleo duro dell’architettura intesa come disciplina e non come semplice plug-in dell’impresa. È da lì che occorre, credo, ripartire per tentare di dare ancora
un senso al nostro operato. Per ricostruire la dignità dell’architettura come progetto di trasformazione ed espressione di significati e di rappresentazioni, con le relative implicazioni culturali, politiche e sociali, e non come pura ratifica dell’esistente o, al contrario, prefigurazione di scene future impossibili nella loro utopia. E ciò è tanto
più necessario, a mio modo di vedere, quanto più la realtà in cui operano oggi gli architetti diviene strutturalmente critica, generando sacche di disagio (materiale e culturale) sempre più ampie.
Se di un manifesto c’è bisogno, è di un manifesto “per uscire dalla crisi” globale e di paradigmi che ci attraversa. Quale architettura dopo la crisi? Questa mi sembra oggi la domanda principale. La parola dopo è ovviamente un auspicio. E l’architettura, mai come ora, deve essere o tornare ad essere una speranza, nel senso che indicava Edoardo Persico di “sostanza di cose sperate” e di “movimento di coscienza collettiva”.18 Tuttavia nel manifesto in dodici tesi non mi pare siano presenti riferimenti espliciti alla crisi, né alla speranza, se si eccettua un
generico richiamo all’utopia, rinviabile a tempi ulteriori. Non mi sembra di ritrovare un solo cenno alla crisi
nell’accezione, parallela a quella economica e sociale, che a me appare ora interessante e utile, ossia come momento nel quale, sul terreno epistemologico, il corpus di una disciplina viene sottoposto ad un giudizio che ne rimette in questione i fondamenti. In questo senso, la crisi – la cui origine etimologica è comune a quella della parola critica – può essere un’esperienza di radicale rifondazione di metodi, concetti, figure. In mancanza di tutto
ciò, il manifesto rischia di rimanere generico, se non di rinchiudersi nell’alveo della ineffettualità, rivelando la
“fatale debolezza” intrinseca, secondo Rem Koolhaas, alla stessa forma-manifesto. Ancor più, se si ritiene di poter fare a meno di interrogarsi collettivamente su questa crisi che ci coinvolge come architetti e come persone.
Non una categoria teorica, ma un’emergenza reale e dirompente. Come si può rifondare l’architettura quando una
massa crescente di architetti viene estromessa dalla possibilità concreta di operare? Quando l’architettura diventa
sempre più marginale dal punto di vista culturale e professionale? Quando il mercato, globale e locale, regola in
modo sempre più massiccio e capillare la sua produzione e riproduzione? E si potrebbe continuare con gli interrogativi. Un’architettura che non sia solo divertissement dovrebbe ripartire da queste regioni e ragioni; ripercorrere con uno sguardo più disincantato le traiettorie e le prospettive possibili.
Ciò diventa ancora più opportuno se si pensa che, varcata la soglia del XXI secolo, siamo ancora dentro la
modernità, pur non essendo mai stati moderni come diceva Bruno Latour. 19 Nonostante il post-modern, la postarchitettura, la post-storia e tutti i post da cui siamo invasi e sommersi. Non più il moderno che venne connotato
(e idealizzato) coniugandolo al movimento, ma una modernità – solida o liquida che sia – che cambia a ritmi
sempre più incalzanti e ci coinvolge tutti nel suo flusso. A più di un secolo dai suoi inizi, l’architettura contemporanea deve riconoscere, in questa prospettiva, e con la lucidità di un’età tutto sommato matura, il suo statuto di
17
J. Summerson, Il linguaggio classico dell’architettura. Dal Rinascimento ai maestri contemporanei, Torino, Einaudi, 1970 (1963).
E. Persico, “Profezia dell'architettura” (1935), in idem, Scritti d'architettura (1927-1935), Firenze, Vallecchi, 1968.
19
B. Latour, Nous n’avons jamais été modernes. Essai d’anthropologie symétrique, Paris, La Découverte, 1997 (1991).
18
esperienza minoritaria. Amorevolmente o odiosamente custodita tra le mani dei suoi tutori, essa diviene sempre
più una produzione di minoranze per minoranze. Al di là dei giudizi di valore, si deve riconoscere che le apparenze visibili del territorio urbanizzato si compongono, a scala planetaria, di manufatti le cui logiche divergono
profondamente dai “canoni” di ciò che può ragionevolmente chiamarsi “architettura”. Di quella architettura che
viene ormai coltivata e nutrita all’ombra di qualche studio privilegiato, delle riviste (le poche superstiti), dei musei e delle biblioteche. Mentre en plein air, nel mondo reale, è sommersa dall’indifferenza e, nel migliore dei casi, dal disprezzo. Oggi, come nel passato più o meno “eroico”.
Architettura potenziale
Quale alternativa a tutto ciò? Tra le piste esplorabili, forse una riflessione su un’architettura potenziale – parafrasando il senso originario dell’OuLiPo (Ouvroir de Littérature Potentielle) – a partire da “nuove strutture e
schemi” che possano essere rielaborati in riferimento alle condizioni date (contraintes) e utilizzati con libertà dagli architetti. Una riflessione che potrebbe innescarsi interrogandosi proprio su tali elementi, sulla possibilità e
l’interesse della loro ricerca. Esistono le condizioni per riprendere, dalle fondamenta e con decisione, un lavoro di
riconoscimento e di selezione di questi schemi e strutture suscettibili di confluire, per “traduzione” e insieme per
“depurazione” (per restare nel lessico di Latour), nel corpo di un’architettura consapevolmente e radicalmente
contemporanea? Di un’architettura che, senza bypassare i vincoli entro i quali si fa, sia davvero capace di liberarsi dai divieti, sottraendosi alla accettazione incondizionata degli imperativi del mercato globale, della moda e della promozione mediatica?
Al di là dello spettacolo che ha a lungo imperato, e che ha abbagliato più o meno tutti, l’architettura dovrebbe
insomma ritrovare il coraggio di rimettersi in gioco come un insieme di discorsi e progetti aperti e orientati verso
l’esterno (la società, la politica, l’economia), senza perdere di vista se stessa. Ricostruire la sensibilità
dell’architettura verso il mondo, in un’epoca in cui l’idea di mondo si decompone nell’universo della imprecisione, mandando in frantumi tutte le certezze: questa mi sembra la sfida da cui ripartire. Ma come prendere posizione in un contesto in cui tutto appare possibile, proprio perché indistinto? Come occupare concretamente gli spazi
non ancora colonizzati dal proliferare della non-architettura e dell’anti-architettura? Come ricostituire un’identità
per l’architettura, rimettendo insieme con pazienza le tessere infinite che un’intera generazione ha rimescolato,
taroccato e disperso? Le risposte non possono venire dallo storicismo ristretto di una nuova accademia in formazione, né da prospettive intellettualistiche, aggregazioni elitarie, compiacimenti stilistici. Un’architettura potenziale potrà essere tutto tranne che retorica e calligrafia, dal momento che se ne dovranno probabilmente reinventare, ad un tempo, le parole e le scritture, prima delle narrazioni e delle tematizzazioni. Ritornando al discorso di
Barthes, la questione chiave dell’architettura, come si è visto, investe oggi meno lo stile e il linguaggio che la
scrittura. Per questo, la sfida che ci attende è ancora più difficile di quella che aveva visto misurarsi coloro che
una volta erano chiamati “maestri”. Una sfida che affrontiamo con minore entusiasmo, ma con la consapevolezza
delle illusioni e delle debolezze del passato.
BREVE DIALOGO TRA ALBERTO CUOMO E LUIGI PRESTINENZA PUGLISI
In seguito alla pubblicazione on-line sul sito di Luigi Prestinenza Puglisi del “Manifesto dell’architettura” costituito da dodici tesi, ho inviato una tredicesima tesi che ha innescato la piccola discussione via email che qui si presenta
A.C.: Proporrei un'ultima tesi: “l’architettura non ha tesi”.
LPP.: :-)
A.C.: Quanto ti ho scritto corrisponde un pò all’aforisma di Nietzsche contestato dai pallosi veteroneorealisti alla
Ferraris appartenenti alla neopaleotendenza: “non ci sono che interpretazioni....e questa anche è una interpretazione"
LPP.: non mi convincono né Ferraris nè i neonietzschiani.Io opterei per la tesi costruttivista secondo cui sono le
interpretazioni che costruiscono i fatti.
A.C.: E chi sono i neonietszchiani?....Koolhaas? Portoghesi? Ma credo abbiano letto Nietzsche a testa in giù...Del
resto lo stesso Nietzsche metteva in guardia contro “la scimmia e i nani” che imitavano il superuomo...quanto dici
corrisponde proprio all'aforisma che ti ho inviato: “non ci sono che interpretazioni” (o costruzioni) ...”e questa
anche è una interpretazione” (o costruzione). Penso comunque che le “interpretazioni” (o se preferisci le costruzioni) siano esse stesse fatti, cioè vita.
LPP.: Beh la mia teoria punta a sostenere che i fatti cosí costruiti sono oggettivi, veri, e quindi da un certo punto
in poi non interpretabili: nel senso che la mente non può che sottostare al concetto di verità (che però applica alle
sue “invenzioni”)
A.C.: Bene. Ma fino a che punto credi alle tue verità? Mi pare tu sia del tutto consapevole che esse siano “invenzione” (costruzione, interpretazione,”favola” secondo la terminologia di Novalis-Nietzsche). Se poi ritieni non ci
si debba fermare, non si debba avere cieca fede nelle proprie verità (che pure sono utili) tale da non farci proseguire nella “invenzione” di nuove verità (“non ci sono tesi” definitive ho scritto giocando con le tue tesi), non
puoi non riconoscerti nel superuomo. Naturalmente, non so se proseguendo Nietzsche o tradendolo, non si può
ritenere il superuomo a sua volta verità assoluta, così come fa Koolhaas, ma anche Eisenman e Tschumi (per citare i “decostruttivisti” che almeno fingono di essere colti) e lo stesso Purini postmoderno (“la mattina progetto
come un romano antico, il pomeriggio come un moderno ecc.”). Questi presunti nietzschiani, non solo assolutizzano il superuomo, ma rendono il gioco “tragico” del continuo fondarsi dell'uomo (l’infondato) nel mondo, una
“musica da organetto”. Comunque, ritengo, condividiamo le medesime “antipatie” intellettuali: i tetri Grassi,
Gregotti, Purini da un lato, ed i fatui Koolhaas, Hadid ecc. dall’altro.
LPP.: No il mio punto di vista è questo. Per essere condivisibile il linguaggio deve rispondere a criteri di verità:
quindi deve essere logico, coerente, non contraddittorio. Ma sin qui saremmo nel campo del discorso autoreferenziale. E' attraverso la scienza che la logica si confronta con la realtà. E qui si assiste al fatto che non è solo la realtà esterna che piega la logica ma anche la logica che piega la realtà esterna: creandosela e costruendola. Ma costruendosela in maniera sufficientemente certa per non farla essere evanescente e contraddittoria. Pensa a che
processo di costruzione (astrazione, invenzione di nomi, invenzione di agenti, forze, ipotesi ad hoc ...) implica un
esperimento scientifico. Il risultato è però che alla fine tutti non possono che concordare: il grave arriva a terra in
tot secondi, non uno di più né uno di meno e il pendolo di Focault gira in un solo modo. Insomma in questo modo
riesci anche a predire eventi che ti danno la sensazione di possedere la realtà: per esempio facendoti capire che
solo facendo così e così vai sulla luna ( e alla fine sulla luna ci vai, seguendo solo le buone teorie). Ecco perchè
da un lato sostengo con Feyerabend che anything goes ( perchè quando si costruisce si può prendere da tutto, essendo la scienza atto creativo) ma che alla fine questo non semplifica il gioco ma anzi lo complica immensamente. Insomma: può darsi che tutto sia interpretazione ma alcune interpretazioni vanno bene per costruire una realtà
convincente condivisibile e in cui sia possibile fare previsioni, altre no. Per banalizzare, il mio è un neopositivismo logico in chiave pop. Per questo motivo amo poco Nietzsche. E gli architetti che parlano di filosofia? Mah,
credo che la maggior parte non l'abbia mai studiata seriamente e la adoperino solo come pretesto creativo. Purini?
Gli manca anche questo aspetto creativo.
A.C.: Realtà convincente per chi? Anche le credenze nell'Olimpo erano scientificamente convincenti per i Greci,
non più per gli uomini successivi....Mi sembra che tu aggiungi il "pop" al positivismo per nobilitarlo, ma se c'è
qualcosa di poco pop, poco creativo, è il positivismo che, come denuncia proprio Nietzsche, riteneva fosse possibile, di conoscenza in conoscenza, pervenire a scoprire le leggi ultime che regolano le cose (un pò come i transarchitetti, i più pericolosi fascisti)....positivisti non a caso sono i neoneorealisti , ovvero i tendenziosi vecchi e nuovi
che, appunto, si ispirano all'epistemologia viennese. Zevi era antagonista alle loro rigidezze, ma il suo pensare a
regole invarianti in cui "inscatolare" la variazione era ugualmente molto rigido,un assoluto privo di creatività...l'uso superficiale di concetti filosofici per stimolare la creatività, che tu pure denunci, credo sia del tutto assurdo, ma non penso che un tale giudizio negativo debba far "criminalizzare" la conoscenza filosofica, ovvero il
pensare, negli architetti: i maestri, da Ictino ad Alberti, a Laugier, a Mies, la filosofia la conoscevano veramente
ed erano essi stessi filosofi: oggi la divaricazione tra pensiero e costruzione, colmata male da quello che definisci
uso creativo della filosofia, determina la crisi del progetto: perché progettare, per chi? Si è sostituito alla filosofia,
ovvero al pensiero sul mondo, sul nostro stare, se vuoi alla metafisica anche, l'ideologia e, finita l'ideologia il nulla, ovvero il puro loisir di Koolhaas & C.. L'architettura a cosa serve? Questa interrogazione, se vuoi filosofica,
gli architetti neppure se la pongono più e qualunque formula (quella stessa di Gregotti che sostiene l'architettura
debba essere critica della realtà, accettandone però tutti gli aspetti, comprese le laute parcelle) chiamala pure "tesi", se non si interroga sul senso dell'architettura (facendo quindi filosofia) finisce con l'essere, come tu stesso temi, autoreferenziale. Non nego che abbiamo bisogno di "tesi", regole, linguaggio, ma dobbiamo sapere che ogni
“fondazione” (è un termine in uso tra i tendenziosi come sai) si regge su una infondatezza la quale, non è da ritenersi originaria, quasi un nuovo dio, ma interna alla stessa articolazione del dire, non quale silenzio poetico bla
bla bla, come si suole dire tra gli architetti (v. Botta), quanto proprio come presenza nel nostro difficile esercizio
di vivere e, quindi, di essere architetti...(altro che Purini che ha fatto mercato dell'infondato traversando tutte le
tendenze degli ultimi 40 anni).
LPP.: Mi puoi riorganizzare le tue battute in modo da farne un pezzo da mettere sul sito www.presstletter.com in
cui si sta svolgendo il dibattito sulle tesi del manifesto?
A.C.: Avevo pensato ad una tale eventualità dopo le tue prime risposte, credo tuttavia che il nostro incontro/scontro (più incontro che scontro) sia più fresco così come si è sviluppato....per fare un “pezzo” dovrei circostanziare i miei appunti critici sugli architetti citati, rendendo pesante il testo...credo invece che se pubblichi le
mail mie e tue in sequenza le idee manifestate sarebbero rese con più immediatezza.
IL PAESAGGIO E LA CITTÀ
Gaetana Laezza
Il paesaggio, nella sua stessa componente visiva, può considerarsi la più importante infrastruttura di sviluppo
di un territorio: un paesaggio di qualità è in grado di sostenere lo sviluppo economico, nel senso che può divenire
elemento di attrazione e di richiamo per possibili investimenti. Al progetto di architettura si offre pertanto
l’ulteriore responsabilità di operare trasformazioni e modificazioni virtuose del rapporto che l’ambiente, ovvero
i suoi mutamenti determinati da interventi tecnici, intesse con il paesaggio. Ed è in tal senso che nell’attuale scenario culturale si delineano tendenze rivolte soprattutto a rivalutare il paesaggio come manifestazione della relazione fondamentale tra uomo e ambiente.
Oltre all’attenzione per i grandi progetti, quali parchi regionali urbani, riserve naturali, giardini storici ecc. sta
aumentando la necessità di riqualificare le aree dei luoghi di lavoro o residenziali. Si configura in tal modo una
tipologia di parco che si distingue dalla sua originaria configurazione di area recintata e che si integra con gli elementi architettonici e urbani inserendosi come elemento predominante nella progettazione di nuovi luoghi e
nella riqualificazione di consolidate parti di città. Vale a dire che, da un lato, si pone la necessità di promuovere il
recupero di siti storici, ambientali e paesaggistici relazionando più discipline, come la botanica, l’agronomia, la
geologia, l’urbanistica e la storia, a partire dal censimento e dalla catalogazione dei giardini, dei parchi e dei luoghi paesaggistici già appartenenti al patrimonio storico-culturale, dall’altro, data la crescente complessità del funzionamento delle città, appare urgente ricercare nuovi metodi, procedure e tecniche per la riorganizzazione fisica
e funzionale del sistema urbano anche in presenza dei processi che la globalizzazione implica.
Un rinnovato interesse nei riguardi dei grandi miti urbani è alimentato anche dai media, dal cinema in particolare (film emblematici come Lisbon Story, Il cielo sopra Berlino, Manhattan, …). Si torna a parlare di città, di
funzioni urbane, del ruolo nuovo che gli agglomerati residenziali rivestiranno nel millennio, e ogni diverso esperto si avvale dei propri percorsi interpretativi, facendo ricorso a paradigmi e categorie anche fortemente dissimili:
si confrontano così gli urbanisti, i sociologi, gli architetti, che nel corso degli ultimi anni si sono trovati nella necessità di cambiare profondamente i propri statuti disciplinari onde essere in grado di attrezzarsi convenientemente per l’analisi di oggetti in rapido mutamento.
Città postmoderna, città postfordista, città postindustriale, molte sono le definizioni che oggi sono comunemente adottate per descrivere il senso della trasformazione e dell’enorme cambiamento che le realtà urbane stanno vivendo e l’attuale nuova grande scena urbana non appare più in grado di contemplare grandi piani totalizzanti
fondati su principi forti intonati alla razionalità ed intesi come strumenti ordinatori globali della crescita territoriale e della vita. L’intervento sulla città diventa in tal modo discontinuo, frammentario, episodico e incoerente,
anche in presenza del fenomeno dello sprawl, e non solo della “città diffusa” quanto della metropoli diffusa, di
una urbanizzazione cioè sempre più ampia e sempre più sparsa cui mancano i parametri di riferimento in un inevitabile processo di costante frantumazione.
Le trasformazioni strutturali dell’economia si riflettono anche in una serie di sfide che la città oggi si trova a
dover raccogliere. Lo scenario economico e, quindi, sociale in profondo mutamento che si sviluppa quotidianamente, rimette in discussione i termini stessi della vita civile e genera un nuovo interesse nei riguardi delle tematiche urbane che trova alimento anche in un crescente bisogno di previsione. Il contesto globalizzato obbliga la
città a reinterpretare il proprio ruolo, coniugando in una visione strategica le esigenze di apertura, di connettività
e di libero accesso con quelle di mantenimento della propria identità. Il nuovo assetto della struttura industriale,
la globalizzazione dell’economia, il miglioramento delle comunicazioni e la produzione di tecnologie avanzate
fanno mutare la localizzazione delle opportunità nello spazio urbano e la capacità della popolazione di rispondere ai nuovi stimoli promossi. Le trasformazioni nell’organizzazione del lavoro, l’applicazione delle nuove tecnologie nei processi produttivi, le scelte localizzative delle imprese, sempre meno propense ad insediamenti circoscritti, mutano profondamente il tessuto produttivo tradizionale industriale. Si impone un’economia fatta di costellazioni, reti, distretti, che entrano nella forma della città. Il dispiegarsi di nuove morfologie e di nuove dinamiche strutturali all’interno dello spazio urbano costituiscono un momento di svolta dal quale non si può prescindere per qualunque considerazione, anche in prospettiva storica. Risulta sempre più visibile nella città postmoderna come il consumo possieda ormai l’unica centralità. In virtù del superamento dei tempi tradizionali, un unico ininterrotto fluire percorre la città contemporanea, che diventa un insieme di nonluoghi, secondo la definizio-
ne 1 di Marc Augé, organizzati a misura del consumo di massa. Ogni dimensione della vita urbana finisce per assecondare le esigenze di un enorme sistema di consumo. Augé definisce i nonluoghi contrapponendoli ai luoghi
antropologici, cioè quegli spazi che non sono identitari, relazionali e storici. Sono le autostrade, gli svincoli, gli
aeroporti, le ferrovie, ma anche grandi centri commerciali, le strutture sportive, ecc. Spazi in cui milioni di individui si incrociano senza entrare in relazione. I nonluoghi sono prodotti della società contemporanea che, per Augé, non è capace di integrare in sé i luoghi storici. Il mondo resta con tutte le sue diversità: “In epoca contemporanea la città del razionalismo ha separato radicalmente la strada, che è diventata infrastruttura, dalle strutture edilizie, così come ha distinto le diverse funzioni del vivere sociale consegnandole a zone separate della città, e questo è diventato il modello, involgarito, ancor oggi dominante”.2
Proprio nelle città si sperimentano molte nuove traiettorie di sviluppo, che ospitano alcuni dei momenti cruciali del processo innovativo. In particolare, il settore delle cosiddette reti tecniche urbane è investito da cambiamenti estremamente rilevanti che le rendono, all’interno di un contesto in rapida trasformazione, un oggetto di
analisi oltremodo rilevante. L’ottica che permette più compiutamente di entrare nello scenario in trasformazione
appena descritto è quella dei servizi a rete, legati cioè a infrastrutture tecniche localizzate sul territorio, quelle che
gli economisti chiamano public utilities. Parlare di reti urbane ci obbliga ad un riferimento più ampio rispetto a
quello puramente dei servizi. Si tratta viceversa di un modo nuovo di leggere tout court la realtà urbana.
Anche il rapporto tra centro e periferia va rivisto alla luce di tali processi. Le reti urbane tendono da una parte
a decentrarsi verso quella che un tempo era la campagna circostante, ma al tempo stesso spingono verso una nuova centralità. Affrontare il tema dello spazio richiama l’esigenza di rivedere la questione dell’organizzazione territoriale, così come viene condizionata e strutturata dalla gerarchia urbana. Si propone cioè un argomento cruciale, quale il confronto fra centri e circondari che mostrano in modo evidente come si sviluppi anche in periferia
una sperimentazione di comportamenti modernizzanti. La periferia deve essere considerata un centro nevralgico
della città così come il centro, anzi spesso ciò che viene considerato marginale può diventare estremamente vitale. Gli spazi a margine, gli spazi di risulta non sono elementi estranei nelle nostre città; pensiamo agli spazi sottostanti le autostrade e agli spazi cuscinetto che le circondano, agli spazi nati dalle aree dismesse, … Invece di riconoscere e sfruttare le caratteristiche di questi spazi, la società contemporanea li trasforma in aree di parcheggio,
o in timide aree verdi, poste ai confini tra la scala territoriale e la scala urbana.
Queste situazioni sono presenti nella maggior parte dei nostri territori urbani ed hanno assunto una precisa
connotazione. Grandi spazi inedificati certo non mancano all’interno della città ma sono destinati a parcheggi,
grandi aree di sosta e di manovra, nodi infrastrutturali, industrie o grandi attrezzature. Questi spazi invece potrebbero entrare in relazione, offrendo loro forme e significati mediante un nuovo progetto, con le fasce di rispetto
delle aree industriali attive, delle grandi vie di comunicazione, delle aree industriali dismesse, nel tentativo di riportare questi luoghi-nonluoghi ad una vivibile urbanità che possa restituirli alla collettività dando loro una nuova
qualità.
Un altro ordine di considerazioni, modulato ancora in qualche misura sulla dicotomia fra centro e periferia,
invece attiene alla differenziazione dei modi di espansione dei servizi urbani sulla base della tipologia abitativa.
In passato, le aree di residenza delle classi medie e alte hanno adottato più rapidamente le nuove tecnologie; del
resto gli stessi servizi hanno influenzato profondamente gli indirizzi dello sviluppo urbanistico. La creazione di
una rete di trasporti urbani, per esempio, ha avuto ovunque un ruolo non trascurabile nella definizione delle periferie, finendo per incidere non solo dal punto di vista della progettazione urbanistica, ma anche da quello della
qualità della vita stessa.
