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rivista foedus n¬∞ 20:rivista foedus n¬∞ 1è
SOMMARIO
Culture Economie e Territori
Rivista Quadrimestrale
Numero Venti, 2008
Focus: Antonio Gramsci
Pag. 03
Toglia tti e Gra msci di Giuseppe Vacca
Pag. 20
Gra msci e Ma cchia velli di Francesca Izzo
Pag. 28
Gra msci et de Benois di Michela Nacci
Pa g. 32 La “gra nde tra sforma zione”: i ra pporti tra Sta to ed economia nei “Qua derni del Ca rcere”
di Terenzio Maccabelli
Bordeline
Pag. 61
I mutui subprime e le a ttività preda torie del ca pita le fina nzia rio negli Sta ti Uniti
di Giordano Sivini
Il Faro
Pag. 74
Profili economici e professione: un percorso à rebours di Franco de Leonardis
Pag. 91
Pesca tori e donne per la sovra nità a limenta re di Mariarosa Dalla Costa
Pag. 105 Criptocristia nesimo in Kosovo nel XVIII secolo di Luca Maiocchi
LibriLibriLibri
Pag. 125 Presenta zione di Ugo Fabietti
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Giuseppe Va cca
Togliatti e Gramsci*
Focus: Antonio Gramsci
La relazione tra Togliatti e Gramsci assume una rilevanza storica significativa a
datare dal 1926 e si sviluppa lungo alcune direttrici agevolmente distinguibili: un
confronto politico intermittente ma sotteso da un ma instrea m ininterrotto; un
rapporto personale attraversato dai problemi politici e umani del prigioniero;
l’attività di Togliatti editore degli scritti di Gramsci dopo la morte; l’interpretazione del suo pensiero, soprattutto i Qua derni del ca rcere. Ci limiteremo a tratteggiarne solo alcuni momenti, con particolare attenzione al rapporto fra la biografia politica e la biografia intellettuale di Gramsci, e al modo in cui Togliatti ne
gestì la delicata posizione di comunista eterodosso, incardinando sulla sua figura la tra dizione del comunismo italiano.
I testi di Giuseppe Va cca ,
Fra ncesca Izzo e
Michela Na cci sono sta ti
presenta ti a l convegno su
“Gra msci e la Filosofia .
Convegno di studi a
setta nt’a nni da lla morte
(1937-2007)” tenuto a
Genova il 15-16 novembre
2007.
Divergenze e convergenze sulla «questione russa».
Com’è noto Gramsci fu arrestato subito dopo uno scontro molto aspro con
Togliatti sulla posizione da assumere nei confronti della costruzione del «socialismo in un paese solo». Nuovi documenti, divenuti accessibili dopo il 1989, hanno
consentito di ricostruire in modo più preciso la dinamica e i motivi del contendere presenti nel carteggio dell’ottobre 1926. La lettera che Gramsci indirizzò al
Comitato centrale del Partito comunista russo il 14 ottobre 1926, scritta a nome
dell’Esecutivo del Pcd’I, era diretta principalmente a Stalin, che, quanto meno
dall’inizio dell’anno, seguiva personalmente lo sviluppo dei rapporti fra il partito
italiano e quello russo (Cfr. Togliatti 1999, pp. 155-171 e 36-44). Infatti, l’ambasciatore sovietico a Roma Keržencev, col quale Gramsci intratteneva rapporti frequenti e amichevoli, l’aveva preannunciata a Stalin fin dal 6 ottobre, su richiesta
dello stesso Gramsci (Pons 2004, p. 89, nota). Quando Togliatti, anche per consiglio di Bucharin, non trasmise la lettera di Gramsci, considerandola inopportuna, non assunse una decisione personale, ma informò l’esecutivo del Pcd’I delle
sue valutazioni sulla lettera e fu da esso autorizzato a sospenderne l’inoltro in
attesa dei chiarimenti che il partito italiano avrebbe ricevuto sulla «questione
russa» dall’inviato del Comintern alla riunione del suo Comitato centrale già convocata per il primo novembre (Daniele 1999, pp. 413-419 e 428-434). In questa
riunione, svoltasi in assenza di Gramsci che non aveva potuto raggiungere la
località segreta in cui il Comitato centrale si teneva, la lettera fu archiviata e quindi non divenne mai un documento ufficiale del partito, anche se fu messa agli atti
3
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1
(Toglia tti 1972, pp. 93-113).
Quella posizione venne ulteriormente sviluppa ta l’a nno
dopo nella Direttiva per lo
studio delle questioni russe,
nella qua le Toglia tti ricostruiva la linea genera le dei
bolscevichi fin da l 1905 per
dimostra re che, rea lizza ndo
l’egemonia del proleta ria to,
la Nep era in gra do di sostenere la «costruzione del
socia lismo in un pa ese solo»
a nche se il gruppo dirigente
si era diviso; quindi la funzione rivoluziona ria mondia le dell’Urss era ga ra ntita .
(1972, pp. 172-189).
4
come Gramsci aveva chiesto a Togliatti nella replica del 26 ottobre (Daniele
1999, p. 439). Ma l’attenzione va attirata soprattutto sui contenuti del carteggio
che, alla luce dello scontro in atto nei vertici del partito russo, consentono un’interpretazione del conflitto fra Gramsci e Togliatti molto diversa da quella sedimentata nella storiografia precedente. La ragione principale per cui la lettera
destò a Mosca il timore che il Pcd’I potesse schierarsi con Trockij era che in essa
Gramsci, pur aderendo alle posizioni della maggioranza, legava la costruzione
del socialismo in Urss alla capacità di continuare a essere un fattore propulsivo
della rivoluzione mondiale. In altri termini, il punto di contatto fra Gramsci e la
minoranza del Pcr capeggiata da Trockij era l’analisi della situazione mondiale
che entrambi ritenevano caratterizzata dalla possibilità di sviluppo di nuove rivoluzioni a breve in Europa. La materia del contendere riguardava la «stabilizzazione relativa» del capitalismo, categoria molto elastica e oscillante, che Gramsci, in
base agli sviluppi della situazione internazionale nel corso del 1926, aveva messo
radicalmente in discussione enfatizzando l’instabilità del capitalismo mondiale e
l’attualità della rivoluzione soprattutto in alcuni paesi periferici dell’Europa occidentale e centrale (Gramsci 1971). Che fosse questo il punto nodale del dissenso fra il partito italiano e la maggioranza di quello russo, nella quale Stalin era
ormai la figura dominante, è chiarito dall’intervento di Togliatti sul rapporto di
Bucharin al VII Plenum del Comintern (novembre 1926): infatti Togliatti gli attribuiva il merito di aver fatto chiarezza sulla sconfitta storica subita dalla classe
operaia europea, diradando la prospettiva di una rivoluzione immediata. Il confronto fra Togliatti e Gramsci continuava, quindi, a distanza, anche dopo l’arresto di quest’ultimo. Esso appare ancor più evidente nell’intervento di Togliatti
sul rapporto di Stalin al medesimo Plenum. In questo Togliatti ricalcava persino
i passi della lettera di Gramsci che sottolineavano il legame imprescindibile fra la
costruzione del socialismo in Urss e la sua funzione propulsiva della rivoluzione
mondiale, ma, come già aveva fatto nella lettera a Gramsci del 18 ottobre, confutava la tesi che fosse necessario salvaguardare a ogni costo l’unità del gruppo
dirigente bolscevico. Dopo aver svolto un’aspra polemica contro Trockij e
Zinoviev, Togliatti ribadiva che il legame fra l’Urss e la rivoluzione mondiale era
garantito dalla linea politica del partito bolscevico, che era la linea della maggioranza capeggiata da Stalin e Bucharin, mentre la minoranza contrapponeva al
«socialismo in un paese solo» la prospettiva della «rivoluzione permanente» onde
le due posizioni erano ormai inconciliabili. L’unità del gruppo dirigente bolscevico si era rotta una volta per sempre, ma la funzione mondiale dell’Urss non era
legata al consolidamento del potere sovietico e della sua statualità come si ravvisava nella strategia di Stalin1. Come è stato acutamente osservato, è qui l’origine
dello stalinismo di Togliatti, ed è basato sul convincimento che la forza dell’Urss
costituisse l’unica vera risorsa del comunismo internazionale e che Stalin avesse
la visione più lungimirante sul modo di consolidarla e guidarla (Pons 2007).
I sospetti di Gramsci sul comportamento di Togliatti
Subito dopo l’arresto fu Gramsci a scegliere Piero Sraffa e Tatiana Schucht per
tenere i contatti con il partito e con i familiari. Dell’assistenza economica e processuale si occupava il Centro interno del partito e con esso Gramsci comunica-
Giuseppe Va cca
Togliatti e Gramsci
va anche attraverso gli avvocati che ne curavano le vicende giudiziarie. Ma Sraffa,
che dalla fine del ‘27 viveva a Cambridge, dove, grazie all’amicizia di Keynes era
riparato in seguito alle persecuzioni fasciste, era il tramite ideale con il Centro
estero che Togliatti aveva raggiunto agli inizi del 1927. Sraffa era un comunista
non iscritto che però, grazie all’amicizia con Gramsci e con Togliatti, veniva considerato dal partito un dirigente coperto. Inoltre, in virtù delle influenti relazioni
del padre Angelo e dello zio materno Mariano D’Amelio, senatore del regno e
primo presidente della Corte di Cassazione, egli poteva fornire un aiuto prezioso
al prigioniero per quanto riguardava la sua posizione processuale e le sue condizioni carcerarie. Tania, a sua volta, essendo cittadina russa, era il canale ideale per
i rapporti con l’ambasciata sovietica. Iscritta al partito bolscevico dal 1927, godeva della protezione dell’ambasciata e al tempo stesso, come parente, poteva visitare frequentemente il prigioniero e riferire al partito i colloqui avuti con lui.
Poco dopo la condanna di Gramsci Togliatti assunse personalmente la gestione
dei contatti con il detenuto che dalla fine del 1928 vennero organizzati attraverso il triangolo Gramsci-Tatiana-Sraffa. Il veicolo principale era la corrispondenza
indirizzata da Gramsci a Tania, che solitamente la trasmetteva in copia al Centro
estero del partito. Il corriere era Sraffa, che riceveva la corrispondenza in originale o in copia da Tania e la consegnava personalmente a Togliatti o a chi per lui,
passando per Parigi tre o quattro volte l’anno in occasione dei suoi soggiorni in
Italia dove solitamente trascorreva le vacanze con la famiglia. Ma Tania era anche
il tramite della corrispondenza fra Sraffa e Gramsci che aveva sia carattere personale, sia di intermediazione delle comunicazioni di Togliatti al prigioniero.
Infine, Tania trascriveva per Gramsci anche le lettere provenienti dalla famiglia
Schucht, delle quali anche il partito italiano era quindi informato attraverso la
corrispondenza di Gramsci con Tania e di Tania con Sraffa. Questo reticolo faticoso e complesso era necessario per consentire a Togliatti di gestire gli aspetti
politicamente più delicati della condizione del prigioniero. Nelle mani di
Mussolini Gramsci era oggetto di manovre e pressioni che si ripercuotevano
sulle sorti del partito. Inoltre, dall’ottobre ’26 agli occhi di Mosca era un comunista eterodosso e lo sarebbe divenuto sempre più dopo il VI congresso del
Comintern e la «svolta» del 1930. Anche questo costituiva dunque un problema
complicato: le sue prese di posizione, il suo pensiero filtravano fuori del carcere
di Turi e in vario modo giungevano all’orecchio di Mosca, mentre, per il modo
in cui aveva schierato il partito con Stalin, Togliatti costituiva una garanzia di affidabilità per l’Urss e di fatto aveva preso il posto di Gramsci. D’altro canto, prigioniero e martire del fascismo, Gramsci era una risorsa straordinaria per il suo
partito, che soprattutto per questo non poteva essere colpito dal Comintern. Ma,
garantirne la figura di «capo della classe operaia italiana», consacrata da Togliatti
fin dai tempi del processo di Roma (Togliatti 1972a), e al tempo stesso schivare
i colpi che potevano abbattersi sul partito a causa della sua eterodossia costituiva un’impresa difficile e aleatoria, della quale si può avere un’idea ricordando
due episodi, del 1932 e del 1938: nell’«autobiografia» scritta per la sezione quadri del Comintern nell’agosto del ‘32, diversamente da quanto aveva fatto nelle
biografie precedenti Togliatti, ricostruendo la propria carriera politica, arriva a
non menzionare mai il nome di Gramsci, al quale, del resto, dal giugno del ‘31 al
dicembre del ‘33 la stampa del partito non fa più alcun riferimento né politico né
5
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2
(Agosti 1996, p. 144).
Si può supporre che ta le
comporta mento sia sta to
origina to da lle a spre critiche che il Comintern a veva
rivolto a Toglia tti per la sua
rela zione a l Congresso di
Colonia , da lla qua le tra spa riva che la sua a desione
a lla «svolta » non era piena mente convinta (Pons 2007,
pp. 199-200).
3
Le rela zioni di Ta nia a l
pa rtito sui colloqui con
Gra msci a Turi sono in
Gra msci e Schucht (1997,
pp. 1436-1463).
6
teorico2. Per converso, quando la rivista di Tasca «Problemi della rivoluzione italiana» nell’aprile del 1938 pubblicò la lettera di Gramsci al CC del Pcr dell’ottobre ’26, creando una situazione di panico nel gruppo dirigente del partito italiano che era inquisito già da un anno dal Comintern per mancata vigilanza rivoluzionaria e oscillazioni nella lotta contro il trockismo, fu Togliatti, di passaggio da
Parigi nel settembre di quell’anno, ad evitare che la segreteria sconfessasse la lettera di Gramsci come Dozza e Di Vittorio avevano chiesto. «Non è consigliabile
continuare a parlare di tutte queste cose del passato con questo metodo, egli
disse. Sarebbe un errore negare la vita avvenire del partito su questa base. Le
cose avvenute non si cancellano. Ma non si possono legare le cose dell’avvenire
a queste» (Agosti 1996, p. 214): egli aveva chiara la percezione che condannare
retrospettivamente Gramsci avrebbe lacerato e indebolito ulteriormente il partito agli occhi di Stalin. Non a caso, intervenuta la morte di Gramsci nel pieno del
Grande Terrore, Togliatti aveva tentato subito, scrivendo a Dimitrov, di indurre
il Comintern a compiere un gesto oblativo dei dissidi trascorsi: proponeva di trasferirne le ceneri a Mosca, ma a condizione che a Gramsci venissero tributati gli
onori di un «capo» mai sospettato di eterodossia (Vacca 1994, pp. 61-66).
I contatti con il prigioniero riguardarono fin dall’inizio anche la possibilità della
sua liberazione. I tentativi di liberare Gramsci attraverso uno scambio di prigionieri fra il governo sovietico e il governo italiano sono ampiamente noti. Quello
su cui è opportuno soffermarsi in questa sede riguarda la complessa questione
della lettera di Grieco. La documentazione acquisita di recente, in parte ancora
inedita, ci consente di illuminare un complesso di problemi che hanno travagliato a lungo gli storici. Il primo tentativo di liberazione di Gramsci fu imbastito
nell’estate del 1927 dal partito, su suggerimento dello stesso prigioniero probabilmente a seguito di una visita di Sraffa al carcere di San Vittore avvenuta in agosto. Esso fallì per il rifiuto opposto da Mussolini che seguiva personalmente la
vicenda giudiziaria di Gramsci. Il tramite fra Mussolini e Gramsci era il giudice
istruttore Enrico Macis, con il quale Gramsci ebbe diversi colloqui di contenuto
politico durante la detenzione a San Vittore. Da quanto egli riferì a Tatiana nei
colloqui svoltisi a Turi nel gennaio ’29 e nel gennaio ’33, attraverso il dialogo con
Macis Gramsci aveva avuto conferma che Mussolini avrebbe potuto anche liberarlo se la richiesta gli fosse stata fatta dal governo sovietico in modo da far apparire la sua liberazione un gesto di liberalità, autonomo e gratuito3. Gramsci era
una preda preziosa nelle mani di Mussolini che se da un lato operava per fiaccarne la fibra morale e indurlo a chiedere la grazia, dall’altro temeva che gli
morisse in carcere perché ciò avrebbe sollevato l’indignazione dell’opinione
pubblica internazionale in quanto Gramsci, al pari degli altri deputati comunisti
detenuti nelle carceri fasciste, era stato tratto in arresto in violazione dell’immunità parlamentare prima ancora delle leggi speciali. D’altro canto, la peculiarità
dei comunisti rispetto alle altre forze antifasciste stava nel loro essere un terminale del governo sovietico. Quindi come «capo» dei comunisti italiani Gramsci
poteva essere oggetto di scambio fra il governo sovietico e quello italiano in base
all’evolvere delle loro relazioni. La possibilità di essere liberato era dunque una
condizione permanente del prigioniero, al di là delle occasioni che originavano
i tentativi di scambiarlo.
