Flessibilità del mercato del lavoro e coesione sociale
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Flessibilità del mercato del lavoro e coesione sociale
MARIO BIAGIOLI, EMILIO REYNERI E GILBERTO SERAVALLI Flessibilità del mercato del lavoro e coesione sociale 1. Introduzione A partire da un rapporto elaborato nel 1986 da un gruppo di esperti istituito presso l’OCSE e presieduto da Ralf Dahrendorf la flessibilità del mercato del lavoro – intesa come «capacità degli individui e delle istituzioni di adattarsi alle nuove circostanze» (globalizzazione, crescente incertezza, ridotta efficacia delle tradizionali misure di controllo dell’economia) – è diventata la risposta privilegiata alle necessità di «adeguare l’aggiustamento economico agli shock da offerta (energetici, inflazionistici, derivanti dal cambiamento della struttura del commercio e della finanza internazionale, ecc.), proseguire sul terreno dell’innovazione tecnologica, confrontarsi con i nuovi problemi sociali e migliorare la qualità del lavoro» (OCDE 1986). Anche l’Italia ha seguito questa ricetta, sia pure partendo un poco più tardi di altri paesi. Da ormai un decennio le politiche del lavoro italiane sono volte all’inserimento di livelli crescenti di flessibilità. L’esperienza permette ormai di fare un bilancio degli effetti e valutare i pro e i contro delle riforme. In questo contributo vengono presentati, prima di tutto, argomenti atti a sfatare due luoghi comuni: i) che l’Italia abbia adottato politiche di flessibilità blande. Si argomenterà, al contrario, che l’Italia ha marciato speditamente in tale direzione già a partire dalla metà degli anni novanta e che, anzi, nell’ultimo anno – a seguito dell’approvazione della legge 30/2003 e del d.lgs. 276/2003 – le politiche del lavoro sono state indirizzate verso una vera e propria «deregolazione» con effetti rilevanti sulla composizione e sui comportamenti del mercato del lavoro (paragrafi 1 e 2); ii) che esista una sola via alla flessibilizzazione STATO E MERCATO / n. 71, agosto 2004 278 Mario Biagioli, Emilio Reyneri e Gilberto Seravalli del mercato del lavoro, mentre in realtà le vie sono diverse (paragrafo 3) e anche diversamente auspicabili (paragrafo 4). Sono poi esaminati vantaggi e costi della flessibilità (paragrafo 5), individuando nella possibile riduzione della coesione sociale il danno maggiore che questo tipo di politiche può produrre ed esaminando i modi in cui ciò può avvenire. In chiusura verranno presentate considerazioni sulle politiche nuove che, a nostro avviso, sarebbe utile mettere in campo (paragrafo 6). 2. Le politiche del lavoro negli ultimi dieci anni 2.1. Le politiche del lavoro nel periodo 1996-2001 Le politiche del lavoro attuate nella seconda metà degli anni novanta sono state decisamente orientate all’obiettivo di aumentare la crescita della domanda di lavoro attivata dall’aumento del PIL («elasticità dell’occupazione») per ridurre il tasso di disoccupazione compatibile con la stabilizzazione dei prezzi. I dati della tabella 1 rendono evidente che sino al 1997 le variazioni dell’occupazione si muovono in media nella medesima direzione, ma in misura molto più ridotta, delle variazioni del reddito, mentre a partire dal 1998 gli aumenti della domanda di lavoro indotti dall’aumento del reddito vanno crescendo fino a che, nel triennio 2001-2003, l’occupazione cresce addirittura ad un ritmo superiore di quello del reddito. Gli interventi attuati in questi anni hanno operato in modo interconnesso e cumulativo, agendo sia dal lato dell’offerta di lavoro (attraverso l’ampliamento della tipologia di forme contrattuali, iniziata con la legge 196/1997, e le molte altre misure dirette ad aumentare la flessibilità dell’impiego), sia dal lato della domanda (attraverso una marcata riduzione degli oneri sociali e contributivi versati dai datori di lavoro e riduzioni del carico fiscale a favore delle imprese che aumentavano gli investimenti e assumevano lavoratori, in particolare quelli provenienti da categorie svantaggiate), sia, infine, attraverso la semplificazione e il decentramento di funzioni amministrative, avviato dalle cosiddette leggi Bassanini e proseguito successivamente in quattro direzioni: a) la modifica nel 2001 del Titolo V della Costituzione, che ha cambiato la gerarchia delle fonti legislative nazionale e regionali riguardanti il mercato del lavoro; b) gli strumenti di programmazione concertata: patti territoriali, con- Flessibilità del mercato del lavoro e coesione sociale 279 TAB. 1. Variazioni percentuali annue del reddito e delle «unità di lavoro». Italia: 19902003 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 +2,2 +1,1 +1,4 Variazione % annua delle «unità di lavoro» +0,9 –0,6 –1,8 –1,6 –0,6 +0,5 +0,4 +1,1 +1,3 +1,9 +2,1 +1,5 +1,0 Variazione % annua del prodotto interno lordo reale 0,6 –1,2 +2,2 +2,9 +0,7 +2,0 +1,8 +1,7 +3,1 +1,8 +0,4 +0,4 Fonte: dati ISTAT. TAB. 2. Composizione % spese per politiche del lavoro: Italia anni 1996-2002 Italia Tipo di spesa 1996 1997 1998 1999 2000 2001 Servizi impiego e assistenza ricerca lavoro Formazione professionale Contratti a causa mista (FL e Appr.) Incentivi all’occupazione Incentivi per i disabili Creazione diretta di posti di lavoro Incentivi all’autoimpiego Totale politiche attive – – – – 0,5 0,3 3,4 5,2 9,0 10,4 5,0 6,7 – – 2,5 3,4 – – 35,7 38,1 8,0 11,8 11,5 – 3,8 1,2 42,1 5,9 14,6 12,7 – 4,7 1,8 44,2 3,2 13,9 16,0 – 4,1 3,5 43,8 4,2 12,6 20,3 0,2 2,9 5,0 46,6 2,3 13,7 22,2 0,2 1,5 1,8 41,6 Trattamenti di disoccupazione Pensionamenti anticipati Totale politiche passive 37,9 38,3 16,6 14,5 54,5 52,8 36,0 10,8 46,8 36,1 8,2 44,3 34,4 7,1 41,5 33,9 5,0 38,9 38,1 5,4 43,5 Voci non classificabili* 25,6 21,5 16,9 16,0 17,8 15,4 14,5 Totale generale – 2002 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 * Inclusi sgravi a carattere settoriale e territoriale. Fonte: Dati tratti dai rapporti di monitoraggio del Ministero del lavoro. tratti d’area, contratti di programma; c) il decentramento dei servizi per l’impiego e d) l’arricchimento della formazione professionale, decentrandone la gestione. Il dato quantitativo che meglio misura l’evoluzione del disegno normativo in questo periodo è l’aumento della spesa per politiche del lavoro «attive» rispetto alla spesa per politiche del lavoro «passive». Nel 2000 le spese per politiche attive hanno raggiunto i 7.695,6 milioni di euro, superando le spese per politiche passive, ferme a 7.295,5 milioni. Nel 2001 il divario 280 Mario Biagioli, Emilio Reyneri e Gilberto Seravalli è ulteriormente cresciuto: politiche attive: 8.951,1 milioni, politiche passive: 7.480,7 milioni (cfr. tab. 2, nella quale i dati sono riportati in percentuale). Nonostante il passo indietro che si è avuto nel 2002 a seguito dell’aumento dei trattamenti di disoccupazione determinato dal netto rallentamento della crescita del PIL, la situazione all’inizio del nuovo decennio è completamente diversa da quella che si aveva all’inizio del periodo. 2.2. L’impostazione delle politiche del lavoro dopo il 2001 Il percorso di riforma verso una sempre maggiore flessibilità ha subito un’accelerazione con il governo di centro-destra. Nella fase appena esaminata si era avuta l’introduzione di nuove forme contrattuali modulate secondo fattispecie più varie rispetto a quella costituita dal lavoro a tempo pieno e indeterminato, assieme alla fine del monopolio pubblico del collocamento. Tuttavia, questo percorso rimaneva ancorato a una concezione per la quale ogni nuova forma contrattuale (flessibilizzante il regime d’impiego per il solo fatto di essere introdotta) veniva munita di tutta una serie di vincoli e di condizioni che potevano essere attenuati solo con il consenso delle parti sociali. In tal modo s’istituiva un meccanismo per il quale in misura non trascurabile la flessibilità effettiva veniva a dipendere dalla forza negoziale delle parti. Quest’impostazione era coerente con l’idea secondo cui la fine del «fordismo» e la «globalizzazione» avrebbero avuto bisogno di maggiore flessibilità, ma ciò non doveva andare a scapito del ruolo dei sindacati, importante ai fini della politica dei redditi «concertata» – richiesta anch’essa, si riteneva, nel nuovo contesto economico internazionale. Flessibilità del lavoro, dunque, concertata nel doppio e connesso senso di (moderata) flessibilità dell’impiego e di (moderata) flessibilità del salario, dove i due aspetti potevano tenersi insieme, dando pieno significato al termine concertazione1, per evitare che un eccesso di deregolazione spingesse a rivendicazioni salariali eccessive o, all’opposto, a una rapida perdita del monte salari nella distribuzione del reddito con effetti negativi dal lato della domanda effettiva e quindi della crescita. 1 Per maggiori dettagli, si rinvia a Biagioli (2003). Flessibilità del mercato del lavoro e coesione sociale 281 Con la legge 14 febbraio 2003, n. 30, il Parlamento ha conferito al governo ampia delega per ulteriori riforme del mercato del lavoro che hanno trovato una prima applicazione con il d.lgs. 276/2003. Con queste norme è stata rivista l’impostazione delle riforme del mercato del lavoro2. La centralità torna alla norma imperativa orientata ad ulteriori ampliamenti delle fattispecie contrattuali e alla riduzione di vincoli e condizioni mentre retrocede vistosamente il ruolo delle parti sociali. Siamo di fronte, pertanto, a una vera e propria «deregolazione». Non si tratta più di una sostituzione di regole rigide con regole più flessibili, ma di un arretramento delle regole a vantaggio del libero funzionamento del mercato del lavoro. Ciò corrisponde, evidentemente, ad un’altra idea circa il meccanismo economico. Si potrebbe dire che in questa nuova concezione è ritenuto un errore fornire alle parti sociali il terreno per determinare uno scambio sociale equilibrato. In essa è presente piuttosto la convinzione che i sindacati mantengano un orizzonte miope e non riescano a scambiare minori garanzie oggi per maggiore occupazione e sviluppo domani. In tale concezione non è tanto la domanda effettiva che guida lo sviluppo, ma il tasso di profitto, e quindi maggiore flessibilità del lavoro e del salario sono considerati indispensabili e senza vincoli concertativi, per mantenere la competitività in un mondo globalizzato. Appare abbastanza chiaro, pertanto, che la parte più delicata della nuova impostazione riguarda proprio i risultati in termini di occupazione e di sviluppo. Mentre la via concertativa può attendere, dato che lo scambio è già abbastanza equilibrato ora, la via liberista – che sacrifica di più una delle parti – non può attendere troppo. Vedremo tra poco quali siano stati questi risultati, specie nell’esperienza di paesi che da più tempo hanno deregolato. Consideriamo ora, preliminarmente, alcuni luoghi comuni sull’evoluzione del mercato del lavoro italiano. 