factotum - Amici del Cabiria

Transcript

factotum - Amici del Cabiria
FACTOTUM
Sito: http://www.iddistribution.com/factotum/factotum.htm
Anno: 2005
Altri titoli: FACTOTUM - MAN OF MANY JOBS
Durata: 93
Origine: GERMANIA – NORVEGIA - USA
Genere: DRAMMATICO
Tratto da: ROMANZO OMONIMO DI CHARLES BUKOWSKI
Produzione: BENT HAMER, JIM STARK PER BULBUL FILM, STARK SALES, PANDORA
Distribuzione: MIKADO
Regia: BENT HAMER
Attori:
MATT DILLON
HENRY CHINASKI
LILI TAYLOR
JAN
MARISA TOMEI
LAURA
FISHER STEVENS
MANNY
DIDIER FLAMAND
PIERRE
ADRIENNE SHELLY
JERRY
KAREN YOUNG
GRACE
TONY LYONS
TONY ENDICOTT
JIM BROCKHOHN
BARISTA
JIMMY BROCKHOHN
GIOCATORE D'AZZARDO
CHRIS CARLSON
PROPRIETARIO DEL NEGOZIO DI LIQUORI
JOSEPH COURTEMANCHE
AVVENTORE DEL BAR
FRANK CRANDELL
CHRISTOPHER DAY
MATTHEW FEENEY
HARRY BERGLUND
DIANE KELSON
GEOFF SCHILZ
JIM WESTCOTT
Soggetto: CHARLES BUKOWSKI
Sceneggiatura: BENT HAMER - JIM STARK
Fotografia: JOHN CHRISTIAN ROSENLUND
Musiche: KRISTIN ASBJORNSEN
Montaggi: PAL GENGENBACH
Scenografia: EVE CAULEY
Costumi: TERE DUNCAN
Trama:
Henry Chinaski accetta ogni genere di lavoro, basta che gli dia i soldi necessari per dedicarsi alle uniche tre cose che
considera importanti nella vita e che ha eletto a sue personali divinità: l'alcol, le donne e la scrittura. Henry usa l'arma affilata
dell'ironia per mettere in luce le contraddizioni della vita e del sistema lavorativo nell'America contemporanea, con relazioni
nate nei bar, le chiacchiere, le interminabili ore in fabbrica...
Critica:
"Dal 'Factotum' di Bent Hamer non ci aspettavamo granché e invece, sorpresa: sarà che Matt Dillon, eterno ragazzo, mette per
la prima volta in Bukowski/Chinaski una certa ironia; sarà che lo scrittore, morto nel '94, non essendo più fastidiosamente di
moda risulta nuovamente vivo ed attuale, ma per la prima volta ci sembra di poter ascoltare veramente la sua voce . E poi il
norvegese Bent Hamer (suo il notevole Kitchen Stories ), adattando il romanzo 'Factotum', oltre che sull'alcol e le donne punta
sullo strano rapporto di Bukowski con i suoi mille lavori. Lavori umili, precari, accidentali, disprezzati e insieme ricercati
perché solo in un rapporto alienato con le proprie mansioni lo scrittore, paradossalmente, sembra trovare la verità del suo
tempo. E se ambientare tutto oggi suona qua e là anacronistico, l'andatura volutamente frammentaria del racconto, pieno di
episodi e incontri bislacchi, dà alle sue gesta il tono rubato, proprio in senso musicale, che più gli somiglia. Perché questo in
fondo fa Chinaski: ruba alla vita (al suo corpo) i suoi segreti; i piaceri acri dell'alcol e del sesso, ma anche quelli ineffabili del
lavoro; l'effimera ricchezza accumulata puntando sui cavalli, e l'amarezza senza fondo di un amore che finisce. Tutto
1
mescolato in un cocktail da trangugiare senza pensarci troppo perché solo così, cadendo e rialzandosi, 'sarai solo con gli dèi e
il fuoco incendierà le tue notti'. Il resto è per gli altri, per quelli che scelgono di lavorare, di fare soldi, di avere una bella casa
e magari rubarti la donna, come fa l'odioso tipetto dell'ippodromo. Ma la gioia, ovvero lo stupore, l'esaltazione, la dignità, la
libertà, non sanno nemmeno dove stia di casa." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 31 marzo 2006)
È difficile che un film riesca a restituire lo spirito e l'umore del mondo di uno scrittore ricorrendo al suo linguaggio, senza
tentativi mani di plagio e illustrazione. Factotum, del regista canadese Bent Hamer ci riesce, trasfigurando la vita e l'arte di
uno degli scrittori più intensi della letteratura americana del novecento: Charles Bukowski. Il film si ispira a un suo romanzo
omonimo, ma compie felici effrazioni anche in altri racconti, ricostruendo una trama che avanza per episodi e aneddoti. Henry
Chinaski, alter ego di Bukowski, è il protagonista (molto ben interpretato da Matt Dillon, sorretto da Lili Taylor e Marisa
Tomei) di una vita randagia. Mille lavori umili, mille birre tristi, qualche donna sbandata e una penna per tirare fuori il senso
delle cose, là dove un senso non c'è, e ricostruirlo in racconti spediti regolarmente al New Yorker, senza esito alcuno.