Infine ricorrere alla teoria e alla pratica delle reti implica una visione tecnologica degli argomenti oggetto di
analisi. La storia della città e della tecnica sono inscindibili e la città è storicamente il luogo privilegiato per molte
delle innovazioni tecniche che si sono succedute fra Ottocento e Novecento. La tecnologia in epoca moderna ha
partecipato alla definizione dello spazio urbano in modo più che significativo. Del resto storici della città e
dell’architettura, come Banham, da tempo hanno reso conto di quanto questo tipo di rapporto sia stato necessario
per intendere le trasformazioni subite dalla città. E fu proprio per le trasformazioni indotte sull’ambiente e sui
suoi aspetti visivi dalla tecnica che già all’inizio del Novecento si diffuse l’interesse dei progettisti verso il paesaggio sottoposto a continue modifiche, dovute alla trasformazione dei suoi elementi naturali, agli interventi prodotti dall’uomo sia in termini edilizi che infrastrutturali. Ed è alla metà del Novecento che anche l’esperienza italiana, come quella europea, assume il più alto grado di significatività, investendo sia i grandi agglomerati sia le
1
“I nonluoghi rappresentano l’epoca; e danno una misura quantificabile ricavata addizionando…le vie aeree, ferroviarie, autostradali e gli
abitacoli mobili detti ‘mezzi di trasporto’ (aerei, treni, auto), gli aeroporti, le stazioni ferroviarie e aerospaziali, le grandi catene alberghiere, le strutture per il tempo libero, i grandi spazi commerciali ed, infine, la complessa matassa di reti cablate o senza fili che mobilitano lo
spazio extraterrestre ai fini di una comunicazione così peculiare che spesso mette l’individuo in contatto solo con un’altra immagine di se
stesso”, in Augé M., Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della modernità, trad. it. di D. Rolland, Eleuthera, Milano, 1993, p. 74.
2
AAVV., Infrastrutture e Paesaggi Contemporanei, a cura di Maffioletti S. e Rocchetto S., Il Poligrafo, Padova, 2002, p. 9.
città di taglia inferiore. L'ambito cronologico, in cui si svolgono le trasformazioni più rilevanti, coincide grosso
modo con gli anni della prima industrializzazione italiana e trova riscontro anche a livello continentale.
Nasce anche nell’esperienza italiana un nuovo concetto di città, basata su un’idea organica in cui tecnologia e
servizi pubblici si intrecciano in modo indissolubile. Non tutti i servizi e non tutte le infrastrutture rientrano evidentemente in questa considerazione; occorre circoscrivere l’ambito di ricerca ad una serie ben precisa che si ritrova nella definizione di servizi tecnici a rete: dai trasporti, all’acqua potabile, dalle fogne allo smaltimento dei
rifiuti, dalla distribuzione del gas a quella dell’elettricità, questi sono gli ambiti che cominciano a rappresentare, a
partire dall’epoca indicata, veri e propri strumenti di governo, tanto da sostituire per lungo tempo gli stessi programmi urbanistici con un'attività che tende a surrogare quella della pianificazione urbana.
Nel dibattito urbanistico assume un ruolo fondamentale il riconoscimento della struttura della città contemporanea. Essendosi modificato il concetto stesso di spazialità e la percezione che deriva dalla diversa organizzazione degli spazi urbani, solo la comprensione dei processi in continua evoluzione rende possibile tentare il controllo
delle trasformazioni della struttura urbana contemporanea, il cui tessuto ha inglobato anche il territorio circostante. “La città tradizionale, la città che la nostra cultura europea conosce maggiormente, è stata definita dal rapporto
tra via urbana e costruzioni: un rapporto rigido, perdurante e sicuro. La nuova città si realizza seguendo altre regole, meno rigide perduranti e sicure: il rapporto tra strada divenuta via e costruzioni è diverso, funzionalmente
rigido ma morfologica-mente labile. Le tipologie presenti sono le più varie, ma sempre aperte, svin-colate dalla
via, con co-struzioni intervallate da spazi non edificati”.3
Nelle sue continue trasformazioni la città genera al suo interno situazioni spaziali indefinite, quali i vuoti nati
da progetti falliti, gli spazi interstiziali tra forme compiute, i manufatti inutilizzati, le infrastrutture obsolete e le
aree abbandonate. Questi spazi sono resti, frammenti di progetti, scarti della vita della metropoli, ma sono considerati anche luoghi potenziali in cui la città può esprimere la sua creatività. In queste aree il processo di rigenerazione nasce infatti in maniera spontanea e gli spazi non più utilizzati vengono riconquistati dalla natura, una natura abusiva, in parte di origine autoctona, in parte di importazione, a volte generata proprio da quelle opere che
con la loro presenza l'avevano estromessa, esclusa, provandone a cancellare la presenza. Tutti gli spazi, in passato
ignorati dall’architettura, quali le superfici asfaltate utilizzate per la manovra e la sosta delle auto, le aree occupate dai binari ferroviari, le zone adibite a deposito, le ex aree industriali, le stazioni inutilizzate, gli spazi urbani
abbandonati, sono oggi riconsiderati per offrire un nuovo volto alla città. Questi spazi, non hanno una forma stabile, ma sono spazi dinamici, veri frammenti di un nuovo paesaggio costituito dai resti delle strutture abbandonate e dalla natura “abusiva” appropriatasi illegalmente dei luoghi. Molti sono i concorsi di progettazione che si
stanno occupando di dare una nuova immagine a questi spazi prodotti principalmente dalle dismissioni delle aree
industriali le quali hanno prodotto innegabili benefici economici ma hanno anche determinato nel nostro territorio
fratture spesso incolmabili. L’inversione di tendenza si è manifestata a partire dagli anni ottanta, allorché è iniziata la dismissione delle industrie e la creazione di nuove, più eteree infrastrutture. La città fisicamente definita si è
frantumata, lasciando emergere un paesaggio fortemente diversificato al suo interno con una disseminazione disordinata di spazi vuoti e di risulta.
Il paesaggio racconta piccole e grandi vicende tra loro intrecciate: il genius loci che ogni società lascia come
impronta di sé, il rapporto con la struttura morfologica del suolo, con i suoi caratteri orografici, panoramici, ecc.
e, con gli elementi della memoria del territorio come i tracciati agricoli, i corsi d’acqua, i displuvi, i sentieri, che
permangono e restano leggibili anche nelle trasformazioni successive, è come una grande narrazione dove dare
ascolto alla storia di una società: basta saperla leggere, cercare i significati di ogni cosa e dei contesti in cui si colloca. Quello contemporaneo spesso è senza qualità, a rappresentate il malessere urbano e territoriale; è un paesaggio manifesto della società industriale/post-industriale che ha generato e genera, tutt’ora, forme di squilibrio,
di deformazione del territorio. Un paesaggio che muta continuamente con il continuo mutare della città contemporanea dove la trasformazione degli spazi rurali, la diffusione delle grandi reti infrastrutturali, hanno modificato
totalmente la sua forma ed il suo rapporto con l’ambiente naturale. Oltre quindi ad un nuovo sistema di infrastrutture che assegni diverse gerarchie agli spazi e garantisca un efficace collegamento tra le grandi emergenze territoriali e funzionali appare necessario creare un sistema di spazi aperti che, utilizzando aree di scarso valore economico, disegni una nuova qualità ambientale ed estetica, restituendo identità ad un territorio apparentemente poco
caratterizzato. L'individuazione di un sistema di aree potenziali, intersezione di differenti habitat simultaneamente
compresi, permette di affrontare il progetto urbano nella sua globalità paesaggistica pur senza intervenire su tutta
l'area urbanizzata. La stessa trama dei margini che si ramificano sulla superficie del territorio costituirà in tal modo la continuità del piano dove i diversi frammenti, circoscritti dai margini, disegnano la discontinuità di molteplici ecologie, habitat e ambienti.
3
Macchi Cassia C., Il grande progetto urbano. La forma della città e i desideri dei cittadini, Carrocci, Roma, 1991, pp. 46-47.
La possibilità di immaginare una nuova forma e una nuova struttura per le aree dell’abitare si avvale dell’elaborazione di un progetto di nuovi sistemi infrastrutturali e della loro relazione al territorio. Riprogettare infatti le
parti del territorio a partire dalle infrastrutture può consentire l’elaborazione di nuovi scenari urbani strettamente
legati alla natura pur in un paesaggio totalmente artificiale. Un nuovo sistema stradale, in larga misura sovrapposto alle aree marginali a verde individuate, potrebbe permettere di costruire un sistema di spazi pubblici continui
che si aggiunge e sovrappone alla frammentazione di quelli esistenti. Il progetto di nuove tipologie infrastrutturali, quali i boulevard metropolitani, le autostrade urbane, i sistemi tranviari a rete, affiancato a quello tradizionale,
permette di verificare e immaginare relazioni inedite tra i diversi materiali urbani della città contemporanea. Si
potrà così prevedere un abaco di possibili scenari in cui riassumere le ipotesi progettuali le quali, benché non si
localizzino su un sito specifico, si relazionano al territorio proponendo nuovi modi di viverlo e immaginarlo.
Le immagini rappresentative di questi ambienti potranno costituire un nuovo campionario di materiali urbani
complessi che si aggiungono a quelli noti della città tradizionale, ovvero allestire le definizioni di un nuovo vocabolario progettuale che associ i materiali urbani ai caratteri del territorio e ai possibili usi che lo investono, consentendo una maggiore consapevolezza nell’elaborazione delle successive proposte progettuali.
Come afferma Francoise Choay, “è diventato urgente interrogare l’evoluzione del nostro ambiente costruito e
le conseguenze della sua normalizzazione planetaria sul futuro della nostra specie. Ma un simile interrogativo esige da una parte la mediazione dell’antropologia e della storia, dall’altra il confronto di esperienze e di analisi
concrete svolte da progettisti dello spazio fisico. A questo riguardo, l’Europa costituisce un terreno privilegiato,
nella misura in cui sin dal Medioevo, la sua identità culturale è stata simultaneamente affermata dall’insieme delle sue creazioni spaziali e dal concerto delle loro differenze, dovute non solo alle differenze geoclimatiche dei
contesti di appartenenza ma anche alle specificità istituzionali, a cominciare da quelle rappresentate dalle varie
lingue” 4.
4
F. Choay, intervento al convegno “Reinventare i territori urbani”, Ambasciata di Francia, Roma, 5-9 Novembre 2007.
CASTELLI IN TERRA
La difficile integrazione tra Napoli e l’arte contemporanea
Brunella Velardi
L’angoscia sentimentale vi fa rimpiangere il passato,vi rende scettici sull’avvenire .
U. Boccioni, Manifesto Futurista ai Pittori Meridionali, 1916
A Castel Sant’Elmo, in cima alla collina del Vomero, si tenne nel Duemila una mostra organizzata dalla
Sovrintendenza al Polo museale di Napoli in collaborazione con i galleristi napoletani che, fin dagli anni ’70, più
si erano dimostrati aperti alla prospettiva internazionale e avevano favorito l’interazione tra il contesto campano e
quello europeo e statunitense, facendo della città un centro catalizzatore per l’arte contemporanea soprattutto
negli anni ’80. L’allestimento di opere napoletane e straniere negli ampi ambienti del castello mirava a
valorizzare le potenzialità di quegli spazi antichi, sperimentandone l’adattabilità al dialogo con il contemporaneo.
Dieci anni più tardi, con la memoria rivolta a quella e ad altre fortunate esperienze precedenti e successive, viene
istituito nella stessa sede Napoli Novecento (1910-1980): per un museo in progress, museo d’arte che testimonia
l’attività artistica napoletana entro i limiti cronologici stabiliti e ne rivendica la continuità con il discorso artistico
più ampio i cui confini si estendono al contesto internazionale. Nel catalogo della mostra, dal titolo “Castelli in
aria”, l’allora Sovrintendente Nicola Spinosa e la curatrice dell’esposizione Angela Tecce mettono in evidenza
alcuni temi che appaiono centrali nello sviluppo di un discorso sul complesso rapporto che si è instaurato tra
Napoli e l’arte contemporanea negli ultimi tre decenni. Il primo tema, fondamentale quanto insidioso, è quello
della distanza: “lontano e irraggiungibile” 1 risulta il castello ai cittadini attraverso i secoli. Tale distanza è
duplice: da un lato quella “mentale e psicologica” è strettamente legata con il ruolo storico assunto dal castello,
sede del potere spagnolo quando la città era parte del viceregno, poi carcere per patrioti e oppositori di regimi
dalla rivoluzione napoletana del 1799 fino al secondo dopoguerra, e con il modo in cui la sua architettura si
relaziona al territorio: l’imponente e massiccia fortezza domina la città dall’alto, ne scruta le viscere senza
lasciarsi guardare, chiusa com’è nelle sue possenti mura di tufo. C’è poi la distanza fisica, geografica, dal centro,
che sebbene sia ormai in gran parte colmata dalla rete di metropolitana e funicolari, lascia comunque il castello al
di fuori dei flussi cittadini, tanto che le pur molte e interessanti iniziative lì intraprese, quali mostre, convegni e
spettacoli “non sono riuscite.. a rendere ‘popolare’…questo pur affascinante monumento” 2. Il risultato di questo
“scarto” tra l’edificio e i cittadini (cioè il suo – potenziale – pubblico) è che esso appare del tutto avulso dal
contesto urbano, risultato che introduce il secondo tema, quello dello spazio espositivo. Gli ambulacri, con la
suggestività e la mutevole articolazione degli spazi, offrivano uno scenario inedito e affascinante per quelle opere
che erano state esposte alla mostra del 2000, e si dimostrarono, pur dotati di una così forte connotazione
architettonica, un’adatta e stimolante ambientazione per l’arte contemporanea per l’allestimento di esposizioni
temporanee che avrebbero costituito (com’è effettivamente accaduto) un’occasione per recarsi fin sul castello, in
cima alla collina.
Per il museo istituitovi tre anni fa con l’intento di restituire al pubblico napoletano una parte della sua recente
e fervida storia artistica, sono stati scelti tuttavia i locali del carcere alto, situato nella metafisica, “vuota, quasi
irreale”3 Piazza d’Armi.
Le oltre centosessanta opere, che la Sovrintendenza è riuscita a riunire innanzitutto grazie alla collaborazione
con soggetti privati (unici veri punti di riferimento nel contesto dell’arte contemporanea a Napoli), costituiscono
una raccolta folta e abbastanza esaustiva4, dunque non priva di interesse per quanto riguarda la documentazione
1
“Un castello “in aria”… incombente sulla città, in apparenza quasi lontano e irraggiungibile: così si presentava Sant’Elmo… dalla metà
del Cinquecento minaccioso baluardo tufaceo a difesa degli interessi spagnoli sulla capitale viceregnale e, fino al recente secondo
dopoguerra, quando fu utilizzato come carcere “oscuro” e impenetrabile per i rivoltosi, patrioti e oppositori di sovrani e regimi diversi…
Lontano e irraggiungibile come apparve ancora agli inizi del Novecento a Picasso che in carrozzella s’era spinto fino a San Martino e nei
recenti anni trenta a Marguerite Yourcenar… Lontano e irraggiungibile così come purtroppo è ancora visto o percepito, con la mente e col
cuore, da tanti napoletani che, pigri o indolenti, muovendosi a fatica nella città intanto cresciuta caotica convulsa e invivibile… volgono lo
sguardo… verso la collina del Vomero… Una distanza di Sant’Elmo dalla città e dalla sua gente, oggi quindi più mentale e psicologica che
reale, distanza che è in ogni modo sintomo o conseguenza di una separatezza o di una profonda “frattura”, soprattutto sociale e culturale
(non diversamente, peraltro, da quanto si è costretti a constatare, anche per la Reggia di Capodimonte e il suo splendido Museo), tra
l’antico e monumentale edificio collinare e le ansie o necessità quotidiane, le convenzioni o le diffuse abitudini, ma anche le nuove
esigenze o le disattese aspirazioni, passate e recenti, di gran parte dei napoletani”, N. Spinosa in A. Tecce (a cura di), Castelli in aria. Arte
a Napoli di fine millennio, Umberto Allemandi & C., 2000, p. 8.
2
A. Tecce, op. cit, p. 13.
3
Ibid.
4
Per una riflessione circa la mancanza di alcuni artisti nella raccolta, cfr. Vanda Bocco, intervista a Mariantonietta Picone Petrusa, in
http://www.ilmondodisuk.com/arg01.asp?ID=987#.
del fermento culturale di Napoli e il suo respiro tutt’altro che provinciale5. Viene tuttavia da chiedersi quanto essa
sia apprezzata dal pubblico napoletano e non, incastrata com’è nelle stanzette di un vecchio carcere. I pochi
romantici che vi si avventurano sono per lo più turisti, piuttosto interessati al panorama che al piccolo museo, nel
quale quelle opere ritrovano il provincialismo in cui sono sempre state – anche a torto – relegate e dal quale si era
cercato di tirarle fuori con il museo stesso.
Se l’intento era quello di dimostrare il radicato inserimento delle pratiche napoletane nel contesto
internazionale, la specifica delimitazione geografica (oltre che temporale) al territorio campano, ha l’effetto di
rimarcare l’appartata specificità di quelle pratiche che diventano in tal modo percepite come espressione di una
tradizione locale.
Non è necessario ricorrere a statistiche sulla affluenza dei visitatori per constatare quanto poco sia frequentato
il museo, nonostante gli indubbi sforzi di renderlo vivo e dinamico. Si rileva, piuttosto, un’evidente carenza di
interesse della comunità verso l’offerta del museo, che risulta, nonostante la spettacolare collocazione, poco
attrattivo e, in realtà, ancor meno pubblicizzato. D’altronde, nella stessa occasione in cui auspica che il castello
possa costituirsi come un centro di produzione e scambio in una rete di sedi dedicate all’arte contemporanea,
Angela Tecce afferma che “Castelli in aria” “è soprattutto un’idea: ‘mostrare’ l’uso possibile di un luogo
apparentemente ‘astratto’ o ‘fuori dal reale’ come Castel Sant’Elmo”. Purtroppo l’essere “fuori dal reale” è più
una realtà che un’apparenza, per i motivi di cui si è parlato.
L’isolamento in cui di fatto continua a trovarsi Castel Sant’Elmo con il suo giovane museo va di pari passo
con quello di Capodimonte, dove a partire dagli anni ’80 si è costituita una collezione d’arte contemporanea di
grande interesse, attraverso l’acquisizione di opere in seguito a mostre in cui artisti di fama internazionale erano
chiamati a confrontarsi con la realtà del museo e della città. La reggia si è così arricchita con una raccolta che
annovera nomi della statura di Warhol, Merz, Paolini, Alfano, Spalletti, Kiefer, Kosuth, Höfer, Paladino, Jodice,
LeWitt, Fabro, tra gli altri. Si tratta per lo più di opere in situ, realizzate negli ambienti del museo e acquisiti dalla
Sovrintendenza, che ha in tal modo dotato la città della sua prima raccolta pubblica d’arte contemporanea.
Attualmente, per carenza di personale, la sezione d’arte contemporanea è visitabile solo in alcuni giorni o, se
possibile, dietro richiesta specifica. Il motivo per cui si preferisce sistematicamente chiudere la mansarda anziché
altre sezioni del museo non è solo legato alla destinazione originaria della Reggia come luogo consacrato all’arte
antica: della raccolta contemporanea pochi sanno, dunque pochi la cercano. La collocazione sulla collina, in
un’area la cui edilizia è a scopo prettamente residenziale, e quindi poco attrattiva per la maggior parte dei
cittadini, rendono Capodimonte isolato rispetto alla vita pulsante della città. Poco frequentato dai turisti per
l’insufficienza dei mezzi pubblici, è quasi dimenticato dai napoletani, già scarsamente educati alla frequentazione
dell’arte. Se a questo si aggiunge l’ancora maggiore inaccessibilità della collezione contemporanea per i motivi
sopra indicati, ci si rende conto come un patrimonio dal valore unico sia di fatto abbandonato nell’oblio. La
polemica riguardo l’abbandono dei siti di interesse storico e artistico coinvolge molto centri italiani e a Napoli è
particolarmente accesa soprattutto per quel che riguarda le zone archeologiche e la grande quantità di chiese
antiche lasciate al degrado. Ma in una città priva di un polo attrattore per l’arte contemporanea l’isolamento della
raccolta di Capodimonte è tristemente un’occasione perduta, tra le più eclatanti della situazione culturale
napoletana.
Se Castel Sant’Elmo e Capodimonte sono facilmente assimilabili alla poetica immagine del castello in aria, lo
è apparentemente meno il MADRE, situato proprio in quelle viscere che la fortezza guardava dall’alto. Eppure, a
ben vedere, il Museo d’Arte Donna Regina non è meno estraneo alla città degli altri due.
Fin dal principio, con la sua apertura a opera della Regione allora guidata da Antonio Bassolino, i napoletani
hanno visto con entusiasmo la possibilità che Napoli fosse elevata finalmente al rango di grande centro culturale
a livello europeo. D’altra parte il museo d’arte contemporanea è uno dei più potenti fattori di aggregazione
sociale dei nostri tempi: basti pensare ai giovani londinesi che si ritrovano al di là del Millennium Bridge, nella
piazza antistante la Tate Modern o alle famiglie parigine che scelgono di passare la domenica al Centre
Pompidou. Se questo accade nelle più estese megalopoli del pianeta, in una città relativamente piccola dovrebbe
risultare ancora più naturale. Bisogna però rilevare tre elementi niente affatto trascurabili: ovunque i musei d’arte
contemporanea sono situati all’esterno della città antica (ma in luoghi sufficientemente ben collegati da non
risultare isolati), hanno enormi disponibilità di spazio e spesso sono ospitati in strutture costruite ex novo e
progettate per quella specifica destinazione d’uso.
In un contesto stratificato e complesso come quello di Napoli l’impresa è stata più che ardita. Palazzo
Donnaregina non è certo la location più indicata per quello scopo: per la rigidità della struttura e la totale
impossibilità di modificarne gli ambienti in vista di un adattamento alle diverse esigenze che le mostre d’arte
contemporanea presentano; per le dimensioni relativamente ridotte; perché non ha uno spazio antistante che
5
Cfr. L. Vergine, Inchiesta sulla cultura a Napoli, in “Marcatre” n. 14/15, maggio-giugno 1965.
funga da membrana tra esterno e interno, attraendo anche un pubblico più “timido” e restio a entrare nel
“tempio”; è in una zona che, sebbene all’interno del centro storico, è poco frequentata e non è attraversata da
flussi turistici. Il museo avrebbe dovuto saper ovviare almeno a una parte di questi inconvenienti, invece bisogna
constatare che la sua presenza non ha nemmeno contribuito a una riqualificazione di via Settembrini, stradina che
collega l’ampia e desolata via Carbonara con la poco frequentata parte alta di via Duomo; vicoletto fra tanti in cui
regna il degrado. E nonostante i migliori propositi (nelle intenzioni dell’allora direttore Eduardo Cicelyn avrebbe
dovuto costituire un sistema aperto e “amichevole per i residenti e per i turisti”6) il museo si presenta come una
struttura fortemente conchiusa al di là del portale di ingresso, per nulla visibile né “espansa” verso l’esterno.
Bloccato nelle immutabili quattro mura di Palazzo Donnaregina, il MADRE ha costituito solo teoricamente un
motivo di orgoglio per la città, che però non è mai riuscita a trovarvi un accogliente luogo di ritrovo in cui la
comunità potesse riconoscersi. Il ritiro delle opere da parte degli artisti e dei collezionisti che le avevano prestate
(a tempo indeterminato) al museo in seguito alla destituzione di Cicelyn, appare chiara dimostrazione di una
totale discontinuità tra la collezione e la città7. In questo senso l’insistenza del nuovo direttore sulla necessità di
incrementare il patrimonio pubblico e stabile del museo come elemento su cui si fondi la sua stessa identità
sembra un ragionevole passo avanti. Sta di fatto, comunque, che il MADRE non è l’unico esemplare di
quella sfortunata specie di musei la cui vita dipende, più di quanto dovrebbe, dal fluttuare della politica8.
Le esperienze di Napoli Novecento, Capodimonte e MADRE, uniche tre realtà museali in grado di offrire al
pubblico napoletano un contatto con l’arte contemporanea, di fatto non riescono a svolgere tale ruolo. In alto
sulle colline o nel centro storico, questi musei rimangono castelli in aria, poiché chiusi in se stessi e staccati dal
suolo, senza radici piantate nel terreno della città, privi di quell’espansione verso la strada e quindi verso le
persone che è propria di ogni museo d’arte contemporanea del mondo e che è la cifra essenziale della sua
funzione nella società. Quando Spinosa tralascia la riflessione su quanto sia più difficilmente colmabile la
distanza psicologica rispetto a quella reale, incorre nello stesso errore di chi ha creduto che potesse bastare la sola
scelta geografica per dare vita a un museo attivo, dinamico e coinvolgente.
Oggi, che il museo ha cessato di essere solo un “tempio” consacrato all’arte, il cui accesso era consentito ai
pochi intrepidi che forti della loro erudizione osavano oltrepassare gli imponenti colonnati neoclassici, e ha
accolto in sé anche la funzione di “forum”9 aperto alle nuove sperimentazioni e a un dibattito artistico più ampio,
esso non può più barricarsi in antiche dimore lontane o nascoste. La più grande sfida che deve invece affrontare
è quella di porsi in un rapporto di armonica relazionalità con il suo esterno: se questa deve essere innanzitutto una
caratteristica della (sua) architettura10, in secondo luogo è la stessa istituzione che deve farsene carico, “uscendo”
dalle sue mura e “mescolandosi” alle folle. Fin quando si concepiranno istituzioni cui si attribuirà un ruolo più
ideale che reale, queste resteranno destinate a essere corpi estranei nella città, poco o per nulla conosciuti dai suoi
abitanti, loro primi (ipotetici) destinatari. Quando cesseranno di guardarsi reciprocamente dall’alto delle loro
colline e dei loro terrazzi e inizieranno a relazionarsi con ciascun cittadino ponendosi sulla sua traiettoria, allora
si potrà dire che a Napoli esiste un Museo d’arte contemporanea. Ne è dimostrazione il successo che riscossero le
grandi installazioni che dal ’95 al 2009 ebbero luogo nel periodo natalizio in Piazza del Plebiscito: spettatori
volontari e involontari, conoscitori e inesperti di ogni estrazione sociale reagirono con entusiasmo e polemiche,
con curiosità e perplessità a un’arte che si faceva prepotentemente spazio tra loro, alimentando un dibattito
sempre più aperto e al quale vennero chiamati a partecipare tutti, in nome di una coralità che è linfa vitale
dell’arte contemporanea.