Com’è noto, alla fine di marzo del ’28, a istruttoria ormai conclusa, il giudice
Giuseppe Va cca
Togliatti e Gramsci
Macis informò Gramsci dell’esistenza di una lettere scritta da Grieco a Basilea il
10 febbraio e spedita direttamente al carcere di San Vittore il 29 delle stesso
mese, da Mosca. Nell’illustrarla al prigioniero Macis insinuò il sospetto che i suoi
compagni preferissero tenerlo in galera e Gramsci condivise il suo commento,
denunciando poco dopo l’episodio alla moglie che all’epoca era ancora incaricata dei rapporti fra il prigioniero e il partito (Gramsci 1965, p. 207; Schucht 1991,
p. 40). Sull’interpretazione di questa lettera si è accumulata una letteratura viziata da gravi lacune documentali in gran parte colmate solo di recente. I nuovi
documenti consentono di rileggere la lettera di Grieco in modo più perspicuo di
quanto non si sia fatto finora, di precisare le responsabilità che Gramsci imputava a Togliatti e di inquadrare l’origine dell’inchiesta promossa dalle sorelle
Schucht a Mosca nel 1939 contro Togliatti e il partito italiano accusati di aver
sabotato la liberazione di Gramsci (Pons 2004).
La corrispondenza di Tatiana Schucht con i familiari recuperata nell’ultimo anno
e ancora inedita ci permette di chiarire l’accusa mossa da Gramsci a Togliatti a
proposito della lettera di Grieco. Se la si legge distinguendola dalle lettere che
nello stesso giorno questi aveva inviato a Terracini e Scoccimarro, acquista nuova
luce l’incipit che nelle altre due lettere non c’è. Infatti nelle prime righe della lettera, in maniera allusiva ma trasparente, Grieco comunicava a Gramsci che il partito continuava a impegnarsi nel tentativo di liberarlo, che seguiva accuratamente
i contatti intercorrenti fra il governo sovietico e quello italiano a tal fine, e si
mostrava ottimista sul loro esito (Spriano 1977, pp. 129-131). Come Tania chiarisce inequivocabilmente nella corrispondenza con i familiari, per Gramsci consegnare un tale documento nelle mani di Mussolini voleva dire inibirne la disponibilità a liberarlo poiché dimostrava che il partito avrebbe potuto rivendicare l’accadimento come una sua vittoria (Rossi e Vacca 2007, pp. 86-87; Schucht 1991, p.
190). Esso non poteva ignorare che Mussolini avrebbe potuto acconsentire a uno
scambio solo a condizione che risultasse un atto unilaterale di liberalità. Dunque
la lettera di Grieco costituiva o una imperdonabile leggerezza, o un atto consapevole di sabotaggio. La cosa richiedeva un chiarimento e questo fu quanto Gramsci
chiese al partito nel colloquio con il fratello Gennaro, a Turi, nel giugno 1930, di
cui abbiamo pubblicato di recente il Rapporto scritto per Togliatti, rapporto del
quale si ignorava l’esistenza (Rossi e Vacca 2007, pp. 209-217).
La corrispondenza di Tania con Gramsci e con Sraffa, riletta alla luce dei nuovi
documenti, dimostra che sull’episodio Gramsci intendeva condurre un’inchiesta
nel pa rtito, dopo la sua liberazione. Verosimilmente egli attribuiva l’irresponsabilità di quel gesto all’uso sconsideratamente propagandistico che il partito faceva della sua condizione di prigioniero di Mussolini e questa condotta politica non
favoriva certo la possibilità della sua liberazione. I suoi sospetti divennero ancora più gravi dopo la perquisizione dell’Ovra dell’estate del 1932 che mise fine al
carteggio su Croce. Infatti, dal comportamento degli agenti Gramsci ebbe la percezione che i contenuti politici del carteggio, affidati ad un linguaggio metaforico o allusivo che solo Sraffa e Togliatti potevano decifrare, fossero trapelati per
errori o leggerezze commesse nella comunicazione interna dal gruppo dirigente
che egli sapeva essere infiltrabile dalle autorità fasciste Gramsci e Schucht 1997,
pp. 1044-1045). Dell’intenzione di promuovere un’inchiesta nel partito su episodi che chiamavano in causa sia i comportamenti dei massimi dirigenti, sia la
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Per la ricostruzione di
tutta la vicenda connessa
a lla lettura di Grieco cfr.
Rossi e Va cca
(2007, pp. 80-95).
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linea politica che ne facilitava gli errori, prima velatamente per lettera, poi attraverso i colloqui con Tania e con Sraffa, negli anni della detenzione a Turi, a
Formia e alla clinica Quisisana di Roma, Gramsci informò Togliatti e ne ebbe l’assenso (Vacca 1999, pp. 90-97). Infatti, quando, subito dopo la morte di Gramsci,
sentendosi investita del compito di dar seguito all’inchiesta da lui progettata
Tania si rivolse a Sraffa per decidere insieme a lui come agire, non chiedeva un
consiglio personale all’amico, ma istruzioni al partito sul modo di procedere per
dar seguito alla volontà del «capo» defunto. Il parere che Sraffa le diede di «lasciar
perdere» perché, «letta a mente fredda», la lettera di Grieco doveva considerarsi
nulla più che «una leggerezza dello scrivente», non era dunque un’opinione personale, ma un’indicazione del partito da lui interpellato (Spriano 1988, pp. 167170). L’affermazione di Sraffa aveva quindi anche il valore di un’autocritica di
Togliatti, con la quale evidentemente il partito riteneva di poter chiudere il caso.
Del resto, come abbiamo ricordato, si era nel pieno del Grande Terrore e
Gramsci ormai era morto: chi e come avrebbe potuto condurre l’inchiesta senza
esporre il partito al rischio di essere travolto?4.
La comunicazione politica col prigioniero
Secondo una vulgata costruita massimamente su testimonianze tardive di dirigenti comunisti e compagni di detenzione di Gramsci, egli si sarebbe sempre
rifiutato, una volta arrestato, di comunicare il suo pensiero politico al partito.
Questa interpretazione era favorita dal modo in cui fino al 1990 era stato utilizzato l’epistolario di Gramsci. Com’è noto, erano state pubblicate in due successive edizioni solo le lettere che Gramsci aveva scritto dal carcere, mentre poco o
nessun rilievo si attribuiva alle lettere dei suoi corrispondenti. La situazione cambiò dopo la pubblicazione di Antigone e il prigioniero. Aldo Natoli (1990) aveva
studiato accuratamente la corrispondenza fra Gramsci e Tania, e il suo volume
evidenziava la rilevanza decisiva del loro carteggio per la ricostruzione della biografia politica, intellettuale e umana del prigioniero. A breve distanza di tempo
seguirono la pubblicazione delle lettere di Tania ai familiari e di quelle di Sraffa
a Tania per Gramsci (Sraffa 1991). Furono vinte, così, le resistenze alla pubblicazione dei carteggi motivate da una imperdonabile sottovalutazione della figura di
Tania tanto rispetto a Gramsci quanto rispetto a Sraffa, e nel 1997 uscì il ponderoso carteggio Gramsci-Tania corredato di un appartato critico particolarmente
accurato dovuto a Chiara Daniele (Gramsci e Schucht 1997). Infine, si avviava la
preparazione dei carteggi fra Gramsci e Giulia e fra Sraffa e Tania non ancora ultimata, e cominciò il recupero della parte restante della corrispondenza di Tania
con la famiglia Schucht che nella prima donazione di Giuliano Gramsci, risalente al 1989, si arrestava al 1934. Aveva inizio così una nuova stagione di studi che,
grazie ai nuovi documenti, viene ricostruendo la biografia politica e intellettuale
di Gramsci nel decennio 1926-1937, sviluppando e correggendo la ricerca pionieristica avviata da Paolo Spriano (1977). Non è chi non veda quanto tale ricostruzione sia indispensabile alla comprensione dei Qua derni del ca rcere che
finalmente vengono studiati dando rilievo alla diacronia delle note e alla ricostruzione del «ritmo del pensiero in sviluppo». La saldatura fra teoria e biografia
getta nuova luce sulla riflessione di Gramsci e ha inaugurato una messe di nuove
Giuseppe Va cca
ricerche, dalle quali emergono interpretazioni sempre più distanti dalla vulgata
originata dalla prima edizione dei Qua derni , l’edizione tematica PlatoneTogliatti del 1948-1951.
Ma, per tornare al nostro tema, oggi affiora con crescente evidenza che il confronto di Togliatti con Gramsci non si sviluppò solo a distanza proseguendo la
collaborazione strettissima intercorsa fra loro nel 1919-1920 e 1924-1926, ma si
alimentò anche della conoscenza delle linee di sviluppo del suo pensiero negli
anni del carcere veicolate, fino al 1932, dalla corrispondenza di Gramsci con
Tania e negli anni della detenzione a Formia e a Roma dai colloqui saltuari, ma
prolungati e intensi, di Sraffa con il prigioniero5. Assume un particolare rilievo, in
proposito, la decifrazione dei codici letterari attraverso cui avveniva la comunicazione e, secondo una modalità specifica del pensiero gramsciano, i suoi contenuti erano al tempo stesso teorici e storico-politici (Rossi e Vacca 2007, Cap. I).
Ci limiteremo a darne qualche esempio.
Com’è noto, fin dagli esordi della corrispondenza con Tania Gramsci indicava
come tema centrale del suo programma di ricerca il tema degli intellettuali. Non
è difficile capirne il significato politico anche perché è lo stesso Gramsci a fornire le chiavi per decifrarlo. Infatti, nella lettera del 19 marzo 1927, dopo aver indicato al primo punto dei suoi propositi di ricerca il tema degli intellettuali italiani
dell’Ottocento, menzionava lo scritto sulla questione meridionale dell’estate nel
1926, ancora inedito ma noto a Tatiana, e dichiarava di voler «svolgere ampiamente la tesi che avevo allora sviluppato». Il tema ricorre con analoga centralità
nei successivi piani di ricerca esposti da Gramsci nella corrispondenza con
Tatiana e nella prima pagina del Quaderno 1, in cui Gramsci elenca gli «argomenti principali» ai quali intende dedicare le «note e appunti» che riempiranno i
quaderni. In questa sequenza assume particolare importanza la lettera a Tatiana
del 25 marzo 1929 che a nostro avviso è da considerare l’effettiva enunciazione
del programma di ricerca dei Qua derni . Gramsci era stato condannato da circa
un anno ad una lunga detenzione e quindi il suo futuro prossimo e remoto non
era più incerto. Inoltre, aveva ricevuto l’autorizzazione a scrivere e quindi poteva pianificare i suoi studi. Ma quella lettera è cruciale anche perché ad essa farà
riferimento Sraffa quando, sollecitato da Gramsci, comincerà a proporgli temi da
trattare nella corrispondenza, sui quali evidentemente Togliatti era interessato a
conoscere il pensiero di Gramsci (Gramsci e Schucht 1997, pp. XXVII – XXVIII;
Sraffa 1991, p. 15). E, non a caso, il tema più insistente riguardava appunto la sua
ricerca sugli intellettuali.
La questione si può riassumere nel modo seguente. Lo scritto sulla «quistione
meridionale» rappresenta un passaggio decisivo negli sviluppi del pensiero politico e filosofico di Gramsci in quanto introduce nello schema teorico del materialismo storico un primo abbozzo di teoria degli intellettuali. Essa avrà un grande sviluppo nei Qua derni ma non possiamo riprenderlo in questa sede. Ci limitiamo a sottolineare il suo nesso con l’elaborazione sia della teoria dell’egemonia , sia della filosofia della pra xis che segnano la distanza del pensiero di
Gramsci in carcere da quello del decennio precedente. Ma quello su cui vorrei
attirare ora l’attenzione è il legame strettissimo fra lo scritto sulla «quistione
meridionale» e la lettera al CC del Pcr del 1926. Infatti, in essa l’«egemonia del
proletariato» scavalcava i confini dell’elaborazione leniniana per investire la natu-
Togliatti e Gramsci
5
Un resoconto viva ce degli
incontri di Sra ffa con
Gra msci nella clinica
Quisisa na è in una lettera
inedita di Ta nia a Giulia
del 24 ma rzo 1937, di prossima pubblica zione. Si
veda inoltre la testimonia nza di Sra ffa in
Spria no (1967).
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Sull’a na lisi dell’Urss
Sta linia na nei Qua derni
del ca rcere cfr. Va cca
(1999, pp. 207-228);
Benvenuti e Pons
(1999, pp. 33-124).
10
ra dello Stato sovietico e l’espansività internazionale del modello di socialismo
edificabile sulla base della Nep. Togliatti all’epoca non conosceva ancora lo scritto sulla «quistione meridionale». Ma sicuramente in seguito esso fu oggetto di
riflessione e di approfondimento da parte di tutto il gruppo dirigente del partito
se, come testimoniò Giorgio Amendola nel 1967, alla sua pubblicazione su «Lo
Sta to Opera io», nel gennaio 1930, fece seguito un’ampia diffusione di un estratto dattiloscritto che costituì «uno strumento di lavoro» per la formazione di quadri del partito clandestino durante tutto il biennio 1930-1932 (Amendola 1976).
L’insistenza con cui Sraffa, che concordava con Togliatti i temi sui quali interpellare Gramsci, richiese più volte di conoscere il pensiero da lui maturato nel frattempo sugli intellettuali equivaleva, quindi, alla richiesta di conoscere dove era
giunta la riflessione di Gramsci sull’Urss, sulla politica e sullo Stato. E il prigioniero non esitò a riassumerla, nella lettera a Tania del 7 settembre 1931, in termini che meritano citazione:
Io estendo molto la nozione di intellettuale e non mi limito alla nozione corrente che si riferisce ai grandi intellettuali. Questo studio porta anche a certe determinazioni del concetto di Stato che di solito è inteso come Società politica (o dittatura o apparato coercitivo per conformare la massa popolare secondo il tipo di
produzione o l’economia di un momento dato) e non come equilibrio della
Società politica con la Società civile (o egemonia di un gruppo sociale sull’intiera società nazionale attraverso le organizzazioni così dette private, come la chiesa, i sindacati, le scuole, ecc.) (Gramsci e Schucht 1997, p. 791).
Non è di poco significato che, rispondendo anche a questa lettera il 2 ottobre,
Sraffa scrivesse a Tania che essa «non richiedeva risposta» (Sraffa 1991, p. 36): mi
sembra evidente che alle implicazioni politiche di tale concezione, che toccava
sia la natura dell’Urss staliniana, sia il marxismo sovietico e la strategia del
Comintern e ne colpiva le fondamenta, Togliatti non potesse rispondere altrimenti che con un no comment 6 .
Altro esempio significativo di comunicazione politica in codice è il carteggio
riguardante Croce, anch’esso sollecitato da Togliatti attraverso Sraffa, che si sviluppò, breve ma intenso, dal 18 aprile al 12 luglio 1932. Attraverso quelle lettere
Gramsci informava Togliatti dell’avanzamento dei suoi studi e della sua riflessione sul fascismo, sulla storia d’Italia, sulla socialdemocrazia e la cultura europea,
sullo stato del marxismo e su altri temi di grande rilevanza politica. Ma i suoi messaggi riguardavano anche la fermezza della volontà di respingere qualunque tentativo di indurlo a fare domanda di grazia, o la ricorrente richiesta di una iniziativa dell’Urss per la sua liberazione. Su questi temi e sulla mancata liberazione
rinvio al già citato volume di Angelo Rossi e mio Gra msci tra Mussolini e Sta lin .
Nell’economia del discorso mi sembra utile tornare qui sull’atteggiamento di
Togliatti circa la liberazione del prigioniero. Com’è noto, fino all’autunno del
1932 egli era stato protagonista dei reiterati tentativi di scambiare Gramsci.
Anche in seguito ai loro fallimenti e ai sospetti accumulati da Gramsci sui comportamenti del Centro estero del partito, all’inizio del ’33 egli provò a mobilitare il governo sovietico attraverso l’ambasciata di Roma facendo chiedere da
Sraffa a Togliatti di tenere fuori il partito dalla questione. Dopo l’avvento al potere di Hitler Gramsci prevedeva un ra pprochement fra Mosca e Roma, in virtù del
quale Stalin avrebbe potuto chiedere a Mussolini la sua liberazione come dimo-
Giuseppe Va cca
Togliatti e Gramsci
strazione dei nuovi e amichevoli rapporti fra i due paesi. Nel volume menzionato abbiamo ricostruito le ragioni per cui anche questa iniziativa, che fino a ottobre 1933 sembrava molto promettente, si concluse con un nulla di fatto.
Richiamiamo l’episodio per sottolineare che Togliatti, dal canto suo, per tutto il
’33 e il ’34 continuò a suggerire a Gramsci di non fare affidamento sulle possibilità di liberazione e di contare piuttosto su quello che il partito italiano gli poteva garantire: il massimo impegno per migliorare le sue condizioni carcerarie,
ottenere abbreviazioni della pena, accelerare la libertà condizionata e il trasferimento in luoghi di pena che gli consentissero di potersi curare.
