Flessibilità del mercato del lavoro e coesione sociale

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Flessibilità del mercato del lavoro e coesione sociale
MARIO BIAGIOLI, EMILIO REYNERI
E GILBERTO SERAVALLI
Flessibilità del mercato del lavoro
e coesione sociale
1. Introduzione
A partire da un rapporto elaborato nel 1986 da un gruppo
di esperti istituito presso l’OCSE e presieduto da Ralf Dahrendorf la flessibilità del mercato del lavoro – intesa come «capacità
degli individui e delle istituzioni di adattarsi alle nuove circostanze» (globalizzazione, crescente incertezza, ridotta efficacia
delle tradizionali misure di controllo dell’economia) – è diventata
la risposta privilegiata alle necessità di «adeguare l’aggiustamento
economico agli shock da offerta (energetici, inflazionistici,
derivanti dal cambiamento della struttura del commercio e della
finanza internazionale, ecc.), proseguire sul terreno dell’innovazione tecnologica, confrontarsi con i nuovi problemi sociali e
migliorare la qualità del lavoro» (OCDE 1986).
Anche l’Italia ha seguito questa ricetta, sia pure partendo un
poco più tardi di altri paesi. Da ormai un decennio le politiche
del lavoro italiane sono volte all’inserimento di livelli crescenti
di flessibilità. L’esperienza permette ormai di fare un bilancio
degli effetti e valutare i pro e i contro delle riforme.
In questo contributo vengono presentati, prima di tutto,
argomenti atti a sfatare due luoghi comuni: i) che l’Italia abbia
adottato politiche di flessibilità blande. Si argomenterà, al
contrario, che l’Italia ha marciato speditamente in tale direzione
già a partire dalla metà degli anni novanta e che, anzi, nell’ultimo
anno – a seguito dell’approvazione della legge 30/2003 e del
d.lgs. 276/2003 – le politiche del lavoro sono state indirizzate
verso una vera e propria «deregolazione» con effetti rilevanti
sulla composizione e sui comportamenti del mercato del lavoro
(paragrafi 1 e 2); ii) che esista una sola via alla flessibilizzazione
STATO E MERCATO / n. 71, agosto 2004
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Mario Biagioli, Emilio Reyneri e Gilberto Seravalli
del mercato del lavoro, mentre in realtà le vie sono diverse
(paragrafo 3) e anche diversamente auspicabili (paragrafo 4).
Sono poi esaminati vantaggi e costi della flessibilità (paragrafo
5), individuando nella possibile riduzione della coesione sociale
il danno maggiore che questo tipo di politiche può produrre
ed esaminando i modi in cui ciò può avvenire. In chiusura
verranno presentate considerazioni sulle politiche nuove che, a
nostro avviso, sarebbe utile mettere in campo (paragrafo 6).
2. Le politiche del lavoro negli ultimi dieci anni
2.1. Le politiche del lavoro nel periodo 1996-2001
Le politiche del lavoro attuate nella seconda metà degli anni
novanta sono state decisamente orientate all’obiettivo di aumentare la crescita della domanda di lavoro attivata dall’aumento
del PIL («elasticità dell’occupazione») per ridurre il tasso di
disoccupazione compatibile con la stabilizzazione dei prezzi. I
dati della tabella 1 rendono evidente che sino al 1997 le
variazioni dell’occupazione si muovono in media nella medesima
direzione, ma in misura molto più ridotta, delle variazioni del
reddito, mentre a partire dal 1998 gli aumenti della domanda
di lavoro indotti dall’aumento del reddito vanno crescendo fino
a che, nel triennio 2001-2003, l’occupazione cresce addirittura
ad un ritmo superiore di quello del reddito.
Gli interventi attuati in questi anni hanno operato in modo
interconnesso e cumulativo, agendo sia dal lato dell’offerta di
lavoro (attraverso l’ampliamento della tipologia di forme contrattuali, iniziata con la legge 196/1997, e le molte altre misure
dirette ad aumentare la flessibilità dell’impiego), sia dal lato della
domanda (attraverso una marcata riduzione degli oneri sociali
e contributivi versati dai datori di lavoro e riduzioni del carico
fiscale a favore delle imprese che aumentavano gli investimenti
e assumevano lavoratori, in particolare quelli provenienti da
categorie svantaggiate), sia, infine, attraverso la semplificazione
e il decentramento di funzioni amministrative, avviato dalle
cosiddette leggi Bassanini e proseguito successivamente in
quattro direzioni: a) la modifica nel 2001 del Titolo V della
Costituzione, che ha cambiato la gerarchia delle fonti legislative
nazionale e regionali riguardanti il mercato del lavoro; b) gli
strumenti di programmazione concertata: patti territoriali, con-
Flessibilità del mercato del lavoro e coesione sociale
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TAB. 1. Variazioni percentuali annue del reddito e delle «unità di lavoro». Italia: 19902003
1990
1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003
+2,2
+1,1
+1,4
Variazione % annua delle «unità di lavoro»
+0,9 –0,6 –1,8 –1,6 –0,6 +0,5 +0,4 +1,1 +1,3 +1,9 +2,1 +1,5 +1,0
Variazione % annua del prodotto interno lordo reale
0,6 –1,2 +2,2 +2,9 +0,7 +2,0 +1,8 +1,7 +3,1 +1,8 +0,4 +0,4
Fonte: dati ISTAT.
TAB. 2. Composizione % spese per politiche del lavoro: Italia anni 1996-2002
Italia
Tipo di spesa
1996 1997 1998 1999 2000 2001
Servizi impiego e assistenza ricerca
lavoro
Formazione professionale
Contratti a causa mista (FL e Appr.)
Incentivi all’occupazione
Incentivi per i disabili
Creazione diretta di posti di lavoro
Incentivi all’autoimpiego
Totale politiche attive
–
–
–
–
0,5
0,3
3,4 5,2
9,0 10,4
5,0 6,7
–
–
2,5 3,4
–
–
35,7 38,1
8,0
11,8
11,5
–
3,8
1,2
42,1
5,9
14,6
12,7
–
4,7
1,8
44,2
3,2
13,9
16,0
–
4,1
3,5
43,8
4,2
12,6
20,3
0,2
2,9
5,0
46,6
2,3
13,7
22,2
0,2
1,5
1,8
41,6
Trattamenti di disoccupazione
Pensionamenti anticipati
Totale politiche passive
37,9 38,3
16,6 14,5
54,5 52,8
36,0
10,8
46,8
36,1
8,2
44,3
34,4
7,1
41,5
33,9
5,0
38,9
38,1
5,4
43,5
Voci non classificabili*
25,6 21,5
16,9
16,0
17,8
15,4
14,5
Totale generale
–
2002
100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0
* Inclusi sgravi a carattere settoriale e territoriale.
Fonte: Dati tratti dai rapporti di monitoraggio del Ministero del lavoro.
tratti d’area, contratti di programma; c) il decentramento dei
servizi per l’impiego e d) l’arricchimento della formazione
professionale, decentrandone la gestione.
Il dato quantitativo che meglio misura l’evoluzione del disegno
normativo in questo periodo è l’aumento della spesa per
politiche del lavoro «attive» rispetto alla spesa per politiche del
lavoro «passive». Nel 2000 le spese per politiche attive hanno
raggiunto i 7.695,6 milioni di euro, superando le spese per
politiche passive, ferme a 7.295,5 milioni. Nel 2001 il divario
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Mario Biagioli, Emilio Reyneri e Gilberto Seravalli
è ulteriormente cresciuto: politiche attive: 8.951,1 milioni, politiche
passive: 7.480,7 milioni (cfr. tab. 2, nella quale i dati sono
riportati in percentuale). Nonostante il passo indietro che si è
avuto nel 2002 a seguito dell’aumento dei trattamenti di
disoccupazione determinato dal netto rallentamento della crescita del PIL, la situazione all’inizio del nuovo decennio è
completamente diversa da quella che si aveva all’inizio del
periodo.
2.2. L’impostazione delle politiche del lavoro dopo il 2001
Il percorso di riforma verso una sempre maggiore flessibilità
ha subito un’accelerazione con il governo di centro-destra. Nella
fase appena esaminata si era avuta l’introduzione di nuove forme
contrattuali modulate secondo fattispecie più varie rispetto a
quella costituita dal lavoro a tempo pieno e indeterminato,
assieme alla fine del monopolio pubblico del collocamento.
Tuttavia, questo percorso rimaneva ancorato a una concezione
per la quale ogni nuova forma contrattuale (flessibilizzante il
regime d’impiego per il solo fatto di essere introdotta) veniva
munita di tutta una serie di vincoli e di condizioni che potevano
essere attenuati solo con il consenso delle parti sociali. In tal
modo s’istituiva un meccanismo per il quale in misura non
trascurabile la flessibilità effettiva veniva a dipendere dalla forza
negoziale delle parti. Quest’impostazione era coerente con l’idea
secondo cui la fine del «fordismo» e la «globalizzazione»
avrebbero avuto bisogno di maggiore flessibilità, ma ciò non
doveva andare a scapito del ruolo dei sindacati, importante ai
fini della politica dei redditi «concertata» – richiesta anch’essa,
si riteneva, nel nuovo contesto economico internazionale. Flessibilità del lavoro, dunque, concertata nel doppio e connesso
senso di (moderata) flessibilità dell’impiego e di (moderata)
flessibilità del salario, dove i due aspetti potevano tenersi
insieme, dando pieno significato al termine concertazione1, per
evitare che un eccesso di deregolazione spingesse a rivendicazioni salariali eccessive o, all’opposto, a una rapida perdita del
monte salari nella distribuzione del reddito con effetti negativi
dal lato della domanda effettiva e quindi della crescita.
1
Per maggiori dettagli, si rinvia a Biagioli (2003).
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281
Con la legge 14 febbraio 2003, n. 30, il Parlamento ha
conferito al governo ampia delega per ulteriori riforme del
mercato del lavoro che hanno trovato una prima applicazione
con il d.lgs. 276/2003. Con queste norme è stata rivista
l’impostazione delle riforme del mercato del lavoro2. La centralità torna alla norma imperativa orientata ad ulteriori ampliamenti delle fattispecie contrattuali e alla riduzione di vincoli e
condizioni mentre retrocede vistosamente il ruolo delle parti
sociali. Siamo di fronte, pertanto, a una vera e propria «deregolazione». Non si tratta più di una sostituzione di regole rigide
con regole più flessibili, ma di un arretramento delle regole a
vantaggio del libero funzionamento del mercato del lavoro.