“Castelli a terra”, allora, deve essere il postulato fondamentale per le nuove esperienze, affinché tra esse e la
vita pulsante della città ci sia uno scambio osmotico e costante fatto di arricchimento reciproco, privo di pretese
di elitarismo. Esperienze che tengano conto del suolo vulcanico sul quale sorgono e si adeguino alle sue continue
oscillazioni, ai suoi capricci, alle sue mutevoli esigenze. Che rispecchino di questa terra l’apertura alla diversità,
l’ospitalità, la calorosa accoglienza, e allo stesso tempo si pongano come solido punto di riferimento culturale
permanente e indipendente.
6
Cfr. E. Cicelyn, Il museo aperto. L’esperienza del MADRE, in S. Zuliani (a cura di), Il museo all’opera. Trasformazioni e prospettive del
museo d’arte contemporanea, Bruno Mondadori 2006, pp. 131-135.
7
In un provocatorio attacco al MADRE in cui paragona il museo a un fast food, Vittorio Sgarbi osserva: “gli artisti che sono qui li puoi
vedere anche altrove” (Stella Cervasio, Sgarbi nel museo Madre “Sembra McDonald’s”, in «napolirepubblica.it», 24 agosto 2010: Per
quanto generica fosse la critica, il mancato radicamento della collezione nella città è testimoniato su più fronti.
8
Cfr. Rocco Moliterni, Il Madre chiude, anzi no. Il Riso sì. Musei in crisi, non solo per i tagli, in «lastampa.it, 17 gennaio 2012.
9
Cfr. Duncan F. Cameron, The Museum, a Temple or the Forum, in “Curator: The Museum Journal”, 1971
Riguardo l’architettura relazionale, scrive Enzo Paci: «Ogni spazio interno può diventare esterno, quando, per esempio, la
facciata dell’edificio è esterna rispetto allo spazio che racchiude ma è interna rispetto alla strada, e le strade diventano interne
nel piano urbanistico…. Lo spazio interno, se è protagonista, non esaurisce tuttavia l’esperienza architettonica, e infatti
interno ed esterno sono tra loro in un rapporto organico spaziotemporale», in Relazioni e significati, Lampugnani Nigri, s.d.,
p. 146.
10
IMMATERIALE. OVVERO LA NUOVA COMUNICAZIONE DELL’ARCHITETTURA.
Riccardo Renzi
“Non mi sembra possibile infatti d’ammettere l’esistenza di un’arte il cui fine non sia quello di stabilire una
sorta di comunicazione intersoggettiva... ma che comunque sarà uno degli elementi basilari dell’arte stessa.”
Gillo Dorfles, Le oscillazioni del gusto (1958)
L’attuale condizione dell’intero processo comunicativo legato all’architettura vede, da un lato chi si è formato
principalmente su testi e su riviste approfondendo, quando possibile, con viaggi di studio l’esperienza diretta, e,
dall’altro chi si sta formando basandosi quasi esclusivamente sui mezzi messi a disposizione dall’invasione recente di internet. E’ chiaro il riferimento all’esperienza della didattica, che negli ultimi anni sempre più spesso
richiama l’attenzione, e lo fa con urgenza, al fatto che esiste una parabola discendente degli scenari di riferimento
ed il loro substrato culturale che gli studenti adottano per muoversi autonomamente nell’affrontare le prime esperienze di progetto. Il sistema biblioteca, fino a pochissimo tempo fa passaggio inevitabile e luogo di scoperta imprescindibile, pare oggi superato in generale a favore di un rapido click su tastiera e di un risultato, dalle molteplici possibilità, quasi immediato.
Ma rileggendo ed analizzando gli anni chiave del Razionalismo italiano, scorrendo le varie riviste dell’epoca e
approfondendo i temi delle esposizioni nazionali tra cui è necessario inserire anche le Triennali milanesi, è facile
accorgersi di come le tendenze personali dei singoli progettisti, riferendosi precisamente a quegli anni a cavallo
tra la nascita di Domus 1 e la sua piena affermazione 2, cambiassero immaginario di riferimento con una certa lentezza, avendo di fatto il tempo necessario per poter assimilare e rielaborare in proprio, quegli elementi innovativi
visionati a cadenze mensili.3
L’esperienza di Casabella di Pagano e Persico 4 prima, e di Rogers 5 poi, pone l’accento inoltre rispetto alla necessità di un collettivo attivo, nella cui sede discutere di questioni fondamentali riguardanti i contenuti del messaggio da comunicare al lettore e la sua struttura, formale e grafica.6 Al contrario, quello che sembra accadere
oggi per molte riviste on-line è la prevalenza di una linea eterogenea in cui tutto va bene, in cui cioè è quasi scontato trovare progetti appartenenti a matrici compositive del tutto differenti tra loro accostati in sistemi infiniti di
slide che corrono a cadenza di pochi secondi, ed in cui l’unica forma di organizzazione tematica, dato che non è
possibile avere numeri ed edizioni ma continui aggiornamenti, risulta essere quella di suddivisione in sottogruppi
separati in argomenti.7 Questo atteggiamento spiccatamente democratico 8 del processo comunicativo in realtà,
tolto il velo superficiale dell’apparenza, risulta chiaramente frutto di scelte operate dai gestori delle riviste on-line
e siti di diffusione di argomenti di architettura 9. Manca del tutto un approfondimento tematico dell’opera che viene mostrata solamente per immagine.
La situazione attuale prevede una continua dissoluzione di contenuti a favore di una immediata, superficiale,
scenografica e tempestiva impressione suscitata nell’osservatore, che abbia inoltre la capacità di trattenerlo concentrato per pochissimi secondi prima di passare ad altre immagini. E’ la regola ferrea del mondo di internet, in
cui google analytics ci ha insegnato ad apprezzare come valore la sosta di appena un minuto su una pagina web
ed in cui il tradizionale quotidiano cartaceo prima oggetto di una attenta lettura è divenuto contenuto assimilabile
in brevissimo tempo fornendo comunque una visione generale e continuamente aggiornata10.
1
Il primo numero di Domus esce il 15 Gennaio 1928.
Si intende il periodo 1928-1934.
3
Il panorama delle riviste dell’epoca, Domus, La Casabella e Architettura a parte, comprendeva anche prodotti stranieri tra cui Architectural Review e Innen Dekoration oltre a Moderne Bauformen ecc L’idea che non circolassero riviste straniere tra i professionisti è del tutto
falsa. Un esempio è il programma di intenti del 1926 del Gruppo7.
4
Giuseppe Pagano e Edoardo Persico co-direttori dal 1933 al 1936 in quel clima era presente, tra gli altri, Franco Albini.
5
Ernesto Nathan Rogers direttore dal 1953 al 1965. In questo ambiente vi erano figure come Gae Aulenti, Aldo Rossi, Vittorio Gregotti,
capaci di porre con senso critico attenzione ai temi trattati dimostrando con il progettare il proprio inserimento in un discorso collettivo.
6
Le grafiche di «Casabella» sono state curate tra gli altri anche da Persico negli anni trenta e da Gae Aulenti negli anni sessanta, il cui
sforzo è stato capace di introdurre nuovi modi di percepire l’architettura anche attraverso le riviste.
7
Ad esempio: teatri, ospedali, scuole, parchi, balconi e terrazzi, metallo, vetro, ecc. ignorando del tutto una suddivisione del progetto per
aderenza alla edizione, di fatto non essendocene una ma un continuo aggiornamento di pagina.
8
E’ possibile per chiunque mostrare i propri progetti, che vengono pubblicati senza filtro o selezione di commissioni scientifiche.
9
Europaconcorsi.com è stato il primo in Italia ad affermarsi, lasciando indietro arch’it, rivista on-line, nata sul finire degli anni novanta.
Ad oggi risultano molto diffusi archdaily.com e archilovers.com che aggiornano costantemente i loro profili con nuovi progetti.
10
Seppur ridotta negli approfondimenti inesistenti.
2
Proprio in questo fattore, che funziona da un dispositivo, risiede il motivo della presente analisi. Ricorrendo
ad Italo Calvino, in particolare alla serie di scritti per le lezioni americane 11, il tema della leggerezza da lui trattato in relazione al comporre come risultante di operazioni di sottrazione, entra in contrasto con la visione del tema
della esattezza, grazie alla quale si può approfondire un argomento fino all’infinito spostando sempre più in avanti il punto di osservazione. Il parallelo 12 può essere utile alla comprensione del fenomeno comunicativo legato
alla architettura in generale.
La leggerezza ad oggi, è totalmente rappresentata dal mondo dell’informazione di internet sebbene il valore a
cui si è sottratta sia quello fondamentale, ovvero il senso critico di una spiegazione approfondita dell’opera che si
sta guardando, lasciando che il compito di trasmettere quelle necessarie informazioni riguardanti tutti gli aspetti
del progetto sia legato unicamente all’immagine.La visione di Leonardo da Vinci 13 che identifica nel disegno lo
strumento di rappresentazione esatta e globale delle idee spaziali diffidando dallo scritto poiché definito impreciso, in questo caso andrebbe ribaltata. L’immagine non può e non deve sostituirsi al racconto del contenuto del
progetto, dato che nasce nel binomio con questo, essa è la concretizzazione che da sempre ha permesso di fissare
l’idea di quel contenuto ritenuto imprescindibile e che incarna l’esattezza trattata da Calvino.
Altri due termini possono servire da leva per spiegare il fenomeno attuale, il parallelo tra cristallo 14, tema caro
a Gio Ponti, e fuoco15.
Il primo viene identificato come puro, costantemente in divenire nelle sue fasi di sviluppo che lo hanno reso
quello che è, perfetto nelle sue sfaccettature, ma anche immobile; il secondo rapido, incredibilmente intenso e di
minima durata. Il cristallo riflette quella lentezza temporale che permette nell’osservatore una stratificazione di
concetti e contenuti imprescindibili allo sviluppo di una coscienza critica, e che serviranno ad alimentare la necessità analitica di continui confronti tra progetto ed idea, tra intenzione e risultato, tra disegno e spazio.
Il fuoco tuttavia ha la capacità di attrarre da sempre con la sua voluttuosità, sprigionando un magnetismo animale dovuto ad una mutevolezza continua, e catalizza le attenzioni per la sua carica di intensità seppur fugace.
Esso rappresenta, nel sistema allegorico qui creato, lo sguardo superficiale all’immagine proposta da uno dei tanti
siti internet che, aggiornandosi ogni pochi secondi, mutano sotto gli occhi di chi osserva.
Ma quali sono dunque i riflessi di un processo comunicativo tanto veloce e di così grande effetto sulle sorti
del progetto di architettura? E’ ancora piuttosto incerto verificare se esista comunque un nesso logico tra il mezzo di comunicazione e l’oggetto di tale fenomeno 16, se esista in pratica un rapporto diretto citando Koenig e Morris tra il significante ed il denotante17.
Si tratta infatti di stabilire quali siano gli effetti provocati dall’uso di un così repentino mezzo di informazione
a tutti i livelli, rispetto al processo di formazione di un panorama figurativo e culturale collettivo da cui nascano
idee ed i progetti urbani del prossimo futuro. E’ sufficiente identificare con una recente quanto ampia apparizione, di progetti dai connotati esteriori colorati, leggeri, intriganti, lucidi, sospesi, specchianti, riflettenti, intermediali, avanzati tecnologicamente, ecc., come collegamento diretto dovuto alla immediata sensazionalità comunicativa che le loro immagini suscitano nell’osservatore quando trasmessi via schermo? E’ doveroso quindi dedicare un caro saluto allora a tutte quelle architetture solide, che hanno segnato all’interno della città europea il passo
del tempo maturandone una stratificazione fisicamente riconoscibile e non solo, poiché superficialmente meno
interessanti nel sistema immagine-comunicazione? Non sembra al momento possibile stilare un nesso diretto tra
immaterialità architettonica contro solidità, nell’era della diffusione tanto veloce quale quella attuale, piuttosto
segnalare quanto l’aspetto esteriore rispetto alla composizione progettuale, siano preferite per selezionare opere
da mostrare.
Da qui pare doveroso chiedersi se le opere dei futuri progettisti formatesi in questo momento culturale che offre ai più pigri anche valori di sola superficie, risentiranno di tale aspetto.
Zaha Hadid rappresenta un’eccezione alla regola. A partire dalla Tesi di laurea del 1983, infatti, decide di inventarsi un innovativo modo di trasmettere il senso del proprio gesto creativo, supportando con prospettive alienatamente distorte il senso di diffrazione del progetto nato dalla aggregazione di forme scomposte, poichè proprio
11
Calvino I. Lezioni Americane, Garzanti, Milano 1988. Lezioni preparate per un ciclo di conferenze da tenere all’università di Harvard,
mai tenute poiché Calvino morirà prima di poter partire.
12
Con l’architettura il parallelo è già stato fatto in molteplici occasioni.
13
Calvino I., op.cit., cita Leonardo da Vinci nei vari codici pp. 85-87.
14
Ponti G. Amate l’architettura, Vitali e Ghianda, Genova 1957.
15
Calvino I., op.cit., p. 80.
16
Le possibilità offerte dal mondo internet per quanto riguarda la progettazione sono ampiamente cresciute negli ultimi tempi, ne sono
esempio le renderfarm in condivisione e la possibilità di scaricare programmi freeware ma non solo, esiste la possibilità di caricare on-line
i propri contenuti per elaborare immagini su processori e programmi remoti.
17
Koenig G. K. Architettura e comunicazione, LEF, Firenze, 1970, p. 22.
nel modo di presentare l’immagine delle sue architetture, risiedono molti valori legati alla composizione formale
di esse18.
Il caso di villa Pearl di Mies van der Rohe è invece un altro esempio lampante tra apparenza e approfondimento. Essa contiene in nuce, moltissimi di quegli aspetti che saranno esplicitati in altre opere successive dalla diffusione più fortunata, come il padiglione tedesco di Barcellona o la casa Farnsworth, divenuti indiscussi simboli del
mondo contemporaneo. Eppure affidandosi solamente ad uno sguardo veloce, di queste ultime due opere è possibile credere di aver capito tutto o quasi, ingannati dall’esiguo numero di elementi solidi coinvolti; differentemente di villa Pearl un superficiale osservatore noterà pochissimo del profilo culturale coinvolto, pochissimo delle
regole compositive, dei richiami a Karl Frederich Shinkel 1919, dei riferimenti diretti alla villa Badoer di Andrea
Palladio2020, della metrica che lega con solide relazioni i volumi e gli spazi interni. Così in maniera equivalente
uno sguardo alle immagini degli altri due progetti, che appaiono più semplici, non saranno sufficienti ad una approfondita comprensione del programma progettuale.
Se per Hans Sedlmayer la vera rivoluzione dell’arte nel secolo scorso risiede nella sensazione che essa suscita
nello spettatore a più livelli, comprendendo di fatto un coinvolgimento profondo tra opera e chi la osserva, è da
sempre vero che il processo di trasmissibilità di un progetto di architettura risiede nelle sue immagini, senza distinzione tra disegni e fotografie, per tutte quelle opere che non sia possibile visitare, per infiniti motivi quali eccessiva distanza o non accessibilità funzionale ad esempio, e di cui è negato il senso principale della loro essenza,
ovvero la percezione.
Proprio il senso della percezione spaziale e fisica è sostituita dalla comprensione integrale, per quanto possibile, dell’opera mediante approfondimenti, attinenza o discontinuità di processi progettuali, inserimento in filoni
tecnologici o contestuali sociali, collegamenti a tematiche e loro sviluppo da parte del progettista e via dicendo.
E’ chiaro quindi che se alla lettura di una opera viene tolto il contenuto più importante lasciando solamente
l’immagine, si priva l’osservatore di quasi tutti gli strumenti che ne permettono una conoscenza completa.
Ma questa non vuole essere una nota polemica verso gli attuali mezzi di informazione. Anzi bisogna assolutamente riconoscere il beneficio di avere siti che offrono la possibilità di rendere pubblico un concorso ed il suo
esito, per esercitare una sorta di strumento di controllo sulle dinamiche degli affidamenti italiani ed esteri, ed inoltre tenere aggiornati sempre i professionisti dei lavori degli altri cantieri di rilievo. Molto del riconoscimento
inoltre deve andare alla possibilità di vedere anche progetti non vincitori nelle fasi concorsuali, potendo così scoprire le molteplici soluzioni proposte ai problemi enunciati dai bandi di gara, fornendo una panoramica completa
sullo stato attuale di condizione progettuale del mondo italiano e straniero. Proprio in molti dei progetti non vincitori risiedono spesso tracce ed intuizioni interessanti, si pensi alla sede delle nazioni unite di Le Corbusier o al
progetto di Rem Koolhaas per il parco de La Villette. Vuole anzi essere questa una presa di coscienza che i mezzi
veloci del mondo di internet non possono mai sostituire, ma casomai integrare gli altri strumenti canonici, nel
processo di formazione di chi è interessato a svolgere nel futuro e nel presente, il mestiere dell’architetto.
BIBLIOGRAFIA
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Johnson P. Mies van der Rohe, Ed. Moma, New York, 1947-1953.
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Ponti G. Amate l’architettura, Vitali e Ghianda, Genova, 1957.
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Dorfles G. Le oscillazioni del gusto, Ed. C. M. Lerici, 1958.
Gamberini I. Introduzione al primo corso di elementi di architettura e rilievo dei monumenti, Ed. Coppini, Firenze, 1959.
Koenig G.K. Architettura e comunicazione, Ed. LEF, Firenze, 1970.
Dorfles G. Dal significato alle scelte, Einaudi, Torino, 1973.
Dorfles G. Dal significato alle scelte, Einaudi, Torino, 1973.
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Calvino I. Lezioni Americane, Garzanti Milano, 1988.
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Gargiani R. Rem Koolhaas, Laterza, Bari, 2008.
Fabbrizzi F. Tempo materia dell’architettura, Alinea, Firenze, 2010.
18
De Sessa C., Zaha Hadid eleganze dissonanti, Testo & immagine, Roma, 1996.
Si veda Cohen J. L. Ludwig Mies van der Rohe, Ed. Laterza, Bari, 1996.
20
Da una ricerca personale, svolta per il progetto di una villa privata nel 2008, ho scoperto la assonanza compositiva tra villa Pearl e villa
Badoer del Palladio del 1554.
19
CRAIG ELLWOOD: DERIVE MIESIANE
Vincenzo Ariu
Mito holliwoodiano, belle donne, automobili sportive, il tennis, un mondo infinitamente distante dall’ascetismo miesiano accompagna l’esperienza artistica di uno dei più brillanti manipolatori del lessico e
della sintassi architettonica del maestro tedesco. Eppure, forse, in qualità di questa leggerezza Craig Ellwood 1 meglio di altri ha esplorato limiti e potenzialità della lezione miesiana. Più di ogni altro
Ellwood, forse perché privo di un’autonoma elaborazione teorica, sedotto dallo “stile” miesiano, ne
ha sviscerato il linguaggio verificandone, inconsapevolmente l’impotenza.
Nella vasta produzione, Craig Ellwood ha liberato
l’irrazionale, l’aspetto gestuale, tutto ciò che in Mies è
mascherato , occulto. Diversamente da Johnson o dai
S.O.M., Craig Ellwood non vuole capire Mies, non
vuole penetrare in un mondo speculativo e spirituale,
e forse anche grazie a questo atteggiamento non lo
tradisce. Le architetture di Mies, come anche quelle di
Soriano e di Neutra, sono “cose”, per Ellwood, esse
non “rappresentano”. Lo sguardo di Ellwood si ferma
alla cosa architettonica che, senza necessità di alcuna
interpretazione, si svela nel meccanismo, nella costruzione, nella sua chiarezza sintattica. Poi, senza discontinuità, diventa oggetto d’uso, oggetto di consumo, oggetto di gusto. Craig Ellwood è il Grande
Gastby, nulla a che vedere con l’intelletuale blasè
europeo, è l’uomo del sogno, del successo e, nello
stesso tempo, di quella indicibile tristezza che lo
accompagna, quel senso di precarietà e vuotezza che
accompagna ogni fare. Nell’opera di Ellwood c’è
l’America, la tradizione senza tradizione, poi ci sono
1
Craig Ellwood è lo pseudonimo di John Burke ( 1922 Clarendon,
Texas-1992 Pergine Valdarno, Italia). Cambiò il nome per motivi
commerciali nel dopoguerra ispirandosi ad un grande negozio di
liquori “Lords and Ellwood”. Non studia architettura, si interessa
d’affari immobiliari e solo dopo il fallimento di tale attività intraprende una serie di collaborazioni (forse come disegnatore o come
responsabile dei capitolati, ma non è chiara la sua formazione sul
campo avvolta in una sorta di mito da lui stesso divulgato) con
l’impresa Lamport Cofer e Salzman, specializzata in case in “stile”
moderno. Qui ha occasione di incrociare figure mitiche
dell’architettura moderna quali Neutra, Soriano. Grazie a questi
incontri matura una certa consapevolezza del suo talento e in virtù
di straordinarie doti di autopromozione costruisce le prime case
subito promosse da John Entenza nelle pagine di
Arts+Architecture e nella serie Case Study Houses. Non avendo
l’abilitazione alla professione, né, si presume, una conoscenza
tecnica si associa con altri professionisti di valore, tra questi Lomax, vicino a Soriano e Jacobson, Horn e Tyler più vicini
all’insegnamento miesiano. (Le note biografiche sono tratte da: E.
McCoy, Craig Ellwood, Alfieri, Venezia 1968; «Casabella» n.
664 ( 1999) e «2G», Craig Ellwood. I Casas, 1999/IV)
Mies, Soriono, Neutra. Ancora dopo c’è il nulla, nessuna eredità da lasciare.
Se il silenzio dell’opera miesiana, a volte, si fa
agghiacciante, non ammette discussione, nell’opera di
Ellwood scarica dell’idealismo teoretico è possibile
verificarne i limiti linguistici. Nulla è vietato, i materiali numerosi trovano nuovi connubi, la lezione dello
spazio si contamina con la vita, con l’uso e con la
natura selvaggia e sublime americana.
Nell’opera di Craig Ellwood lo spazio miesiano,
definito e conquistato, si trasforma, diventa trasparente. È possibile attraversarlo con lo sguardo e con il
corpo. Il basamento, primo segno di conquista del territorio nelle ville di Ellwood si dilegua, si smaterializza, è un nodo, un punto. È come se le case e gli
edifici, librati come alianti, trovino a terra solo l’ancoraggio temporaneo prima della fuga e spiccare il
volo.
Tre progetti, tre techiche costruttive diverse
Rosen House (1961-62) è una sorta di Farnsworth
House a corte. I prospetti non sono tutti vetrati, alcuni
di essi sono parzialmente tamponati da laterizi. La
struttura portante è in profili d’acciaio verniciati di
bianco. Come la casa progettata da Mies van der Rohe
è sospesa, rialzata da terra, ma a differenza di essa la
Rosen House posa su un tappeto verde, un giardino
dal sapore giapponese nel quale gli alberi si stagliano
verticali in un rigido ordine all’apparenza casuale. I
montanti d’acciaio non possono emergere come palafitte dal terreno come nel capolavoro miesiano, ma
necessitano di uno stilobate o meglio di un plinto di
mediazione. I montanti non sono indipendenti dalle
strutture del solaio, si integrano con essi. L’edificio
non si presenta come la Farnsworth chiaramente leggibile nella sua logica tettonica (costruttiva), nella
quale si distinguono gli elementi portanti, portati e
semplici elementi di tamponamento. La struttura portante della Rosen House è un telaio tridimensionale,
una sorta di ossatura rigida con montanti e travi uniformati, indistinti, nei quali si inseriscono liberamente
i tamponamenti. Questa semplificazione consente al
progettista una certa libertà nella scelta e varietà dei
tamponamenti che si alternano, assecondando la distribuzione interna, tra paramenti di mattoni, serramenti trasparenti e opachi. Certamente, la perdita di
gerarchie danneggia fortemente l’intelligibilità della
espressione strutturale. Le pur corrette ed eleganti soluzioni di dettaglio sembrano finalizzate al disegno
senza definire un ordine e lo spazio circostante.
distinzione tra elementi portati e portanti, anzi, tutto è
occultato, indecifrabile, inesorabilmente rimane solo e
nuovamente… la forma dello stile.
Spazio/struttura
Craig Ellwood non si scosta dal problema della
Modernità. Spazio e struttura sono reciprocamente indifferenti. Se nell’opera miesiana è sempre presente il
tentativo di superare la dicotomia dell’indipendenza
dello spazio dalla struttura, in Ellwood non esiste il
problema, o meglio la lezione desunta dall’opera americana del maestro tedesco è considerata definitiva.
Così le planimetrie dei progetti di Ellwood mostrano
le due opzioni elaborate da Mies: reticolo strutturale a
maglia costante ovvero il grande spazio. In entrambi i
casi si presume un’illimitata flessibilità. Il caso più
emblematico è di nuovo lo Scientific Data System
Factory di El Segundo. Il reticolo a maglia quadrata
di pilastri è indipendente dalle suddivisioni interne ed
esterne. Lo spazio dei saloni e delle stanze è determinato dai tramezzi. La distribuzione è aiutata, come
negli edifici miesiani, dalla simmetria, anche se essa
non riesce a evitare il sistematico raddoppio degli
spazi di distribuzione, comunque piuttosto anonimi e
indifferenti.