3. Alcuni luoghi comuni sull’evoluzione del mercato del lavoro italiano Sia tra i sostenitori della flessibilità, sia tra i suoi critici, si è andata affermando un’immagine del mercato del lavoro italiano 2 Cfr., anche per la ricca bibliografia, Barbera e Ravelli (2003). 282 Mario Biagioli, Emilio Reyneri e Gilberto Seravalli che vorrebbe contrapposta una grande rigidità della tradizionale occupazione dipendente a tempo indeterminato ad una recente forte crescita dei lavori non standard, dalle occupazioni a tempo determinato a quelle indipendenti o parasubordinate. Tale stereotipo, che ha condizionato molte discussioni politiche e sindacali, corrisponde solo in parte alla realtà quale risulta da una più accurata analisi dei dati. Con l’espansione delle politiche del lavoro che abbiamo descritto, parecchie affermazioni, forse rispondenti alla realtà di 10-15 anni fa, sono diventate già da tempo nient’altro che luoghi comuni. 3.1. La presunta rigidità del mercato del lavoro italiano In occasione dell’approvazione del decreto delegato il presidente del Consiglio avrebbe detto che il mercato del lavoro italiano era così diventato il più flessibile dell’Unione Europea (Il Sole 24 ore, 2 agosto 2003). Un’enfasi non lontana dal vero, se consideriamo che alcuni istituti (lo staff leasing e il lavoro a chiamata) esistono soltanto nei paesi anglosassoni e in Olanda, che è stata istituzionalizzata una forma di impiego instabile sconosciuta altrove quale il lavoro «a progetto», ma soprattutto che il mercato del lavoro italiano non era affatto «ingessato» già dalla fine degli anni ottanta. L’idea che il mercato italiano fosse molto rigido si fondava su due elementi: la scarsa presenza di disoccupati per aver perso un lavoro a fronte del gran numero di persone in cerca del loro primo impiego; la stima OCSE che pone l’Italia in testa alla classifica dell’indice di protezione dell’occupazione dipendente. Ora occorre, in primo luogo, notare che se l’indagine sulle forze di lavoro fotografa una relativamente scarsa presenza di persone in cerca di lavoro per averlo perso, ciò non significa affatto che la probabilità di perdere il lavoro sia bassa3. Orbene, ricerche condotte su archivi Inps seguendo procedure in uso nella letteratura internazionale (Contini 2002) hanno mostrato che nel settore privato il «turnover dei posti» (somma dei posti di lavoro creati e distrutti in un anno rispetto alla quantità dei posti di lavoro esistenti) è in linea con gli altri paesi europei e persino con gli Stati Uniti. Pure il «turnover dei lavoratori» (rapporto 3 È la mobilità job to job, da tempo messa in luce (Boeri 1996). Flessibilità del mercato del lavoro e coesione sociale 283 tra la somma dei lavoratori che in un periodo sono assunti e di quelli che lasciano il lavoro rispetto al totale dei lavoratori occupati) è più elevato che nella gran parte dei paesi europei, anche escludendo chi è coinvolto in mobilità frenetica (stagionali) (Pacelli e Leombruni 2003). Del resto, studiosi che constatavano questa elevata mobilità erano costretti a escogitare raffinate ipotesi per spiegare come ciò fosse compatibile con l’indice OCSE, che attribuiva all’Italia una protezione pari a 3,4 contro valori da 0,7 a 1,1 per Stati Uniti e Gran Bretagna (OECD 1999). Più semplicemente, già l’ISTAT (1997) aveva criticato la costruzione dell’indice sul piano metodologico, sebbene con scarso ascolto. È poi intervenuta autorevolmente la Banca d’Italia. Nella sua relazione annuale del 2002 (pp. 135-136) l’Istituto Centrale osserva come la valutazione OCSE sia fortemente influenzata dall’erronea inclusione del trattamento di fine rapporto tra i costi di licenziamento, mentre esso costituisce invece salario differito, che spetta al lavoratore qualunque sia il motivo della rottura del rapporto. Se si esclude il tfr dalla stima dell’indice di protezione – concludeva la Banca d’Italia – la normativa italiana del licenziamento individuale risulta tra le meno vincolistiche in Europa. Il reale valore dell’indice di protezione sarebbe, infatti, solo di poco superiore a 2 (Del Conte et al. 2003). Anche per i licenziamenti collettivi, dopo la nuova legge del 1991, il grado di libertà delle grandi imprese italiane nel gestire gli esuberi di personale, formalmente basso, è diventato in realtà più alto di quello goduto nella maggior parte degli altri paesi europei (CNEL 1995). L’unica anomalia che ancora caratterizza l’Italia è l’infima generosità del sostegno al reddito per chi perde il lavoro non in caso di crisi aziendale (OECD 1997). Di ciò, però, si parla poco; così come si trascura che in gran parte dell’Italia, quella ove da parecchi anni il mercato del lavoro è prossimo al pieno impiego, «il problema delle imprese non è tanto una maggiore possibilità di licenziare, ma piuttosto quello di trattenere presso di sé i lavoratori» e di trovarne altri con adeguate disponibilità e competenze, come si legge nella newsletter di gennaio-febbraio 2002 della Fondazione nord est dedicata alla flessibilità. 284 Mario Biagioli, Emilio Reyneri e Gilberto Seravalli 3.2. Flexibility senza security Ma ritorniamo sulla questione delle reti di protezione contro la mancanza di lavoro. Se si confronta il Libro Bianco con la legge delega e il decreto legislativo, ci si accorge che uno dei suoi assi portanti è scomparso. Nel Libro Bianco c’era l’idea di flexecurity, cioè alta flessibilità e grande sicurezza per chi rimane privo di lavoro, e si dava gran rilievo alla necessità di sviluppare gli ammortizzatori sociali (indennità di disoccupazione e sussidi) oltre che di migliorare la funzionalità dei servizi per l’impiego. È il modello danese, caratterizzato da uno dei mercati del lavoro più flessibili al mondo, ma anche da una delle reti di sostegno dei senza lavoro più generosa ed efficiente, grazie ad una spesa per politiche del lavoro – sia passive (indennità di disoccupazione) sia attive (servizi per l’impiego, formazione, ecc.) – rispetto al PIL circa tre volte quella italiana. Questo modello è stato nei fatti abbandonato e ora l’Italia ha grande flexibility senza alcuna security. 3.3. La leggenda del lavoro sempre più autonomo Negli anni ottanta clamorosa è stata la rinascita del lavoro indipendente nei paesi ove sembrava in via di estinzione: in Gran Bretagna la percentuale sull’occupazione extra-agricola, scesa a fine anni settanta sotto il 7%, torna al 12%, e in Svezia da poco più del 4% risale al 7%. Un simile andamento caratterizza gli altri paesi europei. Negli anni novanta, però, tale tendenza non si è mantenuta. Dopo un leggerissimo aumento all’inizio del decennio, la quota di occupazione indipendente si stabilizza o addirittura diminuisce di nuovo, sicché nell’Unione Europea ora è allo stesso livello del 1991. Dunque, l’inversione della tendenza secolare alla salarizzazione è stata di breve durata. Ciò non contrasta con la recente crescita delle piccole imprese che ha interessato quasi tutti i paesi europei, poiché l’occupazione indipendente è costituita più da lavoratori in proprio e professionisti che da imprenditori. L’Italia è il paese sviluppato con la quota di occupazione indipendente di gran lunga più alta, ma l’andamento del fenomeno nel corso del tempo è simile a quello degli altri paesi europei. La quota di lavoro indipendente extra-agricolo, che sfiorava ancora il 30% alla fine degli anni cinquanta, scende sino a raggiungere un minimo del 22% nel Flessibilità del mercato del lavoro e coesione sociale 285 1977, quindi risale sino a superare il 25% nel 1984 e si assesta poi intorno al 26% sino ad oggi. Benché nell’ultimo decennio il peso del lavoro indipendente sia in leggero declino, la disaggregazione settoriale consente di spiegare l’illusione cui sono soggetti molti quando parlano di inarrestabile crescita dell’occupazione autonoma. Esiste, in effetti, una crescente diffusione del lavoro indipendente nell’industria, nell’edilizia e in tutti i rami del terziario non commerciale. Inoltre, aumentano coloro che svolgono compiti non manuali qualificati, mentre diminuiscono gli addetti alle vendite e i lavoratori manuali specializzati (gli artigiani). Invece non cambiano, anzi si accentuano, due altri tratti del lavoro indipendente: la prevalenza dei maschi e l’esclusione dei giovani. A mettersi in proprio sono soprattutto lavoratori dipendenti con una solida esperienza professionale e adeguate risorse sociali, sviluppate in anni di presenza nel mercato del lavoro (Barbieri 1999). D’altronde, per molti, questa è la sola possibilità di mobilità occupazionale ascendente date le scarse opportunità in Italia di far carriera all’interno di imprese troppo piccole, ove le funzioni più elevate sono appannaggio dell’imprenditore. Si deve tener conto però che declinano le figure tradizionali (coltivatori diretti e commercianti). È vero, dunque, che il lavoro autonomo cresce in funzioni prima dominate dal lavoro dipendente, ma esso non cresce affatto complessivamente. 