Togliatti editore delle Letter e e dei Qua der ni
Subito dopo la morte di Gramsci Tania chiese a Sraffa di «mettere in ordine i
manoscritti» dei Qua derni e di «mettere in valore ogni cosa, con l’aiuto di qualcuno di noi della famiglia». Inoltre, lo informava dell’intenzione di inviare attraverso il corriere diplomatico russo, i manoscritti a Giulia eseguendo il volere di
Nino perché Giulia li «ritirasse [evitando] qualsiasi perdita o intromissione di
chicchessia» (Sraffa 1991q, p. 260). Si può ritenere che quel «chicchessia» comprendesse anche Togliatti; infatti, dopo la morte di Gramsci partirono da Mosca
due iniziative distinte per il recupero dei Qua derni : l’una, di Giulia, mirava ad
entrare in possesso dei manoscritti; l’altra, di Togliatti, puntava ad assicurarli al
Comintern perché confluissero nell’archivio del partito e fosse il Comintern a
deciderne l’utilizzazione. Fu la sua linea a prevalere attraverso uno scontro aspro
e prolungato con le sorelle Schucht che fu risolto da Stalin, alla fine del 1940, con
l’affidamento a Togliatti della cura editoriale della «eredità letteraria» di Gramsci
(Vacca 2005, pp. 13-22).
Dalla primavera del ’38 la questione dei manoscritti di Gramsci entrò a far parte
dell’inchiesta che il Comintern conduceva già da un anno sul Centro estero del
partito italiano per le ragioni che abbiamo già ricordato. Per iniziativa delle sorelle Schucht si avviò quindi un’indagine sul partito italiano e su Togliatti accusati
di aver sabotato la liberazione di Gramsci e, dopo la sua morte, di ostacolare la
valorizzazione e la diffusione del suo pensiero. La vicenda sfociò in un vero e
proprio a ffa ire politico-poliziesco, ricostruito accuratamente da Silvio Pons sulla
base di una cospicua documentazione proveniente dal fondo della Segreteria di
Dimitrov recuperata a Mosca nel 2003 (Pons 2004). Occupandoci qui dell’attività di Togliatti editore delle Lettere e dei Qua derni non occorre dire di più sulla
vicenda, se non per aggiungere un chiarimento essenziale sull’origine dell’a ffa ire, reso possibile dal recupero di nuovi documenti, in particolare di due lettere
inedite di Tania a Genia Schucht del 25 gennaio 1938 e di Genia a Tania del 16
febbraio successivo. Il nodo riguarda sempre la vexata quaestio della lettera di
Grieco. Lo scambio epistolare fra le due sorelle ci permette di chiarire il modo in
cui l’intenzione di Gramsci di avviare personalmente un’inchiesta sulla lettera di
Grieco nel partito una volta liberato, dopo la sua morte si trasformò in un vero
e proprio processo intentato da Giulia ed Eugenia Schucht contro Togliatti e
contro il partito italiano. L’inchiesta si concluse con la temporanea esclusione di
Togliatti dal vertice politico-decisionale del Comintern (Dimitrov 2000, p. 333)
nel quale fu reintegrato solo al momento dell’invasione hitleriana dell’Urss.
11
n.20 / 2008
7
Lettera del 30 genna io
1938, inedita , Fondo
Gra msci.
8
Lettera inedita , Fondo
Gra msci.
9
Lettera inedita , Fondo
Gra msci.
12
Come abbiamo visto, poco dopo la morte di Gramsci Tatiana aveva interpellato
Sraffa circa il modo di condurre l’indagine sulla lettera di Grieco: la fine di
Gramsci era giunta improvvisa e lei si sentiva investita del compito di chiarire se
il partito fosse stato leale con lui (Spriano 1977 e 1988, p. 167). La risposta di
Sraffa la urtò profondamente e, quasi a preannunciare l’inchiesta promossa dalle
sorelle a Mosca dopo il suo rientro, Tania replicò piccata che non si trattava di
«scoprire se l’intenzione [di Grieco] poteva essere buona, mentre l’azione [era]
stata delittuosa», ma di «verificare con pazienza l’attività passata e presente di
colui che [aveva] ispirato la lettera», cioè di Togliatti (Spriano 1977 e 1988, pp.
171-2). Poco tempo dopo Tania informò Genia dello scontro epistolare avuto
con Sraffa e la investì del problema:
I miei rapporti fra compagni con Piero si sono guastati a causa della mia risposta
molto caustica alla sua lettera, in cui mi consigliava, per chiarire la faccenda, di
recarmi semplicemente dall’autore della lettera e chiedergli spiegazioni. In risposta mi sono permessa di osservare con durezza che così, senza dubbio, non si
sarebbe potuto scoprire niente, e che bisogna fare chiarezza non tanto per desiderio di vendetta o per qualsiasi altro sentimento basso, ma per un senso di
dovere di fronte alla necessità di smascherare uno per uno tutti i nemici del regime sovietico […]. Quando arriverò decideremo insieme come agire7.
Genia le rispose il 16 febbraio:
Hai veramente ragione tu: fare come Piero consiglia non è possibile e io penso
che non sia nemmeno il caso di consigliarsi con lui. Tutto deve concentrarsi qui
[…]. Ti chiedo fermamente: non cercare di chiarire qualche cosa là: qui tu
potrai essere di molto aiuto, soltanto qui il compito che ti sei posta potrà trovare una soluzione8.
Se la risposta di Tania a Sraffa mostra quanto ella fosse imbevuta della psicologia
del sospetto che caratterizzava il clima del Grande Terrore, la risposta di Genia
manifesta l’inclinazione ad esserne parte attiva, cioè a utilizzare i circuiti politicopolizieschi della delazione accessibili alle sorelle Schucht come esse poi effettivamente fecero nel 1939 e nel 1940. Ad ogni modo, lo scambio epistolare citato
documenta il modo in cui l’inchiesta che Gramsci si proponeva di condurre nel
partito dopo la sua morte divenne un’indagine del Comintern e dell’Nkvd sul
partito, trasformandosi nell’affare «politico-poliziesco Gramsci-Togliatti».
Ottenuto il via libera da Stalin, Togliatti si dedicò a preparare la pubblicazione
delle Lettere e dei Qua derni . Delle prime aveva già fatto un regesto e «un’ampia
scelta» negli anni precedenti (Daniele 2005, pp. 22-3). In seguito all’invasione
tedesca e al trasferimento del Comintern a Ufa, il suo lavoro proseguì a rilento e
riprese con lena dopo il rientro a Mosca nell’estate del ’43. Caduto il fascismo, la
preparazione delle Lettere fu intensificata in vista della pubblicazione in Italia. Si
può ritenere che alla sua partenza da Mosca, i primi di marzo del ’44, il lavoro
fosse già sostanzialmente ultimato e la scelta delle lettere da pubblicare fosse già
quella che vide la luce tre anni dopo9. Ma successivamente Togliatti si impegnò
a fondo nel recupero delle lettere che il partito non possedeva e seguì in prima
persona la lunga preparazione dell’«edizione aggiornata e accresciuta» che vide
la luce nel 1965, nove mesi dopo la sua morte.
Molto più complesso fu il lavoro di preparazione dei Qua derni . Avendolo ricostruito dettagliatamente in altra sede mi limito qui a ricordare che, subito dopo
Giuseppe Va cca
Togliatti e Gramsci
la morte di Gramsci, Togliatti chiese a Sraffa di «mettere per iscritto tutto quello
che Antonio» gli aveva comunicato «per la pubblicazione eventuale […] dei suoi
scritti» (Spriano 1988, p. 165) e che, secondo una testimonianza di Sraffa alla
Fubini risalente al 4 maggio 1965, egli aveva esposto «in una lettera tutto quello
che [aveva] appreso da Gramsci sui suoi scritti». Purtroppo la lettera non ci è pervenuta e quindi non sappiamo né cosa pensava Gramsci della pubblicazione dei
Qua derni , né in che misura la collaborazione di Sraffa all’edizione TogliattiPlatone, ampiamente documentata, sia stata decisiva nel determinarne i criteri e
il raggruppamento dei manoscritti (Daniele 2005, pp. 16-7). Sappiamo invece
che dallo studio approfondito di essi Togliatti si rese conto delle implicazioni
politiche che la loro pubblicazione comportava, onde il 25 aprile del 1941 scrisse a Dimitrov:
I Quaderni di Gramsci, che io ho già quasi tutti accuratamente studiato, contengono materiali che possono essere utilizzati solo dopo un’accurata elaborazione.
Senza tale trattamento il materiale non può essere utilizzato ed anzi alcune parti,
se fossero utilizzate nella forma in cui si trovano attualmente, potrebbero essere
non utili a l pa rtito (Daniele 2005, p. 25).
Questa lettera appare il vero incunabolo dell’edizione tematica del ’48-’51. Ciò
non toglie che Togliatti fosse del tutto avvertito della necessità di giungere a
un’edizione diacronica dei Qua derni . Il problema fu sollevato da Gastone
Manacorda nel primo convegno di studi gramsciani e Togliatti accolse la sua proposta. Per suo impulso, quindi, si cominciò a studiare il progetto della nuova edizione e all’incirca nel 1960-1961 fu avviata presso l’Istituto Gramsci la preparazione dell’edizione cronologica, che vide la luce nel 1975. In fine, risale a
Togliatti anche l’idea di pubblicare tutto l’epistolario di Gramsci: lo testimonia la
sua lettera a Elsa Fubini del 13 gennaio 1964, nella quale scriveva: «Io posseggo
[…] le copie autentiche delle lettere [di Gramsci], fatte da Tania. Si tratta delle
copie ricevute da noi nella emigrazione e che servirono per le prime pubblicazioni. Forse è il momento di fare anche su queste copie un riscontro. Potresti tu
assumerti questo incarico? Dopo il riscontro io intendo passare queste copie
all’Istituto Gramsci, perché è male che siano presso di me. Inoltre sono in mio
possesso lettere autentiche di Tania ad Antonio. Anche di queste, del modo di
utilizzarle e conservarle dovremo parlarne» (Daniele 2005, p. 199).
L’interpretazione del pensiero di Gramsci dopo la guerra
Dal ritorno in Italia fino alla morte l’azione politica di Togliatti trasse ispirazione
e si sviluppò in un confronto continuo con il pensiero di Gramsci. Quindi la sua
interpretazione andrebbe correlata innanzitutto alla sua opera politica. É un lavoro di grande lena, sul quale non vi sono state finora indagini adeguate. Pertanto
non vi accenneremo in questa sede, così come non toccheremo il tema dell’interpretazione consegnata alla attività di editore. Non vi è maggiore interprete di
un grande pensatore di colui che ne è stato il primo editore. Questo principio
vale in particolar modo per Togliatti rispetto a Gramsci poiché questi non lasciò
«opere», ma scritti giornalistici, lettere, interventi politici e il grande zibaldone
dei manoscritti dei Qua derni . Fu dunque Togliatti a trasformare quegli scritti in
Opere, costruendo, per così dire, un «autore» quale Gramsci non aveva avuto
13
n.20 / 2008
modo di essere. Tuttavia anche il compito di commentare l’edizione togliattiana
dei Qua derni esorbita dai confini della relazione. Mi limiterò quindi a ripercorrere alcuni scritti di Togliatti su Gramsci, dai quali si può coglierne l’interpretazione esplicita. Essi mostrano un’evoluzione scandita non solo dal tempo, ma
anche dalle circostanze politiche in cui Togliatti esplicò la sua interpretazione di
Gramsci per giustificare o far progredire l’azione del Pci in Italia e nell’arena
internazionale.
Togliatti diede l’annuncio dell’esistenza dei Qua derni del ca rcere il 30 aprile del
’44 in un articolo de “l’Unità”, non firmato, nel quale affermava che il loro «tema
principale» era una «storia degli intellettuali italiani» (Togliatti 2001, p. 94). Un
anno dopo, nel Discorso su Gra msci nei giorni della Libera zione, diede notizia
del loro rientro da Mosca e dell’imminente pubblicazione. Il discorso mostra una
conoscenza approfondita dei manoscritti e ruota intorno a due cardini che
avrebbero caratterizzato la proposta interpretativa e l’utilizzazione strategica dei
Qua derni da parte del Pci. Riprendendo l’affermazione che essi contenevano
soprattutto una storia degli intellettuali italiani, Togliatti anticipava l’idea che, dal
punto di vista storico, la nazione italiana fosse una realtà eminentemente culturale. Quel concetto ispirò la sua relazione al V Congresso del Pci, celebrato alla
fine di dicembre di quell’anno: secondo Togliatti, nel ruolo e nella funzione dei
ceti intellettuali Gramsci «riconosceva e affermava esistere il tessuto connettivo
della società italiana attraverso i secoli» (Togliatti 2001, p. 110; 1984, p. 183).
Pertanto il Pci non solo non poteva disinteressarsi di loro, ma intendeva anche
farne un cardine del rinnovamento della società italiana. A tal fine doveva sconfiggere l’egemonia della cultura idealistica facendo dei Qua derni la base
dell’«anti Croce». Il discorso fu tenuto a Napoli e forse anche per questo Togliatti
metteva una particolare enfasi su questo punto. Ma, com’è noto, «l’anti Croce»
caratterizzò la politica culturale del Pci fino al 1956 (Liguori 1996, pp. 53-86).
Tuttavia, l’aspetto più importante di quella interpretazione risiede, a mio avviso,
in due criteri che ispirarono la costruzione del «partito nuovo»: la scelta del
metodo storico come base dell’autonomia culturale e della strategia politica del
partito; il disegno di un partito di massa di dimensioni inaudite, il tratto saliente
del quale non era tanto la rappresentatività sociale o la capacità di mobilitazione,
quanto l’azione politica volta a mutare molecolarmente i rapporti fra intellettuali e popolo (Togliatti 2001, pp. 110-2).
Il discorso pronunciato all’Università di Torino nell’aprile del 1949 è il primo in
cui Togliatti si sia espresso sul pensiero filosofico di Gramsci. É un testo raffinato ed evocativo, ricco di suggerimenti sulla formazione intellettuale del giovane
Gramsci di sapore anche autobiografico. In esso Togliatti traccia uno schema
delle correnti ideali presenti nell’Italia del primo Novecento, della crisi della cultura positivistica e della rottura del rapporto fra il socialismo e gli intellettuali,
dell’impatto della Grande Guerra sulla cultura idealistica, dei contrasti fra Croce
e Gentile, e dell’affermarsi delle nuove correnti irrazionalistiche nella filosofia,
nell’arte e nella politica. Al centro del discorso, la frattura fra intellettuali e popolo, generatrice della crisi della società italiana da cui sarebbe scaturito il fascismo.
É un affresco che riecheggia le note dei Qua derni e tornerà d’ora in poi, sostanzialmente immutato, nei più importanti scritti successivi su Gramsci e sulla storia della cultura italiana. Rispetto agli scritti precedenti, il Gramsci del 1919-1926
14
Giuseppe Va cca
Togliatti e Gramsci
è collocato sullo sfondo e, d’ora in avanti, Togliatti porrà al centro dell’attenzione il Gramsci dei Qua derni . Con un understa tement tipico dei pochi riferimenti al suo rapporto con Gramsci, Togliatti segnala l’importanza dell’azione da lui
svolta per metterne in salvo e pubblicarne i quaderni; inoltre propone come
chiave di lettura della revisione gramsciana del marxismo due canoni della filosofia della praxis: il concetto di storicità delle ca tegorie e quello di rea ltà delle
ideologie (Togliatti 2001, pp. 131-50).
Ma, come abbiamo detto, l’interpretazione esplicita di Gramsci, in cui Togliatti si
cimenta nel corso degli anni, è fortemente condizionata dalle circostanze politiche e dal suo ruolo di leader del comunismo italiano e internazionale. Ecco, dunque, che nel periodo più acuto della guerra fredda, invitato da Casa Laterza a
tenere una conferenza su Gra msci, ideologo dell’a ntifa scismo (il 23 marzo 1952
a Bari), egli propone una lettura dell’analisi gramsciana del fascismo che fa della
crisi Matteotti il momento cruciale in cui l’interpretazione del fascismo e la strategia dell’antifascismo si fondono nella lotta del Pci per la creazione dello Stato
democratico. Piegato alle necessità di resistere alla doppia offensiva che si esercita sulla «via italiana al socialismo», quella dell’«oltranzismo atlantico» e quella
del Cominform, Gramsci viene presentato come l’antesignano della strategia
democratica del Pci e il suo antifascismo viene definito una «dottrina del rinnovamento della nazione italiana» (Togliatti 2001, pp. 165, 166, 175-6, 178).