Nella Kubly House (1964-65) Craig Ellwood realizza un’improbabile Farnsworth lignea. Del capolavoro miesiano riprende solo all’apparenza le gerarchie: i montanti di legno sono liberi e i solai sono appesi e imbullonati ai montanti stessi analogamente
all’opera di rifermento. Ma Ellwood, ancora una volta
è più interessato al problema del disegno del nodo di
congiunzione tra materiali, piuttosto che alla chiarezza e alla leggibilità strutturale. Il gioco tra telaio e solaio sembra memore della carpenteria delle strutture
balloom frame. Ancora una volta il problema miesiano viene travisato e nonostante il talento di Ellwood il
disegno elaborato del dettaglio confonde la sintassi
architettonica. La logica sottesa nell’opera del Maestro tedesco si stempera in stile, in invenzioni di nuove soluzioni figurative e di maniera.
L’a-tettonicità di Craig Ellwood è clamorosa nello
Scientific Data System Factory di El Segundo in California (1966). Le colonne sono copie, ai limiti del
kitch, della Nationalgallerie di Berlino, però a differenza delle originali esse sostengono travi reticolari
riprese tali e quali dal progetto del teatro miesiano di
Mannheim il quale, diversamente dall’originale, sono
annegate nel muro intelaiato di tamponamento. Il perfetto utilizzo del codice stilistico, delle soluzioni di
dettaglio, della logica di ogni elemento è completamente avulsa dall’edificio nella sua completezza. Gli
elementi, colonne, travi, muri sono uniti solo dal disegno. Non esiste espressione strutturale, non esiste
Lo spazio, l’artificio e la natura
Craig Ellwood non è semplicemente allusione, ritorno di forme e particolari miesiani. L’opera di Ellwood mostra un possibile connubio, senza nostalgie,
tra architettura e natura.
Nelle distese desertiche, tra le Montagne Rocciose,
tra i profondi arroyos soggetti a incendi e smottamenti, l’architettura leggera, quasi effimera di Ellwood ritaglia lo spazio in punta di piedi. Tra la paura
della violenza nefasta delle forze naturali e il rispetto
di quel profondo altro, che è il territorio dell’ovest
americano, le ville, sebbene sfacciatamente lussuose,
appaiono sottomesse prive della hýbris fabbrile del
costruttore europeo. L’eredità miesiana ha qui un insospettabile sviluppo, precursore di una sensibilità nei
confronti delle risorse ambientali e paesistiche decisamente contemporanea. In questo senso una delle
opere più emblematiche di Mies, La Farnsworth House, glaciale e cristallina, perde i connotati di teorema
architettonico preveggenti della crisi della Mo dernità,
della frattura nefasta tra spazio e struttura. La Farnsworth House si trasfigura, rimanda ad antiche visioni. Tra esse c’è lo schizzo di una casa di campagna
che Mies disegnò nel 1934, poi c’è il fotomontaggio
del progetto della casa di legno per i signori Resor nel
1938; immagini di case, non realizzate, trasfigurate in
ponti. Volumi che attraversano rapidi e orizzontalmente i paesaggi, forse collegano luoghi lontani nei
quali il fruitore-spettatore coglie l’assieme e distingue
i contorni.
La casa ponte miesiana, il sogno di essa, nelle ma-
ni di Ellwood si trasforma nel 1964 nella Weekend
House a San Luis Obispo in California, poi nella Bridge House nel 1968 ed infine nell’Art Center College
of Design di Pasadena negli anni settanta. Nella prima
casa per vacanze progettata in California, Ellwood
coglie la lezione della Convention Hall di Chicago: la
casa è costituita da due travi reticolari di ordine gigante che corrono lungo i prospetti più lunghi. La
mossa astuta orienta la casa; l’ingresso non può che
essere posto su uno dei lati minori; la struttura della
casa non può che scaricare il suo peso nei quattro
punti estremi della casa. Nell’Art Center College il
gioco tra natura e artificio si fa più arduo.
La dimensione dell’Art Center College of Design
non consente incertezze: o si sceglie la via dell’insediamento urbano trasformando il territorio, oppure si
opera dialetticamente distinguendo natura e artificio,
conservando l’identità dell’una esaltando le caratteristiche dell’altro. Craig Ellwood opta per quest’ultima
e ripropone il tema dell’edificio-ponte 2 con traveparete reticolare. Stavolta l’edificio ha una dimensione paesistica e la dialettica tra architettura e natura si
distingue a seconda delle varie scale. Dal cielo il segno è perentorio, la piastra rettangolare evoca i segni
arcaici delle civiltà amerinde, la risposta dell’uomo al
creato. Dalla strada, dai percorsi d’accesso, la piastra
si trasforma in una linea; essa è l’orizzonte che separa
il noto dall’ignoto. L’orizzonte è ciò che si può raggiungere, oltre c’è l’abisso. L’orizzonte è anche continuità, unità che tutto accorpa, riunisce; se il paesaggio muta esso nota e annota, unisce in un unico
sguardo.
Prossimi alla scala architettonica, l’edificio si svela e sorprende (figg. 12,13,14). La natura e il territorio
diventano mutevoli, l’architettura a sua volta risponde,
si altera, è contingente. Presso l’alveo del torrente è
dichiaratamente un ponte, la campata è unica, le travi
alte quanto il piano, prima volano, poi incontrano le
sponde. La florida vegetazione fluviale nasconde la
strada, oltre a essa il lungo prospetto diviene edificio,
e la verzura, più rada e accogliente, è il giardino
dell’Art Center College of Design.
All’interno del volume lo spazio più interessante è
quello della biblioteca. Quattro travature qualificano
l’ambiente e ne determinano l’uso. È il grande spazio,
2
Nella fase preliminare di studio del progetto furono interpellati
gli architetti Kubly e Burdik in qualità di consulenti del dipartimento dell’Art Center College of Design di Pasadena. Burdik propose un insediamento, un complesso articolato con aule esagonali
riunite a grappoli in parte interrate nel fianco della collina. In alternativa propose un vero e proprio insediamento urbano, evocando i borghi italiani, con edifici a gradoni adagiati lungo il declivio collinare. I risultati non convincenti spinsero Burdik a ipotizzare soluzioni alternative tra le quali l’idea di un edificio ponte.
L’incarico fu affidato a Ellwood, associato con l’architetto Tyler,
il quale sviluppò il progetto sulla base di quest’ultima idea. (cfr.
Art Center College di Pasadena e lo strano caso di Craig Ellwood di Meredith L. Clausen, «Casabella» n.664 pag. 64)
assoluto, miesiano, nel bene e nel male conferma i limiti di questo. Impossibile prevederne un uso diverso
o una sua possibile interpretazione, pena il suo annullamento.
Ma è nel rapporto con il paesaggio 3 il punto di forza di tutta l’operazione, nel coraggio del segno e nel
rifiuto delle regole insediative convenzionali per im3
Si rimanda all’intrigante articolo di Linda Pollak Il territorio
americano. Quattro tipi di disturbo in «Lotus Internation» n.100,
1999. Pollak ripercorre diacronicamente le definizioni e gli approcci teorici che, via via, si sono alternati sul concetto di paesaggio. Dal modello inglese basato sul non disturbo, sul nascondimento dell’elemento antropico e sul concetto di orizzonte aperto
come natura libera, sino alla visione sociale di Frederick Law Ol
msted con la sua idea di natura pastorale come antidoto all’urbanesimo. Poi giunge ad una definizione contemporanea, che personalmente condivido, per la quale il paesaggio e il progetto si relazionano attraverso la riformulazione del concetto di disturbo. Un
concetto che passa, secondo Pollak, da un valore negativo a uno
positivo attraverso il middle landscape, cioè la trasformazione
necessaria per conquistare e conciliare gli opposti. Non semplici
luoghi intermedi, tra spazio antropico e natura, ma veri e propri
mediatori, cioè potenziali spazi di relazione, di flusso di informazioni. Secondo Pollak: “(…) l’architettura ha la capacità di essere,
per usare le parole di (Bruno) Latour un mediatore, vale a dire un
‘oggetto originale’ che soddisfa la necessità che ha oggi lo spazio
urbano di riconoscere e comprendere una realtà molteplice e le
sue differenti rappresentazioni. Le righe seguenti vogliono suggerire un programma per un “giardino-paesaggio” delimitato, toccato e frammentato, che assomigli di più alla natura nei fatti che nelle apparenze. Il progetto di questo giardino-paesaggio può essere
pensato nei termini di un disturbo di direzione, che permetta alle
immagini e alle identità di declinarsi le une sulle altre, invece che
sostenere al dominio stabile dell’una o dell’altra. Il confine è un
apparato che articola le tensioni tra le diverse identità urbane, al
suo interno e al di fuori, e che delinea un campo in cui è riconoscibile la sua paradossale identità di natura messa in scena
all’interno delle condizioni costruite della città. Il suo terreno
‘toccato’ è una controfigura della natura, che può intendere come
una superficie simile a un’iscrizione, o come una stratificazione di
superfici, che permetta la costruzione di differenze spaziali tramite la sovrapposizione, a scale diverse, di architettura, paesaggio e
città. I suoi frammenti costituiscono una nuova natura fatta di materiali urbani e delle tracce delle identità storiche del luogo; amplificano le instabilità che esistono nello spazio di ogni giorno,
con lo scopo di rendere possibile la costruzione di “altre” organizzazioni spaziali.”
porre al contesto un limite, il silenzio, il ritmo e un
ordine severo. La potenza del luogo allora si manifesta, si dà, diventa leggibile, mentre l’architettura tace.
Non c’è mimesi, non ci sono trucchi da prestigiatore,
non è possibile imitare la natura.
Il progetto di Craig Ellwood coglie uno degli aspetti più interessanti ed attuali dell’eredità miesiana:
la capacità di leggere e interpretare il contesto.
L’architettura si dà solo in funzione del contesto, solo
allora essa diventa cosa concreta.
L’antiformalismo non è il disegno dell’oggetto, la
sua perfetta conformazione, ma è l’annullamento della Gestalt, della volontà di essa di essere indipendente
da sé. Opporsi al formalismo significa trasformare
senza distruggere, senza far tabula rasa, significa conoscere l’ignoto. Lo spazio dell’uomo, allora, si mostra nel suo carattere più autentico, risponde al suo
essere, al suo movimento, alle sue funzioni e in questo modo si appropria di un luogo, del luogo possibile,
quello da lui definito.
LA CRITICA D’ARTE E L’ARTE MUOIONO AL MADRE
Gabriella Galdi
Il termine M.A.D.RE è l’acronimo del Museo di
Arte contemporanea Donna REgina ospitato nel palazzo Donnaregina a Napoli, contiguo al monastero
del tredicesimo secolo di S. Maria Donnaregina, di
cui rimangono due chiese, una trecentesca, annessa al
museo per accogliere mostre ed eventi speciali, l’altra
barocca, a sua volta sede di un autonomo museo diocesano.
Il Madre nasce in seguito ad un accordo tra il Ministero per le Attività Culturali, le regioni e gli enti
locali, rivolto a diffondere in Italia, in diversi luoghi,
la cultura artistica contemporanea. Insediatosi nel Palazzo Donnaregina, acquistato con fondi europei dalla
Regione Campania nel 2005, e posto in un’area molto
significativa del centro storico della città, tra la chiesa
di S. Giovanni a Carbonara ed il duomo, dopo il discutibile restauro dell’edificio eseguito da Alvaro Siza, nel 2006 il museo apre i battenti con una mostra
antologica di Jannis Kounellis, disposta al terzo piano
del complesso. Visitando l’edificio, al primo piano
dovrebbe essere collocata l’esposizione permanente,
dedicata agli artisti più recenti, al secondo quella storica, ovvero alle esperienze del XX secolo, ed al terzo
dovrebbero trovare posto le mostre temporanee come
quella inaugurale di Kounellis. Il condizionale è
d’obbligo perché oggi se si va al Madre il costo del
biglietto non vale la visita dal momento che le sale
sono quasi spoglie. Molti artisti, infatti, che avevano
offerto al museo le proprie opere le hanno ritirate e
quelle che restano non sembrano adeguate alle sale, o
meglio sono queste a non riuscire ad accoglierle, con i
loro spazi troppo modesti, oltretutto non resi totalmente disponibili dal restauro siziano (si pensi alle
pareti finestrate del tutto inopportune in un museo).
Invero, dal 14 dicembre è in mostra una retrospettiva
di Sol Lewitt che, forse, potrebbe valere il ticket, anche se, nell’ansia di mostrare le diverse facce
dell’artista scomparso (la mostra ha titolo “Sol Lewitt,
l’artista e suoi artisti”) appare molto discutibile l’idea
di esporre lavori non di prima mano ed eseguiti da altri operatori su suo progetto. L’esposizione, oltretutto,
non è stata prodotta dal museo ma accolta, nella cura
di Adachiara Zevi, con il supporto della fondazione
Morra Greco, che possiede alcune opere da una analoga mostra del 2010, del Centre Pompidou di Metz e
della Fondazione Sol LeWitt di Chester, Connecticut,
facendo venir meno uno degli assunti della struttura
che la vuole luogo operativo più che di riverberazione
di altre organizzazioni. Il ricorso alla Fondazione
Morra Greco è in parte dovuto al fatto che il Madre
negli ultimi due anni non ha navigato - e non naviga in buone acque e la desolazione delle sale manifesta
tutto il suo stato di crisi.
Eppure il museo nasce con i migliori auspici, rivolto a rivitalizzare la città sia in termini concreti, insediato com’è nel popoloso e popolare quartiere di
San Lorenzo, a poca distanza dall’Orto Botanico settecentesco e dal museo archeologico, onde innescare
anche un processo virtuoso di rinnovo urbano mediante la valorizzazione degli edifici sei-ottocenteschi
della zona, sia in termini culturali, essendo nato per
operare in collegamento con strutture analoghe, quali
il museo Pan o la sezione d’arte contemporanea del
museo di Capodimonte. Affidato in prima istanza a
Eduardo Cicelyn, curatore a Napoli di diverse esposizioni, dalle installazioni allestite a piazza Plebiscito
alle mostre temporanee organizzate al museo archeologico, tutte riguardanti importanti artisti internazionali, la vita del museo ha avuto luci ed ombre, ottenendo, da un lato, il riconoscimento di “buone pratiche” nella gestione dei finanziamenti europei ottenuti
per alcuni progetti, e conoscendo, dall’altro, forti polemiche proprio per l’uso degli stessi, doviziosi, fondi. Legato alla filiera culturale-merceologica del critico Bonito Oliva, nel periodo della prima direzione vicepresidente della Fondazione Donnaregina che gestisce il Madre, Cicelyn ha privilegiato nelle esposizioni allestite la presenza degli artisti promossi dal
critico caggianese, partecipi delle correnti concettualcomportamentiste degli anni sessanta a lui care sino ai
rappresentanti della transavanguardia, in una assoluta
assenza di autonomi scatti creativi, se non per il tentativo di immettere sul
mercato giovani artisti
in buona parte napoletani. Molto discussa è stata altresì la collaborazione del Madre alle esposizioni curate da
ABO alla Certosa di Padula con l’occupazione
per tempi lunghi dei delicati ambienti certosini
con invadenti opere, sovente anche di scarsa
valenza artistica. Malgrado i sostanziosi finanziamenti, quindi, già
nel 2010, pochi anni
dopo la propria istitu-
zione, il Madre ha iniziato a boccheggiare, tanto più
con il ritiro dalla politica del presidente della Regione
Campania, vero sponsor di Cicelyn e Bonito Oliva,
Antonio Bassolino, il quale, passato dai vicoli di Afragola alle sale museali, pur senza studi specifici,
nelle sue visite tra piazza Plebiscito, Padula, ed il
Madre, è apparso interessato seguace dei due critici.
L’elezione di Stefano Caldoro alla presidenza della Regione ha quindi condotto, nell’accusa di costi
eccessivi, “superiori a quelli del Louvre”, alla defenestrazione di Cicelyn, in seguito anche ad una indagine
economica commissionata dal professore Pierpaolo
Forte, membro del consiglio di amministrazione della
Fondazione Morra Greco, al professor Solima, il quale sembra abbia rilevato il grande dispendio di risorse.
In realtà Solima, in seguito alla querela di Cicelyn a
Caldoro ed all’assessore Miraglia, per le accuse circa
una sua dissipativa gestione, ha testimoniato al giudice l’esatto contrario, sebbene, di fatto, malgrado i ricchi finanziamenti, il Madre sia giunto all’inizio del
2012 sull’orlo della chiusura, con il possibile licenziamento dei suoi trenta addetti. Passato su nomina di
Caldoro a presidente della Fondazione Donnaregina,
Pierpaolo Forte, anche per l’assenza di progetti e nella
vacanza del direttore, si è impegnato a rinsaldare i legami con la fondazione Morra Greco che amministrava, giungendo all’allestimento della mostra-quasiflop
di Sol Lewitt, sui cui fondi pende una interrogazione
rivolta al presidente della Regione da parte dei consiglieri di opposizione. Quanto rende plasticamente tutto il senso della nuova gestione è il fatto che, mentre
prima la fondazione Donnaregina che gestisce il Madre vedeva quale presidente un politico, lo stesso presidente della Regione Campania, supportato dal vicepresidente Bonito Oliva, ora la presidenza è delegata
ad un avvocato amministrativista (l’avvocato Forte è
professore associato di Diritto amministrativo nella
Università del Sannio, consulente dello studio di famiglia fondato dall’onorevole democristiano, già sindaco di Napoli, Mario Forte, fratello del teologo Bruno Forte, arcivescovo di Chieti), strettamente legato
all’istituto privato di provenienza, appunto la fondazione Morra Greco. Se si guarda alla lunga mano di
questa fondazione circa la rete organizzativa in materia culturale estesa a tutto il sud, si comprende come
vi sia il rischio che una istituzione pubblica, il Madre,
fruendo di denaro pubblico, possa promuovere artisti
e manifestazioni privilegiati da una importante e solida struttura privata che tende a monopolizzare il mercato dell’arte nel mezzogiorno per renderlo, evidentemente, possibile trampolino per quello nazionale ed
internazionale. Un altro dato che mette pensieri è la
contiguità tra il comitato scientifico della Fondazione
Morra Greco (Elena Filipovic, Francesco Manacorda,
Heike Munder e Rein Wolfs) e la fondazione Donnaregina (Andrea Bellini, Johanna Burton, Bice Curiger,
Gianfranco Maraniello, Chus Martinez), tutti coinvolti in attività curatoriali presso le kermesse artistiche e
di mercato in Europa, tra Kassel, Venezia, Bruxelles,
ecc. Quanto colpisce cioè è il carattere più economico
che culturale il quale, già assunto dal Madre in termini artigiani con la direzione di Cicelyn, conosce il salto, per così dire, industriale, con l’affidamento della
gestione del museo ad un esperto dei movimenti del
mercato dell’arte, qual è il professore Forte. Se, chiamato da Caldoro in veste di ‘saggio’, per dire la
sua. sulla gestione del Madre, Sgarbi, ironizzando sulla apertura del museo ai giovani con concerti ed una
discoteca, propose provocatoriamente a Cicelyn, in
cerca di fonti finanziarie, di assoldare una ventina di
ragazze escort su cui lucrare, può ritenersi che, in
fondo, manovrare un museo pubblico in esplicita relazione con una struttura privata, certo, senza scopo di
lucro, ma con lo scopo di raccogliere opere d’arte ben
più ricche di qualsiasi azionariato bancario, sembra
proseguire l’indicazione sgarbiana, dove è l’arte stessa ad apparire indotta a non del tutto comprensibili
mercimoni. Un museo pubblico, che utilizza cioè danaro pubblico, infatti, non dovrebbe avere alcuna relazione con strutture mercantili per disporsi, al contrario, a proporre cultura, arte cioè, dal suo interno,
coinvolgendo la città ed imponendo la propria produzione all’esterno. Il costituirsi della fondazione Donnaregina e del Madre secondo il modello della struttura privata che li affianca, la Fondazione Morra, ha
quindi indotto ad una piccola variante: la nomina di
un direttore artistico non interessato ad animare culturalmente l’ambiente e la città, quanto a collaborare
nelle scelte manageriali prima che culturali. Naturalmente per la scelta del direttore, a differenza di quanto era accaduto a Cicelyn, nominato direttamente da
Bassolino, è stato bandito un regolare concorso vinto
da tale Andrea Villani, essendo madrina della commissione internazionale di esperti la professoressa
Laura Cherubini, entrata a far parte del CdA della
fondazione Donnaregina, pare, a detta del comitato
Save Madre, senza i legittimi titoli, non potendosi
probabilmente individuare in lei i caratteri dell’ “esperto d’arte contemporanea di rinomanza internazionale e di conclamato prestigio” richiesti dallo
Statuto. E del resto, nel considerare che la Cherubini
non possiede certo i riconoscimenti del suo predecessore, il pur discusso Bonito Oliva, se si guarda ai suoi
titoli, docente di storia dell’arte a Brera, oltre a non
potersi rilevare la caratura internazionale non sembra
si riscontrino pubblicazioni che sfuggano l’occasione
operativa, ovvero significativi volumi di ampio respiro storiografico sull’arte, quanto essenzialmente
monografie critiche su artisti contemporanei. Alla
perplessità che insorge è da aggiungere il fatto che la
Cherubini, frequentatrice dei salotti romani che hanno
coccolato ABO e legata alla destra de Il Giornale, cui
collabora sui temi artistici, non vive neppure nella cit-
tà, Napoli, in cui dovrebbe promuovere l’arte, così
come è per il nuovo direttore vincitore del concorso,
un torinese reduce da qualche fallimento - il calo della
Galleria Civica di Trento che non è riuscito ad integrare nel Mart - a sua volta del tutto sprovvisto di
pubblicazioni significative e forte principalmente di
qualche esperienza curatoriale.
Le modalità della gestione del Madre e della scelta
del direttore sono però ormai consuete in Italia nelle
istituzioni culturali pubbliche. Si pensi ad esempio a
strutture più ricche e prestigiose come la Fondazione
Maxxi del Museo delle Arti del XXI secolo che vede
tra i membri del consiglio di amministrazione, nominate dall’ex ministro Ornaghi, Beatrice Trussardi,
quarantunenne presidente della Fondazione Nicola
Trussardi con master in arte moderna a New York e
priva di prove testimoniali, ovvero libri storiografici o
di estetica, attestanti la sua visione culturale riguardante l’arte e Monique Veuvet, ex amministratrice di
Palazzo Grassi a Venezia, ovvero della fondazione
privata Pinault e presidente della Fondazione Romaeuropa arte e cultura. Non sembra fare scandalo cioè
che istituzioni pubbliche vedano la gestione manageriale affidata a manager che tutelano forti interessi
nella gestione di analoghe strutture private, ritenendosi forse che le modalità della gestione privata dell’arte
possano determinare circuiti virtuosi anche nella gestione di organismi pubblici. Di qui altresì il sistema
con cui si scelgono i Direttori artistici delle stesse
strutture pubbliche, quello con cui si è giunti alla nomina di Andrea Villani, il cui modesto emolumento,
50000 euro annuali lordi, pari ad un terzo di quanto
percepiva Cicelyn (oltre 20000 per spese di viaggio
ed altri 20000 per un possibile premio di produzione)
rivela forse il suo compito: starsene buono a Torino.
Di solito la scelta dei direttori, come è accaduto a
Napoli, non ricade su riconosciute figure di prestigio
in ambito culturale, orientandosi verso personaggi con
qualche esperienza internazionale e di curatela in fiere
e istituzioni pubbliche o private e meglio orientati al
management. Lo stesso Davide Rampello, che ha diretto la Triennale di Milano, ha sottolineato come il
perfetto direttore di una fondazione d’arte “è manager
ed esperto d’arte al tempo stesso, sì da evitare contrasti tra chi gestisce i fondi e chi organizza le mostre”.
Un altro criterio per determinare la scelta del direttore
di una fondazione pubblica riguarda il gradimento del
grande barnum legato all’arte costituito dai critici che
presiedono le maggiori istituzioni pubbliche e private
italiane ed internazionali, Germano Celant, Achille
Bonito Oliva, Vittorio Sgarbi, Hans Ulrich Obrist,
Francesco Bonami, Philippe Daverio, Flavio Caroli,
Gabriella Belli, Andrea Bellini, Valentina Castellani,
Vittoria Cohen, Luca Beatrice, Gianluca Marziani,
Pio Baldi, ed altri, con i quali, ogni possibile direttore
deve intrecciare relazioni per una eventuale cooptazione nell’empireo degli esperti d’arte.
L’ingerenza dei manovratori del mercato dell’arte
nelle cose dell’arte mostra come sia mutato lo stesso
statuto dell’arte, non più fenomeno culturale quanto
fenomeno finanziario. Su tale mutazione dell’arte si
sono soffermati sia Bauman che Baudrillard, i quali
hanno altresì mostrato come una possibile operatività
“artistica” possa essere riscoperta in opere che sfuggano la determinazione stabile di sensi e valori. In un
certo modo può dirsi che, secondo la linea che va da
Duchamp a Fluxus, oggi l’arte, più che produrre oggetti, può riconoscersi nell’animazione della stessa
vita. Pertanto, se per organizzazioni complesse, anche
pubbliche, come il Maxxi, può persino comprendersi
il possibile privilegiamento della visione manageriale
e finanziaria che pone in seconda istanza quella culturale, affidata a prodotti di sicuro mercato, per strutture
più modeste, legate al contesto urbano in cui sorgono,
come il Madre, il tratto culturale, operativo, di attivazione sociale, dovrebbe essere all’inverso favorito su
quello mercantile, ed affidato ad intellettuali di più
ampia apertura capaci di stabilire legami con l’ambiente al contorno, così come è avvenuto solo in parte
con Cicelyn e come, a maggior ragione, non avverrà
con la gestione Forte-Villani.