Ciò corrisponde, evidentemente, ad un’altra idea circa il
meccanismo economico. Si potrebbe dire che in questa nuova
concezione è ritenuto un errore fornire alle parti sociali il terreno
per determinare uno scambio sociale equilibrato. In essa è
presente piuttosto la convinzione che i sindacati mantengano un
orizzonte miope e non riescano a scambiare minori garanzie oggi
per maggiore occupazione e sviluppo domani. In tale concezione
non è tanto la domanda effettiva che guida lo sviluppo, ma il
tasso di profitto, e quindi maggiore flessibilità del lavoro e del
salario sono considerati indispensabili e senza vincoli concertativi, per mantenere la competitività in un mondo globalizzato.
Appare abbastanza chiaro, pertanto, che la parte più delicata
della nuova impostazione riguarda proprio i risultati in termini
di occupazione e di sviluppo. Mentre la via concertativa può
attendere, dato che lo scambio è già abbastanza equilibrato ora,
la via liberista – che sacrifica di più una delle parti – non può
attendere troppo. Vedremo tra poco quali siano stati questi
risultati, specie nell’esperienza di paesi che da più tempo hanno
deregolato. Consideriamo ora, preliminarmente, alcuni luoghi
comuni sull’evoluzione del mercato del lavoro italiano.
3. Alcuni luoghi comuni sull’evoluzione del mercato del lavoro
italiano
Sia tra i sostenitori della flessibilità, sia tra i suoi critici, si
è andata affermando un’immagine del mercato del lavoro italiano
2
Cfr., anche per la ricca bibliografia, Barbera e Ravelli (2003).
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Mario Biagioli, Emilio Reyneri e Gilberto Seravalli
che vorrebbe contrapposta una grande rigidità della tradizionale
occupazione dipendente a tempo indeterminato ad una recente
forte crescita dei lavori non standard, dalle occupazioni a tempo
determinato a quelle indipendenti o parasubordinate. Tale
stereotipo, che ha condizionato molte discussioni politiche e
sindacali, corrisponde solo in parte alla realtà quale risulta da
una più accurata analisi dei dati. Con l’espansione delle politiche
del lavoro che abbiamo descritto, parecchie affermazioni, forse
rispondenti alla realtà di 10-15 anni fa, sono diventate già da
tempo nient’altro che luoghi comuni.
3.1. La presunta rigidità del mercato del lavoro italiano
In occasione dell’approvazione del decreto delegato il presidente del Consiglio avrebbe detto che il mercato del lavoro
italiano era così diventato il più flessibile dell’Unione Europea
(Il Sole 24 ore, 2 agosto 2003). Un’enfasi non lontana dal vero,
se consideriamo che alcuni istituti (lo staff leasing e il lavoro
a chiamata) esistono soltanto nei paesi anglosassoni e in Olanda,
che è stata istituzionalizzata una forma di impiego instabile
sconosciuta altrove quale il lavoro «a progetto», ma soprattutto
che il mercato del lavoro italiano non era affatto «ingessato»
già dalla fine degli anni ottanta.
L’idea che il mercato italiano fosse molto rigido si fondava
su due elementi: la scarsa presenza di disoccupati per aver perso
un lavoro a fronte del gran numero di persone in cerca del loro
primo impiego; la stima OCSE che pone l’Italia in testa alla
classifica dell’indice di protezione dell’occupazione dipendente.
Ora occorre, in primo luogo, notare che se l’indagine sulle forze
di lavoro fotografa una relativamente scarsa presenza di persone
in cerca di lavoro per averlo perso, ciò non significa affatto che
la probabilità di perdere il lavoro sia bassa3. Orbene, ricerche
condotte su archivi Inps seguendo procedure in uso nella
letteratura internazionale (Contini 2002) hanno mostrato che nel
settore privato il «turnover dei posti» (somma dei posti di lavoro
creati e distrutti in un anno rispetto alla quantità dei posti di
lavoro esistenti) è in linea con gli altri paesi europei e persino
con gli Stati Uniti. Pure il «turnover dei lavoratori» (rapporto
3
È la mobilità job to job, da tempo messa in luce (Boeri 1996).
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tra la somma dei lavoratori che in un periodo sono assunti e
di quelli che lasciano il lavoro rispetto al totale dei lavoratori
occupati) è più elevato che nella gran parte dei paesi europei,
anche escludendo chi è coinvolto in mobilità frenetica (stagionali) (Pacelli e Leombruni 2003).
Del resto, studiosi che constatavano questa elevata mobilità
erano costretti a escogitare raffinate ipotesi per spiegare come
ciò fosse compatibile con l’indice OCSE, che attribuiva all’Italia
una protezione pari a 3,4 contro valori da 0,7 a 1,1 per Stati
Uniti e Gran Bretagna (OECD 1999). Più semplicemente, già
l’ISTAT (1997) aveva criticato la costruzione dell’indice sul
piano metodologico, sebbene con scarso ascolto. È poi intervenuta autorevolmente la Banca d’Italia. Nella sua relazione
annuale del 2002 (pp. 135-136) l’Istituto Centrale osserva come
la valutazione OCSE sia fortemente influenzata dall’erronea
inclusione del trattamento di fine rapporto tra i costi di
licenziamento, mentre esso costituisce invece salario differito,
che spetta al lavoratore qualunque sia il motivo della rottura
del rapporto. Se si esclude il tfr dalla stima dell’indice di
protezione – concludeva la Banca d’Italia – la normativa italiana
del licenziamento individuale risulta tra le meno vincolistiche
in Europa. Il reale valore dell’indice di protezione sarebbe,
infatti, solo di poco superiore a 2 (Del Conte et al. 2003).
Anche per i licenziamenti collettivi, dopo la nuova legge del
1991, il grado di libertà delle grandi imprese italiane nel gestire
gli esuberi di personale, formalmente basso, è diventato in realtà
più alto di quello goduto nella maggior parte degli altri paesi
europei (CNEL 1995). L’unica anomalia che ancora caratterizza
l’Italia è l’infima generosità del sostegno al reddito per chi perde
il lavoro non in caso di crisi aziendale (OECD 1997). Di ciò,
però, si parla poco; così come si trascura che in gran parte
dell’Italia, quella ove da parecchi anni il mercato del lavoro è
prossimo al pieno impiego, «il problema delle imprese non è
tanto una maggiore possibilità di licenziare, ma piuttosto quello
di trattenere presso di sé i lavoratori» e di trovarne altri con
adeguate disponibilità e competenze, come si legge nella newsletter
di gennaio-febbraio 2002 della Fondazione nord est dedicata alla
flessibilità.
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Mario Biagioli, Emilio Reyneri e Gilberto Seravalli
3.2. Flexibility senza security
Ma ritorniamo sulla questione delle reti di protezione contro
la mancanza di lavoro. Se si confronta il Libro Bianco con la
legge delega e il decreto legislativo, ci si accorge che uno dei
suoi assi portanti è scomparso. Nel Libro Bianco c’era l’idea
di flexecurity, cioè alta flessibilità e grande sicurezza per chi
rimane privo di lavoro, e si dava gran rilievo alla necessità di
sviluppare gli ammortizzatori sociali (indennità di disoccupazione e sussidi) oltre che di migliorare la funzionalità dei servizi
per l’impiego. È il modello danese, caratterizzato da uno dei
mercati del lavoro più flessibili al mondo, ma anche da una delle
reti di sostegno dei senza lavoro più generosa ed efficiente, grazie
ad una spesa per politiche del lavoro – sia passive (indennità
di disoccupazione) sia attive (servizi per l’impiego, formazione,
ecc.) – rispetto al PIL circa tre volte quella italiana. Questo
modello è stato nei fatti abbandonato e ora l’Italia ha grande
flexibility senza alcuna security.
3.3. La leggenda del lavoro sempre più autonomo
Negli anni ottanta clamorosa è stata la rinascita del lavoro
indipendente nei paesi ove sembrava in via di estinzione: in Gran
Bretagna la percentuale sull’occupazione extra-agricola, scesa a
fine anni settanta sotto il 7%, torna al 12%, e in Svezia da poco
più del 4% risale al 7%. Un simile andamento caratterizza gli
altri paesi europei. Negli anni novanta, però, tale tendenza non
si è mantenuta. Dopo un leggerissimo aumento all’inizio del
decennio, la quota di occupazione indipendente si stabilizza o
addirittura diminuisce di nuovo, sicché nell’Unione Europea ora
è allo stesso livello del 1991. Dunque, l’inversione della tendenza
secolare alla salarizzazione è stata di breve durata. Ciò non
contrasta con la recente crescita delle piccole imprese che ha
interessato quasi tutti i paesi europei, poiché l’occupazione
indipendente è costituita più da lavoratori in proprio e professionisti che da imprenditori. L’Italia è il paese sviluppato con
la quota di occupazione indipendente di gran lunga più alta,
ma l’andamento del fenomeno nel corso del tempo è simile a
quello degli altri paesi europei. La quota di lavoro indipendente
extra-agricolo, che sfiorava ancora il 30% alla fine degli anni
cinquanta, scende sino a raggiungere un minimo del 22% nel
Flessibilità del mercato del lavoro e coesione sociale
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1977, quindi risale sino a superare il 25% nel 1984 e si assesta
poi intorno al 26% sino ad oggi.
Benché nell’ultimo decennio il peso del lavoro indipendente
sia in leggero declino, la disaggregazione settoriale consente di
spiegare l’illusione cui sono soggetti molti quando parlano di
inarrestabile crescita dell’occupazione autonoma. Esiste, in effetti, una crescente diffusione del lavoro indipendente nell’industria, nell’edilizia e in tutti i rami del terziario non commerciale. Inoltre, aumentano coloro che svolgono compiti non
manuali qualificati, mentre diminuiscono gli addetti alle vendite
e i lavoratori manuali specializzati (gli artigiani).
Invece non cambiano, anzi si accentuano, due altri tratti del
lavoro indipendente: la prevalenza dei maschi e l’esclusione dei
giovani. A mettersi in proprio sono soprattutto lavoratori
dipendenti con una solida esperienza professionale e adeguate
risorse sociali, sviluppate in anni di presenza nel mercato del
lavoro (Barbieri 1999). D’altronde, per molti, questa è la sola
possibilità di mobilità occupazionale ascendente date le scarse
opportunità in Italia di far carriera all’interno di imprese troppo
piccole, ove le funzioni più elevate sono appannaggio dell’imprenditore.
Si deve tener conto però che declinano le figure tradizionali
(coltivatori diretti e commercianti). È vero, dunque, che il lavoro
autonomo cresce in funzioni prima dominate dal lavoro dipendente, ma esso non cresce affatto complessivamente.
