Documento finale Sinodo dei Giovani

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Documento finale Sinodo dei Giovani
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Caravaggio: cena di Emmaus
National Gallery, London UK
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Questo testo comincia con una celebre tela del Caravaggio, scelta come
immagine di copertina. Ci permette di sostare un po’ davanti al momento
finale del racconto evangelico di Luca che è la sintesi conclusiva del Sinodo dei
Giovani e un nuovo punto di partenza. Anzi, sembra quasi che il Caravaggio
ci inviti a fare un passo ulteriore: a entrare nella locanda di Emmaus, a
diventare anche noi protagonisti nella stessa scena e a lasciare che l’incontro
con la luce del Cristo risorto ci spalanchi gli occhi e il cuore.
Il contesto
La Cena di Emmaus è un’opera che risale al 1600-1602. Sono questi gli
anni in cui Caravaggio opera nel suo modo di dipingere i soggetti una
trasformazione, una conversione: nel suo realismo, Caravaggio coglieva
nella realtà il teatro da cui trarre idee per le proprie opere, e di fronte
alla proposta di temi religiosi nel soggiorno romano si trovò nel dilemma
continuo di svelare un’alta spiritualità senza velare la realtà feriale e
quotidiana. In questo sta il paradosso e la modernità del Caravaggio.
Il quadro
Nella Cena di Emmaus il tema è l’istituzione dell’Eucaristia, anche se un
primo sguardo all’opera sembra suggerire una semplice natura morta,
disordinatamente disposta sopra un tavolo, dove fanno da cornice degli
stravaganti personaggi; pure la bianca tovaglia sembra disposta a far
risaltare le vivande che troneggiano sul tavolo.
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Di fatto, uno sguardo più profondo si accorge che dietro i frutti della terra si scorge il pane,
centro della pittura e punto di incrocio degli sguardi sorpresi dei personaggi. Lo spazio
riservato all’ombra, che circonda la zona più esterna dei personaggi sembra spingere i
protagonisti verso quell’evento che accade sul tavolo: è proprio lì che si concentrano la
luce e la vita. L’umanità intera è chiamata a convergere verso quell’altare!
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Lo spettatore – e quindi ognuno di noi – è invitato a entrare nella scena, a partecipare al
banchetto attraverso una serie di elementi sporgenti, che sembrano uscire dal quadro stesso:
• la mano benedicente di Gesù, infatti, è sul pane e anche verso l’osservatore, nell’atto di
porgli un po’ della luce che proviene dal di fuori del quadro, da Dio, e nell’atteggiamento
di un invito a partecipare alla cena: vieni!
• il lato davanti del tavolo è libero, sopra è adagiata una natura morta, che sta in bilico
tra il quadro e noi;
• il gomito strappato del discepolo di sinistra sembra fuoriuscire dalla tela.
Questo movimento del quadro verso lo spettatore, invita a collocarci sulla stessa sintonia,
sulla stessa meraviglia dei discepoli, sul mistero che si compie nel loro cuore.
Il locandiere ha uno sguardo incuriosito, ma non ha memoria storica per riconoscere
Cristo in quel gesto: non può stupirsi, ma solo porsi domande. Rappresenta tutti coloro
che non hanno ancora incontrato il Signore.
Ben diversa è la reazione dei due discepoli che hanno camminato con Gesù e che sono
pellegrini, come dimostra la conchiglia bianca che si vede nel personaggio di destra:
• alla mano benedicente di Gesù corrispondono quasi specularmente le mani aperte
del discepolo di destra, il quale rappresenta l’atteggiamento di accoglienza totale
verso Gesù, il suo mistero, la sua Parola.
• Il flash sul personaggio quasi di spalle di sinistra è un alzarsi dalla sedia: è l’inizio
della conversione, è il ricominciare a riannunciare il mistero, è l’abbandono delle
sicurezze, è partire ...
Gesù risorto è al centro e senza barba: un giovane o una giovane? Forse la sua giovinezza
senza tempo esprime l’androginia (in Greco: “aner” vuol dire uomo, “gyne” vuol dire
donna), simbolo della divina perfezione… un corpo risorto i cui tratti mascolini e femminili
sono oramai spariti.
D’altro canto però, il braccio di Gesù che si appoggia lascia intravedere come dopo la
risurrezione Cristo non smette di essere uomo, e l’uomo può accedere alla sua pienezza
seduto attorno ad un banchetto dove l’amore è concelebrato tra Dio e noi.
Gesù ha gli occhi chiusi, o comunque non diretti sull’osservatore: Gesù non giudica,
invita chiunque a sedere a quella mensa.
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Dal Vangelo di Luca
24,13-35
8
Ed ecco, in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio di nome
Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto
quello che era accaduto. Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si
avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo.
Ed egli disse loro: “Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il
cammino?”. Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Clèopa, gli rispose:
“Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?”.
Domandò loro: “Che cosa?”. Gli risposero: “Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu
profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi dei
sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo
hanno crocifisso. Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con
tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune
donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba e, non
avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di
angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno
trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto”.
Disse loro: “Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti!
Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?”.
E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che
si riferiva a lui. Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se
dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: “Resta con noi, perché si fa sera e il
giorno è ormai al tramonto”. Egli entrò per rimanere con loro.
Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede
loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista. Ed
essi dissero l’un l’altro: “Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava
con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?”. Partirono senza indugio e fecero
ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i
quali dicevano: “Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!”. Ed essi narravano
ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane.
Quante volte abbiamo letto e riletto questo brano! Quanti artisti si sono lasciati ispirare
dalle scene che vengono descritte. E quanti documenti, lettere pastorali, cammini formativi
e sussidi vari hanno sullo sfondo questo episodio.
Anche il nostro Progetto diocesano di Pastorale Giovanile fa più volte riferimento al racconto
e lo assume come icona biblica fondamentale per comprendere i passi che avvicinano la
Chiesa ai giovani1.
Recentemente il nostro vescovo Cesare – attraverso la sua lettera pastorale – ci ha invitato
a fissare ancora una volta lo sguardo sul percorso dei due discepoli.2
1
Cfr. Ci vuole più vivere dentro. Per un progetto pastorale con i giovani e per i giovani, Diocesi di Vicenza,
Ufficio diocesano per i giovani, 1994.
2
Il cuore ci ardeva nel petto. Lettera pastorale ai giovani di Mons. Cesare Nosiglia, 2008.
9
Giunti alla conclusione del Sinodo dei Giovani, non troviamo un testo più luminoso da
cui ripartire, che ci regali ancora freschezza, input, slancio e intuizioni per continuare a
immaginare insieme il volto di una chiesa che cammina accanto ad ogni giovane.
10
Il percorso del sinodo è stato altalenante. Alcuni momenti hanno avuto maggiore
visibilità, altre volte si è portato avanti un lavoro più nascosto.
Potremmo riassumere così i punti nodali del cammino che abbiamo cercato di fare
insieme.
• La fase iniziale di verifica ha avuto un certo riscontro. Gruppi e parrocchie ci hanno
restituito analisi e considerazioni preziose, frutto di una riflessione personale e
comunitaria.
• Il passo successivo, chiamato fase dell’ascolto e della proposta, che aveva l’obiettivo
dell’apertura verso i giovani che non frequentano la Chiesa, non ha inciso più di
tanto; ci sono state coraggiose iniziative in qualche vicariato e sono stati promossi
alcuni progetti dall’Ufficio diocesano3.
• Un dono grande del Sinodo è stata la commissione diocesana che si è formata:
l’equipe sinodale si è rivelata un luogo prezioso di collaborazione, di discernimento
comunitario alla luce della Parola di Dio, di amicizia nella diversità delle vocazioni e
delle appartenenze.
3
Ad esempio la sinergia con le scuole superiori – e in particolare con gli insegnanti di religione – che
ha fatto nascere il progetto “Legalità” e la trasmissione “LINK”; la collaborazione con Radio Oreb e la nascita
di RADIOVIGIOVA; l’esperienza dei cineforum “Buio in sala” e i musical; l’apertura al progetto “Sentinelle del
mattino” e la nascita della “fiaccola”.
•
Progressivamente in questi anni è cresciuta l’esigenza di lavorare sugli aspetti
più ordinari della pastorale giovanile: una paziente e continua tessitura di rapporti
con le associazioni, con i movimenti, con gli altri Uffici diocesani, con il Seminario,
con tutti i preti giovani. Si avverte in modo particolare il bisogno di tenere i contatti
con le equipe vicariali e con i loro coordinatori, che sono la spina dorsale della
PG.
Il desiderio di promuovere uno stile sinodale ha dato origine anche alla rete
diocesana dei giovani per la pace, ossia tutti quei giovani vicentini che hanno
trovato nel Sermig di Torino un riferimento importante. Non dimentichiamo inoltre la
nascita - durante gli anni del Sinodo - di due luoghi significativi: il Centro Ora Decima
a Vicenza, cuore di ogni sinergia tra pastorale giovanile e pastorale vocazionale;
Casa Mamre a Bassano, punto di riferimento per un lavoro congiunto tra pastorale
giovanile e pastorale della famiglia (si tratta della complessa e delicata educazione
degli affetti, delle emozioni, della sessualità, dell’amore di coppia).
Collegato a tutto questo, diventa sempre più necessario far sì che i grandi appuntamenti per
i giovani non siano eventi isolati, ma inseriti in un cammino ecclesiale condiviso.
Nelle prossime pagine è possibile ritrovare una sintesi di quanto è stato condiviso e
maturato in questi anni, una sintesi che è al tempo stesso un rilancio e un cantiere
aperto, perché il lavoro continua.
Al fondamento di queste riflessioni – che con molta semplicità proponiamo ai pastori, ai
consigli pastorali, agli educatori e a quanti scommettono nella grande sfida di consegnare
il vangelo alle nuove generazioni – ci sono due intuizioni fondamentali.
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1. Uno sguardo di speranza sul mondo giovanile.
2. Un’osservazione della realtà giovanile attuale.
L’immagine della sentinella ci invita anche ad un’altra considerazione, se facciamo nostra
la domanda di Isaia: “Sentinella, quanto resta della notte?” (Is 21,12).
L’indagine sulla spiritualità dei giovani vicentini che è stata realizzata durante il sinodo
dall’Osservatorio Socio-Religioso Triveneto e che è stata pubblicata nel testo “C’è campo?5”,
conferma e chiarisce questo aspetto, parlando del processo di individualizzazione6 che
ha segnato la storia dell’Occidente, a motivo del quale le società attuali si presentano
come “società di individui, in cui il destino personale è affidato ad essi”. Nel capitolo
conclusivo, dove si tirano le somme, il prof. Castegnaro afferma:
In sintonia con le Chiese del Triveneto, ci piace pensare ai giovani d’oggi con l’immagine
che ci ha regalato Giovanni Paolo II: le sentinelle del mattino4. Questo sguardo di fiducia
e di affetto è per noi una grande eredità da custodire: i giovani non sono un problema,
ma una ricchezza; sono portatori di energia, di risorse e di futuro.
12
Anche la PG si trova in questa situazione intermedia, una sorta di “frattempo” tra la
notte e i primi bagliori dell’alba; siamo come sospesi tra il sospetto di brancolare ancora
nel buio e la speranza che qualcosa di luminoso si stia affacciando all’orizzonte.
Il mondo giovanile rimane una realtà estremamente complessa che non possiamo
semplificare in modo indebito. Qualsiasi tentativo di catalogare i giovani, di inquadrarli
dentro schemi preconfezionati non funziona.
“Rileggendo i profili individuali tratti dalle interviste l’idea che ne è nata quasi
subito, in modo spontaneo, è molto semplice: 72 interviste corrispondono a
72 profili di spiritualità, che a loro volta scaturiscono da 72 individualità che si
rivendicano come tali; e ciò vale anche quando la scelta compiuta implica l’adesione
a esperienze religiose che potrebbero sembrare fortemente omologanti. (…) Tutti o
quasi i giovani percepiscono che quello che sono o saranno è il prodotto delle loro
scelte. (…) In altre parole i giovani si concepiscono come il prodotto di un processo
di auto-costruzione, nel quale è il soggetto stesso a ricercare e a determinare chi
infine dovrà/vorrà essere7.”
Alla conclusione del Sinodo dei Giovani non ci sentiamo ancora in grado di riconoscere
con certezza la luce di un giorno nuovo. Però vogliamo attraversare “ciò che resta della
notte” con lo sguardo attento di chi ha il cuore in attesa.
E come ci ha insegnato Giovanni Paolo II, dovremmo riconoscere specialmente nei giovani
l’intuito della sentinella e la capacità di scrutare l’orizzonte.
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Cfr. Sentinella, quanto resta della notte? Le chiese del Triveneto rileggono la realtà giovanile. Spunti per
un nuovo orientamento pastorale.
5
Alessandro Castegnaro (a cura di), C’è campo? Giovani, spiritualità, religione, Osservatorio Socio-Religioso
Triveneto, Marcianum Press, Venezia 2010.
6
Cfr. Id., pp. 564-569.
7
Id., pp. 564-565.
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14
Il Sinodo ci ha aiutato a mettere a fuoco l’elemento che fa la differenza nel dialogo tra
i giovani e la Chiesa: la relazione personale, il tempo che si spende per ascoltare un
ragazzo o un giovane. Oggi, la possibilità che i giovani incontrino il Signore e compiano un
cammino di fede è legata al dialogo personale con un adulto significativo che doni tempo
e ascolto, “adulto” non esclusivamente per età, ma nel senso di una maturità di vita e di
fede che gli permetta di essere – pur con tutti i suoi limiti – icona del volto di Gesù.
Analogamente sarebbe riduttivo pensare che all’interno dei gruppi, delle associazioni e
dei movimenti tutto funzioni bene, e ciò che manca alla pastorale giovanile sia soltanto
la spinta missionaria verso i cosiddetti “lontani”. In realtà, dovremmo chiederci se
i giovani inseriti nella comunità cristiana hanno vissuto l’esperienza di Emmaus, se
hanno incontrato il Signore risorto e se sono stati ‘scottati’ dalla Parola di Dio.
Non è così scontato che i gruppi ecclesiali siano “laboratori della fede”, luoghi che
“iniziano” alla vita cristiana. Nelle nostre comunità c’è ancora un buon numero di
animatori che non curano la propria formazione spirituale e non sono nelle condizioni
di educare alla fede.
Per tutti questi motivi sentiamo il bisogno di ripercorrere la strada di Emmaus, di
ripensare il tragitto che ha fatto passare due discepoli dalla delusione all’entusiasmo,
dal volto triste al cuore che arde.
E lungo questo cammino Gesù ci consegna uno stile e un metodo. Impariamo da lui
quali sono gli atteggiamenti giusti e i passi concreti perché il rapporto tra i giovani e la
comunità diventi sempre più “la compagnia della vita e della fede”8.
8
Cfr. Ci vuole più vivere dentro, pagg. 58-63
Il racconto di Luca ci suggerisce quattro passaggi che delineano in modo essenziale il
percorso che la comunità cristiana cerca di fare con i giovani attraverso una molteplicità
di occasioni, proposte, esperienze, ambienti, figure educative e risorse di vario genere.
In ognuno di questi passaggi si è cercato di evidenziare come le varie parti del brano
evangelico:
• interrogano la comunità (con gli occhi della comunità cristiana);
• mettono in discussione un giovane qualsiasi (con gli occhi di un giovane);
• ci aiutano a ripensare i luoghi e le esperienze concrete della PG (CONCRETAMENTE).
In ognuno dei quattro capitoli abbiamo aggiunto altre due rubriche.
• Racconti di vita: alcuni giovani (o adulti che sono in contatto con i giovani)
condividono la loro esperienza personale nei vari passaggi del cammino
verso Emmaus.
• Per approfondire: nei vari passaggi segnaliamo alcune pubblicazioni utili per chi si
occupa di pastorale giovanile, riportandone un brano significativo.
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Primo passaggio
Prossimità e Ascolto
Luca 24,13-24
La Chiesa e i giovani si avvicinano, si incontrano, a volte si scontrano,
cercano di ascoltarsi e di camminare insieme.
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Con gli occhi della comunità cristiana
Il primo grande insegnamento di Gesù è lo stile dell’ascolto. I ragazzi e i giovani hanno
una forte esigenza di raccontarsi9 e di trovare qualcuno che doni loro tempo e ascolto.
Non è sempre facile per loro manifestare questa esigenza, e non sono sempre pronti a
condividere domande, stati d’animo, esperienze vissute.