Chinaski si muove nel suo mondo rapito da un fatalismo creativo, mosso da uno spirito di sopravvivenza paradossale. Un
famoso aforisma di Beckett restituisce a pieno questo umore: «Non posso continuare. Continuerò». Tra le corna di questo
paradosso si sprigiona la forza di scrivere, di andare avanti. E questo sbattere le corna tra il non sensodella vitae la necessità di
vivere ha animato i migliori scritti di Bukowski, come anche la migliore letteratura dei nostri tempi. E non è un caso che
l'anima dolente e resistente del Chinaski/Bukowski ci abbia ricordato quella di Ferdinand Celine che nella prima pagina di
Morte a credito scrive: «Eccoci qui, ancora soli. C'è un'inerzia in tutto questo, una pesantezza, una tristezza... E' tutta gente
lontana... Si son cambiati l'anima per tradir meglio, scordar meglio, parlar sempre d'altro». Factotum avanza lentamente tra
anse, buchi e silenzi... spazi necessari per portare lo spettatore dentro un mondo sprofondato e intenso. Per prepararlo a
incassare le dolenti riflessioni che costeggiano il film. Chinaski sdraiato su di una panchina ha perso il lavoro e la donna con
cui si consolava. Non ha un centesimo, una casa e una prospettiva. Eppure la sua testa lavora, elaborando riflessioni che
animano queste sue parole: «Incredibile quanto ferocemente ci attacchiamo alla nostra infelicità, l'energia che bruciamo per
alimentare la nostra rabbia. Incredibile quanto un momento siamo li che ringhiamo come bestie e un momento dopo ci siamo
già scordati come e perché. E questo non per ore, giorni, mesi o anni ma per decadi. Vite completamente usate, consegnate
agli odi e ai rancori più insignificanti. Alla fine non resta niente alla morte da portare via». (Dario Zonta, L'Unità 31/03/2006)
Alcuni giorni nella vita di Charles (Hank) Bukowski: vane storie di sbronze, donne, cavalli e macchina per scrivere
furiosamente picchiata. Partito da Factotum, uno dei romanzi del ciclo di Henry Chinaski, il regista norvegese Bent Hamer
punta sul minimalismo, temendo la retorica del santo bevitore. Tutto è corretto e gli attori sono giusti (ottimo Matt Dillon), ma
si rasenta il color grigio. D’altra parte anche gli altri «bukowskiani» del cinema (Ferreri. Schroeder) non avevano spiccato il
volo. Manca quella carica di esaltazione con cui il vecchio Hank sapeva raccontare un pomeriggio alle corse, annotando senza
pudore: «Seppellitemi vicino all’ippodromo, così che possa sentire l’ebbrezza della volata finale». (Claudio Carabba, Corriere
della Sera - 14/04/2006)
A Charles Bukowski è riuscito da morto quello che a nessun altro grande romanziere contemporaneo, è mai capitato: trovare
un attore capace di incarnarlo con così tanta autorevolezza e naturalezza da resuscitarlo. È come se ogni bar frequentato dal
romanziere, ogni bottiglia svuotata, ogni donna riempita, ogni lavoro perduto, tutto e sempre comunque nel nome della totale
fedeltà alla scrittura, non la vita come un romanzo, ma il romanzo della vita, abbia anche fatto parte dell'esistenza di Matt
Dillon, una sorta di gioco degli specchi che a distanza di tempo riflette un'immagine nell'altra fino a comporne una nuova e
coerente. Chi ha in mente le foto classiche dell'ultimo Bukovski (il successo cominciò a sorridergli verso i sessant'anni)
troverà nel volto quarantenne di Dillon lo stesso sguardo beffardo e velato, la stessa noncuranza scambiata per disprezzo, la
medesima vitalistica disperazione. Come diceva Bukovski, «un intellettuale è un uomo che dice cose semplici in maniera
complicata.