Il legame fra Gramsci e la «via italiana al socialismo» sarà ribadito anche in seguito per legittimare la continuità storica del partito dando luogo all’invenzione di
una tradizione (Togliatti 1966, II, pp. 183-90). Ma dal 1956 l’interpretazione del
suo pensiero si slarga e si arricchisce di temi e motivi più distanziati dall’utilizzazione politica immediata. Il suo percorso è iscritto nelle oscillazioni e negli aggiustamenti con cui Togliatti fronteggia gli effetti dirompenti della crisi del ’56. Le
innovazioni introdotte nella strategia e nell’organizzazione del partito procedono con cautela. Il paradigma è il «rinnovamento nella continuità» e Togliatti
schiera il partito su una interpretazione del XX Congresso del Pcus volta a valorizzare la strategia democratica inaugurata nel ’44-’45, ma al tempo stesso a rinnovare il mito dell’Urss enfatizzandone le capacità di autoriforma. Celebrando
Gramsci nel ventesimo anniversario della morte, Togliatti ne fa il precursore
delle «vie nazionali» e del XX Congresso. Ma va messo nel conto che il discorso
è pronunciato in una seduta congiunta del Comitato Centrale e della
Commissione Centrale di Controllo. Non devono quindi passare inosservate le
novità che, malgrado la circostanza, egli introduce nell’interpretazione di
Gramsci. La più significativa ci pare la periodizzazione dello svolgimento del suo
pensiero che colloca negli scritti del 1914-1918 i tratti originari del marxismo di
Gramsci per collegarli poi direttamente ai Qua derni come luogo del loro compiuto svolgimento. L’impianto della celebrazione è sotteso dalla presentazione
del XX Congresso come ritorno a Lenin per depurare il comunismo sovietico
dalle «deformazioni» staliniane. Tanto più significativo appare, quindi, il fatto
che, pur annettendo Gramsci all’operazione, Togliatti metta la sordina sugli anni
della sua più stretta adesione agli schemi del bolscevismo e faccia un salto dal
1918 al 1930. Il richiamo al leninismo di Gramsci mostra quindi una singolare
ambivalenza poiché, proprio sul punto di precipitazione del pensiero politico di
Lenin, la concezione del partito, Gramsci marcherebbe una novità con la conce-
15
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10
Sul va lore e i limiti
dell’Intervista cfr. Va cca
(2006, pp. 101-108) e
Spa gnolo
(2007, pp. 100-127).
16
zione dell’«intellettuale collettivo». La formula evidenzia una significativa discontinuità fra Gramsci e Lenin:
L’insegnamento di Gramsci a questo proposito si innesta direttamente in quello
di Lenin, ma ha una sua forma propria, originale, che gli è data dalla dottrina del
partito come intellettuale collettivo, e che tende ad essere una completa teoria
della politica (Togliatti 2001, pp. 207, 198-199, 204).
La formula è di Togliatti, non di Gramsci. Divenuta, da allora, il principale slogan
identitario del Pci, negli enunciati di Togliatti mira a distinguere partito e Stato,
criticando alla radice il modello bolscevico di «dittatura del proletariato».
Togliatti chiarirà ulteriormente il significato della sua formula in uno degli ultimi
scritti dedicati a Gramsci, la recensione all’antologia einaudiana de «L’Ordine
Nuovo» settimanale, curata da Paolo Spriano, del gennaio 1964. Il Pci era impegnato ancora una volta in una lotta su due fronti: la ripresa vigorosa del pansindacalismo alimentata anche dalle lotte operaie dei primi anni Sessanta e il pericolo di emarginazione originato dal centro-sinistra «organico». La cultura socialdemocratica rilanciava l’accusa di «totalitarismo» alla concezione gramsciana del
partito. Per respingerla Togliatti ricorreva per la prima volta alle note dei
Qua derni dedicate alla critica del regime di partito unico perfezionatosi
nell’Urss staliniana. Al tempo stesso, per indicare il fondamento della distinzione
fra partito e Stato in Gramsci, commentava la formula dell’«intellettuale collettivo» affermando che «il principe di Gramsci è la coscienza avanzata dell’umanità,
che vuole affermarsi come dirigente di tutto il processo della storia» (Togliatti
2001, pp. 301-4). Come dire che per Gramsci il partito politico è e deve rimanere un organismo della società civile, dove promuove la formazione di una «volontà collettiva» che, per assolvere una funzione dirigente del processo storico,
attinge continuamente agli sviluppi dell’intelletto filosofico e scientifico mondiale. A sua volta il partito comunista è un organismo che, operando sul terreno
eminentemente nazionale e interpretandone i nessi con la storia internazionale,
concorre a guidare il processo di unificazione del genere umano che progredisce attraverso gli sviluppi della cultura e della scienza.
Negli appunti per la relazione al primo convegno di studi gramsciani, che si svolse un anno dopo, quell’ambivalenza appare ancora più marcata. Lo sforzo di collocare i Qua derni nel solco del leninismo spinge Togliatti ad iscrivere la strategia del «socialismo in un paese solo» nella categoria della «guerra di posizione»
per suggerire l’idea che, riconosciuta la sconfitta della classe operaia europea,
Gramsci in carcere aderisse tout court alla politica di Stalin. L’intento di nascondere lo scontro del ’26 appare evidente. Al tempo stesso la declinazione del concetto di egemonia non consente a Togliatti di ignorare che l’Urss staliniana è
catalogata da Gramsci come una «forma estrema di società politica», cioè di dittatura basata sulla compressione della società civile. Appare evidente, quindi, il
tentativo di contenere le categorie più innovative dei Qua derni nei confini della
critica dello stalinismo impostata nell’Intervista a «Nuovi Argomenti»10. Ciò non
toglie che Togliatti introduca una innovazione metodologica fondamentale per il
loro studio. L’edizione tematica e la limitazione dell’epistolario alle sole lettere
di Gramsci avevano generato una radicale scissione fra teoria e biografia nella
prima recezione del suo pensiero. Ora Togliatti ribaltava il paradigma e proponeva come solo criterio valido per lo studio dei Qua derni la ricostruzione più
Giuseppe Va cca
accurata possibile della biografia politica di Gramsci anche negli anni della detenzione. Egli affermava che «l’unità della vita di Antonio Gramsci, il punto di partenza e il punto di arrivo» era da ricercarsi «nella politica». Da questa affermazione Togliatti faceva discendere la proposta di una nuova ermeneutica dei
Qua derni :
Tutta l’opera scritta da Gramsci dovrebbe essere trattata partendo da [questa]
considerazione, ma è compito che potrà essere assolto soltanto da chi sia tanto
approfondito nella conoscenza dei momenti concreti della sua azione da riconoscere il modo come a questi momenti concreti aderisca ogni formulazione e
affermazione generale di dottrina.
Inoltre Togliatti aggiungeva di non escludere che «alcune note» dei Qua derni
«fossero dettate da preoccupazioni destate in lui da frammentarie notizie giuntegli circa l’orientamento e l’attività del partito comunista dopo il suo arresto»
(Togliatti 2001, pp. 213-5). Egli dunque suggeriva di indagare sui rapporti di
Gramsci col partito anche negli anni della detenzione e avanzava la proposta di
una nuova filologia che sarebbe stata in parte accolta solo venti anni dopo, da
Paolo Spriano, con la pubblicazione di Gra msci in ca rcere e il pa rtito.
La relazione che Togliatti tenne al primo convegno di studi gramsciani (gennaio
’58) ricalcava gli appunti preparatori e, in quanto discorso pubblico, dava ampio
spazio alla polemica contro le contestazioni neo-consiliari del «gramscismo» sviluppate dagli intellettuali raccolti intorno alla rivista «Ragionamenti» e contro
Rosario Romeo, che aveva addebitato a Gramsci una interpretazione del
Risorgimento come «rivoluzione agraria mancata»11. Come ha osservato Guido
Liguori, in quella sede Togliatti correggeva anche l’affermazione fatta negli
appunti precedenti che l’impostazione del saggio sulla «quistione meridionale»
fosse di derivazione esclusivamente «leninista» e dava conto dell’influenza che la
scuola economico-giuridica e soprattutto Salvemini avevano esercitato sulla formazione del Gramsci «meridionalista» (Liguori 1996, p. 102). Ma forse il punto
più significativo della sua polemica era quello che riguardava Romeo. Togliatti
obiettava che nelle note sul Risorgimento Gramsci si era proposto di comprendere le ragioni per cui i moderati erano riusciti a imporre la loro egemonia ai
democratici e non di rimproverare loro di aver mancato il compito di promuovere una riforma agraria radicale. Tuttavia evitava di menzionare il concetto di
«rivoluzione passiva», con il quale Gramsci aveva specificato la formazione dello
Stato unitario evidenziando il carattere duraturo del «blocco storico» risorgimentale. É arduo pensare che quel concetto, complementare di quelli di «guerra di posizione» e di «egemonia», gli sfuggisse. Si può affacciare l’ipotesi che egli
fosse consapevole del fatto che nello sviluppo dei Qua derni la nozione di «rivoluzione passiva» assumeva il carattere di una interpretazione di intere epoche
della storia mondiale e si estendeva anche all’epoca successiva alla Grande
Guerra e alla Rivoluzione d’ottobre. Essa dunque implicava un giudizio di subalternità dell’Urss staliniana – in quanto forma «economico-corporativa» di «Stato
operaio» - (Vacca 1999, pp. 213-6) nella storia mondiale fra le due guerre.
Essendo la categoria basilare dell’ermeneutica storica dei Qua derni , una volta
tirato in ballo il concetto di «rivoluzione passiva» non avrebbe potuto restare confinato all’interpretazione del Risorgimento. Si può quindi pensare che Togliatti
lo tacesse di proposito per non consentire l’apertura di varchi pericolosi nello
Togliatti e Gramsci
11
Per la contestua lizza zione
del testo nel diba ttito su
Gra msci 1956-1958 cfr.
Liguori,
(1996, n. 7, pp. 91-107).
17
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12
Sull’ultimo Toglia tti cfr.
Va cca (1991, l’ultimo ca pitolo) e Spa gnolo (2007).
schema del Gramsci «leninista» da lui foggiato nel ’56-’58. Infatti quattro anni
dopo, in una stagione caratterizzata da riflessioni molto più approfondite sulla
crisi del comunismo internazionale12, il concetto di «rivoluzione passiva» venne
impiegato da Togliatti per sviluppare una replica compiuta alle posizioni di
Rosario Romeo (Togliatti 1964).
In questa fase si colloca l’ultimo scritto di Togliatti su Gramsci, la recensione
all’antologia mondadoriana 2000 pa gine di Gra msci curata da Giansiro Ferrata e
Niccolò Gallo. Togliatti l’aveva incoraggiata e favorita anche con la pubblicazione, su «Rinascita», della lettera di Gramsci al CC del Pcr del 14 ottobre del 1926
(Daniele 2005, pp. 52-3). La recensione, significativamente intitolata Gra msci,
un uomo, apparve nel supplemento libri di «Paese Sera» il 19 giugno del 1964.
In essa Togliatti distingueva decisamente la figura di Gramsci dalla vicenda del
suo partito per indicare nella sua azione e nel suo pensiero un crocevia della cultura mondiale «nel quale tutti i problemi del nostro tempo sono presenti e s’intrecciano» (Togliatti 2001, pp. 309-10). Alla fine del suo travagliato percorso, dunque, l’immagine di Gramsci che Togliatti proponeva era quella di un classico del
Novecento.
Riferimenti bibliografici
Agosti, Aldo (1996), Toglia tti , Utet, Torino
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19
Fra ncesca Izzo
Gramsci e Machiavelli
Focus: Antonio Gramsci
La prima metà del ‘900 può essere considerata un
nuovo “momento machiavelliano” per l’intenso
interesse che molti intellettuali europei manifestarono per il Segretario fiorentino, specie in
Germania e in Italia, dove “il problema della formazione dello Stato si pose al centro della lotta
sociale e politica” (Paggi 1984, p. 388).
La crisi dello ius publicum europeum, esplosa con
la serie di eventi che si snodano dalla I guerra
mondiale alla Rivoluzione d’ottobre, dalla avanzata
dei fascismi alla fine dell’egemonia mondiale
dell’Europa, riproponeva con urgenza il tema dell’ordine politico, al di là della sua moderna incarnazione nello Stato. E per questa via la lezione del
Machiavelli, il primo teorico della politica dei
tempi nuovi, diveniva di stringente attualità, sotto
il duplice profilo della riconsiderazione della genesi della modernità e della natura e del destino della
politica nel presente storico.
Da Mosca a Croce, da Meinecke a Schmitt e a
Horkheimer, da Gentile a Mussolini, a Gobetti, per
non parlare della storiografia machiavelliana dei
Russo, degli Ercole, degli Chabod, Machiavelli circola, dunque, nel pensiero europeo ed italiano,
come in pochi altri momenti storici.
Eppure non credo di sbagliare se, nel quadro di
questa diffusa presenza e rinnovato mito del
Segretario, considero il Machiavelli dei Qua derni
del ca rcere un caso a sé.
In nessuno dei tanti pensatori, che hanno stabilito
con la sua opera un intenso e diuturno scambio, si
può notare una incidenza così pervasiva ed essenziale, come accade nell’opera di Gramsci. Nelle
note carcerarie la sua figura assurge a metafora
20
della genesi e della struttura dello Stato-nazione
moderno (dal declino degli istituti feudali del
Papato, dell’Impero e del Comune alla na ziona lizza zione degli intellettuali) che Gramsci veniva
elaborando. E, per questa via, egli diviene un
modello, se non il modello, che si affianca a Lenin,
del filosofo della prassi, ovvero dello scienziato
della politica che traduce in impulso all’azione la
sua teoria e che trae dalla sua prassi concetti teorici. Al di là di rigorosi criteri storici e filologici,
Gramsci concentra nell’opera del Segretario fiorentino la morfologia dell’intera epoca moderna, e
si ispira alle categorie machiavelliane per fissare gli
elementi di una nuova fa se della modernità poststa tua le (il moderno Principe).
La forte coloritura teorica della figura storica di
Machiavelli non impedisce però a Gramsci di accostarsi alla sua opera così come in quel tornante
della storia d’Europa veniva recepita e discussa.
“Mi ha colpito il fatto come nessuno degli scrittori
sul centenario abbia messo in relazione i libri del
Machiavelli con lo sviluppo degli Stati in tutta
Europa nello stesso periodo storico.Deviati dal
problema puramente moralistico del cosiddetto
“machiavellismo” non hanno visto che il
Machiavelli è stato il teorico degli Stati nazionali
retti a monarchia assoluta, cioè che egli, in Italia,
teorizzava ciò che in Inghilterra era energicamente
compiuto da Elisabetta, in Ispagna da Ferdinando
il Cattolico, in Francia da Luigi XI e in Russia da
Ivan il Terribile, anche se egli non conobbe e non
poté conoscere alcune di queste esperienze nazionali, che in realtà rappresentavano il problema storico dell’epoca che il Machiavelli ebbe la genialità
Fra ncesca Izzo
di intuire e di esporre sistematicamente” (Lettera a
Tania del 14-11-1927, LdC, 1965, pp. 145-6).
Da questo fondamentale nodo interpretativo prende avvio la rielaborazione gramsciana del “problema Machiavelli”.
Nella sua critica del “machiavellismo”, ovvero della
riduzione di Machiavelli a teorico della Realpolitik e
dello Stato-potenza, Gramsci si riallaccia alla interpretazione “democratica” di De Sanctis che fa del
Segretario l’eroe borghese della nazione moderna ,
e il creatore dello spirito moderno all’interno di
quel vero e proprio snodo ideologico rappresentato dal nesso Rinascimento-decadenza dell’Italia.
L’interpretazione di De Sanctis è nota: le grandi
conquiste delle scienze e delle arti si accompagnano ad una corruzione della coscienza morale, religiosa e civile, il cui prototipo è “l’uomo del
Guicciardini”. L’intellettuale borghese italiano era
preda, russoianamente, di uno scarto tra intelligenza e moralità; mentre Machiavelli si distingueva
per l’utopistico tentativo di sottrarsi a questo destino, per lo sforzo (vano) di voler unire ragione e
passione, scienza e vita, allo scopo di edificare lo
Stato italiano.
Gramsci rimane debitore dell’impianto desanctisiano, ma, per il fatto stesso che la sua prospettiva
non ha più lo stato come unico orizzonte storico,
come era per De Sanctis, l’analitica muta profondamente, determinando risultati che si riflettono
sullo stesso profilo di Machiavelli.
In Gramsci, il tema Rinascimento - decadenza italiana - cosmopolitismo, fondamentale anche per
l’elaborazione del concetto di nazionale-popolare,
si inscrive in una visione che ha già metabolizzato
la crisi della forma statale. Egli stende le note dei
Qua derni a partire dal dato acquisito che la scena
mondiale non è più dominata dall’Europa e che gli
Stati Uniti e l’URSS ne sono divenuti i nuovi soggetti; anzi, la convinzione di Gramsci, espressa
nelle note più tarde, è che egemone sia l’americanismo, la formazione economico-sociale capitalistica più adeguata ad una civiltà democratica poststatuale.
L’Europa ha perduto la sua egemonia e il suo
dominio, con la crisi del principio politico che l’ha
formata, lo Stato e che le ha consentito di conquistare il mondo e di mantenerne gran parte in una
Gramsci e Machiavelli
condizione di permanente minorità.
Il processo si è pienamente manifestato quando,
da un lato, gli Stati Uniti sono intervenuti nel conflitto intereuropeo e nelle decisioni sugli assetti
del dopoguerra e dall’altro si è consumato lo scisma della Russia. Di fatto un frammento della civiltà europea si separava violentemente sulla base
dell’assunto che la forma statuale non era più in
grado di espandere il suo principio ispiratore
democratico, e che non unificava più, anzi lacerava
e divideva la stessa umanità europea sino alla guerra e alla brutale dominazione.
Gramsci aveva profondamente introiettato questa
cesura storica, quando si era schierato, con la fondazione del partito comunista e l’adesione
all’Internazionale comunista, per lo scisma sovietico e per l’affermazione di un diverso principio di
unificazione del mondo, contro la II Internazionale
che rimaneva inscritta nella forma storica dello
stato di cui invocava solo la riforma, ritenendolo
ancora veicolo e strumento di civiltà sul piano
mondiale. Ciò non toglie, però, che, fin dal ’26 e
poi con sempre maggiore lucidità e consequenzialità, Gramsci considererà fallita quella rottura, dal
momento che l’Ottobre era sfociato nella territorializzazione dei Soviet e nel ripiegamento
dell’Internazionale Comunista a sola difesa degli
interessi statuali dell’URSS.