Ripetere oggi il primo passo che ha fatto Gesù con i due discepoli – cioè riuscire ad
“accostarsi”, stabilire una prossimità – richiede tempi lunghi e la pazienza di chi sa
accogliere anche i silenzi dell’altro, soprattutto quando si tratta di un adolescente che
fa fatica ad orientarsi nella confusione generale della sua vita, e che non trova attorno a
sé persone con cui condividere e rielaborare tutto ciò che gli brucia dentro: spinte ideali,
passioni, fallimenti, esperienze sentimentali, il rapporto non sempre facile con il proprio
corpo, la fatica a ritrovare la propria identità e i livelli altalenanti di autostima.
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L’esigenza di raccontarsi che un adolescente o un giovane ha nel mondo attuale, appare chiaramente
dalla quantità di ore trascorse su facebook o negli altri social network, che danno l’opportunità di riannodare i fili
della propria storia e mettere in rete tutto ciò che uno vive, sente, pensa.
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Eppure quando un giovane incontra nel suo cammino un adulto significativo del quale sente
di potersi fidare (un animatore, un insegnante, un prete, una religiosa, un allenatore, un
genitore), si apre al punto tale da confidargli esperienze personali anche molto delicate,
e gli domanda tempo, ascolto, lo fa diventare l’interlocutore e il compagno di viaggio.
Così si ripete il primo miracolo avvenuto lungo la strada che va da Gerusalemme a Emmaus:
qualcuno ti accoglie, si interessa di te, si prende a cuore ciò che ti sta a cuore.
In questa fase del cammino Gesù non è riconoscibile. Anche oggi il suo volto si nasconde
nel volto di chi si fa prossimo del fratello che incontra lungo il cammino; e tutte le volte
in cui riusciamo ad essere compagni di strada di un giovane che ha bisogno di aiuto, noi
possiamo essere per lui il volto di Cristo.
La pastorale giovanile allora è innanzitutto una questione di stile: lo stile della compagnia.
Non si tratta quindi di dare risposte preconfezionate, ma di aprirsi alla ‘compagnia
della vita e della fede’. In essa le domande giovanili e le risposte ecclesiali
stanno insieme in un reciproco confronto che le feconda, ricostruendo canali di
comunicazione e di solidarietà10.
La chiesa vicentina, in cammino con ogni uomo e donna sulla strada del Regno,
intravvede nelle domande di vita dei giovani i segni del Regno che cresce. Per questo
li accoglie, se ne lascia provocare, li discerne alla luce della Parola, le condivide con
ogni giovane in ricerca e con ogni aggregazione che se ne fa seriamente carico11.
10
Ci vuole più vivere dentro, pp. 59-60
11
Con ogni giovane sulla strada del Regno, pag.10
In questo nostro tempo, lo stile della compagnia domanda al mondo adulto e agli
educatori in genere un duplice atteggiamento.
• Uno sguardo di simpatia e di fiducia.
È questa la grande lezione del Concilio Vaticano II12 e l’eredità del papa più vicino ai
giovani, l’indimenticato Giovanni Paolo II13.
• La cura del dono di sé
Tutti coloro che nella comunità hanno un ruolo educativo, che si prendono cura del
cammino di chi è più giovane, si trovano in una posizione impegnativa e ambivalente:
da un lato rappresentano Gesù che si accosta ai discepoli e fa strada con loro, d’altro
canto però rimangono anche loro discepoli in cammino, con le proprie difficoltà e
fragilità, con l’esigenza di essere ascoltati e guidati da qualcuno che sia immagine del
volto amorevole di Gesù. Il cristiano è sempre chiamato a prendersi cura di sé, a cercare
i propri maestri, la propria guida spirituale, a cui consegnare delusioni e ferite, come
pure gli slanci, le gioie, i progetti, le intuizioni.
12
Una corrente di affetto e di ammirazione si è riversata dal Concilio sul mondo umano moderno. Invece
di deprimenti diagnosi, incoraggianti rimedi; invece di funesti presagi, messaggi di fiducia sono partiti dal Concilio
verso il mondo contemporaneo (messaggio conclusivo di Paolo VI al termine del Concilio Ecumenico Vaticano II).
13
Cari amici, vedo in voi le “sentinelle del mattino” in quest’alba del terzo millennio. Oggi siete qui
convenuti per affermare che nel nuovo secolo voi non vi presterete ad essere strumenti di violenza e distruzione;
difenderete la pace, pagando anche di persona se necessario. Voi non vi rassegnerete ad un mondo in cui altri
esseri umani muoiono di fame, restano analfabeti, mancano di lavoro. Voi difenderete la vita in ogni momento del
suo sviluppo terreno, vi sforzerete con ogni vostra energia di rendere questa terra sempre più abitabile per tutti
(GMG di Roma, Veglia di preghiera a Tor Vergata, 19 agosto 2000)
19
“Non trascurare il dono spirituale che è in te” (1 Timoteo, 4,14). Questo invito che Paolo
rivolge a Timoteo è più che mai valido oggi per tutti coloro che nella comunità cristiana
si sentono chiamati ad essere punti di riferimento autorevoli e significativi per i fratelli
più giovani. Ciascuno potrà restituire qualcosa di prezioso agli altri nella misura in cui
accetta la grande sfida di una formazione costante, quotidiana, permanente.
20
Con gli occhi di un giovane
In fondo i due discepoli che andavano da Gerusalemme ad Emmaus avrebbero potuto
dire a questo “straniero”: fatti gli affari tuoi, non intrometterti nella nostra vita! Lasciaci
stare, siamo già sufficientemente ‘incasinati’ per conto nostro, non ci serve e non ci
interessa la tua presenza.
Questo è il messaggio che molti giovani – magari indirettamente – lanciano alla Chiesa,
dalla quale prendono le distanze subito dopo la cresima. L’immagine dei due discepoli
che si allontanano da Gerusalemme richiama il percorso di tutti quei ragazzi e giovani
che si allontanano dal “tempio”, dalla comunità cristiana.
La grande sfida per ognuno di loro potrebbe essere la stessa che i due discepoli hanno
accettato con coraggio: evitare di camminare da soli, accordare fiducia a un eventuale
“straniero” che abbia il desiderio di fare un pezzo di strada insieme.
Ogni giovane in questo nostro tempo corre il rischio di chiudersi in un orizzonte di
relazioni apparenti o virtuali, in assenza di contesti che gli permettano di costruire
legami profondi.
I due discepoli in cammino verso Emmaus hanno avuto il merito di dare piena accoglienza
e ospitalità a questo viandante apparentemente sconosciuto.
CONCRETAMENTE
Dove la comunità si mette in ascolto dei giovani?
Ci chiediamo: quali sono oggi i contesti e le opportunità che rendono possibile la
prossimità e il dialogo tra un giovane e la comunità cristiana?
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• La parrocchia.
Attraverso le proprie strutture e proposte, è un luogo di transito per ragazzi e giovani.
Pensiamo a un giovane qualsiasi che frequenta i gruppi parrocchiali, oppure passa di
tanto in tanto negli spazi dell’oratorio, nel bar o nel campo sportivo, o partecipa alla
messa della domenica.
Troppo spesso ci si lamenta della scarsa quantità di giovani che fanno parte del giro della
parrocchia; e con toni nostalgici si rimpiangono i bei vecchi tempi, quando le chiese e gli
oratori straripavano di giovani. Varrebbe la pena invece vivere in pienezza le occasioni
che abbiamo e lasciarsi davvero illuminare dalla modalità con cui Gesù si avvicina ai due
discepoli. Dovremmo chiederci allora: quei giovani che in qualche modo frequentano
gli spazi parrocchiali, che figure incontrano, con quali persone entrano in contatto, con
quale stile vengono accolti? Il parroco, gli animatori, i capi scout, i catechisti, i volontari
che fanno servizio in oratorio, le suore, sono capaci di ascoltare, di interessarsi dei
giovani, di entrare in dialogo con loro, di dedicare loro del tempo?
Tutte queste preziose figure educative necessitano di ricevere una formazione all’ascolto
e all’accompagnamento personale.
• Alcuni passaggi.
La comunità cristiana può stabilire con i giovani una vicinanza particolare quando si
verificano nel percorso di crescita della persona alcuni snodi importanti, dei veri e
propri passaggi.
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1. La preparazione e la celebrazione della cresima è un’occasione preziosa che non
sempre viene colta adeguatamente: il passaggio dalla preadolescenza all’adolescenza,
dalle medie alle superiori, da una frequenza alla parrocchia quasi dovuta (in
vista del sacramento) alla possibilità di scegliere se far parte di un gruppo, di
un’associazione, o continuare in ogni caso a frequentare gli ambienti parrocchiali.
È un momento delicatissimo che spesso segna l’allontanamento di molti ragazzi
dalla comunità. Però ci si dovrebbe chiedere: quanto è conosciuto e come viene
attuato l’itinerario crismale? Quali persone accompagnano i ragazzi durante questo
passaggio (magari anche attraverso un accompagnamento personale)? Cosa fa la
comunità per dare ai ragazzi l’opportunità di un post-cresima per loro attraente,
significativo14? Importantissimo è il collegamento tra il catechismo delle medie e le
associazioni (Azione Cattolica, Scoutismo…) che possono favorire questo passaggio.
2. L’esperienza dell’amore di coppia, il tempo del fidanzamento e in particolare la
preparazione al sacramento del matrimonio. I corsi per fidanzati sono una grande
opportunità di incontro con i giovani e i giovani adulti. Più in generale, tutte le questioni
inerenti la vita affettiva, la sessualità e il rapporto di coppia, sono oggi un terreno
14
Durante un incontro tra la commissione di pastorale giovanile e la commissione di pastorale dei ragazzi,
qualcuno ha fatto notare che il sacramento della cresima è un passaggio così decisivo che la parrocchia dovrebbe
investire proprio lì le sue energie migliori: gli animatori più coinvolgenti, le persone più formate, le esperienze più
significative; diverse comunità stanno già lavorando in questa direzione.
importantissimo in cui la Chiesa, guidata dalla Parola di Dio e dal magistero, può offrire
ai giovani e alle famiglie una parola esigente ma anche illuminante, evitando approcci di
tipo moralistico o dottrinale, privilegiando l’ascolto, il dialogo e l’accompagnamento.
3. L’esperienza del lutto. La morte di un amico o di una persona cara riattiva tutta una
serie di domande su Dio, sul senso della vita, sull’aldilà. Ma la questione decisiva
rimane sempre la stessa: in questi momenti la comunità cristiana riesce ad essere
presente, a mettersi in ascolto, ad esprimere profonda vicinanza, a non dire parole
stonate o insignificanti?
• I laici cristiani
Il Concilio Vaticano II ha ridato piena dignità al laicato e ha aperto nuovi orizzonti. Sono
molte le figure laicali che quotidianamente entrano in contatto con ragazzi e giovani:
genitori, insegnanti, allenatori, baristi. Ognuno di loro è un potenziale adulto significativo.
La comunità cristiana si relaziona con le nuove generazioni attraverso queste figure, magari
nei momenti più informali e inaspettati, come è capitato sulla strada di Emmaus.
• La scuola
Rimane un crocevia importantissimo per incontrare ragazzi e giovani, accogliendo tutte
le loro domande, intuizioni, esperienze, problematiche. Nelle scuole medie e superiori
la presenza degli insegnanti di religione è un canale prezioso attraverso cui la comunità
cristiana può dialogare con il mondo giovanile. Molto spesso la figura dell’insegnante
di religione costituisce per gli studenti un interlocutore diverso dagli altri professori, un
adulto a cui si può raccontare molto di sé, dal momento in cui scatta un rapporto di fiducia
e di confidenza.
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Sarebbe utile che le comunità cristiane – e in particolare i consigli pastorali e i vari educatori
di associazioni e gruppi giovanili – valorizzassero maggiormente certi insegnanti di religione
delle medie e delle superiori, che avrebbero molto da raccontare di tutto ciò che vedono,
ascoltano e intuiscono nella loro singolare esperienza professionale.
A tal riguardo vale la pena citare un altro lavoro condotto dall’Osservatorio Socio-Religioso
Triveneto: una ricerca sull’alfabetizzazione religiosa degli studenti che si avvalgono
dell’insegnamento della religione cattolica15. Un dato certamente interessante che questa
ricerca ha fatto emergere è il seguente: gli studenti delle superiori manifestano interesse per
l’ora di religione quando l’insegnante riesce ad approfondire i temi della religione cattolica
mettendoli in sintonia con le questioni esistenziali che toccano la vita dei ragazzi. Quando
l’offerta formativa è equilibrata, cioè riesce a coniugare i contenuti dell’insegnamento e
l’attenzione alla vita degli studenti, lì vengono raggiunti i maggiori livelli di apprezzamento,
di coinvolgimento e di apprendimento.
I ragazzi delle scuole superiori chiedono implicitamente agli insegnanti di non
scadere in due estremi: quello di parlare solo dei loro problemi (la sessualità, la
droga, la pace o altro) senza approfondimento dei contenuti del cristianesimo,
e quello di limitarsi a trasmettere contenuti che non hanno incidenza nella loro
vita. Il loro coinvolgimento e il loro apprezzamento si elevano quando l’insegnante
mantiene un equilibrio tra l’obiettivo “vita” e l’obiettivo “conoscenza del
cattolicesimo” (…) Si tratta di un doppio invito: alla professionalità e all’umanità
della persona dell’insegnante16.
Queste osservazioni ci aiutano a comprendere che gli insegnanti – e in particolare i
docenti di IRC – sono per la comunità cristiana interlocutori preziosi.
15
Alessandro Castegnaro (a cura di), Apprendere la religione. alfabetizzazione religiosa degli studenti che si
avvalgono dell’insegnamento della religione cattolica, Osservatorio Socio-Religioso Triveneto, EDB.
16
Id., p. 174.
Racconti di VITA
Antonio e Giuliano, insegnanti di religione in due licei di Vicenza, ci parlano della loro
esperienza professionale.
Quando ci è stato chiesto di scrivere qualcosa sulla nostra esperienza di docenti di religione,
abbiamo subito pensato alla difficoltà di esprimere in poche righe il senso di un’attività
che assomiglia più ad una passione che ad un lavoro, o comunque che non può essere
svolta senza un decisivo coinvolgimento delle emozioni e degli affetti personali.
Potevamo partire da alcune riflessioni generali forse scontate: la collocazione di tale
disciplina nell’ambito della formazione dello studente e del cittadino; il fatto che la
conoscenza religiosa rientri di diritto fra quei saperi fondamentali di cui la persona
necessita per crescere e svilupparsi nella sua integrità; oppure si poteva - sull’opposto
versante - insistere sulle difficoltà che incontriamo a tutt’oggi per far capire a non pochi
colleghi e genitori l’importanza della proposta che quotidianamente portiamo avanti.
Quella che proponiamo invece vuole essere solo una breve testimonianza da parte di
chi, da circa venti anni, ha il privilegio di svolgere questo insegnamento. E per iniziare
ci sembra davvero appropriata questa citazione di Charles Moller: “Quando si hanno di
fronte per parecchie ore al giorno venticinque volti di ragazzi dai 15 ai 18 anni, che si
vendicano spietatamente quando si è noiosi nelle lezioni, ma che vi fissano con i loro
occhi di chiarezza, talvolta di tenerezza, quando nel silenzio profondo di un’ora mattinale
un riflesso del bello e del vero li illumina, è impossibile non porsi e riporsi senza posa
le questioni eterne che sono tutta la vita d’un uomo; ed è impossibile non rispondervi,
perché la gioventù è impaziente. I libri allora non bastano più. La risposta deve essere
data immediatamente, e deve essere vera, cioè totale, perché nessuno può ingannare la
25
26
giovinezza. Bisogna allora chiudere i libri, senza però dimenticarli, bisogna guardare in
faccia questi giovani, bisogna soprattutto interrogare se stessi e rispondere alle questioni
sparse nei testi, imbrattati di inchiostro, dei nostri autori...”.
Con un po’ di presunzione possiamo dire che questo è quanto ci sforziamo di fare, perchè
l’insegnante non può non interrogare se stesso sul significato del proprio essere docente/
educatore. Siamo convinti che una scuola “a misura d’uomo” (di studente ma anche di
insegnante) dovrebbe preoccuparsi prima di tutto di assicurare a ciascuno la possibilità
di esprimere potenzialità e differenze, per valorizzare l’originalità dei percorsi didattici e
l’atipicità dei ritmi e dei sistemi di apprendimento. E noi, ancora oggi dopo 20 anni, abbiamo
in comune con il viaggiatore l’emozione per l’imprevisto, per quel tanto di misterioso che
nessuno è in grado di anticipare e individuare. Ma l’imprevisto è il sale di ogni viaggio: lo
complica ma proprio per questo lo rende irripetibile.
