L`esodo dall`Indocina

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L`esodo dall`Indocina
Flight from Indochina
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L’esodo dall’Indocina
Gli sconvolgimenti seguiti alle vittorie comuniste, nel 1975, nelle ex colonie francesi dell’Indocina – Viet Nam, Cambogia e Laos – causarono la fuga, nei due decenni successivi, di più di tre milioni di persone. Il prolungato esodo di massa dalla
regione e l’energica risposta internazionale alla crisi spinsero l’Unhcr in un ruolo di
agenzia leader, in un’operazione umanitaria complessa, costosa e di grande impatto
mediatico. Quando, nel 1975, i primi rifugiati fuggirono dal Viet Nam, dalla
Cambogia e dal Laos, il totale del bilancio annuale dell’Unhcr, a livello mondiale,
era inferiore a 80 milioni di dollari l’anno. Nel 1980, tale cifra era passata a oltre
500 milioni di dollari 1.
Gli esodi di popolazione provocati dai conflitti dell’Indocina, esacerbati dalla
rivalità fra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, come pure con la Cina, misero alla
prova, fino al punto di rottura, la capacità degli stati della regione di assorbire i rifugiati. Misero, inoltre, alla prova l’impegno degli stati occidentali per il reinsediamento dei rifugiati che fuggivano dal comunismo. Alla fine, riunirono gli stati interessati nella ricerca di soluzioni. Nel caso del Viet Nam, fu ideato l’Orderly Departure
Programme (programma di partenze organizzate), in base al quale le autorità vietnamite accettarono di consentire la partenza pianificata verso i paesi di reinsediamento, per evitare le partenze per mare, clandestine e pericolose. Il programma costituì
la prima occasione in cui l’Unhcr partecipò ad iniziative volte a prevenire un problema di rifugiati, anziché limitarsi a far fronte alle sue conseguenze. Altri programmi innovativi comprendevano misure contro la pirateria e per il salvataggio in
mare dei boat people vietnamiti.
Durante le prime fasi della crisi, il reinsediamento dei rifugiati in paesi esterni alla
regione costituì una soluzione che riduceva la pressione sui paesi di primo asilo. Negli
anni ’80, tuttavia, col passare del tempo i governi occidentali erano sempre più preoccupati per il gran numero di rifugiati che arrivavano nei loro paesi. Erano divenuti,
inoltre, più sospettosi circa le motivazioni della loro partenza, considerandone molti
come migranti economici piuttosto che rifugiati. Si sentì sempre più spesso affermare che il reinsediamento a tempo indeterminato perpetuava la necessità dell’asilo. A
partire dal 1989, quindi, furono adottate nuove misure, nel quadro di un “Piano d’azione globale”, per regolamentare le partenze e nel contempo incoraggiare e facilitare il rimpatrio dei richiedenti asilo della regione. Si trattò di una vera svolta negli
orientamenti occidentali circa il fenomeno dei rifugiati. Come le future crisi degli
anni ’80 avrebbero dimostrato fin troppo chiaramente, i paesi occidentali, pur sostenendo il principio dell’asilo, non erano più disposti a prevedere il reinsediamento in
massa dei rifugiati.
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I RIFUGIATI NEL MONDO
L’esodo dall’Indocina, 1975–95
Cartina 4.1
REPUBBLICA POPOLARE DEMOCRATICA DI COREA
Mar del
Giappone
REPUBBLICA DI COREA
GIAPPONE
REPUBBLICA POPOLARE CINESE
NEPAL
BHUTAN
REPUBBLICA
DEMOCRATICA
DEMOCRATICA
POPOLARE DEL
LAOS
LAOS
BANGLADESH
INDIA
Mar
Cinese
Orientale
HONG KONG
VIET NAM
MYANMAR
MACAO
MACAU
MACAU
OCEANO PACIFICO
THAILANDIA
CAMBOGIA
FILIPPINE
Mar Cinese
meridionale
BRUNEI
DARUSSALAM
0
MALAYSIA
OCEANO INDIANO
500
1000
Chilometri
MALAYSIA
SINGAPORE
INDONESIA
INDONESIA
LEGGENDA
Mar di Giava
Confine di stato
Movimento di rifugiati
Mar degli Arafura
La guerra e l’esodo dal Viet Nam
I trent’anni di guerra quasi ininterrotta che tormentarono il Viet Nam, dal 1945 al
1975, furono contrassegnati da terribili sofferenze e massicci esodi di popolazione. A
seguito della sconfitta francese di Dien Bien Phu, nel maggio 1954, la prima guerra
indocinese si concluse con la creazione di uno stato comunista nel nord (la Repubblica
democratica del Viet Nam, chiamata anche Viet Nam del nord) e uno stato separato nel
sud (la Repubblica del Viet Nam, nota anche come Viet Nam del sud). Con l’insediamento nel nord di un governo comunista, oltre un milione di persone, fra il 1954 e il
1956, si trasferì a sud. Fra loro erano quasi 800mila i cattolici, i due terzi circa della
popolazione cattolica totale del nord. Si ebbe anche un più ridotto trasferimento nella
direzione opposta, con circa 130mila sostenitori del movimento comunista del Viet
Minh che furono trasportati a nord, a bordo di navi polacche e sovietiche 2.
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L’esodo dall’Indocina
Nel 1960 ripresero i combattimenti nel Viet Nam del sud. Le forze anticomuniste,
appoggiate dagli Stati Uniti, che finirono con l’inviare oltre 500mila uomini, cercavano di arrestare la penetrazione nel Sudest asiatico del comunismo, sostenuto da sovietici e cinesi. La guerra del Viet Nam provocò sempre maggiori ondate di esodi, in tutti
e tre i paesi dell’Indocina. Questo fu perlopiù interno, ma in alcuni casi debordò dalle
frontiere nazionali, come nel caso dei “khmer del delta”, che fuggì in Cambogia in
cerca di scampo dai combattimenti nel Viet Nam 3. Alla fine degli anni ’60, nel pieno
della guerra, si calcola che la metà dei 20 milioni di abitanti del sud fosse stata costretta all’esodo 4.
L’accordo di pace di Parigi, del 27 gennaio 1973, pose temporaneamente fine al
conflitto, aprendo la porta a un ruolo maggiore per l’Unhcr, che lanciò un programma da 12 milioni di dollari per assistere gli sfollati nel Viet Nam e nel Laos, con progetti di ricostruzione. Il programma fu rapidamente eclissato, però, dalla ripresa delle
ostilità, all’inizio del 1975, e dalla caduta di Saigon nelle mani delle forze rivoluzionarie, il 30 aprile. Lo stesso anno, dei regimi comunisti si insediavano nei due paesi
limitrofi, il Laos e la Cambogia.
A differenza del movimento ultra-estremista dei khmer rossi, che nell’aprile 1975
prese il controllo della Cambogia, dei dirigenti più convenzionali, filosovietici, conquistarono il potere nel Viet Nam e nel Laos. Grazie al suo precedente intervento nei
due paesi, prima dell’aprile 1975, l’Unhcr fu in grado di mantenere i contatti con i
governi di Hanoi e Vientiane rispettivamente. L’Alto Commissario Sadruddin Aga Khan
visitò nel settembre 1975 entrambi i paesi, ispezionando progetti realizzati dall’Unhcr
per aiutare gli sfollati di guerra a far ritorno alle loro case.
Nel nord del Viet Nam, l’Unhcr fornì aiuti all’agricoltura, alla sanità e alla ricostruzione, per una parte dei 2,7 milioni di sfollati. Molti di essi erano fuggiti dai combattimenti del sud, mentre altri erano stati strappati alle loro case dai bombardamenti americani sul nord, fra il 1965 e il 1972. Nel sud, l’Unhcr fornì oltre 20mila tonnellate di viveri e altri soccorsi a milioni di sfollati, che cercavano di rifarsi una vita
dopo la guerra.
La caduta di Saigon
Progressivamente l’Unhcr spostò sempre più il centro della propria attività di assistenza
agli sfollati nel Viet Nam, all’aiuto a coloro che erano fuggiti dal paese. Negli ultimi giorni che precedettero la caduta di Saigon, nell’aprile 1975, circa 140mila vietnamiti, strettamente legati al precedente governo del Viet Nam del sud, furono evacuati dal paese e
reinsediati negli Stati Uniti. L’evacuazione, organizzata dagli stessi americani, fu seguita
da un esodo più ridotto di vietnamiti che riuscirono a raggiungere, via mare e con mezzi
propri, alcuni paesi vicini del Sudest asiatico. Alla fine del 1975, ne erano arrivati circa
5mila in Thailandia, 4mila a Hong Kong, 1.800 a Singapore e 1.250 nelle Filippine.
La prima reazione dell’Unhcr fu di trattare quei movimenti come degli strascichi
della guerra, anziché come l’inizio di una nuova crisi di rifugiati. Nel novembre 1975,
in un appello per raccogliere finanziamenti, l’Alto Commissario Sadruddin Aga Khan
sottolineò che i programmi per i vietnamiti e i laotiani rimasti nel loro paese o che
ne erano fuggiti rappresentavano “azioni umanitarie fra loro collegate, destinate ad
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I RIFUGIATI NEL MONDO
assistere coloro che erano stati più gravemente sradicati dalla guerra e dalle sue conseguenze” 5.
Col crescere del malcontento nei confronti del nuovo regime comunista, però,
aumentava anche il numero di quanti abbandonavano il paese. Nel giugno 1976, il
governo di Hanoi privò il governo rivoluzionario provvisorio, costituito nel sud dopo
la caduta di Saigon, di ogni residuo di autonomia, unificando il paese col nome di
Repubblica socialista del Viet Nam. Varò, inoltre, un programma per il reinsediamento degli abitanti delle città nelle campagne, nelle cosidette “nuove zone economiche”.
Oltre un milione di persone fu internato in “campi di rieducazione”; molte vi morirono, mentre altre decine di migliaia vi avrebbero languito sino alla fine degli anni
’80. Col passare del tempo, d’altra parte, apparve chiaro che il predominio della popolazione di origine cinese nel settore privato dell’economia era contrario alla visione
socialista delle nuove autorità.
All’inizio del 1978, furono formalmente adottate misure per espropriare le imprese appartenenti a privati, in maggioranza cinesi. Tali azioni coincisero con un marcato
deterioramento nei rapporti fra il Viet Nam e la Cina, che a sua volta rifletteva i rapporti sempre più tesi del Viet Nam stesso con l’alleato della Cina, la Cambogia. La posizione ufficiale delle autorità nei confronti degli abitanti di origine cinese (noti col
nome di “hoa”) divenne sempre più ostile. Nel febbraio 1979, le forze cinesi attaccarono delle zone di frontiera vietnamite, e i rapporti normali ripresero soltanto un
decennio dopo.
Nel 1977, circa 15 mila vietnamiti chiesero asilo in paesi del Sudest asiatico. Alla
fine del 1978, il numero degli esuli fuggiti a bordo di imbarcazioni era quadruplicato
e il 70% di loro era costituito da vietnamiti di origine cinese. Molti altri loro connazionali della stessa origine si rifugiarono nella stessa Cina. Provenivano principalmente
dal nord del Viet Nam, dove vivevano da decenni ed erano in maggioranza modesti
pescatori, artigiani e contadini. In seguito la Cina lanciò un progetto per sistemare i
rifugiati in aziende agricole di stato, nel sud del paese. L’Unhcr vi collaborò con una
donazione di 8,5 milioni di dollari alle autorità cinesi e con l’apertura di un ufficio a
Pechino. Alla fine del 1979, oltre 250mila abitanti del Viet Nam si erano rifugiati in
Cina 6. La Cina fu praticamente l’unico paese dell’area del Sudest asiatico che concesse
non solo l’asilo, ma anche l’insediamento in loco ai rifugiati fuggiti dal Viet Nam.