Occorre tenere presente questo quadro dell’epoca
e delle sue sfide per intendere la prospettiva storica nella quale Gramsci colloca la sua lettura di
Machiavelli, soprattutto per intendere la portata e
i limiti del concetto di nazionale-popolare.
Il processo di sviluppo dello Stato consiste, per
Gramsci, nella na ziona lizza zione del territoria le,
ovvero in quel complesso di eventi che si condensano, per un verso, nella rivoluzione scientifico-filosofica moderna che spezza il monopolio culturale
cosmopolitico della Chiesa cattolica e dell’umanesimo imperiale e, per l’altro, nel diverso rapporto
tra città e campagna, che, con la iniziale formazione
di un esercito non più mercenario, esprime la
nascita di un nuovo blocco storico urbano-rurale.
La dimensione “territoriale”(nazionale-popolare),propria dello Stato, è dunque frutto di due processi interconnessi ma distinti: l’uno è rappresentato dall’egemonia della città sulla campagna (dal
21
n.20 / 2008
superamento della fase economico-corporativa del
comune medievale, per quanto riguarda la storia
particolare dell’Italia mentre, per quanto riguarda
il resto dell’Europa, dall’alleanza della corona con i
ceti borghesi contro l’aristocrazia feudale); l’altro è
costituito dall’ “andata al popolo” dei ceti intellettuali, dal loro distacco dalle funzioni cosmopolite
dell’Impero e del Papato. L’andata al popolo coincide con la Riforma religiosa e solo l’unione di
Riforma e Rinascimento costituisce il vero passaggio alla nuova epoca storica.
Nell’idea gramsciana di nazione la presenza del
“religioso” viene dunque ad assumere un ruolo
essenziale, anzi ciò che le dà forma è proprio l’incontro tra il “filosofico” delle classi dirigenti intellettuali e il “religioso” popolare, un “religioso” che
però sia stato percorso dall’anelito della libertà.
Il pieno recupero della storicità di Machiavelli, in
polemica con il machiavellismo, sfocia nella sua stilizzazione prototipica del processo di nazionalizzazione e a Machiavelli, simbolo dello Stato-nazione,
nei Qua derni Gramsci contrappone Cesare, figura, a propria volta, simbolo della tendenza cosmopolitica , risultata poi storicamente vincente in
Italia.
Ma storicizzare l’opera machiavelliana, calandola
nell’epoca della formazione degli Stati nazionali,
comporta fare i conti con lo scarto tra la folgorante modernità del suo pensiero e il contesto di
decadenza e di crisi politica ed intellettuale nelle
quali è piombata la penisola, la “corruttela italiana”. De Sanctis (ed anche Russo) legge questo
scarto nella tensione utopica che segnerebbe il
Principe e Croce si appella all’estetismo machiavelliano, al suo “amore dell’arte per l’arte”, mentre
Gramsci lo risolve nella visione unitaria della genesi del “mercato determinato” e degli Stati nazionali, nel rapporto Italia e Europa. Il Machiavelli che
emerge dai Qua derni non ha il profilo né dell’utopista, né dell’artista, bensì del teorico rea lista ,
dello scienziato della costituzione degli Stati assoluti europei.
Attraverso Machiavelli, Gramsci colloca la “quistione della nazione italiana”, con sempre maggiore
consapevolezza teorica e profondità analitica, nel
quadro di un’analisi differenziale del processo di
fusione tra economia (mercato capitalistico) e
22
politica (Stati nazionali) e di formazione del blocco
storico borghese che segna l’intera epoca moderna, fino al pieno manifestarsi della sua crisi con la
Prima guerra mondiale.
Su questa base diventa possibile applicare il criterio gnoseologico della traducibilità dei linguaggi
che Gramsci ricava dal Marx della Miseria della
filosofia dove era utilizzato per dar conto della
reciproca implicazione della filosofia classica tedesca e della rivoluzione francese e quindi della reciproca convertibilità di filosofia e politica.
Grazie ad esso, Machiavelli diventa, nella lettura di
Gramsci, il filosofo che, dalle città-stato italiane in
rovina, è in grado di enunciare i principi dell’autonomia della politica (sperando di applicarli anche
all’Italia), proprio perché in Francia, in Spagna ed
Inghilterra una borghesia non economico-corporativa ma egemonica stava praticamente costruendo
un’istituzione sovrana, non più dipendente, come
le altre istituzioni feudali, dal Papato e dall’Impero.
Gramsci vede nel Segretario fiorentino prendere
forma una nuova filosofia che nasce da un’integrale autonomia della politica: il Principe machiavelliano è il Centauro, unione di forza e consenso, di
coercizione e di morale, di disciplina e religiosità.
La politica si presenta non come sfera distinta e
subordinata, ma come principio unitario di una
nuova concezione del mondo integralmente storica. Ma nel momento stesso in cui riconosce in
Machiavelli il primo filosofo della prassi, la figura
che anticipa come “politico in atto” Marx, egli indica l’incompiutezza, la fragilità della sua opera,
incompiutezza e fragilità che sono di Machiavelli
nella misura in cui sono di un’intera epoca storica.
Sul terreno dell’immanenza, sul quale è costruito
lo Stato moderno, si è rivelato impossibile diffondere la nuova cultura. Di qui, per Gramsci, la degenerazione dello Stato-nazione (strutturalmente
democratico) in Stato-potenza, sino al nazismo e al
fascismo che, nell’esplosione della crisi organica
dello Stato, punta al “volontariato” della nazione
per ricostituirne artificiosamente e autoritariamente l’unità. Si è aperta, dunque, una più alta contraddizione che il moderno Principe è chiamato ad
affrontare. Il compito che gli si para dinnanzi
richiede l’elaborazione di un’egemonia, sul piano
globale, della città sulla campagna (il moderno
Fra ncesca Izzo
cosmopolitismo connesso all’americanismo) e di
una riforma intellettuale e morale ovvero un’etica
conforme di massa, ciò che né lo Stato etico hegeliano ha potuto affrontare e neppure la “religione
della libertà” crociana. E che la chiusura territoriale della rivoluzione dell’Urss staliniana ha lasciato
sostanzialmente cadere.
Sollevando il tema, così denso, della riforma intellettuale e morale di massa, Gramsci è ben consapevole di affermare l’esistenza, nell’epoca post-statuale, di una questione religiosa irrisolta e di una
lotta egemonica tra metafisica e storicismo sul terreno del “religioso”.
Quindi, rispetto all’impianto desanctisiano, il tema
deca denza -cosmopolitismo è declinato con tutt’altra ottica. De Sanctis interpreta Machiavelli e la
storia d’Italia alla luce di una prospettiva storica
nella quale lo Stato sovrano è ancora il soggetto
indiscusso della politica mondiale e il ritardo nella
formazione dello Stato prolunga i suoi effetti nella
debolezza del Regno d’Italia, nella scarsa autonomia della sua politica estera, nel deficit di sovranità nei confronti delle grandi potenze europee.
Mentre in Gramsci , come si è già accennato, il
tema Rinascimento -decadenza italiana -cosmopolitismo, è declinato in una forma che ha già scontato la crisi dello Stato.
é vero che Machiavelli è innalzato a simbolo del
nazionale-popolare, cioè del momento originario
in cui si manifesta la radice democratica dello Stato
territoriale. Ma nei Qua derni a Machiavelli si
accompagna e si contrappone la figura di Cesare,
incarnazione di un’altra epoca storica e della sua
articolazione cosmopolitica. Cesare è colui al quale
risalire per intendere le radici profonde del destino cosmopolitico, di lunga durata, dell’Italia e del
ritardo e fragilità dello Stato unitario. Se per tutta
l’epoca moderna Machiavelli è l’incarnazione categorica dello Stato-nazione, con lo sviluppo e l’unificazione del mercato mondiale il suo posto viene
occupato da Cesare e dal cosmopolitismo di stampo moderno.
Nel cuore della crisi seguita alla I guerra mondiale,
il rapporto tra nazionale e cosmopolitico tende a
rovesciarsi poiché il quadro dell’epoca non è più
dominato dallo Stato nazione, quale soggetto
esclusivo dello sviluppo storico.
Gramsci e Machiavelli
Nel Q. 6 Gramsci espone i termini generali in cui si
manifesta la crisi:
“già oggi si verifica nel mondo moderno un fenomeno simile a quello del distacco tra “spirituale” e
“temporale” nel Medio Evo….gli intellettuali tradizionali, staccandosi dal raggruppamento sociale al
quale avevano dato finora la forma più alta e comprensiva e quindi la coscienza più vasta e perfetta
dello Stato moderno, in realtà compiono un atto di
incalcolabile portata storica: segnano e sanzionano
la crisi statale nella sua forma decisiva”
Il distacco degli intellettuali, principali agenti della
nazionalizzazione del territoriale mediata dalla
forma dello stato, costituisce il segnale più evidente dello scollamento tra nazione e Stato e l’indice,
ancora disorganico e pulviscolare, di nuove possibili aggregazioni.
La ricerca di Gramsci è orientata a cogliere queste
possibilità all’interno della contraddizione “fondamentale” che vede aprirsi negli sviluppi della crisi
post-bellica.
In un brano assai noto e analizzato di recente da
studiosi che ne hanno sottolineato l’ispirazione
originale nel contesto degli anni ’30, egli scrive
“Tutto il dopoguerra è crisi…Per alcuni (e forse
non a torto) la guerra stessa è una manifestazione
della crisi…Una delle contraddizioni fondamentali è questa: che mentre la vita economica ha come
premessa necessaria l’internazionalismo o meglio
il cosmopolitismo, la vita statale si è sempre più
sviluppata nel senso del “nazionalismo”, “del bastare a se stessi” ecc. Uno dei caratteri più appariscenti della “attuale crisi” è nient’altro che l’esasperazione dell’elemento nazionalistico( statale
nazionalistico) nell’economia” (Q.15, pp.1755-6).
[Nota: Sull’originale posizione di Gramsci nel
panorama degli anni Trenta si è soffermato in
diversi saggi M.Telò, tra i più recenti segnalo Note
sul futuro…(1999), in particolare le pp.52-56.,
mentre sul tema della crisi va visto G.Vacca
(1999)].
La tradizione italiana, che nella lunga fase storica
segnata dall’esclusivo dominio della forma statale,
aveva contribuito a relegare il paese ai margini
dello sviluppo storico appare ora in singolare sintonia con la nuova struttura del mondo: nazione e
cosmopolitismo non divergono più, anzi il cosmo-
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n.20 / 2008
politismo risulta essere una risorsa della nazione
italiana nel nuovo contesto storico.
“Il popolo italiano è quel popolo che “nazionalmente” è più interessato ad una moderna forma di
cosmopolitismo [in questa stesura del ’35 il termine cosmopolitismo sostituisce quello di “internazionalismo”]… Collaborare a ricostruire il mondo
in modo unitario è nella tradizione del popolo italiano, della storia italiana… si può dimostrare che
Cesare è all’origine di questa tradizione… La “missione” del popolo italiano è nella ripresa del
cosmopolitismo romano e medioevale, ma nella
sua forma più moderna ed avanzata” (Q.19, p.
1988).
Ed ecco ritornare la figura di Cesare, non più simbolo della inadeguatezza dell’Italia a ricoprire il
ruolo di un forte Stato nazionale europeo ma cifra
simbolica di una nuova collocazione dell’Italia in un
mondo aperto al cosmopolitismo.
La figura di Cesare incarna la doppia funzione del
cosmopolitismo: da fenomeno negativo che aveva
impedito il formarsi di un nesso nazionale-popolare in Italia, con la separazione delle funzioni intellettuali dalle masse popolari, il cosmopolitismo
diventa una risorsa perché consente di affrontare
la contraddizione dell’epoca, racchiusa per
Gramsci nel contrasto tra un mercato mondiale
tendenzialmente unificato e dimensione statale
nazionale della politica. A condizione però che sia
di tipo nuovo, che non smarrisca il lascito prezioso
dello Stato nazionale, la grande eredità dell’epoca
moderna: il legame tra funzioni intellettuali e
popolo, la radice unificante di ragione e vita che è
al cuore della modernità. Il cosmopolitismo liberale -sia nella versione wilsoniana che lo affida alla
spontaneità del mercato che nella versione dei
chierici europei a u dessus de la melée, per i quali
vale l’unità dello spirito, della cultura al di sopra
delle divisioni delle masse irrazionali e facili preda
di ideologie “religiose” - risulta assolutamente inadeguato ad affrontare il nodo storico della tendenziale unificazione del mondo.
L’originale sforzo teorico di Gramsci mira, in un
quadro storico-concettuale dominato dal giudizio
sull’americanismo in termini di rivoluzione passiva, a ritradurre l’idea di comunismo e di internazionalismo che era al fondo della sua adesione alla
24
Russia dei Soviet, in una versione del cosmopolitismo che conservi in sé e sviluppi la radice democratica dello Stato moderno.
Un cosmopolitismo democratico, è questa, a mio
avviso, l’idea del comunismo che circola nei
Qua derni .
II)Machiavelli scienziato o uomo appassionato,
politico in atto?
Si tratta del discusso rapporto dell’invocazione
finale con le restanti parti del Principe che allude
al tema della relazione teoria -prassi , scienza
–politica, per un verso, e per l’altro al nesso di
logica e passione e alla loro fusione nel “mito politico” e nel moderno Principe.
“Il carattere fondamentale del Principe è quello di
non essere una trattazione sistematica ma un libro
“vivente”, in cui l’ideologia politica e la scienza
politica si fondono nella forma drammatica del
“mito”… Anche la chiusa del Principe è legata a
questo carattere “mitico” del libro:dopo aver rappresentato il condottiero ideale il Machiavelli con
un passaggio di grande efficacia artistica , invoca il
condottiero reale che storicamente lo impersoni:questa invocazione appassionata si riflette su
tutto il libro conferendogli appunto il carattere
drammatico” (Q. 13, p.1555).
Come è possibile questa unione, che suona “blasfema” alle orecchie dei filosofi e degli scienziati
che, come Croce o Weber , ritengono che la scienza e la politica si ispirino a “demoni” distinti e
inconciliabili?
Nel cercare di definire la peculiare natura del
Principe, Gramsci si rifà di nuovo al modello della
filosofia della prassi, ovvero al parallelo con Marx.
Come Marx, Machiavelli fonde in sé e nella propria
opera la passione, l’appartenenza ad una parte
politica, con la ragione, conoscenza obiettiva e
“spassionata” delle cause e degli effetti delle cose.
Questa giunzione è giustificata, nel caso del
Segretario, dall’essere egli il teorico dello Stato
allorché questo sta per divenire il soggetto di
un’intera epoca storica, mentre, nel caso di Marx,
la giustificazione è data dal criterio della storicità
applicata alla stessa concezione materialistica della
storia, da un atto di autostoricizzazione che
Fra ncesca Izzo
dovrebbe impedire ogni torsione ideologica e totalizzante.
Come Marx del Ma nifesto, Machiavelli ha scritto
un’opera scientifica, ma non “libresca”, programmaticamente volta a mobilitare, a spingere all’azione; in essa è sviluppata un’analisi della realtà, non
puramente teoretica, ovvero contemplativa del
dato obiettivo, bensì consapevolmente costruita
sul presupposto della modificabilità dell’oggetto,
della sua trasformazione. Anche Machiavelli ha
scritto un “manifesto di partito”
L’interpretazione della figura del Segretario come
“politico in atto” porta Gramsci ad approfondire,
in due paragrafi del Q.13 di grande rilevanza filosofica, i fondamenti della sua interpretazione del
marxismo in termini di filosofia della prassi, ovvero della traducibilità di storia, filosofia e politica.
Gramsci può sostenere che Machiavelli è insieme
un teorico e un politico, uno scienziato politico
(nesso teoria-prassi) in quanto fa valere, sul piano
filosofico, una determinata concezione della realtà
che rifiuta la scissione(ribadita invece da Croce e
Weber) tra l’essere e il dover essere, tra fatto e
valore. Nella visione che egli sinteticamente espone la realtà (l’essere) non sussiste isolata nella sua
obiettiva trascendenza(necessità), mentre il dover
essere si configura come la più o meno fondata
opzione di valore del soggetto (libertà), assolutamente indipendente dalla costituzione obiettiva
dell’oggetto conosciuto. Secondo le filosofie della
scissione, si è tanto più liberi quanto più si prescinde dai condizionamenti materiali e passionali.
Per Gramsci, al contrario, il nesso tra essere e
dover essere è dialettico e incardinato nella “struttura” della realtà, e la libertà del soggetto è tanto
maggiore quanto più storicamente determinata.