Questo a dire che l’insegnante e in particolare il docente di religione non è quella figura
che spesso molti hanno nella mente, magari fermandosi ai ricordi di un lontano passato
o aggrappandosi a qualche episodio di cronaca enfatizzato dai giornali. L’insegnante non
è un burocrate, cioè qualcuno preoccupato innanzitutto delle proprie “carte”: è persona,
è anima, è cuore. Non è solo colui o colei che siede dietro una cattedra, perché io, come
insegnante, non mi identifico con la cattedra, con il registro, con un voto, anche se la
valutazione è fondamentale per aiutare lo studente a maturare sul piano culturale.
Con un’espressione forte, che suona forse un po’ retorica, ci viene da dire che l’insegnante
è colui che AMA I SUOI RAGAZZI e condivide l’esperienza del crescere insieme a loro. E’
quella persona che è sempre presente, a scuola e non, col pensiero rivolto a quelli che
sono germogli destinati a divenire pianta; è colui o colei che li aiuta a crescere, a trovare la
propria strada, che li sa ascoltare (prima di tutto ascoltare, poi, in un secondo momento,
anche valutare); è quella persona che C’E’. C’E’ e basta. E’ colui o colei su cui ogni alunno
sa di poter contare, è quello o quella che SA ESSERCI PER I SUOI RAGAZZI.
E’ questo sentire che ci anima ogni giorno, e ci interpella; insegnare religione significa
essere messi (con forza e a volte con brutalità) a contatto con gli affascinanti e delicati
mondi degli studenti che ci sono stati affidati. Non si può stare a guardare; ci si deve
buttare anche se le acque a volte sembrano agitate e il compito è arduo, soprattutto se
si considera che nella nostra attività dobbiamo rapportarci con centinaia di ragazzi diversi
l’uno dall’altro, con decine di colleghi ciascuno con la propria visione della vita, magari
non sempre disposti a riconoscere il significato di ciò che noi proponiamo.
E’ una rete vastissima di rapporti che costantemente ci interpella e talvolta ci sfianca; è
un’avventura umana che si rinnova giorno per giorno, che lascia delle tracce profonde
nella nostra vita perchè i giovani non vogliono innanzitutto informazioni, ma formazione.
Vogliono affidarsi a qualcuno di affidabile. E’ emozionante cogliere la loro curiosità durante
le lezioni, il loro interesse, la voglia di capire meglio e approfondire una questione. Si
allarga il cuore se esprimono a parole o - più spesso - con lo sguardo il piacere di una
lezione che ha mosso dentro di loro qualcosa di profondo, che li ha fatti sentire vivi e
protagonisti della loro vita, magari anche solo per un attimo.
Forse mai come oggi, educare è diventato un imperativo vitale per la società nel suo
complesso. Forse, mai come oggi il mondo ha bisogno di individui, di famiglie, di scuole
e di comunità che facciano dell’educazione la propria ragione di essere. In questi anni
abbiamo imparato a non giudicare mai un ragazzo in via definitiva e a non dare mai per
scontato o acquisito nulla. Anche nella sofferenza o nell’errore, bisogna essere sempre
decisi a cogliere il positivo nell’altro che ci è affidato, in modo da saper autorevolmente
indicare la direzione verso cui dirigersi per migliorare. Ed essere disposti a percorrere
insieme a lui questa strada.
Antonio, Giuliano
27
[PER APPROFONDIRE]
Silvia ci racconta la sua professione di animatrice.
28
La mia professione la posso riassumere in queste parole: animatore territoriale per le
politiche giovanili e lo sviluppo di comunità. Amministrazioni comunali, parrocchie, ecc.
chiedono alla mia cooperativa di impostare assieme a loro un progetto per la gioventù
del loro territorio sulla base dei bisogni rilevati. I miei interlocutori privilegiati perciò sono
i giovani dai 12 ai 25 anni circa e i diversi soggetti della comunità in cui questi ragazzi e
ragazze sono inseriti (baristi, comitati di quartiere, parrocchia, allenatori, ecc.).
Un aspetto interessante della mia professione è che, pur avendo delle finalità e degli
obiettivi predefiniti, le azioni sono strettamente legate alla tipologia dei ragazzi che
incontro. Noi animatori spesso non abbiamo una sede nei territori in cui operiamo perché
preferiamo cercare e conoscere i ragazzi nei loro luoghi aggregativi: bar, sale giochi,
patronati, parchi, piazze, ecc. Questo approccio, che può sembrare difficile, in realtà
ci mette subito in relazione con i giovani, cosa per noi fondamentale. La relazione è il
nostro strumento di lavoro, nella quale c’è la sospensione del giudizio e la costruzione
di una reciproca fiducia che ci permette di dialogare con il gruppo di giovani e di fare
emergere le loro passioni, interessi, risorse e difficoltà. Abbiamo il vantaggio che non
ci dobbiamo preparare delle attività ad hoc per agganciare i ragazzi ma ascoltandoli, le
creiamo assieme (non con poche difficoltà). Per me è molto più importante il “processo”
di realizzazione di un evento che il “risultato”, perché i giovani acquisiscono abilità e
imparano a conoscersi mentre costruiscono le cose, per quanto banali possano essere.
Nelle nostre comunità si sente un grande bisogno di adulti in grado di ascoltare, di
uscire dalla sicurezza di un luogo definito per mettersi in gioco e apprezzare con stupore
la ricchezza che i giovani rappresentano.
Silvia
Suggeriamo la lettura di due testi per approfondire il tema dell’ascolto
e dell’accompagnamento personale delle nuove generazioni.
Da L’epoca delle passioni tristi17
pp. 85-90
Il caso del “signor imperatore”
A
lcuni anni fa Marc, un bambino di dieci anni, è venu­to in ospedale per un
colloquio. Come accade spesso in questi casi, il bambino preoccupava molto le
persone che lo circondavano. La famiglia si era decisa a chiedere un colloquio
in seguito a un’esperienza negativa in una colo­nia di vacanze dove un certo
comportamento, che fino a quel momento era passato più o meno inosservato, era
“esploso”.
Un lunedì mattina accolgo quindi questo bambino con i suoi genitori, visibilmente
agitati (come la maggioranza dei genitori che accompagnano il figlio in un servizio
di psichiatria, la loro angoscia è raddoppiata dalla paura im­plicita di essere giudicati:
“Siamo dei bravi genitori? O sa­remo considerati delle persone che non hanno saputo
educare i loro figli al punto che adesso, per il loro bene, la società dovrà occuparsi di
loro?”). Mi raccontano che tut­to è cominciato nella colonia di vacanze in cui Marc rifiu­
tava di lavarsi nudo di fronte agli altri bambini. Poi Marc stesso mi spiega che, anche
a casa, si fa la doccia vestito con una specie di camicione e che si insapona attraverso
il sottile tessuto. Mi spiega poi che gli istruttori della colonia erano molto turbati per
quello che raccontava.
17
M. Benasayag – G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli.
29
[PER APPROFONDIRE]
30
Marc aveva infatti spiegato, riprende la madre, di esse­re l’imperatore di un pianeta
chiamato Orbuania e che, come imperatore di questo pianeta, veniva ogni giorno sulla
terra in osservazione. Ma ogni notte lasciava il suo corpo e tornava nel suo pianeta
dove riprendeva la sua normale vita di imperatore. A quel punto chiedo ai genito­ri se
Marc avesse già parlato loro di tutto questo e rispon­dono che sì, naturalmente gliene
aveva parlato. Marc ave­va inoltre scritto una serie di quaderni in cui descriveva la vita
di Orbuania, che aveva fatto leggere ai suoi insegnan­ti, i quali trovavano, come del
resto i genitori, che sebbene il bambino fosse un po’ ossessionato dalla sua storia, rive­
lasse in fondo solo di possedere un’immaginazione un po’ troppo fervida.
È necessario precisare che Marc aveva rivelato, nei vari test a cui era stato sottoposto
in ospedale, un’intelligenza superiore alla media. E agli psicologi che gli avevano sot­
toposto i test aveva dichiarato di voler parlare del suo im­pero con qualcuno, ma che
non voleva essere trattato “psi­cologicamente”. Gli ho chiesto perché. Dall’alto dei suoi
dieci anni, mi ha risposto che gli psicologi sono persone che non capiscono nulla delle
cose, che interpretano tutto e che lui invece desiderava parlare, ma in modo più com­
plesso e profondo, con un adulto che non lo catalogasse.
Non credevo alle mie orecchie: quel bambino mi stava dicendo che non voleva
essere trattato come un sintomo. Mi diceva molto chiaramente che desiderava parlare,
ma qualche anno dopo, quando Marc cominciava ad avere il profilo del matematico
che è oggi, ha partecipato come uditore ad alcune riunioni, da me coordinate, con
due ri­cercatori (un matematico e un fisico), in vista della stesu­ra di un libro di logica
matematica. Tra i soggetti che af­frontavamo c’era il problema ontologico dello statuto
di esistenza dell’oggetto della scienza. L’imperatore offriva il suo parere sui teoremi
fondamentali di Godel e di Cohen, tra gli altri. E appena poteva ci dava notizie di
Orbuania, cosa che incuriosiva al massimo, come si può immagina­re, gli scienziati miei
complici, assolutamente incapaci di definire ciò che “esiste” o meno, e perfino di saper
dire più o meno cosa questa parola significhi.
Un giorno ho vissuto un episodio piuttosto comico con l’imperatore. Era un pomeriggio
d’estate e faceva molto caldo al Centro; quando Marc arrivò gli proposi di andare a bere
qualcosa al bar, come facevamo abbastanza spesso. Al bar, quando il cameriere viene
a prendere l’ordinazione, chiedo a Marc: “E lei, cosa desidera, signor imperatore?”.
Marc risponde e, quando il cameriere si allontana, mi dice in tono protettivo: “Vede,
Benasayag, a me non dà nessun fastidio, ma se continua a chiamarmi ‘signor imperatore’
in pubblico, finiranno per pensare che lei è un po’ matto” - e accompagna l’affermazione
con un gesto esplicito, puntando l’indice sulla tempia e facendolo ruotare su se stesso.
Poco per volta imparavo a capire quando potevo chiamarlo signor imperatore. E lui da
parte sua imparava, probabilmente insegnandolo a me, che non tutti sono in grado di
capire le interessanti informazioni sul suo piane­ta, per la semplice ragione che poche
persone sono in gra­do di comprendere d’acchito i Pensieri di Pascal.
Questa storia non deve farci dimenticare ciò che non è ancora stato detto, cioè che
Marc non è mai stato medicalizzato, che non è mai stato ospedalizzato in un reparto
di psichiatria, né etichettato e non è nemmeno mai rientrato in un programma di
integrazione... Solo quando è entrato all’École normale supérieure, dopo aver fatto
Matematica superiore e Matematica speciale, gli ho suggerito di dedicarsi alla ricerca
anziché all’insegnamento e lui, condivi­dendo il mio parere, ha seguito il mio consiglio.
A un certo punto di questa storia con Marc, gli ho pro­posto di realizzare un breve
filmato in cui lui avrebbe de­scritto il suo impero e spiegato i delicati meccanismi di
quel mondo in cui i due sessi non si distinguevano per al­cun segno esteriore, essendo
31
[PER APPROFONDIRE]
32
entrambi identicamente “piatti”, in cui il partito maggioritario era misogino, in cui
le donne (che lui era il solo a poter identificare) erano ge­neticamente inferiori agli
uomini e in cui i membri di un partito anarchico venivano sovvenzionati come clown
uf­ficiali dell’impero. Contrariamente a quanto si potrebbe credere, i racconti di Orbuania
non assomigliavano affatto a un romanzo di fantascienza. L’imperatore mi informò
piuttosto dettagliatamente, nel corso degli anni, sulla cir­colazione delle auto, sulle
tasse, sull’educazione eccetera. E mi teneva informato sulle interminabili guerre e
conflit­ti che il suo impero intratteneva con le colonie, perché il signor imperatore non
era propriamente di sinistra...
Marc era molto interessato a realizzare un documenta­rio audiovisivo, a patto che
fosse rispettata una condizio­ne preliminare, ovvero che il film non fosse utilizzato
co­me “materiale psichiatrico”. Il documentario poteva esse­re mostrato a filosofi, ad
antropologi o ad altri intellettua­li, ma in nessun caso a dei tecnici che non vi avrebbero
ri­conosciuto altro che sintomi, cioè che non vi avrebbero vi­sto, per usare le parole di
Marc, “niente”.
Possiamo enunciare a questo punto i principi-guida su cui si è basato il lavoro con
Marc. Innanzitutto si tratta di dire chiaramente che le persone che ci consultano vanno
molto bene così come sono. Non sono persone con dei “di­fetti di fabbricazione”: sono
come sono e, insieme, cer­chiamo di vedere come possono scoprire le loro potenzia­
lità, come possono essere “non solo imperatori”, ma anche qualcos’altro, come per
esempio, nel caso di Marc, dei ma­tematici o, come nel caso di Julien di cui parleremo
più avanti (nel capitolo 8), musicisti.
In secondo luogo, il nostro lavoro può essere svolto molto bene mettendo tra parentesi
una parte della realtà, al fi­ne di costruire con i nostri pazienti quel terreno comune a
partire da cui è possibile cominciare a comporre, a costrui­re e a camminare. Una clinica
della situazione è quindi un lavoro di liberazione della potenza, di quelle potenze che
Spinoza chiama passioni gioiose. Si tratta di evitare il cam­mino della tristezza, quello
di un sapere normalizzatore che imprigiona l’altro nella sua etichetta. A partire da quel
terreno comune, possiamo poi avviare un lavoro globale di scoperta e di sviluppo di
possibilità, di potenze.
Richiamandoci a Blaise Pascal, il filosofo tanto apprez­zato a Orbuania, possiamo
dire che, nella terapia di situa­zione, “noi siamo in barca”. Sviluppare dei possibili
non è nient’altro che il progetto dell’etica spinoziana, poiché (contrariamente a
una clinica del sintomo, che sa al posto dell’altro) muoviamo proprio dal principio
centrale dell’E­tica: “Non si sa mai ciò che può un corpo”. Come abbiamo cercato
di chiarire, questo non-sapere non rappresenta af­fatto un’ignoranza, ma favorisce al
contrario il dispiega­mento di tutti i saperi e di tutti i desideri, perché non con­danna
l’altro al suo sintomo-etichetta.
Oggi Marc è sempre imperatore ma la cosa non lo di­sturba più. Perché, in quanto
ricercatore e intellettuale, in quanto uomo, non è solo l’imperatore di Orbuania. E
chissà, forse un giorno, in una limpida e fresca notte pri­maverile, disteso sul mio letto,
farò finalmente un viaggio a Orbuania, nel pianeta in cui non ho un semplice amico, ma
conosco qualcuno che è davvero molto influente.
33
[PER APPROFONDIRE]
Da Fragile e spavaldo18
Credibilità… cioè?
34
S
pp. 116-118
e gli adulti vogliono essere rispettati è necessario che facciano o dicano qualcosa
di interessante qui e ora, nella diretta interazione con l’adolescente e il suo
gruppo. Ottengono rispetto e confidenza solo se hanno saputo dimostrare di
conoscere il loro mestiere e di sapere spiegare bene cosa serve la loro funzione.
Che si tratti di un genitore o di un insegnate, di un poliziotto o di un medico, di un
educatore o di un allenatore il fatto che abbia l’età che ha e indossi quel ruolo, o
eserciti quell’arte o quel mestiere non gli regala alcuna importanza particolare agli occhi
dell’attuale spavalderia adolescenziale.
Gli adolescenti sono portati a dare del tu a chiunque, convinti che non sono le differenze
visibili quelle che contano, ma le competenze relazionali. Se poi un poliziotto o un prete,
un allenatore o un assistente sociale dimostra sul campo di essere competente, allora
si aprono trattative molto interessanti e gli spavaldi sono disponibilissimi all’ascolto.
Sarebbe interessante riuscire a capire le caratteristiche che deve avere un adulto per
essere ritenuto «competente» dagli spavaldi. […]
Sembra che l’amore che un insegnante manifesta per la propria materia sia molto
apprezzato, anche se smodato e caricaturale, purché comunichi la convinzione quasi
delirante che quella disciplina sia fondamentale per la crescita e la realizzazione
piena di sé: a queste condizioni viene posta la premessa affinché quell’insegnante sia
ammesso al concorso per l’elezione al ruolo educativo di adulto competente. […] Anche
un certo livello di curiosità da parte del docente è generalmente molto apprezzato,
18
G.P. Charmet, Fragile e spavaldo. Ritratto dell’adolescente di oggi, Laterza, Bari 2008.
purché sia fine a se stesso e sincero, non intrusivo e pettegolo. Agli spavaldi piace che
il loro insegnante dimostri interesse per certe piccole vicende della loro vita, per alcuni
incomprensibili riti dello loro generazione, a cospetto dei quali gli adulti generalmente
provano totale disinteresse.