E’ probabile che, con la “sparizione dell’arte”, sia
venuta meno anche la tradizionale figura del critico
d’arte, ovvero l’esercizio della critica rivolto ad affiancare operativamente l’arte ed a mediarne, veicolarne, i sensi, anche quando era, secondo la definizione del solito ABO che ne accentuava il conflitto –
di fatto il proseguimento – creativo con l’opera, “critica militare” invece che militante. Sostituire il critico
con il manager, così come è accaduto di fatto al Madre in emulazione di altre strutture, appare essere pertanto l’ultimo passo per il definitivo tramonto dell’arte quale ambito della creatività, della risignificazione, della riscoperta di sensi ai nostri linguaggi, e,
sebbene di ciò non è dato dolersi, dal momento che la
necessità di reinventare le nostre parole non potrà non
trovare nuovi appuntamenti con la vita, duole però si
ponga l’eventualità che il danaro pubblico possa essere utilizzato in attività non utili ai cittadini.
Intanto Villani ha già declamato la sua consunta
teoria tridentina della relazione arte-scienza, in un
momento in cui a Napoli prendeva fuoco il Museo
della Scienza, promettendo l’arrivo di un altro torinese, il filosofo Maurizio Ferraris, convertitosi dalla
ermeneutica vattimo-heideggeriana al neo-neorealismo, sicché, chissà, forse vedremo al Madre una mostra sul Guttuso minore, con grande gaudio dei cittadini che saranno riportati agli anni cinquanta, quando
Lucio Amelio non esisteva e non aveva quindi ancora
condotto Rauchemberg a piazza dei Martiri, e quando
Bonito Oliva frequentava a piazza del Gesù solo un
neorealista di provincia, Luca Castellano, con farneticanti teorie semiologiche. Naturalmente, l’eventuale
mostra guttusiana, così come qualunque altra esposi-
zione, probabilmente si avvarrà del patrimonio culturale messo a disposizione della Fondazione Morra
Greco, cui andranno i doverosi ringraziamenti di Caldoro… o, chissà, forse sarà l’inverso!
L’INNOVAZIONE NELLA TRADIZIONE
Nello Luca Magliulo
E’ indubbio che la miriade di edifici che ci circonda abbia struttura statica, nella maggior parte dei casi,
in cemento armato o in acciaio. La scoperta delle capacità tecniche di questi materiali (in particolar modo
il cemento armato) ha generato infatti, senza ombra di
dubbio, un mercato ampio che ha investito sia i grandi
interventi di architettura che l'edilizia quotidiana in
tutto il mondo.
Esiste, però, una realtà che lavora sull'uso di tecnologie tradizionali e che cerca di riscoprire le vecchie metodologie costruttive tentando di fondere la
tradizione con le attuali inclinazioni formali dell’architettura. Una realtà che non determina un movimento
né tantomeno una scuola di pensiero ben radicata, essendo piuttosto costituita da architetti diversi (noti e
non) che cercano di contrapporre all’uso dei materiali
tecnologicamente “freddi”, ad alto impatto ambientale, altri più vicini alle tradizioni locali o all’ambito
naturale. Ed è lungo una tale linea, molto generica,
priva di manifesti, che è possibile rintracciare interventi dove i materiali da costruzione avanzati sono
sostituiti da composti in terra, mattoni crudi o da tecnologie proprie ai luoghi in cui le architetture sono
collocate. In altri casi è possibile riscontrare come la
scelta della tradizione assuma anche un sapore compositivo e filosofico oltre che un valore tecnico. E’ il
caso della riscoperta del legno il quale all’interno
dell’attuale cultura costruttiva rappresenta da un lato
una valida risorsa nel settore della sostenibilità unita a
capacità strutturali antisismiche che riescono a superare, in alcuni casi, quelle del cemento armato e
dell’acciaio, per essere dall’altro evocativo di un abitare più consono alla relazione con la natura, sebbene
esso stesso si determini, si direbbe, in violenza alla
natura.
Le interpretazioni di queste scelte progettuali possono essere di vario genere. In alcuni casi è possibile
pensare che esse scaturiscano da politiche di sostenibilità (basti pensare al peso che le discipline legate
alla sostenibilità ambientale ha assunto negli ultimi
decenni all'interno del processo progettuale); in altri
casi si potrebbe parlare di un tentativo di recupero del
riferimento al "genius loci" inteso centrale per l’architettura (la perdita del rapporto con il contesto è un tema molto dibattuto come conseguenza della realizzazione delle tante architetture invasive); in altri ancora
della necessità dei progettisti di risolvere questioni di
carattere specifico come è appunto nel caso del legno.
E’ sorprendente a volte imbattersi in interventi realizzati con materiali del tutto naturali in alcuni casi sco-
nosciuti e scoprire che le loro capacità tecniche e statiche non abbiano nulla da invidiare alle possenti armature cementizie. Il bamboo è uno di questi e l’architetto colombiano Simon Velez è riuscito a dimostrarne a pieno tutta la sua potenzialità strutturale oltre
alle possibilità compositive così come è manifesto nel
padiglione Zeri (Zero Emission Research & Iniziatives) realizzato in occasione dell’Expo 2000 di Hannover. La prima definizione del progetto fu disposta a
Manizales (Colombia) perché fosse proposto e approvato ad Hannover. Caratterizzato da una forma in
pianta poligonale a dieci lati, il padiglione presenta un
diametro di circa 40 metri ed un’altezza massima in
punta di 14 metri. Privo di finestre e porte, la forma
architettonica è realizzata dalla struttura stessa che disegna intrecci e viluppi sinuosi, del tutto sorprendenti
per la consueta la cultura costruttiva in uso generalmente nel mondo, sì da far crescere l’interesse nei
confronti del materiale adoperato. In merito all’uso di
questo straordinario prodotto c’è da dire che il bamboo non era catalogato fino a dieci anni fa all’interno
dell’elenco dei materiali da costruzione approvati dal
sistema ISO europeo. Solo a seguito della realizzazione del padiglione Zeri, in molti paesi il bamboo è stato proposto e accettato con approfondimenti circa la
certificazione (oggi esistente) che ne hanno dimostrato i numerosissimi vantaggi economici e strutturali
addirittura estremamente superiori anche a quelli del
legno di altre essenze. E’ indicativo, ad esempio, che
in Italia, a Vergiate (in provincia di Varese) sia stato
realizzato un edificio simile al padiglione Zeri, completamente in bamboo (a destinazione pubblica) e
portato a termine attraverso un Workshop organizzato
dall’associazione “Emissionizero” aderente al WWF,
dove circa cinquanta partecipanti volontari hanno collaborato attivamente alla costruzione di un’area coperta di oltre cinquecento metri quadrati. D’altro canto, basterebbe girare per le strade della Thailandia,
dell’India o di Dubai per notare che tutti i ponteggi
degli edifici in costruzione sono realizzati in bamboo
addirittura per i cantieri dei grattacieli con altezze che
si spingono oltre i cento metri, aspetto che fa intuire
pure in maniera empirica le capacità di questo materiale.
Già Renzo Piano, sul finire degli anni Novanta,
aveva progettato e realizzato una edificio, seppur in
legno, che in qualche modo richiamava il disegno del
padiglione di Simon Velez. Si tratta dell’intervento in
Nuova Caledonia, ben noto, per il Centro culturale
Jean Marie Tjibaou con le grandi vele che avvolgono
le strutture sottostanti pensate come espediente tecnico per la protezione dell’impianto dal vento. Una soluzione che attraverso l’applicazione di materiali e
forme locali oltre ad essere sostenibile con l’uso passivo dell’energia è allo stesso tempo perfettamente
integrata nel contesto paesaggistico.
Ed è l’uso dei materiali tradizionali che, nella interazione con nuove tecniche, riesce a fornire risultati
notevoli, come nel caso dei progetti dell’architetto
svizzero Peter Vetsch il quale, nel suo paese, e più
precisamente a Dietikon, realizza l’Heart House Estate, un complesso di nove abitazioni non solo in terra
ma soprattutto nella terra. L’idea di base del progetto
è nella proposta di far vivere non solo nel sottosuolo
ma con il suolo, riuscendo a sfruttare tutti i possibili
vantaggi derivanti dal rapporto diretto con la terra. I
nove alloggi, dalle forme che assecondano il movimento naturale del terreno, ribassati e ricoperti di terra, ottengono in tal modo una perfetta integrazione
con il paesaggio. La struttura statica delle case è realizzata con setti in cemento fine e terra cruda spruzzati su maglie metalliche curvate. Tale tecnica, sperimentata per la prima volta nel 1911 da Carl Akeley,
era utilizzata per la realizzazione dei tunnel mentre
oggi, Peter Vetsch ne ha affinato i modi utilizzandola
per la realizzazione dei suoi alloggi interrati. Ad oggi,
il progettista svizzero è riuscito a realizzare oltre quaranta interventi tali da farlo considerare il maggior esperto nel settore. Al di sopra dei setti arcuati in cemento il terreno realizza una copertura naturale che
permette una termoregolazione autonoma e automatica durante tutto l’anno. In questo caso, oltre ad usare
un materiale naturale, l’architettura porta con sè la
memoria della tradizione e dell’esperienza della autocostruzione che ha insegnato all’uomo nei secoli la
capacità di sfruttare alcune condizioni fisiche per migliorare il proprio comfort di vita. Le stesse pareti interne sono realizzate in argilla e, per tamponare
l’umidità proveniente dalla copertura, sono rivestite
con una pittura bianca di calce e cemento (già utilizzata dai romani) che riveste anche i soffitti.
L’uso della terra non è certamente nuovo in Europa, basti pensare alla tecnica della terra compressa o
della terra alleggerita diffusa in Germania, di cui uno
dei più importanti esempi applicativi è rappresentato
dalla Chiesa della Conciliazione realizzata nel 1999 a
Berlino sotto la guida di Martin Rauch (costruttore
esperto nell’uso della terra cruda). L’intervento (due
nuove cappelle una all’interno dell’altra) è stato pensato e voluto per sostituire la chiesa originaria del
1894 la quale in seguito alla divisione realizzata dal
muro era stata completamente isolata lasciando sul
lato opposto i suoi seguaci. Di fronte all’impossibilità
di utilizzo la chiesa che era andata distrutta e la nuova
struttura, su richiesta della Comunità religiosa, che
aveva recuperato il proprio luogo di culto a seguito
dell’abbattimento del muro, doveva dunque comme-
morare il vecchio edificio in stile gotico e completamente in mattoni. La tecnica di realizzazione per la
nuova chiesa è estremamente interessante. Per i parametri murari la terra, ancora umida, è stata collocata
per strati all’interno di una cassaforma dello spessore
di trenta centimetri. Di volta in volta gli strati sono
stati sottoposti a compressione per ottenere una buona
compattazione durante l’asciugatura (lo spessore si
riduceva a seguito della compattazione a circa otto
centimetri). Il procedimento, pur con tempi lunghissimi, ha permesso di realizzare muri con una compattezza simile a quella della roccia. Da un punto di vista formale il progetto è formato in pianta da due ovali uno interno all’altro. Quello interno realizzato con i
setti di terra compressa rappresenta la parte strutturale
portante sulla quale si innesta l’ovale più esterno realizzato in legno strutturale per le travi e in legno
lamellare per la facciata esterna. Il risultato è
un’architettura molto leggera e simbolica che gioca
molto sul fattore visivo dei giochi di luce grazie alla
trasparenza ottenuta in facciata.
Con la stessa tecnica sono stati realizzati numerosi
progetti nel mondo tra i quali la residenza di
Ward+Blake architects a Jackson (USA) dove il sistema di terra compressa è affiancato a quello delle
barre di post-tensione per la realizzazione delle fondazioni, ottenendo una resistenza strutturale pari a
quella del calcestruzzo; casa Rauch progettata e realizzata dall’architetto Roger Boltshauser con lo scultore Martin Rauch; il centro visitatori del progetto
Eden a Bodelva, in Cornovaglia (GB), (in questo caso
il materiale è la terra battuta) dove l’edificio, realizzato in un’ex-miniera abbandonata, ha seguito i procedimenti costruttivi degli scavi minerari. Si tratta di interventi che reinterpretano in chiave moderna un'antichissima tecnica costruttiva sperimentata per secoli in
ogni angolo del mondo (si pensi ad esempio alla
Grande Muraglia in Cina), dove il metodo di lavorazione della terra è identico tranne che per piccole
sfumature..
L’idea che oggi sia ancora possibile costruire con
un materiale cosi semplice e di cosi facile reperibilità
fa pensare a quanto la tecnologia sia andata avanti
dimenticando sempre più la tradizione delle tecniche
costruttive e il valore aggiunto che queste sono in
grado di dare alla produzione architettonica, nella misura in cui, assecondando la natura, spesso, riescono a
meglio reagire agli scompensi catastrofici.
Un esempio in tal senso è il prototipo di casa realizzato dall’architetto iraniano Nader Khalili. Lo studio da lui effettuato per la realizzazione di una casa in
terra cruda nasce infatti in risposta alla necessità di
ottenere un’abitazione capace di resistere ai sismi e
alle inondazioni. Per questo motivo Nader Khalili
sperimenta un metodo costruttivo con la terra cruda
che prevede l’uso di particolari “mattoni” realizzati
con sacchi di sabbia disposti secondo una pianta cir-
colare. Tra un filare e l’altro dei mattoni sono collocate armature di fil di ferro in grado di aumentare la capacità statica dell’edificio. Attraverso la disposizione
sfalsata dei filari si genera infine una finta cupola. Il
sistema costruttivo, di banale semplicità ma esemplare efficacia, determina forme vernacolari poggianti su
archi, false cupole e volte, a formare cellule abitative
dotate di un’estrema resistenza ma anche di una flessibilità ed un’adattabilità che ne permettono cambiamenti in base al numero di componenti il nucleo familiare. L’intero sistema, infatti, può variare e modificarsi per forma e funzione sia in base al numero di
persone da ospitare sia in base al grado sociale della
famiglia. I risultati ottenuti dall’architetto iraniano,
scomparso da qualche anno, sono stati di tale interesse da indurre uno specifico studio all’interno del California Institute of Earth Art and Architecture con la
collaborazione di una fondazione no-profit fondata
proprio da Nader Khalili nel 1986, che ha ottenuto
l’attenzione della NASA implicata, con l’ONU, tanto
nella ricerca sulla costruzione di abitacoli spaziali che
in quella di nuovi modelli abitativi per possibili allestimenti extraterrestri o per i senza tetto del mondo.
Infatti, il modello di casa dell’architetto iraniano era
stato presentato dalla NASA nel simposio Lunar Bases and Space Activities of the 21st Century, rivolto a
scienziati, inventori ed esperti del settore, tenutosi
presso la National Academy of Sciences in Washington nell’ottobre del 1984, proprio come modello abitativo per il suolo lunare, o anche terrestre per emergenze e abitazioni temporanee.
La possibilità di fondere nuove tecnologie e antiche tradizioni costruttive sembra essere, dunque, una
valida alternativa all’uso dei materiali di produzione
industriale, in risposta anche al problema della globalizzazione che sempre più spinge verso una perdita
del rapporto sia con l’ambiente naturale che con i
contesti costruiti nella storia. Ma va anche detto che
spesso questo tipo di realizzazioni che uniscono nuovo ed antico sono il risultato isolato di attività di ricerche, sperimentazioni o, in alcuni casi, dell’attività
di pochi professionisti in grado di autofinanziarsi.
Immaginare che un giorno possa esserci un totale ritorno alle vecchie tradizioni costruttive è senza ombra
di dubbio utopistico ma quanto oggi va comunque realizzandosi lungo la memoria delle passate tecniche
costruttive rappresenta un forte segnale di risposta sociale e ambientale che potrebbe rivolgere la stessa
nuova tecnologia verso obiettivi di maggiore socialità
ed offrire una più consapevole sensibilizzazione della
disciplina verso la riscoperta del suo retroterra culturale oltre che tecnico.
LA “PIEGA” DELLA VITA NEL CINEMA “NEOREALISTA”
Taryn Rubicone
Uno degli equivoci riguardanti il cinema italiano
“neorealista” è nel considerarlo all’interno della tradizione del verismo romantico, o confluente nel realismo socialista, nel ritenerlo cioè “rappresentativo” dei
contenuti della realtà, tanto più quella cruda del dopoguerra resa in tutta la sua evidenza. A leggere Rossellini appare invece palese la sorprendente assonanza
del suo postulato poetico con la riflessione di Deleuze, secondo cui il cinema, allo stesso modo della filosofia, è creazione di concetti e, in quanto tale, vita
concreta (ma per la cultura italiana, retroterra del nostro cineasta, già Giovanni Gentile, a sua volta studioso di Giordano Bruno e conoscitore, seppur aspro
critico, di Henry Bergson – ispiratore di Papini e del
futurismo – come il filosofo francese, aveva interpretato il pensare quale Atto vitale: il ricorso al pensiero
deleuziano non è quindi qui un omaggio ad una moda
corrente quanto un appello ad una analisi approfondita più recente sul mezzo cinematografico). Il regista
infatti insiste nell’affermare come il proprio cinema
ricerchi l’espressione del “fatto” senza ricorrere a
forme e modi preconcetti, manifestando cioè più che
l’intenzione di mettere in mostra la realtà quella di
crearla, di esprimerla o di farla esprimere, sì che il cinema più che luogo di mediazione con il reale sia esso
stesso luogo del reale, della vita1. Del resto, non è certo una scoperta che, proprio il Rossellini più ostico,
quello di Viaggio in Italia o di Stromboli, sia stato
amato e valorizzato dagli intellettuali dei “Cahiers du
Cinema”, tra i quali Jean-Luc Godard, considerato da
Deleuze uno dei padri del cinema moderno, laddove
lo stesso filosofo si intrattiene nei corsi di Vincennes
del 1982 sulla filmografia rosselliniana 2. A differenza
delle arti visive, per Deleuze, il cinema travalica la
stessa mediazione allestita dall’artista in quadri, sculture, fotografie, nel senso che, mentre le altre espressioni artistiche si sforzano di mostrare i mutamenti del
vivere, il movimento della vita che, assorbito in una
immagine, viene reso non immediatamente quanto attraverso la mediazione riflessiva dell’autore cui si deve l’opera, conducendo l’osservatore ad aggiungere,
attraverso il proprio processo immaginativo, la propria cultura, quanto è posto “fuori” dalla singolare
manifestazione sensibile costituita dall’oggetto artistico, nel cinema invece l’acquisizione delle immagini è
in uno con la ragione, l’emozione, i tempi ed i luoghi
dell’anima di quanti osservano, sì da essere parte della loro stessa vita. Sarebbe complesso e lungo sintetizzare qui i due ampi volumi deleuziani sul cinema 3,
sebbene una breve esposizione sia necessaria per una
lettura del neorealismo cinematografico che sfugga la
sua assimilazione al “ritorno della realtà” posto dal
newrealism alla Ferraris con l’eventuale riproporsi
dell’equivoco giudizio sul suo presunto contenutismo.
La continuità tra cinema, filosofia e vita è sintetizzata in Deleuze nella nozione di Образ (Obraz) ripresa da Ejzenstejn, la quale in russo significa sia immagine che concetto. E ancora dal regista russo Deleuze
riprende la teoria del montaggio che, assimilando la
singola inquadratura ad una cellula biologica, concepisce lo sdoppiarsi, ed il moltiplicarsi anche (se si
vuole il dis-piegarsi), dell’immagine ripresa nel fotogramma, determinato attraverso l’allusione ad un
“fuori campo” quale luogo del pensiero, della vita e
della stessa fruizione dello spettatore che assisterà alla
proiezione, producendo una nuova cellula, ovvero una
nuova inquadratura, in una nuova tensione dinamica
1
3
R.Rossellini, Il mio metodo, Marsilio, Venezia, 1987.
E’ da ricordare che Gilles Deleuze ha collaborato con propri
scritti critici ai «Cahiers du cinema».
2
G. Deleuze, L’immagine movimento (1) trad. it. di J.P. Manganaro e L’immagine-Tempo (2), trad. it. di L. Rampello, Ubulibri,
Milano 1984/2004.
rivolta ancora alla riproduzione 4. Senza tener conto
che per il regista la relazione interna ed esterna al farsi del cinema è di natura dialettica, Deleuze ne accoglie l’idea del montaggio, non inteso nella concatenazione lineare di immagini/inquadrature, quanto nel
susseguirsi dinamico di singolari impulsi immaginativi che, al modo delle esplosioni del motore a scoppio,
pur nella loro unità, invogliano quello successivo riproducendosi verso un movimento continuo. Per Ejzenstejn il dinamismo della cellula/fotogramma è alimentato appunto dal “fuori campo”, uno scarto, un
‘fuoco’ esterno, non presente nell’inquadratura, estraneo alla scena sì da renderla “oscena”, secondo la definizione deleuziana, che distolga a sé l’attenzione, sì
da tenerla in tensione verso la ricerca inconclusa di
altre inquadrature, altri possibili montaggi. Sarà quindi da tali considerazioni che Deleuze metterà in luce
come nel cinema di Godard il procedimento del montaggio, però, tenda a non risolvere la singolarità degli
impulsi immaginali verso l’individuale presenza delle
cose mostrate, il loro “è”, secondo l’interrogazione
sull’essere propria alla filosofia tradizionale, alla metafisica, quanto ad accostarle attraverso un “et, et,
et…”5, essendo la congiunzione, tra due inquadrature,
all’infinito, una linea limite, una frontiera, un “tra”,
dove non sia evidenziata nessuna delle due e ciascuna rinvii invece all’altra, secondo quanto osserva per
le “carceri” di Piranesi proprio Ejzenstejn il quale accostando, smontando e rimontando le diverse imma4
Cfr. S. Ejzenstejn, Forma e tecnica del film. Lezioni di regia,
trad. it. di P. Gobetti, Einaudi, Torino 1964, (nota al saggio Parola e Immagine, p. 225) e. S.M. Ejzenstein, Fuori campo, in Il
montaggio, Marsilio, trad. it. di P. Montani, Venezia, 2011.
5
G.Deleuze, Tris questions sur “six fois deux”, in «Cahiers du
cinema», n. 271, 1976, pp.11-12.
gini delle incisioni ne mostra il carattere dinamico.
Deleuze, come Ejzenstejn e Godard, quindi, intende
distogliere il cinema dall’idea che lo vuole rappresentazione del reale, se si vuole “realistico” o “neorealistico”, ovvero dalla organicità compositiva della forma, dal momento che in esso ogni forma è immersa in
un flusso magmatico in cui si rende direttamente il
tempo, quello proprio della vita ovvero della coscienza. Riprendendo l’analisi bergsoniana sulla durée, secondo cui il tempo non è quello spazializzato della
scienza, quello misurabile secondo attimi puntuali assimilabili ad istantanee spaziali - non contraddetto
dalla stessa teoria einsteininana che, anzi, lo relativizza con lo spazio disponendo ancora una sua misurabilità - ma quello istantaneo ed infinito insieme della
coscienza che sovrappone passato e futuro oltre la lineare continuità dei momenti presenti 6, Deleuze vede
nel montaggio non il modo di legare in una forma
compiuta, in un racconto concluso, le singole inquadrature o i singoli spezzoni determinati dai movimenti
di macchina, quanto quello di farle uscire dalla loro
singolarità verso il sovrapporsi immediato di sensi diversi, sì che ciascuna sia immagine-movimento e, nel
suo dinamismo, già immagine-tempo 7. In questo senso vengono contraddette le analisi strutturaliste e semiologiche, in voga negli anni settanta, rivolte a leggere le immagini filmiche come segni, a distinguerle
6
L’analisi sulla differenza tra Kronos, il tempo quotidiano misurabile, ed Aion, il tempo vuoto dello spirito è in G. Deleuze, La
logica del senso, trad.it. di S. De Michelis, Feltrinelli, Milano,
1975, pp. 145-148
7
Gilles Deleuze, nel primo volume su L’immagine-movimento,
op. cit. analizza il cinema nell’azione dinamica determinata dal
montaggio che contiene in sé il tempo (pp. 13-14). Sarà nel secondo volume su L’immagine-tempo, op. cit. che si interrogherà
sul cinema in riferimento alla durée bergsoniana, ovvero al tempo
della coscienza e del vivere (p. 201 e segg.)
come “gramma” singolari disposti secondo predeterminate connessioni linguistiche nei diversi modi
compositivi, ovvero come qualcosa che sta per qualcos’altro nella mediazione di un sapere o di una convenzione, dal momento che, al contrario, esse vengono intese nella loro immediatezza vitale, vale a dire
quali elementi di un flusso immaginativo che è esperienza materiale, reale, del vivere. Il cinema cioè è per
Deleuze vita reale, vita autentica ed anche pensiero
autentico dal momento che, oltre a produrre flussi di
sensi e, pertanto, slanci di vita, promuove concetti
sempre creativi che non rinchiudono in sé definitivamente gli eventi, così come è per l’autentica filosofia.