3.4. Ma quanti erano i veri collaboratori?
Il recente decreto delegato ha abolito i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, con esiti che è molto difficile
prevedere. Fin da quando è stata creata surrettiziamente da un
provvedimento in materia previdenziale nel 1995, questa figura
ha suscitato grandi discussioni sulla sua natura e sui modi di
regolarla. Ciò si giustificava non solo per le peculiari caratteristiche della fattispecie, a cavallo tra lavoro dipendente e
indipendente, ma anche per la sua diffusione, che secondo
l’opinione comune avrebbe raggiunto livelli enormi, tanto da
essere indicata come il maggior segnale della cosiddetta «fuga
dal lavoro dipendente».
In effetti, la crescita degli iscritti al fondo speciale Inps è stata
fortissima: da meno di un milione nel 1996 a quasi due milioni
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Mario Biagioli, Emilio Reyneri e Gilberto Seravalli
e mezzo nel 2002. Ma sarebbe stato sufficiente uno sguardo ai
dati del mercato del lavoro per escludere che tutti gli iscritti
all’Inps rappresentassero la nuova figura di «lavoratore autonomo di seconda generazione» (Bologna e Fumagalli 1997) che
fornisce prestazioni professionali o di servizio in modo continuo
a uno o comunque pochissimi committenti.
D’altro canto, un’analisi degli stessi dati Inps consente di
valutare il fenomeno nelle sue giuste dimensioni. Innanzi tutto,
poiché l’Inps non cancella le posizioni previdenziali di chi ha
cessato questa attività anche da tempo, più che agli iscritti
occorre guardare a chi ha fatto almeno un versamento nel corso
dell’anno. I contribuenti sono circa l’80% degli iscritti dal 1996
al 1998 e scendono a poco più del 70% nel 1999 (l’ultimo anno
per cui sono disponibili dati). Dunque, una quota cospicua di
iscritti alla gestione separata Inps, dal 20% al 30%, è costituita
da occasionali, che lavorano come collaboratori per non più di
un anno e scompaiono per sempre nell’anno successivo.
Ma per arrivare ad una stima della nuova figura di lavoratore
flessibile «tra indipendenza e subordinazione», occorre andare
oltre. Infatti, limitandoci al 1999, oltre un terzo dei contribuenti
versa un’aliquota del 10%, che è prevista per chi ha anche
un’altra posizione contributiva, come lavoratore dipendente o
indipendente o come pensionato. Sono doppio lavoristi, che
«arrotondano» il reddito principale da lavoro o pensione. È una
condizione molto diffusa in Italia, che deve essere tenuta ben
distinta da quella dei collaboratori «puri», che traggono ogni
loro sostentamento dal contratto con un committente.
Infine, tra chi versava nel 1999 i contributi con l’aliquota del
12% e quindi non aveva altra posizione contributiva, oltre il
30% erano amministratori e sindaci di società, una figura simile
a quella del libero professionista, che solo un provvedimento
previdenziale ha accomunato a chi presta un’attività di collaborazione continuativa per uno o due committenti. Seguendo
questa procedura si giunge a poco meno di 600 mila collaboratori «puri» per il 1999. Per lo stesso anno un’indagine ISTAT
(1999) stimava 715 mila collaboratori, ma è probabile che
includesse anche gli amministratori di società.
Fondandosi sull’ipotesi prudenziale di tener per buone le
percentuali ricavate dai dati del 1999, si può tentare un
aggiornamento e si può stimare che siano 800 mila nel 2002
i lavoratori che in via principale prestano la propria attività per
uno o più committenti con un rapporto di collaborazione
Flessibilità del mercato del lavoro e coesione sociale
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coordinata e continuativa. Allo stesso risultato giunge uno studio
condotto dal CNEL (2003), che distingue 200 mila professionisti
con partita Iva e riduce così a soli 600 mila i soggetti dei «nuovi
lavori», a cavallo tra dipendenti e indipendenti, per molti dei
quali l’aleatorietà dell’impiego non è compensata da una elevata
retribuzione.
3.5. Crescita e stabilizzazione dell’occupazione a tempo determinato
Che negli ultimi anni in Italia vi sia stato un forte aumento
del lavoro a tempo determinato è dato per scontato sia da chi
considera questo fenomeno come indice di maggiore flessibilità
e fonte di maggiore occupazione, sia da chi lo biasima come
segnale di crescente precarizzazione. Ma la crescita dell’occupazione dipendente a tempo determinato è stata tutt’altro che
esplosiva e si deve principalmente alla maggiore diffusione dei
contratti a fini formativi tra i giovani (soprattutto apprendistato).
Infatti, la percentuale di lavoratori temporanei sull’occupazione
dipendente è cresciuta da poco più del 6% nel 1993 sino a
superare di poco il 10% nel 2000 e poi si è assestata su valori
un poco inferiori.
Nel corso del 1993 il tempo determinato ha assorbito quasi
per intero la caduta dell’occupazione (ISTAT 1999), poiché
quando la crisi è esplosa, le imprese hanno reagito non
rinnovando i contratti in scadenza. Poi, con l’aggravarsi della
crisi nel 1994 e nel 1995, viene duramente colpita l’occupazione
permanente, che in soli due anni si riduce di quasi il 5%. Invece,
le occupazioni temporanee crescono in misura consistente,
poiché, quando le aspettative sono incerte, le poche imprese che
assumono preferiscono ricorrere a rapporti a tempo determinato.
L’effetto incertezza prosegue sino al 1998, anche se l’occupazione permanente riprende; sicché, di un vero e proprio processo
di precarizzazione, cioè di sostituzione di posti stabili con lavoro
temporaneo, si può parlare solo per due anni (dal 1993 al 1995).
Quando, con la ripresa economica nel 1999, le imprese ricominciano ad assumere, un altro effetto favorisce l’aumento
dell’occupazione temporanea, poiché una crescente quota di
assunzioni, soprattutto di giovani, passa attraverso un lungo
periodo di rapporti a tempo determinato, quasi un lungo periodo
di prova. In effetti, trascorso qualche anno, molti rapporti
288
Mario Biagioli, Emilio Reyneri e Gilberto Seravalli
temporanei si trasformano in permanenti. Ciò è avvenuto dal
2001, quando, grazie anche agli sgravi contributivi previsti per
le assunzioni a tempo indeterminato, un forte aumento del
lavoro dipendente ha comportato persino una riduzione di
quello temporaneo. Certamente alla fine del decennio il peso
del lavoro a tempo determinato è molto maggiore che non
all’inizio, ma la crescita si è arrestata e non delinea una tendenza
destinata a proseguire. In una prospettiva storica si può pensare
che si sia giunti ad una fase di assestamento.
Ciò è confermato dal fatto che la percentuale di lavoro a
termine cresce in misura molto maggiore tra i giovani, in
particolare nei rapporti a fini formativi. La loro crescita, che pure
inizia nel 1996, ha una forte accelerazione nel 1998, quando
entra in vigore la riforma dell’apprendistato prevista dal «pacchetto Treu». L’aumento del lavoro a termine per fini formativi
(in valore assoluto più che raddoppiato) è particolarmente forte
tra i giovani da 15 a 29 anni: dal 36% nel 1993 ad oltre la
metà nel 2002, mentre le situazioni più precarie di chi non è
riuscito a trovare un’occupazione permanente diminuiscono dal
44% a meno del 30%. L’occupazione giovanile è diventata meno
stabile, ma ciò si deve per lo più ad una forte diffusione dei
rapporti a fini formativi, che portano ad una successiva stabilizzazione in misura ben maggiore dei normali rapporti a
termine.
In sintesi, dunque, il mercato del lavoro italiano non era rigido
ancor prima delle recentissime riforme, ma – nello stesso tempo
– non si è venuto destrutturando. È questo probabilmente il
segno che vi sono profonde ragioni (tra l’altro di efficienza
economica) le quali, se richiedono flessibilità, non richiedono
affatto precarizzazione. Anzi le imprese – in regime di flessibilità
– hanno probabilmente soprattutto il problema della fidelizzazione della manodopera e della difesa del suo patrimonio di
competenze, che l’attuale deregolazione rischia di compromettere.
4. I «fatti stilizzati» della deregolazione
Esamineremo in questo paragrafo gli effetti sull’occupazione
della deregolazione del mercato del lavoro, alla luce delle maggiori
esperienze disponibili. Proprio perché – come si è detto – sono
cruciali i risultati, si tratta di esaminarli, non tanto nell’esperienza
Flessibilità del mercato del lavoro e coesione sociale
289
italiana (nella quale la vera e propria deregolazione è stata fin
qui limitata), ma soprattutto in quella di altri paesi industrializzati,
nella quale essa data da più lungo tempo. In sintesi, una rassegna
della letteratura internazionale sembra suggerire che gli effetti
della deregolazione, al netto della politica economica di sostegno
della domanda, appaiono non significativi sull’occupazione aggregata. Tali effetti, invece, sembra si esercitino positivamente nella
distribuzione di un dato volume di lavoro tra un numero maggiore
di persone (riduzione della durata dei periodi di disoccupazione).
Emerge, inoltre, un prezzo sociale (e di efficienza economica) che
deve essere pagato, ed è una maggiore disuguaglianza nella
distribuzione del reddito4. Vediamo però prima quali sono i
«fatti» che hanno caratterizzato l’esperienza storica della fase
improntata alla flessibilità.
Nei primi tre decenni del dopoguerra tassi di crescita
economica molto elevati hanno ridotto sensibilmente i livelli
della disoccupazione nei paesi industrializzati, segnando una fase
assolutamente eccezionale in una prospettiva di lungo periodo,
come risulta dalla serie storica del tasso medio di disoccupazione
dei paesi ricchi tra il 1920 e il 2001, riportata nella figura 1.
Dopo il periodo di quasi piena occupazione che fece seguito
alla conclusione della seconda guerra mondiale grazie all’applicazione diffusa delle politiche keynesiane, a partire dalla
seconda metà degli anni settanta la disoccupazione tornò
elevata e prese a divergere tra Europa e Stati Uniti5. Inoltre,
mentre in Europa la disoccupazione media resta elevata, si
riduce la sua varianza tra paesi. Ciò ha portato molti a ritenere
che l’Europa si caratterizzerebbe in questi anni per una
disoccupazione più omogeneamente elevata rispetto agli Stati
Uniti. In realtà si trascura spesso di considerare che la varianza
dei tassi di disoccupazione calcolata al livello delle regioni e
delle province europee si riduce in modo molto meno sensibile
(Dall’Aglio 2003). Il processo di convergenza registrato al
livello dei paesi non si ripresenta al livello delle regioni. Anzi,
vi sono seri indizi di un processo polarizzante, per il quale
aumenta la distanza tra un gruppo di aree (che potremmo
indicare «centrali») nelle quali la crescita della domanda di
4 Per non appesantire il testo, si rinvia, per l’esame dei dati e delle analisi empiriche
a sostegno delle affermazioni contenute in questo paragrafo, a Seravalli (2003).