L’adulto competente, invece, se chiede è perché vuole capire, e quindi ammette di non
sapere. E’ chiaro che non pretende di sapere ancor prima di avere chiesto delucidazioni.
Se la domanda è pertinente, e documenta un certo rispetto per gli usi e costumi
generazionali, allora gli spavaldi raccontano e spiegano bene, aprendo uno spazio ed un
tempo di confronto educativo sulla quotidianità di enorme interesse ed utilità. […]
Una volta deciso che hanno di fronte un adulto competente, gli adolescenti fragili e
spavaldi ne fanno un uso intensivo, dimostrando quanto sia reale e profonda la loro
motivazione ad attrezzare una relazione funzionale col mondo adulto e come sia cruciale
per loro sentirsi in relazione.
35
SECONDO passaggio
L’Annuncio e la Parola
Luca 24,25-27
La Chiesa custodisce e comunica alle nuove generazioni la Parola di Dio.
36
Con gli occhi della comunità cristiana
Il secondo passaggio che possiamo cogliere dal percorso di Gesù con i due discepoli è
l’invito a leggere e rileggere i testi biblici e riconoscere nella propria vita la Parola di Dio,
che è molto più di un libro.
Soltanto attraverso la Parola è possibile l’incontro con il Signore risorto, da cui rinasce
l’uomo nuovo e scaturisce la pienezza della vita. “L’ignoranza delle Scritture, infatti, è
ignoranza di Cristo”, diceva S. Girolamo (prologo al Commento del profeta Isaia).
La pastorale giovanile acquista efficacia e qualità quando si creano occasioni e percorsi
perché i ragazzi e i giovani possano gradualmente avvicinarsi alla Parola di Dio. Quando
nelle nostre comunità non viene messa al centro la Parola, le parrocchie si ammalano di
attivismo: si corre il rischio di girare a vuoto, sempre alle prese con mille cose da fare.
Ci sembra di sentire l’eco del dolce rimprovero che Gesù fa a Marta: “Marta, Marta, tu
ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno. Maria si
è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta” (Luca 10,41-42). Maria si era scelta “la
parte migliore”: stare seduta ai piedi di Gesù per ascoltare la sua Parola.
37
Questo racconto evangelico illumina fortemente la PG, che ha l’obiettivo fondamentale
di accompagnare i giovani a familiarizzare con i racconti biblici per scoprire la Parola del
Dio vivente, che qui ed ora interpella la vita di ciascuno. La Scrittura non è lettera morta,
ma Parola sempre attuale, che accende, che ti fa alzare in piedi, ti mette in cammino,
penetra la tua vita e ti provoca a prendere delle decisioni.
38
Potremmo allora immaginare i seguenti ingredienti per aiutare i giovani ad accostarsi alla Parola.
• Nel contesto attuale si avverte sempre più la necessità dell’Annuncio (il “kerigma”); non
sarebbe corretto parlare di primo annuncio, perché il catechismo è ancora una prassi
diffusa in modo capillare che raggiunge la stragrande maggioranza dei bambini e dei
ragazzi. Eppure la socializzazione religiosa oggi non è sufficiente e molto spesso non
incide in una società sempre più complessa, con una pluralità crescente di riferimenti
valoriali, culturali e spirituali. Adolescenti e giovani hanno bisogno di riappropriarsi
in modo personale della fede. Per questo è necessario un nuovo annuncio: ci vuole
qualcuno che sappia raccontare il Vangelo dentro la vita: dentro la vita di chi ascolta
il Vangelo, e dentro la vita di chi narra il Vangelo. Ci vuole un annuncio che non cali
dall’alto, ma che sia dialogo fecondo con l’esistenza concreta e con le sfide che i giovani
sono chiamati ad affrontare. L’annuncio parte sempre dall’ascolto della persona: solo
così può diventare Parola che illumina e trasforma la vita.
L’annuncio deve avere tre requisiti:
• 1. l’autenticità; chi annuncia deve avere sperimentato nella propria vita
l’efficacia e la bellezza del vangelo; ha avuto un incontro personale con Gesù e per
questo si racconta con umiltà e coraggio;
• 2. la formazione; chi annuncia non si limita a parlare di sé, ma condivide un
patrimonio enorme che riceve dalla Chiesa: la Parola di Dio, la liturgia, i maestri
spirituali, l’insegnamento dei pastori, le storie dei santi e dei testimoni … si tratta
di una formazione mai pienamente raggiunta; per questo ogni evangelizzatore sa di
essere sempre in cammino;
• 3. l’efficacia comunicativa; Gesù stesso è stato un grande comunicatore. Siamo
nell’epoca delle tecnologie sempre più sofisticate e della multimedialità.
• L’annuncio non è fatto soltanto di parole. Il vangelo è concretezza; lo si comunica
soprattutto con i gesti e con lo stile di vita. L’evangelizzazione dei giovani avviene
attraverso esperienze dove ci si sporca le mani, che coinvolgono la dimensione fisica
e affettiva. È proprio qui che la pastorale giovanile diventa “laboratorio della fede”19:
un “andare a bottega” come si faceva un tempo per imparare un mestiere.
• A tutto ciò si collega l’importanza dei testimoni, uomini e donne che hanno riscritto
il vangelo con la loro stessa vita. È più che mai attuale oggi la grande intuizione di
Paolo VI: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o
se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni»20.
• Infine, trasmettere ai giovani la Parola di Dio significa accompagnarli verso una
conoscenza sempre più profonda e personale dei testi biblici: educarli al silenzio
per leggere e ascoltare la Parola, per meditare e pregare a partire da un brano della
Scrittura. Giunti a questo livello, la Parola di Dio diventa ‘chiamata’ e illumina il
discernimento vocazionale.
19
GMG di Roma, Veglia di preghiera a Tor Vergata, 19 agosto 2000.
20
Evangelii Nuntiandi, n. 41
39
Con gli occhi di un giovane
40
Saper ascoltare significa fare silenzio dentro, staccare la spina di quel rumore assordante e
continuo, che circonda e circuisce la vita delle persone, giorno e notte, e non lascia spazio
per stare soli con se stessi. Dopo l’ascolto ci vuole anche l’impegno a conservare nel cuore
la parola ascoltata, altrimenti è come un seme buono che, gettato tra i sassi o le spine,
soffoca perché gli è impedito di crescere.21
Molti giovani vicentini stanno scoprendo il valore del silenzio e il gusto di leggere la
Bibbia, Parola di un Dio vivo e incarnato, “che nel suo grande amore parla agli uomini
come ad amici e si intrattiene con loro”22.
Il dialogo di Gesù con i due discepoli dice qualcosa di importante ai giovani di oggi,
“cacciatori di emozioni” e figli di un tempo caratterizzato dalla fretta, dalla cultura del
“mordi e fuggi”.
• Quando Dio parla è capace di toccare il cuore e farlo bruciare.
La Parola del Signore nasce dalle sue stesse viscere, dal sentimento di affetto e tenerezza
che Dio nutre verso ogni creatura. Nell’Antico Testamento Dio si presenta a volte come
un padre o una madre verso gli uomini (cfr. Geremia 31,20). Altre volte usa immagini
ancora più forti: il fidanzato, lo sposo, l’amante (Osea 2,16.21-22).
Come il roveto che Mosè ha visto sul monte Oreb ardeva senza consumarsi, così l’amore
di Dio brucia e non si spegne mai. Per cui qualsiasi giovane che sia “a caccia” di
emozioni forti, può trovare nella Scrittura il calore più grande, quello originato dal cuore
di Dio!
21
Mons. Cesare Nosiglia, Il cuore ci ardeva nel petto…, Lettera pastorale ai giovani, pag. 15.
22
Dei Verbum, 2.
• La Parola di Dio va presa sul serio e va letta in profondità.
L’incontro con la Sacra Scrittura non deve rimanere un’esperienza superficiale, fatta
soltanto di episodi slegati dalla vita di ogni giorno; non bastano le GMG o un camposcuola,
dove il contesto è suggestivo ed è facile sentir vibrare le corde dell’emotività.
Il rapporto con la Parola richiede tempi lunghi, un cammino lento e a volte faticoso,
come avviene in tutte le relazioni importanti. La costruzione di un amore o di un’amicizia
richiede un lavoro paziente di tessitura, che inevitabilmente incontra momenti di silenzio, di
noia, di incomprensione reciproca. Così la Parola di Dio deve diventare alimento quotidiano,
un legame che domanda fedeltà.
A volte la Parola è difficile da comprendere e da interpretare; altre volte è una parola dura,
tagliente, scomoda, che provoca e scuote con toni forti. E così è stato anche per i due
discepoli, che si sono sentiti dire da Gesù: “stolti e tardi di cuore!”. Ancora una volta li
riconosciamo come buoni fratelli maggiori che hanno qualcosa da insegnare: hanno accolto
la sfida, si sono messi in ascolto, hanno dato a Gesù la possibilità di parlare.
Nel vangelo di Giovanni si passa attraverso una crisi, dove Gesù perde di fatto molti discepoli.
Molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: “Questo linguaggio è duro;
chi può intenderlo? ”.
Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui.
Disse allora Gesù ai Dodici: “Forse anche voi volete andarvene? ”. Gli rispose Simon
Pietro: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna”. (Gv 6,60.66-68).
41
42
Ogni giovane che si confronta con la Parola di Dio viene chiamato prima o poi a un salto
di qualità e deve decidere se fermarsi a un rapporto superficiale oppure accettare la sfida
di un legame più profondo e quotidiano con il Signore.
La posta in gioco è molto alta e i vangeli ci mettono in guardia: si tratta di una questione
di vita o di morte! la Parola di Dio non è un optional, è il fondamento di una casa solida,
costruita sulla roccia. È una sorgente di vita piena. “Tu hai parole di vita eterna!”
mangiare), apre possibilità inaspettate di dialogo e di condivisione spirituale, dove si
impara a spezzare il pane della Parola. Le settimane di vita comune in piccoli gruppi,
come pure le più tradizionali uscite durante il week end, sono esperienze da incentivare
e promuovere, da gestire in modo maturo e responsabile.
Possono diventare anche occasioni dove si apprende uno stile di vita ispirato dai criteri
della sobrietà e del consumo critico23.
CONCRETAMENTE
Dove i giovani incontrano la Parola?
• Esperienze di prossimità e di servizio.
Proviamo a individuare alcuni luoghi precisi nei quali la comunità consegna ai giovani la
Parola di Dio. Ci chiediamo quali possono essere i laboratori della fede.
• Pellegrinaggi.
L’esperienza del camminare insieme condividendo la fatica e ancor più la gioia di riscoprire
gli aspetti essenziali della vita, favorisce la dinamica dell’ascoltarsi reciprocamente e del
raccontarsi andando in profondità. In questo contesto la Parola di Dio diventa illuminante
e trova un terreno accogliente. Pensiamo al valore che hanno assunto per i giovani i
pellegrinaggi nella Terra Santa, a Santiago di Compostela, le proposte della comunità di
Taizé, le stesse GMG.
• Esperienze di vita comunitaria.
Vivere insieme gli aspetti più concreti della quotidianità (come, ad esempio, farsi da
L’incontro con i poveri mette in moto la ricerca interiore e diventa occasione speciale
per sintonizzarsi con la parola di un Dio che sceglie i poveri come suoi figli prediletti, al
punto tale da farci scoprire il suo stesso volto nel volto del povero. La Bibbia continua
ininterrottamente a orientare gli occhi del lettore laddove rimane fisso lo sguardo di Dio:
verso il debole, l’ultimo, il sofferente, la vittima, l’emarginato, il prigioniero. Pensiamo
al significato che hanno assunto in questi anni per i giovani vicentini esperienze come
Insieme per la missione, Ultimo con gli ultimi, l’Operazione Mato Grosso, il Sermig di Torino
con l’Arsenale della Pace. Questa dimensione molto pratica permette di coinvolgere anche
quei giovani che sono più portati per le attività manuali.
• Il gruppo.
Sappiamo bene che ragazzi e adolescenti hanno un livello di partecipazione altalenante
e discontinuo; eppure il gruppo rimane la principale opportunità per mettere in atto
quella compagnia della fede nella quale le domande dei giovani entrano in dialogo con
la Parola di Gesù.
23
Da alcuni anni la Caritas diocesana, attraverso il progetto “Dialogo”, propone a gruppi di adolescenti
esperienze di questo tipo.
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E non ci dobbiamo stancare di avere una mentalità progettuale, di proporre itinerari
pensati in modo serio e secondo il principio della gradualità.
Oggi più che mai il gruppo giovanile deve essere qualcosa di dinamico, un vero
laboratorio, fatto di uscite, incontri, testimonianze, esperienze, attività che coinvolgano
la dimensione fisica ed emozionale. È sempre molto utile che il gruppo sia connesso
alla comunità ecclesiale e al territorio. Da questo punto di vista le associazioni sono
una risorsa. Il gruppo – specialmente il gruppo giovanissimi – è un’occasione preziosa
dove prevedere e preparare con molta cura momenti di annuncio, che richiedono
tempo e creatività, valorizzando le risorse multimediali e artistiche che permettono una
comunicazione più efficace: canzoni, spezzoni di film, video significativi, un quadro o
un’icona, una testimonianza …
• Forme più impegnative di incontro con la Parola
Sono possibili soprattutto a livello diocesano, attraverso campiscuola, cammini di ricerca
vocazionale (il Sichem, il gruppo Myriam…), esperienze forti di spiritualità (week end
di spiritualità, esercizi spirituali…), oppure i corsi di formazione teologica. Il Centro
vocazionale e giovanile Ora Decima offre alle persone e ai gruppi la possibilità di
incontrare una comunità e un ambiente dove sostare e dedicarsi un tempo di silenzio,
preghiera, ascolto della Parola di Dio, accompagnamento spirituale e discernimento sulla
propria vita.
Sarebbe utile che le comunità cristiane investissero un po’ di più nella formazione
dei giovani e in particolare degli educatori, promuovendo e sostenendo anche
economicamente la partecipazione a qualche proposta che aiuti a fare un salto di qualità
nella vita di fede.
Racconti di VITA
Tre giovani – Enrico (AC), Chiara (Agesci) e Dario (cammino Neo-catecumenale) – ci
raccontano come hanno incontrato la Parola di Dio nel loro cammino.
Provando a ripercorrere la mia esperienza di giovane di Azione Cattolica, credo di poter
rintracciare con sicurezza una sorta di filo rosso che, con tempi e modalità diverse, mi ha
affiancato e stimolato in questo cammino: il contatto e la frequentazione con la Parola di
Dio. Grazie ad esperienze significative come campiscuola e weekend di spiritualità, ma
ancor di più attraverso la quotidianità della Regola di vita spirituale dei giovani di AC,
“Mendicanti del cielo”, la Parola è divenuta sorgente alla quale costantemente tornare,
nella mia vita di giovane credente e nel mio servizio ecclesiale e associativo.
“Qual è la regola per un cristiano, per un giovane di AC? Solo Gesù Cristo”. L’incontro
con la Parola è divenuto essenzialmente l’incontro con una persona, Gesù, modello
di umanità piena. E la Parola è dunque qualcosa di profondamente efficace, perché è
Dio stesso che agisce in essa. “E se è una persona, come le persone si conosce nella
relazione: le si parla, la si interroga, le si chiede perdono”.
Come giovane sento la necessità di avere il coraggio di farmi interpellare dalla Parola,
e lasciarmi cambiare da essa: non ci si può nascondere davanti alla Parola, e ad essa
bisogna in qualche modo render conto. Soprattutto, possiamo rivivere con essa lo
sguardo d’amore che Dio ha verso di noi. Pensando dunque anche all’impegno che
come giovane di Ac posso adempiere nel mondo e nella Chiesa, mi viene da dire che
per vivere pienamente, per abitare serenamente e fino in fondo questo mondo, senza
esserne posseduti in vario modo, i nostri due occhi non bastano, ma sono necessari gli
occhi di Dio: quelli che ci regala la Scrittura, e che ci rinnova la preghiera.
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Il costante ritorno alla Parola è stato ed è decisivo anche per rimotivare a partire da essa
ogni parola e gesto di fede e di impegno ecclesiale, e per saper scrutare i segni dei tempi
e interpretarli alla luce del Vangelo, cioè per vivere il discernimento.