Attraverso Machiavelli, egli mette a punto uno
degli aspetti fondamentali della sua concezione
della filosofia della prassi, ricavato direttamente
dalla rilettura delle Tesi su Feuerba ch,( interpretazione-trasformazione della realtà, rapporto tra
oggettività e soggettività). Il politico in atto è il
vero filosofo in quanto coglie (e vi interviene) l’intima natura della realtà, che non è un’oggettività
trascendente ma “un rapporto di forze in continuo
movimento e mutamento” che è l’espressione con
cui Gramsci reinterpreta e dilata la formula marxia-
Gramsci e Machiavelli
na dell’uomo quale insieme dei rapporti sociali di
produzione e di cui è parte essenziale la stessa teoria: conoscere in qualche modo è già intervenire,
modificandola, sulla realtà.
La chiave che consente a Gramsci di definire
Machiavelli non un realista, un seguace della
Realpolitik, ma un filosofo della prassi è data,
appunto, dalla concezione storicistica o meglio dialettica, della realtà, costituita da rapporti di forze
integralmente storiche, da cui è stata eliminata ogni
minima traccia di trascendenza.
III) Gli interlocutori del Principe: il tiranno o il
popolo?
A chi si rivolge Machiavelli con la sua opera?
Gramsci rifiuta innanzitutto la vulgata “progressista” , “romantico-liberale” o anche “rivoluzionaria”
che, considerando il Principe un’opera “obliqua”
(Procacci 1965, p. 314), tendeva a privilegiare i
Discorsi e le Istorie fiorentine e a prospettare gli
altri scritti sotto una veste di satira disvelatrice
delle infamie del potere.
Considera che Machiavelli abbia in mente un fine
schiettamente politico, educare chi non sa alle
necessità del momento storico, che richiede la
mobilitazione di tutti i mezzi idonei al raggiungimento dell’altissimo fine dello Stato unitario nazionale.
Oltre a ciò, Machiavelli svela a chi non sa che la
moltitudine non diventa Popolo senza l’intervento
della forza, senza elementi di costrizione, svolgendo un’opera di critica dell’ideologia.
Sostanzialmente Gramsci ritiene che il Principe
costituisca un tassello della riforma intellettuale e
morale che deve accompagnare la nascita del
nuovo ordine politico; questa riforma ha a suo
centro l’idea della immanenza e, in particolare, l’idea che la conservazione della vita e della libertà va
perseguita con mezzi esclusivamente mondani. Se
è così, occorre saper accettare, acquisendo un adeguato abito morale, la contingenza dei fini, il
rischio della loro fallibilità, che spesso si paga al
prezzo di enormi perdite umane e di arresto o
regressione sulla via dell’incivilimento progressivo
dell’intera umanità.
é la totale immanenza dei fini, ovvero il fatto che
25
n.20 / 2008
solo la empirica verifica storica può accertarne la
giustezza, la loro corrispondenza al processo di
unificazione (riconoscimento reciproco della
comune appartenenza al genere) ed incivilimento
dell’umanità, che rende il problema dei mezzi così
delicato. Tutti i mezzi sono leciti per raggiungere
un certo fine, vale solo il criterio della loro adeguatezza o non-adeguatezza, ma risulta poi dirimente accertare se quel fine si è dimostrato storicamente progressivo.
Nel caso di Machiavelli, poiché Gramsci valuta la
creazione dello Stato moderno la più grande conquista della civiltà borghese-capitalistica, il fine
risulta storicamente vincente, e quindi i mezzi predicati sono giusti e santi. E chi non sa deve accettare, se vuole quel fine, un “capo” che vuole e può
raggiungerlo perché conosce i mezzi e ha il coraggio di usarli, e condividere la responsabilità di quei
mezzi anche se sul piano della morale privata
prova repugnanza.
Il partito, al posto del Principe, un organismo al
posto di un uomo significa un allargamento delle
possibilità che i mezzi siano adeguati al fine. Per il
fine del comunismo, i mezzi devono essere democratici, per l’esistenza di una pluralità di soggetti e
opzioni su cui esercitare egemonia e non dominio.
Siamo in un mondo globale, complesso e ricco di
differenze. E ancor più c’è bisogno di sapere, di
prevedere, di conoscere per ridurre i rischi della
decisione politica.
Il partito è il soggetto dell’epoca che si apre, un
capo collettivo e democratico investito del compito di creare una nuova etica e morale.
Al cuore della nuova filosofia dell’immanenza è
posta l’accettazione piena da parte del soggetto
moderno che il regno dei fini non è garantito né da
Dio, né dalla natura né dalla Storia con la maiuscola, e che gli uomini ne sono il solo attore ed autore responsabile, sebbene non abbiano il controllo
pieno della realtà(l’insieme degli eventi e la loro
complessità che soverchia le capacità di analisi e
previsioni dei singoli e dei gruppi).
Questo è l’insegnamento che si ricava da
Machiavelli, un insegnamento non ancora diventato senso comune.
La piena immanenza vale anche per la filosofia
della prassi, che per Gramsci non può trasformarsi
26
in una metafisica del fine, il criterio della storicità
va applicato anche ad essa:il fine del comunismo è
anch’esso sottoposto alle verifiche empiriche della
storia , non c’è nessun finalismo e garanzia, esterni al concreto farsi della storia, che ne assicuri la
bontà e la giustezza. E’ anch’esso sottoposto alla
prova della storia e può fallire.
Affinché gli uomini accettino questo nucleo sconvolgente della rivoluzione moderna occorre una
riforma intellettuale e morale, che consiste in un
duplice processo: profonda introiezione del principio dell’immanenza e innalzamento delle masse
a tale livello di coscienza, senza fratture tra intellettuali e popolo, senza doppia morale, una morale religiosa, affidata alle sirene della trascendenza
(di Dio, della razza, della classe) per le masse ed
una morale della finitezza e responsabilità per i
pochi.
La coscienza diffusa di questo limite intrinseco,
che libera il politico da ogni teologia politica e filosofia della storia, è interpretata e sviluppata dal
Moderno Principe .
Il limite storico e filosofico il Machiavelli di
Gramsci lo incontra nella concezione della natura
umana, quel residuo di trascendenza che rimane
appiccicato al pensiero tutto mondano del
Fiorentino.
In effetti il postulato dell’immutabilità della natura umana fa sì che si stabilisca un’analogia tra storia e natura (anch’essa metafisicamente considerata immutabile) e che i fini della politica si inscrivano in un disegno che li trascende costituito dai
cicli del tempo sempre identicamente ritornante
della storia. Fare come Roma, per Machiavelli è
possibile perché esiste una identica natura umana
che costituisce la costante nel variare dei casi.
Così storia e natura umana si legano, determinando un residuo metafisico nell’impianto del suo
pensiero, una dimensione trascendente, sottratta
all’azione degli uomini, che limita, per Gramsci, la
forza della sua filosofia della prassi.
La conseguenza decisiva che Gramsci trae dalla
storicizzazione della natura umana è che fini e
mezzi vanno adeguati alle trasformazioni degli
uomini, alle relazioni sociali ed è quindi ben possibile che i mezzi predicati da Machiavelli, per la
nascita dello Stato, non debbano assolutamente
Fra ncesca Izzo
essere gli stessi per il comunismo, tutt’altro.
Per questo egli critica la scienza politica come studio dell’eterno utile, della violenza come istanza
permanente del mondo e dell’uomo. La scienza
politica è invece lo studio dei “rapporti di forza”,
della realtà come rapporto di forze e quindi destinata anch’ essa a cambiare. Così, se fino ad oggi, la
scienza politica è consistita nello studio dei rapporti tra dominanti e dominati, tra chi governa e
chi è governato, non è detto che non possa mutare questo rapporto e quindi mutare la ragion d’essere di questo sapere. E, aggiunge Gramsci , già
mettersi nella prospettiva che questo rapporto
possa cambiare, introduce nella realtà , nell’equilibrio dei rapporti delle forze, un elemento nuovo
destinato ad influenzare il corso stesso delle cose.
Gramsci e Machiavelli
Riferimenti bibliografici
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Gramsci, A. (1975), Qua derni del ca rcere, Torino,
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Ma chia velli ,Roma, Istituto storico italiano per
l’età moderna e contemporanea
Telò, M. (1999), Note sul futuro dell’Occidente e
la teoria delle rela zioni interna ziona li in
Gra msci e il Novecento (a cura di G.Vacca), I,
Roma, Carocci
Vacca, G. (1999) Appunta menti con Gra msci ,
Carocci, Roma
27
Michela Na cci
Gramsci e de Benoist
Focus: Antonio Gramsci
In che modo Alain de Benoist, creatore della
Nouvelle Droite e politologo di fama, scrittore prolifico sospeso tra Rivoluzione conservatrice e
antioccidentalismo no-global, tra pre-moderno e
oltre-moderno, può essere messo in relazione con
Gramsci? La famiglia ideologica alla quale appartiene nonostante i suoi funambolismi è certamente
lontana, perfino antitetica a quella gramsciana.
Eppure, tra fine degli anni Settanta e inizio degli
anni Ottanta, de Benoist “scopre” Gramsci, e – in
risposta alle difficoltà politiche del suo movimento, difficoltà e forse ambiguità presenti fin dalla
nascita - lancia quello che verrà definito il “gramscismo di destra”. Che cosa scopre il francese nei
Qua derni del ca rcere ? Vi trova soprattutto il concetto di egemonia. Com’è noto, Gramsci intende
con egemonia un ruolo dominante all’interno
della società che non coincida direttamente con il
dominio di classe: questo, da solo, non basta a una
classe per svolgere una funzione storica. La borghesia, infatti, ha elaborato anche una cultura, una
ideologia, un progetto educativo, un carattere
nazionale (o meglio: nazional-popolare): tutto
questo serve a forgiare gli uomini e le classi, cioè a
svolgere un ruolo completo. Già prima del carcere,
Gramsci si pone il problema di una cultura che sia
propria della classe operaia: senza di essa la classe
operaia potrà esercitare un ruolo importante nella
società, ma mai quel ruolo dirigente che solo l’elaborazione di una sua cultura può permetterle di
svolgere. Nel pensiero di Gramsci, questo è l’accentuazione – tipica in lui – del momento sovrastrutturale dell’azione politica, come mostra anche
l’idea di blocco storico: ((la cultura operaia infatti
28
avrebbe avuto anche una importante funzione
politica poiché avrebbe proposto la classe operaia
come possibile classe di governo, come classe
alternativa rispetto a quella borghese)). La conquista del potere non si poneva dunque solo in termini di lotta di classe, ma anche - soprattutto come lotta di idee, di differenti visioni del mondo
e di differenti culture. Gramsci sottolineava dunque l’importanza degli intellettuali: essi sono da
sempre i mediatori e portano alla lotta politica
quell’elemento essenziale che è il consenso dal
momento che, appunto, nella società non c’è
dominio bruto ma consenso all’esercizio del potere da parte di una classe. Sentiva anche la necessità di inserire organicamente gli intellettuali nella
storia d’Italia creando per la prima volta il blocco
storico che in Italia era mancato (rivoluzione mancata), e attribuiva questo compito al partito della
classe operaia.
Quando de Benoist fa la sua lettura di Gramsci che
cosa lo colpisce? L’accentuazione dell’aspetto
intellettuale, del ruolo e dell’importanza degli
intellettuali e della cultura. La Nouvelle Droite
infatti si poneva esplicitamente sul piano non politico, ma metapolitico e per essa era essenziale la
cultura e la formazione di cultura. Come la sua
omologa italiana, ha sempre avuto una concezione
quasi mitica della cultura secondo la quale dalla
cultura dipende totalmente la vera politica (che è
cosa diversa dalla politica dei politici). Ed è altresì
sempre stata convinta della subordinazione dell’economia (cosa inferiore) alla politica.
Per la Nouvelle Droite (e poi a ruota per la Nuova
Destra di Marco Tarchi) l’incontro con Gramsci si
Michela Na cci
traduce dunque in una maggiore consapevolezza
di se stessi, di che cosa è e a che cosa può ambire
il movimento che è stato creato da poco con qualche successo, molto rumore, qualche prezioso
apprezzamento in Francia anche da parte dell’establishment culturale, in Italia anche da parte di
qualche guru della sinistra (Vattimo, Cacciari). La
Nouvelle Droite dà tanto risalto al gramscismo di
destra proprio perché ne è illuminata sulla sua
essenza e le sue potenzialità: suo compito non è
fare politica direttamente, è anzi accentuare la
distanza dalla politica, e fare piuttosto azione intellettuale a tutto campo, con libertà e curiosità, perfino con spregiudicatezza, andando addirittura a
pescare nel patrimonio intellettuale-ideologico
della sinistra. Non deve lavorare con i politici o con
le forze sociali, ma con e attraverso e su gli intellettuali. E attraverso questo avere una importanza
politica ben più grande del fare politica da politici.
In fondo erano già così, ma ora lo sapevano
meglio: Gramsci li rivelava a se stessi.
Nella Presentazione italiana di Le idee a posto
Marco Tarchi scriveva: “Ecco dunque prender
corpo il tanto, e spesso distortamente, evocato
‘gramscismo’ debenoistiano.” E spiegava che cosa
è, dandone al tempo stesso una interpretazione
molto netta: “Inteso come una specificazione della
scelta meta politica , come una proiezione di
volontà e di principii nel cuore della società civile,
per influenzare mentalità e costumi, per vincere
pregiudizi, per saldare un consenso in profondità
al progetto di rovesciamento dei valori oggi imposti dalla consuetudine e difesi dagli opinion
ma kers.” Certo fa una certa impressione leggere la
progettata egemonia gramsciana tradotta nei termini dell’inevitabile radicamento dell’individuo,
del dare un senso antico al mondo moderno, del
sovvertire schelerianamente i valori, del costruire
non un blocco storico ma una civiltà. Scriveva
Tarchi che non si trattava di rimettere la dialettica
hegeliana sulle sue gambe: “Alla schermaglia filosofica con un autore (Hegel) e la sua scuola, qui si
contrappone il progetto di rida re un senso a l
mondo: inedito nelle sue forme di espressione,
antico nelle radici.” È un procedimento tipico delle
nuove destre fino a oggi quello di superare sempre
in avanti gli autori o le correnti ideali che utilizza-
Gramsci e de Benoist
no: Marx criticava Hegel? Sciocchezze! Bazzecole
filosofiche! Noi invece vogliamo dare senso al
mondo! Peccato che ridare senso al mondo sia
diventato con il passar degli anni un progetto verboso e inconsistente che si è accompagnato a carriere accademiche molto tradizionali. Scriveva
ancora Tarchi: “Dalle nuove, imprevedibili intersezioni delle ideologie sfuggite alla tirannide dell’anonimato e dell’omologazione può forse nascere
l’unica possibile reazione al fascino abbagliante
della decadenza, che pare avere ipnotizzato i
popoli d’Europa.” Esplicitando la posizione di de
Benoist Tarchi mette in rilievo un elemento: il
fatto che de Benoist di Gramsci abbia ripreso solo
l’idea di egemonia. Il ruolo della cultura e degli
intellettuali viene da de Benoist come da tutta la
Nuova Destra europea isolato da tutto il resto delle
sue concezioni: il ruolo organico dell’intellettuale,
il blocco storico, le vie nazionali alla rivoluzione,
l’umanismo, l’accento sulla prassi. E viene fatto
giocare con concetti come: la decadenza
dell’Occidente, la rivolta contro il mondo mercantile, la via europea allo sviluppo, l’anti-imperialismo statunitense, la critica del pensiero liberale, il
rovesciamento dei valori borghesi, il differenzialismo, la concezione unitaria e identitaria delle culture, la mancanza di senso del mondo moderno, la
solitudine del cittadino globale (per citare
Bauman), la critica del contratto sociale e dello
scambio, il rifiuto dell’homo oeconomicus e così
via. Ed è chiaro che allora egemonia assume tutt’altro significato rispetto a Gramsci: non la ricerca
del governo della società da parte di una concezione del mondo (oltre che di un partito e una
classe), ma la creazione di una politica generata da
una cultura, determinata da una classe di intellettuali liberi, voluta da volontà ferree e tempre d’acciaio in lotta con il proprio tempo, inattuali e decisive. In fondo, si esprimeva qui il sogno infantile
(per citare Lenin ma anche Freud) di ogni intellettuale. Proprio quello che Gramsci, nutrito a Croce
e positivisti, non poteva nemmeno concepire.
Questo incontro fra de Benoist e Gramsci coincide
con due fenomeni di rilievo. Il primo è la rinuncia
delle Nuove Destre a esercitare una vera, effettiva
azione politica: all’inizio con i campi giovanili, le
riunioni, le discussioni semipubbliche, la vendita
29
n.20 / 2008
di libri, in fondo avevano avuto l’idea di formare
una classe politica; ora, nei primi anni ’80, era evidente che ciò non era possibile. È il momento in
cui le ambizioni politiche vengono messe nel cassetto (prime fra tutte quelle assai istituzionali e
concrete di Tarchi), inaugurando quella linea che
è proseguita fino a oggi.