I boat people
Alla fine del 1978, erano quasi 62mila i boat people vietnamiti ospitati in campi profughi, in tutto il Sudest asiatico. Con l’aumentare del loro numero, aumentava anche l’ostilità delle popolazioni. La tensione era accresciuta dal fatto che molte delle imbarcazioni che approdavano sulle rive dei paesi della regione non erano piccoli pescherecci in legno, bensì navi da carico dallo scafo in acciaio, noleggiati dalle mafie regionali attive nel traffico dei clandestini, e che trasportavano oltre 2mila persone alla volta.
Nel novembre 1978, per esempio, un cargo da 1.500 tonnellate, lo Hai Hong, approdava a Port Klang, in Malaysia, chiedendo l’autorizzazione per scaricare il suo carico
umano, costituito da 2.500 vietnamiti. Quando le autorità della Malaysia esigettero
che la nave fosse rimandata al largo, il Delegato dell’Unhcr nel paese sostenne che i
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L’esodo dall’Indocina
Alcuni componenti di un gruppo di 162 vietnamiti, arrivati in Malaysia a bordo di un piccolo peschereccio, naufragato a pochi metri dalla riva. (UNHCR/K. GAUGLER/1978)
vietnamiti a bordo erano considerati “di competenza dell’Alto Commissariato” 7. Tale
posizione fu ribadita da un telegramma della Sede centrale dell’organizzazione, che
indicava che “in futuro, a meno che esistano chiare indicazioni contrarie, coloro che
arrivano per via mare dal Viet Nam sono considerati, prima facie, di competenza
dell’Unhcr” 8. Per oltre un decennio, ai vietnamiti che giungevano in un campo profughi gestito dall’Unchr fu automaticamente riconosciuto lo status di rifugiato, con la
possibilità di un ulteriore reinsediamento in un paese terzo.
All’inizio dell’esodo indocinese, nel 1975, nessun paese della regione aveva aderito
alla Convenzione Onu del 1951 sui rifugiati o al Protocollo del 1967. Nessuno dei paesi
che ricevevano i boat people vietnamiti concedeva loro un permesso di soggiorno a tempo
indeterminato, e alcuni non accordavano neppure l’asilo temporaneo. Singapore rifiutava di lasciare sbarcare i rifugiati che non avessero una garanzia di reinsediamento entro
90 giorni. Di frequente, la Malaysia e la Thailandia respingevano le imbarcazioni dalle
rispettive coste. Quando, nel 1979, si registrò una spettacolare escalation degli arrivi di
vietnamiti via mare – oltre 54mila nel solo giugno – il “respingimento” divenne di ordinaria amministrazione, e probabilmente migliaia di vietnamiti morirono in mare.
A fine giugno 1979, gli allora cinque membri dell’Associazione delle nazioni del
Sudest asiatico (Asean) – Filippine, Indonesia, Malaysia, Singapore e Thailandia –
avvertirono che avevano “raggiunto il limite della sopportazione e deciso di non accettare più nuovi arrivi” 9. Di fronte a tale minaccia diretta al principio dell’asilo, il
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I RIFUGIATI NEL MONDO
Riquadro 4.1
Le conferenze internazionali
sui rifugiati indocinesi
La conferenza di Ginevra del 1979
A metà del 1979, degli oltre 550mila
indocinesi che, a partire dal 1975,
avevano cercato asilo nel Sudest
asiatico, circa 200mila erano stati
reinsediati, mentre gli altri 350mila circa
si trovavano ancora nei paesi di primo
asilo della regione. Nei sei mesi
precedenti, per ogni individuo partito in
vista del reinsediamento, ne erano
arrivati nei campi profughi altri tre. A
fine giugno 1979, gli stati membri
dell’Associazione delle nazioni del Sudest
asiatico (Asean) annunciarono che non
avrebbero più accettato alcun nuovo
arrivo. I “respingimenti” erano all’ordine
del giorno, e lo stesso istituto dell’asilo
era in pericolo. “Il problema”, dichiarò
l’Alto Commissario Poul Hartling,
“trascende chiaramente le possibilità di
soluzione” i.
Tra il 20 e il 21 luglio 1979, 65 governi
risposero all’invito del Segretario generale
delle Nazioni Unite a partecipare ad una
conferenza internazionale sui rifugiati
indocinesi. Gli impegni assunti in quella
sede dalla comunità internazionale furono
numerosi e significativi: ad esempio, a
livello mondiale le offerte di
reinsediamento passarono da 125mila a
260mila. Il Viet Nam s’impegnò a tentare
di far cessare le partenze illegali,
favorendo al loro posto quelle organizzate
e dirette, a partire dal paese stesso.
L’Indonesia e le Filippine s’impegnarono a
istituire dei centri regionali per
l’istruttoria delle domande di
reinsediamento, per renderla più rapida, e
le nuove promesse di contributi all’Unhcr
raggiunsero un totale di circa 160 milioni
di dollari, sia in denaro che in beni e
servizi, importo più che doppio rispetto
alla somma dei quattro anni precedenti.
Benché non fosse stato preso alcun
impegno formale relativamente all’asilo,
la conferenza diede il proprio avallo ai
principi generali dell’asilo e del non
respingimento (non refoulement). Come
aveva affermato, nella sua dichiarazione
iniziale, il Segretario generale dell’Onu, i
paesi di primo asilo desideravano che i
rifugiati non rimanessero nei loro paesi
oltre un certo tempo. Fu così
formalizzata una sorta di do ut des: asilo
temporaneo (“primo asilo”) nella
regione, contro un reinsediamento
permanente altrove; in altri termini,
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come qualcuno lo definì, “una spiaggia
aperta contro una porta aperta”.
Il respingimento delle imbarcazioni
vietnamite che cercavano di prendere il
largo fu, in linea di massima, sospeso. Il
numero degli arrivi nella regione subì un
netto calo, quando il Viet Nam cominciò
ad infliggere pesanti multe nei casi di
partenza clandestina, mentre iniziava un
piccolo movimento di partenze dirette
dal paese stesso. Nello spazio di 18 mesi,
oltre 450mila rifugiati indocinesi furono
reinsediati dai campi profughi del Sudest
asiatico. Fra il 1980 e il 1986, mentre il
reinsediamento superava il ritmo degli
arrivi, in diminuzione, i funzionari
responsabili dei rifugiati cominciavano a
parlare con crescente ottimismo di una
soluzione della crisi regionale.
Nel periodo 1987-88, tuttavia, si registrò
una nuova brusca impennata nel numero
degli arrivi dal Viet Nam, e apparve
chiaro che il precedente consenso non
reggeva più. I paesi occidentali, di
fronte alla crescente marea dei
richiedenti asilo indocinesi che
bussavano alla loro porta, e persuasi che
i nuovi arrivati non avessero più diritto
automaticamente allo status di rifugiato,
avevano gradualmente ridotto le
possibilità di reinsediamento e
introdotto criteri più selettivi. L’accordo
del 1979 – l’asilo temporaneo, che
doveva essere seguito dal
reinsediamento in un paese terzo – non
era più operante. Osservava l’Alto
Commissario Jean-Pierre Hocké che: “Col
passare del tempo, si è progressivamente
eroso il consenso su cui era fondata la
nostra impostazione del problema dei
rifugiati indocinesi” ii.
La Conferenza di Ginevra del 1989
e il Piano d’azione globale
Nel giugno 1989, dieci anni dopo la
prima conferenza sui rifugiati indocinesi,
se ne tenne, sempre a Ginevra, una
seconda. I 70 governi partecipanti vi
adottarono una nuova strategia
regionale, che prese il nome di Piano
d’azione globale (Comprehensive Plan of
Action – Cpa). Si trattò di un importante
tentativo per una soluzione multilaterale
del problema dei rifugiati vietnamiti, e
uno dei primi casi in cui il paese
d’origine svolse un ruolo essenziale,
assieme ad altri paesi e ad altri
organismi interessati, sia della regione
che esterni ad essa, per contribuire alla
soluzione di una crisi di rifugiati di
vaste proporzioni.
Il Cpa si prefiggeva cinque obiettivi
principali: primo, ridurre le partenze
clandestine attraverso misure ufficiali
contro coloro che organizzavano le
partenze via mare e mediante massicce
campagne d’informazione, e promuovere
maggiori possibilità d’emigrazione legale
nell’ambito del Programma di partenze
organizzate; secondo, dare asilo
temporaneo a tutti i richiedenti fino
all’accertamento della loro posizione
giuridica e in attesa di una soluzione
duratura; terzo, determinare l’eventuale
status di rifugiato di tutti i richiedenti
asilo conformemente alle norme e ai
criteri adottati internazionalmente;
quarto, reinsediare in paesi terzi i
richiedenti riconosciuti come rifugiati,
nonché tutti i vietnamiti che si
trovavano nei campi profughi
anteriormente alle date limite regionali;
quinto, riportare e reinserire nel paese
d’origine i candidati non considerati
rifugiati iii.
L’attuazione del Piano fu affidata
all’Unhcr, col sostegno finanziario dei
paesi donatori. Fu istituito un apposito
Comitato direttivo, presieduto
dall’organizzazione stessa e composto da
rappresentanti di tutti i governi che
avevano assunto, nell’ambito del Cpa,
impegni in materia di asilo,
reinsediamento o rimpatrio.
Mentre gli impegni del 1979 per l’asilo
erano generici, quelli di dieci anni dopo
erano più precisi; prevedevano che:
“L’asilo temporaneo sarà accordato a
tutti i richiedenti, i quali riceveranno un
identico trattamento, indipendentemente
dalle modalità dell’arrivo, fino al termine
della procedura di determinazione del
loro status”. In quasi tutta la regione
tali impegni furono onorati, seppure con
qualche eccezione. La Thailandia, in
particolare, interruppe il respingimento
delle imbarcazioni, mentre Singapore
non permise più lo sbarco delle persone
salvate in mare né degli arrivi diretti. In
Malaysia, per buona parte degli anni
1989-90, le autorità locali avevano
l’ordine di dirottare verso le acque
internazionali le imbarcazioni in arrivo.
L’esodo dall’Indocina
All’epoca della conferenza del 1989 sul
Cpa, nei campi profughi del Sudest
asiatico erano presenti in totale 50.670
rifugiati vietnamiti, arrivati entro il
termine massimo. Di questi, quasi un
quarto erano già stati respinti da almeno
un paese di reinsediamento e un altro
quarto non erano prioritari, secondo
criteri di reinsediamento sempre più
restrittivi. Alla fine del 1991, erano stati
quasi tutti reinsediati. Dei richiedenti
asilo giunti dopo il termine ultimo, in
totale 32.300 furono riconosciuti come
rifugiati e reinsediati, mentre altri 83.300
rimpatriarono dopo che la loro domanda
era stata respinta. In totale, durante gli
otto anni del Cpa, oltre 530mila
vietnamiti e laotiani furono trasferiti in
paesi terzi per un reinsediamento.
Nessuno dei paesi che s’impegnarono a
mettere in atto le procedure per la
determinazione dello status di rifugiato,
tranne le Filippine, aveva aderito alla
Convenzione Onu del 1951, e nessuno
aveva una precedente esperienza
legislativa o amministrativa in materia.
Nondimeno, i cinque principali paesi di
primo asilo – Filippine, Hong Kong,
Indonesia, Malaysia e Thailandia –
adottarono procedure che accordassero ai
richiedenti asilo la possibilità di contattare
l’Unhcr, un’intervista completa per la
determinazione dello status di rifugiato,
l’assistenza di un interprete, nonché una
possibilità di revisione della decisione da
parte di una seconda autorità. A Hong
Kong, inoltre, i richiedenti potevano anche
ricorrere in tribunale.
Complessivamente, circa il 28 % dei
richiedenti asilo vietnamiti che avevano
chiesto lo status di rifugiato, con le
procedure introdotte dal Cpa, lo ottenne.