5 Cfr. Layard, Nickell e Jackman (1999) e Den Haan et al. (2001).
290
Mario Biagioli, Emilio Reyneri e Gilberto Seravalli
12
Tassi % di disoccupazione
10
8
6
4
2
2001
1996
1991
1986
1981
1976
1971
1966
1961
1956
1951
1935
1930
1925
1920
0
FIG. 1. Disoccupazione in percentuale della forza lavoro nei paesi industrializzati, 19202001.
Nota: Media semplice dei tassi di disoccupazione di Australia, Austria, Belgio,
Canada, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Italia, Olanda, Norvegia, Svezia,
Svizzera, Regno Unito, Usa.
Fonte: Elaborazioni su dati tratti da Maddison (1991) e ILO (Laborstat).
lavoro è stata rilevante, per cui sono fortemente diminuiti i
tassi di disoccupazione, relativamente alla media europea, e un
altro gruppo (che potremmo indicare delle aree «periferiche»)
nelle quali è avvenuto l’opposto6. Già questa osservazione
autorizza forti dubbi sulle spiegazioni della disoccupazione
europea che pongono al centro motivi «istituzionali» (comuni
all’interno dei singoli paesi) e permette di sottolineare l’importanza che assumono, invece, i ritardi di sviluppo di specifiche realtà locali (Simonazzi 2002).
In ogni modo, questi dati hanno provocato un ampio dibattito
circa la cause di tale asimmetria tra andamento della disoccupazione in Europa e negli Stati Uniti. Il primo e il più celebrato
paradigma interpretativo parte dalla considerazione che indici
6
In proposito, si vedano anche Messina (2002) e Overman e Puga (1999).
Flessibilità del mercato del lavoro e coesione sociale
291
delle rigidità del mercato del lavoro incrociati con i tassi di
disoccupazione fanno effettivamente vedere che gli Stati Uniti
(e altri paesi anglosassoni come la Gran Bretagna e l’Australia)
presentano bassa disoccupazione e bassa rigidità e che i paesi
«mediterranei» presentano alta disoccupazione e alta rigidità.
Tale paradigma sostiene che la regolazione (forme contrattuali
«tipiche», limiti ai licenziamenti, rigidità verso il basso dei salari)
è responsabile del fatto che shock esterni imprevedibili, sempre
più frequenti e di dimensioni più rilevanti in seguito alla
globalizzazione, vengono assorbiti poco o più lentamente, dando
luogo a fluttuazioni economiche più accentuate e a una riduzione
del trend di lungo periodo della crescita del reddito e dell’occupazione (Siebert 1997; Blanchard e Wolfers 1999). Una prima
difficoltà nel ritenere adeguato tale paradigma sorge dai dati.
Si può vedere, infatti, che non vi è correlazione tra indici di
rigidità del mercato del lavoro e andamento della disoccupazione.
Inoltre, se il paradigma della rigidità fosse sostenibile, ci si
dovrebbe attendere che proprio negli ultimi anni la disoccupazione avrebbe dovuto ridursi di più nei paesi con i regimi del
mercato del lavoro proporzionalmente più deregolati. Le stime
empiriche non sono favorevoli a questa affermazione7.
4.1. Due prospettive
Il fatto è che se si parte (correttamente) dall’incertezza, e
quindi da una situazione nella quale contano molto «le profezie
che si avverano da sé» con tutti gli effetti destabilizzanti che ne
possono conseguire (equilibri multipli), si può immaginare che
vi siano due diverse cure. Una intesa a determinare condizioni
perché gli shock e l’instabilità vengano rapidamente assorbite da
una delle parti in gioco, che se ne faccia carico nel breve periodo
confidando che possa ripagarsi nel lungo (Blanchard e Giavazzi
2001). Un’altra intesa a determinare nel sistema economico una
parte (possibilmente rilevante) dell’attività produttiva sottratta a
tali shock e fluttuazioni. L’idea della deregolazione guarda alla
7 Tra coloro che si sono cimentati con l’analisi empirica, comunque, diffusi sono
i pareri secondo i quali la deregolazione di per sé non mostra effetti significativi sulla
crescita dell’occupazione e tanto meno del reddito (Schivardi 1999; Simonazzi e Villa
1999, 2000). Per un approfondimento si rinvia a Seravalli (2003).
292
Mario Biagioli, Emilio Reyneri e Gilberto Seravalli
prima di queste due prospettive. Essa individua nel lavoro e nel
potere contrattuale dei lavoratori la parte che se ne deve far carico
(non foss’altro perché è la parte che detiene la quota maggiore
nella distribuzione del reddito). Ma vi è anche la seconda
prospettiva, ossia quella che sottolinea l’utilità di politiche intese
a sostenere la domanda effettiva di mano pubblica o comunque
sottratta alle fluttuazioni delle attività private decise in regime
di «fallimenti del coordinamento». Come Drèze (1999) ha
mostrato, è possibile sostenere che la seconda è più efficace della
prima. Le ragioni che egli sottolinea riguardano l’efficiente
distribuzione dei rischi e l’efficiente distribuzione dei redditi.
Siccome famiglie (lavoro) ed imprese (capitale) sono interdipendenti, uno spostamento dei rischi maggiormente a carico del
lavoro ed uno spostamento dei redditi maggiormente a favore
delle imprese non garantiscono affatto alle stesse imprese maggiori certezze e maggiori possibilità. Si può sostenere, anzi, che
mentre la deregolazione è economicamente e socialmente sostenibile se vige mentre si agisce lungo la seconda via, essa non
può essere sostitutiva della politica (non solo congiunturale ma
anche «strutturale») della domanda.
L’asimmetria Usa-Europa sarebbe perciò da spiegare considerando in modo cruciale che gli Usa (anche sotto l’amministrazione Reagan) hanno utilizzato largamente la politica economica per sostenere la domanda, mentre l’Europa ha adottato
una politica deflattiva a regole rigide (Cohen e Pisany-Ferry
2002), rinunciando di fatto e troppo a lungo al sostegno della
domanda. Ciò, del resto, è dipeso anche dall’egemonia mondiale
dell’economia americana (che permette al suo deficit esterno di
«non mordere») e dall’accorto uso della politica fiscale e
monetaria che non sono state mai contemporaneamente restrittive, mentre in Europa si sono adottate regole che non lo hanno
consentito8.
4.2. Durata della disoccupazione e squilibri distributivi
Esiste invece vasto consenso circa il fatto che la rigidità della
regolazione del mercato del lavoro è associata ad una quota
8 Cfr. in proposito: Modigliani (1996), Simonazzi e Villa (1999), Malinvaud (2000),
Fitoussi (2000) e Debrun (2003). Indicazioni empiriche a sostegno di questa ipotesi
sono presentate in Seravalli (2003), al quale si rinvia.
Flessibilità del mercato del lavoro e coesione sociale
293
47
42
37
32
27
1999
2001
1997
1995
1993
1989
1991
1987
1985
1983
1981
1979
1977
1975
1971
1973
1969
1967
1965
22
US
UK
SV
SP
NOR
OL
IT
GRE
GER
NOR
FIG. 2. Indice di Gini della disuguaglianza nella distribuzione del reddito disponibile.
Fonte: Elaborazioni su dati UN/WIDER Undp World Income Inequality Database;
Deininger e Squire (A New Data Set Measuring Income Inequality, in World Bank
Economic Review, 1996).
elevata di disoccupati di lunga durata. Il legame empirico tra
rigidità e percentuale di disoccupazione di lunga durata appare
piuttosto significativo, mentre il legame tra rigidità e tasso di
disoccupazione complessivo non lo è (Seravalli 2003). La
deregolazione, quindi, avrebbe un effetto proprio, ma esso
sarebbe limitato alla maggiore ripartizione del lavoro che c’è tra
un numero maggiore di persone. Ciò sarebbe, comunque, un
risultato utile se incrementasse davvero il contenuto di lavoro
nel prodotto. Purtroppo non sembra essere questo il caso, a
meno che non s’intenda tale rapporto come tra unità di persone
fisiche in qualche modo occupate e valore del prodotto, ma non
tra unità di lavoro e prodotto né – soprattutto – tra valore del
294
Mario Biagioli, Emilio Reyneri e Gilberto Seravalli
lavoro e valore del prodotto (Nickell 1997). Sembra avvenire,
infatti, che una maggiore ripartizione del lavoro si accompagna
alla riduzione della quota salari sul reddito (Blanchard e Giavazzi
2001), a maggiori squilibri distributivi in generale (fig. 2) e ad
una maggiore quota di lavori sottopagati9.
Tale maggiore disuguaglianza distributiva conduce – coeteris
paribus – a conseguenze negative sulla stabilità e sulla stessa
crescita (Kitson et al. 2000). Si comprende pertanto perché la
deregolazione sia sostenibile solo se accompagnata da vigorose
politiche di sostegno della domanda, e che sarebbe nefasta in
condizioni nelle quali ciò non avviene, come in Europa. Questa
considerazione allude in sostanza al fatto che nei ragionamenti
teorici, i quali pongono soprattutto attenzione agli shock esterni
ed ai modi del loro assorbimento, si tende a dare poca o minore
importanza ai feed-back interni che comportano effetti i quali
vanno dalle forme di assorbimento degli shock alla crescita.
Per quanto in proposito la modellistica possa essere complessa10, il meccanismo di fondo può essere indicato in maniera
semplice. Nell’era attuale le competenze possono trasformarsi
in denaro con una rapidità inedita. E questo avviene per
l’aumentato rapporto tra capitale umano e capitale fisico nei
processi produttivi di valore. Ora, assumiamo che questo si
accompagni ad un regime («americano») di deregolazione dei
regimi di impiego, che rende l’impresa non più legata al
dipendente. Allora, nemmeno il lavoratore dipendente sarà più
legato all’impresa che lo ha formato. Infatti, se le imprese non
garantiscono più il posto di lavoro, è razionale per i lavoratori
cercare di espropriare l’impresa del capitale di competenze
investito su di loro. Allora avviene che, da una parte, le imprese
devono investire sempre più nella formazione delle competenze,
per far fronte alla convulsa dinamica delle innovazioni. Ciò
9 Negli Stati Uniti cresce da tempo la preoccupazione per i lavoratori sottopagati
(che secondo varie stime sono giunti a rappresentare quasi il 60% dei salariati – quelli
che guadagnano meno di 14 dollari l’ora considerato il minimo vitale secondo l’Economic
Policy Institute). Si veda, per esempio, Kim (2000) e GAO (2000). Si segnala soprattutto
il bellissimo libro di Barbara Ehrenreich (2001).