3.4. Ma quanti erano i veri collaboratori? Il recente decreto delegato ha abolito i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, con esiti che è molto difficile prevedere. Fin da quando è stata creata surrettiziamente da un provvedimento in materia previdenziale nel 1995, questa figura ha suscitato grandi discussioni sulla sua natura e sui modi di regolarla. Ciò si giustificava non solo per le peculiari caratteristiche della fattispecie, a cavallo tra lavoro dipendente e indipendente, ma anche per la sua diffusione, che secondo l’opinione comune avrebbe raggiunto livelli enormi, tanto da essere indicata come il maggior segnale della cosiddetta «fuga dal lavoro dipendente». In effetti, la crescita degli iscritti al fondo speciale Inps è stata fortissima: da meno di un milione nel 1996 a quasi due milioni 286 Mario Biagioli, Emilio Reyneri e Gilberto Seravalli e mezzo nel 2002. Ma sarebbe stato sufficiente uno sguardo ai dati del mercato del lavoro per escludere che tutti gli iscritti all’Inps rappresentassero la nuova figura di «lavoratore autonomo di seconda generazione» (Bologna e Fumagalli 1997) che fornisce prestazioni professionali o di servizio in modo continuo a uno o comunque pochissimi committenti. D’altro canto, un’analisi degli stessi dati Inps consente di valutare il fenomeno nelle sue giuste dimensioni. Innanzi tutto, poiché l’Inps non cancella le posizioni previdenziali di chi ha cessato questa attività anche da tempo, più che agli iscritti occorre guardare a chi ha fatto almeno un versamento nel corso dell’anno. I contribuenti sono circa l’80% degli iscritti dal 1996 al 1998 e scendono a poco più del 70% nel 1999 (l’ultimo anno per cui sono disponibili dati). Dunque, una quota cospicua di iscritti alla gestione separata Inps, dal 20% al 30%, è costituita da occasionali, che lavorano come collaboratori per non più di un anno e scompaiono per sempre nell’anno successivo. Ma per arrivare ad una stima della nuova figura di lavoratore flessibile «tra indipendenza e subordinazione», occorre andare oltre. Infatti, limitandoci al 1999, oltre un terzo dei contribuenti versa un’aliquota del 10%, che è prevista per chi ha anche un’altra posizione contributiva, come lavoratore dipendente o indipendente o come pensionato. Sono doppio lavoristi, che «arrotondano» il reddito principale da lavoro o pensione. È una condizione molto diffusa in Italia, che deve essere tenuta ben distinta da quella dei collaboratori «puri», che traggono ogni loro sostentamento dal contratto con un committente. Infine, tra chi versava nel 1999 i contributi con l’aliquota del 12% e quindi non aveva altra posizione contributiva, oltre il 30% erano amministratori e sindaci di società, una figura simile a quella del libero professionista, che solo un provvedimento previdenziale ha accomunato a chi presta un’attività di collaborazione continuativa per uno o due committenti. Seguendo questa procedura si giunge a poco meno di 600 mila collaboratori «puri» per il 1999. Per lo stesso anno un’indagine ISTAT (1999) stimava 715 mila collaboratori, ma è probabile che includesse anche gli amministratori di società. Fondandosi sull’ipotesi prudenziale di tener per buone le percentuali ricavate dai dati del 1999, si può tentare un aggiornamento e si può stimare che siano 800 mila nel 2002 i lavoratori che in via principale prestano la propria attività per uno o più committenti con un rapporto di collaborazione Flessibilità del mercato del lavoro e coesione sociale 287 coordinata e continuativa. Allo stesso risultato giunge uno studio condotto dal CNEL (2003), che distingue 200 mila professionisti con partita Iva e riduce così a soli 600 mila i soggetti dei «nuovi lavori», a cavallo tra dipendenti e indipendenti, per molti dei quali l’aleatorietà dell’impiego non è compensata da una elevata retribuzione. 3.5. Crescita e stabilizzazione dell’occupazione a tempo determinato Che negli ultimi anni in Italia vi sia stato un forte aumento del lavoro a tempo determinato è dato per scontato sia da chi considera questo fenomeno come indice di maggiore flessibilità e fonte di maggiore occupazione, sia da chi lo biasima come segnale di crescente precarizzazione. Ma la crescita dell’occupazione dipendente a tempo determinato è stata tutt’altro che esplosiva e si deve principalmente alla maggiore diffusione dei contratti a fini formativi tra i giovani (soprattutto apprendistato). Infatti, la percentuale di lavoratori temporanei sull’occupazione dipendente è cresciuta da poco più del 6% nel 1993 sino a superare di poco il 10% nel 2000 e poi si è assestata su valori un poco inferiori. Nel corso del 1993 il tempo determinato ha assorbito quasi per intero la caduta dell’occupazione (ISTAT 1999), poiché quando la crisi è esplosa, le imprese hanno reagito non rinnovando i contratti in scadenza. Poi, con l’aggravarsi della crisi nel 1994 e nel 1995, viene duramente colpita l’occupazione permanente, che in soli due anni si riduce di quasi il 5%. Invece, le occupazioni temporanee crescono in misura consistente, poiché, quando le aspettative sono incerte, le poche imprese che assumono preferiscono ricorrere a rapporti a tempo determinato. L’effetto incertezza prosegue sino al 1998, anche se l’occupazione permanente riprende; sicché, di un vero e proprio processo di precarizzazione, cioè di sostituzione di posti stabili con lavoro temporaneo, si può parlare solo per due anni (dal 1993 al 1995). Quando, con la ripresa economica nel 1999, le imprese ricominciano ad assumere, un altro effetto favorisce l’aumento dell’occupazione temporanea, poiché una crescente quota di assunzioni, soprattutto di giovani, passa attraverso un lungo periodo di rapporti a tempo determinato, quasi un lungo periodo di prova. In effetti, trascorso qualche anno, molti rapporti 288 Mario Biagioli, Emilio Reyneri e Gilberto Seravalli temporanei si trasformano in permanenti. Ciò è avvenuto dal 2001, quando, grazie anche agli sgravi contributivi previsti per le assunzioni a tempo indeterminato, un forte aumento del lavoro dipendente ha comportato persino una riduzione di quello temporaneo. Certamente alla fine del decennio il peso del lavoro a tempo determinato è molto maggiore che non all’inizio, ma la crescita si è arrestata e non delinea una tendenza destinata a proseguire. In una prospettiva storica si può pensare che si sia giunti ad una fase di assestamento. Ciò è confermato dal fatto che la percentuale di lavoro a termine cresce in misura molto maggiore tra i giovani, in particolare nei rapporti a fini formativi. La loro crescita, che pure inizia nel 1996, ha una forte accelerazione nel 1998, quando entra in vigore la riforma dell’apprendistato prevista dal «pacchetto Treu». L’aumento del lavoro a termine per fini formativi (in valore assoluto più che raddoppiato) è particolarmente forte tra i giovani da 15 a 29 anni: dal 36% nel 1993 ad oltre la metà nel 2002, mentre le situazioni più precarie di chi non è riuscito a trovare un’occupazione permanente diminuiscono dal 44% a meno del 30%. L’occupazione giovanile è diventata meno stabile, ma ciò si deve per lo più ad una forte diffusione dei rapporti a fini formativi, che portano ad una successiva stabilizzazione in misura ben maggiore dei normali rapporti a termine. In sintesi, dunque, il mercato del lavoro italiano non era rigido ancor prima delle recentissime riforme, ma – nello stesso tempo – non si è venuto destrutturando. È questo probabilmente il segno che vi sono profonde ragioni (tra l’altro di efficienza economica) le quali, se richiedono flessibilità, non richiedono affatto precarizzazione. Anzi le imprese – in regime di flessibilità – hanno probabilmente soprattutto il problema della fidelizzazione della manodopera e della difesa del suo patrimonio di competenze, che l’attuale deregolazione rischia di compromettere. 4. I «fatti stilizzati» della deregolazione Esamineremo in questo paragrafo gli effetti sull’occupazione della deregolazione del mercato del lavoro, alla luce delle maggiori esperienze disponibili. Proprio perché – come si è detto – sono cruciali i risultati, si tratta di esaminarli, non tanto nell’esperienza Flessibilità del mercato del lavoro e coesione sociale 289 italiana (nella quale la vera e propria deregolazione è stata fin qui limitata), ma soprattutto in quella di altri paesi industrializzati, nella quale essa data da più lungo tempo. In sintesi, una rassegna della letteratura internazionale sembra suggerire che gli effetti della deregolazione, al netto della politica economica di sostegno della domanda, appaiono non significativi sull’occupazione aggregata. Tali effetti, invece, sembra si esercitino positivamente nella distribuzione di un dato volume di lavoro tra un numero maggiore di persone (riduzione della durata dei periodi di disoccupazione). Emerge, inoltre, un prezzo sociale (e di efficienza economica) che deve essere pagato, ed è una maggiore disuguaglianza nella distribuzione del reddito4. Vediamo però prima quali sono i «fatti» che hanno caratterizzato l’esperienza storica della fase improntata alla flessibilità. Nei primi tre decenni del dopoguerra tassi di crescita economica molto elevati hanno ridotto sensibilmente i livelli della disoccupazione nei paesi industrializzati, segnando una fase assolutamente eccezionale in una prospettiva di lungo periodo, come risulta dalla serie storica del tasso medio di disoccupazione dei paesi ricchi tra il 1920 e il 2001, riportata nella figura 1. Dopo il periodo di quasi piena occupazione che fece seguito alla conclusione della seconda guerra mondiale grazie all’applicazione diffusa delle politiche keynesiane, a partire dalla seconda metà degli anni settanta la disoccupazione tornò elevata e prese a divergere tra Europa e Stati Uniti5. Inoltre, mentre in Europa la disoccupazione media resta elevata, si riduce la sua varianza tra paesi. Ciò ha portato molti a ritenere che l’Europa si caratterizzerebbe in questi anni per una disoccupazione più omogeneamente elevata rispetto agli Stati Uniti. In realtà si trascura spesso di considerare che la varianza dei tassi di disoccupazione calcolata al livello delle regioni e delle province europee si riduce in modo molto meno sensibile (Dall’Aglio 2003). Il processo di convergenza registrato al livello dei paesi non si ripresenta al livello delle regioni. Anzi, vi sono seri indizi di un processo polarizzante, per il quale aumenta la distanza tra un gruppo di aree (che potremmo indicare «centrali») nelle quali la crescita della domanda di 4 Per non appesantire il testo, si rinvia, per l’esame dei dati e delle analisi empiriche a sostegno delle affermazioni contenute in questo paragrafo, a Seravalli (2003). 