A Hong Kong, dove fu intervistato il
maggior numero di richiedenti (60.275),
si registrò anche il più basso tasso
d’accettazione (18,8 %). La facoltà di cui
disponeva l’Unhcr di riconoscere, in virtù
del suo mandato, i rifugiati costituì
un’importante rete di sicurezza, per
garantire che nessun candidato
rispondente ai requisiti fosse rifiutato e
rinviato nel Viet Nam.
Per raggiungere un consenso sul
rimpatrio in tale paese, i governi
partecipanti al Cpa avevano concordato,
nel 1989, che “in prima istanza, si farà
ogni sforzo per incoraggiare il rimpatrio
volontario [di coloro la cui domanda è
respinta]… Se, trascorso un ragionevole
lasso di tempo, apparisse chiaro che il
rimpatrio volontario non procede al
ritmo desiderato, si prenderebbero in
esame delle alternative riconosciute
accettabili, nel quadro delle prassi
internazionali” iv. Anche se nessuno
l’avrebbe detto apertamente, molti
riconobbero allora che ciò significava
ritorno non volontario.
Hong Kong aveva cominciato a selezionare
gli arrivi un anno prima degli altri paesi
della regione e, nel marzo 1989, aveva già
organizzato il primo rimpatrio volontario
nel Viet Nam in oltre un decennio. Nei
mesi successivi, tuttavia, il governo
ritenne insufficiente il numero dei rimpatri
volontari e passò a misure più drastiche. Il
12 dicembre 1989, approfittando
dell’oscurità, oltre un centinaio di
poliziotti scortarono un gruppo di 51
vietnamiti – uomini, donne e bambini –
fino a un aereo in attesa, che li riportò ad
Hanoi. Le proteste internazionali
persuasero le autorità della colonia
britannica a soprassedere ad altri rimpatri
non volontari ma, con un nuovo sviluppo
della situazione, il Regno Unito, Hong
Kong e il Viet Nam conclusero, nell’ottobre
1991, un accordo per l’attuazione di un
“Programma di rientri organizzati”.
In ultimo, anche i paesi dell’Asean
firmarono i rispettivi accordi per un
Programma di rientri organizzati,
nell’ambito dei quali l’Unhcr s’impegnava
a coprire le spese di trasporto ed a
fornire un supporto logistico, ribadendo
però che non avrebbe partecipato a
movimenti che implicassero l’uso della
forza. Alla fine, tuttavia, la distinzione
fra ritorno volontario e non volontario
diventò meno netta, a causa della
crescente tensione che regnava nei
campi dei profughi vietnamiti e dei
frequenti scoppi di violenza che
avvenivano in quelli di Hong Kong. A
partire dal 1992, il ritmo dei rimpatri si
accelerò e l’Unhcr ebbe l’incarico di
coordinare l’assistenza al reinserimento e
di vigilare sugli oltre 109mila vietnamiti
che, in definitiva, tornarono nel loro
paese nel quadro del Cpa.
Indocina: reinsediamento e
rimpatrio, 1975–97*
Figura 4.1
900
800
700
600
500
400
300
Migliaia
Grazie all’effetto combinato dei
disincentivi nei campi profughi (fra cui la
fine dell’assistenza al rimpatrio, per i
rifugiati arrivati dopo il settembre 1991)
e delle campagne svolte dall’Unhcr
attraverso i media nel Viet Nam, il Cpa
riuscì finalmente ad arrestare l’esodo dei
richiedenti asilo originari di tale paese.
Mentre, nel 1989, avevano chiesto asilo
nell’area del Sudest asiatico circa 70mila
vietnamiti, nel 1992 furono solo in 41 a
farlo, e da allora le cifre sono rimaste
trascurabili.
200
100
0
Vietnamiti
Cambogiani
Reinsediamento
Laotiani
Rimpatrio **
* La tabella si riferisce al reinsediamento o rimpatrio dai paesi o territori di primo asilo.
** Compresi 367.040 cambogiani non contanti come arrivi nei campi profughi dell’Unhcr in
Thailandia, ma rimpatriati sotto l’egida dell’organizzazione nel 1992-93, come anche i richiedenti asilo
vietnamiti esclusi a seguito della selezione.
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I RIFUGIATI NEL MONDO
Segretario generale dell’Onu convocò a Ginevra, in luglio, una conferenza internazionale sui “rifugiati e sfollati nel Sudest asiatico” [cfr. riquadro 4.1] 10. “Una grave crisi
è in atto nel Sudest asiatico”, affermò l’Alto Commissario Poul Hartling in una nota
d’informazione preparata per la conferenza; “per centinaia di migliaia di rifugiati e
sfollati... è in pericolo il diritto fondamentale alla vita e alla sicurezza” 11.
La conferenza del 1979 permise di scongiurare una crisi immediata. Con quello che era
di fatto un accordo tripartito fra i paesi d’origine, quelli di primo asilo e quelli di reinsediamento, i paesi dell’Asean si impegnarono a continuare a concedere l’asilo temporaneo,
a condizione che il Viet Nam si sforzasse di prevenire le partenze illegali e di promuovere
delle partenze organizzate, e che i paesi terzi accelerassero il ritmo del reinsediamento.
L’Indonesia e le Filippine si impegnarono, inoltre, a creare dei centri regionali per l’esame
delle candidature, per contribuire a un più rapido reinsediamento dei rifugiati e, salvo alcune vistose eccezioni, cessò il “respingimento” delle imbarcazioni in mare. I reinsediamenti
nei paesi terzi, che avevano avuto luogo al ritmo di circa 9mila al mese nel primo semestre
del 1979, passarono a circa 25mila al mese nella seconda metà dell’anno. Fra il luglio 1979
e il luglio 1982, oltre 20 paesi – con alla testa gli Stati Uniti, l’Australia, la Francia e il Canada
– assorbirono in complesso 623.800 rifugiati indocinesi 12.
Da parte sua, il Viet Nam si impegnò a compiere ogni sforzo per far cessare le partenze illegali e attuare un protocollo d’accordo firmato, nel maggio 1979, con l’Unhcr
per il lancio del Programma di partenze organizzate 13. In base a tale accordo, le autorità vietnamite avrebbero autorizzato l’uscita dei cittadini che desideravano abbandonare il paese, per il ricongiungimento familiare o per altri motivi umanitari, mentre
l’Unhcr avrebbe curato il coordinamento con i paesi di reinsediamento per ottenere i
visti d’ingresso. Malgrado un avvio lento, il programma accelerò gradualmente il
ritmo e, nel 1984, le partenze annuali erano ormai aumentate a 29.100, superando gli
arrivi via mare nella regione, che erano 24.865.
Per buona parte degli anni ’80, malgrado una diminuzione degli arrivi nell’area e
malgrado il rispetto degli impegni per il reinsediamento, continuò l’esodo dei vietnamiti per mare, con un enorme costo in vite umane. Uno studioso ha valutato nel 10%
il numero dei boat people dispersi in mare, aggrediti dai pirati, annegati o morti per disidratazione 14. Il programma anti-pirateria e le iniziative per il salvataggio in mare [cfr.
riquadro 4.2] ebbero il loro successo, ma ogni insuccesso era una tragedia.
Un’imbarcazione arrivata nelle Filippine nel luglio 1984 riferì che, durante i 32 giorni
trascorsi in mare, una quarantina di navi erano passate nelle sue vicinanze, senza fornire alcun aiuto. Nel novembre 1983, il direttore della Divisione protezione internazionale dell’Unhcr, Michel Moussalli, parlava di “scene al di là di ogni immaginazione...
Diciotto persone partono in una piccola imbarcazione e, nella traversata del golfo di
Thailandia, sono attaccate dai pirati; una ragazza che resiste allo stupro è uccisa e un’altra ragazzina di 15 anni è rapita. L’imbarcazione viene poi ripetutamente speronata e gli
altri 16 passeggeri, che non sono di alcuna utilità per i pirati, muoiono tutti in mare” 15.
Col passare degli anni, nei paesi occidentali cresceva la stanchezza nei confronti
dei boat people vietnamiti e aumentavano i sospetti circa le motivazioni della partenza di
alcuni di loro. Toccò all’Unhcr garantire il rispetto degli impegni dei governi per il
reinsediamento, sia per tutelare il principio stesso dell’asilo, sia per evitare che persone particolarmente vulnerabili fossero abbandonate nei campi profughi del Sudest
86
L’esodo dall’Indocina
Riquadro 4.2
La pirateria nel Mar Cinese meridionale
La pirateria nel Sudest asiatico è antica
quanto la stessa navigazione nella
regione. Per i boat people indocinesi fu
una ulteriore fonte di angoscia e, per
quanti cercavano di proteggerli, un
arduo problema. Nel solo 1981, quando
in Thailandia arrivarono 452
imbarcazioni, trasportando 15.479
rifugiati, le statistiche dell’Unhcr erano
agghiaccianti: ben 349 imbarcazioni
erano state abbordate, in media tre
volte ciascuna; 578 donne erano state
stuprate e 228 rapite, mentre 881
persone erano morte o disperse.
Il programma antipirateria
In risposta a una generale ondata di
sdegno su scala mondiale e alle voci
che chiedevano di agire, alla fine del
1981 l’Unhcr lanciò un appello per la
raccolta di fondi e, nel giugno 1982,
fu varato ufficialmente un programma
contro la pirateria, con una dotazione
di 3,6 milioni di dollari, messi a
disposizione da 12 paesi.
In un primo tempo, in Thailandia le
iniziative antipirateria consistettero
soprattutto in un pattugliamento
marittimo e aereo, che si tradusse in
una graduale diminuzione del numero
degli attacchi. Tuttavia, come osservò
all’epoca l’Alto Commissario Poul
Hartling: “Anche se la quantità è
diminuita, la qualità degli attacchi,
se posso così esprimermi, è in
aumento... Quello che ascoltiamo fa
inorridire ancor più che in passato”. I
rapporti “parlano di crudeltà,
brutalità e barbarie al di là di ogni
immaginazione. I rifugiati sono
accoltellati e bastonati. Si
commettono omicidi, rapine e stupri,
cose dell’altro mondo” v.
A partire dal 1984, il programma
antipirateria dell’Unhcr si orientò
sempre più su operazioni a terra. In
Thailandia, la polizia e la capitaneria
di porto registravano i pescherecci,
fotografavano gli equipaggi e
realizzavano campagne d’informazione
sulle ammende inflitte ai pirati.
L’Unhcr aiutava le vittime degli
attacchi a contattare la polizia e
l’autorità giudiziaria, seguiva i
procedimenti in tribunale,
organizzava il viaggio di testimoni
dall’estero, e forniva servizi
d’interpretariato per le indagini, gli
arresti e i processi. Nel 1987, solo
l’8% delle imbarcazioni che
giungevano in Thailandia furono
attaccate. Ci furono rapimenti e
stupri, ma non furono segnalati
decessi dovuti alla pirateria.
Nel 1988, però, la violenza degli
attacchi riprese ad aumentare in modo
allarmante, con oltre 500 morti o
dispersi; nel 1989, la cifra superò le
750 unità. Nell’agosto 1989, un
funzionario dell’Unhcr che aveva
intervistato i superstiti di
un’aggressione, riferì che i pirati
avevano fatto salire gli uomini ad uno
ad uno dalla stiva, li avevano bastonati
e poi uccisi a colpi d’accetta. I
vietnamiti che si erano buttati in
acqua erano stati colpiti
dall’imbarcazione stessa, affogati e
uccisi, con un totale di 71 morti, fra
cui 15 donne e 11 bambini. L’aumento
della violenza in mare, secondo gli
esperti, era anche dovuto al successo
degli interventi a terra. Le indagini più
sofisticate facevano aumentare il
numero degli arresti e delle condanne,
il che da un lato scoraggiava gli
opportunisti occasionali, ma dall’altro
faceva sussistere un nucleo duro di
criminali professionisti che non
volevano lasciare testimoni.