10 Si tratta di modelli strutturalmente simili a quelli dei giochi con complementarietà
strategiche, ma in cui vi è una moltiplicità di agenti così che l’effetto sugli altri dell’azione
del singolo soggetto è infinitesimale (market models). Ogni modello comprende un
insieme di attori, un insieme di possibili azioni o strategie e un insieme di funzioni
di payoff che dipendono dall’azione dell’attore, da quella degli altri e dai prezzi che
a loro volta dipendono dalle azioni di tutti.
Flessibilità del mercato del lavoro e coesione sociale
295
significa costruire un’organizzazione del lavoro che consenta ai
propri lavoratori di imparare molto e in fretta, per essere in
grado di rendere in tempi rapidi più di quello che costano.
Dall’altra parte, un numero sempre maggiore di imprese concorrenti può sfruttare tale sforzo sottraendo loro lavoratori già
formati, che possono pagare di più perché non ne hanno
sostenuto i costi di formazione.
Nulla di male, si potrebbe ritenere. Il meccanismo può in
effetti funzionare con vantaggi collettivi superiori agli svantaggi,
che saranno di due tipi. In primo luogo, diminuiscono le «quasirendite» dell’innovazione, perché le competenze esclusive sono
meno difese. In secondo luogo, aumentano gli squilibri distributivi, perché il meccanismo premia molto più che in passato
chi possiede tali competenze e penalizza coloro che non le
hanno. Entrambi questi due effetti possono frenare lo sviluppo:
la riduzione delle «quasi-rendite» rende più difficile il progresso
tecnico e l’aumento degli squilibri distributivi ostacola l’accumulazione del capitale umano. Tuttavia, se il meccanismo
funziona in modo virtuoso, questi svantaggi possono essere
superati. Le imprese possono rispondere alla minaccia costituita
dal costante rischio che altre imprese rubino loro personale
qualificato accelerando e allargando i processi d’innovazione e
di formazione. Le famiglie possono rispondere al rischio di
cadere nelle fasce di reddito inferiori mutando le loro scelte di
consumo/investimento a favore dell’investimento.
Il punto sta allora in quel se. Se il meccanismo funziona in
modo virtuoso, gli svantaggi sono superati dai vantaggi. Ma se
questo non succede, che cosa può accadere? Non è difficile
indicare uno scenario del tutto diverso. In tal caso:
i) le imprese preferiranno lasciare ad altri sistemi la sfida
dell’innovazione rifugiandosi in nicchie in vario modo protette
(anche se probabilmente sempre più anguste), assumendo personale a bassi livelli di istruzione e risparmiando soprattutto nella
formazione sul lavoro;
ii) esse preferiranno, perciò, usare regimi flessibili di occupazione per ridurre il costo del lavoro piuttosto che per
accrescerne la produttività;
iii) le famiglie dovranno sostenere il peso economico di
garantire la sicurezza ai propri figli per molto tempo anche dopo
che hanno finito gli studi e la quota di reddito destinata ai
consumi e agli investimenti precauzionali aumenterà a spese di
quella destinata a investimento in capitale umano.
296
Mario Biagioli, Emilio Reyneri e Gilberto Seravalli
È del tutto legittimo, dunque, sospettare che ci si trovi di
fronte ad uno di quei casi in cui si tratta di «tutto o niente».
Se il meccanismo funziona in modo virtuoso, si ha tutto:
accelerazione della produttività, maggiore e più diffusa istruzione
e formazione, crescita del benessere per tutti (anche se molto
più per alcuni e molto meno per altri). Se il meccanismo non
funziona in modo virtuoso, non si ha niente. La deregolazione
del mercato del lavoro tende, dunque, a ridurre lo spazio per
un progresso economico graduale, offrendo invece solo due
alternative più estreme: un progresso rapido e convulso oppure
il declino. Inoltre, esso è tale che l’una o l’altra strada non
appartengono al meccanismo in sé, bensì ad altre condizioni,
ad esso esterne, dalle quali dipende il suo funzionamento
virtuoso oppure vizioso.
Tra tali condizioni esterne, la principale è certamente nella
relazione che lega la crescita della produttività alla crescita del
prodotto. Solo se la domanda cresce in modo rilevante e
continuo nel tempo, tutte le imprese (o la maggior parte)
avranno sufficienti motivi e mezzi per continuare ad investire
in innovazione e in formazione, benché sia cresciuto il rischio
dell’espropriazione dei frutti di tale sforzo da parte delle imprese
concorrenti. Se la domanda cresce poco e in modo discontinuo,
molte di più saranno le imprese poco ottimiste circa il futuro
e prive di mezzi, che considereranno preferibile l’alternativa
opportunista di utilizzare gli sforzi altrui. Ma, allora, anche le
altre imprese si renderanno conto del pericolo e cercheranno
di fare altrettanto. Il risultato sarà che nessuna investirà più.
Risulta così che nelle esperienze positive non è la deregolazione del mercato del lavoro a sostenere la crescita della
produttività e quindi del prodotto, quanto piuttosto il contrario:
sarebbe la crescita del prodotto che sostiene la crescita della
produttività e rende, quindi, sostenibile la deregolazione del
mercato del lavoro.
Ma soltanto paesi «centrali» nel sistema economico mondiale
come gli Stati Uniti possono permettersi di sostenere la domanda
senza rischiare eccessivi contraccolpi per il bilancio pubblico e
la bilancia dei pagamenti. Per tutti gli altri sarebbe meglio evitare
il dilemma «o tutto o niente» adottando forme flessibili di impiego
soltanto nella fase di ingresso al lavoro, ma non rinunciando alla
centralità del lavoro fisso nello stock dell’occupazione.
Purtroppo il circolo virtuoso tra crescita del reddito e crescita
della produttività si è interrotto in Italia da parecchio tempo.
297
Flessibilità del mercato del lavoro e coesione sociale
TAB. 3. Prodotto interno lordo per lavoratore: Italia, Unione Europea e Stati Uniti: 19701999
1970
Italia
Unione Europea
Stati Uniti
Valori assoluti (dollari a prezzi e tassi
10.807 13.572 14.893
13.855 17.092 18.054
16.914 20.640 21.379
Italia/Unione Europea
Italia/Stati Uniti
Unione Europea/Stati Uniti
Italia
Unione Europea
Stati Uniti
1977-79 1980-84 1985-89 1990-94 1995-98
Rapporti
78,0
63,4
81,9
(espressi
79,4
65,8
82,8
di cambio costanti)
16.773 18.398 19.505
20.179 22.177 23.677
24.569 26.392 29.203
in percentuale)
82,5
83,1
69,7
68,3
84,4
82,1
Tassi di variazione medi annui
1970-1980
1980-1990
3,1
2,2
2,5
2,1
2,2
2,2
83,0
69,7
84,0
82,4
66,8
81,1
1999
20.180
25.001
31.457
80,7
64,2
79,5
1990-1999
1,2
1,5
2,1
Fonte: Dati tratti da OECD (1999), Comptes Nationaux, vol. I, pp. 312-313.
Per tutti gli anni novanta e ancor di più nel primo scorcio di
questo decennio, tutti i tentativi di rilanciare produttività e
crescita si sono rivelati inefficaci. Nella seconda metà degli anni
novanta sono stati messi in atto interventi specifici a sostegno
degli investimenti attraverso l’adozione di misure di incentivazione fiscale alle imprese11 che hanno ridotto in misura consistente l’ammontare di imposte da esse versato12, senza però
riuscire a rilanciare in misura significativa gli investimenti13,
anche perché una larga parte dei percettori di profitti ha
preferito effettuare investimenti finanziari all’estero piuttosto che
investimenti reali in patria14. Non si è affatto invertita la tendenza
11 Per un’analisi più dettagliata di queste misure e degli effetti distributivi delle
politiche fiscali italiane si veda Biagioli (2004).
12 I dati dei conti nazionali per settore istituzionale dell’ISTAT indicano che
l’ammontare assoluto delle imposte versato dal settore delle «società», che esclude le
piccole imprese, ha registrato tra il 1996 e il 2000 una netta diminuzione, da 82.769
a 52.675 miliardi di lire, nonostante il risultato netto di gestione aggregato sia cresciuto,
nello stesso periodo, da 387.089 a 431.450 miliardi.
13 La quota degli investimenti sul reddito è caduta dal 21% medio del triennio 199092 al 18,3% del periodo 1993-97, per poi risalire al 19,6% nel triennio 1998-2001,
una inversione di tendenza incoraggiante ma non sufficiente a riportare la quota italiana
al livello della media europea (20,4%).
14 Gli investimenti di portafoglio italiani all’estero nel triennio 1999-2001 hanno
registrato un saldo negativo pari a 57.530 milioni di euro.
298
Mario Biagioli, Emilio Reyneri e Gilberto Seravalli
al ridimensionamento delle spese dedicate alla formazione e alla
ricerca e sviluppo, che sono rimaste, in rapporto al PIL,
all’incirca pari alla metà di quelle dei maggiori paesi europei
e poco più di un terzo rispetto a Giappone e Stati Uniti. Di
conseguenza la produttività del lavoro è cresciuta in Italia
dell’1,2% medio annuo nel decennio 1990-99, contro l’1,5%
dell’Unione Europea e il 2,1% degli Stati Uniti, invertendo una
tendenza opposta che aveva operato dagli anni del «miracolo
economico» sino a tutti gli anni settanta (cfr. tab. 3). In breve,
il contenimento della domanda aggregata nazionale, in parte
ascrivibile agli impegni di Maastricht, e la scarsezza degli
investimenti, tanto in capitale fisico quanto in capitale umano,
originata dallo scarso impegno del sistema imprenditoriale e dei
policy-makers nazionali in questa direzione, hanno frenato la
crescita economica italiana.
5. La distinzione tra flessibilità «difensiva» e «innovativa»
Si è già visto come sia possibile individuare due prospettive
nell’uso del concetto di flessibilità: la prospettiva tradizionale
(liberista), la quale ritiene che i problemi del lavoro traggano
origine da qualche forma di malfunzionamento di questo
mercato e vadano risolti attraverso misure che operino direttamente al suo interno; ad essa si contrappone una prospettiva,
keynesiana, più attenta alla natura di mercato «derivato» del
lavoro (nel senso che la merce in esso domandata non è richiesta
se non in quanto attraverso il suo impiego si possono produrre
beni da vendere negli altri mercati). Qual è allora il contenuto
analitico del termine «flessibilità»?