L’Ac si è fatta allo stesso tempo ponte e terra fertile, nel mio conoscere e incontrare la
Parola, grazie all’esempio di tanti testimoni di santità, e di laici e assistenti che ogni
giorno posso incontrare. Prego perché l’Azione Cattolica, maestra e compagna nella via
splendidamente ordinaria dell’incontro con Gesù risorto (la Parola, l’Eucaristia, lo spazio
comunitario), rimanga sempre un’associazione in ascolto della Parola.
Enrico
Sono Chiara, ho ventitré anni e sono una Capo Scout dell’ Agesci (Associazione Guide e
Scout Cattolici Italiani).
Ho iniziato da piccola a giocare con Lupetti e Coccinelle, ho poi imparato l’avventura e
l’autonomia con Guide ed Esploratori, ho vissuto la Strada, la Comunità e il Servizio con
Rover e Scolte; ho fatto tesoro di tutto ciò che crescendo avevo imparato e alla fine di
questo percorso ho deciso di intraprenderne un altro: ho preso la “Partenza” (che segna
la conclusione dell’itinerario formativo nell’Agesci) e ho iniziato la mia vita di Capo
Scout, scegliendo di essere Testimone della Parola di Dio e dei suoi insegnamenti. Per
me la scelta di Fede racchiude anche altre scelte, come quella di non essere spettatrice
del mondo, ma di farne pienamente parte, di impegnarmi per renderlo migliore: non è
anche questo seguire la strada di Gesù? E non è Lui che ci insegna a metterci al Servizio
degli altri, a prenderci cura dei fratelli? Ecco, è così che la mia scelta di essere capo
Scout, educatrice e adulta, è un impegno civico e un servizio, ma in fondo non è altro
che seguire la Parola di Dio.
Questa consapevolezza, che è nel mio cuore e che cerco di tenere vicina per tutte le
scelte della mia vita - anche se non è sempre così facile - è cresciuta pian piano. Dicono
che la fede sia una grazia, io l’ho vissuta come tale e tre anni fa ho chiesto di ricevere
la Cresima. Don Ferdinando e i miei padrini Massimo e Giorgia mi hanno aiutato a
riflettere e insieme abbiamo preparato alcuni incontri sulla Parola che ho voluto vivere
con quella che considero la“comunità di cristiani” a me più vicina, la mia Comunità
Capi scout. É stato bello confrontarmi con loro sulla Parola, ognuno di noi infatti può
cogliere spunti che per altri inizialmente non hanno significato. La veglia itinerante
finale per me è stata molto emozionante: io mi preparavo a ricevere lo Spirito Santo e
loro mi accompagnavano in questo. Durante il cammino abbiamo fatto alcune fermate e
ciascuno ha condiviso con me un passo delle Scritture significativo per la sua vita, con
l’augurio che potesse risuonare anche nella mia.
Chissà da dove nasceva quel legame con la Parola per ognuno di loro... Certo è che la
vita Scout aiuta spesso a vivere momenti di vicinanza alla Parola. Io mi stupisco sempre,
ora che sono Capo, di come per i ragazzi sia a volte così semplice avvicinare le Scritture
alla propria vita e pregare con una dolcezza e una fede che davvero mi spiazzano.
In fin dei conti mi sento ancora un’apprendista della Parola (se così si può dire) e
saranno l’esperienza e la pazienza di cercare le occasioni per avvicinarmi sempre più
alle Scritture, che mi aiuteranno a farle parlare nella mia vita e magari ad accompagnare
sempre meglio ragazzi e bambini in questo cammino.
Chiara
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Il mio personale incontro con Dio è avvenuto attraverso la Sua Parola. Ho incontrato il
Cammino Neocatecumenale a 17 anni, proprio in un momento di particolare sofferenza
della mia vita; mi ponevo tante domande, ero quasi angosciato perché non trovavo il
senso di ciò che facevo, del tempo e delle energie che dedicavo agli altri. Andavo in chiesa,
frequentavo l’Eucaristia domenicale, eppure tutto era scollegato nella mia vita. Il trovarmi
con questa sete enorme di una direzione, di senso, in un momento difficile mi ha aiutato
a rimanere in ascolto di questa Parola che è Vita, e subito mi ha conquistato. Credo che la
cosa che da subito ha suscitato in me la Sua Parola, sia stata il ritrovarmi profondamente
amato da Lui, come se ogni avvenimento altro non fosse che una manifestazione del Suo
Amore per me e per gli altri; e con questo cambiavano i miei occhi nel vedere me stesso,
la Sua Presenza nella mia vita, e la Sua Presenza nelle altre persone. Si schiudevano i
miei occhi, quasi Lui pian piano entrasse in me, volesse vivere in me, amarSi nei fratelli,
ritrovarSi in loro e in me, facendomi vedere che quel Suo Regno è presente davvero in
mezzo a noi; come il cieco Bartimèo, che grida sempre più forte a Gesù per riavere la
vista, così credo che senza questa Parola rimango cieco nella mia vita, e vado avanti a
tentoni. Questa Sua Parola mi avvicina al Suo Cuore, mi avvicina al progetto grande che ha
il Signore su di me, e dà Luce vera alla mia vita. Sento che essa tocca e fa vibrare le corde
più profonde del mio essere, arde dentro me, ed è ciò che il mio cuore cerca e anela: essa
rivela il Suo prendersi cura di me. E l’ascolto e la meditazione della Parola sono diventati
respiro quotidiano di questa Fedeltà, grazie al cammino Sichem di quest’anno, in cui
questo contatto con Gesù che è Vita e si fa Vita, diviene il cuore pulsante della giornata,
preziosa intimità e dolce apertura del cuore verso la Sua Volontà. Attraverso la Parola Lui
mi scava, mi modella secondo quanto ha pensato per me, e mi dona questo Suo “sguardo
d’amore” sull’uomo, perché con il Suo Spirito possa comunicare la gioia e la speranza vera
dell’incontro con Gesù.
Dario
[PER APPROFONDIRE]
Altri due testi per entrare in una dimensione di ascolto della Parola e poterla così
“restituire”, consegnare ai giovani.
Da Vorrei pregare con la Bibbia. Lettera a cristiana sulla Lectio Divina24
pp. 11-14
A
ppartengo a una generazione che la Bibbia non sapeva nemmeno com’era fatta.
Nonostante il catechismo incominciato fin dalla scuola materna, ero arrivato al
seminario minore, appena finita la quinta elementare, solamente con il rosario
e il libricino di preghiere regalatomi dal parroco alla prima comunione. Ma per
possedere un vangelo personale – pensa, in seminario! – mi hanno fatto aspettare la
terza media. Però, di Bibbia a quel tempo neanche l’odore: solo in prima liceo – dunque
a sedici anni – quando arrivai al seminario maggiore, il rettore – con grande scandalo
del padre spirituale, che continuava imperterrito a pensare che certe pagine della sacra
Scrittura fanno venire dubbi di fede e cattivi pensieri – ci permise di comprare la Bibbia
delle Paoline, fortemente voluta da papa Giovanni e da don Alberione, in edizione
popolare, al prezzo stracciato di mille lire.
Erano gli anni del Concilio: iniziava la stagione del disgelo, e Carlo Carretto tuonava:
“basta con un cattolicesimo senza sacra Scrittura!”.
(…) Cominciavo a capire i brani della Scrittura, a gustare i salmi, a respirare il profumo
24
F. Lambiasi, Vorrei pregare con la Bibbia. Lettera a cristiana sulla Lectio Divina, EDB.
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50
della parola di Dio. la Bibbia mi diventava piano piano un libro parlante: familiare come
una voce amica, irresistibile come una calamita, indispensabile come il pane, come
l’acqua, come l’aria. Poi… ma non vorrei annoiarti con la mia storia: ti dico solo che ora
senza il libro delle sante Scritture non potrei vivere, ma non vorrei proprio!
Per venire alla tua domanda, ti propongo un cammino un po’ lungo, scandito in tre
tappe: stai serena, non ricominciamo da Adamo.
Cominciamo da Narciso, per poi arrivare a Gesù (I tappa); quindi da Gesù alla sua parola
(II tappa); e dalla sua parola a noi (III tappa).
Da Il fiore rosso. I testimoni futuro del cristianesimo25
pp. 7-11
l passaggio, di generazione in generazione, del tiz­zone ardente, del fuoco della fede,
del fuoco interiore, è la strada, il cammino del popolo di Dio, da Abramo a oggi.
(…)
Tutto il popolo della Bibbia è un grande movimento biografico. La storia del popolo
d’Israele è un movimento biografico. La storia della salvezza è un movimento biografico.
La storia della Chiesa è un movimento biografico. Un mo­vimento di persone. È il mistero
dell’incarnazione sto­rica della parola di Dio, il Dio-amore, è l’intrigante, af­fascinante
mistero del Dio-persona, intreccio di finito e di infinito, di divino e di umano, di eterno
e di storia, di morte e di risurrezione...
Se Dio ha scelto questo modo per la rivelazione della sua verità che rende liberi, se
ha scelto la dimensione per­sona, se ha privilegiato biografie, cioè vite ed esperienze
I
25
P. Giuntella, Il fiore rosso. I testimoni futuro del cristianesimo, Ed. Paoline.
umane, per essere rivelato, conosciuto e contemplato, è dunque evidente l’importanza
decisiva dei testimoni nell’esperienza di fede cristiana. La Bibbia, per gli ebrei come
poi per i cristiani, non è un libro di teorie, di fi­losofia, di teologia. Il Libro fondativo è
fatto di donne e di uomini, di testimoni, profeti, peccatori, discepoli, scrittori evangelici
che raccontano la Parola come si è rivelata attraverso la predicazione e gli atti, i gesti
di una persona: il Cristo, eterna Parola divina di sempre, che si è fatta carne, è nata, si
è chiamata Gesù, è morta ed è risuscitata. Anche la legge, le regole, le ritualità, nella
Prima Alleanza, vivono attraverso le persone, non sono codici o ideologie astratte. Nella
Nuova Alleanza questo primato dell’amore, dunque della persona, sulla legge si fa
ancora più radicale e definitivo. (…)
Il sentiero dei testimoni è natu­ralmente anche il sentiero dei maestri, intellettuali o
spirituali che siano, analfabeti o colti che siano, con­templativi o immersi nel fango
della storia per strappa­re vite umane allo scandalo dell’ingiustizia, per creare case
di accoglienza, solidarietà, giustizia, fraternità, o, almeno, di amicizia e compassione.
Senza testimoni, parlanti o silenziosi, muratori o architetti, compromes­si fino al collo
con poveri, ultimi, piccoli, perdenti, ma­lati, « inutili », o innamorati di Dio e dell’Assoluto
nei loro eremi, ogni discorso verboso o poetico rischia di diventare inutile. I santi, i
testimoni, sono semplice­mente i giusti della Bibbia, i sapienti dell’Altra Sapienza, quella
di Dio, che è il rovescio della sapienza degli uomini. E che, per i cristiani, è addirittura la
sa­pienza — follia, debolezza, paradosso — della croce. Naturalmente della croce fiorita,
della croce dipinta con i colori dell’arcobaleno, irradiata dall’aurora della risurrezione.
(…) Sono i testimoni che mostrano la ricerca di Dio, che danno il senso della fede, che
offrono con la loro vita il senso profondo della Vita, della storia, che sono essi stessi
annuncio o personaggi dell’annuncio. Perciò della stessa evangelizzazione.
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TERZO passaggio
la Comunità e l’Eucarestia
Luca 24,28-31
Una comunità che si raduna per celebrare l’amore del Signore e creare legami di
fraternità.
52
Con gli occhi della comunità cristiana
L’incontro personale con Gesù – che viene riconosciuto nel gesto più significativo, allo
spezzare del pane – si compie dentro una casa. Nei vangeli sinottici la casa è l’immagine
che allude alla Chiesa, alla comunità.
Il soggetto della PG è la comunità cristiana nel suo insieme, la quale nasce e rinasce
continuamente attraverso quel dono speciale che è l’eucarestia. Soltanto celebrando e
vivendo l’eucarestia i cristiani possono “aprire gli occhi”, come avviene ai due discepoli,
e trovare nella storia di Gesù la luce che illumina e dà senso alla vita umana. La Chiesa
ritrova il proprio volto quando si specchia nel volto di Cristo. Nel segno del pane e del vino,
ci riscopriamo comunità di fratelli chiamati a fare della propria vita un dono d’amore.
Negli ultimi decenni si è lavorato molto per recuperare il significato e il valore della
Domenica, giorno del Signore26, che è molto di più rispetto al semplice precetto festivo di
andare a Messa.
La domenica può diventare una grande opportunità di incontro tra i giovani e la comunità nella
misura in cui è possibile incontrare un volto autentico di Chiesa e respirare un certo clima.
26
La vita della parrocchia ha il suo centro nel giorno del Signore e l’Eucarestia è il cuore della domenica.
Dobbiamo “custodire” la domenica, e la domenica “custodirà” noi e le nostre parrocchie, orientandone il cammino,
nutrendone la vita (Nota pastorale della CEI, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, pag. 33)
53
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• Un clima di accoglienza tra le persone.
Durante la fase di verifica ci siamo detti più volte che non basta la “pastorale delle
azioni”; dobbiamo favorire una “pastorale delle relazioni”, in cui le persone sanno “perder
tempo” per dialogare in modo spontaneo e gratuito, cercando di superare varie forme di
estraneità, di divisione o diffidenza.
Non dimentichiamo l’icona biblica da cui siamo partiti all’inizio del Sinodo: il racconto degli
Atti degli Apostoli che descrive la vita delle prime comunità cristiane (Atti 2,42-48); emerge
una Chiesa dal volto cordiale e simpatico, che cresce e si diffonde nella storia grazie alla
qualità delle relazioni.
Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa
prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo
la simpatia di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla
comunità quelli che erano salvati (Atti 2,46-48).
• Un clima di preghiera e di speranza
La domenica è il giorno del Signore, è la pasqua settimanale. Pur immerso nelle fatiche della
vita, ogni cristiano battezzato porta con sé la luce del mattino di Pasqua. Un atteggiamento
di speranza potrebbe essere la testimonianza più bella per comunicare la fede cristiana
alle nuove generazioni in questo nostro tempo in cui il futuro non appare più come una
promessa ma come una minaccia.
D’altronde la speranza è possibile soltanto quando si radica in una forte vita interiore. Se
la messa domenicale è la sorgente e il culmine della vita cristiana, dovremmo chiederci
allora con quale cura celebriamo l’Eucarestia nel giorno del Signore.
A tutte le persone impegnate in parrocchia che si sentono appesantite, stanche e
demotivate, riconsegniamo un testo luminoso del profeta Isaia, che ci aiuta a riprendere
quota andando in profondità.
Non lo sai forse? Non lo hai udito? Dio eterno è il Signore, creatore di tutta
la terra. Egli non si affatica né si stanca, la sua intelligenza è inscrutabile.
Egli dá forza allo stanco e moltiplica il vigore allo spossato. Anche i giovani
faticano e si stancano, gli adulti inciampano e cadono; ma quanti sperano nel
Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi,
camminano senza stancarsi. (Is 40,28-31)
Con gli occhi di un giovane
Un aspetto molto interessante del momento eucaristico che avviene a Emmaus, è che Gesù
non lo chiede, non lo pretende: nasce grazie al desiderio dei due viandanti di prolungare
l’incontro e l’intimità con questo compagno di viaggio inaspettato; insistono perché diventi
il loro ospite.
“Egli fece come se dovesse andare più avanti…”.
Il rapporto che i giovani hanno con la Messa sembra molto spesso di segno opposto: c’è
il rifiuto.
Le ragioni per cui un giovane si allontana dall’eucarestia possono essere molte, e talvolta
anche ben fondate: l’omelia che non gli dice nulla di significativo, la partecipazione fredda
delle persone, una liturgia poco curata, qualche cattiva testimonianza da parte di chi a
messa non manca mai.
55
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Un giovane ha bisogno di incontrare figure autorevoli, che vivono e trasmettono una
fede onesta e liberante; uomini e donne contenti di essere cristiani e di appartenere alla
comunità. Ha bisogno di respirare quel clima di amicizia e di speranza di cui abbiamo
parlato nel paragrafo precedente, in riferimento al giorno del Signore.
Ha bisogno anche di un’altra cosa: tutte le valide motivazioni per cui non va più a
Messa potrebbero essere delle buone scuse per evadere dalla fatica di guardarsi dentro.