5 Cfr. Layard, Nickell e Jackman (1999) e Den Haan et al. (2001). 290 Mario Biagioli, Emilio Reyneri e Gilberto Seravalli 12 Tassi % di disoccupazione 10 8 6 4 2 2001 1996 1991 1986 1981 1976 1971 1966 1961 1956 1951 1935 1930 1925 1920 0 FIG. 1. Disoccupazione in percentuale della forza lavoro nei paesi industrializzati, 19202001. Nota: Media semplice dei tassi di disoccupazione di Australia, Austria, Belgio, Canada, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Italia, Olanda, Norvegia, Svezia, Svizzera, Regno Unito, Usa. Fonte: Elaborazioni su dati tratti da Maddison (1991) e ILO (Laborstat). lavoro è stata rilevante, per cui sono fortemente diminuiti i tassi di disoccupazione, relativamente alla media europea, e un altro gruppo (che potremmo indicare delle aree «periferiche») nelle quali è avvenuto l’opposto6. Già questa osservazione autorizza forti dubbi sulle spiegazioni della disoccupazione europea che pongono al centro motivi «istituzionali» (comuni all’interno dei singoli paesi) e permette di sottolineare l’importanza che assumono, invece, i ritardi di sviluppo di specifiche realtà locali (Simonazzi 2002). In ogni modo, questi dati hanno provocato un ampio dibattito circa la cause di tale asimmetria tra andamento della disoccupazione in Europa e negli Stati Uniti. Il primo e il più celebrato paradigma interpretativo parte dalla considerazione che indici 6 In proposito, si vedano anche Messina (2002) e Overman e Puga (1999). Flessibilità del mercato del lavoro e coesione sociale 291 delle rigidità del mercato del lavoro incrociati con i tassi di disoccupazione fanno effettivamente vedere che gli Stati Uniti (e altri paesi anglosassoni come la Gran Bretagna e l’Australia) presentano bassa disoccupazione e bassa rigidità e che i paesi «mediterranei» presentano alta disoccupazione e alta rigidità. Tale paradigma sostiene che la regolazione (forme contrattuali «tipiche», limiti ai licenziamenti, rigidità verso il basso dei salari) è responsabile del fatto che shock esterni imprevedibili, sempre più frequenti e di dimensioni più rilevanti in seguito alla globalizzazione, vengono assorbiti poco o più lentamente, dando luogo a fluttuazioni economiche più accentuate e a una riduzione del trend di lungo periodo della crescita del reddito e dell’occupazione (Siebert 1997; Blanchard e Wolfers 1999). Una prima difficoltà nel ritenere adeguato tale paradigma sorge dai dati. Si può vedere, infatti, che non vi è correlazione tra indici di rigidità del mercato del lavoro e andamento della disoccupazione. Inoltre, se il paradigma della rigidità fosse sostenibile, ci si dovrebbe attendere che proprio negli ultimi anni la disoccupazione avrebbe dovuto ridursi di più nei paesi con i regimi del mercato del lavoro proporzionalmente più deregolati. Le stime empiriche non sono favorevoli a questa affermazione7. 4.1. Due prospettive Il fatto è che se si parte (correttamente) dall’incertezza, e quindi da una situazione nella quale contano molto «le profezie che si avverano da sé» con tutti gli effetti destabilizzanti che ne possono conseguire (equilibri multipli), si può immaginare che vi siano due diverse cure. Una intesa a determinare condizioni perché gli shock e l’instabilità vengano rapidamente assorbite da una delle parti in gioco, che se ne faccia carico nel breve periodo confidando che possa ripagarsi nel lungo (Blanchard e Giavazzi 2001). Un’altra intesa a determinare nel sistema economico una parte (possibilmente rilevante) dell’attività produttiva sottratta a tali shock e fluttuazioni. L’idea della deregolazione guarda alla 7 Tra coloro che si sono cimentati con l’analisi empirica, comunque, diffusi sono i pareri secondo i quali la deregolazione di per sé non mostra effetti significativi sulla crescita dell’occupazione e tanto meno del reddito (Schivardi 1999; Simonazzi e Villa 1999, 2000). Per un approfondimento si rinvia a Seravalli (2003). 292 Mario Biagioli, Emilio Reyneri e Gilberto Seravalli prima di queste due prospettive. Essa individua nel lavoro e nel potere contrattuale dei lavoratori la parte che se ne deve far carico (non foss’altro perché è la parte che detiene la quota maggiore nella distribuzione del reddito). Ma vi è anche la seconda prospettiva, ossia quella che sottolinea l’utilità di politiche intese a sostenere la domanda effettiva di mano pubblica o comunque sottratta alle fluttuazioni delle attività private decise in regime di «fallimenti del coordinamento». Come Drèze (1999) ha mostrato, è possibile sostenere che la seconda è più efficace della prima. Le ragioni che egli sottolinea riguardano l’efficiente distribuzione dei rischi e l’efficiente distribuzione dei redditi. Siccome famiglie (lavoro) ed imprese (capitale) sono interdipendenti, uno spostamento dei rischi maggiormente a carico del lavoro ed uno spostamento dei redditi maggiormente a favore delle imprese non garantiscono affatto alle stesse imprese maggiori certezze e maggiori possibilità. Si può sostenere, anzi, che mentre la deregolazione è economicamente e socialmente sostenibile se vige mentre si agisce lungo la seconda via, essa non può essere sostitutiva della politica (non solo congiunturale ma anche «strutturale») della domanda. L’asimmetria Usa-Europa sarebbe perciò da spiegare considerando in modo cruciale che gli Usa (anche sotto l’amministrazione Reagan) hanno utilizzato largamente la politica economica per sostenere la domanda, mentre l’Europa ha adottato una politica deflattiva a regole rigide (Cohen e Pisany-Ferry 2002), rinunciando di fatto e troppo a lungo al sostegno della domanda. Ciò, del resto, è dipeso anche dall’egemonia mondiale dell’economia americana (che permette al suo deficit esterno di «non mordere») e dall’accorto uso della politica fiscale e monetaria che non sono state mai contemporaneamente restrittive, mentre in Europa si sono adottate regole che non lo hanno consentito8. 4.2. Durata della disoccupazione e squilibri distributivi Esiste invece vasto consenso circa il fatto che la rigidità della regolazione del mercato del lavoro è associata ad una quota 8 Cfr. in proposito: Modigliani (1996), Simonazzi e Villa (1999), Malinvaud (2000), Fitoussi (2000) e Debrun (2003). Indicazioni empiriche a sostegno di questa ipotesi sono presentate in Seravalli (2003), al quale si rinvia. Flessibilità del mercato del lavoro e coesione sociale 293 47 42 37 32 27 1999 2001 1997 1995 1993 1989 1991 1987 1985 1983 1981 1979 1977 1975 1971 1973 1969 1967 1965 22 US UK SV SP NOR OL IT GRE GER NOR FIG. 2. Indice di Gini della disuguaglianza nella distribuzione del reddito disponibile. Fonte: Elaborazioni su dati UN/WIDER Undp World Income Inequality Database; Deininger e Squire (A New Data Set Measuring Income Inequality, in World Bank Economic Review, 1996). elevata di disoccupati di lunga durata. Il legame empirico tra rigidità e percentuale di disoccupazione di lunga durata appare piuttosto significativo, mentre il legame tra rigidità e tasso di disoccupazione complessivo non lo è (Seravalli 2003). La deregolazione, quindi, avrebbe un effetto proprio, ma esso sarebbe limitato alla maggiore ripartizione del lavoro che c’è tra un numero maggiore di persone. Ciò sarebbe, comunque, un risultato utile se incrementasse davvero il contenuto di lavoro nel prodotto. Purtroppo non sembra essere questo il caso, a meno che non s’intenda tale rapporto come tra unità di persone fisiche in qualche modo occupate e valore del prodotto, ma non tra unità di lavoro e prodotto né – soprattutto – tra valore del 294 Mario Biagioli, Emilio Reyneri e Gilberto Seravalli lavoro e valore del prodotto (Nickell 1997). Sembra avvenire, infatti, che una maggiore ripartizione del lavoro si accompagna alla riduzione della quota salari sul reddito (Blanchard e Giavazzi 2001), a maggiori squilibri distributivi in generale (fig. 2) e ad una maggiore quota di lavori sottopagati9. Tale maggiore disuguaglianza distributiva conduce – coeteris paribus – a conseguenze negative sulla stabilità e sulla stessa crescita (Kitson et al. 2000). Si comprende pertanto perché la deregolazione sia sostenibile solo se accompagnata da vigorose politiche di sostegno della domanda, e che sarebbe nefasta in condizioni nelle quali ciò non avviene, come in Europa. Questa considerazione allude in sostanza al fatto che nei ragionamenti teorici, i quali pongono soprattutto attenzione agli shock esterni ed ai modi del loro assorbimento, si tende a dare poca o minore importanza ai feed-back interni che comportano effetti i quali vanno dalle forme di assorbimento degli shock alla crescita. Per quanto in proposito la modellistica possa essere complessa10, il meccanismo di fondo può essere indicato in maniera semplice. Nell’era attuale le competenze possono trasformarsi in denaro con una rapidità inedita. E questo avviene per l’aumentato rapporto tra capitale umano e capitale fisico nei processi produttivi di valore. Ora, assumiamo che questo si accompagni ad un regime («americano») di deregolazione dei regimi di impiego, che rende l’impresa non più legata al dipendente. Allora, nemmeno il lavoratore dipendente sarà più legato all’impresa che lo ha formato. Infatti, se le imprese non garantiscono più il posto di lavoro, è razionale per i lavoratori cercare di espropriare l’impresa del capitale di competenze investito su di loro. Allora avviene che, da una parte, le imprese devono investire sempre più nella formazione delle competenze, per far fronte alla convulsa dinamica delle innovazioni. Ciò 9 Negli Stati Uniti cresce da tempo la preoccupazione per i lavoratori sottopagati (che secondo varie stime sono giunti a rappresentare quasi il 60% dei salariati – quelli che guadagnano meno di 14 dollari l’ora considerato il minimo vitale secondo l’Economic Policy Institute). Si veda, per esempio, Kim (2000) e GAO (2000). Si segnala soprattutto il bellissimo libro di Barbara Ehrenreich (2001). 