Un artista è un uomo che dice cose complicate in maniera semplice». La semplicità con cui Dillon rende una vita
coscientemente bruciata spiega la differenza fra un bravo attore e un grande attore. (Stenio Solinas, Il Giornale - 31/03/2006)
Chi ha letto Charles Bukowski o visto i film in cui ha avuto parte (Storie di ordinaria follia, di Marco Ferreri, da un suo
romanzo, Barfly-Moscone da bar, da una sua sceneggiatura) sa che i suoi orizzonti sono locali periferici in cui ci si ubriaca
fino all'alba e i suoi ambienti sono squallidi appartamenti ammobiliati da cui i suoi personaggi sono quasi sempre sfrattati
perché si sono bevuti i soldi con cui pagare l'affitto. Gli stessi climi nel film di oggi, ricavato da un suo romanzo, «Factotum»,
costruito autobiograficamente attorno a un aspirante scrittore, Henry Chinaski, che, pur facendo di tutto, come il titolo
annuncia, non riesce a tenersi un lavoro più di qualche giorno perché i suoi disordini lo fanno regolarmente licenziare. I suoi
veri interessi — a parte lo scrivere — sono le corse di cavalli, dalle cui scommesse gli capita di ricavare qualche spicciolo,
l'alcool, che gli sottrae i pochi soldi guadagnati e le donne, da cui però è presto lasciato per uomini più abbienti. Una di queste,
Jan, fa in tempo a capirlo e a condividere per un po' la sua passione per le bevute smodate, condite di sesso a tutte le ore, poi
però, anche lei, prima sarà lasciata e poi, a sua volta, lo lascerà: per una vita più sicura. Anche se, in tutto quel nero, a un certo
momento si farà strada una piccola luce che promette bene per il futuro, l'accettazione, da parte di una casa editrice, di uno dei
tanti racconti che Chinaski ha continuato a spedire invano un po' a tutti, nella speranza, finalmente, di vederseli pubblicare. Si
2
è fatto carico di portare sullo schermo questa storia un regista norvegese, Bent Hamer, che prima di trasferirsi a Hollywood
aveva abbastanza convinto con un piccolo film, « Kitchen Stories realizzato in patria. Là i toni erano raccolti e l'ambiente era
quasi soltanto una cucina in cui due uomini, lì convenuti per un esperimento, a poco a poco legavano. Qui le cifre, considerata
la personalità di Bukowski, sono il contrario esatto di quelle: etilismo, scontri frontali, periferie sordide, personaggi con cui
volutamente si distrugge il «sogno americano». Bent Hamer vi ha fatto fronte in modo discontinuo, procedendo per quadri
staccati, affidandosi quasi soltanto a climi bui fatti emergere da una serie di capitoli, uno più desolato dell'altro. Con il solo
riscatto dell'interpretazione. Intanto, quella di Matt Dillon, che riesce a proporsi quasi come un alter ego dello stesso
Bukowski, lacerato, arruffato, sconvolto; poi, quella di Lili Taylor nei panni di Jan. Immersa come l'altro nelle stesse
atmosfere stravolte. (Gian Luigi Rondi, il Tempo - 03/04/2006)
Un uomo che si trascina alla deriva, guadagnando quel tanto che gli basta a procurarsi da bere, sopravvivere e avere di che
comprarsi penna e carta per scrivere storie che nessuno gli pubblica. Incarnato da Matt Dillon il personaggio si chiama Henry
Chinaski, alter ego dello scrittore Charles Bukowski (1920-1994) sul cui omonimo romanzo autobiografico si basa Factotum.
Un film non facile da costruire come far affiorare l'aspetto artistico di un protagonista in perenne stato di alterazione etilica? Il
norvegese Bent Hamer di Kitchen Stories ha scelto la strada per lui tipica di ritagliare in piccole scene, come una serie di
teatrini, l'iterativa odissea di Chinasky, che consuma l'esistenza di bar in bar passando da un lavoretto occasionale a un altro e
albergando in modestissime pensioni per poi finire sul marciapiedi. Mentre il suo legame amoroso con Jan, una donna che
anche lei affonda nell'alcol le sue disillusioni (una sensibile Lili Taylor), si chiude in modo non meno autodistruttivo con un
ritorno definitivo alla solitudine.