Tenendo conto di una realtà economica nella quale il
progresso tecnico è continuo, al termine flessibilità si dovrebbero assegnare significati completamente diversi, spesso
antitetici, quando ci si riferisce, come si fa spesso, alla difesa
di segmenti del lavoro messi in crisi dalla concorrenza dei paesi
a bassi salari e quando ci si riferisce all’attuazione di strategie
imprenditoriali tese a rafforzare la posizione competitiva del
sistema paese aumentando la qualità e l’efficienza della struttura produttiva e del capitale umano. Antonelli e Paganetto
(1999) hanno suggerito di qualificare la seconda strategia di
ricerca della flessibilità come «innovativa» e la prima come
«difensiva». In tal modo viene soprattutto sottolineato come
Flessibilità del mercato del lavoro e coesione sociale
299
le politiche per la flessibilità «innovativa» siano completamente
diverse da quelle necessarie all’attuazione della flessibilità
«difensiva». Queste puntano ad accentuare la condizione di
fattore di produzione variabile del lavoro, anche a costo della
precarietà; quelle mettono al centro l’aumento della professionalità e la continuità del rapporto di lavoro, che permette
all’impresa che abbia investito nella formazione del lavoratore
di acquisire i frutti dell’investimento sotto forma di aumento
della produttività.
Va rilevato come, in presenza di questa dicotomia, il contemporaneo perseguimento di entrambe le forme di flessibilità dia
inevitabilmente luogo a situazioni contraddittorie. In particolare,
la ricerca di flessibilità difensiva ha spesso effetti positivi nel
breve periodo, nella misura in cui difende la competitività di
segmenti produttivi che sarebbero altrimenti messi in difficoltà
dalla concorrenza dei paesi a bassi salari, ma potrebbe produrre
conseguenze negative nel lungo periodo, rallentando lo spostamento dei lavoratori dai segmenti deboli a quelli ad alta
produttività. L’indicazione dei possibili effetti negativi della
flessibilità difensiva è sostenuta con forza da Freeman e Soete
(1994), i quali sottolineano piuttosto la «necessità di una
maggiore flessibilità nei modelli occupazionali, nei profili delle
professionalità, nell’organizzazione del lavoro e nell’orario, che
dovrebbe essere combinata con la ricerca di nuove strutture, cioè
di nuove rigidità, che rendano praticabile l’investimento dei
singoli individui in istruzione, formazione e acquisizione di
nuove competenze» (p. 139).
6. I reali problemi del mercato del lavoro italiano
Dal quadro del mercato del lavoro italiano depurato dei suoi
principali luoghi comuni e dall’analisi del significato teorico e
dell’applicazione pratica dell’idea di flessibilità, risulta che i veri
problemi non stavano una volta nella sua eccessiva rigidità, ma
neppure stanno, almeno finora, nel suo processo di destrutturazione. Quelli assolutamente prioritari sono invece altri due:
la scarsa qualificazione professionale delle occasioni di lavoro
richieste da un sistema economico e sociale ancora arretrato e
la non facile transizione dei giovani dai lavori instabili a quelli
stabili.
300
Mario Biagioli, Emilio Reyneri e Gilberto Seravalli
6.1. Un’occupazione più qualificata (ma senza contare gli immigrati)
Cominciamo dal primo. Del forte aumento dell’occupazione
che vi è stato in Italia dal 1995 al 2002 (quasi un milione e
800 mila posti di lavoro) si suole sottolineare, spesso eccedendo,
il carattere prevalentemente atipico e precario, ma si dimentica
di aggiungere che tale aumento è concentrato nell’area del lavoro
non manuale e soprattutto in quella ad elevata qualificazione
intellettuale, come rivela l’analisi della struttura dell’occupazione
secondo i livelli professionali misurati dall’International Standard Classification of Occupation.
Il saldo positivo dell’occupazione è il risultato di una riduzione di 480 mila posti di lavoro manuale e di un aumento di
oltre 2 milioni e 200 mila del lavoro non manuale, per oltre
i due terzi costituito da attività ad alta qualificazione (120 mila
dirigenti e imprenditori, oltre 350 mila professioni intellettuali:
ingegneri, informatici, consulenti finanziari, insegnanti, giornalisti, artisti) e da professioni tecniche intermedie (circa un
milione di periti industriali, paramedici, agenti assicurativi,
esperti di marketing, traduttori, agenti di viaggio). L’altro terzo
è costituito da occupazioni amministrative (impiegati esecutivi
e a contatto con la clientela) o connesse alla vendita e ai servizi
per le famiglie (dai commessi ai camerieri, dagli istruttori sportivi
agli addetti ai lavori di pulizia e assistenza). Le giovani generazioni sempre più istruite cominciano finalmente a trovare
occasioni di lavoro congruenti con le loro aspettative, anche se
spesso instabili, almeno nella fase iniziale.
Il confronto con altri paesi europei mostra, tuttavia, che,
nonostante il recente forte innalzamento dei livelli di qualificazione, la composizione per livello delle professioni in Italia rimane
ancora molto più orientata verso il basso rispetto a quanto accade
in Francia, Germania e Gran Bretagna. Secondo le indagini sulle
forze di lavoro raccolte da EUROSTAT, nel 2001 la percentuale
di occupazioni non manuali qualificate (dirigenziali, intellettuali
e tecniche) in Italia è inferiore di oltre 5 punti percentuali alla
Francia, di quasi 8 punti alla Gran Bretagna e di ben 9 punti
alla Germania. Con l’importante differenza, a svantaggio della
qualificazione del lavoro in Italia, che i dati dell’indagine sulle
forze di lavoro concernono di fatto solo i lavoratori italiani,
mentre nei paesi europei di vecchia immigrazione comprendono
anche la meno qualificata occupazione immigrata.
Flessibilità del mercato del lavoro e coesione sociale
301
Anche se l’ISTAT cerca di glissare sul punto, l’indagine
italiana non riesce a rilevare che una piccola parte degli
immigrati, anche di quelli regolarmente occupati, come accade
in tutti i paesi in cui l’immigrazione è poco insediata. A fine
anni novanta i lavoratori stranieri non comunitari rilevati dall’indagine non sono neppure 200 mila15.
Ciò ha tre importanti conseguenze.
In primo luogo, non è affatto detto che negli ultimi anni le
occupazioni manuali siano davvero così diminuite. Si può
pensare, infatti, che il mezzo milione di posti di lavoro operai
scomparsi tra gli italiani sia stato ricoperto da lavoratori
immigrati, che dal 1995 al 2002 sono certamente aumentati
almeno di 500 mila unità (probabilmente anche di più se si deve
dar retta alle quasi 700 mila domande dell’ultima sanatoria),
senza essere rilevati dalle indagini sulle forze di lavoro. Si può
sostenere che, sostituendo gli autoctoni in molte mansioni
manuali, gli immigrati abbiano consentito a molti giovani italiani
di accedere a posizioni di lavoro intellettuali e qualificate.
In secondo luogo, la crescita economica dal 1995 al 2002
avrebbe creato un ancora maggiore aumento dell’occupazione
(quasi 2 milioni e 300 mila posti di lavoro), segnando un’ancor
più alta elasticità dell’occupazione rispetto all’aumento del
prodotto interno lordo. Ma, in terzo luogo, non vi sarebbe stato
in tal caso alcun reale innalzamento dei livelli di qualificazione
professionale dei posti di lavoro e la composizione dell’occupazione richiesta dall’economia italiana sarebbe rimasta altrettanto nettamente più orientata verso il basso rispetto a quella
dei maggiori paesi europei, spiegando le maggiori difficoltà di
inserimento dei giovani laureati e diplomati (e probabilmente
anche il «declino» di cui tanto si parla).
6.2. I lavori instabili per i giovani: transizione o trappola?
Se la crescita dell’occupazione temporanea e dei lavori
parasubordinati investe essenzialmente i giovani, il problema è
quello della transizione verso il lavoro stabile, sia esso dipen15 Ciò spiega perché nelle stime di contabilità nazionale l’ISTAT sia costretta ad
«inventarsi» un enorme numero di lavoratori immigrati non residenti e occupati
irregolarmente per raggiungere un ammontare realistico di lavoratori immigrati. A questo
proposito si può leggere un esilarante articolo di Anastasia (2003).
302
Mario Biagioli, Emilio Reyneri e Gilberto Seravalli
dente a tempo indeterminato oppure quello professionale, cioè
indipendente con una larga e sicura clientela. Non ci si deve
preoccupare del lavoro instabile in sé, ma del fatto che chi lo
svolge rischia di restarvi intrappolato.
Abbiamo ancora poche informazioni su questo punto, perché
il fenomeno della grande diffusione dei lavori instabili tra i
giovani è molto recente. Secondo uno studio che interessa anche
la Germania e la Gran Bretagna, oltre all’Italia, cominciare a
lavorare con un contratto temporaneo non ha effetti negativi
sulle successive posizioni lavorative (Scherer 2002); tuttavia,
per il periodo considerato, le occupazioni instabili in Italia
consistevano per lo più in contratti di formazione lavoro, di cui
è nota la funzione di ponte verso l’assunzione stabile, ma da
tempo in via di estinzione. Due studi locali sui percorsi lavoratori
dei neo-laureati e dei neo-diplomati rivelano situazioni differenti.
A Parma, dopo 5-6 anni di lavoro come collaboratori, apprendisti, titolari di contratti di formazione lavoro, interinali o altri
rapporti a tempo determinato, quasi tutti i giovani riescono a
raggiungere occupazioni stabili, dipendenti o indipendenti. Per
descrivere questa lunga gavetta è stato creato il termine «carriera
esterna» (Ghirardini e Pellinghelli 2000). Ma questo è da tempo
un mercato del lavoro di pieno impiego e purtroppo l’Italia non
è tutta come Parma. Già a pochi chilometri di distanza, in
provincia di Ferrara, la percentuale di giovani neo-diplomati che
resta intrappolata a lungo nel lavoro instabile è molto più alta
(Ghirardini 2003). In ogni caso, il prolungarsi della «carriera
esterna» ha degli effetti negativi, perché a breve termine provoca
il rinvio delle scelte fondamentali – sposarsi, avere figli – e nel
lungo periodo creerà problemi per il sistema pensionistico, in
quanto nei primi anni di lavoro instabile è molto probabile che
i versamenti contributivi siano scarsi.