Vale a dire che per lui il cinema non riproduce o rappresenta il reale che gli è fuori “inemendabile” (la
morte di Cesare, ad esempio, o l’occupazione tedesca
di Roma, come vorrebbe Ferraris) attraverso mezzi
linguistici che lo “documentano” – del resto vi sarebbe in proposito una forma apposita del cinema, il “documentario”, che si distingue dal racconto filmico,
sebbene anche le azioni documentarie più che rappresentare la realtà tendono ad immettere il essa lo spettatore – ma, condividendo con ciò che si dice essere
“reale” la costituzione di sensi, è esso stesso costruzione di realtà, realtà effettuale. Con Novalis e Nietzsche tutto è “favola” ma, a differenza di quanto sostiene il newrealism, l’”interpretazione”, quella cinematografica anche, non è un modo di dire o rappresentare la realtà da parte del soggetto, quanto essa
stessa, in quanto luogo della differenza e della ripetizione, realtà in cui il soggetto è immerso pur essendone l’artefice 8.
8
Nietzsche,è un riferimento costante di Deleuze, il cui testo sui
dispositivi di riproduzione del senso, ovvero sulla compresenza
nelle definizioni di realtà e virtualità è Differenza e ripetizione,
trad. it. di G. Guglielmi, Raffaello Cortina, Milano, 1997. Non si
Dopo aver indagato con il primo volume, in riferimento a Ejzenstejn, l’immagine-movimento nelle
sue “tre varietà”, immagini-percezione, immaginiazione, immagini-affezione, determinate da tre procedure nell’uso della macchina da presa, quella che le fa
scrutare gli ambienti, quella che la fa seguire il protagonista in movimento e
quella che la sostituisce al
protagonista, Deleuze si interroga sulla eventualità di
un uso della macchina che
renda appunto la memoire
bergsoniana, la fluidità del
tempo della vita, ritrovandolo nel piano-sequenza - indivisibile per una analisi di
tipo linguistico che vi sconta
così il proprio fallimento dove il racconto filmico
perde ogni carattere letterario per rendersi direttamente
nello scorrere delle immagini. Paradossalmente, come
egli rileva, se l’influenza di
Ejzenstein su Griffith si determina quale imprinting per
il cinema americano sarà un
americano, Orson Welles, ed il suo privilegiamento
del piano-sequenza in vece che dei piani sovrapposti
nel montaggio del regista russo, ad influenzare il cinema europeo e la stessa Nouvelle Vague in cui militano Truffaut, Godard, Bazin, il Bazin cui Deleuze
deve la nozione di “osceno”, il quale rileva come nel
Neorealismo italiano, ed in particolare nel cinema di
Rossellini, vi sia un continuo ricorso alla violazione
dello sguardo. Oscena, in quanto irrappresentabile, è
la morte, come osceno è l’amore, entrambi propri
all’esistenza ed impossibilitati alla resa scenica, per
cui metterli in scena nel cinema, così come pure spesso avviene, è una violazione di ciò che è più privato, a
riprova di come il cinema invada di fatto lo stesso vivere. Oscena, ad esempio, non è l’esibizione del corpo, vivo o morto, nella pittura, mostrato da uno
sguardo fisso e, pertanto, distaccato, quanto il mostrare, come è nel cinema, il corpo vitale, mobile, amoroso e mortale 9 che Rossellini fa irrompere nelle sue sequenze, come in Stromboli, con l’immagine improvvisa del polipo vivo sotto lo sguardo della protagonista (e dello spettatore) presa alla sprovvista, o con
quelle continuamente emergenti, dall’acqua e dallo
schermo, dei corpi dei tonni e dei pescatori nella mattanza.
possono non annotare le assonanze del pensiero deleuziano con la
riflessione di Heidegger sul linguaggio.
9
A. Bazin, Morte ogni pomeriggio (1949-1951), in Che cos’è il
cinema?, trad. it. di A. Aprà, Garzanti, Milano 1973, p. 32
Sebbene un autore comunque cresciuto nel clima
del neorealismo, Michelangelo Antonioni, utilizzi,
con i colleghi francesi, il piano-sequenza, così come
faranno in seguito Bertolucci o Leone, è indubbio che
il cinema italiano si avvalga, più che della lezione di
Welles, di quella di Ejzenstejn, con l’utilizzazione
staccata dei piani relazionati in sapienti montaggi, allestiti in termini sciatti nella commedia all’italiana,
ripresa in forma persino più cialtrona (forse un vezzo
o una indiretta critica) dal Woody Allen di Rome with
love – ma del resto Allen non è Lynch – e tuttavia, se
lo stesso Welles ravviva il piano-sequenza, lento e
monotono, con espedienti ejzensteininani che ricordano i dirottamenti dello sguardo operati da Rossellini, è
probabile che, pur aderendo a quanto rileva Deleuze
circa la non riducibilità dell’azione filmica agli schemi linguistico-semiologici, questa, proprio per il carattere vitale che possiede, non è ascrivibile neppure
a stili predeterminati riconducibili all’immaginemovimento o all’immagine-tempo. Lo stesso Deleuze
non riuscendo ad inquadrare compiutamente il “neorealismo” del cinema italiano, denso di vita pur in un
uso “tecnico” della macchina, anche nelle sequenze
apparentemente estemporanee di “pedinamento”, lo
ascrive ad una crisi dell’immagine-movimento seguendo in definitiva l’indicazione di Bazin, il quale
consigliava di guardare i film di Rossellini, De Sica,
Visconti, estraniandosi dal coinvolgimento emotivo.
Quanto alla tecnica utilizzata dal neorealismo italiano,
lo stesso Bazin mostrava come la cinepresa, le sue inquadrature ed i movimenti di macchina cioè, intrattenesse con i fatti e le cose riprese un rapporto molto
stretto, tale da essere “tutt’uno” con essi, quasi fosse
un prolungamento dell’occhio e della mano, facendo
sorgere naturalmente il racconto da una sorta di necessità biologica più che da una volontà rappresentativa, scenica, drammaturgica, nell’annullamento dell’artificiosità del montaggio a posteriori10. Per il critico francese il film più rappresentativo del neorealismo è non a caso Paisà, nel quale la coralità del precedente Roma città aperta si frantuma nei diversi episodi che, pur donando, come in quello su Roma, una
realtà che nasce direttamente sullo schermo, offre la
possibilità di staccare l’emozione. Lo stesso Deleuze,
dopo aver rilevato come il personaggio neorealista
“registra” il mondo che lo circonda e più che essere
attivamente impegnato nell’azione è come “consegnato ad una visione che insegue e dalla quale è inseguito”, aderisce all’idea di guardare i film neorealisti non
facendosi colpire e compenetrare emozionalmente
dalla narrazione di eventi drammatici quanto, all’inverso, di immergersi, penetrare, nella realtà da essi
costruita: “Contro coloro che definivano il neorealismo italiano a partire dal suo contenuto sociale, Bazin
invocava la necessità di criteri formali estetici. Si trat-
tava, a suo avviso, di una nuova forma della realtà,
considerata dispersiva, ellittica, errante o oscillante…
Il reale non era più rappresentato o riprodotto, ma mirato”11.
Nel possibile dussenso verso la lettura deleuziana
sul neorealismo che lo distoglie dai legami con il
“vecchio realismo” lukacsiano ripreso nelle teorie della medesima epoca sul verosimile filmico di Galvano
Della Volpe, è indubbio che non fa sicuramente giustizia al cinema dei grandi maestri italiani il tentativo
di ascriverlo, oltre che ai dispositivi ejzenstejniani, al
contenutismo che vi attribuiva la cultura sovietica la
quale li intendendeva modi di mettere in mostra la realtà, laddove, pur nella critica di Deleuze alla lettura
strutturalistica del cinema operata da Christian Metz,
è questo stesso autore ad affermare come, per essere
portatore della realtà, il cinema debba spingere la verosimiglianza oltre se stessa sino ad annullarla. Tributario del cinema sovietico è indubbio che il cinema
italiano, anche quello del dopoguerra, abbia guardato
alle tecniche americane, non solo di Orson Welles,
quanto dell’europeo Hitchcock, pure cultore del piano-sequenza, in un sincretismo che manifesta la volontà di interpretare la macchina da presa non in termini documentari quanto in termini creativi della realtà, cui fa onta la stessa definizione di “neorealismo”.
Del resto, una frase di Cesare Zavattini, forse l’autore
che è stato guardato come il teorico del neorealismo,
non recita forse: “per me cultura significa creazione di
vita”?
10
11
A. Bazin,, op. cit., pp. 275-303.
G. Deleuze, L’immagine-tempo, op. cit. p. 11.
RITROVARE LA NATURA NEI SEDIMENTI DELLA CITTA’ CONTEMPORANEA
Gabor Szaniszlò
La storia dell’abitare dell’uomo sulla terra racconta
che l’atto del costruire un riparo sottostà ad una legge
naturale ed immutabile costituita dal bisogno di vivere
in ambienti sempre più confortevoli. Questo bisogno è
diventato un processo inarrestabile di modificazioni ed
evoluzioni degli habitat durante l’intera vicenda umana sulla terra su cui si sono impressi gli indelebili
segni della trasformazione antropica dell’ambiente
caratterizzata dalla dinamica del binomio uomo-natura, natura-artificio e di cui l’architettura rappresenta una manifestazione rilevante.
L’uomo è natura, naturali sono le sue attività e ciò
che crea. Come l’attività del castoro nello spostare
arbusti di legno per costruire il suo habitat è espressione della natura, così lo è la città dell’uomo.
L’artificiale è quindi espressione della natura umana
cosicché la città, l’architettura, sono un prodotto naturale, come sosteneva Aristotile, generato dall’abilità,
dall’arte (da cui artificio) innata dell’uomo. In principio l’abitare dell’uomo era la natura, l’albero, più tardi
è la grotta che offre “la maggiore protezione al vento e
alla pioggia ed il minore salto termico stagionale.”1,
poi la capanna, costruita in luoghi protetti, è il riparo
per le soste nei suoi continui spostamenti.
Nell’età paleolitica, il segno dell’abitare dell’uomo
si confonde nella natura preesistente incontaminata e
dominatrice, l’uomo ne è avvolto, da essa si difende
ma in essa trova il suo sostentamento. I confini artificiali sono solo naturali: linee di costa, mare, fiumi,
montagne, orizzonte. Lo spazio è quello naturale in cui
l’uomo vive, ed è lo spazio che si misura sulle grandi
distanze.
In età neolitica l’uomo struttura la propria dimora
nei villaggi capannicoli 2 : habitat primitivi costruiti
senza schemi o riferimenti a codici razionali ma sul
principio di un naturalismo preistorico. In questi esempi non vi è “un ordine, un criterio distributivo, un
elemento prevalente di riferimento….Spontaneità naturale?....Forse questo ominide ha rivolto ..lo sguardo
al cielo e ripetuto in copia, appropriandosene
l’immagine di qualche nebulosa che diventa l’ordine
naturale per lui congeniale in terra”3 .
Con il passaggio dalla preistoria alla storia, cioè da
circa seimila anni fa in poi, gli insediamenti umani
diventano stabili. Ha inizio la storia della città.
L’ambiente unico, lo spazio illimitato naturale del
primitivo si divide in due spazi contrapposti e com1
2
3
M.Coppa, Abitazione e Habitat, Utet, Torino 1990, p.9
M.Coppa, op.cit,.p.13
M.Coppa, op.cit. p.14
plementari divisi da un confine artificiale: le mura.
Dentro le mura la città, con i suoi spazi artificiali, fuori
le mura la natura, con i suoi spazi illimitati. Quando
dentro le mura i vuoti della città si saturano, quando le
guerre non si combattono più con le spade ma con i
cannoni, quando le mura crollano la città comincia ad
espandersi fuori la cinta fortificata. Con l’era industriale la città cresce sempre più fino a dilagare sul
territorio. Allora è la città, è l’artificio costruito
dall’uomo che circonda la natura, l’avvolge fino ad
assediarla. E l’edificato, spinto dai fenomeni di massiccio inurbamento, invade il territorio libero. La perdita del recinto è l’inizio della disintegrazione dello
spazio dell’ambiente urbano, la perdita della compattezza dei tessuti urbani, della densità dello spazio storico della città, la perdita del luogo della socialità che
l’uomo aveva cominciato a costruire ed in cui l’uomo,
dal neolitico in poi, si era abituato a condividere con
gli altri. È soprattutto la perdita dell’equilibrio nel
rapporto uomo e natura che si ritira sempre più dalla
scena dell’ambiente in cui l’uomo vive sommersa dal
cemento della città moderna.
Fino alla fine dell’Ottocento la cultura architettonica ed urbanistica ha cercato di rispondere alla crescita urbana con un progetto razionale e scientifico che
ne pianificava e controllava il disegno ed in cui la
presenza di una natura irreggimentata si ritrovava nei
giardini e nei parchi urbani. Gran parte della città
contemporanea è oggi una massa informe in cui è andato perduto il rapporto con il senso della natura di cui
facciamo parte. La bellezza ha ceduto il posto ad una
miriade di edifici anonimi, simulacri obsoleti di una
società priva di cultura architettonica, che si è fatto
beffa delle analisi, degli studi, dei modelli e dei piani
elaborati sul divenire della città moderna.
Nel dovere comunque confrontarci oggi con questa
condizione si vuole porre una particolare attenzione
sul costruito che è sotto i nostri occhi per verificare se
con l’etica progettuale contemporanea basata sul progetto sostenibile, si possano recuperare ad un rinnovato rapporto con la natura proprio quelle parti urbane
composte da questa massa edilizia ‘ordinaria’, per
provare a riannodare pezzi sparsi di città alla natura in
una sorta di tessuto urbano organico rivitalizzato.
Ci sono esempi su cui volgere lo sguardo che possono stimolare interessanti riflessioni. Compito della
ricerca architettonica è di riconquistare un nuovo
rapporto con la natura in modo che essa diventi soggetto principale del progetto della nuova città contemporanea. Una natura alleata e non matrigna, una
natura madre e non soggetto a cui rubare leggi, regole e
materia per costruire contro natura; riappropriarsi del
legame uomo-natura in particolare agendo sulla questione ambientale. Le risposte che tuttavia oggi vengono date spesso propongono soluzioni basate sulla
visibilità del binomio architettura-natura attraverso
l’introduzione solo figurativa del ‘verde a tutti i piani
degli edifici, dell’ utilizzo della facciata ventilata, di
superfici per la captazione di energia solare, degli orti
urbani sparsi un po’ ovunque’. “Uno degli aspetti del
rapporto architettura-natura, più spesso contrabbandati
dall’attuale cultura architettonica, è il cosiddetto geomorfismo … mette in evidenza la cattiva coscienza
alla quale l’uomo moderno risponde con una sorta di
esorcismo mascherando i propri prodotti dietro la
cortina fumogena della vegetazione pervasiva e della
vaga analogia esteriore fra spazi urbanizzati e spazi
naturali. Come poetica si ammanta di motivazioni ecologiche e di novità tecnologiche ….ma nelle sue
forme più corrive non va al di la di una maschera sovrapposta al vero volto”4.
Rispondere al bisogno di ritorno alla natura significa adottare soluzioni che non siano solo e necessariamente il costosissimo impiego di tecnologie
d’avanguardia ma operino nella corretta assunzione di
principi compositivi e di tecnologie appropriate utilizzate secondo principi basati sul concetto di sostenibilità. Il crescente ruolo dell’architettura e la responsabilità dei processi di antropizzazione nei confronti dell’emergenza ambientale, insieme alla coscienza del limite delle risorse naturali, in particolare il
limite dello sfruttamento della triade suolo – acqua energia, pretendono il passaggio da una imitazione
formale della natura ad una definitiva assunzione matura del ruolo della natura all’interno dei processi di
trasformazione dell’ambiente. Ciò significa elevare il
grado di conoscenza derivato dal mondo biologico ed
aumentare la comprensione della natura di modo che la
ricerca architettonica studi e proponga soluzioni che
siano il frutto di un confronto o di una interpretazione,
se non derivazione, della natura stessa. In tal senso
significa anche che l’uomo, la società tutta, deve innalzare il livello di capacità d’uso dell’arte per costruire un mondo artificiale sempre più in armonia con
la natura.
Questa breve sintesi sull’abitare dell’uomo evidenzia come la componente di un equilibrato rapporto
con la natura sia fondamentale per la specie umana
diversamente da quanto la città contemporanea ha
prodotto. “E’ diventato necessario un confronto
con…sistemi insediativi storici…per comprendere
come, nella storia, una diversa disponibilità delle risorse ha implicato più dimesse …modalità costruttive
…Una diretta correlazione tra spazi aperti, pae4
P.Portoghesi, Architettura e Natura, Skira, Milano pp. 66-67.
saggio, qualità della forma urbana è riscontrabile quale
condizione presente nello sviluppo e nella storia della
città fino alla rivoluzione industriale…fino ad allora si
assiste ..a modalità di sviluppo..correlate ad una definizione formale e strutturale concepita all’interno di
confini delimitati …Dentro questi confini le stesse
regole di impianto urbano erano basate su tracciati
regolatori….su strade, spazi esterni….piazze. Con la
rivoluzione industriale e la conseguente vertiginosa
crescita urbana la città perde i suoi confini, le sue regole di impianto, il suo ordine contrapposto tra naturale ed antropico…La crescita avviene attraverso sistemi di aggregazione dalle forme irrazionali…gli
spazi edificati si trasformano in frammenti urbani, in
isole galleggianti nel mare dell’inattraversabilità.”5.
Aggiungere una riflessione sulla questione già
ampiamente indagata, del rapporto tra architettura e
luogo, inteso come patrimonio costruito ed in particolare sul rapporto architettura città contemporanea è
finalizzato ad un approfondimento di quegli aspetti
legati al confort ambientale che insediamenti abitativi
preesistenti hanno attuato con semplicità soddisfacendo gli attuali criteri di sostenibilità senza ricorrere a
sofisticate tecnologie. La ricollocazione storica del
significato urbano ed architettonico che hanno alcune
proposte realizzate serve per recuperare la coscienza
delle radici culturali che hanno generato forme e metodi di un rapporto amichevole tra uomo e ambiente.
“Per secoli gli edifici sono stati realizzati utilizzando
criteri costruttivi e morfologici…sperimentati dalla
consuetudine e da questa selezionati perché più idonei….L’età della macchina ha sottratto alla forma ed ai
materiali dell’architettura la funzione di controllare la
qualità dell’ambiente interno delegandone la risoluzione…all’utilizzo degli impianti meccanici……Di
qui criteri costruttivi e forme architettoniche sempre
più estranee e distanti dalla cultura del luogo, dal
genius loci…..gli edifici storici, le aggregazioni edilizie …gli spazi interstiziali ….le strutturazioni urbane
presentano aspetti specifici legati ai caratteri del luogo….Nel nostro Paese le condizioni climatiche temperate hanno..implicato un’apparente prevalenza di
altri fattori (culurali, storico-sociali, costruttivi, tecnologici) che hanno più...condizionato la costruzione
dei sistemi insediativi e dell’architettura”6.
La lezione dell’architettura spontanea, l’aleggiare
di quel che resta del genius loci viene filtrata dalle istanze della condizione contemporanea. Un motivo
ricorrente nelle diverse tradizioni insediative è la coerenza costruttivo-formale che attraversa i diversi
gradi di fare architettura come per esempio le soluzioni
finalizzate al conseguimento dell’inerzia termica ne5
A.Ferrante, La città a pezzi o i pezzi di città nella costruzione
sostenibile dei luoghi urbani. Perdisa, Bologna, 2006
6
A.Ferrante, ibidem.
cessaria al controllo energetico degli ambienti interni
che rilevano conformazioni urbane all’origine di tessuti compatti ed organismi territoriali compressi. Si
può parlare di tipologia ambientale che evidenzia gli
aspetti del costruire legati al confort ambientale e che
trovano nell’aggregazione intermedia tra edifico e città
uno strumento per risolvere specifiche condizioni
ambientali.
Andare ad esplorare forme insediative, dalle moderne fino a quelle delle tradizioni costruttive ai limiti
della storia conosciuta, evidenzia un idea di progresso
contemporaneo che mette insieme il presente il futuro
con il preistorico.
Si vogliono qui analizzare e recuperare alla ricerca
architettonica due tipologie abitative in condominio
costruitie a Napoli in epoche relativamente recenti che
declinano nella loro struttura insediativa un particolare
rapporto con la natura insieme ad alcuni principi della
sostenibilità quali la densità, compattezza e caratteri
insediativi dipendenti da un forte rapporto vincolante
con l’orografia del terreno. Da questo studio si possono ricavare riferimenti metodologici e tipologici
validi per apportare miglioramenti ai processi insediativi della città moderna ed ai programmi di riqualificazione ambientale in una prospettiva di città sostenibile. La ricostruzione del processo formativo storico di
sistemi insediativi presi come campione tipologico
tende a configurare un quadro di riferimento fondamentale per una prospettiva di architettura sostenibile
sia alla piccola scala del singolo edificio come alla
grande scala del quartiere o della parte urbana. È vero
“un progetto è sostenibile se lo è sin dall’inizio”, come
sostiene Giancarlo Allen in un editoriale di
L’Architettura Naturale. Nei casi proposti tuttavia si
vuole analizzare, a posteriori, il grado di sostenibilità
del costruito preesistente nella città scandagliando le
componenti morfologiche e compositive per verificare
se rispondono ai requisiti di sostenibilità sotto il punto
di vista del tracciato, l’orientamento, la disposizione
orografica, la densità edilizia, la compattezza della
forma, le relazioni tra gli ambiti pubblico, privato,
condominiale. Aspetti non direttamente connessi a
tematiche energetiche ma significativi per gli aspetti
sociali e spaziali e per la riconquista di un rapporto con
gli elementi naturali.
Il sistema insediativo per ‘parchi edilizi’ sulla
collina di Posillipo: dai ‘casali’ al ‘villaggio sostenibile’.
Nella introduzione al suo libro, Posillipo, Renato
De Fusco parla della fortuna di quel uomo che abita per
tutta la vita su questa collina: “innanzi tutto per i valori… dal sito….alla bellezza paesistica, dall’opera di
natura a quella dell’artificio umano, dalla fertilità della
terra alla varietà dello scenario, dal fascino dei miti ai
ricordi” ed ai reperti storici. Ma cosa c’è di esemplare
in un’area urbana segnata dalle grandi speculazioni
edilizie che hanno investito Napoli dal dopoguerra in
poi? “In una sola frase direi che Posillipo è il luogo
dove tutto cambia ed in pari tempo tutto resta tale e
quale. E all’obiezione che questa è un idea pericolosa,
visto lo scempio di tante manomissioni, replicherei che
il cambiamento qui come altrove è inevitabile: tutta la
vicenda… che abbiamo narrato è quella di una continua trasformazione. Non è detto che a Posillipo non si
possa costruire, basta solo, e non è poco, che come la
sua pianta più emblematica sia… meraviglioso”7.
All’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso
Napoli era una città ancora impegnata nella ricostruzione postbellica ma anche caratterizzata da forti
processi di espansione edilizia. La pressione insediativa aveva bisogno di aree adeguate per soddisfare le
esigenze di una emergente borghesia cittadina che non
voleva essere relegata nei nuovi quartieri periferici, a
nord ed est della città, previsti dal Piano Regolatore del
1939, ma anzi chiedeva posto in luoghi ameni della
città e la dorsale collinare di Posillipo rispondeva naturalmente a tali requisiti. Il Piano del '39 adotta per
Posillipo una normativa vincolistica di tutela e promozione delle aree verdi impedendo di fatto uno sviluppo insediativo lungo la collina che nei decenni
successivi fu comunque assalita dalla speculazione
edilizia che si concretizzò con molti piani di lottizzazioni. Quest’ultimi furono approvati in consiglio comunale scavalcando con spregiudicatezza gli strumenti
urbanistici vigenti che furono resi inoperanti dalle varie amministrazioni comunali succedutesi in quel periodo per favorire quello che poi divenne il famoso
sacco della città determinato dal blocco urbano-edilizio frutto del sommarsi degli interessi di parti
sociali diverse: proprietari terrieri, futuri acquirenti di
case, costruttori, amministratori, variamente interessati
alla valorizzazione edilizia di molte aree interne alla
città. Quanto ricordato se da una parte rinnova il cahier
de doleances sulle speculazioni edilizie che hanno
caratterizzato la crescita urbana della città dal 1945 al
1970 circa al contempo invita a fare delle riflessioni
sul sistema insediativo formatosi in questi decenni
sulla collina dove, a mio avviso, si evidenziano potenzialità progettuali significative per i temi che sono
alla base di una idea di città sostenibile.
Nelle immagini a volo d’uccello, restituiteci dal
satellite, il lungo promontorio della collina di Posillipo, scendendo a sud est verso il mare con il suo declivio denso di costruzioni, si mostra come una specie di
organismo vivente composto da un sistema di cellule,
le infinite ‘macchie’ bianche degli edifici, connesse tra
loro da un tessuto fibroso formato da prati, alberi, aree
a verde incolto e coltivato, giardini, il tutto innervato
da una rete diffusa di strade. La struttura di questo
corpo, apparentemente inanimato, è determinata, similmente ad un organismo vivente, da leggi e specifiche informazioni genetiche derivate dalla natura del
7
R.De Fusco, Posillipo, Electa Napoli, 1988, p.11
luogo, da regole tipologiche e funzionali, distributive e
costruttive che nel tempo hanno disegnato l'architettura degli insediamenti umani sul corpo della collina:
casali, ville, palazzi, masserie, rive, cale, fondaci,
monasteri, chiese e poi blocchi edilizi a formare quinte
continue lungo le vie principali e secondarie, palazzine, villette, edifici isolati in linea, lottizzazioni, i parchi
edilizi. Spiegando questa realtà con la conoscenza degli elementi che hanno determinato lo sviluppo urbano
della città consolidata si ha una percezione più completa della dinamica di crescita su questo versante
collinare e del contributo che essa suggerisce alla definizione di modelli insediativi sostenibili.