Infine, sembra che anche i
professionisti si stancassero della
caccia che veniva loro data. Dopo la
metà del 1990, non furono più riferiti
casi di attacchi di pirati ai danni di
imbarcazioni vietnamite e, nel
dicembre 1991, ebbe termine il
programma antipirateria dell’Unhcr.
“La guerra ai pirati non è finita”,
affermava il rapporto di valutazione
finale, “ma ha raggiunto uno stadio
in cui può essere efficacemente
condotta” dalle autorità nazionali.
I salvataggi in mare
Dal 1975 alla fine del 1978,
arrivarono nei paesi di primo asilo
110mila boat people vietnamiti.
All’inizio, i comandanti delle navi
sembravano desiderosi di aiutare le
imbarcazioni in difficoltà e, in quei
tre anni, navi di 31 paesi diversi
salvarono i rifugiati che si trovavano
a bordo di un totale di 186
imbarcazioni. Nei primi sette mesi del
1979, invece, quando gli arrivi dei
vietnamiti nella regione balzarono a
177mila e il “respingimento” delle
imbarcazioni era al culmine, ne
furono salvate solo 47. La metà dei
salvataggi, per di più, fu effettuata
da navi appartenenti a tre soli paesi.
Nell’agosto 1979, l’Unhcr convocò a
Ginevra una conferenza sul tema dei
salvataggi in mare, da cui emerse un
programma noto con la sigla Disero
(Disembarkation Resettlement Offers –
Offerte di reinsediamento per gli
sbarchi). Otto paesi occidentali, fra cui
gli Stati Uniti, s’impegnavano
congiuntamente a garantire il
reinsediamento a tutti i profughi
vietnamiti salvati in mare da navi
commerciali battenti bandiera di stati
che non accoglievano i rifugiati in
vista del reinsediamento. Il nuovo
impegno sembrò avere un effetto
immediato: negli ultimi cinque mesi
del 1979, infatti, furono soccorse in
mare 81 imbarcazioni con 4.031
persone a bordo. Nel maggio 1980,
l’Unhcr donò al governo thailandese
una motovedetta veloce, non armata,
come gesto simbolico per potenziare la
sorveglianza in mare. Nel frattempo,
alcune navi appartenenti a
organizzazioni umanitarie private, e in
particolare la Kap Anamur e l’Ile de
lumière, cambiarono attività, passando
dall’approvvigionamento dei campi
profughi situati nelle varie isole al
salvataggio delle imbarcazioni. In
totale, fra il 1975 e il 1990 furono
salvati in mare 67mila vietnamiti.
Il problema di questo programma era
che la garanzia di reinsediare entro 90
giorni tutti i vietnamiti salvati in
mare non quadrava con le linee guida
del Piano d’azione globale del 1989,
le quali richiedevano che ogni nuovo
arrivato fosse oggetto di una
selezione per la determinazione del
suo status. Sia il Disero, sia un altro
programma similare che gli
succedette, noto con la sigla Rasro
(Rescue at Sea Resettlement Offers –
Offerte di reinsediamento per i
salvataggi in mare), finirono con
l’essere interrotti, poiché i paesi della
regione non si mostravano disposti a
lasciare sbarcare i boat people salvati.
87
I RIFUGIATI NEL MONDO
asiatico. Non era, beninteso, di competenza dell’Unhcr concedere o rifiutare l’ammissione permanente in un altro paese, in quanto tale potere spettava ai governi. Alla fine
degli anni ’80, tuttavia, declinava la disponibilità della comunità internazionale al
reinsediamento di tutti i richiedenti asilo vietnamiti, e il numero dei reinsediamenti
stentava a tenere il passo col ritmo degli arrivi nei paesi di primo asilo.
Poi, a metà del 1987, gli arrivi dei vietnamiti ripresero ad aumentare. Incoraggiati
da un allentamento delle restrizioni agli spostamenti interni e dalla prospettiva del
reinsediamento in paesi occidentali, migliaia di vietnamiti del sud avevano scoperto
un nuovo itinerario, che li portava attraverso la Cambogia e poi, con una breve traversata, sulla costa orientale della Thailandia. A fine anno, le autorità thailandesi cominciarono a intercettare le imbarcazioni e a rimandarle in alto mare.
Decine di migliaia di vietnamiti del nord seguivano, invece, un altro nuovo itinerario, attraverso la Cina meridionale verso Hong Kong. Nel 1988, nel territorio britannico si riversarono oltre 18mila boat people. Si trattava di gran lunga del numero più
alto dopo la crisi del 1979. Originari in maggioranza del nord del Viet Nam, erano
una popolazione che si era dimostrata di scarso interesse per la maggioranza dei paesi
di reinsediamento. Di conseguenza, il 15 giugno 1988, l’amministrazione di Hong
Kong annunciò che i vietnamiti arrivati a partire da tale data sarebbero stati ospitati in
appositi centri d’internamento, in attesa di un colloquio di “selezione” per l’accertamento del loro status giuridico. Nel maggio 1989, le autorità della Malaysia ricominciarono a dirottare verso l’Indonesia le imbarcazioni in arrivo, come già avevano fatto
un decennio prima.
Una nuova formula
Alla fine degli anni ’80, era ormai chiaro per praticamente tutti gli interessati alla crisi
dei rifugiati indocinesi che era venuto meno il consenso raggiunto, nel 1979, a livello regionale e internazionale. Era necessaria una nuova formula, che tutelasse l’asilo
ma scindendolo dalla garanzia del reinsediamento. Nel giugno 1989, si tenne quindi
a Ginevra una seconda conferenza internazionale sui rifugiati indocinesi e fu raggiunto un nuovo consenso. Il Piano d’azione globale, come fu battezzato, ribadiva alcuni
elementi dell’accordo del 1979: in particolare, l’impegno a preservare il primo asilo,
a ridurre le partenze clandestine e a promuovere l’emigrazione legale, come pure a
reinsediare i rifugiati in paesi terzi. Conteneva, inoltre, alcuni elementi nuovi, fra cui
in particolare l’impegno a porre in atto procedure regionali per la determinazione
dello status di rifugiato e a rimandare nei paesi d’origine coloro la cui domanda fosse
respinta [cfr. riquadro 4.1].
I nuovi impegni per l’asilo riuscirono a far cessare, in Thailandia, il respingimento in mare, ma la Malaysia non abbandonò la propria politica, consistente nell’allontanare le imbarcazioni dalle proprie acque territoriali. Ad eccezione di Singapore, tutti
i paesi di primo asilo rinunciarono alla garanzia di reinsediamento. I 50mila vietnamiti arrivati nei campi profughi entro il termine ultimo (nella maggioranza dei paesi,
il 14 marzo 1989) furono reinsediati in paesi terzi. Quelli giunti dopo tale data dovevano essere oggetto di una selezione per l’accertamento del loro status giuridico. Il Viet
Nam applicò sanzioni contro le partenze clandestine, e l’Unhcr lanciò una campagna
88
L’esodo dall’Indocina
nei media, destinata a familiarizzare i potenziali richiedenti asilo col nuovo dispositivo regionale, che prevedeva ormai il ritorno in patria di quelli fra loro la cui domanda fosse respinta.
Al Piano d’azione globale è stato generalmente attribuito il merito di aver ripristinato nella regione il principio dell’asilo.Alcuni studiosi, però, hanno giudicato tali misure contrarie al diritto di lasciare il proprio paese, chiedendosi se l’Unhcr avrebbe dovuto – anche tacitamente – tollerare di fatto tali azioni ad opera del Viet Nam 16. Il Piano
d’azione globale costituì, per di più, il primo esempio di introduzione di una data limite. Coloro che erano fuggiti prima di essa erano automaticamente accettati per il reinsediamento nei paesi terzi, mentre quelli arrivati dopo dovevano innanzitutto subire una
selezione, per la determinazione del loro status giuridico.
Se il successo della conferenza del 1979 era legato agli impegni assunti dai paesi
di reinsediamento, quello del Piano d’azione globale dipendeva dagli impegni assunti dai paesi di primo asilo e da quelli d’origine. Nel dicembre 1988, sette mesi prima
della conferenza di Ginevra, l’Unhcr e il Viet Nam avevano firmato un protocollo d’accordo, in base al quale il Viet Nam avrebbe consentito il rimpatrio volontario dei propri cittadini senza penalizzarli per la fuga, avrebbe ampliato e accelerato il Programma
di partenze organizzate, e avrebbe consentito all’Unhcr di vigilare sui rimpatriati e di
facilitarne il reinserimento.
Si è sostenuto che il Programma di partenze organizzate rappresentò un “fattore
d’attrazione” che, di fatto, incoraggiò a partire. Se in molti casi ciò può esser stato
vero, esso consentì però a coloro che volevano andar via di farlo con mezzi legali,
anziché in modo illegale e pericoloso. Anche se costituì effettivamente un fattore di
Arrivi di boat people vietnamiti, secondo il paese/
territorio di primo asilo, 1975–95
Fig. 4.2
Macao Altri
Giappone0.9% 0.6%
1.4%
Singapore
4.1%
Filippine
6.5%
Malaysia
32.0%
Thailandia
14.7%
Indonesia
15.3%
Hong Kong
24.6%
Totale = 796.310
89
I RIFUGIATI NEL MONDO
Riquadro 4.3
I rifugiati vietnamiti negli Stati Uniti
A partire dal 1975, gli Stati Uniti
aprirono le porte ad oltre un milione
di vietnamiti. Benché attualmente il
contingente più numeroso viva in
California, si sono stabiliti in tutti
gli stati americani e in quasi tutte le
principali città.
I vietnamiti sono arrivati in numerose
ondate. Oltre 175mila si rifugiarono
negli Stati Uniti nei primi due anni
dopo la caduta di Saigon, avvenuta nel
1975. Nella gran maggioranza
arrivarono nel giro di alcune settimane,
e furono ospitati in quattro campi
profughi, allestiti alla bell’e meglio su
delle basi militari. Una decina di
organizzazioni private, perlopiù
religiose, furono incaricate del loro
reinsediamento, in località grandi e
piccole di tutto il paese. Si occuparono
degli alloggi e organizzarono corsi
d’inglese, inserirono nelle scuole i
bambini ed i ragazzi e aiutarono gli
adulti a trovare lavoro.
Gli americani reagirono positivamente
a quella prima ondata. Molti di loro
provavano un senso di colpa per
l’intervento degli Stati Uniti nel Viet
Nam, ed erano contenti di poter
aiutare i rifugiati. Organizzazioni
confessionali e della società civile
patrocinarono i nuovi arrivati,
aiutandoli ad orientarsi nelle nuove
località di residenza. Per questo primo
gruppo, le cose andarono
straordinariamente bene: in
maggioranza, provenivano dalla
borghesia cittadina del Viet Nam
meridionale; oltre un quarto dei
capifamiglia aveva un’istruzione
universitaria, e più del 40% aveva
frequentato la scuola secondaria.
Nell’insieme, si trattava di un gruppo
relativamente qualificato, urbanizzato e
flessibile vi. Pur essendo arrivati negli
Stati Uniti in un momento di grave
recessione economica, nel 1982 il loro
tasso di occupazione era superiore a
quello dell’intera popolazione
americana. In California, in Texas e a
Washington sorsero vere e proprie
colonie vietnamite e, ben presto,
90
imprese appartenenti a connazionali
erano in grado di soddisfare i bisogni
delle nuove comunità.
Una seconda ondata di rifugiati
vietnamiti cominciò ad arrivare negli
Stati Uniti nel 1978. Si trattava dei
cosiddetti boat people, fuggiti davanti
alla sempre più dura repressione
politica in corso nel loro paese,
specialmente contro gli abitanti di
etnia cinese. Benché sia difficile una
stima esatta, si ritiene che in totale,
fra il 1978 e il 1997, entrarono negli
Usa oltre 400mila boat people
vietnamiti vii. I boat people erano
meno ben preparati per vivere negli
Stati Uniti: in generale, erano meno
istruiti e piuttosto di origine rurale,
rispetto ai connazionali arrivati nel
1975, e pochi conoscevano già
l’inglese. Molti di loro erano stati
perseguitati nel Viet Nam,
traumatizzati in alto mare e avevano
dovuto sopportare le dure condizioni
di vita nei campi profughi dei paesi
del Sudest asiatico che solo con
riluttanza accettavano la loro
presenza temporanea. Inoltre, a
differenza della prima ondata di
vietnamiti, molti dei quali fuggiti con
le famiglie, un gran numero di boat
people erano uomini, arrivati da soli.