10 Si tratta di modelli strutturalmente simili a quelli dei giochi con complementarietà strategiche, ma in cui vi è una moltiplicità di agenti così che l’effetto sugli altri dell’azione del singolo soggetto è infinitesimale (market models). Ogni modello comprende un insieme di attori, un insieme di possibili azioni o strategie e un insieme di funzioni di payoff che dipendono dall’azione dell’attore, da quella degli altri e dai prezzi che a loro volta dipendono dalle azioni di tutti. Flessibilità del mercato del lavoro e coesione sociale 295 significa costruire un’organizzazione del lavoro che consenta ai propri lavoratori di imparare molto e in fretta, per essere in grado di rendere in tempi rapidi più di quello che costano. Dall’altra parte, un numero sempre maggiore di imprese concorrenti può sfruttare tale sforzo sottraendo loro lavoratori già formati, che possono pagare di più perché non ne hanno sostenuto i costi di formazione. Nulla di male, si potrebbe ritenere. Il meccanismo può in effetti funzionare con vantaggi collettivi superiori agli svantaggi, che saranno di due tipi. In primo luogo, diminuiscono le «quasirendite» dell’innovazione, perché le competenze esclusive sono meno difese. In secondo luogo, aumentano gli squilibri distributivi, perché il meccanismo premia molto più che in passato chi possiede tali competenze e penalizza coloro che non le hanno. Entrambi questi due effetti possono frenare lo sviluppo: la riduzione delle «quasi-rendite» rende più difficile il progresso tecnico e l’aumento degli squilibri distributivi ostacola l’accumulazione del capitale umano. Tuttavia, se il meccanismo funziona in modo virtuoso, questi svantaggi possono essere superati. Le imprese possono rispondere alla minaccia costituita dal costante rischio che altre imprese rubino loro personale qualificato accelerando e allargando i processi d’innovazione e di formazione. Le famiglie possono rispondere al rischio di cadere nelle fasce di reddito inferiori mutando le loro scelte di consumo/investimento a favore dell’investimento. Il punto sta allora in quel se. Se il meccanismo funziona in modo virtuoso, gli svantaggi sono superati dai vantaggi. Ma se questo non succede, che cosa può accadere? Non è difficile indicare uno scenario del tutto diverso. In tal caso: i) le imprese preferiranno lasciare ad altri sistemi la sfida dell’innovazione rifugiandosi in nicchie in vario modo protette (anche se probabilmente sempre più anguste), assumendo personale a bassi livelli di istruzione e risparmiando soprattutto nella formazione sul lavoro; ii) esse preferiranno, perciò, usare regimi flessibili di occupazione per ridurre il costo del lavoro piuttosto che per accrescerne la produttività; iii) le famiglie dovranno sostenere il peso economico di garantire la sicurezza ai propri figli per molto tempo anche dopo che hanno finito gli studi e la quota di reddito destinata ai consumi e agli investimenti precauzionali aumenterà a spese di quella destinata a investimento in capitale umano. 296 Mario Biagioli, Emilio Reyneri e Gilberto Seravalli È del tutto legittimo, dunque, sospettare che ci si trovi di fronte ad uno di quei casi in cui si tratta di «tutto o niente». Se il meccanismo funziona in modo virtuoso, si ha tutto: accelerazione della produttività, maggiore e più diffusa istruzione e formazione, crescita del benessere per tutti (anche se molto più per alcuni e molto meno per altri). Se il meccanismo non funziona in modo virtuoso, non si ha niente. La deregolazione del mercato del lavoro tende, dunque, a ridurre lo spazio per un progresso economico graduale, offrendo invece solo due alternative più estreme: un progresso rapido e convulso oppure il declino. Inoltre, esso è tale che l’una o l’altra strada non appartengono al meccanismo in sé, bensì ad altre condizioni, ad esso esterne, dalle quali dipende il suo funzionamento virtuoso oppure vizioso. Tra tali condizioni esterne, la principale è certamente nella relazione che lega la crescita della produttività alla crescita del prodotto. Solo se la domanda cresce in modo rilevante e continuo nel tempo, tutte le imprese (o la maggior parte) avranno sufficienti motivi e mezzi per continuare ad investire in innovazione e in formazione, benché sia cresciuto il rischio dell’espropriazione dei frutti di tale sforzo da parte delle imprese concorrenti. Se la domanda cresce poco e in modo discontinuo, molte di più saranno le imprese poco ottimiste circa il futuro e prive di mezzi, che considereranno preferibile l’alternativa opportunista di utilizzare gli sforzi altrui. Ma, allora, anche le altre imprese si renderanno conto del pericolo e cercheranno di fare altrettanto. Il risultato sarà che nessuna investirà più. Risulta così che nelle esperienze positive non è la deregolazione del mercato del lavoro a sostenere la crescita della produttività e quindi del prodotto, quanto piuttosto il contrario: sarebbe la crescita del prodotto che sostiene la crescita della produttività e rende, quindi, sostenibile la deregolazione del mercato del lavoro. Ma soltanto paesi «centrali» nel sistema economico mondiale come gli Stati Uniti possono permettersi di sostenere la domanda senza rischiare eccessivi contraccolpi per il bilancio pubblico e la bilancia dei pagamenti. Per tutti gli altri sarebbe meglio evitare il dilemma «o tutto o niente» adottando forme flessibili di impiego soltanto nella fase di ingresso al lavoro, ma non rinunciando alla centralità del lavoro fisso nello stock dell’occupazione. Purtroppo il circolo virtuoso tra crescita del reddito e crescita della produttività si è interrotto in Italia da parecchio tempo. 297 Flessibilità del mercato del lavoro e coesione sociale TAB. 3. Prodotto interno lordo per lavoratore: Italia, Unione Europea e Stati Uniti: 19701999 1970 Italia Unione Europea Stati Uniti Valori assoluti (dollari a prezzi e tassi 10.807 13.572 14.893 13.855 17.092 18.054 16.914 20.640 21.379 Italia/Unione Europea Italia/Stati Uniti Unione Europea/Stati Uniti Italia Unione Europea Stati Uniti 1977-79 1980-84 1985-89 1990-94 1995-98 Rapporti 78,0 63,4 81,9 (espressi 79,4 65,8 82,8 di cambio costanti) 16.773 18.398 19.505 20.179 22.177 23.677 24.569 26.392 29.203 in percentuale) 82,5 83,1 69,7 68,3 84,4 82,1 Tassi di variazione medi annui 1970-1980 1980-1990 3,1 2,2 2,5 2,1 2,2 2,2 83,0 69,7 84,0 82,4 66,8 81,1 1999 20.180 25.001 31.457 80,7 64,2 79,5 1990-1999 1,2 1,5 2,1 Fonte: Dati tratti da OECD (1999), Comptes Nationaux, vol. I, pp. 312-313. Per tutti gli anni novanta e ancor di più nel primo scorcio di questo decennio, tutti i tentativi di rilanciare produttività e crescita si sono rivelati inefficaci. Nella seconda metà degli anni novanta sono stati messi in atto interventi specifici a sostegno degli investimenti attraverso l’adozione di misure di incentivazione fiscale alle imprese11 che hanno ridotto in misura consistente l’ammontare di imposte da esse versato12, senza però riuscire a rilanciare in misura significativa gli investimenti13, anche perché una larga parte dei percettori di profitti ha preferito effettuare investimenti finanziari all’estero piuttosto che investimenti reali in patria14. Non si è affatto invertita la tendenza 11 Per un’analisi più dettagliata di queste misure e degli effetti distributivi delle politiche fiscali italiane si veda Biagioli (2004). 12 I dati dei conti nazionali per settore istituzionale dell’ISTAT indicano che l’ammontare assoluto delle imposte versato dal settore delle «società», che esclude le piccole imprese, ha registrato tra il 1996 e il 2000 una netta diminuzione, da 82.769 a 52.675 miliardi di lire, nonostante il risultato netto di gestione aggregato sia cresciuto, nello stesso periodo, da 387.089 a 431.450 miliardi. 13 La quota degli investimenti sul reddito è caduta dal 21% medio del triennio 199092 al 18,3% del periodo 1993-97, per poi risalire al 19,6% nel triennio 1998-2001, una inversione di tendenza incoraggiante ma non sufficiente a riportare la quota italiana al livello della media europea (20,4%). 14 Gli investimenti di portafoglio italiani all’estero nel triennio 1999-2001 hanno registrato un saldo negativo pari a 57.530 milioni di euro. 298 Mario Biagioli, Emilio Reyneri e Gilberto Seravalli al ridimensionamento delle spese dedicate alla formazione e alla ricerca e sviluppo, che sono rimaste, in rapporto al PIL, all’incirca pari alla metà di quelle dei maggiori paesi europei e poco più di un terzo rispetto a Giappone e Stati Uniti. Di conseguenza la produttività del lavoro è cresciuta in Italia dell’1,2% medio annuo nel decennio 1990-99, contro l’1,5% dell’Unione Europea e il 2,1% degli Stati Uniti, invertendo una tendenza opposta che aveva operato dagli anni del «miracolo economico» sino a tutti gli anni settanta (cfr. tab. 3). In breve, il contenimento della domanda aggregata nazionale, in parte ascrivibile agli impegni di Maastricht, e la scarsezza degli investimenti, tanto in capitale fisico quanto in capitale umano, originata dallo scarso impegno del sistema imprenditoriale e dei policy-makers nazionali in questa direzione, hanno frenato la crescita economica italiana. 