Il secondo fenomeno è la dinamica dei rapporti fra
destra e sinistra non solo nel nostro paese: la crisi
della concezione assiale della politica messa in
rilievo dalle Nuove Destre e allo stesso modo da
una parte autorevole della sinistra intellettuale ha
fra i suoi esiti l’apertura del bagaglio intellettuale
proprio di ogni parte alla parte opposta. Mentre de
Benoist scopre Gramsci e vi si riconosce, mentre
Tarchi e de Benoist valorizzano e usano Lenin e
Freud, Weber e Baudrillard, Mauss e Latouche,
Habermas e Althusser, Simmel e Bauman, il dono
e la critica della globalizzazione, la sinistra legge
avidamente Heidegger, Schmitt, Céline, Jünger,
Dumézil, Eliade, perfino Evola e Guénon, scopre
che il progresso è un’idea illusoria e la democrazia
un inganno o il governo dei peggiori, che la
modernità è il totalitarismo dei temi moderni, in
uno scambio delle parti che - con motivazioni
diverse - è comune alla destra e alla sinistra (e questo si diffonde dalle nuove destre alle destre e sinistre tradizionali): se a sinistra si pensa infatti di
capire meglio e in modo diverso dalle teorie politiche conservatrici e reazionarie, di avere così una
lettura importante della modernità perché è una
lettura radicalmente critica di modernità, secolarizzazione, democrazia, a destra si ritiene di poter utilizzare autori importanti volgendoli alle proprie
finalità. Del resto molti temi di quegli anni sono
caratterizzati dalla trasversalità, non risultano cioè
caratterizzati come di destra o di sinistra: l’anti-globalismo, il terzomondismo, l’ecologia, la critica
della modernità, l’analisi severa della democrazia,
l’opposizione alla scienza e alla tecnica moderne, il
rifiuto del multiculturalismo e il pluralismo delle
culture, il comunitarismo, l’anti-individualismo, il
neo-paganesimo (di rerivazione nicciana, però sono
per l’umanismo, contro la lezione di Nietzsche), la
distruzione di capitalismo e liberalismo.
È paradossale che de Benoist si allontani dalla politica, e con lui il movimento della Nouvelle Droite,
30
proprio subito quando viene in contatto con il
pensiero di Gramsci. Ma forse questo non è poi
troppo paradossale.
Fino a quel momento in fondo de Benoist aveva
trattato temi di destra con strumenti di destra: La
Rivoluzione conservatrice, la tradizione, Nietzsche,
un virulento antiamericanismo, il paganesimo. È
con Les idées à l’endroit (1980), (ma contiene
molti testi precedenti) che invece lo diventa meno,
o lo diventa in un modo più accettabile in quegli
anni e nei nostri: trasversale, sul piano della cultura, nell’intreccio fra destra e sinistra. Ma tutto questo è stato reso possibile dal passaggio dal marxismo, dall’attenzione per lo strutturale che ancora
occupava tanta parte della sinistra, al “sovrastrutturale” che è divenuto via via sempre più leggero e
poi immateriale. Se il muro di Berlino non fosse
caduto e il comunismo crollato, con l’effetto di dissoluzione sulle convinzioni marxiste che conosciamo per averlo osservato in due decenni, tutto questo non sarebbe stato possibile. Quello avvenuto
fra il 1980 e il 1989 è stato il primo spostamento di
una lunga serie a catena alla fine della quale possiamo leggere uomini della destra non istituzionale (politica o metapolitica) che espongono le loro
idee o che conducono programmi televisivi, che
scrivono con grande risalto presso editori storicamente di sinistra, (figlie di radicali che organizzano
giornate dedicate alla famiglia), politici di sinistra
che si oppongono alle novità della scienza in materia di concepimento artificiale o si richiamano
all’ordine naturale della società: fenomeni molto
diversi ma pure svoltisi in parallelo allo sdoganamento della destra post-fascista a opera – insieme
- di Mani pulite e Berlusconi (nascita di Forza
Italia). Non so dire se è stato un bene o un male,
ma – come è noto – quel che è importante non è
ridere o piangere, ma comprendere: una cosa che
destra e sinistra istituzionali hanno evitato di fare
per anni e che sono state trascinate a fare loro malgrado. Credo che il futuro ci riserberà un numero
sempre maggiore di temi trasversali (non mi piace
il termine perché inflazionato ma non so trovarne
un altro equivalente), come il clamore suscitato dal
New Age ha mostrato. E credo che questo avverrà
non solo su temi in fondo marginali come erano
quelli, ma su temi centrali per l’Occidente e tutti
Gramsci e de Benoist
Michela Na cci
noi: l’identità, le radici, il confronto tra culture, il
posto del sacro nella civiltà, l’immagine
dell’America, dell’individuo, del mercato, la cura
per la Terra, l’atteggiamento verso la manipolazione tecno-scientifica degli organismi viventi. È già
molto difficile spiegare ai miei figli quando guardiamo un dibattito televisivo insieme chi è di
destra e chi di sinistra: chissà se io stessa ci riuscirò in futuro? Sarebbe in ogni caso importante che
la politica e le istituzioni registrassero questo
mutamento (che non significa che le classi sono
finite, solo che sono cambiate, che non significa
che non esistono più destra e sinistra, solo che
destra e sinistra sono cambiate), poiché questo
mutamento ha conseguenze non secondarie per la
politica e le stesse istituzioni.
[email protected]
31
Terenzio Ma cca belli
La “grande trasformazione”: i rapporti tra Stato
ed economia nei “Quaderni del Carcere”*
Focus: Antonio Gramsci
* Devo un ringra zia mento
a R. Fa ucci, L. Michelini e
G. Va cca per i preziosi suggerimenti. Una versione
più breve del presente sa ggio è in corso di pubblica zione nel volume di a tti del
Convegno Gra msci nel suo
tempo, Ca rocci, Roma ,
2008.
I riferimenti a i Qua derni
del ca rcere, sempre a ll’edizione critica dell’Istituto
Gra msci a cura di V.
Gerra ta na , Eina udi,
Torino, 1975, 4 voll., sa ra nno di seguito indica ti con
la lettera Q., seguita da ll’indica zione del numero
di qua derno, da l numero
di pa ra gra fo e da l titolo di
pa ra gra fo.
Il presente testo è sta too
presenta to a l Convegno di
studi “Antonio Gra msci nel
suo tempo” tenuto a Ba ri e
Turi il 13-15 dicembre
2007.
32
1. Introduzione
La gra nde tra sforma zione è, come noto, il titolo di un famoso libro di Karl
Polanyi, pubblicato nel 1944. In questo poderoso affresco sulla storia economica
delle società occidentali, Polanyi pone sotto la lente d’ingrandimento due decisivi processi storici: da una parte quello che portò il mercato a diventare il principale meccanismo di regolazione sociale e, dall’altra, gli esiti rovinosi cui condusse questo processo. La storia del XIX secolo, secondo Polanyi, sarebbe attraversata da una sorta di “duplice movimento”, che se da una parte spingeva il mercato ad estendersi sempre più capillarmente dall’altra generava “meccanismi di
difesa” della società volti ad arginare la diffusione dell’economia di mercato. Nel
complesso si ebbero pertanto due “grandi trasformazioni” nelle società occidentali: la prima è quella iniziata con la rivoluzione industriale e conclusasi verso la
metà dell’Ottocento quando, con la completa mercificazione delle tre merci “fittizie” (moneta, terra e lavoro), l’economia di mercato raggiunse il proprio apogeo; la seconda, avvenuta negli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale, è quella che vide svanire il sogno di una società governata esclusivamente dal mercato, culminata nella crisi del ‘29. Per Polanyi, la netta separazione tra Stato ed economia cui si arrivò nel secondo Ottocento fu pertanto un
evento eccezionale al quale la società rispose producendo anticorpi che riassorbivano l’economia entro il gioco delle istituzioni. Taluni di questi anticorpi furono peraltro gli stessi che generarono il fenomeno dei fascismi (Polanyi 1974).
Se abbiamo richiamato queste celebri tesi non è perché sia nostra intenzione
rileggere il pensiero di Gramsci attraverso il filtro delle idee di Polanyi. Più semplicemente perché riteniamo che l’immagine della “grande trasformazione” si
presti assai beni a riassumere il senso di molte riflessioni dei Qua derni dedicate
ai rapporti tra Stato ed economia. Riteniamo vi siano almeno tre motivi che giustificano l’accostamento che abbiamo proposto tra Gramsci e Polanyi, nonostante si tratti di autori quasi mai accomunati nelle storie del pensiero economico,
politico e sociale. Il primo motivo è che al pari della Gra nde tra sforma zione di
Terenzio Ma cca belli
La “grande trasformazione”
Polanyi anche i Qua derni rappresentano un poderoso affresco storico che – pur
nella diversità della strumentazione concettuale e nella diversità dei fenomeni
messi a fuoco – descrivono il medesimo processo storico. Come ha scritto recentemente Alberto Burgio, nei Qua derni “è contenuto un gra nde libro di storia :
una storia dell’Occidente borghese, o, come Gramsci scrive più semplicemente,
del ‘mondo moderno’, una storia critica della modernizzazione europea” (Burgio
2002, p. 3). In secondo luogo, perché anche Gramsci individua delle cesure storiche che presentano molte analogie con quelle individuate da Polanyi. Sulla
prima delle due “grandi trasformazioni”, le note di Gramsci non sono in verità
molto numerose (se pure di indubbio rilievo). Ben più consistenti quelle dedicate ai mutamenti intervenuti dopo la prima guerra mondiale: anche agli occhi
di Gramsci si era infatti di fronte a una netta cesura storica, che si manifestava in
larga parte proprio sul terreno dei rapporti tra Stato ed economia. L’enfasi data
a questi mutamenti ci ha spinto a prendere a prestito l’immagine della “grande
trasformazione” che ci appare non solo evocativa ma assolutamente pertinente.
Infine, c’è un ultimo elemento che a nostro parere giustifica la scelta del titolo,
che tocca da vicino la biografia intellettuale dell’intellettuale sardo. Come ha
recentemente osservato Luca Michelini, negli scritti pre-carcerari predomina una
concezione dello Stato molto diversa da quella che troviamo nei Qua derni . Negli
scritti giovanili, l’orizzonte della riflessione gramsciana rimane a lungo circoscritto entro le coordinate della distinzione “politica-economia” propria della tradizione liberale e, per certi versi, marxiana. In modo molto convincente
Michelini individua quale punto focale della riflessione gramsciana la tesi della
“scissione tra economia e politica” come “intima necessità della civiltà capitalistica” (Gramsci 1918, p. 21; Michelini 2008), debitrice tanto della tradizione marxista ma anche del liberismo italiano. Questa affermazione verrà non solo problematizzata nei Qua derni ma addirittura rovesciata, allorché Gramsci comincerà a
riflettere sui mutamenti strutturali intervenuti nelle economie occidentali all’indomani della guerra. Naturalmente anche negli scritti giovanili non mancano
segnali che lasciano presagire le idee del Gramsci “maturo”1: è innegabile tuttavia che l’analisi dei rapporti tra Stato ed economia subisca un mutamento di prospettiva tale da giustificare l’idea che la stessa biografia intellettuale di Gramsci
sia attraversata da una sorta di “grande trasformazione”2.
In questo scritto ci proponiamo pertanto di documentare il modo in cui Gramsci
pose nei Qua derni del ca rcere il problema dei rapporti tra Stato ed economia.
Nella prima parte discuteremo le tesi riguardanti la genesi dell’economia di mercato e il suo “autonomizzarsi” rispetto alla sfera politica. Lo sfondo di queste
riflessioni è la metafora dello “Stato guardiano notturno” elaborata da Ferdinand
Lassalle ma che Gramsci contribu” a rivitalizzare. Come avremo modo di vedere,
per l’autore dei Qua derni la netta separazione tra Stato ed economia incarnata
dall’immagine dello “Stato guardiano notturno” non fu affatto un approdo naturale o un processo spontaneo, quanto piuttosto una scelta non meno artificiale
di quella di uno Stato interventista o protezionista. Ma fu comunque legittimo
per gli economisti “postulare” quella distinzione. Affronteremo nel seguito il
dibattito degli anni Trenta sui rapporti tra Stato ed economia alimentato dall’ascesa del corporativismo fascista e a cui presero parte autori come Ugo Spirito,
Rodolfo Benini e Luigi Einaudi. L’autore dei Qua derni avrà modo di appuntare
1
Michelini a na lizza a d
esempio con gra nde cura
l’editoria le del 9 febbra io
1918, L’orga nizza zione
economica e il socia lismo,
qua le testo dove nel modo
più esplicito emergono
tema tiche destina te a dispiega rsi in modo più compiuto nei Qua derni.
Nell’occa sione Gra msci sottolinea come la sepa ra zione teorica tra politica ed
economia sia da fa r risa lire a d una “necessità empirica ”, “pra tica ”, quella di
“scindere provvisoria mente
l’unità a ttiva socia le per
meglio studia rla ” (cfr. L.
Michelini 2008).
2
Il discorso è na tura lmente
più genera le e rigua rda
non solta nto il problema
dei ra pporti tra Sta to ed
economia . Come sottolinea to da Angelo Rossi e
Giuseppe Va cca , “a lla fine
del ’30 la riflessione di
Gra msci sulla storia mondia le, sulle crisi economiche, sull’Urss, sulla politica
del Co-mintern, l’‘a merica nismo’, l’evoluzione del
fa scismo e la situa zione del
ma rxismo era ca mbia ta
ra dica lmente. Il processo
di ma tura zione, sviluppa tosi nel triennio precedente, era già sedimenta to
nella prima stesura dei
nuclei fonda menta li dei
Qua derni, che rivela un
vero e proprio muta mento
di pa ra digma ” (Rossi e
Va cca 2007, p. 9).
33
n.20 / 2008
3
(Texier 1968, p. 72). Su
“Gra msci teorico delle
sovra strutture” e sul ruolo
centra le che l’a na lisi della
società civile – intesa come
momento “sovra struttura le” – riveste nel sistema
gra m-scia no, si veda
Bobbio (1976).
4
Ha scritto a l rigua rdo
Ba da loni che il progra mma di ricerca di Gra msci
non consiste “in una rimozione del ruolo dell’economico come determina nte
in ultima ista nza , bens” in
un nuovo modo di considera re il blocco tra struttura
e sopra struttura ”
(Ba da loni 1977, p. 21).
5
Si veda in proposito la
prefa zione di Giorgio
Lunghini a lla recente a ntologia gra mscia na di scritti
economici (Gra msci 1994).
Tra gli studi recenti sul
pensiero economico di
Gra msci, cfr. L. Ca va lla io
(1997).
6
Si veda a d esempio, tra i
ta nti, lo stesso Nozick, che
in Ana rchia , Sta to e Utopia
sottolinea come la sua teoria dello “Sta to minimo”
riprenda e a pprofondisca
la concezione dello “Sta to
gua rdia no notturno” propria della “teoria politica
cla ssica ” (cfr. Nozick 1988,
p. 28).
34
con molto interesse questo dibattito, mostrando peraltro di avere ormai maturato una convinzione sui rapporti tra Stato ed economia molto diversa rispetto a
quella degli scritti giovanili. Passeremo poi a presentare le idee gramsciane sulla
crisi delle economie liberali e del mercato autoregolato da cui scaturirono due
tipi di risposte: una sul terreno strettamente economico (il fordismo letto da
Gramsci come fenomeno innovativo) e una sul terreno socio-politico (americanismo e fascismo). Proprio analizzando questi fenomeni si fa progressivamente
strada nel pensiero di Gramsci l’idea di una “grande trasformazione” nei rapporti tra Stato ed economia. Nelle considerazioni conclusive accenneremo alla prospettiva del superamento dello Stato (un nuovo stato guardiano notturno) che
prefigura Gramsci in alcune note dei Qua derni .
Il problema dei rapporti tra Stato ed economia non è evidentemente che un
capitolo del problema più generale dei rapporti tra struttura e sovrastruttura. Da
questo punto di vista è noto che Gramsci sia stato tradizionalmente letto come
il teorico delle sovrastrutture e “cioè il teorico della scienza politica, dei rapporti fra Stato e società civile, della lotta per l’egemonia e la conquista del potere,
del momento del consenso e di quello della forza, dei rapporti fra la storia eticopolitica e la storia economica-politica, il teorico, infine, della funzione degli intellettuali e del partito politico”3. Il bisogno di superare il rigido determinismo economico che caratterizzò buona parte del pensiero marxista di fine Otto e inizio
Novecento spinge in effetti Gramsci a riaprire una linea di ricerca tesa a rivalutare l’importanza del momento etico e politico nel processo evolutivo delle società. La stessa storiografia ha per lungo tempo privilegiato questa chiave di lettura
del pensiero gramsciano, fino forse ad eccedere sul lato opposto. Dimenticando,
cioè, che pur ridimensionandone la portata, l’intellettuale sardo non giunge mai
a negare il ruolo decisivo svolto dal fattore
economico e strutturale nel condi4
zionare l’evoluzione delle società umane . Non a caso si è assistito in questi ultimi anni a una proliferazione di studi dedicati alla riflessione “economica” di
Gramsci, pur nella consapevolezza che non si può, in termini propri, attribuire la
qualifica di “economista” all’autore dei Qua derni 5. Anche in questo lavoro proporremo una lettura dell’opera di Gramsci nella quale cercheremo di mostrare
come la riflessione sullo Stato sia strettamente legata ai mutamenti avvenuti sul
versante dell’economia reale (o strutturale) e la vicendevole relazione tra le due
dimensioni.
2. Lo Stato “guardiano notturno” e l’autonomia dell’economia
Lo Stato “guardiano notturno” è senza dubbio una delle più fortunate metafore
attraverso la quale la tradizione liberal-liberista ha tradotto la propria concezione
dello Stato. Anche nei dibattiti contemporanei che hanno quale sfondo l’idea
dello “Stato minimo” tale immagine è frequentemente richiamata6, spesso trascurando, tuttavia, le origini e la fonte di tale metafora.