Quando giunse questo secondo
gruppo, molti americani avevano
cominciato a stancarsi dei rifugiati.
L’ostilità nei confronti degli immigrati,
alimentata dalla recessione economica,
si tradusse in varie località in
aggressioni contro i vietnamiti, mentre
andava anche calando il sostegno del
governo americano al programma per i
rifugiati. Nel 1982 fu ridotta la durata
dell’assistenza ai nuovi arrivati e,
benché la situazione economica fosse
ancora peggiore che nel 1975, fu
adottata una serie di provvedimenti
per inserire quanto più rapidamente
possibile i rifugiati sul mercato del
lavoro. Molti boat people finirono in
lavori mal retribuiti, spesso senza aver
potuto imparare l’inglese né
ambientarsi nel paese. Ciò malgrado,
secondo una ricerca commissionata
dal governo nel 1985
sull’autosufficienza dei rifugiati del
Sudest asiatico, la loro condizione
economica era paragonabile a quella
di altre minoranze.
Il Programma di partenze
organizzate, varato nel 1979, offrì
ai vietnamiti la possibilità di
emigrare direttamente dal Viet
Nam negli Stati Uniti.
Inizialmente mirato ai familiari
dei rifugiati vietnamiti già
immigrati e ai sud-vietnamiti che
avevano avuto legami con il
governo americano, fu in seguito
esteso ai cosiddetti amerasiatici
(figli vietnamiti di militari
americani), nonché agli ex
prigionieri politici e agli ex
internati nei campi di
rieducazione. Nell’ambito del
programma, fra il 1979 e il 1999
entrarono negli Stati Uniti oltre
500mila vietnamiti.
Molti di loro incontrarono
particolari difficoltà per rifarsi una
vita negli Stati Uniti. Gli ex
prigionieri politici e gli ex internati
nei campi di rieducazione
arrivavano traumatizzati dalle
esperienze vissute nel Viet Nam.
Avevano, inoltre, un’età superiore a
quella della maggior parte dei boat
people o dei rifugiati arrivati nel
1975. Per loro fu più difficile
trovare lavoro, e le occupazioni che
riuscirono a trovare spesso non
erano all’altezza della loro precedo
inserimento sul piano sia
economico sia psichico.
Nell’insieme, tuttavia, la
maggioranza del milione e più di
vietnamiti che si sono reinsediati
negli Stati Uniti – e soprattutto la
seconda generazione di vietnamitiamericani – si sono adattati bene e
oggi fanno parte integrante della
società statunitense.
L’esodo dall’Indocina
attrazione, fu solo uno dei molti fattori che incoraggiarono a partire. Anzi, è stato
sostenuto da alcuni commentatori che, sin dal 1975, gli Stati Uniti e altri paesi occidentali avevano dimostrato interesse ad incoraggiare le partenze, anche per dimostrare al mondo che gli abitanti della metà meridionale del Viet Nam “votavano con i
piedi”, abbandonando il paese a seguito della vittoria comunista 17.
Il 30 luglio 1989, il governo americano e quello vietnamita pubblicarono una
dichiarazione congiunta, secondo cui avevano raggiunto un accordo sull’emigrazione
degli ex prigionieri politici e dei loro familiari. Con tale accordo, si ebbe un enorme
aumento delle partenze nel quadro del Programma di partenze organizzate, che nel
1991 raggiunsero un massimo di 86.451. La cifra comprendeva 21.500 ex internati
nei campi di rieducazione con i loro familiari, e poco meno di 18mila minori amerasiatici, figli di militari americani dislocati nel Viet Nam. In totale, gli Stati Uniti reinsediarono oltre un milione di vietnamiti [cfr. riquadro 4.3].
Durante gli otto anni del Piano d’azione globale, oltre 109mila vietnamiti rimpatriarono. Per aiutarli a reinserirsi, l’Unhcr versò a ognuno di loro un’indennità in contanti
compresa fra 240 e 360 dollari, che fu corrisposta in più rate dal ministero del Lavoro,
degli Invalidi di guerra e degli Affari sociali. Inoltre, l’organizzazione spese oltre 6 milioni di dollari in 300 microprogetti, realizzati in tutto il paese per l’approvvigionamento
idrico, l’istruzione e le infrastrutture collettive. Nel settore dell’occupazione e della creazione di posti di lavoro, l’Unhcr partecipò al Programma internazionale della Comunità
europea, che concesse oltre 56mila prestiti, di importi compresi fra 300 e 20mila dollari, ai rimpatriati come agli altri abitanti del paese.Tali prestiti facilitarono notevolmente lo
sviluppo delle piccole imprese e furono rimborsati all’88%.
Sebbene l’80% dei rimpatriati fosse concentrato soprattutto nelle otto province
costiere, ve ne furono che ritornarono in tutte le 53 province del Viet Nam, da nord a
sud. Per rendere ancora più impegnativo il compito di monitoraggio dell’Unhcr, il 25%
circa dei rimpatriati cambiò residenza almeno una volta dopo il ritorno dai campi profughi, trasferendosi nelle aree urbane, in cerca di lavoro. I funzionari dell’Unhcr che
vigilavano sulla reintegrazione dei rimpatriati riferirono che la grande maggioranza delle
loro richieste riguardava questioni di assistenza economica, e che “il monitoraggio non
aveva rivelato alcun indizio di persecuzioni a danno dei rimpatriati” 18.
I rifugiati cambogiani in Thailandia
Fra i paesi d’asilo del Sudest asiatico, la Thailandia fu l’unico a sopportare il peso di
tutte e tre le popolazioni rifugiate indocinesi, di cui la più numerosa era quella cambogiana. La Thailandia non aveva aderito alla Convenzione Onu del 1951 sui rifugiati, ma accettò di firmare, nel luglio 1975, un accordo con l’Unhcr, impegnandosi a
collaborare per fornire aiuti umanitari temporanei alle persone costrette con la forza
ad abbandonare le loro case, nonché a cercare soluzioni durature, compreso il rimpatrio volontario o il reinsediamento in paesi terzi. Un mese prima, una decisione del
governo thailandese aveva stabilito che i nuovi arrivati sarebbero stati ospitati in campi
gestiti dal ministero dell’Interno. Tale decisione rivelava un atteggiamento ambiguo e
perfino contraddittorio, che si sarebbe ritrovato in buona parte delle successive poli91
I RIFUGIATI NEL MONDO
tiche del paese nei confronti della popolazione esule in territorio thailandese. Essa
dichiarava: “Qualora dei profughi tentino di entrare nel Regno, saranno prese misure
per allontanarli con la massima rapidità possibile. Se fosse impossibile respingerle, tali
persone saranno internate in appositi campi” 19.
Il 17 aprile 1975, i comunisti rivoluzionari che da anni conducevano in Cambogia la
loro lotta armata, entravano trionfalmente nella capitale, Phnom Penh, e cominciavano a
svuotarla sistematicamente dei suoi abitanti. Sebbene il nuovo regime dei khmer rossi di
quella che era stata ribattezzata la Kampuchea democratica non si rivelasse mai pienamente al mondo, e neppure al popolo cambogiano, il suo misterioso leader, Pol Pot, diresse una
brutale campagna per liberare il paese dalle influenze straniere e istituire un’autarchia agraria 20. Durante i quattro anni di dominio dei khmer rossi in Cambogia, il regime fece evacuare le principali città, abolì i mercati e la moneta, impedì ai monaci buddisti di praticare la loro religione, espulse i residenti stranieri e creò in tutto il paese dei campi di lavoro
collettivizzati 21.All’epoca dell’invasione vietnamita, all’inizio del 1979, oltre un milione di
cambogiani era stato giustiziato o era morto di fame, di malattia o di sfinimento per il lavoro, mentre altre centinaia di migliaia di abitanti erano sfollate.
Anche se un numero rilevante di cambogiani riuscì ad abbandonare il paese, fu ben
poca cosa rispetto al volume dell’esodo interno che interessò la popolazione sotto il brutale regime dei Khmer rossi. L’Unhcr ritiene che, fra il 1975 e il 1978, solo 34mila cambogiani fossero riusciti a riparare in Thailandia, mentre altri 20mila si rifugiarono nel Laos
e 170mila nel Viet Nam 22. Quando, all’inizio del 1979, esplose l’esodo dei rifugiati indocinesi, la Thailandia accolse un afflusso relativamente modesto di esuli vietnamiti, ma a
metà dell’anno ospitava con riluttanza, in campi gestiti dall’Unhcr, 164mila rifugiati cambogiani e laotiani. A seguito dell’invasione vietnamita che rovesciò il regime dei khmer
rossi, altre decine di migliaia di cambogiani fuggirono verso la frontiera orientale della
Thailandia. Questa invasione insediò al potere un altro regime comunista, in quella che fu
allora ribattezzata Repubblica popolare della Kampuchea.
Nel giugno 1979, i soldati thailandesi raggrupparono oltre 42mila rifugiati cambogiani ospitati nei campi profughi vicino alla frontiera e li spinsero giù per le pendici scoscese di Preah Vihear, in Cambogia. Almeno diverse centinaia di persone, e probabilmente varie migliaia, rimasero uccise nei campi minati sottostanti. Un giorno dopo l’inizio
dei respingimenti, il rappresentante del Comitato internazionale della Croce rossa lanciò
un appello urgente per farli cessare; gli fu ordinato di lasciare la Thailandia. Nel timore di
una reazione negativa del governo, di fatto l’Unhcr tacque, sebbene si trattasse del più
rilevante caso di respingimento forzato (refoulement) che l’organizzazione avesse conosciuto dalla sua creazione. Come osservò in seguito un alto funzionario, responsabile della
protezione, “il fatto clamoroso che l’Unhcr non protestasse, formalmente o pubblicamente, contro l’espulsione in massa dei cambogiani dalla Thailandia nel 1979, va visto
come uno dei momenti meno gloriosi del suo operato nel campo della protezione” 23.
In questo scenario, la conferenza di Ginevra del luglio 1979 chiese ai paesi terzi degli
impegni per il reinsediamento, per alleggerire la pressione sulla Thailandia. Dei 452mila
indocinesi reinsediati nel 1979–80, quasi 195mila venivano dai campi profughi thailandesi. Nell’ottobre 1979, questo paese aveva annunciato una politica di “porte aperte”, nei
confronti dei cambogiani che avevano continuato a concentrarsi alla frontiera, in cerca di
viveri e di sicurezza. Per i nuovi arrivati, l’Unhcr fu invitato a creare appositi “centri d’ac92
L’esodo dall’Indocina
coglienza”, che sarebbero stati sorvegliati non dal ministero dell’Interno ma dalle forze
armate. Il motivo, sosteneva il governo thailandese, era che “un certo numero dei cambogiani che fuggono in Thailandia sono guerriglieri. Quindi, per tenerli sotto controllo
in zone sicure, devono essere coinvolti i militari thailandesi” 24.
L’Unhcr impegnò poco meno di 60 milioni di dollari per rispondere alle necessità di un numero massimo di 300mila rifugiati cambogiani, e creò un’apposita Unità
Kampuchea presso l’Ufficio regionale di Bangkok, per coordinare la realizzazione e
l’amministrazione dei centri d’accoglienza. Mai prima l’Unhcr era stato così coinvolto nella costruzione e nella gestione dei campi profughi. Fra i molti risultati del suo
intervento operativo alla frontiera cambogiana vi fu la creazione, in seno all’organizzazione, di una Unità emergenze, che da allora ha svolto un ruolo essenziale in ogni
grande crisi di rifugiati.