Di versioni cinematografiche da Bukowski ne sono state fatte e di valide, da Storie di ordinaria follia di Marco Ferreri con
Ben Gazzara e Ornella muti a, Barfly con Mickey Rourke e Faye Dunaway. Ma solo in Factotum, austera e ironica elegia di
un «dropout», emerge la dolente onestà di una vocazione artistica che coincide con una scelta di vita. Dillon, che di passaggio
a Roma per la conferenza stampa ha letto con Alessandro Haber brani scelti di Bukowski al partecipe pubblico del Teatro
Argentina, si cala in Chinaski con la sorprendente semplicità che permette solo un'interpretazione interiorizzata: basti dire che
l'ubriachezza non è mai recitata, bensì proposta nella chiave di un ipnotico stato d'animo esistenziale. Il che corrisponde allo
stile ellittico e raffinato di uno scrittore, di cui a oltre dieci anni dalla morte si comincia infine a parlare come di un classico.
(Alessandra Levantesi, La Stampa - 31/03/2006)
«Sono molto guardingo ad amare la vita, perché può prendermi, in giro se comincio ad amarla», dice Charles Bukowski a
Fernanda Pivano nel 1982. Dunque, prosegue, «vado molto cauto. Continuo à osservare tutto». Come lui fa l’Henry Chinaski
del suo Factotum (1975): attraversa la vita attento a non farsene lusingare e tradire, osservandola ironico. Nel frattempo, ne
cava fuori quel che di buono ne può cavar fuori: molto whisky, molto sesso, molte scommesse sui cavalli. E poi, anzi prima di
tutto — prima del whisky e del sesso, e addirittura prima delle scommesse —, molta, moltissima scrittura.
Proprio della scrittura parla 1’Henry Chinaski (Matt Dillon) del film che Bent Hamer e il cosceneggiatore Jim Stark hanno
tratto dal romanzo e da altri racconti di Bukowski (Factotum, Usa e Norvegia, 2005, 94’). La scrittura, dice all’inizio la voce
fuori campo di Henry, riguarda solo lo scrittore. E di se stesso, non del lettore o del critico, che deve preoccuparsi. Solo così,
aggiunge, gli riuscirà forse di mettere insieme qualcosa che vale. Ed è il caso di prenderlo sul serio, così come è il caso di
prendere sul serio Bukowski quando, ancora a Pivano, assicura: «Scrivere è il novanta per cento di me. L’altro dieci per cento
è aspettare di scrivere». Non conta che, nel film di Hamer, Chinaski sembri trascorrere non il 10 e nemmeno il 90. ma quasi il
100 percento del suo tempo in tutt'altre attività. Conta che dentro di lui, sia sempre uno scrittore. Lo è quando entra in un bar e
ordina un whisky, subito seguito da un secondo. Lo è quando si porta a letto una donna trovata in quello stesso bar. e anche
quando se ne fa portare a letto. E lo è quando si fa buttar fuori da qualunque posto di lavoro gli sia riuscito di procurarsi.
Sempre quel che fa o che subisce è un pezzo di scrittura. Lo è perché "vive" nella pagina di Chinaski Bukowski. certo. Ma lo è
anche perché "nasce" nei suoi occhi d'osservatore, appunto. Non è solo vita, dunque, e nemmeno un giudizio su di essa. È
piuttosto una sua costruzione, una sua trasformazione da natura e caso ad artificio e stile.
Così attraversa le sue giornate Chinaski, quello cinematografico come quello letterario: in una continua, apparente resa al
mondo, in un’apparente, continua sconfitta, e però con una muta capacità. di trasfigurare l’una e l’altra, di vivere l'una e l'altra
già come loro capovolgimento, nel momento stesso in cui accadono. Non si stupisce mai, il factotum, qualunque guaio gli
caschi addosso. È lui stesso a provocarne sempre di nuovi, forse proprio per esserne l’autore e lo scrittore”. E tutto questo fa
con un’ironia che mai diventa sarcasmo. Se lo diventasse, perderebbe quella distanza che, sola, gli garantisce di continuare a
osservarla, la vita, e a trasformarla in artificio e stile, senza farsene coinvolgere.
Non è un pessimista, il protagonista di Factotum. Per lui la vita è quel che è, e basta. Non ha scopi, e non può disattenderli.
Non ha traguardi, e non conosce fallimenti. Dunque, perché lui dovrebbe convincersi alla speranza dell’ottimista o alla
disperazione del pessimista? È un troppo assiduo frequentatore degli ippodromi, per cadere in quest’ingenuità. Là, tra
scommesse e cavalli, la gente va per ingannare la morte, dice la sua voce fuori campo. Ma per lo più perde i suoi soldi, e alla
fine forse anche la speranza di riuscire in quell’inganno. Non così capita a lui, e non solo perché è più accorto quando sceglie i
suoi cavalli (quelli su cui gli altri non puntano, come Bukowski dice di se stesso). Non gli capita perché conosce il gioco, e
perché sa qua! è davvero la sua posta. Non coltivando illusioni, non patisce disillusioni.