6.3. Verso la crisi del modello familistico di mercato del lavoro?
L’elevata disoccupazione (un tempo e tuttora nel sud) od
occupazione instabile (ora nel centro-nord) dei giovani e delle
donne non ha provocato per ora gravi tensioni sociali perché
si regge su un tradizionale assetto familistico del mercato del
lavoro italiano: la (quasi) piena occupazione dei maschi adulti
(i capifamiglia), figli che vivono in casa fino a 30 anni e rare
rotture del rapporto di matrimonio (Reyneri 2002). Ma questo
Flessibilità del mercato del lavoro e coesione sociale
303
modello rischia di entrare in crisi ora quando i divorzi e le
separazioni aumentano, sia pure lentamente, e soprattutto quando
dalla precarietà dei giovani si passa a quella degli adulti, quando
cioè aumenta la percentuale di coloro che restano intrappolati
nel lavoro instabile. Allora la solidarietà tra le generazioni nella
famiglia si incrina, come qualche segnale debole comincia ad
indicare. L’altro segnale di crisi è dato dai fenomeni di
disoccupazione adulta: maschi over 50 anni con una qualificazione obsoleta o donne che cercano invano di rientrare nel
mercato del lavoro perché la famiglia si è rotta. Costoro
costituiscono le nuove fasce deboli, in condizioni peggiori di
quelle dei giovani.
6.4. Flessibilità, aumento dell’occupazione e riduzione del sommerso
Anche se l’ultimo rapporto OECD (2003) attribuisce la
maggiore tenuta dell’occupazione alle riforme che hanno reso
più flessibile il mercato del lavoro, abbiamo visto che è arduo
sostenere che la flessibilità di per sé aumenti l’occupazione,
tranne che per quanto riguarda il part-time.
Perciò, come si spiega che in Italia negli ultimi anni vi sia
stato un forte aumento dell’occupazione pur a fronte di una
debole crescita economica? Certamente il part-time è finalmente
aumentato in misura significativa e ad esso si deve buona parte
dell’aumento dell’occupazione femminile. Un secondo motivo è
che tutta la nuova occupazione si è creata nei servizi, che sono
spesso a bassa produttività, pur se qualificati professionalmente.
Peraltro, ormai, nei paesi sviluppati se l’industria crea ricchezza,
l’occupazione è creata dai servizi e soprattutto da quelli alla
persona (Reyneri 2002, cap. 7).
D’altronde, questo è quanto accadde negli Stati Uniti da metà
anni ottanta a metà anni novanta, quando si ebbe un’enorme
crescita di occupazione, pur con scarso aumento della ricchezza
prodotta, mentre in quel periodo l’Italia e più in generale
l’Europa ebbero forti aumenti della ricchezza prodotta e scarsa
crescita occupazionale. È probabile che ciò si debba anche al
ciclo degli investimenti: quando si fanno molti investimenti, si
crea molta ricchezza, ma poco lavoro, poi, quando si comincia
ad utilizzarli, si crea occupazione ma non ricchezza.
Un terzo effetto, che si suole attribuire alla flessibilità, è la
304
Mario Biagioli, Emilio Reyneri e Gilberto Seravalli
riduzione del sommerso. Ma ciò è vero soltanto nei casi in cui
il sommerso non era dovuto al costo del lavoro, ma a problemi
organizzativi. Per esempio, il lavoro interinale ha ridotto il
ricorso al lavoro nero, quando si trattava di lavori di pochi
giorni, come nel commercio, negli alberghi e nei ristoranti. Dove,
invece, il problema del sommerso è legato al costo del lavoro
o al doppio lavoro l’impatto dei rapporti di lavoro flessibili è
stato quasi nullo.
7. Alcune indicazioni di policy
Dall’analisi sin qui svolta derivano tre indicazioni sul modo
in cui sarebbe utile orientare le politiche del lavoro nei prossimi
anni per affiancare alla crescita quantitativa dell’occupazione
anche il miglioramento della qualità delle posizioni lavorative
effettivamente disponibili.
7.1. Decentrare politiche dell’occupazione e della formazione in
una prospettiva di concertazione
Nelle condizioni attuali ci sembra abbastanza concreto il
rischio che prenda ancor più piede l’opinione, a nostro avviso
falsa, secondo cui i problemi del lavoro possano essere risolti
limitandosi alla flessibilità difensiva, che renda i lavoratori
occupabili alle condizioni di produttività esistenti.
Quest’impostazione avrebbe, forse, un senso in assenza di
progresso tecnico. Ma non puntando sul progresso tecnico
l’apparato produttivo italiano è destinato a cedere il passo ad
economie con livelli salariali che da noi darebbero luogo a
condizioni di vita inaccettabili. Il mantenimento della posizione
concorrenziale richiede capacità di abbandonare i segmenti
produttivi che di volta in volta sono raggiunti dai paesi a bassi
salari, sostituendoli con produzioni di più elevata qualità e a
maggior valore aggiunto. È proprio questo obiettivo che si pone
la strategia della flessibilità innovativa ed è proprio il fatto che
questa prospettiva sia stata di fatto abbandonata con il passaggio
alle politiche di deregolazione del mercato del lavoro che lascia
maggiormente perplessi.
In termini propositivi, riteniamo che per mettere in atto in
modo selettivo le politiche di flessibilità innovativa (migliora-
Flessibilità del mercato del lavoro e coesione sociale
305
mento del capitale fisico pubblico, soprattutto in infrastrutture,
rafforzamento della struttura produttiva del Mezzogiorno e, in
particolare, miglioramento del capitale umano, attraverso interventi nei sistemi educativi e della formazione professionale)
occorrerebbe rafforzare, decentrandole, le politiche di sostegno
selettivo della domanda di lavoro e proseguire nel decentramento
delle politiche attive del lavoro e delle politiche della formazione.
Uno sviluppo in questa direzione sarebbe, d’altro canto, il
necessario complemento dell’ampliamento delle competenze e
dell’onere delle politiche regionali che si indirizzano al mercato
del lavoro, che è derivato dall’assegnazione alla legislazione
regionale della potestà esclusiva sui temi della formazione
professionale, delle politiche attive del lavoro e dei servizi per
l’impiego e dall’equiparazione di leggi statali e leggi regionali
in quanto a modalità di esercizio della funzione legislativa in
regime concorrente su gran parte della normativa relativa al
mercato del lavoro ad opera della già citata legge costituzionale
n. 3/2001. La strategia della concertazione andrebbe, a nostro
avviso, ripensata e decentrata attraverso lo sviluppo di forme
di concertazione a livello locale, meglio adatte ad individuare
le esigenze negli specifici ambiti territoriali, tanto più se la
gestione delle politiche attive del lavoro si evolverà definitivamente in direzione del decentramento. Ad esempio, la contrattazione aziendale potrebbe costituire un utile punto di partenza
per i processi di individuazione delle figure professionali richieste, utilizzo dei servizi per l’impiego esistenti e definizione dei
percorsi di formazione professionale eventualmente necessari. In
questo quadro sarebbe auspicabile l’espansione di istituzioni
intermedie create per la gestione della concertazione a livello
locale, le quali andrebbero a svolgere una fondamentale funzione
di raccordo tra gli obiettivi nazionali della concertazione e la
loro applicazione, microconcertata, al livello aziendale, permettendo così di dare concretezza alle politiche concertative. A
questo proposito ci sembra assolutamente profetica l’indicazione
fornita da Keynes ne La fine del lasciar fare sulla gestione
concreta della politica economica: «Credo che in molti casi la
dimensione ideale per l’unità di controllo e di organizzazione
sia in un punto intermedio fra l’individuo e lo stato moderno.
Ritengo perciò che il progresso stia nello sviluppo e nel
riconoscimento di enti semi-autonomi entro lo stato» (Keynes
1936, trad. it. p. 96).
306
Mario Biagioli, Emilio Reyneri e Gilberto Seravalli
7.2. Come potenziare i servizi pubblici per l’impiego?
Da pochi anni l’Italia ha avviato una radicale riforma per
adempiere l’impegno, più volte ribadito in sede europea, di
fornire ai lavoratori e alle imprese efficienti servizi per l’impiego
gratuiti, in grado di agevolare l’incontro tra domanda e offerta
di lavoro e di aumentare l’occupabilità dei lavoratori a rischio
di esclusione. È certamente un’impresa difficile, ma per evitare
di scoraggiarsi, occorre ricordare che da una valutazione più
realistica l’arretratezza italiana risulta sì grande, ma non immensa, e può quindi essere colmata in tempi ragionevoli con
l’impegno necessario. Infatti, la diffusa convinzione che in Italia
i servizi per l’impiego contino poco o nulla si fonda sull’ignoranza di quanto avviene negli altri paesi europei, ove moderni
servizi pubblici per l’impiego sono consolidati e l’apertura ai
privati è da tempo realtà, e sull’assurda idea che quasi tutte le
assunzioni possano essere intermediate da agenzie specializzate,
pubbliche o private.
Nel Libro Bianco si imputa ai servizi pubblici per l’impiego
la capacità di intermediare solo il 4-5% degli avviamenti. Ma
le (poche) ricerche disponibili rivelano percentuali ben superiori.
Da un’indagine dell’ISTAT (1999) su chi ha trovato il primo
lavoro negli anni 1997-1999, risulta che tra chi ha trovato
un’occupazione dipendente privata il 7,7% vi è riuscito grazie
ai servizi pubblici e il 5,2% grazie alle agenzie private, per lo
più di lavoro interinale. Tutti gli altri sono riusciti a trovare un
lavoro grazie a reti di relazioni personali, ad annunci su giornali
o presentandosi spontaneamente. Poiché i giovani fanno meno
ricorso ai servizi pubblici, mentre utilizzano in misura molto
maggiore il lavoro interinale, è ragionevole pensare che, considerando tutti i lavoratori, i servizi pubblici si attestino sul 910% e quelli privati sul 2-3%. D’altronde, rielaborando una
vecchia indagine della Banca d’Italia, si giunge per i servizi
pubblici a livelli superiori al 12% (Pistaferri 1999).