5. La distinzione tra flessibilità «difensiva» e «innovativa» Si è già visto come sia possibile individuare due prospettive nell’uso del concetto di flessibilità: la prospettiva tradizionale (liberista), la quale ritiene che i problemi del lavoro traggano origine da qualche forma di malfunzionamento di questo mercato e vadano risolti attraverso misure che operino direttamente al suo interno; ad essa si contrappone una prospettiva, keynesiana, più attenta alla natura di mercato «derivato» del lavoro (nel senso che la merce in esso domandata non è richiesta se non in quanto attraverso il suo impiego si possono produrre beni da vendere negli altri mercati). Qual è allora il contenuto analitico del termine «flessibilità»? Tenendo conto di una realtà economica nella quale il progresso tecnico è continuo, al termine flessibilità si dovrebbero assegnare significati completamente diversi, spesso antitetici, quando ci si riferisce, come si fa spesso, alla difesa di segmenti del lavoro messi in crisi dalla concorrenza dei paesi a bassi salari e quando ci si riferisce all’attuazione di strategie imprenditoriali tese a rafforzare la posizione competitiva del sistema paese aumentando la qualità e l’efficienza della struttura produttiva e del capitale umano. Antonelli e Paganetto (1999) hanno suggerito di qualificare la seconda strategia di ricerca della flessibilità come «innovativa» e la prima come «difensiva». In tal modo viene soprattutto sottolineato come Flessibilità del mercato del lavoro e coesione sociale 299 le politiche per la flessibilità «innovativa» siano completamente diverse da quelle necessarie all’attuazione della flessibilità «difensiva». Queste puntano ad accentuare la condizione di fattore di produzione variabile del lavoro, anche a costo della precarietà; quelle mettono al centro l’aumento della professionalità e la continuità del rapporto di lavoro, che permette all’impresa che abbia investito nella formazione del lavoratore di acquisire i frutti dell’investimento sotto forma di aumento della produttività. Va rilevato come, in presenza di questa dicotomia, il contemporaneo perseguimento di entrambe le forme di flessibilità dia inevitabilmente luogo a situazioni contraddittorie. In particolare, la ricerca di flessibilità difensiva ha spesso effetti positivi nel breve periodo, nella misura in cui difende la competitività di segmenti produttivi che sarebbero altrimenti messi in difficoltà dalla concorrenza dei paesi a bassi salari, ma potrebbe produrre conseguenze negative nel lungo periodo, rallentando lo spostamento dei lavoratori dai segmenti deboli a quelli ad alta produttività. L’indicazione dei possibili effetti negativi della flessibilità difensiva è sostenuta con forza da Freeman e Soete (1994), i quali sottolineano piuttosto la «necessità di una maggiore flessibilità nei modelli occupazionali, nei profili delle professionalità, nell’organizzazione del lavoro e nell’orario, che dovrebbe essere combinata con la ricerca di nuove strutture, cioè di nuove rigidità, che rendano praticabile l’investimento dei singoli individui in istruzione, formazione e acquisizione di nuove competenze» (p. 139). 6. I reali problemi del mercato del lavoro italiano Dal quadro del mercato del lavoro italiano depurato dei suoi principali luoghi comuni e dall’analisi del significato teorico e dell’applicazione pratica dell’idea di flessibilità, risulta che i veri problemi non stavano una volta nella sua eccessiva rigidità, ma neppure stanno, almeno finora, nel suo processo di destrutturazione. Quelli assolutamente prioritari sono invece altri due: la scarsa qualificazione professionale delle occasioni di lavoro richieste da un sistema economico e sociale ancora arretrato e la non facile transizione dei giovani dai lavori instabili a quelli stabili. 300 Mario Biagioli, Emilio Reyneri e Gilberto Seravalli 6.1. Un’occupazione più qualificata (ma senza contare gli immigrati) Cominciamo dal primo. Del forte aumento dell’occupazione che vi è stato in Italia dal 1995 al 2002 (quasi un milione e 800 mila posti di lavoro) si suole sottolineare, spesso eccedendo, il carattere prevalentemente atipico e precario, ma si dimentica di aggiungere che tale aumento è concentrato nell’area del lavoro non manuale e soprattutto in quella ad elevata qualificazione intellettuale, come rivela l’analisi della struttura dell’occupazione secondo i livelli professionali misurati dall’International Standard Classification of Occupation. Il saldo positivo dell’occupazione è il risultato di una riduzione di 480 mila posti di lavoro manuale e di un aumento di oltre 2 milioni e 200 mila del lavoro non manuale, per oltre i due terzi costituito da attività ad alta qualificazione (120 mila dirigenti e imprenditori, oltre 350 mila professioni intellettuali: ingegneri, informatici, consulenti finanziari, insegnanti, giornalisti, artisti) e da professioni tecniche intermedie (circa un milione di periti industriali, paramedici, agenti assicurativi, esperti di marketing, traduttori, agenti di viaggio). L’altro terzo è costituito da occupazioni amministrative (impiegati esecutivi e a contatto con la clientela) o connesse alla vendita e ai servizi per le famiglie (dai commessi ai camerieri, dagli istruttori sportivi agli addetti ai lavori di pulizia e assistenza). Le giovani generazioni sempre più istruite cominciano finalmente a trovare occasioni di lavoro congruenti con le loro aspettative, anche se spesso instabili, almeno nella fase iniziale. Il confronto con altri paesi europei mostra, tuttavia, che, nonostante il recente forte innalzamento dei livelli di qualificazione, la composizione per livello delle professioni in Italia rimane ancora molto più orientata verso il basso rispetto a quanto accade in Francia, Germania e Gran Bretagna. Secondo le indagini sulle forze di lavoro raccolte da EUROSTAT, nel 2001 la percentuale di occupazioni non manuali qualificate (dirigenziali, intellettuali e tecniche) in Italia è inferiore di oltre 5 punti percentuali alla Francia, di quasi 8 punti alla Gran Bretagna e di ben 9 punti alla Germania. Con l’importante differenza, a svantaggio della qualificazione del lavoro in Italia, che i dati dell’indagine sulle forze di lavoro concernono di fatto solo i lavoratori italiani, mentre nei paesi europei di vecchia immigrazione comprendono anche la meno qualificata occupazione immigrata. Flessibilità del mercato del lavoro e coesione sociale 301 Anche se l’ISTAT cerca di glissare sul punto, l’indagine italiana non riesce a rilevare che una piccola parte degli immigrati, anche di quelli regolarmente occupati, come accade in tutti i paesi in cui l’immigrazione è poco insediata. A fine anni novanta i lavoratori stranieri non comunitari rilevati dall’indagine non sono neppure 200 mila15. Ciò ha tre importanti conseguenze. In primo luogo, non è affatto detto che negli ultimi anni le occupazioni manuali siano davvero così diminuite. Si può pensare, infatti, che il mezzo milione di posti di lavoro operai scomparsi tra gli italiani sia stato ricoperto da lavoratori immigrati, che dal 1995 al 2002 sono certamente aumentati almeno di 500 mila unità (probabilmente anche di più se si deve dar retta alle quasi 700 mila domande dell’ultima sanatoria), senza essere rilevati dalle indagini sulle forze di lavoro. Si può sostenere che, sostituendo gli autoctoni in molte mansioni manuali, gli immigrati abbiano consentito a molti giovani italiani di accedere a posizioni di lavoro intellettuali e qualificate. In secondo luogo, la crescita economica dal 1995 al 2002 avrebbe creato un ancora maggiore aumento dell’occupazione (quasi 2 milioni e 300 mila posti di lavoro), segnando un’ancor più alta elasticità dell’occupazione rispetto all’aumento del prodotto interno lordo. Ma, in terzo luogo, non vi sarebbe stato in tal caso alcun reale innalzamento dei livelli di qualificazione professionale dei posti di lavoro e la composizione dell’occupazione richiesta dall’economia italiana sarebbe rimasta altrettanto nettamente più orientata verso il basso rispetto a quella dei maggiori paesi europei, spiegando le maggiori difficoltà di inserimento dei giovani laureati e diplomati (e probabilmente anche il «declino» di cui tanto si parla). 6.2. I lavori instabili per i giovani: transizione o trappola? Se la crescita dell’occupazione temporanea e dei lavori parasubordinati investe essenzialmente i giovani, il problema è quello della transizione verso il lavoro stabile, sia esso dipen15 Ciò spiega perché nelle stime di contabilità nazionale l’ISTAT sia costretta ad «inventarsi» un enorme numero di lavoratori immigrati non residenti e occupati irregolarmente per raggiungere un ammontare realistico di lavoratori immigrati. A questo proposito si può leggere un esilarante articolo di Anastasia (2003). 302 Mario Biagioli, Emilio Reyneri e Gilberto Seravalli dente a tempo indeterminato oppure quello professionale, cioè indipendente con una larga e sicura clientela. Non ci si deve preoccupare del lavoro instabile in sé, ma del fatto che chi lo svolge rischia di restarvi intrappolato. Abbiamo ancora poche informazioni su questo punto, perché il fenomeno della grande diffusione dei lavori instabili tra i giovani è molto recente. Secondo uno studio che interessa anche la Germania e la Gran Bretagna, oltre all’Italia, cominciare a lavorare con un contratto temporaneo non ha effetti negativi sulle successive posizioni lavorative (Scherer 2002); tuttavia, per il periodo considerato, le occupazioni instabili in Italia consistevano per lo più in contratti di formazione lavoro, di cui è nota la funzione di ponte verso l’assunzione stabile, ma da tempo in via di estinzione. Due studi locali sui percorsi lavoratori dei neo-laureati e dei neo-diplomati rivelano situazioni differenti. A Parma, dopo 5-6 anni di lavoro come collaboratori, apprendisti, titolari di contratti di formazione lavoro, interinali o altri rapporti a tempo determinato, quasi tutti i giovani riescono a raggiungere occupazioni stabili, dipendenti o indipendenti. Per descrivere questa lunga gavetta è stato creato il termine «carriera esterna» (Ghirardini e Pellinghelli 2000). Ma questo è da tempo un mercato del lavoro di pieno impiego e purtroppo l’Italia non è tutta come Parma. Già a pochi chilometri di distanza, in provincia di Ferrara, la percentuale di giovani neo-diplomati che resta intrappolata a lungo nel lavoro instabile è molto più alta (Ghirardini 2003). In ogni caso, il prolungarsi della «carriera esterna» ha degli effetti negativi, perché a breve termine provoca il rinvio delle scelte fondamentali – sposarsi, avere figli – e nel lungo periodo creerà problemi per il sistema pensionistico, in quanto nei primi anni di lavoro instabile è molto probabile che i versamenti contributivi siano scarsi. 