Quanto alla morte, peraltro, anche Chinaski è impegnato a ingannarla. Lo fa in primo luogo tenendo a bada le lusinghe della
vita (non i suoi piaceri). E lo fa anticipandola. Non sta ad aspettarla, impaurito, ma le corre incontro. Lo fa per il 100 percento
3
del suo tempo, preparandosi a scriverne e scrivendone. Intanto la irride. Così, in una splendida poesia di Bukowski, aveva
fatto per tutta un’estate il tordo beffeggiatore con la violenza minacciosa del gatto. Poi un giorno, «scavalcando i secoli», il
gatto si è fatto avanti, «col tordo vivo in bocca, le ali a ventaglio. L’estate era finita».
E tuttavia, l’importante è provarci. Così dice Henry Chinaski alla fine del film, alludendo alla scrittura. E se decidi di provarci,
aggiunge, allora vai fino in fondo, a qualunque costo: a costo di perdere gli amici, di non mangiare per giorni, di soffrire il
freddo in un parco. Alla fine, sarà meglio di qualunque cosa tu possa immaginare: «Sarai solo con gli dèi […] e cavalcherai la
vita diritto fino a una risata perfetta». (Roberto Escobar, Il Sole-24 Ore - 13/04/2006)
Che sia tratto dalle opere dell'autore di Storie d'ordinaria follia scomparso nel 94 lasciando ancora inesauribile una raccolta di
poesie postuma, Slouching Toward Nirvana, non è subito evidente. Certo che i conoscitori e amanti della sua letteratura come
Matt Dillon che di Factotum è il protagonista riconosceranno subito Henry Chinaski, aspirante scrittore tra notti ubriache,
lavoretti saltuari e donne, alter ego di Charles Buwokski e protagonista di Factotum a cui si ispira il film modulando anche
altre opere bukowskiane. Il regista Bent Hamer conosciuto con la rivelazione Kitchen story, anche autore di soggetto e
sceneggiatura insieme a Jim Stark, produttore «guru» del cinema indipendente tra gli altri di Jarmush, l'umorismo eccentrico,
misto d'arguzia, piacere esistenziale, stralunato quotidiano del precedente film lo innesta anche nelle avventure di
Chinaski/Bukowski azzerando così la retorica del flusso alcolico obbligato. Cosa non facile e infatti ci sono caduti in molti
nella trappola dell'eccesso, persino un esploratore di lisergie liberate come Barbet Schroeder (si pensi al magnifico More) che
in Barfly si lascia invece paralizzare (e con lui Mickey Rourke) dalla fenomelonogia alla Bukowski. Certo è che Hamer ha
avuto la fortuna dell'incontro alchemico con Dillon, barba, cervello, recitazione con ogni millimetro del corpo a costruire
magicamente l'aura che circonda e inquina lo scrittore come il suo humor. Irresistibile mentre inscatola cuffia in testa
sottaceti, il capo affascinato da quell'operaio prototipo Cpe che dice di essere scrittore lo esibisce agli altri industriali fumando
grossi sigari ma non esita a licenziarlo quando l'operaio (molto sociale) molla la catena per il bar. O per i cavalli dove si
guadagna meglio e subito senza farsi sfruttare da orridi padroni perdendo tempo in orridi mestieri. Certo ci sono i bar. E le
donne. E le mattine postume quelle che ti svegli e odi il mondo. Poi liti, sempre con le donne, e un padre che Chinaski odia.
Lo voleva impiegato, se lo ritrova alcolizzato senza soldi né mestiere e neppure l'eroismo da appendere fuori con la bandiera.
Che pretende di scrivere e invece i racconti non li pubblicano mai...