Fuggire dalla parrocchia potrebbe essere il sintomo di una fuga da se stessi, dalla propria
interiorità.
Non è sufficiente indicare un precetto. È necessario che un giovane incontri adulti che lo
aiutino a porsi la domanda decisiva: dove sto andando?
A tal riguardo, i giovani vicentini dovranno custodire per sempre la grande provocazione
che Giovanni Paolo II ci ha lanciato allo stadio Menti, nel 1991.
Carissimi, il vostro itinerario «va fuori»; con le conoscenze, con gli studi, con
la scuola, l’università, con i mass-media, voi siete sempre portati «al di fuori».
E forse troppo. Forse troppo! Forse c’è troppa esteriorizzazione. Ci vuole più
interiorizzazione. Ci vuole più «vivere dentro». La nostra civiltà è un po’ la
civiltà della fuga: si cerca di sfuggire, sfuggire al proprio «io», il proprio io
interno, la propria coscienza. Io lo dico per spingervi, per provocarvi a fare
questo itinerario, a intraprendere questo itinerario che porta dentro il mistero
dell’uomo. Mistero che ciascuno di noi porta dentro di sé. Ecco tu sai che
questo mistero non è spiegabile con nessun altro mezzo, con nessun altro
metodo. Solamente con Gesù Cristo.
CONCRETAMENTE
In che modo la comunità vive il giorno del Signore insieme ai giovani?
Su quali aspetti concreti vale la pena lavorare per aiutare i giovani a riscoprire il significato
della Domenica e la bellezza dell’eucarestia?
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• Cura delle relazioni.
Gesù si ferma ad Emmaus, entra nella casa e spezza il pane perché si è creato un certo
clima tra le persone; infatti sono proprio i due discepoli che gli chiedono di rimanere.
Nelle nostre assemblee domenicali ciascuno dovrebbe sentirsi chiamato a dare il proprio
contributo per creare un clima di accoglienza, per diffondere uno stile “evangelico” che sia
visibile negli aspetti più concreti del nostro stare insieme.
• Coinvolgimento dei giovani negli organi di partecipazione alla vita della
comunità.
Il Sinodo ha fatto emergere la necessità che i giovani siano presenti in modo significativo
nel consiglio pastorale, il luogo più concreto di esercizio della comunione, pur con le
inevitabili fatiche. A livello vicariale è importante che ci sia un’equipe di Pastorale
Giovanile che tiene i contatti con le varie parrocchie o unità pastorali. Questa commissione
può funzionare nella misura in cui diventa un’opportunità per creare legami e crescere
insieme come Chiesa, nella diversità delle vocazioni, dei ministeri, delle comunità o dei
gruppi di appartenenza; un luogo di amicizia dove insieme si prega, si pensa, si condivide
e si programma. Con la pazienza dei piccoli passi!
•
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Cura della liturgia.
Pensiamo all’importanza del coro, dei lettori, al servizio dei ministranti, al tempo e alla
passione con cui viene preparata un’omelia. Nella liturgia l’attore principale è lo Spirito
Santo, ma Lui agisce sempre attraverso volti umani: il volto di un prete che quando celebra
mette in gioco la sua fede e dà voce alla Parola; i volti di giovani che quando cantano in
Chiesa aiutano tutta l’assemblea a pregare con gioia.
• Cura del cammino personale.
Non sempre la liturgia è animata in modo vitale e non sempre l’omelia è coinvolgente.
Eppure, anche nelle celebrazioni meno curate è possibile incontrare il Signore della vita
ed essere nutriti dalla sua presenza. La differenza sta nell’atteggiamento interiore con cui
ciascuno si prepara e partecipa alla Messa. Anche l’andare a Messa alla domenica rientra
nel grande processo della cura di sé cui ciascuno è chiamato. Ed è compito della PG
indicare e fornire ai giovani strumenti e occasioni per prepararsi alla liturgia domenicale.
• Il coinvolgimento dei giovani nella liturgia.
L’opportunità più diffusa sono i cori giovanili, grande risorsa per le nostre comunità, che
vanno accolti con simpatia ma anche aiutati a crescere nello stile del servizio alla comunità,
superando le possibili forme di esibizionismo o di chiusura.
È possibile anche affidare l’animazione di una Messa domenicale a un gruppo di giovanissimi,
accompagnati dagli animatori. Molto significativo in circostanze particolari è chiedere a un
giovane della comunità di raccontare brevemente un’esperienza forte che ha vissuto.
• Creare occasioni per vivere in pienezza il giorno del Signore.
Per un giovane l’eucarestia acquista più sapore se non è un fatto isolato, ma il cuore di
una giornata dedicata all’amicizia e alla gratuità dello stare insieme. È possibile animare la
domenica attraverso uscite, pellegrinaggi, esperienze di servizio, momenti di convivialità,
proposte culturali, sportive, ricreative valorizzando l’oratorio e gli spazi disponibili; dentro
a queste dinamiche la S. Messa diventa un appuntamento significativo; occorre sempre
vigilare perché non si celebri in forma privata ma con la propria comunità cristiana, per
quanto è possibile.
• Il cammino di gruppo.
Ci sono contesti privilegiati in cui è possibile aiutare i giovani a conoscere la liturgia e ad
amarla. Un coro parrocchiale, un gruppo di animatori o di catechisti, un gruppo giovani, un
gruppo scout. Vale la pena inserire nei percorsi formativi alcuni momenti celebrativi che
permettano di riscoprire e apprezzare i linguaggi e i segni della liturgia. La liturgia cristiana
non è assolutamente noiosa, ma estremamente vitale e coinvolgente: è fatta di parole
ma anche di gesti, suoni, colori, sapori, profumi, sensazioni. Celebrare la Messa in piccoli
gruppi può essere utile, non come un fatto privato ma per aiutare le persone a vivere in
pienezza l’eucarestia domenicale che si celebra in parrocchia.
• Un suggerimento per i genitori, i parroci e gli educatori.
Se è vero che il momento eucaristico ad Emmaus è stato la conseguenza di un desiderio, allora ci
chiediamo: vale la pena insistere ancora così tanto sull’obbligo di andare a Messa, sul cosiddetto
precetto festivo? Non sarebbe più testimoniale invece mostrare con l’esempio che l’eucarestia è
un’esigenza, un nutrimento, un desiderio profondo, qualcosa di bello e sentito? 27
27
Ricordiamo la toccante testimonianza dei martiri Africani. Nel 304 nella città di Abitene (nell’Africa
settentrionale - odierna Tunisia), un gruppo di 49 cristiani, composto da uomini, donne, giovani e fanciulli,
contravvenendo agli ordini dell’imperatore, si riunisce nel giorno del Signore per celebrare l’Eucarestia. Scoperti,
vengono imprigionati e condotti in tribunale per essere sottoposti a giudizio. Durante l’interrogatorio uno di loro
dirà al proconsole romano: “Noi cristiani senza la domenica non possiamo vivere!”.
59
Racconti di VITA
Anna e Manuel ci parlano del loro rapporto con l’Eucarestia e con la comunità nel
Giorno del Signore.
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Per me vivere la Messa come atto “voluto” e non “dovuto” è una cosa
fondamentale. Sono stati i miei genitori a farmi scoprire il significato
della messa, senza mai costringermi, aiutandomi a viverla come un momento bellissimo
e non come un dovere.
Rinnovare ogni domenica la mia fede davanti a tutti i miei fratelli e sapere che è il
momento più “alto” in cui un cristiano è tale, cioè quando riceve il corpo di Cristo, è
un sentimento così profondo che ti fa guardar oltre al fatto che magari non hai voglia
di muoverti da casa, che magari fuori piove e c’è freddo e l’attrazione della casa calda
sembra più forte.
Anche il partecipare poi ad un’associazione che per me è stata fondamentale, il Comune
dei Giovani, ha reso questa consapevolezza ancor più forte in me. In più, anche da
piccola, rimanevo sempre affascinata quando trovavo una messa cantata e animata da
un coro, che fosse stato di ragazzi con musica vivace e briosa o da adulti con una musica
più classica. Ciò rendeva il momento della messa ancora più intimo e importante, mi
sembrava come se il canto arrivasse più in alto di tante preghiere. E per questo entrare
in un coro è stata la cosa più naturale per me, appena avuta l’età “idonea”.
Rendere lode a Dio col canto mi fa toccare con mano la verità della fede che ho ricevuto;
mi aiuta ad entrare in intimità con il Signore e in sintonia con tutta l’assemblea che
celebra. Tutto questo mi riempie sempre di una gioia immensa.
Anna
Ho iniziato a cantare nel coro della mia parrocchia per gioco: mi piaceva la musica, mi
piaceva stare con qualche amico, mi affascinava essere in qualche modo partecipe della
Messa, che mi sembrava una cosa troppo seria e spesso non mi diceva niente. Di certo
non avrei mai pensato che da questa semplice esperienza di servizio potesse nascere
un importante cammino di fede, un desiderio di farsi dono per gli altri, di crescere
come uomo e come credente. Innanzitutto, il fatto di prestare un servizio in parrocchia
legato alla liturgia come corista, chitarrista, lettore, aiutare a preparare le celebrazioni …
richiede impegno e dedizione: solo il semplice fatto di dover essere presente necessita
di grande responsabilità. Per me il servizio che svolgo è stata un’ottima palestra di
vita: mi ha fatto capire che è importante credere che le cose possono cambiare, che
si può sempre migliorarsi, mettendosi in atteggiamento di umiltà e speranza poiché
anche quando tutto sembra finire l’importante è non disperare! Mi ha fatto collaborare
con molte persone e capire che nell’unione sta davvero la forza, smussando qualche
angolo del mio carattere sopratutto quando è difficile andare d’accordo. Il mettersi a
disposizione con gratuità mi ha fatto comprendere il valore del servizio, della carità
vera, del dono disinteressato. Il servizio che svolgo è primariamente rivolto a Dio, alla
sua Chiesa che riconosco presente nell’assemblea che ho davanti la domenica mattina,
che aspetta che io legga le letture o metta a disposizione i miei talenti come musicista.
Questo mi ha fatto crescere molto nel mio cammino di fede: mi ha riavvicinato a Dio,
61
[PER APPROFONDIRE]
62
mi ha fatto comprendere l’importanza della liturgia vissuta nella semplicità e ha fatto
nascere in me il desiderio di approfondire il mio rapporto con Dio, di capire sempre più
ciò che celebro per farlo diventare vita vissuta e per mettervi dentro tutta la mia vita.
Io credo davvero che un contributo nell’animazione liturgica a noi giovani sia richiesto
dalla Chiesa stessa: spesso le nostre messe rischiano di testimoniare più l’essere
una comunità stanca, anziana, e non la gioia e la bellezza della fede. Credo che noi
giovani abbiamo anche la responsabilità di dover “ringiovanire” le nostre assemblee,
semplicemente con la nostra presenza o mettendo a disposizione di tutti quei doni
che ci sono stati affidati, con il coraggio e la responsabilità di volersi impegnare in un
servizio che è utile a noi stessi, al nostro cammino di fede e ai fratelli. Certo, qui non
si parla di fare grandi gesti visibili, ma è un cercare di vivere con la dovuta semplicità
una dimensione di servizio comunque importante. E questa può essere il trampolino di
lancio per un po’ di formazione cristiana, per la rinascita o la riscoperta di un cammino
di fede. Nella mia esperienza tante volte mi sono sentito valorizzato per quel poco che
potevo dare e soprattutto ho imparato piano piano a fare mia la Messa, che mi sembrava
una cosa molto distante dal mio modo di pregare. Ho capito che anche questo semplice
servizio poteva essere un dono verso il prossimo e mi faceva crescere un grande senso
di responsabilità. Ora continuo il mio servizio, certo del fatto che esso è manifestazione
del mio percorso di fede, dell’incontro con Gesù, nella semplicità del poco che posso
donare.
Manuel
Proponiamo la lettura di un testo molto provocatorio per le comunità cristiane. Ne
riportiamo un estratto, dove l’autore mette il dito nella piaga circa il rapporto tra
giovani – parrocchia – messa domenicale.
Da La prima generazione incredula28
L
pp. 31-42
a maggior parte delle parrocchie presenti sul territorio nazionale sono tutte
«rosari e messe per morti»: rosari e messe richieste da persone che si preparano
a diventare esse stesse intenzione di una mes­sa per morto.
Qualche parroco aggiunge la lecito divina, le lodi e i ve­spri, l’adorazione eucaristica,
forme di preghiera che, tuttavia, non sono di accesso immediato.
Nel frattempo, la frequenza degli oratori ancora tiene per la fascia dei più piccoli, con
grande soddisfazione delle famiglie e della società civile, mentre diminuisce clamorosa­
mente in riferimento a quella giovanile, innescando altresì un potente effetto a catena:
l’assenza dei giovani avalla, in­fatti, nei più piccoli l’idea che l’oratorio non sia un luogo
per giovani.
I pochi giovani che invece ancora calcano il territorio par­rocchiale vengono a loro volta
«sequestrati» in una qualche forma di servizio a favore dei più piccoli, chiamati pertanto
a trasmettere quella fede in Gesù per la quale essi stessi non si sono ancora decisi.
28
A. Matteo, La prima generazione incredula. Il difficile rapporto tra i giovani e la fede, ed. Rubettino.
63
64
Anche qui l’effetto di codice generale è molto equivoco: una tale prassi ingenera, in
realtà, l’idea che l’«andare in Chiesa» si identifichi immediatamente con il « fa­re le
cose della Chiesa», che cioè la sequela coincida con la dia­conia - cosa che non può non
apparire mediamente onerosa alla prima generazione incredula dell’Occidente. E se uno
proprio non se la sente di fare le «cose della Chiesa», perché dovrebbe continuare ad
andarci?
L’onere eccessivo che l’attuale strutturazione della vita del­le parrocchie comporta
per un parroco medio italiano è poi esso stesso causa della sua impossibilità di un
lavoro sereno e non improvvisato con i giovani: per questo settore di attività non ha
letteralmente tempo né forze. Spostandosi di continuo entro i confini delle sue due-trequattro parrocchie, come po­trebbe trovare un momento libero per andare nelle scuole,
per tenere i contatti con i suoi universitari trasferitisi altrove a stu­diare o con quelli
che hanno preso in affìtto un alloggio nel territorio della sua parrocchia, e ancora per
avvicinare i giova­ni lavoratori? Più semplicemente dove reperire la calma neces­saria
per preparare e avviare un’efficace introduzione al mondo della Sacra Scrittura e della
Liturgia, di cui proprio i gio­vani sono digiuni?
(…) La routine delle parrocchie resta, nel frattempo, domina­ta da pochi anziani che non
hanno nessuna intenzione di met­tere in questione orari di messe, piccole (ormai fuori
dal tem­po) tradizioni religiose, novene, rosari, Gloria e Credo dome­nicali recitati «alla
Schumacher», e che assicurano al curato l’immancabile offerta per i cari genitori, estinti
un secolo fa, per il marito/moglie defunti e per la zia Pina tanto, tanto re­ligiosa e che
ora prega dal cielo per tutti... giovani compresi.
Gli oratori da parte loro sembrano sempre più destinati a di­ventare un «paese» per
bambini, mentre l’assenza di spazi, luoghi e occasioni per giovani, non assediati da ciò
che giusta­mente Sequeri definisce clericali vischiosità, e generosamente offerti per una
possibile decisione di sequela, è sotto gli occhi di chiunque. So di affermare qualcosa
di «politicamente scor­retto», ma l’impressione è quella di una Chiesa non ancora se­
riamente appassionata dell’annuncio del Vangelo alle nuove generazioni.
(…) Il passo da compiere è facilmente enunciabile in linea teorica: ed è quello di trasformare
le comunità ecclesiali in “luoghi” dove si impara a credere e ove si impara a pregare.
Luoghi nei quali si può decidere di credere. Luoghi di generazione alla fede. Luoghi a
misura di quei laboratori della fede, auspicati da Giovanni Paolo II. Luoghi in cui gli stessi
giovani possano affrontare la loro ignoranza rispetto al Gesù del vangelo e al vangelo
di Gesù. (…) Luoghi di respiro, di libertà, di passaggi e di paesaggi da contemplare, da
ammirare, da interrogare e mettere alla prova; luoghi in cui elaborare il disagio culturale
che li attanaglia; luoghi facilmente transitabili, sottratti alla mania clericale della diaconia
a ogni costo, per una sequela possibile. Si tratta, insomma, da parte degli adulti credenti,
di prendere consapevolezza che per i giovani di oggi la fede è una lingua straniera.
65
quarto passaggio
Raccontare e Testimoniare
Luca 24,32-35
Nella comunità i giovani imparano a raccontare la fede.