6.3. Verso la crisi del modello familistico di mercato del lavoro? L’elevata disoccupazione (un tempo e tuttora nel sud) od occupazione instabile (ora nel centro-nord) dei giovani e delle donne non ha provocato per ora gravi tensioni sociali perché si regge su un tradizionale assetto familistico del mercato del lavoro italiano: la (quasi) piena occupazione dei maschi adulti (i capifamiglia), figli che vivono in casa fino a 30 anni e rare rotture del rapporto di matrimonio (Reyneri 2002). Ma questo Flessibilità del mercato del lavoro e coesione sociale 303 modello rischia di entrare in crisi ora quando i divorzi e le separazioni aumentano, sia pure lentamente, e soprattutto quando dalla precarietà dei giovani si passa a quella degli adulti, quando cioè aumenta la percentuale di coloro che restano intrappolati nel lavoro instabile. Allora la solidarietà tra le generazioni nella famiglia si incrina, come qualche segnale debole comincia ad indicare. L’altro segnale di crisi è dato dai fenomeni di disoccupazione adulta: maschi over 50 anni con una qualificazione obsoleta o donne che cercano invano di rientrare nel mercato del lavoro perché la famiglia si è rotta. Costoro costituiscono le nuove fasce deboli, in condizioni peggiori di quelle dei giovani. 6.4. Flessibilità, aumento dell’occupazione e riduzione del sommerso Anche se l’ultimo rapporto OECD (2003) attribuisce la maggiore tenuta dell’occupazione alle riforme che hanno reso più flessibile il mercato del lavoro, abbiamo visto che è arduo sostenere che la flessibilità di per sé aumenti l’occupazione, tranne che per quanto riguarda il part-time. Perciò, come si spiega che in Italia negli ultimi anni vi sia stato un forte aumento dell’occupazione pur a fronte di una debole crescita economica? Certamente il part-time è finalmente aumentato in misura significativa e ad esso si deve buona parte dell’aumento dell’occupazione femminile. Un secondo motivo è che tutta la nuova occupazione si è creata nei servizi, che sono spesso a bassa produttività, pur se qualificati professionalmente. Peraltro, ormai, nei paesi sviluppati se l’industria crea ricchezza, l’occupazione è creata dai servizi e soprattutto da quelli alla persona (Reyneri 2002, cap. 7). D’altronde, questo è quanto accadde negli Stati Uniti da metà anni ottanta a metà anni novanta, quando si ebbe un’enorme crescita di occupazione, pur con scarso aumento della ricchezza prodotta, mentre in quel periodo l’Italia e più in generale l’Europa ebbero forti aumenti della ricchezza prodotta e scarsa crescita occupazionale. È probabile che ciò si debba anche al ciclo degli investimenti: quando si fanno molti investimenti, si crea molta ricchezza, ma poco lavoro, poi, quando si comincia ad utilizzarli, si crea occupazione ma non ricchezza. Un terzo effetto, che si suole attribuire alla flessibilità, è la 304 Mario Biagioli, Emilio Reyneri e Gilberto Seravalli riduzione del sommerso. Ma ciò è vero soltanto nei casi in cui il sommerso non era dovuto al costo del lavoro, ma a problemi organizzativi. Per esempio, il lavoro interinale ha ridotto il ricorso al lavoro nero, quando si trattava di lavori di pochi giorni, come nel commercio, negli alberghi e nei ristoranti. Dove, invece, il problema del sommerso è legato al costo del lavoro o al doppio lavoro l’impatto dei rapporti di lavoro flessibili è stato quasi nullo. 7. Alcune indicazioni di policy Dall’analisi sin qui svolta derivano tre indicazioni sul modo in cui sarebbe utile orientare le politiche del lavoro nei prossimi anni per affiancare alla crescita quantitativa dell’occupazione anche il miglioramento della qualità delle posizioni lavorative effettivamente disponibili. 7.1. Decentrare politiche dell’occupazione e della formazione in una prospettiva di concertazione Nelle condizioni attuali ci sembra abbastanza concreto il rischio che prenda ancor più piede l’opinione, a nostro avviso falsa, secondo cui i problemi del lavoro possano essere risolti limitandosi alla flessibilità difensiva, che renda i lavoratori occupabili alle condizioni di produttività esistenti. Quest’impostazione avrebbe, forse, un senso in assenza di progresso tecnico. Ma non puntando sul progresso tecnico l’apparato produttivo italiano è destinato a cedere il passo ad economie con livelli salariali che da noi darebbero luogo a condizioni di vita inaccettabili. Il mantenimento della posizione concorrenziale richiede capacità di abbandonare i segmenti produttivi che di volta in volta sono raggiunti dai paesi a bassi salari, sostituendoli con produzioni di più elevata qualità e a maggior valore aggiunto. È proprio questo obiettivo che si pone la strategia della flessibilità innovativa ed è proprio il fatto che questa prospettiva sia stata di fatto abbandonata con il passaggio alle politiche di deregolazione del mercato del lavoro che lascia maggiormente perplessi. In termini propositivi, riteniamo che per mettere in atto in modo selettivo le politiche di flessibilità innovativa (migliora- Flessibilità del mercato del lavoro e coesione sociale 305 mento del capitale fisico pubblico, soprattutto in infrastrutture, rafforzamento della struttura produttiva del Mezzogiorno e, in particolare, miglioramento del capitale umano, attraverso interventi nei sistemi educativi e della formazione professionale) occorrerebbe rafforzare, decentrandole, le politiche di sostegno selettivo della domanda di lavoro e proseguire nel decentramento delle politiche attive del lavoro e delle politiche della formazione. Uno sviluppo in questa direzione sarebbe, d’altro canto, il necessario complemento dell’ampliamento delle competenze e dell’onere delle politiche regionali che si indirizzano al mercato del lavoro, che è derivato dall’assegnazione alla legislazione regionale della potestà esclusiva sui temi della formazione professionale, delle politiche attive del lavoro e dei servizi per l’impiego e dall’equiparazione di leggi statali e leggi regionali in quanto a modalità di esercizio della funzione legislativa in regime concorrente su gran parte della normativa relativa al mercato del lavoro ad opera della già citata legge costituzionale n. 3/2001. La strategia della concertazione andrebbe, a nostro avviso, ripensata e decentrata attraverso lo sviluppo di forme di concertazione a livello locale, meglio adatte ad individuare le esigenze negli specifici ambiti territoriali, tanto più se la gestione delle politiche attive del lavoro si evolverà definitivamente in direzione del decentramento. Ad esempio, la contrattazione aziendale potrebbe costituire un utile punto di partenza per i processi di individuazione delle figure professionali richieste, utilizzo dei servizi per l’impiego esistenti e definizione dei percorsi di formazione professionale eventualmente necessari. In questo quadro sarebbe auspicabile l’espansione di istituzioni intermedie create per la gestione della concertazione a livello locale, le quali andrebbero a svolgere una fondamentale funzione di raccordo tra gli obiettivi nazionali della concertazione e la loro applicazione, microconcertata, al livello aziendale, permettendo così di dare concretezza alle politiche concertative. A questo proposito ci sembra assolutamente profetica l’indicazione fornita da Keynes ne La fine del lasciar fare sulla gestione concreta della politica economica: «Credo che in molti casi la dimensione ideale per l’unità di controllo e di organizzazione sia in un punto intermedio fra l’individuo e lo stato moderno. Ritengo perciò che il progresso stia nello sviluppo e nel riconoscimento di enti semi-autonomi entro lo stato» (Keynes 1936, trad. it. p. 96). 306 Mario Biagioli, Emilio Reyneri e Gilberto Seravalli 7.2. Come potenziare i servizi pubblici per l’impiego? Da pochi anni l’Italia ha avviato una radicale riforma per adempiere l’impegno, più volte ribadito in sede europea, di fornire ai lavoratori e alle imprese efficienti servizi per l’impiego gratuiti, in grado di agevolare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro e di aumentare l’occupabilità dei lavoratori a rischio di esclusione. È certamente un’impresa difficile, ma per evitare di scoraggiarsi, occorre ricordare che da una valutazione più realistica l’arretratezza italiana risulta sì grande, ma non immensa, e può quindi essere colmata in tempi ragionevoli con l’impegno necessario. Infatti, la diffusa convinzione che in Italia i servizi per l’impiego contino poco o nulla si fonda sull’ignoranza di quanto avviene negli altri paesi europei, ove moderni servizi pubblici per l’impiego sono consolidati e l’apertura ai privati è da tempo realtà, e sull’assurda idea che quasi tutte le assunzioni possano essere intermediate da agenzie specializzate, pubbliche o private. Nel Libro Bianco si imputa ai servizi pubblici per l’impiego la capacità di intermediare solo il 4-5% degli avviamenti. Ma le (poche) ricerche disponibili rivelano percentuali ben superiori. Da un’indagine dell’ISTAT (1999) su chi ha trovato il primo lavoro negli anni 1997-1999, risulta che tra chi ha trovato un’occupazione dipendente privata il 7,7% vi è riuscito grazie ai servizi pubblici e il 5,2% grazie alle agenzie private, per lo più di lavoro interinale. Tutti gli altri sono riusciti a trovare un lavoro grazie a reti di relazioni personali, ad annunci su giornali o presentandosi spontaneamente. Poiché i giovani fanno meno ricorso ai servizi pubblici, mentre utilizzano in misura molto maggiore il lavoro interinale, è ragionevole pensare che, considerando tutti i lavoratori, i servizi pubblici si attestino sul 910% e quelli privati sul 2-3%. D’altronde, rielaborando una vecchia indagine della Banca d’Italia, si giunge per i servizi pubblici a livelli superiori al 12% (Pistaferri 1999). Le imprese tendono a sottovalutare il ruolo dei servizi pubblici per l’impiego (De Koning et al. 1999; Konle-Seidl e Walwei 2001), tuttavia, secondo un’indagine pilota condotta dall’ISFOL nel 2002 (Incagli et al. 2003) quasi il 7% delle imprese intervistate dichiara di avere assunto attraverso i servizi pubblici e il 6% attraverso quelli privati. Sono livelli molto inferiori a quelli raggiunti nei paesi europei ove l’intermediazione di manodopera è più efficiente; ma la distanza non è abissale. Se Flessibilità del mercato del lavoro e coesione sociale 307 tralasciamo la Francia, ove quasi una persona su cinque dichiara di aver trovato lavoro grazie ai servizi pubblici, in nessun altro paese europeo la quota di posti di lavoro vacanti riempiti