Complice di Matt Dillon è una magnifica Lili Taylor, la donna-della-sua-vita, con cui scopa, si ubriaca, poi si aggrediscono, si
tradiscono, si ritrovano. E pure se per breve tempo la misteriosa Marisa Tomei, fanciulla fragile coi polsi fasciati, nero
integrale e amici ricchi incontrata anche lei come le altre nelle solite notti (senza tetto) al bar. Ci sono anche le stanza
d'albergo o gli appartamenti affittati di squallore al neon, non c'è l'epoca, Factotum potrebbe svolgersi negli anni 60 e è
declinato al presente, ci dice di un'America povera e precaria, senza diritti o garanzie, stritolata dall'arroganza dei capitali
come l'occidente che si trova, oggi, all'improvviso ex mondo ricco obbligato alla rivolta. Intuizione del genio Bukowski che
Hamer riesce a visualizzare negli squarci surreali del suo film. Con sobrità e finezza. (Cristina Piccino, Il Manifesto 08/04/2006)
«Ecco il problema di chi beve, pensai versandomi da bere. Se succede qualcosa di brutto si beve per dimenticare; se succede
qualcosa di bello si beve per festeggiare; e se non succede niente si beve per far accadere qualcosa». Solo uno tra i tanti,
folgoranti aforismi di Henry Charles "Hank" Bukowski. Dropout, poeta e romanziere prolifico e tardivamente considerato sia
dall'editoria ufficiale che dalla scena beat. "Hank" perché, come spiegava Fernanda Pivano nel ricordo scritto per la morte
dell'amico - che paragonava a Hemingway e Mailer - quel "letterato barbone" nato ad Andernach, in Germania nel 1920 e
morto a San Pedro, California, nel '994, rifiutava Henry, il nome datogli dei genitori, emigrati a Los Angeles quando lui aveva
due anni. A loro, fin dall'adolescenza aveva preferito la bottiglia e la vita nomade. Tra sesso occasionale, arresti per
ubriachezza, scommesse all'ippodromo, scritture notturne e lavori precari, abbandonati molto prima di bersi i soldi della prima
paga. Una vita che è già oltre il cinema. Un memorabile Ben Gazzara lo ha interpretato in Storie di ordinaria follia di Marco
Ferreri nel 1981 (affiancato da un'esplosiva Ornella Muti). Mentre il vero Bukowski ha scritto, circa vent'anni fa, Barily di
Barbet Schroeder, in cui appariva pure in un cameo non accreditato. A prestargli la faccia - e l'acne, reale condanna per il
giovane Hank - era Mickey Rourke, con Faye Dunaway nella parte ispirata a una delle sue compagne, Jane Baker Cooley.
Factotum, tratto dal romanzo omonimo del 1975 e ispirato a brani di altri suoi libri, ha come leitmotiv l'ineluttabile
transitorietà dei suoi lavori - lavapiatti, facchino, posteggiatore, tra i tanti. E, a sorpresa, non è diretto da un regista americano.
Il candidato più probabile per il ruolo protagonista sarebbe stato Sean Penn (che a Bukowski ha dedicato il suo Tre giorni per
la verità), che Bukowski avrebbe voluto per Barfly (ma Penn voleva che fosse Dennis Hopper a dirigerlo, e non se ne fece
niente). Invece ad affrontare l'incandescente materia umana, in una coproduzione tra Norvegia, Stati Uniti e Germania, è il
norvegese Bent Hamer, autore di Eggs e Kitchen Stories, entrambi, come Factotum, selezionati alla Quinzaine di Cannes.
Spalleggiato dallo sceneggiatore Jim Stark, già produttore e distributore di Jim Jarmusch, ha scelto come protagonista, per la
parte di Henry Chinasky, l'alter ego letterario di Bukowski, un sorprendente Matt Dillon, bolso e frastornato, ma che presta
tutta la sua vulnerabilità di ex adolescente rabbioso. Deciso a giocarsi, sempre, come Chinaski, in prima persona. L'altra
gradita conferma del film è Jan, una sordida, spudorata, struggente Lili Taylor, icona del cinema Indie e qui compagna, per il
vecchio sporcaccione, di migliaia di sigarette, di dormite anche quando il palazzo va in fiamme, di postumi al cesso, tasche
vuote e pasti in zona cirrosi. Sempre con grottesco umorismo (vedere la scena del rimedio alle piattole ai genitali di lui per
capire). Agli antipodi del biopic all'americana, il film è dedicato - oltre che all'attrice Katrin Cartlidge, ricordata nei titoli di
4
coda - a tutti quelli che vogliono andare fino in fondo a se stessi tramite la scrittura: «L'unica battaglia buona che ci sia».