All’inizio del 1980, il principale centro d’accoglienza, Khao-I-Dang, ospitava già oltre
100mila cambogiani. Fra questi si trovavano molti minori non accompagnati, fonte di particolare preoccupazione per l’Unhcr e altre agenzie [cfr. riquadro 4.4]. Godendo di una
straordinaria pubblicità nei media – vantaggio a volte dubbio – Khao-I-Dang divenne,
almeno per qualche tempo, quello che un osservatore definì “probabilmente... il campo
profughi con i servizi più completi al mondo” 25. In quel periodo, era più popolato di qualunque città della Cambogia. Nel marzo 1980, quando si raggiunse una punta con 140mila
ospiti, a Khao-I-Dang lavoravano ben 37 organizzazioni non governative (Ong): ciò rifletteva la proliferazione, allora in atto a livello mondiale, delle attività delle Ong.
Per i cambogiani, tuttavia, le porte della Thailandia non sarebbero rimaste aperte
a lungo. Nel gennaio 1980, solo tre mesi dopo aver annunciato la politica di “porte
aperte”, il governo thailandese faceva marcia indietro, annunciando che i centri d’accoglienza erano ormai chiusi per i nuovi arrivati. Da allora in poi, dichiarò, questi
sarebbero stati ospitati in accampamenti alla frontiera, e non avrebbero potuto aspirare al reinsediamento in un paese terzo.
I campi di frontiera
Fra il 1979 e il 1981, gli aiuti umanitari ai campi alla frontiera cambogiana furono
coordinati da una missione congiunta, capeggiata dal Fondo delle Nazioni Unite per
l’infanzia (Unicef) e dal Comitato nazionale della Croce Rossa. Alla fine del 1981,
l’Unicef si ritirò ufficialmente come agenzia leader Onu per il programma di soccorsi umanitari alla frontiera: da un lato, per concentrarsi sull’assistenza allo sviluppo
nella stessa Cambogia e, dall’altro, per protestare contro la crescente militarizzazione
dei campi frontalieri, soprattutto da parte delle redivive forze dei khmer rossi.
A partire dal 1979, l’Unhcr era stato responsabile di Khao-I-Dang e di altri “centri
d’accoglienza” per i rifugiati cambogiani, ma aveva evitato di assumere un proprio
ruolo nei campi alla frontiera. A un dato momento, alla fine del 1979, l’Unhcr si era
offerto di fungere da agenzia agenzia leader dell’Onu nella zona di confine. Tuttavia, le
condizioni che impose – fra cui l’allontanamento di tutti i soldati e di tutte le armi dai
campi e il trasferimento dei campi stessi lontano dalla frontiera – furono allora considerate irrealistiche. Inoltre, almeno alcuni donatori internazionali ritennero che
l’Unhcr non fosse qualificato per gestire un’emergenza così rilevante e complessa.
93
I RIFUGIATI NEL MONDO
Riquadro 4.4
I minori indocinesi non accompagnati
Quando, nel 1979, i rifugiati
cambogiani cominciarono ad affluire
attraverso la frontiera thailandese, fra di
loro si trovava un gran numero di
bambini e adolescenti sotto i 18 anni,
apparentemente privi di parenti, che
furono definiti “minori non
accompagnati”, o “separati”. Sin
dall’inizio furono lanciati urgenti appelli
alla comunità internazionale per
reinsediarli all’estero, ma la loro
situazione era complessa e la ricerca di
soluzioni idonee si rivelò assai
problematica.
Molti adolescenti erano stati reclutati
con la forza, vari anni prima, nelle
brigate giovanili dei khmer rossi. Alcuni
avevano perduto la famiglia, mentre
altri ne erano rimasti separati a causa
degli sconvolgimenti seguiti
all’invasione vietnamita della Cambogia,
nel 1978. Altri ancora erano orfani,
avendo perduto entrambi i genitori. Con
un’indagine più approfondita, tuttavia,
si accertò che molti minori avevano
familiari che vivevano in Cambogia, in
vicinanza del confine, se non addirittura
nello stesso campo profughi. Era questo
il punto cruciale della controversia. Nel
dicembre 1979, pertanto, l’Unhcr
raccomandò cautela rispetto a
qualunque iniziativa precipitata per il
reinsediamento in paesi terzi e
l’adozione permanente, finché fosse
compiuto ogni tentativo per far
ricongiungere i minori non
accompagnati o separati con i parenti
superstiti, in Cambogia o nei campi
presso la frontiera.
L’anno seguente, una ricerca promossa
da un’organizzazione non governativa
norvegese, Redd Barna (“Salvate i
bambini”), e da altre Ong, acquisì la
certezza dell’esistenza in vita di molti
genitori. Dopo aver esaminato oltre
2mila pratiche, Redd Barna giunse alla
conclusione che più della metà dei
giovani ospiti dei campi era stata
separata dai genitori dalle circostanze,
e non dalla morte di questi. In alcuni
casi, li credevano morti a causa della
lunga separazione o di voci infondate;
altri dichiaravano falsamente che i
genitori erano morti, pensando che la
condizione di “non accompagnati”
avrebbe facilitato il reinsediamento in
un paese terzo. “Dalle indicazioni
raccolte risulta”, concludeva il
rapporto di Redd Barna, “che la
94
maggioranza dei genitori dei minori
non accompagnati sono ancora vivi e
si trovano in Kampuchea, e pertanto le
possibilità di ricongiungimento sono
considerevoli” viii.
Il rapporto si dimostrò esatto sul primo
punto, ma errato sul secondo. Per tutto
il decennio successivo, la politica della
guerra fredda ebbe ragione di ogni
iniziativa mirante al ricongiungimento
delle famiglie cambogiane. Se è vero
che, in fin dei conti, centinaia di minori
non accompagnati o separati ritrovarono
dei familiari nei campi presso il confine,
la grande maggioranza di loro furono,
invece, reinsediati in paesi terzi, sia che
vi avessero parenti o no.
Il “superiore interesse del
minore”
La normativa generale relativa al
benessere della famiglia e del
bambino, sulla quale si basa la prassi
in materia di minori non
accompagnati o separati, accorda ai
genitori il diritto-dovere di prendersi
cura dei figli fino al raggiungimento
della maggiore età. Se i genitori sono
deceduti o irreperibili, il principio
universalmente applicato a livello
internazionale è quello della tutela del
“superiore interesse del minore”,
fornendogli temporaneamente
sicurezza e assistenza, mentre si cerca
di rintracciare un familiare o di
affidarlo a un altro adulto
responsabile.
Il problema sorge quando il principio
dell’“unità familiare” si scontra con
quello del “superiore interesse del
minore”, come è così spesso avvenuto
in Indocina. Circa il 7% dei vietnamiti
arrivati nei paesi di primo asilo erano
minori non accompagnati. Alcuni
erano stati separati dai familiari
durante i caotici anni della guerra o
avevano perduto i genitori in mare
durante la fuga. Per molti bambini e
ragazzi, tuttavia, la separazione dai
genitori era voluta: non meno di un
terzo di loro fuggivano non tanto
dall’oppressione politica, quanto da
famiglie che non funzionavano. In
altri casi, i genitori mandavano via i
figli nella speranza di garantire loro
l’istruzione e una vita migliore in
Occidente.
Negli anni ’70 e ’80, quando lo
status di rifugiato era concesso
immediatamente a quasi tutti i boat
people vietnamiti, il dibattito sui
minori non accompagnati era
incentrato sul miglior modo di
proteggerli nei campi di primo asilo,
e poi di reinsediarli con buone
prospettive di successo. Con
l’istituzione, tuttavia, di procedure
regionali per la determinazione dello
status, nell’ambito del Piano d’azione
globale dell’Unhcr, il problema del
rimpatrio dei minori, per tornare
nelle loro famiglie nel Viet Nam,
assunse enorme importanza
Nel 1989 l’Unhcr istituì in ogni paese
di primo asilo un apposito comitato,
composto da rappresentanti del
governo, dell’Unhcr e di organismi
competenti nel settore dell’assistenza
all’infanzia, che era chiamato a
pronunciarsi caso per caso sulla
soluzione più rispondente al
“superiore interesse” del minore.
L’Unhcr insisteva sull’esigenza della
rapidità, perché un soggiorno
prolungato nei campi profughi era
potenzialmente dannoso per i minori
non accompagnati, ancor più che per
gli adulti o i bambini accompagnati
da familiari. Nel novembre 1990,
nella regione rimanevano 5mila
minori non accompagnati in attesa
di decisione, e la procedura
straordinaria era oggetto di dure
critiche. Più di una Ong accusò
l’Unhcr di propendere per il rimpatrio
e di creare, per raggiungere tale
obiettivo, ritardi ingiustificati per un
eventuale reinsediamento.
I minori non accompagnati per i
quali, al termine della procedura, fu
raccomandato il reinsediamento –
quasi un terzo degli interessati –
partirono per cominciare una nuova
vita. Quelli, invece, per cui fu
proposto il rimpatrio rimasero in
genere nei campi profughi. In
realtà, la procedura straordinaria
significò che molti minori furono
tenuti in sospeso più a lungo degli
altri candidati all’asilo. Alla fine del
1993, oltre 2.600 minori, arrivati
nei campi quando avevano meno di
16 anni, erano ormai usciti da tale
fascia d’età e rientravano dunque
nella normale procedura applicata
agli adulti.
L’esodo dall’Indocina
Nel gennaio 1982, la United Nations Border Relief Operation, Unbro (l’Operazione
delle Nazioni Unite di soccorso) assunse alla frontiera il coordinamento dell’operazione
umanitaria. La sua missione era chiara: fornire la prima assistenza a coloro che erano fuggiti nella “terra di nessuno” lungo la frontiera fra la Thailandia e la Cambogia; non aveva,
però, un esplicito mandato di protezione, né era incaricata di cercare soluzioni durature per
la popolazione affidata alle sue cure.
Nel giugno 1982, le due fazioni non comuniste della resistenza cambogiana, che combattevano contro l’occupazione vietnamita del paese, si unirono alle forze dei khmer rossi,
che erano pure rifugiate nei campi frontalieri, costituendo a livello tripartito il “Governo
di coalizione della Kampuchea democratica” (Gckd). Mantenendo un seggio
nell’Assemblea generale dell’Onu e una serie di campi base lungo la frontiera thailandese,
il Gckd esercitò per tutto il decennio una costante pressione politica e militare su Phnom
Penh, e la guerra civile che seguì provocò nuove ondate di violenze nei campi.
Fra il 1982 e il 1985, il personale dell’Unbro partecipò a oltre 95 evacuazioni di campi
profughi dalla zona frontaliera, di cui 65 sotto il fuoco dell’artiglieria 26. Nel 1984-85,
un’offensiva vietnamita durante la stagione secca riuscì a spostare dalla frontiera verso l’interno del territorio thailandese la maggioranza dei campi di fortuna, ma essi rimasero affidati alle cure dell’Unbro, sotto la gestione del Gckd e senza accesso al reinsediamento. A
seguito della chiusura ufficiale ai nuovi arrivati, nel 1980, della frontiera e dei centri d’accoglienza, Khao-I-Dang divenne per molti cambogiani delle zone frontaliere una sorta di
“terra promessa”, un’oasi al riparo dai tiri d’artiglieria e dal reclutamento forzato, che
offriva la possibilità, per quanto remota, della fuga. Ma anche Khao-I-Dang aveva i suoi
specifici problemi in materia di protezione. Coloro che aspiravano ad entrarvi dovevano
fare i conti con la corruzione e gli abusi dei trafficanti di clandestini e degli addetti alla
sicurezza, solo per entrare nel campo e, una volta dentro, spesso gli “illegali” dovevano per
anni subire intimidazioni, sfruttamento e correndo il rischio di essere scoperti, prima di
essere registrati e di avere l’intervista per un possibile reinsediamento.