I casali storici
Le piante storiche che illustrano la crescita della
città tra il Medioevo e gli inizi dell’Ottocento, in particolare ciò che è avvenuto sulla collina di Posillipo
attraverso la vista del Baratta (1629) , quella del Duca
di Noja (1775), del Marchesi (1803), mostrano come lo
sviluppo edilizio sulla collina segue una logica insediativa caratterizzata inizialmente da un aggregato di
poche case che si innesta a cavallo di uno dei rami
stradali che collegano la collina; in seguito si addensa
in un nucleo abitativo con caratteri morfologici compatti “caratterizzato dall’attività agricola e manifatturiera…e con.....struttura di una comunità autosufficiente”8. Così Santo Strato, Villanova, Porta Posillipo,
i nuclei di Marechiaro, Riva Fiorita, sono casali cresciuti lungo strade che scendono verso mare o salgono
verso monte, ed in cui la successione fitta di case, una
dopo l'altra lungo le strade, si interrompe a tratti per
lasciare un vuoto da dove ha inizio un fondaco, o dove
troviamo imprevisti slarghi, oppure un terrazzamento
proiettato verso il sole ed il panorama. Sia dalla vista
satellitare che percorrendo dall’interno i suoi spazi la
struttura morfologica dei casali restituisce una propria identità architettonica in relazione al rapporto costruito-paesaggio.
Le lottizzazioni ‘moderne’
Tre strade principali solcano oggi, alle diverse
quote, la collina, suddivisa in terrazzamenti dove, dal
secondo dopoguerra del Novecento in poi, sono state
realizzate molte lottizzazioni. In architettura lottizzazione è quasi una parolaccia perché è sinonimo di
speculazione edilizia, ma gli interventi a cui qui ci riferiamo propongono una idea di lottizzazione che potremmo definire di tipo solare. La lottizzazione è un
sistema di sviluppo urbano opposto a quello per isolati:
non è una edificazione continua lungo le strade che
perimetrano il terreno e che costituiscono di fatto il
confine con gli altri isolati bensì è un’area su cui sono
dislocati più edifici. Questi spesso sono disposti in linea, anche su vari terrazzamenti, nel caso di particolari
situazioni orografiche, distaccati l’uno dall’altro da
8
R.De Fusco, op.cit.,
vuoti, slarghi che nel caso di Posillipo spesso sono
punti panoramici, serviti da una strada interna che si
allaccia alla viabilità principale da un varco di accesso.
Il confine tra le lottizzazioni è spesso costituito da un
sistema caotico di spazi residuali, frammenti di un reticolo che lascia al verde spesso incolto, a giardini ed
ad antichi orti urbani il compito di ricucire le smagliature esistenti sul corpo della collina.
Il parco
La propaganda immobiliare ha chiamato ‘parchi’
queste lottizzazioni che nulla hanno a che fare con il
concetto del ‘parco verde urbano’. E’ una terminologia
usata in città per indicare il modello di lottizzazione
tipico degli insediamenti che hanno invaso la collina di
Posillipo, del Vomero, dei Colli Aminei. Alcuni di
questi propongono una logica insediativa che risponde,
involontariamente, a paradigmi dell’architettura sostenibile. Il ‘parco’ si sviluppa aggrappandosi lungo i
bordi di una strada di collegamento interna che si arrampica sul pendio per formarne la spina portante:
piccoli edifici residenziali, in genere in linea, sono
disposti ai lati con i corpi sfalsati e ruotati in orizzontale e nello sviluppo verticale dei terrazzamenti, spesso
conformati, in pianta, a ventaglio al fine di favorire una
buona illuminazione del sole, per captare il suo irraggiamento e garantire ad ogni affaccio continue visuali
prospettiche verso il panorama.
Il villaggio contemporaneo: verde giardini ed
orti urbani.
Il ‘parco immobiliare’ è in un certo senso il risultato
della trasformazione dei sistemi aggregativi dei ‘casali’ in villaggi razionalizzati ed adattati a logiche insediative contemporanee: un po' villaggio, un po' siedlung, un po' città giardino. Il parco è l’interpretazione
della voglia di vivere in un oasi rispetto al caos urbano,
in una entità quasi autosufficiente, addirittura sotto il
punto di vista alimentare. Infatti a ridosso dei parchi
edilizi di Posillipo ci sono, tra le ampie aree verdi, antichi terreni agricoli ancora coltivati, veri orti urbani
attivi da decenni, anzi da secoli. Molti condomini
sorgono a confine con gli orti storici di Posillipo.
Molte finestre si aprono tutt’oggi su agrumeti e frutteti.
Molti abitanti acquistano ancora sotto casa i prodotti di
una agricoltura cittadina che fa invidia al modello degli
orti urbani della città sostenibile. Gli esempi descritti
dimostrano come i confini oggi esistenti tra gli insediamenti e la natura dimenticata non devono essere
intesi come limiti invalicabili lungo la cui linea le due
entità hanno termine ma bensì come bordi su cui tessuto edilizio e natura si affacciano interagendo tra loro.
Il bordo così diventa un confine poroso e permeabile.
Esempi che mettono in evidenza, come sostiene il sociologo americano Richard Sennet, l’esistenza di
“confini ambigui tra le diverse parti della città” su cui
si affacciano entità diverse che hanno la potenzialità di
generare “forme incomplete negli edifici” e pianificare
“narrative irrisolte di sviluppo” 9. La forma incompleta
prevede insediamenti che possono essere modificati
nel tempo man mano che cambiano le esigenze ponendo le basi della realizzazione della città aperta alle
trasformazioni, all’imprevisto, alle esplorazioni di
nuove opportunità in una visione della città contemporanea sostenibile perché risponde ai continui cambiamenti della società contemporanea, in opposizione
al concetto di città strutturata, predeterminata ed immutabile.
Dalla corte urbana storica alla corte moderna
sostenibile.
Sul primo dei terrazzamenti che sovrastano corso
Vittorio Emanuele salendo verso la collina di San
Martino, Stefania Filo Speziale progetta, all’inizio
degli anni Sessanta del secolo scorso, un complesso
residenziale che reinterpreta l’unità edilizia di base a
corte della città storica realizzando un opera architettonica moderna caratterizzata da scelte progettuali
appropriate nei confronti del rapporto architettura/natura che possiamo registrare nella grammatica
della composizione architettonica sostenibile.
La corte sostenibile
La tipologia a corte assunta come impianto di un
condominio moderno conferma una concezione
dell’architettura che pone il riferimento alla storia
quale principio fondativo del progetto.La rigidità della
forma e la chiusura della corte antica è qui modificata
in relazione alle condizioni date dal luogo. I volumi
che compongono i suoi quattro lati sono infatti disposti
e modulati tenendo conto della presenza di più tracciati: la geometria del lotto su cui si fonda l’edificio, la
sua disposizione rispetto l’orientamento solare, le direttici delle visuali panoramiche ed infine la direttrice
verticale determinata dai terrazzamenti su cui si sviluppa l’edificio. Nell’interpretare in chiave contemporanea questa tipologia a corte si sono qui introdotte
scelte progettuali che possiamo definire bioclimatiche
e che hanno consentito di raggiungere condizioni di
particolare benessere dentro la corte e nelle abitazioni.
Le dimensioni della corte, molto più ampie di quelle
che caratterizzano i palazzi storici in città, si traducono
in una corte solare la cui qualità spaziale è ottenuta
lavorando, con la sola composizione architettonica,
sulla forma dell’edificio sullo spessore della sezione
degli edifici, sullo sfalsamento per successivi terrazzamenti dei corpi di fabbrica e sulla variazione
dell’altezza dei fronti, garantendo così soleggiamento,
ventilazione, raffrescamento e riscaldamento.
Isolato solare
È un esempio di isolato solare10 che rappresenta in
sostanza il duale topologico dell’isolato tradizionale.
Non è o non è più solo la strada e la conseguente forma
9
R.Sennet, Incompleta, flessibile, senza confini. La città ideale è
un romanzo aperto. Corriere della Sera 13 Aprile 2013, p.60.
10
Cfr. S .Los, L’Architettura Naturale n 2/1998, p.26
del lotto che detta le regole dell’impianto edilizio
dell’isolato ma bensì gli edifici sono disposti sul lotto
in relazione all’orientamento con il sole, in sintonia
con l’orografia del posto ed i suoi terrazzamenti, in
rapporto alle prospettive di visuali panoramiche. La
composizione sapiente delle sue parti: corpi di fabbrica, corte-patio, giardino, passerelle, portici, terrazzi,
tipologie degli alloggi, logge, luce solare, affacci panoramici, colori, colonnati e porticati, realizzano una
condizione di confort ambientale ravvivato da una
volontà di riproporre e confermare una tipica atmosfera.
Diversificazione tipologica
L’insieme di queste soluzioni si traduce in un insediamento abitativo compatto dove la tipologia abitativa viene adattata sapientemente alle condizioni date
dal sito, dall’orografia, dal panorama, dal soleggiamento, dalla compressione dell’area edificabile entro
confini molto stretti. Negli alti edifici in linea ci sono
gli ampi alloggi a doppio affaccio, nei corpi bassi sono
collocate case monoaffaccio con giardino accessibili
da un ballatoio sotterraneo e case binate con ingresso
da ballatoi sospesi sulla corte-giardino.
Gli esempi descritti rappresentano un campione
delle opportunità che la città, cresciuta spontanea e
caotica, comunque ci offre da poter utilizzare per
quell’indispensabile processo di riqualificazione urbana da attivare al fine di costruire, per l’uomo contemporaneo, un habitat sempre più sostenibile.
“ …le forme che la natura produce on si conservano
in eterno ma, al contrario, a fronte di quelle che periscono altre ne nascono, sicché la natura non solo si
riproduce nel tempo, ma nel tempo si innova…”11
11
S.Natoli, L’uomo tra artificio e natura, in AAVV., La vita tra
cose e natura:il progetto e la sfida ambientale Electa, Milano,
1992 p.102
ARCHITETTURA EOLICA: EFFICIENZA ENERGETICA INTEGRATA
Antonio Palumbo
Si possono coniugare la progettazione di un edificio e la produzione di energia pulita ricavata dal vento? A giudicare da numerose ed importanti realizzazioni architettoniche degli ultimi anni, pare proprio di
sì. I sistemi energetici fondati sull’eolico, infatti, sono
applicati, con diverse declinazioni, in architetture
molto significative, anche se non conoscono ancora
una diffusione analoga al fotovoltaico o al solare termico.
Da questo punto di vista, “attraverso lo studio degli esempi - ormai già numerosi, in Europa e in molti
Paesi del mondo - di tecnologia eolica applicata all’architettura, si può meglio comprendere il rapporto
tra l’esistente e l’esperimento energetico: la ricerca
progettuale più recente si interroga sui possibili ed auspicabili paradigmi progettuali che possono derivarne” 1, nella consapevolezza, da una parte, che l’identità e la specificità di ogni singolo luogo non consentono - qui come altrove - la definizione di codici, linguaggi e repertori di progetto prestabiliti, ma nella
certezza, dall’altra parte, che la sperimentazione nel
campo dell’eolico applicato all’architettura, tutto ancora da esplorare, può condurre a nuovi significati urbani e paesaggistici.
Considerando che “tale processo, in continua evoluzione, appare in grado di dare origine a nuovi linguaggi, metodi e luoghi della produzione e della trasmissione dell’energia ottenuta da fonti rinnovabili” 2,
tuttavia, quando si parla di fonti di energia pulita, viene subito da pensare agli apparati fotovoltaici installati sulle coperture degli edifici, mentre l’eolico e il geotermico vengono concepiti spesso solo nella forma
dei grandi impianti.
In riferimento a questo aspetto, è bene far rilevare
che l’Istituto Europeo sulle Prestazioni Energetiche
degli Edifici ha recentemente pubblicato le “Linee
guida per l’attuazione della Direttiva EPBD”, quale
strumento di indirizzi rivolto a fornire agli Stati membri il supporto tecnico-operativo per mettere in pratica
le disposizioni della normativa UE sul rendimento energetico delle strutture. L’acronimo EPBD indica la
Direttiva 2010/31/CE sulle prestazioni energetiche
nell’edilizia, entrata in vigore il 9 luglio 2010, in sostituzione della Direttiva 2002/91/CE, abrogata dal 1°
febbraio 2012. Nell’ambito di tale provvedimento
1
Sartogo F., Ferrara V., De Lorenzo E., Energia eolica. Evoluzione tra storia, progetto e ambiente, Flaccovio, Palermo, 2012.
2
Delsante I., Innovazione tecnologica e architettura, Maggioli,
Santarcangelo di Tomagna, 2008.
provvedimento, le nuove Linee guida definiscono il
quadro comune di una metodologia per il calcolo delle prestazioni energetiche di tutti i nuovi edifici ed unità immobiliari per cui gli Stati membri, i quali entro
il 31 dicembre 2020, dovranno obbligatoriamente garantire l’eliminazione di ogni spreco di energia.
Le Linee guida, in particolare, mirano a garantire
il miglioramento delle prestazioni energetiche delle
strutture edilizie mediante la definizione di parametri
che contemplano anche l’utilizzo dell’energia eolica i
quali tengono conto delle condizioni locali e climatiche esterne.
In questo senso, l’obiettivo posto dall’Unione Europea di avere entro il 2020 tutti gli edifici a consumo
minimo di energia, e quindi ad altissima prestazione
energetica, il cui fabbisogno molto basso (o quasi nullo) sia coperto in misura significativa da fonti rinnovabili con l’utilizzo di tutte le fonti alternative disponibili, ivi compreso i sistemi ch sfruttano l’eolico. Di
conseguenza, segnatamente nel nostro Paese, il ricorso quasi esclusivo al fotovoltaico nella realizzazione
dei nuovi edifici dovrà ampliarsi anche ad altre tecnologie, come l’eolico di piccole dimensioni - micro
impianti o mini impianti di potenza fino a 5 kW di
picco - installabile sul tetto delle strutture o secondo
logiche progettuali che mirino, in ultima analisi, a fare
dello stesso elemento eolico una componente integrata del complessivo risultato architettonico.
Fino ad oggi, soprattutto in ambienti urbani, questi
micro e mini impianti hanno trovato poca diffusione
(specie per motivi estetici e di decoro), ma sono state
già studiate valide soluzioni per adattare l’eolico ai
contesti urbanizzati. Un esempio tra i migliori è rappresentato dalla “Venturbina”, prodotta dalla Enatek
di Piombino, costituita da una turbina microeolica orizzontale che non ha bisogno di pali, dal momento
che ruota lungo un asse longitudinale, il quale consente una estensione modulare pari alla facciata esposta
della struttura. Grazie alle sue dimensioni contenute
(300x150x150 cm), tale turbina può essere installata
adottando innumerevoli combinazioni architettoniche
ed è in grado di sfruttare al massimo l’effetto parete,
raggiungendo nelle performance picchi del 200% superiori a turbine con le medesime potenze nominali.
L’analisi delle specifiche applicazioni dell’eolico
all’architettura - embrioni di un possibile rinnovamento urbano - considerata la brevità della presente trattazione, non può essere qui compiutamente definita, ma
“le tipologie e i materiali degli edifici sinora realizzati
e le trame e i segni delle strutture cui si può far rife-
rimento, comparati con i linguaggi architettonici, con
gli strumenti urbanistici vigenti e con i dati ed i requisiti prestazionali delle tecnologie bioclimatiche di tipo
eolico, fanno emergere nuovi significati progettuali e
nuove potenzialità nelle modalità di intendere e di vivere gli aspetti e gli spazi della città contemporanea”3.
Generalmente, a partire dai microgeneratori posizionati su tetti o giardini di abitazioni unifamiliari e
passando per le wind farm, questo particolare tipo di
strategia costruttiva, finalizzata a conseguire approvvigionamenti di energia pulita dal vento, conosce sviluppi sempre più rilevanti, giungendo progressivamente. dalla piccola dimensione, legata per lo più ad
una fase sperimentale del binomio eolico-architettura,
alla macrodimensione rappresentata da grandi strutture e magniloquenti grattacieli, i quali, ormai in ogni
parte del mondo, costituiscono esempi molto riusciti
di tale connubio tecnologico-costruttivo.
In sintesi, i più importanti e recenti esempi possono segnalarsi nei seguenti edifici.
Il Bahrain World Trade Center (abbreviato in
BWTC), una struttura composta da due torri, realizzata nel 2008 a Manama dallo studio di architettura
Atkins, che, con i suoi 240 metri di altezza, è il secondo edificio più alto del Bahrain. Il BWTC ha ricevuto numerosi riconoscimenti per la grande quantità e
qualità delle soluzioni sostenibili adottate, ma, in particolare, esso rappresenta il primo grattacielo al mondo ad aver integrato delle turbine eoliche nella propria
struttura. Le due torri sono collegate da tre ponti esterni, ciascuno portante una turbina eolica a tre lame
da 225 kW (per un totale di 675 kW di potenza). Ogni
turbina presenta un diametro di 29 metri ed è allineata
verso nord, ossia nella direzione dalla quale giunge
l’aria dal Golfo Persico. Inoltre, per le torri, è stata
adottata una forma conica, in quanto è stato dimostrato dai test in Galleria del Vento che tale conformazione favorisce un flusso che rimane perpendicolare alle
turbine, migliorandone così la resa di esercizio.
L’eolico diventa elemento architettonico e fulcro
dell’immagine complessiva della costruzione anche
nel progetto nel COR Building di Miami, realizzato
da Oppenheim Architecture, dove le pale, sistemate
nella parte più alta dell’edificio entro numerosi e
grandi fori circolari ricavati su tutti e quattro i lati, caratterizzano la composizione della superficie esteriore, formando una sorta di “pelle” esterna in grado di
favorire l’intensificarsi delle correnti e convogliare
l’energia del vento.
Degno di nota è anche il grattacielo progettato a
Chicago, sulle rive del lago Michigan, da Adrian
Smith e Gordon Gill, dove in cima all’edificio, ai
quattro spigoli, sono state posizionate le turbine eoli-
che coperte. Il vento incanalato da tali turbine ha un
duplice scopo: produrre energia elettrica e fungere da
sistema di ventilazione interno sfruttando le differenti
pressioni che si generano alle diverse altezze. Le turbine installate da Smith e Gill nel loro edificio si presentano perfettamente integrate nella struttura, eliminando ogni impatto visivo.
Anche in Cina, a Guanzhou, a 180 Km da Hong
Kong, la Pearl River Tower, progettata dallo studio di
architettura statunitense Skidmore, Owings & Merrill,
utilizza sistemi energetici eolici, richiamando nella
sua forma un’ala di aereo. “La principale peculiarità
di questo grattacielo è costituita dalle due aperture orizzontali (che sembrano ripartire l’edificio in tre immensi cuscini sovrapposti) profilate ad imbuto per
incanalare il vento che va ad alimentare le turbine eoliche interne, in grado di generare l’energia necessaria
per il riscaldamento, la ventilazione e la climatizzazione” Non solo, ma, secondo quanto spiega Merrill,
“le aperture alleviano la pressione del vento sulla facciata, nonché la pressione negativa, potenzialmente
dannosa, sul lato opposto dell’edificio”4 realizzando
anche un utlie dispositivo statico
Non possiamo non citare, infine, la già famosa
Strata SE1 Tower di Londra, meglio nota con il nickname “The Razor”, ideata dallo studio inglese
BFLS ed ubicata a poca distanza dalla City e dal West
End. “Ciò che rende unica ed innovativa questa struttura, anche dal punto di vista formale, sono le tre gigantesche turbine eoliche, posizionate nella parte
sommitale dell’edificio e perfettamente integrate con
il tetto entro tre enormi fori, le quali permettono di
fornire più dell’8% del fabbisogno energetico della
torre”5. Le turbine, a cinque lame, per ridurre il rumore di esercizio sono dotate di smorzatori di vibrazione
ed hanno un peso di 5 tonnellate a testa. La torre è alta 42 piani: quanto basta per svettare al di sopra di tutti gli edifici circostanti e poter sfruttare al meglio il
vento presente in quota che viaggia a circa 35 MPH
(50 Km/h).
Si tratta, come è palese, in gran parte dei edifici alti che, possibili forse alle periferie delle grandi città
italiane, snaturerebbero del tutto il paesaggio dei piccoli centri già messo in crisi dagli interventi della
speculazione edilizia. E tuttavia, considerando che il
vento è uno dei fattori climatici che pure ha determinato la storia delle nostre città, è probabile sia necessario provare ad imprigionarlo anche nelle nostre contrade, tanto più che la sperimentazione, come è nel
caso della “Venturbina” già sembra offrire possibili
soluzioni-
3
4
Gaspari J., Sfide per una dimensione sostenibile del costruire.
Contributi sull’uso dell’energia in architettura, Edicom Edizioni,
2009.
Moccia F. D., Abitare la città ecologica, CLEAN, 2012.
Frigerio Design Group, Architettura dell’energia, Motta Architettura, 2010.
5
MARIO DE RENZI E UGO LUCCICHENTI. DITTICO CON VEDUTE
Mauro Marzo
Quando nel 1938 Ugo Luccichenti presenta per
conto di Alfredo Bornigia, facoltoso commerciante
d’auto, la domanda di “Licenza di costruzione” per
una palazzina da erigersi in piazza delle Muse ai Parioli, i lavori di edificazione della palazzina Furmanik, progettata da Mario De Renzi 1 per un lot-to sul
lungotevere Flaminio, dovevano ormai quasi volgere al termine 2.
L’ingegner Luccichenti doveva aver probabilmente guardato, con un certo interesse, alla palazzina in costruzione sulla riva sinistra del Tevere.
Il tema progettuale posto dal lotto a piazza delle
Muse era sostanzialmente analogo a quello indagato, a partire dal 1935, da De Renzi per la Furmanik.
Sia al Flaminio che ai Parioli si trattava, infatti, di
progettare una palazzina di “tipo signorile” con due
alloggi di eguale estensione per piano e un unico
appartamento di vastissime dimensioni al piano attico. Entrambi gli edifici avrebbero dovuto sorgere
su lotti connotati da viste panoramiche, l’uno sulla
riva del Tevere, l’altro sull’estremo limite nordovest dei Parioli, ove il colle digrada bruscamente
fino a raggiungere la quota della fonte dell’Acqua
Acetosa.
Il panorama e la presenza di due unità abitative
per piano ponevano una doppia questione ai progettisti: da un lato i distributivi degli appartamenti dovevano essere studiati in funzione degli affacci di
maggior pregio; dall’altro occorreva assicurare a
ciascuno dei due alloggi le medesime condizioni di
visuale. Come ha rilevato Piero Ostilio Rossi3, la
scelta di basarsi su una rigida simmetria speculare,
con asse perpendicolare al fronte principale, è punto
di partenza in qualche modo obbligato per De Renzi
come per Luccichenti. Una volta orientati gli ambienti di soggiorno di ciascun appartamento verso il
fronte che godeva della vista migliore, si rendeva
opportuno prolungare gli spazi domestici verso l’e1
Nei documenti presentati allo scopo di ottenere la “licenza di
costruire” il progetto reca invero una doppia firma: quella di
Giorgio Calza Bini e quella di Mario De Renzi. Tuttavia, il
nome di De Renzi, precede nei documenti relativi alla palazzina
Furmanik, quello di Calza Bini ed attesta, come già rilevato, che
la paternità dell’opera è ascrivibile al primo dei due architetti. E.
Pitzalis, Palazzina Furmanik di Mario De Renzi. Un altro problema di ‘stile’, in La palazzina, numero monografico di «Rassegna di Architettura e Urbanistica», n.89-90, 1996, pp. 147151.
2
Ciò si evince dalla domanda di agibilità presentata nel 1939.
3
P. O. Rossi, Roma. Guida all’architettura moderna 19092000, ed. riveduta e ampliata, Roma-Bari, 2000, p. 132.
sterno e predisporre forme appropriate per far sì che
le viste panoramiche offerte dai siti divenissero una
sorta di scena fissa per i futuri abitanti dei due
edifici.
Ad una prima lettura comparativa, le piante delle
palazzine appaiono assai differenti: per la forma
complessiva, per il numero, la posizione e la dimensione delle chiostrine, per il posizionamento delle
scale di servizio, per la collocazione della zona notte
e dei servizi. Un’analisi più accurata, tuttavia, rivela
l’emergere, accanto agli elementi di differenziazione
appena individuati, di una serie di analogie: gli
impianti sono simmetrici, le scale padronali si pongono sull’asse di simmetria, gli appartamenti sono
speculari, tutti gli ambienti di soggiorno gravitano sul
fronte principale, le balconate hanno lunghezza pari a
quella dell’intero fronte e rigirano sui fronti laterali.
È soprattutto sulla conformazione delle balconate
e sul ruolo da esse giocato nella definizione dei fronti
edilizi che appare però utile concentrare la nostra
attenzione. Se nella palazzina Furmanik di De Renzi
le logge sono comprese all’interno della figura del
manufatto, in casa Bornigia le balconate costituiscono elementi esterni al perimetro dell’edificio.