Perché le vite delle persone che non impazziscono mai sono di una noia davvero terribile. E la scrittura è l'unica cosa che può
tenere lontano dalla pazzia totale. (Raffaella Giancristofaro, Film Tv - 29/03/2006)
Beve e scrive, Hank Chinaski (alias Charles Bukowski). Scrive e beve, il resto è un attraversare la vita con il nichilismo zen di
un beatnik non si sa quanto volontario. Subisce i lavori più precari così come gli amori più sbandati con sodali di sbornie
(però con la minuscola Jan/Lili Taylor c'è molto di più, una complicità fisica e sociale in cui fa capolino anche la speranza di
una consapevolezza di felicità). Gestendo con leggerezza e humour (tanto), situazioni che in altri casi sarebbero state
affrontate con più melodrammatica esasperazione, il regista Bent Hamer (Eggs, Kitchen Stories) e il produttore Jim Stark
(Down By Law, In the Soup) hanno costruito una tipica macchina da festival indipendente, accolta con ovazioni alla
Quinzaine des reallzateurs all'ultimo Festival di Cannes. Quel che impedisce alla piacevole commedia sghemba una decisa
sterzata verso un impatto più convincente sono però i due filtri attraverso cui si è deciso di inquadrare i racconti dello scrittore
qui rivisti e addomesticati. Da una parte c'è il "corpo" di Matt Dillon: per quanto encomiabilmente si abbruttisca e rallenti i
suoi gesti nell'imitazione (quasi perfetta) del beone sapiente - scandalosa presenza che infastidisce con la sua placida
incapacità di essere produttivo e positivo il conformismo totalizzante dell'America contemporanea - la sua fisicità da sano
yankee cresciuto a latte e baseball non può essere comunque occultata. Dall'altra un cast tecnico di origine scandinava (in
particolare fotografia e musiche) regala tagli ironici e stranianti ai personaggi e al contesto, raggelando ed estetizzando
l'insieme. Per una storia, tenerella, di alcol e piccola filosofia esistenziale di un simpatico "maledetto". (Massimo Lastrucci,
Ciak - 13/04/2006)
"Con un gusto un po' vecchia maniera, 'Factotum' mette in scena un personaggio pieno di 'spleen' e mal di vivere; un asociale,
però dotato di una certa grazia e, a conti fatti, più umano di tutti gli altri. Il norvegese Bent Hamer scandisce gli eventi per
brevi quadri impressionistici, ambientati in un'America popolata di umiliati e offesi. Segue il suo eroe come in uno stato di
sonnambulismo; lasciando trasparire, però, una sottile vena ironica. Il limite è che il suo film non assume un vero punto di
vista: tutto è sullo stesso piano, dalla dipendenza alcolica alla vita erotica, ai rapporti col padre. Appesantito, laconico, parco
nei gesti, Dillon è bravo. L'ex ragazzo della 56ma strada non ha fatto la carriera di altri, però le sue scelte sono sempre
impreviste, e spesso interessanti." (Roberto Nepoti, 'la Repubblica', 31 marzo 2006)
Henry Chinaski è un vero “factotum”. Per vivere fa qualsiasi lavoro gli capiti, ma non dura mai molto a lungo. La sua natura
anarchica e senza regole lo porta ad essere sempre sbattuto fuori da qualsiasi posto: fuma in un deposito di cartoni, si fa
beccare al bar mentre dovrebbe essere a pulire vetri e pavimenti, scappa dalla fabbrica per andare alle corse dei cavalli. Le
scommesse, l’alcool e le donne sono l’occupazione principale, ma la sua vera passione è la scrittura, che pratica ovunque, in
qualsiasi situazione, riempiendo piccoli blocnotes con storie tratte dalla realtà che vive ed osserva. La sua realtà è quella dei
marginali, della gente che abita in misere case ammobiliate e passa le serate nei bar, sperando che un giorno o l’altro la
fortuna cambi il suo corso. Nei bar Henry incontra le donne della sua vita: Jan, vera anima gemella con la quale condivide
sbronze e parassiti, e Laura, che fa parte dell’“harem” di un facoltoso scrittore e lo introduce per breve tempo nell’ambiente
dei ricchi. Ma per Henry l’unica cosa che conta veramente è scrivere e tentare di pubblicare i suoi racconti, cosa che alla fine
gli riuscirà.
Non mollare mai, se tieni veramente a una cosa, è la chiosa nel finale del film, ma nella storia di Chinaski e nel mondo di
Charles Bukowski, autore del libro da cui il film è tratto, la morale non ha niente a che fare con l’ideologia dell’umile che
conquista fama e successo. L’American dream è sbeffeggiato e fatto a pezzi in questo caleidoscopio di vite border line, dalle
quali è molto difficile uscire ed evolversi. L’unico modo per fare un salto di classe è vendersi ai ricchi, come fanno le due
donne, l’una diventando l’amante di un arrogante impiegato, l’altra facendosi mantenere da un ricco vizioso. Non c’è d’altra
parte neanche l’aspirazione, se non fosse per motivi puramente alimentari, ad entrare nel mondo dei più agiati, raffigurati
come squallidi sfruttatori con molti lati patetici o comici.