66
67
Con gli occhi della comunità cristiana
A volte guardando a come si sviluppa e si manifesta la trama delle relazioni umane nelle
nostre parrocchie, sorge una domanda: siamo in grado noi cristiani di comunicarci la
fede, di raccontarci le nostre esperienze spirituali?
I due discepoli sono tornati in fretta da Emmaus a Gerusalemme per raccontare ciò che
avevano vissuto.
Forse prevale ancora in noi una sorta di “pudore” per cui sembra sempre fuori luogo
parlare di Gesù. Chi vorrebbe farlo viene allora etichettato come ‘fanatico’. Di fatto
è abbastanza frequente incontrare persone che trovano in un gruppo particolare o
in un movimento la possibilità di una condivisione spirituale intima e profonda che
in parrocchia non c’è. Siamo più propensi a parlare di aspetti pratici, della sagra da
organizzare o dell’oratorio da ristrutturare.
È troppo immaginare dei cristiani che provano a raccontarsi i segni dell’amore di Dio letti
nei fatti della propria vita?
Il cristiano è chiamato a rendere ragione della speranza che ha dentro.
Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a
chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia
fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché nel momento
stesso in cui si parla male di voi rimangano svergognati quelli che malignano
sulla vostra buona condotta in Cristo. (1 Pt 3,15)
68
Raccogliamo da questa stupenda provocazione di Pietro tre elementi fondamentali per
una comunità che voglia essere testimonianza viva del vangelo.
• Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori. La radice che sostiene e qualifica la nostra
vita cristiana non è una dottrina e neppure un insieme di precetti morali; si tratta
invece di coltivare un rapporto autentico con il Signore Gesù che coinvolga la nostra
interiorità più profonda: il cuore.
• Pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che
è in voi. Nessun intimismo, però; il legame con Gesù non è un affare privato. Il
cristiano deve avere un forte senso di responsabilità nei confronti della propria fede:
è chiamato a rispondere, a rendere ragione della speranza che ha dentro. La fede va
comunicata.
• Questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza. Pietro sottolinea
uno “stile evangelico” per comunicare il vangelo: una coscienza retta, una buona
condotta di vita e un atteggiamento relazionale fatto di dolcezza e rispetto verso
qualsiasi persona: non c’è posto dunque per altro genere di atteggiamenti, come il
fanatismo, il fondamentalismo o il moralismo.
Con gli occhi di un giovane
La fede va comunicata. Ma questo non potrà e non dovrà mai essere un dovere imposto
dall’esterno: è un’esigenza che nasce dal cuore.
Chi ha scoperto Cristo deve portare altri verso di Lui. Una grande gioia non
si può tenere per sé. Bisogna trasmetterla.29
I primi missionari verso i giovani sono i giovani stessi. È un mandato che Giovanni Paolo II
e Benedetto XVI hanno più volte affidato alle nuove generazioni. Molto significativo è stato
l’invio missionario a 72 giovani rappresentanti delle diocesi italiane, delle associazioni e dei
movimenti presenti a Loreto per l’Agorà dei giovani (2 settembre 2007).
Tutto questo va interpretato con un po’ di sano realismo e secondo il principio della
gradualità.
Adolescenti e giovani cercano oggi persone, luoghi, esperienze dove riannodare i fili della
propria esistenza, troppo spesso scompaginata e confusa. Hanno bisogno di incontrare
qualcuno che porti la luce del Risorto negli angoli più oscuri della vita. Attraverso relazioni
umane significative la Parola può diventare anche per loro la “lampada che brilla in un
luogo oscuro”.
Anche i più giovani possono essere testimoni della luce, “sentinelle del mattino”. Ciascuno
può scoprire dentro di sè una gioia da raccontare e da condividere con i propri coetanei.
Ma tutto questo non è scontato, non è automatico, non si improvvisa: ci vuole il tempo e
la fatica di un cammino, ed è sempre necessario poter fare riferimento a una comunità.
29
Omelia di papa Benedetto XVI, GMG di Colonia, 21 agosto 2005
69
70
I due discepoli tornano a Gerusalemme. Hanno bisogno di essere confermati dalla
comunità, la quale però viene arricchita dalla loro testimonianza.
Questa reciprocità tra il discepolo e la comunità può essere descritta con una metafora
cardiaca. Gesù ha fatto ardere il cuore dei due discepoli, e proprio il movimento del cuore
rimane l’immagine più efficace per spiegare la dinamica della testimonianza: un giovane
che si impegna a testimoniare la fede in Gesù nei vari ambiti della sua vita, porta nella
Chiesa un’enorme ricchezza e una forte carica di vitalità. D’altro canto, i giovani hanno
bisogno della comunità, di appartenere a un gruppo, di trovare persone significative e
di vivere esperienze forti per poter incontrare il Signore e rielaborare personalmente una
fede ricevuta da bambini. È un gioco di sistole e diastole!
Ritorna ancora una volta la questione di fondo. Dobbiamo chiederci se i nostri gruppi
parrocchiali sono luoghi che generano alla fede, se sono espressione di una Chiesa
chiamata ad essere “grembo della fede”. Senza questa condizione di partenza non è
possibile lo sviluppo di una missionarietà dei giovani verso i propri coetanei.
L’animatore non può essere una figura improvvisata, senza preparazione, che non
partecipa alla vita della comunità. Vale la pena che sia maggiorenne e che abbia scelto
di seguire il Signore, pur con tutte le fatiche e i dubbi che ci possono essere.
Un ultima sottolineatura. Un giovane che accetta la sfida di raccontare la sua fede ad
altri giovani, non deve mai dimenticare l’atteggiamento con cui Gesù si avvicina ai
due discepoli: la delicatezza, l’ascolto, prendere seriamente in considerazione l’altro,
la sua storia, il suo punto di vista. Il bravo missionario annuncia il vangelo ascoltando,
dialogando; accoglie tutto il positivo che scopre negli altri e parla soprattutto con il
proprio stile di vita. Una testimonianza fatta in modo aggressivo e invadente non avrà
mai sapore evangelico.
Accogliamo la provocazione di Paolo VI che il nostro vescovo ci ha riconsegnato nella
lettera pastorale ai giovani.
Questi cristiani fanno salire nel cuore di coloro che li vedono vivere, domande
irresistibili: perché sono così? Perché vivono in tal modo? Che cosa o chi li
ispira? Perché sono in mezzo a noi? Ebbene, una tale testimonianza è già una
proclamazione silenziosa, ma molto forte ed efficace, della Buona Novella31.
Crediamo sia giunto il momento di fare nelle nostre parrocchie scelte più chiare e
coraggiose per quanto riguarda gli animatori e gli educatori.
Educatori poco inclini a camminare insieme e a mettersi in questione sulle
proprie scelte di vita, in rapporto al vangelo, restano interlocutori non
credibili e non autorevoli30.
30
Mons. Cesare Nosiglia, Il cuore ci ardeva nel petto…, Lettera pastorale ai giovani, pagg. 8-9.
31
Mons. Cesare Nosiglia, Il cuore ci ardeva nel petto…, Lettera pastorale ai giovani, pag. 25
71
CONCRETAMENTE
Quali sono oggi i luoghi e le modalità con cui un giovane racconta la
sua esperienza di fede ad altri giovani?
72
• La missione parte dalla coscienza. Nella Bibbia viene chiamata “cuore”. È il “vivere
dentro” che ci ha indicato con forza Giovanni Paolo II, il luogo in cui custodire e
rileggere gli eventi, le emozioni, gli incontri, le parole, i gesti. La coscienza passa
al setaccio tutto questo per capire ciò che nella nostra vita è prezioso e merita di
essere custodito. Tale operazione si chiama discernimento. Attraverso questo lavoro
interiore illuminato dalla Parola di Dio e dal confronto con una guida spirituale, è
possibile che i grandi ideali e i valori astratti si traducano in scelte concrete. E sono
le scelte che rivelano il nostro stile di vita e che permettono anche a un giovane di
essere credibile.
• C’è un luogo insostituibile grazie al quale un giovane ha la possibilità di condividere
con i suoi coetanei la propria vita interiore; si tratta dell’amicizia, del dialogo
interpersonale. Quando si parla a tu per tu con un amico o con un gruppo ristretto di
persone, è possibile che il dialogo vada in profondità e ci si sente liberi di raccontare
esperienze forti, di regalare, prestare o suggerire un libro che ci ha fatto bene, di
invitare personalmente qualcuno a condividere un’esperienza.
• Uno dei frutti del Sinodo è la nascita della Fiaccola: un’equipe di giovani appartenenti
ad associazioni e movimenti diversi collegata alle Sentinelle del mattino32.
Questo gruppetto lavora per promuovere esperienze di primo annuncio che provocano
i giovani a risvegliare quel mandato missionario che scaturisce dal Battesimo e
diventare evangelizzatori verso i propri coetanei. Una luce nella notte è la proposta
già ben collaudata da cui siamo partiti: un’iniziativa attuabile solo nei grossi centri
quando si popolano di giovani nelle ore serali e notturne; una Chiesa aperta per
l’adorazione eucaristica e un buon numero di giovani cui vengono affidati ministeri
diversi: andare a due a due per le strade a incontrare personalmente i coetanei
per rivolgere l’invito ad entrare in Chiesa; rimanere in Chiesa per la preghiera di
intercessione; animare con la musica, il canto, alcuni versetti della Scrittura che
vengono proclamati; accogliere le persone che entrano in Chiesa e accompagnarle a
vivere un incontro personale con Gesù. Si tratta di un’opportunità molto aperta: di
volta in volta possono liberamente essere coinvolti tutti quei giovani che accettano
la sfida di metterci la faccia per portare un annuncio ai coetanei.
• L’indagine “C’è campo?” si chiude con una provocazione che merita di essere ripresa.
Quello che probabilmente potrebbe incontrare l’interesse oggi è la possibilità
di incrociare luoghi “neutri”, dove la scoperta e la cura di sé possano
interloquire con le domande radicali, senza che vi sia la preoccupazione di
giungere a una conclusione prestabilita; luoghi dove gli interessati potrebbero
anche esplorare la fede cristiana, ma in modo diverso da quello già vissuto
e senza un risultato prestabilito. Un qualcosa di simile al “cortile dei gentili”
32
Si tratta di un progetto di primo annuncio nato a Verona dopo il giubileo del 2000. L’obiettivo è
supportare le diocesi perché i giovani diventino protagonisti dell’evangelizzazione dei loro coetanei.
Cfr. www.sentinelledelmattino.org.
73
forse, (…) un luogo capace di interloquire in forme nuove con le domande
spirituali dei giovani d’oggi33.
74
La Pastorale Giovanile dovrà sempre più interrogarsi a partire da questa provocazione.
Quali potrebbero essere i luoghi neutri, il “cortile dei gentili” dove i ‘dimoranti’ e i
‘cercatori’ (termini usati dal prof. Castegnaro) si possano incontrare in territori aperti,
non etichettati in partenza, e dove le potenzialità del cristianesimo riappaiano in una
cornice nuova e stimolante?
Non siamo all’anno zero. Durante il sinodo sono state avviate alcune sperimentazioni.
Ne citiamo due a mo’ di esempio.
1. I viaggi a Palermo grazie al progetto legalità hanno permesso ad alcuni studenti
delle superiori (con riferimenti culturali e religiosi molto diversificati) di vivere
un’esperienza formativa a 360°, incontrando una pluralità di testimonianze, alcune
con una evidente matrice cristiana.
2. La musica è un ponte eccezionale; anche il testo di una semplice canzone produce
sintonie spirituali tra persone che hanno storie e appartenenze diverse. Radiovigiova
in questi anni è stato un laboratorio: centinaia di giovani – la maggior parte dei quali
estranei agli ambienti ecclesiali – si sono incontrati, raccontati, ascoltati a partire da
tutto ciò che la musica è in grado di attivare.
Radiovigiova è un programma radiofonico che provoca i giovani a cercare connessioni
importanti tra i testi delle canzoni e tutti gli altri testi che riempiono la vita di
significato, non ultimi quei testi che per noi sono Parola di Dio.
33
Alessandro Castegnaro (a cura di), C’è campo? Giovani, spiritualità, religione, pp. 603-604.
Racconti di VITA
Giulia, che ha conosciuto le Sentinelle del mattino ed è responsabile della “fiaccola”, ci
racconta che cosa significa per lei testimoniare la sua fede.
Come quando si è felici e non si riesce a trattenere il sorriso, come quando arriva una
bella notizia e non si può non dirla a chi ci è vicino...
La fede per me è stato un dono immenso, del quale gioisco ogni giorno e che sento il
bisogno di condividere. E’ una Persona incontrata che ha lasciato un segno indelebile
nella mia vita: mi sento amata, perdonata, protetta, guidata.
Coltivo la mia fede con momenti forti di preghiera, di Ascolto della Parola, di silenzio,
nell’Eucaristia. Ma non posso limitarmi a tenerla per me, perchè è un messaggio d’amore
troppo importante.
La mia testimonianza può dare voce a Dio che vuole incontrare i cuori. Il mio servire in
parrocchia come animatrice, il mio vivere la famiglia e il matrimonio, il mio agire, il mio
rapporto con gli altri, l’esperienza delle Sentinelle del mattino, il mio lavoro, tutto di me
parla di Lui alle persone che incontro.
La fede non è una scorciatoia, non elimina le difficoltà ma certamente aiuta ad affrontarle
e a superarle, con la certezza che a farlo non siamo mai soli ma c’è la presenza costante
di Dio che vuole il nostro bene e la nostra felicità.
Ringrazio il Signore per avermi voluto incontrare e lo prego ogni giorno perchè io possa
sentire viva la sua presenza e sappia essere una cristiana capace di una testimonianza
credibile e gioiosa, perchè chi mi è accanto conosca o riconosca un Dio capace di servire
fino al dono della propria vita per amore.
Giulia
75
Giacomo e Giampietro sono giovani che hanno deciso di spendersi in un ambito in cui la
testimonianza cristiana si fa esigente: l’impegno socio-politico.
76
Un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova: “Maestro, che devo fare per
ereditare la vita eterna?”. Gesù gli disse: “Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi
leggi?”. Costui rispose: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua
anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso”. E
Gesù: “Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai” (Mt 10,25-28). In questo passo del Vangelo
di Matteo Gesù spiega quale sia il comandamento alla base della fede cristiana: amare
Dio con tutta l’anima e il prossimo come se stessi. Sta proprio in questo passo la genesi
e la ragione più profonda del mio impegno in politica e di quello di ogni credente che
si dedichi all’associazionismo, al volontariato, alla politica. C’è una famosa parabola,
una tra le più difficili e dure che Gesù ci abbia lasciato, che parla di talenti. Leggendola,
lascia basiti la durezza con la quale il padrone caccia e insulta il servitore che non ha
tentato di mettere a frutto le monete che il suo padrone gli aveva consegnato prima di
partire. Sorprendono, al contrario, gli elogi che il padrone destina agli altri due servitori
che hanno ricavato una rendita dalle monete che avevano ricevuto. Non posso, nessuno
di noi può, non essere interrogato da una storia come questa. Gesù ci dice che chiunque
sia grado (o creda di esserlo) di mettere la sua passione e le sue capacità a frutto in un
certo ambito, sia quello lavorativo, associativo o politico, ha il dovere (non la possibilità)
di farlo. Sino ad oggi mi è sembrato che il luogo giusto per mettere a frutto il mio
tempo e il mio impegno fosse la politica. Posso essermi sbagliato e scoprire fra dieci o
cinquant’anni che dovevo dedicarmi ad altro, ma sto provando a mettere a frutto i miei
talenti. Se l’investimento è quello giusto lo capirò con il tempo. E questo vale per ogni
credente, ciascuno secondo il carisma che ha deciso di seguire: chi nella politica, chi
nella realtà della Chiesa, chi nel mondo del volontariato, chi in famiglia. Anche la politica,
che oggi ci appare come un mondo “sporco” dominato da ben altre logiche dell’amore
verso il prossimo, se vissuta cristianamente, non può non essere un servizio agli altri.