Mentre l’Unhcr continuava ad amministrare Khao-I-Dang, continuava anche gli
sforzi, in larga misura infruttuosi, per negoziare un rimpatrio volontario e organizzato in Cambogia. Con la crescita dei gruppi di resistenza e con l’intensificarsi del conflitto, i movimenti dalla zona frontaliera verso la Cambogia divennero sempre più difficili. Un osservatore spiegava:
Non solo il governo vietnamita e quello della Rpk [Repubblica popolare di Kampuchea] hanno
minato il lato cambogiano della frontiera, ma anche, dare punto di vista della Rpk, gli ospiti dei
campi profughi sono ormai inevitabilmente legati ai gruppi di resistenza. Questi temono quindi di
essere considerati traditori e di rischiare persecuzioni in caso di rimpatrio. Ciò fa cambiare il loro
status giuridico da sfollati a rifugiati sur place... Allo stesso tempo, i gruppi politico–militari hanno
sempre più preso il controllo della popolazione dei campi e dei valichi d’ingresso alla frontiera con
la Kampuchea, rendendo molto difficile il ritorno nel paese a coloro che lo desiderino 27.
Nel settembre 1980, l’Unhcr aveva aperto a Phnom Penh un piccolo ufficio, composto da due persone, e aveva annunciato il varo di un programma di aiuti umanitari per
i rimpatriati cambogiani, allora valutati in 300mila (compresi 175mila rientrati dalla
Thailandia). Il programma doveva fornire gli aiuti alimentari essenziali, sementi, attrezzi agricoli e generi per la casa ai rimpatriati, in cinque province di frontiera. L’iniziativa
95
I RIFUGIATI NEL MONDO
si rivelò prematura di circa un decennio.
Malgrado consultazioni protrattesi per anni,
l’Unhcr non riuscì a trovare un terreno di
intesa fra Bangkok e Phnom Penh, e i rientri
organizzati dai campi alla frontiera thailandese non ebbero luogo. Fra il 1981 e il 1988,
ufficialmente solo un rifugiato cambogiano
rimpatriò da un campo dell’Unhcr 28.
In incontri svoltisi a Parigi nell’agosto 1989,
le quattro fazioni rivali di quello che era stato
intanto ribattezzato “Stato della Cambogia”, non
riuscirono a compiere alcun progresso fondamentale nella ricerca di una soluzione globale 29.
Su una cosa, però, riuscirono a mettersi d’accordo: ai rifugiati cambogiani in Thailandia e a
quelli sfollati alla frontiera thailandese, per un
totale approssimativo di 306mila persone, doveva esser consentito, alla conclusione di un accordo di pace, di far ritorno alle loro case volontariamente e in condizioni di sicurezza. Il fallimento della conferenza di Parigi rese, tuttavia,
tale prospettiva decisamente ipotetica e, nel settembre 1989, il ritiro dei rimanenti 26mila
militari vietnamiti, precipitò la Cambogia in una
nuova guerra civile. Nelle regioni di frontiera
ebbe inizio un nuovo ciclo di esodo forzato.
Nell’ottobre 1991, a Parigi fu finalmente firmato, sotto l’egida delle Nazioni Unite,
un accordo in base al quale queste avrebbero
istituito un’amministrazione transitoria. La
Cambogia fu dunque posta sotto il controllo
di un’Autorità transitoria delle Nazioni
Unite (Untac) in attesa di elezioni su scala
Queste bambine del campo di Aranyaprathet, in
nazionale [cfr. capitolo 4.1]. Il piano preveThailandia, erano fra le decine di migliaia di cambogiani fuggiti sotto la minaccia delle armi dei khmer deva, inoltre, i seguenti impegni da parte
rossi, che svuotarono città e villaggi dei loro abitanti. delle varie fazioni: disarmare e smobilitare il
(UNHCR/Y. HARDY/1978)
70% delle loro forze, liberare i prigionieri
politici, aprire le rispettive “zone” alle ispezioni internazionali e alla registrazione degli
elettori, nonché permettere a tutti i rifugiati cambogiani esuli in Thailandia di rimpatriare in tempo per iscriversi nelle liste elettorali e partecipare alle elezioni. Al momento della conclusione dell’accordo, i campi frontalieri dell’Unbro in Thailandia ospitavano oltre 353mila rifugiati, mentre altri 180mila cambogiani erano sfollati all’interno
del proprio paese. Nel quadro dell’accordo di pace, l’Unbro trasferì, a partire dal
novembre 1991, la gestione dei campi frontalieri all’Unhcr, che mise in moto i programmi di rimpatrio.
96
L’esodo dall’Indocina
Dal marzo 1992 al maggio 1993, l’Unhcr coordinò un programma di rimpatrio che
ebbe come risultato la chiusura dei campi frontalieri e il trasferimento, in condizioni di
sicurezza, di oltre 360mila persone in Cambogia, in tempo per partecipare alle elezioni. Il
3 marzo 1993, l’ultimo convoglio con 199 rimpatriati partì da Khao-I-Dang e il campo –
che era stato aperto il 21 novembre 1979 – fu ufficialmente chiuso. Nel suo intervento alla
cerimonia di chiusura, l’Inviato speciale dell’Unhcr, Sérgio Vieira de Mello, definì Khao-IDang “un simbolo potente e tragico” dell’esodo cambogiano e della risposta umanitaria
internazionale. Per l’Unhcr, aggiunse, “l’obiettivo principale e il risultato finale era stato di
creare un campo neutrale, in cui persone di qualunque affiliazione politica potessero trovare riparo”. Nel contempo, osservò Vieira de Mello, “Khao-I-Dang era anche divenuto un
trampolino per il reinsediamento nei paesi terzi” 30. Dal 1975 al 1992, oltre 235mila rifugiati cambogiani in Thailandia furono reinsediati all’estero, di cui 150mila negli Stati Uniti.
La maggioranza di loro passarono dai cancelli di Khao-I-Dang.
I rifugiati laotiani in Thailandia
Nel maggio 1975, quando la vittoria comunista nel Laos era tutt’altro che certa, gli
aerei da trasporto americani trasferirono in Thailandia circa 2.500 laotiani di etnia
hmong dalla loro roccaforte montana. I hmong, un gruppo minoritario degli altopiani, che aveva aiutato gli Stati Uniti nella guerra del Laos, avevano perduto nei combattimenti 20mila soldati; 50mila civili erano stati uccisi o feriti, e altri 120mila erano
stati strappati alle loro case. 31 Molti preferirono non aspettare un nuovo regime politico, ma fuggirono attraversando il fiume Mekong. Nel dicembre 1975, quando fu formalmente istituita la Repubblica democratica popolare del Laos, i rifugiati laotiani in
Thailandia erano già 54mila, tutti, salvo 10mila, di etnia hmong.
Un funzionario dell’Unhcr nel Laos e in Thailandia diede questa analisi della fuga
dei hmong dal Laos: “Non v’è dubbio che la grande maggioranza dei rifugiati hmong
siano fuggiti a causa di un reale timore di rappresaglie o persecuzioni da parte del nuovo
regime... [ma] vi sono state ulteriori ragioni economiche per la partenza dei hmong dal
Laos, e per il momento scelto”. Non solo la guerra aveva distrutto vaste aree coltivate,
con i bombardamenti o con i defolianti chimici, ma per di più, come spiegava:
Un gran numero di famiglie hmong si sono abituate a contare sempre più sui viveri lanciati dagli
aerei, sugli aiuti distribuiti nei centri sociali, o sulla paga di soldato, portata a casa dai maschi adulti... Quando, nel 1975, questi mezzi di sussistenza alternativi sono bruscamente venuti a mancare, decine di migliaia di hmong si sono trovati improvvisamente non solo col timore della vendetta nemica, ma anche davanti a una scarsezza cronica di risorse... Se fossero rimasti nel Laos, è
difficile immaginare come avrebbero potuto evitare una carestia su larga scala 32.
Nel corso di una visita nel Laos, nel settembre 1975, l’Alto Commissario concluse un accordo col governo “per collaborare ad assistere i rifugiati laotiani che vogliano rientrare al più presto nel loro paese d’origine” 33. L’anno dopo, il Laos raggiunse
un accordo col governo thailandese per il rimpatrio dei rifugiati, ma benché l’Unhcr
si fosse impegnato a fornire il trasporto e un aiuto al reinserimento, nessun rimpatrio
ebbe luogo fino al 1980, quando 193 laotiani delle pianure tornarono alle loro case.
97
I RIFUGIATI NEL MONDO
Nell’ottobre 1974, l’Unhcr aveva aperto nella capitale,Vientiane, un proprio Ufficio,
che fino a tutto il 1977, aiutò al rientro migliaia di persone, fornendo loro aiuti alimentari e attrezzi agricoli 34. A seguito di una visita, nel settembre 1978, dell’Alto
Commissario Poul Hartling, l’Unhcr sospese ogni ulteriore attività in favore degli sfollati
all’interno del Laos.Annunciò invece un “riorientamento delle attività dell’Unhcr verso le
province alla frontiera thailandese, in particolare nel sud del paese... al fine di prevenire
l’esodo di coloro che potrebbero essere indotti ad abbandonare il Laos a causa delle difficoltà economiche e della penuria cronica di generi alimentari in alcune zone” 35.
Arrivi di indocinesi, secondo il paese/territorio
di primo asilo, 1975–95
Paese/territorio
1975–79
1980–84
Fig. 4.3
1985–89
1990–95
di primo asilo
Totale
1975–95
Boat people vietnamiti
Hong Kong
79.906
28.975
59.518
27.434
195.833
Indonesia
51.156
36.208
19.070
15.274
121.708
Giappone
3.073
4.635
1.834
1.529
11.071
409
318
621
0
1.348
4.333
2.777
17
1
7.128
Malaysia
124.103
76.205
52.860
1.327
254.495
Filippine
12.299
20.201
17.829
1.393
51.722
Singapore
7.858
19.868
4.578
153
32.457
Thailandia
25.723
52.468
29.850
9.280
117.321
2.566
340
321
0
3.227
Totale parziale (boat people)
311.426
241.995
186.498
56.391
796.310
Thailandia (via terra)
397.943
155.325
66.073
20.905
640.246
Cambogiani
171.933
47.984
12.811
4.670
237.398
Laotiani
211.344
96.224
42.795
9.567
359.930
14.666
11.117
10.467
6.668
42.918
709.369
397.320
252.571
77.296
Corea. Rep. di
Macao
Altri
Vietnamiti
Totale (via mare e via terra)
*Da segnalare, inoltre, 2.163 cambogiani, arrivati in Indonesia, in Malaysia e nelle Filippine dopo il 1995.
98
1.436.556*
L’esodo dall’Indocina
Malgrado l’esodo dei laotiani delle pianure fosse cominciato lentamente, nel 1978
i registri dei campi profughi indicavano già oltre 48mila arrivi in Thailandia. Alcuni
laotiani erano fuggiti per il timore di essere imprigionati nei campi di rieducazione.
Altri erano partiti a seguito della perdita della libertà politica, economica e religiosa.
Da parte sua, l’Unhcr temeva – e i suoi timori erano condivisi dai funzionari thailandesi – che la fuga degli abitanti delle pianure fosse provocata in gran parte dai problemi economici del Laos e dalla prospettiva di un rapido reinsediamento in un paese
terzo, una volta accolti nei campi profughi situati sull’altra riva del Mekong.