grazie ai servizi per l’impiego, sia pubblici sia privati, va oltre il 2022%. In particolare, secondo indagini condotte in Germania, Olanda e Gran Bretagna, la «quota di mercato» dei servizi pubblici raggiunge il 12-13% e quella delle agenzie private va dal 2% al 9%. In tutti gli altri casi, aziende e lavoratori s’incontrano attraverso annunci, domande spontanee e soprattutto il «passaparola» tra parenti, amici, conoscenti e colleghi di lavoro. Se ovunque domanda e offerta di lavoro s’incontrano per lo più spontaneamente, grazie ai meccanismi di mercato o alle reti di relazioni personali, bisogna evitare di porre eccessive aspettative nell’intervento di intermediari, sia pubblici sia privati, cui spetta invece il compito di affrontare i fallimenti del mercato del lavoro e delle reti di relazioni. Tale compito, pur limitato sul piano quantitativo, è però fondamentale per far funzionare in modo efficace ed equo l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. In particolare, ai servizi pubblici spettano tre compiti, che sarebbero svolti anche qualora essi fossero l’«ultima spiaggia» cui lavoratori e imprese si rivolgono dopo aver fatto ricorso senza successo a tutti gli altri canali, formali e informali. I servizi pubblici per l’impiego, infatti, hanno la missione di rendere trasparente il mercato del lavoro, raccogliendo e diffondendo informazioni sui posti di lavoro vacanti e sui lavoratori in cerca di occupazione, di porre particolare attenzione ai soggetti meno occupabili, cercando di rafforzarne le competenze e di «collocarli» in posti adeguati, e, infine, di mettere in luce le criticità, cioè le situazioni di debolezza o di sfasamento tra domanda e offerta di lavoro, consentendo di indirizzare gli interventi di riqualificazione professionale o di sostegno alla ricerca di lavoro. Di tali misure vi sarà sempre più bisogno con la diffusione delle occupazioni «flessibili» e con l’esigenza di aumentare il tasso di occupazione delle donne e dei lavoratori anziani. Di regola si ignora anche che gli addetti ai neonati servizi pubblici per l’impiego in Italia sono molto sottodimensionati. Di 12 mila dipendenti del Ministero del lavoro addetti al collocamento, solo 6 mila furono trasferiti a Regioni e Province, che, perciò, sono state costrette ad inserire nuovo personale, spesso con contratti di collaborazione su progetti del Fondo 308 Mario Biagioli, Emilio Reyneri e Gilberto Seravalli Sociale Europeo (con seri problemi quando in un futuro ormai prossimo le regioni settentrionali non potranno più farvi ricorso). Grazie a tali integrazioni, a fine 2001 gli addetti ai servizi per l’impiego erano quasi 15 mila (Gilli et al. 2002). Il confronto con gli altri paesi europei rimane, però, impietoso: adottando come riferimento la forza lavoro, in Italia gli addetti ai servizi pubblici dovrebbero essere almeno 23 mila per raggiungere il livello di Olanda e Spagna, 38 mila il livello di Gran Bretagna e Danimarca e addirittura 57 mila per arrivare al livello di Germania e Svezia (OECD 1997). Peraltro, secondo i dettagliati rapporti di monitoraggio dell’ISFOL, i risultati raggiunti sono sempre migliori da un anno all’altro, soprattutto nel centro-nord, nonostante un organico ridotto, oltre che con una scarsa esperienza operativa. 7.3. Politiche del lavoro e carriere esterne L’idea centrale della flessibilità «innovativa» è la riduzione dei costi di selezione e di formazione (il modello della «carriera esterna»16). Con carriera esterna si intende dire che le variegate forme di lavoro instabile attraverso cui passano i giovani dopo l’uscita dal sistema formativo (lavori precari, stagionali, contratti di apprendistato e formazione lavoro anche ripetuti, rapporti di collaborazione) costituiscono (dovrebbero costituire) momenti in misura significativa successivi verso condizioni di lavoro via via più soddisfacenti, momenti al termine dei quali è per tutti concreta la prospettiva dell’occupazione dipendente a tempo indeterminato oppure del lavoro autonomo «strutturato». Tale modello si discosta sensibilmente da quello tradizionale, ma non è affatto il preludio o l’avvio di un altro nel quale i lavori atipici sostituiscono progressivamente le forme del lavoro tradizionale che sarebbe destinato a perdere centralità anche nello stock dell’occupazione (il modello «americano»). Il suo tratto caratteristico può essere, al contrario, indicato nell’esistenza non della segmentazione, ma di una sorta di progressione, fatta di lavoro e formazione insieme, in grado di condurre chi cerca lavoro a 16 Si veda, per un inquadramento di tale «modello» nel dibattito attuale di economia e politica del lavoro, e anche per l’ampia bibliografia, Mertens (1999) e anche, più specificamente, Erlinghagen (2002). Flessibilità del mercato del lavoro e coesione sociale 309 trovarlo e a trovarlo stabile, ma passando per una serie di gradini, la cui salita può prendere anche un tempo rilevante. Questo dal lato dell’offerta di lavoro. Dal lato della domanda, simili gradini possono essere immaginati come forme non tradizionali di lavoro, di cui le imprese si servono per accrescere la loro flessibilità produttiva, ma anche, nello stesso tempo, per selezionare la manodopera che assumeranno in modo stabile. La questione è che un simile meccanismo è stato garantito dal 1993 a oggi (nel centro-nord) da una situazione particolare di alta congiuntura in un contesto di scarsità di manodopera dovuta alla crisi demografica. La domanda cruciale allora è che cosa potrà accadere in presenza di un’inversione dell’andamento congiunturale che già si prospetta. Il nostro schema ci aiuta a rispondere a questa domanda. Sarebbe evidentemente necessario ridurre i costi di selezione e di formazione. Le politiche del lavoro dovrebbero essere orientate in modo specifico a sostenere e rendere sempre più effettiva la carriera e, dal momento che essa è esterna, a renderne possibile e facile l’avvio. Ciò comporta: 1. Concepire la formazione professionale sia come scuola nell’impresa sia come lavoro nella scuola, senza con questo, tuttavia, distruggere o ridurre la funzione educativa e culturale della scuola. 2. Ritenere i servizi di incontro tra domanda ed offerta di lavoro non come funzioni di matching affidate a strumenti e procedure in cui prevalga la dimensione tecnica (ad esempio, ponendo l’accento su classificazioni sempre più accurate e sugli strumenti informatici), ma come funzioni intelligenti che pongano al centro della loro attenzione i percorsi e non gli stati, poiché le competenze offerte e richieste si definiscono in parte significativa dentro il mercato del lavoro stesso, appunto nell’ambito della «carriera esterna», e quindi non sono affatto definite a priori. 3. Rivedere, ma conservare, le tutele contrattuali e la protezione sociale del lavoro, in quanto l’occupazione stabile non è affatto scomparsa dall’orizzonte dell’efficienza di lungo periodo del sistema produttivo, ma anzi resta un suo elemento essenziale. 4. Pensare, in particolare, a specifici istituti ed incentivi adatti a valorizzare i processi della carriera esterna. Il quarto punto merita specifica attenzione. Tra gli istituti adatti a consolidare e valorizzare la carriera esterna, considerando l’obiettivo di ridurre i costi di formazione e selezione del 310 Mario Biagioli, Emilio Reyneri e Gilberto Seravalli personale, appare cruciale la certificazione delle competenze acquisite durante il percorso che porta una persona dalla fine del suo curriculum scolastico al lavoro stabile, o anche da un lavoro all’altro se non si tratta di giovani. Attualmente, e salvo parziali e circoscritte esperienze, le competenze acquisite durante questi percorsi sono dichiarate dallo stesso lavoratore in una molteplicità di forme (che vanno dalla comunicazione verbale, a quella scritta in un curriculum vitae, al «bilancio di competenze» fornito da qualche servizio pubblico per l’impiego o da qualche agenzia privata). Tali forme, oltre che essere disomogenee, sono un tipico «bene-fiducia» (ad esempio, un datore di lavoro non è sempre in grado di accertare l’affidabilità di quanto gli viene dichiarato). Si osservi che questo dipende proprio dal fatto che percorsi lunghi e diversificati non aiutano il datore di lavoro a riconoscere il «tipo» di lavoratore che ha davanti. Come nel caso di tutti i beni-fiducia, è cruciale un meccanismo di certificazione, dotato di forte notorietà e reputazione, che attribuisca un maggiore grado di affidabilità a tali dichiarazioni. L’istituto della certificazione applicato al caso in esame potrebbe facilitare l’ingresso ed il percorso della carriera esterna perché potrebbe rendere effettivamente successivi e non ripetitivi i suoi «scalini». Allo stato attuale, infatti, il datore di lavoro, potendosi affidare solo in modo parzialissimo al contenuto delle dichiarazioni di esperienze e di competenze acquisite dai lavoratori, dovrà in genere riverificarne l’esistenza ed il valore, sperimentando di nuovo chi ha davanti. L’introduzione della certificazione potrebbe utilmente ridurre ai suoi occhi questa necessità. Il risultato sarebbe, appunto, una riduzione dei costi di selezione e formazione per entrambe le parti, per il datore di lavoro ma anche per il lavoratore che vedrebbe abbreviato il suo percorso. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Anastasia, B. (2003), Slalom tra i numeri. Il caso degli extracomunitari occupati: una stima in dieci mosse, in Economia e società regionale, n. 1. Antonelli, G., Paganetto, L. 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Three suggestions are made to avoid this danger: 1) carrying out at a local level social pacts aimed at improving the amount of human capital owned by workers; 2) strenghtening the action of the recently organized «employment centers» («centri per l’impiego») by coordinating their activity with vocational training; 3) as young workers act in the labour market with the aim of developing «external careers» by moving from one employment to another, possibly better, these strategies should be enhanced by certificating the skills they acquire in so doing.