In quali altri campi, più che nella politica, è possibile rendere concrete fino in fondo le
parole di Gesù, riportate dall‘evangelista Matteo? Un cristiano non può voltarsi dall’altra
parte vedendo il corpo del samaritano a terra, non può far finta di niente davanti alle
ingiustizie o ignorare scientemente i bisogni degli altri. Ha il dovere di interrogarsi, di
preoccuparsi e di intervenire in loro aiuto e questo atteggiamento di fronte alla vita
ha il dovere di portarlo anche nel suo impegno in politica. La “politica ideale”, quella
che vorrei e che tutti vorremmo, è cura del Bene Comune, impegno nell’appianare le
disparità sociali e culturali tra gli uomini, attenzione alle necessità dei più deboli. Ma la
politica, come ogni attività umana, non è e non sarà mai perfetta, essendo esposta alle
tentazioni, alle invidie e agli egoismi, di cui tutti noi, essendo uomini, prima o poi siamo
preda. La politica è disseminata di tentazioni: compromessi, scorciatoie, situazioni da
accomodare. Anche Gesù fu tentato da Satana nel deserto, perché mai noi dovremmo
esserne immuni? Ma il cristiano non è colui che non pecca, ma chi comprende il suo
peccato e chiede perdono. De Gasperi e Don Sturzo, Giorgio La Pira e Aldo Moro, Don
Tonino Bello e Don Lorenzo Milani: la storia del nostro Paese è piena di uomini di
fede che direttamente, come De Gasperi e Aldo Moro, o indirettamente, dall‘esterno,
formando le conoscenze e le coscienze dei giovani, come Don Tonino Bello e Don Milani,
hanno profuso ogni loro energia perché la politica potesse diventare davvero un servizio
verso chi ha più bisogno. E’ anche grazie a loro che, nonostante tutto, “ama il prossimo
tuo come te stesso” è ancora il messaggio più attuale che ci sia, una sorta di fiammella
in una stanza buia: sta anche a noi non consentire che questa fiammella si spenga.
Giacomo
77
78
Iniziai a interessarmi di politica sei anni fa, all’età di vent’anni, quando, dopo essermi
candidato alle elezioni comunali del mio paese, Schiavon, ottenni un seggio in Consiglio
Comunale, in qualità di consigliere con delega alle politiche giovanili.
Affrontai la sfida un po’ per gioco, un po’ per mettermi alla prova, ma soprattutto per fare
in modo che l’istituzione a me più vicina, il Comune, operasse tra i giovani, con i giovani e
per i giovani, secondo lo spirito di Don Bosco. Una volta eletto, però, la gioia per il risultato
ottenuto venne presto affiancata da un senso di smarrimento quando mi accorsi che, se da
un lato conoscevo bene la meta che volevo raggiungere, dall’altro non sapevo proprio che
strada intraprendere per arrivarci. Fu in quel momento che mi affidai a Dio: Lui mi aveva
voluto in Consiglio Comunale a soli vent’anni, e Lui mi avrebbe indicato anche la strada
da percorrere. E accadde proprio così! Un giorno, confrontandomi con un mio compagno di
Università, venni a sapere che nel suo Comune c’era un Consiglio Comunale dei giovani.
Colsi subito l’idea, e a meno di un anno dall’elezione, l’Amministrazione Comunale
approvò all’unanimità lo Statuto di quella che tuttora è conosciuta come Consulta Giovani
del Comune di Schiavon.
Da questa associazione, che era ed è prima di tutto un gruppo di giovani, nacquero ben
presto iniziative nuove e coinvolgenti di carattere sportivo, formativo e culturale. Il mio
obiettivo sembrava raggiunto, il mio sogno diventato realtà! Ma ben presto capii che non
era sufficiente quanto avevo fatto: quel gruppo di giovani, cui mi sentivo tanto legato,
aveva bisogno di essere guidato, aiutato, supportato per un periodo sufficientemente
lungo prima che potesse camminare autonomamente. Il mio obiettivo iniziale venne così
rimpiazzato da un altro ben più impegnativo e difficile da raggiungere, perché legato
a parole come quotidianità, costanza, fiducia reciproca, dono di sé, rispetto dell’altro,
sacrificio, che nel momento in cui vengono vissute necessitano di far morire un po’ se
stessi per far nascere qualcosa di più grande.
Continuai a seguire la Consulta Giovani per quattro anni, fino alla scadenza del mio mandato
da Consigliere. Durante l’ultimo anno, dopo aver deciso che non mi sarei candidato alle
elezioni del 2009, per motivi che non mi avrebbero permesso di svolgere come volevo il
compito che i cittadini avrebbero potuto affidarmi, lavorai molto con i giovani per evitare
che in mia assenza tutto andasse perduto. Vedere che a più di un anno dalle ultime
elezioni la Consulta Giovani rimane ancora un’importante associazione del territorio mi
riempie il cuore di gioia!
Credo che l’esperienza da Consigliere Comunale mi abbia aiutato a capire un po’ di più
come deve comportarsi un giovane, ma anche un adulto, che decide di impiegare il suo
tempo mettendolo a servizio della comunità civile cui appartiene.
Innanzitutto penso sia necessario mettersi completamente in gioco, confrontandosi con
il mondo politico in modo mite e sereno, ma al contempo dimostrandosi convinti delle
proprie idee e dei propri valori, anche quando alcune situazioni indurrebbero a reagire in
modo più acceso e scontroso.
Sono convinto poi che sia molto importante saper essere continuativi nel tempo, nei propri
ideali e nelle proprie azioni, anche se ciò necessita di molta pazienza, impegno e forza
d’animo.
Infine penso sia un segno di grande maturità l’essere in grado di capire quand’è ora di
lasciare ad un’altra persona il proprio compito, il proprio incarico, la propria missione, per
rispetto di se stessi ma soprattutto dei cittadini, cui si deve il proprio ruolo.
Forse solo quando tutti questi aspetti convivono si può dire, come affermava Paolo VI, che
“la politica è la più alta forma di carità”, una carità fondata sulla fede in Dio e volta a dare
speranza al mondo.
Giampietro
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Serena ci racconta il suo desiderio di testimoniare la fede nell’ambiente universitario.
80
Sono in treno all’altezza di Monselice. I-pod alle orecchie, sguardo fisso fuori dal
finestrino. Ogni tanto ascolto le chiacchiere delle persone sedute vicino a me, o guardo
la mamma che si coccola il suo bambino, osservo una donna africana in mezzo a tanti
italiani, penso ai miei esami, a cosa devo fare tornata a casa, dopo un po’ di riposo.
È così la mia vita anche all’inizio di questo terzo anno universitario. Ricomincia tutto
e si torna alla normalità, come dev’essere. Sveglia presto, treni e coincidenze, lezioni
e pranzi con i miei compagni di corso, città nuova, con materie e professori sempre
nuovi.
Una corsa quotidiana per trovare la mia strada, per costruirmi un futuro, per arrivare
a realizzare i miei sogni. Rischiando, cercando di mettercela tutta, perché quello che
faccio sembra essere proprio il mio sogno. Cercando un equilibrio, cercando la forza, la
determinazione, la speranza per la mia vita, i miei progetti e prima di tutto per me come
giovane. E questo tutto che mi aiuta, che mi fa andare avanti ogni giorno e mi fa sentire
VIVA è la mia fede!! Un regalo dei miei genitori, della mia famiglia. Costruita e coltivata
con una serie di esperienze, di scelte, e sempre più confermata con convinzione, perché
per me essenziale.
La stessa scelta universitaria è stata un po’ dettata dai miei valori, come le attività del
mio tempo libero, le persone che frequento, le amicizie. Cerco di mettere davanti a tutto
i miei valori. E tra i miei valori rientra questo Amore grande per Dio, che mi fa vivere con
gioia, con forza, che mi fa riconoscere la Sua presenza negli altri, in ciò che mi succede,
che risponde a tante mie domande, che mi fa sentire viva e amata.
Nella mia quotidianità dimostro questa Luce con il mio atteggiamento, e mi sento
testimone di Dio ogni qualvolta cerco di prendere una scelta in nome Suo. Quando
ascolto, quando parlo, quando condivido, trasmetto questa mia fede. Una fede che è
quasi più un atteggiamento, un comportamento, che ormai indosso e che mi fa sentire
me stessa solo quando agisco in maniera consona a esso.
Parlo di Dio con gli amici, ci parliamo degli impegni diocesani, ci consigliamo libri,
partecipiamo a iniziative missionarie. Vado pure alle feste, ci divertiamo, ma in modo
semplice e genuino, rispettando noi stessi.
Sento che Colui che vive dentro di me mi chiede di fare il bene e di farlo bene, e cerco
di percorrere la strada che mi porti a questo compimento. Rispondo di sì quando certi
amici mi chiedono di dedicargli del tempo, quando in parrocchia mi chiedono un aiuto,
quando a scuola si parla di prendersi cura delle persone. Cerco di fare del mio tempo un
servizio. Perché fa stare bene me e credo faccia bene anche agli altri.
Quelli che mi conoscono credo riescano a cogliere la Luce che mi abita.
A volte con difficoltà. Ho appena vissuto un’esperienza di studio in Portogallo. Lì ho
conosciuto davvero persone di tutto il mondo, con fedi diverse, ma anche con valori
molto diversi. È stato difficilissimo condividere esperienze, emozioni, considerazioni con
persone che hanno una scala di valori completamente differente. È difficile dire che vuoi
tornare presto la sera perché al mattino vuoi alzarti per andare a Messa. È difficile dire:
“io non voglio provare, grazie!”, pur sapendo che così non ti chiameranno più ad uscire,
ma è anche bello poi vedere come Dio ti fa conoscere le persone giuste.
Sto studiando per seguire la mia strada, per fare il bene, per essere una donna e una
futura professionista migliore. Studio accompagnata sempre da un’educazione cristiana.
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E credo che la mia più grande testimonianza di fede è essere me stessa, con i miei
valori e le mie priorità, è scegliere e agire in nome di Dio. Questa è la mia vita ora, da
studentessa, ma da studentessa coerente, che si sacrifica, che discerne, che testimonia
e che vive la gioia di credere in Dio.
Serena
[PER APPROFONDIRE]
Ascoltiamo un grande maestro, che ha saputo dire ai giovani parole coraggiose e
profetiche, grazie a un amore intenso per la Scrittura: il cardinale Carlo Maria Martini
Da Liberi di credere. I giovani verso una fede consapevole34
L
pp. 121-122
a voce dei profeti è dunque «come lampada che brilla in luogo oscuro» e, dal
momento che ho chiesto a tutti voi di essere profeti nella Chiesa, questa lampada
siete voi. Essa brilla, dice ancora Pietro, «finché non spunti il giorno e la stella del
mattino si levi nei vostri cuori» (2Pt 1, 19): è il richiamo alle sentinelle del mattino
che scrutano l’apparire del giorno e il segno della luce.
Questa è dunque l’immagine proposta dal testo, una immagine che fa subito pensare
al motivo del contrasto che si crea tra la fiamma e l’oscurità. La fiamma, infatti, è
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C.M. Martini, Liberi di credere. I giovani verso una fede consapevole, Ed. In Dialogo.
piccola, mentre l’oscurità della notte è grande. La fiamma è tremula, debole, fragile, a
rischio: basta un niente per spegnerla. La notte e l’oscurità, invece, sono qualcosa di
automatico: il buio è solido, va da sé.
La fiamma della lampada va nutrita, coltivata. Al contrario, il buio non ha bisogno di
niente perché cala da solo e rimane.
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Eppure questa piccolissima realtà che è la fiamma risulta vincente: vince qualunque
buio, splende nelle tenebre, è la luce che viene nel mondo. Anche piccolissima, una
fiamma vince l’oscurità, è sempre vittoriosa sulla notte. È questo ciò che sento: siamo
una fiamma piccola, apparentemente fragile, insignificante; lo sono io, lo siete voi, lo è
anche la Chiesa nel mondo. Ma questa fiamma fa risplendere una luce nella notte, è un
segno di speranza, la si vede anche da lontano: è ricca, piena di calore, infonde fiducia,
apre nuovi orizzonti. Siate questa fiamma! Siate questa lampada!
Abbiate coscienza che essere una tale fiamma significa portare salvezza per il mondo.
Siate coscienti che una fiamma, anche se piccola, vince la notte.
Per concludere … anzi, per RIPARTIRE
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Siamo incamminati verso un cristianesimo scelto. Il futuro della religione
è oggi affidato molto più di un tempo alla molteplicità di infiniti percorsi
individuali ed alla possibilità che questi percorsi dialoghino in certi
momenti, per certi tratti, o più stabilmente con una tradizione religiosa.
(…) Da dove potrebbe iniziare un nuovo modo di porsi?
Esplicitamente sollecitati ad esprimersi, i giovani che abbiamo
incontrato una indicazione su questo l’hanno data, nella forma
di un messaggio che ha del festoso: «aprite le porte!»35
Qui peserà il modo di essere e di porsi rispetto ai “cercatori” di quelli
che sentono di appartenere a una comunità di credenti, i “dimoranti”;
conterà cioè la capacità di questi ultimi di essere minoranza attiva in
grado di sviluppare rapporti cordiali e significativi con gli altri giovani, e
di non rinchiudersi in gruppi rifugio, più desiderosi di caratterizzarsi che
di comunicare, o troppo convinti delle proprie verità per dialogare con
il dubbio.
È una metafora molto evocativa. (…) Rappresenta un modo per dire
che è chi sta dietro quelle porte che deve uscire (dalle chiese e dalle
canoniche), per vivere in mezzo agli altri e così capirne le ragioni.
E peserà l’atteggiamento dell’istituzione, se essa sarà cioè disattenta o
partecipe, ispirata più al giudizio e alla chiusura, che all’apertura e alla
comprensione.
Vuole dire che è necessario aprirsi, avvicinarsi, andare incontro, non
restare racchiusi nelle proprie certezze, essere disponibili a cambiare.
Indica che non sono i giovani a dover tornare nella Chiesa; è piuttosto
questa che deve ritornare tra i giovani. Significa infine «aprite gli occhi»,
“non rifiutatevi di guardare in faccia la realtà”, “uscite da voi stessi”.
Aprite le porte dunque, le porte delle chiese, ma anche quelle del vostro
animo.
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da C’è campo? Giovani, spiritualità, religione, p. 603.
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Siamo incamminati verso un cristianesimo scelto. Il futuro della religione è oggi
affidato molto più di un tempo alla molteplicità di infiniti percorsi individuali ed alla
possibilità che questi percorsi dialoghino in certi momenti, per certi tratti, o più
stabilmente con una tradizione religiosa.
disponibili a cambiare. Indica che non sono i giovani a dover tornare nella Chiesa;
è piuttosto questa che deve ritornare tra i giovani. Significa infine «aprite gli occhi»,
“non rifiutatevi di guardare in faccia la realtà”, “uscite da voi stessi”. Aprite le porte
dunque, le porte delle chiese, ma anche quelle del vostro animo.
Qui peserà il modo di essere e di porsi rispetto ai “cercatori” di quelli che sentono
di appartenere a una comunità di credenti, i “dimoranti”; conterà cioè la capacità
di questi ultimi di essere minoranza attiva in grado di sviluppare rapporti cordiali e
significativi con gli altri giovani, e di non rinchiudersi in gruppi rifugio, più desiderosi
di caratterizzarsi che di comunicare, o troppo convinti delle proprie verità per
dialogare con il dubbio. E peserà l’atteggiamento dell’istituzione, se essa sarà cioè
disattenta o partecipe, ispirata più al giudizio e alla chiusura, che all’apertura e alla
comprensione.
È chi sta dietro quelle porte che deve uscire (dalle chiese e dalle canoniche), per
vivere in mezzo agli altri e così capirne le ragioni. Vuole dire che è necessario aprirsi,
avvicinarsi, andare incontro, non restare racchiusi nelle proprie certezze, essere
disponibili a cambiare. Indica che non sono i giovani a dover tornare nella Chiesa;
è piuttosto questa che deve ritornare tra i giovani. Significa infine «aprite gli occhi»,
“non rifiutatevi di guardare in faccia la realtà”, “uscite da voi stessi”. Aprite le porte
dunque, le porte delle chiese, ma anche quelle del vostro animo.
(…) Da dove potrebbe iniziare un nuovo modo di porsi? Esplicitamente
sollecitati ad esprimersi, i giovani che abbiamo incontrato una indicazione
su questo l’hanno data, nella forma di un messaggio che ha del festoso:
«aprite le porte!»35.
A cura dell’equipe diocesana per il Sinodo dei Giovani
Ufficio Diocesano Pastorale Giovanile - Diocesi di Vicenza
10 ottobre 2010
È una metafora molto evocativa. (…) Rappresenta un modo per dire che è chi
sta dietro quelle porte che deve uscire (dalle chiese e dalle canoniche), per vivere
in mezzo agli altri e così capirne le ragioni. Vuole dire che è necessario aprirsi,
avvicinarsi, andare incontro, non restare racchiusi nelle proprie certezze, essere
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da C’è campo?, pag. 603
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