Passando dall’osservazione delle piante a quella
delle facciate, le analogie appena rilevate sembrano
dissolversi. Nella Furmanik prevalgono le fasce orizzontali, nella Bornigia non vi è distinzione gerarchica
tra le linee orizzontali delle balconate e i segni verticali dei pilastri. L’una dissimula la simmetria della
pianta, l’altra la evidenzia con un pieno in asse; ai parapetti chiusi e materici dell’una corrispondono quelli
quasi impercepibili dell’altra; la prima arretra il basamento rispetto al filo delle logge, la seconda mantiene stabile il profilo del corpo di fabbrica e fa sporgere rispetto ad esso le balconate; infine, il prospetto
della Furmanik, se si esclude il coronamento, risulta
tutto compreso in un rettangolo, mentre il fronte della
Bornigia è un quadrato intersecato dalla successione
di piani orizzontali.
L’enumerazione delle differenze tra le configurazioni esterne e planimetriche dei due edifici potrebbe continuare ad libitum. Ma è forse più interessante
spostare l’asse del ragionamento, provando ad indagare le ragioni che stanno alla base di forme così
diverse, tentando di capire perché l’una si presenti
compatta e chiusa e l’altra aperta e scarnificata.
È vero che questi due progetti riflettono fondamentalmente sullo stesso tema – quello di una
palazzina con un affaccio privilegiato –, ma profon-
In alto: pianta del piano tipo della palazzina Bornigia a piazza delle Muse a Roma di Ugo Luccichenti (1938-40). In basso: pianta del piano tipo
della palazzina Furmanik sul lungotevere Flaminio
a Roma di Mario De Renzi e Giorgio Calza Bini
(1935-39). Disegni di Mauro Marzo.
damente diversi sono tanto il carattere dei panorami
che gli edifici si predisponevano ad inquadrare,
quanto la natura stessa dei lotti da cui quei panorami
sarebbero stati messi in scena. La specificità delle
viste sul paesaggio urbano sono infatti indissolubilmente correlate alla specificità dei luoghi da cui
quelle viste sarebbero state rese possibili. È proprio
tale duplice specificità ad essere assunta da De Renzi
e Luccichenti come questione a partire dalla quale
avviare il processo di elaborazione formale di questi
due edifici.
Un loggiato sul Tevere
La palazzina Furmanik, situata lungo la riva
sinistra del Tevere, sorge su un lotto rettangolare con
i lati maggiori paralleli al fiume. La forma pressoché
rettangolare del lotto si traduce fin dalla prima versione di progetto, in un volume compatto, caratterizzato da un sistema orizzontale di balconate sovrapposte che si svolgono a nastro sul fronte principale e
rigirano per un breve tratto sui prospetti laterali.
L’affaccio panoramico è garantito non da una
maggiore altezza del sito rispetto all’intorno, come
avviene invece nel caso della palazzina di Luccichenti, ma dalla cesura spaziale determinata nel corpo
urbano dal corso del Tevere. Sulla riva opposta del
fiume, la città in espansione andava in quegli anni
adagiandosi come una figura allungata oltre la quale
spiccavano la mole della basilica di San Pietro e il
profilo di Monte Mario. In funzione della prevalenza
di linee e figure orizzontali – il corso acqueo pressoché rettilineo, in quel tratto, e il profilo della città
oltre il fiume –, De Renzi appronta la sua risposta al
luogo: una serie di logge sovrapposte estese lungo
l’intero fronte consentono di ritagliare vedute orizzontali, cornici che si adattano al prevalente andamento orizzontale del paesaggio, tanto che Efisio Pitzalis ha interpretato questo edificio come una «raffigurazione in codice degli eventi topici del sito»4.
Le logge consentono, dunque, di creare un dispositivo atto ad inquadrare il paesaggio urbano, a proiettare all’esterno gli ambienti di soggiorno, a proteggere gli spazi interni dall’eccessiva insolazione.
«Nella concezione architettonica si è voluto tenere come elemento principale lo studio dell’ambientazione panoramica, sia per l’esterno che per
l’interno, con la creazione di ampi loggiati coperti»,
scrive De Renzi nelle “Note illustrative” allegate
alla domanda di licenzia edilizia 5. Per l’architetto il
carattere di eccezionalità panoramica diventa questione non eludibile per il progetto e l’ambientazione panoramica diviene un tema compositivo da
indagare «sia per l’esterno che per l’interno» dell’e4
E. Pitzalis, op. cit., p. 148.
Domanda di licenza di costruire previa approvazione dello unito progetto, A S. E. il Governatore di Roma, Ufficio Ispettorato Edilizio, 15 ottobre 1935.
5
dificio. Il problema è dunque duplice, posto com’è
sia dalla visione del panorama dall’interno dello
stabile, sia dalla visione dell’edificio nel fronte
edificato del lungotevere.
Ma come far rientrare nel progetto questo sguardo gianico rivolto dalla città verso la facciata e dalle
abitazioni verso il paesaggio urbano? Il progettista,
attingendo al repertorio della nuova architettura
modernista che le riviste andavano pubblicando in
quegli anni, sceglie di utilizzare un elemento linguisticamente aggiornato – la finestra a nastro, reinterpretandolo però totalmente. La fenêtre en longueur è
trasformata da De Renzi da superficie vetrata in
spazio aperto e avvolgente, «si mediterraneizza, diventando un’ombra» 6 domestica e urbana allo stesso
tempo. Il loggiato è sia uno spazio privato, un’estensione dell’abitare verso l’esterno, sia una figura
alla scala della città che, da una parte, costruisce un
contrappunto tra la geometrica orizzontalità dell’architettura e il morbido profilo collinare che si sviluppa alle spalle dell’edificio e, dall’altra, itera il segno
del Tevere.
Il senso di unitarietà della massa, d’altronde, la
accentuata orizzontalità delle logge, il loro improvviso bloccarsi sul rigiro dell’angolo, la forte ombra
determinata a pian terreno dallo sbalzo delle balconate, lo stacco netto, sul fronte laterale, tra le fasce
dei loggiati e la fila di finestre decentrate, tutto sembra volto a sottolineare l’esistenza di una chiara
gerarchia tra i fronti e il protendere dell’intero edificio verso il fiume.
Chiusura verso il retro, apertura verso il Tevere;
orizzontalità sul fronte acqueo, netta prevalenza delle
linee verticali nelle finestre sul retro. Le superfici
aperte si addensano verso il Tevere e si aprono sul
panorama allo stesso modo in cui gli ambienti di
rappresentanza degli appartamenti si dispongono
lungo logge in cui velette e parapetti selezionano a
180 gradi una veduta panoramica che abbraccia il
fronte edificato della opposta riva del Tevere.
Le logge della Furmanik nascono, dunque, dalla
volontà di introiettare all’interno della casa il panorama, ma aspirano a divenire luoghi del dimorare
all’aperto, estensione non solo visiva ma propriamente fisica, dei soggiorni verso l’esterno. Tuttavia
l’esposizione ad ovest, oltre ad offrire una bella
vista, crea la necessità di riparare gli alloggi dai
penetranti raggi solari pomeridiani e, nel periodo
estivo, dal calore eccessivo. La soluzione individuata da De Renzi per ovviare a tale problematica7
consiste nell’inserimento nel prospetto di griglie
6
G. Saponaro, Dall’incontro con Libera all’E42, in A. Carlomagno - G. Saponaro, Mario De Renzi. 1897-1967, Roma 1999,
pp. 41-42.
7
Tale problematica dell’eccessiva insolazione è invece assente
nell’edificio di Luccichenti che ha la facciata principale esposta
a nord-est.
In alto: prospetto principale della palazzina Bornigia a
piazza delle Muse. In basso: prospetto principale della
palazzina Furmanik sul lungotevere Flaminio. Disegni
di Mauro Marzo.
Inquadramento della palazzina Furmanik (campita in
rosso) alla scala urbana.
frangisole scorrevoli lungo i parapetti e disposte a
parziale chiusura delle aperture dei loggiati. Tale
dispositivo consente di attenuare la violenta luce
pomeridiana, di ottenere a piacimento o la totale
apertura verso l’esterno o la protezione dell’interno,
di illuminare o di oscurare gli ambienti interni facendo scorrere i pannelli lungo un binario allocato
sul parapetto. Il filtraggio della luce è graduabile
grazie alla possibilità di variare sia la posizione
degli schermi, sia l’orientamento delle alette che ne
compongono la struttura8. Non solo l’inquadramento
del paesaggio diventa mobile, ma alla «facciata fissa
e determinata una volta per tutte si sostituisce, con
un concetto ardito, una facciata trasformabile e flessibile a seconda delle esigenze e delle variabili condizioni di luce e di calore» 9, ha scritto Saverio Muratori.
La secca successione di piani verticali alter-nati a
fasce oscure è animata e regolata dalle scelte dei
singoli abitanti. Ad un elemento imprevedibile come
il tempo, alla mutevolezza della densità e della
proiezione dell’ombra determinata dall’ora e dalla
stagione, si associa il gesto di chi dimorando in uno
di quegli appartamenti può decidere di lasciare
entrare il sole in casa o di bloccarlo. Il suo gesto
appartiene alla vita domestica ma modifica l’immagine della palazzina, ne disegna la facciata, diviene
elemento capace di registrare anche le piccole
variazioni della vita interna dell’edificio. In fondo
«è vero che ogni architettura è anche un’architettura
dell’interno, o meglio, dall’interno; le persiane che
filtrano la luce del sole o la linea dell’acqua costituiscono dall’interno un’altra facciata, insieme al colore e alla forma dei corpi che dietro la persiana vivono, dormono, si amano» 10, avrebbe scritto Aldo
Rossi molti anni dopo, nella sua Autobiografia
scientifica.
8
Tali griglie sono state rimosse durante un restauro dell’edificio
rispetto al quale appare utile riportare l’autorevole giudizio di
Pio Baldi, direttore generale per l’Architettura e l’Arte contemporanee presso il ministero dei BB.CC. A proposito del restauro della palazzina Furmanik, trasformata in sede degli uffici
della “International Diner Club”, egli afferma: «[…] il fine
ultimo è quello di conservare e di valorizzare l’architettura di
qualità che è stata costruita negli ultimi cinquant’anni all’interno di un’espansione edilizia spesso disordinata, disorganica e
incomprensibile che ha caratterizzato in modo preoccupante le
periferie di quasi tutte le maggiori città italiane […].Basti
pensare al caso virtuoso ed esemplare del restauro del grattacielo Pirelli di Gio Ponti a Milano o all’esempio deteriore dell’intervento sulla palazzina Furmanik di De Renzi a Roma». P.
Baldi, in R. Nicolini (a cura di), Mario Ridolfi architetto. 19042004, Atti del Convegno, Milano 2005, p. 19.
9
S. Muratori, Una palazzina in Roma sul Lungotevere, in
«Strutture. Rivista di scienza e arte del costruire», n. 2, luglio
1947, p. 26.
10
A. Rossi, Autobiografia scientifica, Milano 1999, p. 36.
Un edificio-belvedere
Il lotto di proprietà Bornigia sul quale sorse
l’edificio di Ugo Luccichenti è situato al centro del
lato meridionale di piazza delle Muse che, posta ai
margini nord-orientali del quartiere Parioli, all’epoca
della costruzione era occupata da un suolo erboso e
da alberi e si concludeva con uno scosceso declivio
verde da cui si può godere di un’eccezionale vista
sulla valle del Tevere.
Il panorama, abbracciando parte della Sabina e
dell’Etruria meridionale, si estende dai monti Cimini
fino ai monti Sabini che, come quinte teatrali, chiudono ad ovest e ad est la visuale11. Al centro, il Tevere, incorniciato dal colle di Villa Glori e dal Monte
Antenne, disegna una profondissima ansa, pri-ma di
costeggiare il quartiere Flaminio e addentrarsi nel
cuore della città.
«Questa bella palazzina di Ugo Luccichenti
attinge sanamente le doti sostanziali della sua
confor-mazione plastica alle relazioni con
l’ambiente circostante»12. Così veniva presentato
l’edificio, nel 1942, ai lettori della rivista “Architettura”, in un articolo che faceva rilevare come la sua
forma fosse stata definita proprio a partire dal
rapporto con il luogo.
Ma in quale modo si riporta nel progetto lo
sconfinato panorama che abbiamo descritto? Se le
logge sovrapposte che De Renzi realizza sul lungotevere appaiono scavate all’interno di un solido
unitario di cui si tende a ribadire con molti espedienti la compattezza, nell’edificio di Luccichenti la
scatola muraria è svuotata fino al limite dei pilastri
portanti in calcestruzzo armato e le grandi porte
finestre disegnate dalla trama sottile dei serramenti,
si estendono, con la sola esclusione del solo basamento, all’intera facciata e a parte dei fronti laterali.
La vastità del panorama, l’assenza di altri edifici
nello spazio compreso tra la palazzina e il pendio
alberato, l’esposizione a nord-est spingono Luccichenti ad annullare l’involucro murario, a ridurlo al
disegno della sua struttura, a costruire una facciata
aperta, trasparente che, se perde in compattezza, non
perde tuttavia in solidità.
Come si può osservare in pianta, le grandi vetrate
della facciata corrispondono allo spazio dei soggiorni. Se nella palazzina Furmanik di De Renzi le logge
ritagliano strisce orizzontali di paesaggio e le por11
In questa sede, colgo l’occasione per ringraziare i conti Cecilia e Gianfranco Callori di Vignale per avermi aiutato ad individuare queste figure della geografia laziale e per avermi generosamente ospitato durante le mie ricerche su questo edificio.
Ringrazio altresì, per la sua testimonianza, l’avv. Alda Morales
che, avendo amministrato lo stabile dal 1946 per circa trent’anni, mi ha consentito di raccogliere una serie di notizie sul
committente e sulla storia dell’edificio.
12
Palazzina a Piazza delle Muse. Ing. Ugo Luccichenti, in «Architettura» n. 7, luglio 1942, p. 224.
tano al loro interno, in questo edificio di Luccichenti
si compie un’operazione totalmente opposta; sono i
soggiorni stessi a proiettarsi nel paesaggio annullando il limite percettivo tra interno ed esterno,
come testimoniano le fotografie pubblicate sulla
rivista “Architettura”.
Introdurre all’interno del progetto di una casa
l’idea di “belvedere” significa annullare quanto più
è possibile la continuità delle pareti, intagliare il
loro involucro murario, consentire allo sguardo di ricomporre l’unità del paesaggio. Dilatare la dimensione delle aperture fino a farle coincidere con tra
solaio e solaio, tuttavia non basta. Per costruire una
casa-belvedere occorre mettere in campo, a tutte le
scale, dispositivi capaci di amplificare la sensazione
di un’immersione totale nel paesaggio. Così Luccichenti apre grandi vetrate non solo sul fronte principale, ma anche sulle testate dei prospetti laterali in
modo da permettere allo sguardo di spingersi verso
est e verso ovest ed estende lo spazio dell’abitazione
oltre le vetrate, fino al limite costruttivo consentito
dallo sbalzo.
Il profilo esterno delle balconate ospita ampie
fioriere continue, predispone spazi atti ad accogliere
un pezzo di natura entro il disegno ordinato della
facciata; al di sopra delle fioriere si sviluppano i
parapetti realizzati con sottili elementi in ferro che,
verniciati di bianco, diventano quasi invisibili alla
vista, amplificando dall’interno la sensazione di
sconfinamento nello spazio. D’altra parte l’esilità
della ringhiera, vista dall’esterno, determina un vivo
contrasto con la corposa consistenza delle balconate.
Il prospetto principale sembra in effetti composto
a partire da una serie di opposizioni qualitative
articolate in modo da non determinare mai il prevalere di un opposto sull’altro o l’emergere di gerarchie definite: alla leggerezza e trasparenza dei parapetti si oppone la solidità degli sbalzi; allo svuotamento dei piani balconati si oppone la compattezza
del basamento; alla matericità dell’attacco al suolo,
il traforo leggero della ringhiera del piano terrazzato
che dissolve nell’atmosfera il limite superiore dell’edificio; alle fasce orizzontali delle balconate si
oppongono infine gli assi verticali individuati dai
pilastri. Se il segno verticale dei pilastri radica il
corpo di fabbrica al suo basamento, quello orizzontale delle balconate espande i limiti dell’edificio,
proietta la vita domestica nel vuoto della piazza,
consente a ciascun appartamento di trasformarsi in
una casa-belvedere.
«Un lieto e ornato aprirsi fuori»
Pur molto lontane tra loro, per il modo in cui
ciascuna costruisce la propria forma a partire da temi progettuali simili, le case Furmanik e Bornigia
compiono riflessioni intorno al tema dell’abitare il
“limite dell’edificio”, il confine tra interno ed ester-
no, tra spazio domestico e paesaggio. La soglia tra
questi due mondi assume connotazioni e spessori
diversi nei due progettisti: spalancata sul paesaggio
e aggettante nel vuoto in Luccichenti, ombrosa e
avvolgente in De Renzi. Progettate e realizzate tra il
1935 e il 1940, insieme delineano un dittico intorno
a quel «lieto e ornato aprirsi fuori» proprio della
tradizione italiana della casa a proposito del quale
Gio Ponti aveva scritto solo qualche anno prima, nel
1928, nel celeberrimo editoriale di “Domus”: «Dall’interno la casa all’italiana riesce all’aperto con i
suoi portici e le sue terrazze, con le pergole e le
verande, con le logge ed i balconi, le altane e i belvedere, invenzioni confortevoli per l’abitazione
serena, e tanto italiane che in ogni lingua sono chiamate con i nomi di qui».
Se il rivestimento in laterizio dei sostegni
verticali tende in facciata a rafforzare la figura del
sistema strutturale, nei saloni l’uso dell’intonaco
bianco determina una sorta di assorbimento dei
pilastri nella luminosità del paesaggio. Le imbotti
delle porte-finestre che incorniciano brani di un
paesaggio aperto e verde, i serramenti realizzati in
elementi metallici verniciati di bianco 13, i copritermosifoni, anch’essi bianchi, con un’altezza tale
da non costi-tuire un impedimento alla vista del
paesaggio anche quando si è seduti; tutto
contribuisce a far sì che chi si trova negli ambienti
di soggiorno si senta proiet-tato nel panorama
vastissimo. La sottigliezza dei serramenti delle
finestre, il ritmo ampio delle cam-pate perseguono
un unico scopo: l’annullamento di ogni barriera
percettiva, la riduzione al minimo di ogni
impedimento fisico alla vista.
Il paesaggio, a differenza che nella palazzina
Furmanik, è percepito dall’alto e ciò induce Luccichenti a intraprendere una strada differente da
quella percorsa da De Renzi nel disegno della facciata. La palazzina sul lungotevere Flaminio, posta
alla quota della città, guarda verso ciò che le è
complanare – la compagine urbana dall’altra parte
del Tevere – o verso ciò che si erge ad una quota più
alta – la collina di Monte Mario –, mentre la casa
Bornigia, costruita sulla sommità dei Monti Parioli,
vede stendersi il paesaggio ad un piano più basso
rispetto a quello su cui essa stessa sorge; non seleziona viste, non seleziona una porzione di paesaggio, ma vi si immerge con un’unica vista a 180 gradi. Il fine che persegue è di mantenere quanto più è
possibile unitario l’intero arco della visione. Se la
stessa piazza delle Muse è una sorta di “belvedere”
mediante il quale la città di allora si affacciava sullo
spazio sconfinato della valle del Tevere, il progetto
non può evitare di confrontarsi con tale carattere del
13
Sopra ai serramenti bianchi è applicata una sottile cornice in
legno che richiama l’imbotte in radica delle porte-finestre.
Frangisole scorrevoli lungo i parapetti e disposte a
parziale chiusura delle aperture dei loggiati della
palazzina Furmanik.
luogo, né può esimersi dall’assumerlo come ragione
alla base delle scelte che sovraintendono alla costruzione della propria forma.
La facciata della palazzina Bornigia in una fotografia
scattata dall’estremità settentrionale di piazza delle
Muse (primi anni ’40).
Vista sulla valle del Tevere in una fotografia scattata
dagli ambienti di soggiorno di uno degli appartamenti
della palazzina Bornigia.
Inquadramento della palazzina Bornigia (campita in rosso) alla scala urbana.
Vista d’angolo della palazzina Bornigia.
Hugo Segawa
Architecture of Brazil
Springer-Verlag.NY 2012
Il testo esamina meticolosamente le polemiche, i
successi e gli insuccessi, gli spazi e le costruzioni,
gli edifici e le città in un paese dinamico, il Brasile,
fornendo una visione ampia sulla architettura brasiliana del ventesimo secolo e proponendo una rilettura dei suoi diversi approcci al moderno fino alla
seconda guerra mondiale. In esso sono analizzati i
riferimenti ideologici di importanti autori brasiliani
come Niemeyer, Costa, Artigas, Warchavchik, nella iIlustrazione del lavoro di architetti espatriati in
Brasile. Sono altresì esaminati i processi alla base
dell'architettura brasiliana moderna, le sue varie
influenze e le sue diverse, interpretazioni della modernità, ovvero le varie correnti suddivise negli argomenti-capitolo del libro. Di conseguenza, al fine
di un resoconto più ampio possibile, non viene manifestata alcuna predilezione per architetti o per
opere, con l’eccezione di alcune autori riconosciuti
ra. Nel caso di Porcinai appare interessante osservare come il lavoro di un professionista del paesaggio si avvalga con uguale intensità sia di un vivace interesse per l’architettura e la cultura artistica
del proprio tempo, sia di un sapere tecnico e di una
eccezionale padronanza nel campo botanico, aspetti che convergono in una visione unitaria del mestiere. La vicenda sorprendente di Porcinai, “inventore” di una mentalità professionale e culturale inedita nel panorama italiano del suo tempo, si arricchisce dei necessari approfondimenti all’interno di
un orizzonte internazionale dal quale prende forza
e che gli permette di gettare uno sguardo innovativo sul progetto del paesaggio italiano. Il continuo
scambio con colleghi stranieri e il prestigio guadagnato in campo internazionale, permetteranno al
paesaggista fiorentino di proiettare il proprio lavoro verso un’estesa rete di committenze (si conservano circa 1400 progetti), che va ben oltre la sfera
convenzionale del giardino privato. Questi temi
confluiscono nel volume sia attraverso la presentazione di contributi inediti, con particolare riferimento al suo lavoro in area veneta, sia attraverso la
convocazione di paesaggisti che hanno lavorato
negli stessi anni. Da questo confronto emerge una
riflessione sulle prospettive del progetto di paesag
gio in Italia, sulla sua collocazione teorica, formativa, sulla necessità di un profilo riconoscibile.
zione, in un momento storico in cui superare la distanza tra formazione e professione costituisce una
stringente necessità. Si è quindi ‘costruito’ un percorso didattico in cui gli studenti della Facoltà di
Architettura di Catania e le maestranze della Scuola Edile di Siracusa hanno lavorato fianco a fianco
e realizzato un sistema abitativo low-tech. Archi,
volte e cupole in laterizio sono gli elementi del lessico costruttivo con cui gli allievi hanno sperimentato le potenzialità d’uso innovativo di materiali e
tecnologie tipiche della tradizione mediterranea,
senza rinchiudersi entro schemi figurativi consolidati, ma aprendosi a nuove ed innovative sperimentazioni, sia sul piano delle procedure di elaborazione parametrica del progetto sia sul piano della gestione del cantiere e delle risorse disponibili. La
tecnica costruttiva utilizzata si fonda sull’uso del
‘compasso’, uno strumento ed un metodo che Fabrizio Carola, “l’uomo della pietra” come lo chiamano i Dogon del Mali, impiega da oltre trent’anni
in Africa. Un principio generativo ereditato e fatto
evolvere sul piano dei risultati figurativi, della ottimizzazione della performance ambientale del sistema e di condizioni d’uso più aderenti alla contemporaneità
Katia Gasparini
Schermi urbani
Wolters Kluwer Italia, Milanofiori 2012
AAVV.
Cupole per Abitare a cura di Luigi Alini
Libellula edizioni, Tricase 2012
AAVV
Pietro Porcinai, a cura di L.Latini - M.Cunico
Marsilio, Padova 2013
La figura di Pietro Porcinai (1910-1986), paesaggista tra i più significativi del Novecento europeo,
esprime un capitolo emblematico, in Italia, del rapporto non sempre facile tra paesaggio e architettu-
Questo volume restituisce in forma di ‘appunti di
cantiere’ l’incubazione di un’idea: sperimentare
nuove forme di didattica del progetto in ‘condizioni
reali’, portare la didattica dall’aula al cantiere, offrire agli studenti la possibilità di confrontarsi con
condizioni operative: un luogo, una funzione, un
budget, una tecnica costruttiva, un materiale, un
committente. il Cantiere formativo, già percorso
con risultati apprezzabili sul piano disciplinare da
figure esemplari della cultura tecnologia del progetto, aspira a collocarsi nella scia della loro tradi-
La facciata mediatica definita anche come light architecture identifica una nuova tipologia di rivestimento architettonico di tipo ibrido, che vede
coinvolte le discipline comunicative e costruttive,
dal punto di vista sia teorico che tecnico. Il volume
analizza limiti, potenzialità e tecnologie dei sistemi
per facciate mediatiche attraverso una macroclassificazione dei sistemi stessi, l’analisi di case history e di singoli brevetti ma inoltre anche attraverso numerosi esempi di costruito con dati tecnici e
disegni.