Nel gennaio 1981, la Thailandia aprì un nuovo campo, Na Pho, per i profughi delle
pianure, sistemandovi tutti i nuovi arrivati; il campo offriva solo limitate infrastrutture,
razioni alimentari a livello di sopravvivenza e nessuna possibilità di reinsediamento 36. La
politica, definita dalla Thailandia come un “deterrente umanitario” – mantenere aperte
le frontiere, chiudendo al tempo stesso la porta al reinsediamento e limitando le infrastrutture dei campi profughi – sembrò avere effetto sull’esodo degli abitanti delle pia-
Reinsediamento dei rifugiati indocinesi,
secondo la destinazione, 1975–95
Paese di
Cambogiani
Fig. 4.4
Laotiani
Vietnamiti
Totale
reinsediamento
Australia
1975–95
16.308
10.239
110.996
137.543
Belgio
745
989
2.051
3.785
Canada
16.818
17.274
103.053
137.145
Danimarca
31
12
4.682
4.725
Finlandia
37
6
1.859
1.902
34.364
34.236
27.071
95.671
874
1.706
16.848
19.428
Giappone
1.061
1.273
6.469
8.803
Norvegia
128
2
6.064
6.194
4.421
1.286
4.921
10.628
Paesi Bassi
465
33
7.565
8.063
Regno Unito
273
346
19.355
19.974
Stati Uniti *
150.240
248.147
424.590
822.977
Francia
Germania. Rep. fed. di
Nuova Zelanda
Svezia
19
26
6.009
6.054
Svizzera
1.638
593
6.239
8.470
Altri
8.063
4.688
7.070
19.821
235.485
320.856
754.842
1.311.183
Totale
*Esclusi gli arrivi nel quadro del Programma di partenze organizzate.
99
I RIFUGIATI NEL MONDO
Campi assistiti dall’Unhcr per i rifugiati cambogiani, laotiani
e vietnamiti in Thailandia, negli anni ’80 e ’90 Cartina 4.2
REPUBBLICA POPOLARE CINESE
VIET NAM
MYANMAR
HANOI
REPUBBLICA
DEMOCRATICA
POPOLARE
DEL LAOS
VIENTIANE
Ban Vinai
Ban Na Pho
THAILANDIA
Khao-I-Dang
BANGKOK
Mar
delle
Andamane
Mar
Cinese
meridionale
CAMBOGIA
PHNOM PENH
Golfo
di
Thailandia
LEGGENDA
Capitale di stato
Confine di stato
0
150
Chilometri
300
Campi per i rifugiati indocinesi
Cambogiani
Laotiani degli altopiani
Laotiani delle pianure
Vietnamiti
MALAYSIA
Centri di selezione
nure. Il reinsediamento dei laotiani calò da oltre 75mila nel 1980 a circa 9mila nel 1982.
Nello stesso periodo, gli arrivi di rifugiati dalle pianure scesero da 29mila a 3.200.
Quando, nel 1983-1984, gli arrivi dei laotiani ripresero ad aumentare, la
Thailandia decise di sperimentare un’altra strategia. Il 1° luglio 1985, il governo
annunciò l’istituzione di una procedura di selezione alla frontiera. I profughi in arrivo dovevano presentarsi agli uffici del comitato di selezione, in una qualunque delle
100
L’esodo dall’Indocina
nove province frontaliere, per un colloquio con i funzionari dell’Immigrazione, al
quale i responsabili della protezione dell’Unhcr avevano la facoltà di assistere come
osservatori. Quelli considerati rifugiati erano mandati a Ban Vinai, il campo per i
hmong, oppure a Na Pho, quello destinato ai laotiani delle pianure. Per coloro la cui
domanda era respinta, l’Unhcr aveva la possibilità di fare ricorso, prima che fossero
internati in attesa del rimpatrio nel Laos.
Alla fine del 1986, l’Unhcr riferiva che il 66% dei circa 7mila laotiani intervistati
erano stati riconosciuti come rifugiati. Sebbene superiori alle previsioni iniziali, le cifre
rivelavano che quasi nessuno dei richiedenti apparteneva all’etnia hmong. Le notizie
che giungevano dalla frontiera indicavano che, in realtà, nel corso dell’anno parecchie
centinaia di hmong erano stati rimandati indietro. All’inizio del 1988, la posizione del
governo thailandese nei loro confronti si era in una certa misura ammorbidita, probabilmente per effetto dell’impegno degli Stati Uniti ad aumentare le possibilità di reinsediamento per i hmong. Dal 1985 al 1989, i funzionari thailandesi intervistarono circa
31mila laotiani, dei quali il 90% ricevette lo status di rifugiato.
Il Piano d’azione globale invitava i governi della Thailandia e del Laos, d’intesa con
l’Unhcr, ad accelerare i negoziati volti “a garantire la sicurezza degli arrivi e l’accesso al
processo di selezione dei laotiani; nonché ad accelerare e snellire le procedure sia per il
rimpatrio degli esclusi che per il rimpatrio volontario... in condizioni sicure, dignitose
e controllate dall’Unhcr” 37. Alla fine del 1990, l’Unhcr e il ministero thailandese
dell’Interno avevano elaborato nuove procedure, conformi a quelle applicate su scala
regionale ai richiedenti asilo vietnamiti. All’Unhcr era consentito assistere alle interviste,
interrogare gli stessi richiedenti, e ricorrere contro le decisioni del comitato thailandese responsabile dell’istruttoria delle domande. In totale, dall’ottobre 1989 alla fine del
1996, furono intervistati circa 10mila laotiani, di cui il 49% ricevettero lo status di rifugiato e il 45% furono respinti, con la rimanenza dei casi in sospeso o comunque chiusi. Il calo della percentuale di riconoscimento era anche dovuto al fatto che, di norma, i
funzionari thailandesi dell’Immigrazione non consideravano più la presenza di familiari in un paese di reinsediamento come un motivo sufficiente per l’approvazione.
Alla fine del 1993, tutti i campi per i profughi laotiani erano stati chiusi, ad eccezione di Na Pho. Il compito principale dell’Unhcr, dal lato thailandese della frontiera,
fu allora di persuadere gli esuli a rimpatriare e, dal lato laotiano, di aiutarli a reinserirsi dopo il rimpatrio. Sebbene si ponesse principalmente l’accento sul rimpatrio
volontario, a metà del 1991 il governo laotiano e quello thailandese concordarono sul
fatto che “le persone respinte nel processo di selezione saranno mandate indietro
senza ricorrere alla forza, in condizioni di sicurezza e dignità” 38.
Alla fine del 1995, i rimpatriati dalla Thailandia nel Laos erano poco più di
24mila: di essi, oltre l’80% beneficiavano dello status di rifugiato in Thailandia e, dunque, non erano obbligati a rimpatriare se non di loro spontanea volontà. Nel caso di
4.400 rimpatriati (in maggioranza di etnia hmong), la domanda d’asilo era stata
respinta. A partire dal 1980, si calcola che fra 12 e 20mila laotiani ritornarono spontaneamente dai campi profughi thailandesi.
Tutti i rimpatriati ricevevano lo stesso “pacco assistenza” standard, che comprendeva un’indennità in contanti equivalente a 120 dollari e una provvista di riso per un
anno e mezzo. Gli altri aiuti standard, forniti prima della partenza dalla Thailandia,
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I RIFUGIATI NEL MONDO
consistevano in attrezzi agricoli e di falegnameria, sementi per ortaggi e zanzariere.
Oltre a ciò, ogni famiglia che rimpatriava in un insediamento rurale riceveva un
appezzamento di terreno per la casa, uno–due ettari di terra coltivabile e materiali da
costruzione. La maggior parte degli insediamenti rurali finanziati dall’Unhcr erano,
inoltre, dotati di rete idrica, strade e scuole elementari. Nel 1996, gli osservatori dell’organizzazione riferivano che “nel Laos, i rimpatriati non corrono rischi per la loro
incolumità fisica. In generale, i rimpatriati si preoccupano di rifarsi una vita e di nutrire la famiglia” 39.
L’Indocina segna una svolta
In quasi un quarto di secolo di esodi all’interno e all’esterno della regione, oltre tre
milioni di persone fuggirono dai paesi d’origine, di cui circa 2,5 milioni trovarono
una nuova patria altrove e mezzo milione rimpatriarono. Nel corso di tali esodi, si
ricavarono molti insegnamenti in merito ai soccorsi internazionali e alla soluzione dei
problemi di rifugiati. Dal lato positivo, si può segnalare, a livello mondiale, lo straordinario impegno dei paesi di reinsediamento, e il fatto che la Cambogia, il Laos e il
Viet Nam finirono con l’accettare dei programmi di rimpatrio o di reinserimento. Si
trovarono, inoltre, soluzioni innovative con il Programma di partenze organizzate e le
misure contro la pirateria e per i salvataggi in mare. Prima della crisi, la maggioranza
dei paesi della regione non aveva sottoscritto la Convenzione Onu del 1951 sui rifugiati; in seguito, vi hanno aderito la Cambogia, la Cina, la Corea del sud, le Filippine,
il Giappone e la Papuasia-Nuova Guinea.
Dal lato negativo, ci sono le innumerevoli persone annegate, o che persero la vita
o comunque soffrirono a causa di attacchi di pirati, stupri, bombardamenti o respingimenti, o di lunghi internamenti in condizioni disumane. Troppo spesso, come
osservò nel 1989 l’Alto Commissario Jean-Pierre Hocké, la vigilanza non fu costante
e la solidarietà internazionale vacillò o venne meno:
Siamo tutti dolorosamente consci del fatto che quanto è stato raggiunto in questo spirito di
solidarietà internazionale ha richiesto una costante vigilanza e sforzi sempre rinnovati davanti
alle spaventevoli tragedie e alle miserie umane, meno visibili, che hanno accompagnato l’esodo dei rifugiati indocinesi. In certe occasioni, la volontà politica di dare asilo e di trovare soluzioni durature ha vacillato o è addirittura venuta meno, dando luogo al completo rifiuto dell’asilo, con i tragici respingimenti di imbarcazioni di rifugiati, a restrizioni all’accesso dell’Alto
Commissariato ai richiedenti asilo, o al prolungato internamento di persone che rientrano
nelle nostre competenze, in condizioni disagiate, al di sotto delle norme minime comunemente accettate 40.
La conferenza sui rifugiati indocinesi del 1979 vide grandi esternazioni circa le
preoccupazioni della comunità internazionale e l’impegno alla protezione dei rifugiati, ma diede anche origine al concetto di “primo asilo”, in base al quale la promessa
di protezione di un paese è ottenuta grazie all’offerta di reinsediamento di un altro.
Come osservò un ex funzionario dell’Unhcr, i due concetti ereditati dall’esperienza
indocinese – la ripartizione internazionale dell’onere e l’asilo temporaneo – “si sono
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L’esodo dall’Indocina
rivelati un’eredità di dubbio valore, suscettibile di essere applicata sia con grande vantaggio per la causa umanitaria, sia come comodo pretesto per scaricare una responsabilità ed evitare il biasimo” 41.
È stato osservato che la conferenza del 1989, che avallò il Piano d’azione globale,
rappresentò non solo un grosso cambiamento della politica seguita nei confronti dei
richiedenti asilo vietnamiti, ma anche una svolta nella posizione occidentale sul fenomeno dei rifugiati. Come avrebbero chiaramente dimostrato le crisi degli anni ’90, i
paesi occidentali non erano più disposti ad assumere impegni a tempo indeterminato
per il reinsediamento come soluzione permanente. Anche in seno all’Unhcr, in un rapporto di valutazione del 1994 si osservava che “il disincanto nei confronti del reinsediamento”, provocato dall’esperienza indocinese, “ha inciso negativamente sulla capacità dell’Unhcr di svolgere efficacemente tale funzione” 42.
Nella prospettiva di un nuovo secolo, si può guardare indietro all’esperienza
dell’Unhcr con i rifugiati indocinesi, rendendosi conto che il problema non era il
reinsediamento, che comunque da solo non costituiva la soluzione. L’eredità del programma per i rifugiati indocinesi sta nel fatto che la comunità internazionale e
l’Unhcr furono impegnati, per un periodo lungo e difficile, nella ricerca di un insieme di soluzioni che alla fine diede alla crisi una conclusione relativamente dignitosa.
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