Le imprese tendono a sottovalutare il ruolo dei servizi pubblici
per l’impiego (De Koning et al. 1999; Konle-Seidl e Walwei
2001), tuttavia, secondo un’indagine pilota condotta dall’ISFOL
nel 2002 (Incagli et al. 2003) quasi il 7% delle imprese
intervistate dichiara di avere assunto attraverso i servizi pubblici
e il 6% attraverso quelli privati. Sono livelli molto inferiori a
quelli raggiunti nei paesi europei ove l’intermediazione di
manodopera è più efficiente; ma la distanza non è abissale. Se
Flessibilità del mercato del lavoro e coesione sociale
307
tralasciamo la Francia, ove quasi una persona su cinque dichiara
di aver trovato lavoro grazie ai servizi pubblici, in nessun altro
paese europeo la quota di posti di lavoro vacanti riempiti grazie
ai servizi per l’impiego, sia pubblici sia privati, va oltre il 2022%. In particolare, secondo indagini condotte in Germania,
Olanda e Gran Bretagna, la «quota di mercato» dei servizi
pubblici raggiunge il 12-13% e quella delle agenzie private va
dal 2% al 9%. In tutti gli altri casi, aziende e lavoratori
s’incontrano attraverso annunci, domande spontanee e soprattutto il «passaparola» tra parenti, amici, conoscenti e colleghi
di lavoro.
Se ovunque domanda e offerta di lavoro s’incontrano per lo
più spontaneamente, grazie ai meccanismi di mercato o alle reti
di relazioni personali, bisogna evitare di porre eccessive aspettative nell’intervento di intermediari, sia pubblici sia privati, cui
spetta invece il compito di affrontare i fallimenti del mercato
del lavoro e delle reti di relazioni. Tale compito, pur limitato
sul piano quantitativo, è però fondamentale per far funzionare
in modo efficace ed equo l’incontro tra domanda e offerta di
lavoro. In particolare, ai servizi pubblici spettano tre compiti,
che sarebbero svolti anche qualora essi fossero l’«ultima spiaggia» cui lavoratori e imprese si rivolgono dopo aver fatto ricorso
senza successo a tutti gli altri canali, formali e informali.
I servizi pubblici per l’impiego, infatti, hanno la missione di
rendere trasparente il mercato del lavoro, raccogliendo e diffondendo informazioni sui posti di lavoro vacanti e sui lavoratori
in cerca di occupazione, di porre particolare attenzione ai
soggetti meno occupabili, cercando di rafforzarne le competenze
e di «collocarli» in posti adeguati, e, infine, di mettere in luce
le criticità, cioè le situazioni di debolezza o di sfasamento tra
domanda e offerta di lavoro, consentendo di indirizzare gli
interventi di riqualificazione professionale o di sostegno alla
ricerca di lavoro. Di tali misure vi sarà sempre più bisogno con
la diffusione delle occupazioni «flessibili» e con l’esigenza di
aumentare il tasso di occupazione delle donne e dei lavoratori
anziani.
Di regola si ignora anche che gli addetti ai neonati servizi
pubblici per l’impiego in Italia sono molto sottodimensionati.
Di 12 mila dipendenti del Ministero del lavoro addetti al
collocamento, solo 6 mila furono trasferiti a Regioni e Province,
che, perciò, sono state costrette ad inserire nuovo personale,
spesso con contratti di collaborazione su progetti del Fondo
308
Mario Biagioli, Emilio Reyneri e Gilberto Seravalli
Sociale Europeo (con seri problemi quando in un futuro ormai
prossimo le regioni settentrionali non potranno più farvi ricorso).
Grazie a tali integrazioni, a fine 2001 gli addetti ai servizi per
l’impiego erano quasi 15 mila (Gilli et al. 2002). Il confronto
con gli altri paesi europei rimane, però, impietoso: adottando
come riferimento la forza lavoro, in Italia gli addetti ai servizi
pubblici dovrebbero essere almeno 23 mila per raggiungere il
livello di Olanda e Spagna, 38 mila il livello di Gran Bretagna
e Danimarca e addirittura 57 mila per arrivare al livello di
Germania e Svezia (OECD 1997).
Peraltro, secondo i dettagliati rapporti di monitoraggio dell’ISFOL, i risultati raggiunti sono sempre migliori da un anno
all’altro, soprattutto nel centro-nord, nonostante un organico
ridotto, oltre che con una scarsa esperienza operativa.
7.3. Politiche del lavoro e carriere esterne
L’idea centrale della flessibilità «innovativa» è la riduzione dei
costi di selezione e di formazione (il modello della «carriera
esterna»16). Con carriera esterna si intende dire che le variegate
forme di lavoro instabile attraverso cui passano i giovani dopo
l’uscita dal sistema formativo (lavori precari, stagionali, contratti
di apprendistato e formazione lavoro anche ripetuti, rapporti di
collaborazione) costituiscono (dovrebbero costituire) momenti in
misura significativa successivi verso condizioni di lavoro via via
più soddisfacenti, momenti al termine dei quali è per tutti
concreta la prospettiva dell’occupazione dipendente a tempo
indeterminato oppure del lavoro autonomo «strutturato». Tale
modello si discosta sensibilmente da quello tradizionale, ma non
è affatto il preludio o l’avvio di un altro nel quale i lavori atipici
sostituiscono progressivamente le forme del lavoro tradizionale
che sarebbe destinato a perdere centralità anche nello stock
dell’occupazione (il modello «americano»). Il suo tratto caratteristico può essere, al contrario, indicato nell’esistenza non della
segmentazione, ma di una sorta di progressione, fatta di lavoro
e formazione insieme, in grado di condurre chi cerca lavoro a
16 Si veda, per un inquadramento di tale «modello» nel dibattito attuale di economia
e politica del lavoro, e anche per l’ampia bibliografia, Mertens (1999) e anche, più
specificamente, Erlinghagen (2002).
Flessibilità del mercato del lavoro e coesione sociale
309
trovarlo e a trovarlo stabile, ma passando per una serie di
gradini, la cui salita può prendere anche un tempo rilevante.
Questo dal lato dell’offerta di lavoro. Dal lato della domanda,
simili gradini possono essere immaginati come forme non
tradizionali di lavoro, di cui le imprese si servono per accrescere
la loro flessibilità produttiva, ma anche, nello stesso tempo, per
selezionare la manodopera che assumeranno in modo stabile.
La questione è che un simile meccanismo è stato garantito
dal 1993 a oggi (nel centro-nord) da una situazione particolare
di alta congiuntura in un contesto di scarsità di manodopera
dovuta alla crisi demografica. La domanda cruciale allora è che
cosa potrà accadere in presenza di un’inversione dell’andamento
congiunturale che già si prospetta. Il nostro schema ci aiuta a
rispondere a questa domanda. Sarebbe evidentemente necessario
ridurre i costi di selezione e di formazione.
Le politiche del lavoro dovrebbero essere orientate in modo
specifico a sostenere e rendere sempre più effettiva la carriera
e, dal momento che essa è esterna, a renderne possibile e facile
l’avvio. Ciò comporta:
1. Concepire la formazione professionale sia come scuola
nell’impresa sia come lavoro nella scuola, senza con questo,
tuttavia, distruggere o ridurre la funzione educativa e culturale
della scuola.
2. Ritenere i servizi di incontro tra domanda ed offerta di
lavoro non come funzioni di matching affidate a strumenti e
procedure in cui prevalga la dimensione tecnica (ad esempio,
ponendo l’accento su classificazioni sempre più accurate e sugli
strumenti informatici), ma come funzioni intelligenti che pongano al centro della loro attenzione i percorsi e non gli stati,
poiché le competenze offerte e richieste si definiscono in parte
significativa dentro il mercato del lavoro stesso, appunto nell’ambito della «carriera esterna», e quindi non sono affatto
definite a priori.
3. Rivedere, ma conservare, le tutele contrattuali e la protezione sociale del lavoro, in quanto l’occupazione stabile non è
affatto scomparsa dall’orizzonte dell’efficienza di lungo periodo
del sistema produttivo, ma anzi resta un suo elemento essenziale.
4. Pensare, in particolare, a specifici istituti ed incentivi adatti
a valorizzare i processi della carriera esterna.
Il quarto punto merita specifica attenzione. Tra gli istituti
adatti a consolidare e valorizzare la carriera esterna, considerando l’obiettivo di ridurre i costi di formazione e selezione del
310
Mario Biagioli, Emilio Reyneri e Gilberto Seravalli
personale, appare cruciale la certificazione delle competenze
acquisite durante il percorso che porta una persona dalla fine
del suo curriculum scolastico al lavoro stabile, o anche da un
lavoro all’altro se non si tratta di giovani.
Attualmente, e salvo parziali e circoscritte esperienze, le
competenze acquisite durante questi percorsi sono dichiarate
dallo stesso lavoratore in una molteplicità di forme (che vanno
dalla comunicazione verbale, a quella scritta in un curriculum
vitae, al «bilancio di competenze» fornito da qualche servizio
pubblico per l’impiego o da qualche agenzia privata). Tali forme,
oltre che essere disomogenee, sono un tipico «bene-fiducia» (ad
esempio, un datore di lavoro non è sempre in grado di accertare
l’affidabilità di quanto gli viene dichiarato). Si osservi che questo
dipende proprio dal fatto che percorsi lunghi e diversificati non
aiutano il datore di lavoro a riconoscere il «tipo» di lavoratore
che ha davanti.
Come nel caso di tutti i beni-fiducia, è cruciale un meccanismo
di certificazione, dotato di forte notorietà e reputazione, che
attribuisca un maggiore grado di affidabilità a tali dichiarazioni.
L’istituto della certificazione applicato al caso in esame potrebbe
facilitare l’ingresso ed il percorso della carriera esterna perché
potrebbe rendere effettivamente successivi e non ripetitivi i suoi
«scalini». Allo stato attuale, infatti, il datore di lavoro, potendosi
affidare solo in modo parzialissimo al contenuto delle dichiarazioni di esperienze e di competenze acquisite dai lavoratori,
dovrà in genere riverificarne l’esistenza ed il valore, sperimentando di nuovo chi ha davanti. L’introduzione della certificazione potrebbe utilmente ridurre ai suoi occhi questa necessità.
Il risultato sarebbe, appunto, una riduzione dei costi di selezione
e formazione per entrambe le parti, per il datore di lavoro ma
anche per il lavoratore che vedrebbe abbreviato il suo percorso.
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Summary: Since 1996 Italian labour policies have been aimed at increasing flexibility.
Up to 2001 the implementation of these policies has been coordinated by a social pact
agreed upon among policy makers, trade unions and employer associations. Afterwards,
the social pact was abandonned and labour policies moved from a concertative standard
to deregulation. This paper argues that such a move entails the danger that the working
conditions of a large part of workers might worsen and their life conditions become
precarious. Three suggestions are made to avoid this danger: 1) carrying out at a local
level social pacts aimed at improving the amount of human capital owned by workers;
2) strenghtening the action of the recently organized «employment centers» («centri
per l’impiego») by coordinating their activity with vocational training; 3) as young
workers act in the labour market with the aim of developing «external careers» by
moving from one employment to another, possibly better, these strategies should be
enhanced by certificating the skills they acquire in so doing.