Un pregio del film è infatti l’equilibrio che riesce a mantenere fra squallore e sense of humour, affrontando situazioni
potenzialmente drammatiche con un registro grottesco. La ricostruzione di ambienti e personaggi è accurata e resa credibile
soprattutto dall’interpretazione degli attori, che danno prova di una recitazione molto fisica, per rendere lo stato di costante
alterazione alcoolica dei protagonisti. Brava Lili Taylor nella parte di Jan e soprattutto Matt Dillon-Chinaski, barcollante e
cantilenante con la sua bella voce roca – anche voce narrante nell’originale – che purtroppo verrà persa nel doppiaggio. Manca
tuttavia quell’impronta personale che il regista norvegese aveva dimostrato due anni fa con il suo film d’esordio Kitchen
stories, necessaria a elevare il film al di sopra della categoria, fin troppo affollata, della corretta e ben confezionata
trasposizione cinematografica da romanzo. (www.fice.it)
Straordinario Dillon nel ruolo di Bukowski. Gli restituisce grazia e dignità con una recitazione umile e minimalista
Più ancora che eccessi e stravizi, del Bukowski di Factotum a colpire è la grazia. Un tocco di spleen e poesia, con cui il regista
norvegese di Kitchen Stories ammanta l'intero film, evitando le facili caratterizzazioni in cui pure erano caduti Marco Ferreri
(Storie di ordinaria follia) e Barbet Schroeder (Barfly). Complice della riuscita operazione è un bravissimo Matt Dillon.
Sempre più coraggioso nelle sue scelte professionali, per misurarsi col personaggio di Bukowski adotta il registro più
inaspettato: smussa gli angoli, abbassa i toni, lavora per sottrazione, limitando al minimo la recitazione. A dispetto delle tinte
5
forti che pure offrirebbero gli eccessi del personaggio, è nell'umiltà di questa scelta che trova la chiave vincente. Sbronze,
scommesse, lavoretti saltuari e vita raminga: la parabola del suo Henry Chinaski è la stessa del Bukowski che conosciamo da
Factotum e dagli altri suoi libri. Distante anni luce dall'icona, il ritratto di Hamer e Dillon punta però sul minimalismo per
restituire anima e dignità all'uomo, liberandolo dal personaggio. Silenzi, movenze trascinate, sguardi bassi e persi nel vuoto di
Dillon parlano di un disagio e un'incomunicabilità quasi universale. Incompreso fra gli incompresi, Chinaski si muove nella
galassia di derelitti che sopravvive all'ombra dell'America scintillante: quella degli homeless, dei lavoratori saltuari, degli
operai che affidano i loro sogni al miraggio delle scommesse. Il tutto in quasi rigoroso silenzio, su note malinconiche e coi
ritmi rallentati che il regista mutua da quelli dello stesso Bukowski e una fotografia in grado di esasperare l'alienazione dei
protagonisti. Monadi che si incontrano e sfiorano in un un microcosmo marginale eppure verissimo e palpitante: a modo loro
si amano, come Chinaski e lo straordinario personaggio interpretato da Lily Taylor, ma sono destinati a soccombere. Le
urgenze sono altre. E per Bukowski, verrebbe da dire, quasi più alte.(www.cinematografo.it)
Note:
- PRESENTATO IN CONCORSO ALLA 37MA QUINZAINE DES REALISATEURS, CANNES 2005.
-AMANDA AWARDS, NORWAY 2005
Nominated Amanda Best Direction: Bent Hamer
-COPENHAGEN INTERNATIONAL FILM FESTIVAL 2005
Won Golden Swan Best Actress: Lili Taylor
- LA SCENOGRAFA EVE CAULEY E' ACCREDITATA COME EVE CAULEY TURNER.
- LA SCENEGGIATURA E' BASATA ANCHE SU BRANI TRATTI DA ALTRE OPERE DI CHARLES
BUKOWSKI: "THE DAYS RUN AWAY LIKE WILD HORSES OVER THE HILLS", "WHAT MATTERS MOST
IS HOW WELL YOU WALK THROUGH THE FIRE", "IL CAPITANO E' FUORI A PRANZO".
6