Negli anni in cui Gra msci redige le note dei Qua derni l’immagine dello Stato
“guardiano notturno” era probabilmente ancora più diffusa, tanto da essere evocata da Benito Mussolini, naturalmente con toni polemici, in un celebre discorso del 1929 alla prima assemblea quinquennale del Fascismo.
“Per il Fascismo – osserva Mussolini – lo Stato non è il gua rdia no notturno, che
Terenzio Ma cca belli
La “grande trasformazione”
si occupa soltanto della sicurezza personale dei cittadini; non è nemmeno un’organizzazione a fine puramente materiale, come quello di garantire un certo
benessere, una relativa pacifica convivenza sociale. nel qual caso a realizzarlo,
basterebbe un consiglio di amministrazione; non è nemmeno una creazione
politica pura, senza aderenze con la realtà mutevole e compressa della vita dei
singoli e di quella dei popoli. Lo Stato, così come il Fascismo lo concepisce e l’attua, è il fatto spirituale e morale, poiché concreta l’organizzazione politica, giuridica, economica della Nazione; e tale organizzazione è, nel suo sorgere e nel suo
sviluppo, una manifestazione dello spirito7.”
Sono i primi germi di quella concezione dello Stato che di li a poco alimenterà
la retorica dello Stato “corporativo” destinato a diventare l’asse centrale di tutta
la letteratura politica, economica e giuridica degli anni Trenta. Avremo modo di
tornare sul dibattito tra corporativisti ed economisti puri sul ruolo dello Stato
nell’economia, seguito con grande attenzione da Gramsci. Quanto è importante
ora sottolineare è l’immagine dello Stato “guardiano notturno” evocata da
Mussolini nel brano appena citato che fornirà stimoli allo stesso Gramsci per
alcune annotazione dei Qua derni .
Il concetto di Stato “gendarme” o “guardiano notturno” è discusso da Gramsci in
modo esplicito soltanto in due paragrafi dei Qua derni (il primo dei quali oggetto di una duplice stesura); riferimenti indiretti o impliciti si possono comunque
trovare anche in altre annotazioni. Nel Quaderno 5, redatto tra il 1930 e il 1931,
Gramsci ricorre per la prima volta all’immagine dello Stato “gendarme o guardiano notturno” nell’ambito della rubrica denominata Nozioni enciclopediche,
frequentemente utilizzata dall’intellettuale sardo per fissare le coordinate generali di concetti ritenuti particolarmente rilevanti. Osserva nel merito che “lo Stato
“guardiano notturno” (veilleur de nuit) corrisponde all’italiano ‘lo Stato carabiniere’ cioè lo Stato le cui funzioni sono limitate alla sicurezza pubblica e al rispetto delle leggi, mentre lo sviluppo civile è lasciato alle forze private, della società
civile”. Si tratta come si vede della classica definizione di “stato minimo” della tradizione liberale, in cui emergono due aspetti di rilievo: in primo luogo una declinazione del concetto di “società civile” che non è quella propriamente gramsciana, bensì quella più tradizionale (liberale ma anche per certi versi marxiana)
basata sulla netta distinzione tra sfera economica e sfera politica; in secondo
luogo l’uso del termine francese – veilleur de nuit – che, a quanto pare, è la lingua attraverso cui si è propagata la metafora dello Stato “guardiano notturno”.
Questo nonostante sia stato con molta probabilità Lassalle a fare uso per la prima
volta di questa espressione, in una accezione, osserva Gramsci, che voleva avere
“un valore”8 ancora “più sarcastico” di quella di “Stato carabiniere” o di “Stato
poliziotto” .
La riflessione di Gramsci prosegue menzionando le due principali concezioni
antagoniste allo Stato liberale affermatesi nell’Ottocento: quella di derivazione
filosofica-hegeliana dello “Stato etico”, centrata sulla “attività educativa e morale
dello Stato”, e quella “di origine economica” dello Stato interventista (o “intervenzionista”, secondo il lessico gramsciano), alimentata dalle diverse “correnti
protezioniste”, le stesse che saranno destinate a confluire, sul finire
dell’Ottocento e soprattutto nel primo Novecento, nei vari “nazionalismi economici”. Pur avendo matrici dottrinali diverse, “le due correnti” tendono comun-
7
Mussolini (1934, p. 26)
(corsivo a ggiunto); Somma
(2005 p. 526).
8
Non sia mo riusciti a individua re la fonte precisa
della meta fora dello “Sta to
gua rdia no not-turno”.
Gerra ta na rima nda a
La ssa lle (1903, p. 30). In
verità sembra che La ssa lle
si sia a vva lso di ta le espressione per qua lifica re in
modo dispregia tivo la concezione libera le dello Sta to
solo nel 1864, nella polemica intra presa con Schulze
de Delizsch sul ruolo delle
coopera tive (cfr., la tra duzione fra ncese del pa mphlet di La ssa lle, Monsieur
Ba stia t-Schulze de Delizsch,
le Julien de l’économie
politque). Un cenno a questa espressione (presente
a ddirittura nell’indice
somma rio del volume) si
trova nella storia del pensiero economico di riferimento per Gra msci, cioè
Gide e Rist (1909, p. 503).
(Gra msci disponeva in ca rcere della quinta edizione
dell’opera , pubblica ta nel
1929). Da segna la re il fa tto
che mentre nella prima stesura Gra msci poneva in
termini dubita tivi l’a ttribuzione a La ssa lle di ta le
espressione, nella riscrittura della nota , come vedremo, la cosa vie-ne a fferma ta in modo perentorio.
35
n.20 / 2008
9
Q. 5, §69, Nozioni enciclopediche, pp. 603-604.
10
Q. 26, §6, Lo Sta to “veilleur de nuit”, p. 2302.
36
que frequentemente a convergere, anche se, puntualizza Gramsci, “la cosa non
è necessaria”.
Nel quadro appena delineato è evidente che il favore degli economisti liberali
vada pressoché unanimemente “per lo Stato veilleur de nuit”, mentre più complesso appare l’orientamento dei filosofi, per alcuni dei quali, anche se di estrazione liberale, sono necessarie “distinzioni molto importanti”. Ancora più complesso risulta l’orientamento del cattolicesimo, vero e proprio Giano bifronte nei
confronti dello Stato: i cattolici infatti “vorrebbero lo Stato intervenzionista a loro
favore” ma nel caso questo non avvenga, uno “Stato indifferente, perché se lo
Stato non è favorevole, potrebbe aiutare i loro nemici”9.
La nota del Quaderno 5 appena descritta viene sensibilmente rielaborata da
Gramsci allorché decide di trascriverla anche nel Quaderno 26, in quella che è
probabilmente una delle sue ultime annotazioni. La nota non è più collocata
nella rubrica Nota zioni enciclopediche ma, a riprova del forte interesse per il
tema, posta espressamente sotto la voce Lo Sta to “veilleur de nuit”. Pur seguendo una articolazione degli argomenti che ricalca fedelmente quella della stesura
iniziale, la nota presenta varianti di assoluto rilievo. Gramsci sottolinea ora il fatto
come l’idea dello Stato minimo (“tutela dell’ordine pubblico” e “rispetto delle
leggi”) sia l’esito di un approccio “superficiale” al problema delle “funzioni dello
Stato”. Il limite maggiore deriva dall’ipotesi di una netta separazione tra società
civile e società politica oggetto, come noto, di un serio ripensamento da parte di
Gramsci. Allorché si parla di “Stato veilleur de nuit” – puntualizza l’autore dei
Qua derni – “non si insiste sul fatto che in questa forma di regime (che poi non
altro che, come ipotesi limite, sulla carta) la direzione dello sviluppo storico
appartiene alle forze private, alla società civile, che è anch’essa ‘Stato’, anzi è lo
Stato stesso”10. Siamo come si vede nel cuore della teoria politica gramsciana fondata su una concezione “allargata” dello Stato (Buci-Glucksmann 1976, p. 65;
Liguori 2006, pp. 13-29) i cui elementi costituivi sono ta nto la “società politica”
qua nto la “società civile” e su cui avremo modo di tornare. Per ora è necessario
focalizzare due decisivi elementi: 1) lo Stato minimo è una “ipotesi limite”, esistente solo astrattamente “sulla carta”; 2) lo Stato minimo è un “regime”, ossia
esito di una decisione politica.
Per quanto riguarda il discorso sulle correnti antagoniste a questa concezione
dello Stato, è interessante sottolineare il fatto che Gramsci rilevi l’emergere delle
prime embrionali forme di welfa re sta te che egli rubrica nella categoria del
paternalismo di Stato (oltre che di “classe”). Nella trascrizione definitiva, le concezioni alternative allo “Stato guardiano notturno” diventano pertanto tre: oltre
allo “Stato etico” e allo “Stato intervenzionista” si collocano i prodromi dello
Stato sociale esemplificati da Bismark e Disraeli, mentre continua a essere ritenuta ambigua e in qualche modo a sé stante la concezione dei cattolici. Citando
per esteso l’autore dei Qua derni , il quadro complessivo risulta pertanto così
articolato:
“Nella polemica (del resto superficiale) sulle funzioni dello Stato (e si intende
dello Stato come organizzazione politico-giuridica in senso stretto), l’espressione di Stato veilleur de nuit corrisponde all’italiano di “Stato carabiniere” e vorrebbe significare uno Stato le cui funzioni solo limitate alla tutela dell’ordine
pubblico e del rispetto delle leggi. Pare che l’espressione “veilleur de nuit” che
Terenzio Ma cca belli
La “grande trasformazione”
dovrebbe avere un valore più sarcastico di “Stato carabiniere” o di “Stato poliziotto”, sia di Lassalle. Il suo opposto dovrebbe essere lo “Stato etico” o lo “Stato
intervenzionista” in generale, ma ci sono differenze tra l’una e l’altra espressione: il concetto di Stato etico è di origine filosofica e intellettuale (propria degli
intellettuali: Hegel) e in verità potrebbe congiunta con quello di “Stato - veilleur
de nuit”, poiché si riferisce piuttosto all’attività, autonoma, educativa e morale
dello Stato laico in contrapposto al cosmopolitismo e all’ingerenza dell’organizzazione religioso-ecclesiasistica come residuo medioevale; il concetto di “Stato
intervenzionista” è di origine economica ed è connesso, da una parte, alle correnti protezionistiche o di nazionalismo economico e, dall’altra, al tentativo di far
assumere a un personale determinato, di origine terriera e feudale, la “protezione” delle classi lavoratrici contro gli eccessi del capitalismo (politica di Bismarck
e Disraeli). Queste diverse tendenze possono combinarsi in vario modo e di fatto
si sono combinate. Naturalmente i liberali [“economisti”] sono per lo “Stato veilleur de nuit” e vorrebbero che l’iniziativa storica fosse lasciata alla società
civile e alle diverse forze che vi pullulano con lo “Stato” guardiano della “lealtà
del gioco” e delle leggi di esso; gli intellettuali fanno distinzioni molto importanti
quando sono liberali e anche quando intervenzionisti (possono essere liberali
nel campo economico e intervenzionisti in quello culturale, ecc.). I cattolici vorrebbero lo Stato intervenzionista in loro completo favore; in mancanza di ciò, o
dove sono minoranza, domando lo Stato “indifferente”, perché non sostenga i
loro avversari11.”
Molto più complessa la seconda ricorrenza della metafora dello Stato “guardiano
notturno” che troviamo nel Quaderno 6 in un paragrafo di nuovo espressamente intitolato Sta to genda rme-gua rdia no notturno. La complessità del testo deriva dal fatto che non siamo di fronte a una annotazione di carattere esclusivamente descrittivo, ma anche e soprattutto progettuale, dove vengono enucleati
alcuni dei concetti cardine della teoria politica gramsciana. In questi due paragrafi emerge infatti non solo la nota questione del rapporto tra società civile e
società politica e la prospettiva di una riconciliazione delle due sfere nel contesto di un nuovo modello statuale di “società regolata”, ma anche e soprattutto
l’utopia di una possibile estinzione dello Stato grazie al completo dispiegarsi di
una società di eguali. Lo Stato “guardiano notturno” diventa allora, paradossalmente, la cornice per un nuovo modello di organizzazione sociale che superi le
aporie dello Stato “corporativo”, dove ancora permane la “confusione tra società civile e società politica”, e dove trovi pieno compimento il principio della
“libertà organica”12.
Su questo testo, così marcatamente orientato in senso progettuale, torneremo
nella parte finale di questo scritto. La nostra attenzione è per il momento rivolta
a vagliare i modi in cui Gramsci descrive lo caratteristiche dello Stato “guardiano-notturno”, partendo da un’analisi dei testi che discutono le condizioni storiche che ne hanno permesso l’ascesa. Tra queste, fondamentale, è proprio quella “scissione” tra politica ed economia che a lungo rimane l’orizzonte di riferimento dello stesso Gramsci.
Luogo privilegiato per affrontare la questione sono quelle note dei Qua derni
che vertono sulle condizioni “oggettive” o “strutturali” che hanno permesso la
nascita della scienza economica. Seppure non sempre in maniera esplicita, anche
11
Q. 26, §6, Lo Sta to
“veilleur de nuit”,
pp. 2302-2303.
12
Q. 6, §88, Sta to genda rme-gua rdia no notturno,
pp. 763-764.
37
n.20 / 2008
13
Q. 10, §57, Punti di medita zione sull’economia , pp.
1350-1351.
14
Q. 10, §57, Punti di medita zione sull’economia , p.
1350.
15
L’economia , come scienza , è sorta “nell’età moderna , qua ndo il diffondersi
del sistema ca pita listico ha
diffuso un tipo rela tiva mente omogeneo di uomo
economico, cioè ha crea to
le condi-zioni rea li per cui
un’a stra zione scientifica
diventa rela tiva mente
meno a rbitra ria e generica mente va cua di qua nto
fosse prima possibile” (Q.
10, §37, Punti di medita zione per lo studio dell’economia politica , pp. 12841285).
16
“I principi rica rdia ni [...]
sono connessi a l sorgere
della scienza economica
stessa , cioè a llo sviluppo
della borghesia come cla sse
‘concreta mente mondia le’
e a l forma rsi quindi di un
merca to mondia le già
a bba sta nza ‘denso’ di
movimenti complessi” da
cui “isola re e studia re delle
leggi di regola rità necessa rie” (Q. 10, §8,
Introduzione a llo studio
della filosofia . Imma nenza
specula tiva e imma nenza
storicistica o rea listica , pp.
1247-1248).
38
in questi passi il problema del rapporto tra Stato ed economia emerge in modo
significativo. Proponendo un approccio che di nuovo presenta notevoli affinità
con lo schema polaniano basato sulla distinzione tra economia “sostanziale” ed
economia “formale”, Gramsci distingue la “vita economica” dalla “scienza economica”. Il fatto che tutte le società abbiano avuto una propria specifica forma di
“vita economica” non comporta che tutte possano essere studiate utilizzando gli
schemi concettuali della scienza economica quale si è costituita da Smith in poi.
“Non è da credere – osserva Gramsci – che essendo sempre esistita una “vita economica” debba sempre essere esistita la possibilità di una “scienza economica”,
così come essendo sempre esistito un movimento degli astri è sempre esistita la
‘possibilità’ di un’astronomia, anche se gli astronomi si chiamavano astrologi13.”
Solo in una forma particolare l’economia “sostanziale” è stata oggetto di una
scienza. Per Gramsci, infatti, “prima dell’affermarsi della classe borghese” l’economia non si costituì come scienza, “non solo perchè mancavano gli scienziati,
ma perchè mancavano certe premesse che creavano quella certa ‘regolarità’ o
quel certo ‘automatismo’ il cui studio dà origine appunto alla ricerca scientifica”14. Con lo sviluppo e l’affermarsi delle relazioni mercantili, i fenomeni economici hanno assunto una dinamica propria, scorporata dalla sfera politica, e si
sono pertanto create le condizioni per l’emergere di una autonoma economia
“formale” (per prendere ancora a prestito la terminologia polaniana). In modo
molto schematico, possiamo dire che queste condizioni sono per Gramsci
sostanzialmente tre: 1) il diffondersi di un comportamento umano tipico e omogeneo sintetizzabile nella formula del cosiddetto “homo oeconomicus”15; 2) l’affermarsi di una rete di scambi su scala mondiale e il conseguente formarsi di
“regolarità” e “automatismi” nelle relazioni economiche16; 3) la scissione tra
società politica e società civile.
Quest’ultimo è naturalmente il punto chiave del nostro discorso e anche il più
complesso. Come abbiamo anticipato, Gramsci è rimasto infatti a lungo persuaso dall’idea che la “scissione tra economia e politica” sia una “intima necessità
della civiltà capitalistica”. Il fatto che questa scissione venga “problematizzata”
nei Qua derni , lascia aperto un interrogativo: siamo di fronte ad un radicale
mutamento di prospettiva, in sostanza la presa d’atto di un’errata valutazione
teorica, o invece, al riconoscimento di una trasformazione strutturale che però
non incrina il precedente giudizio storico? Come cercheremo d’argomentare, sia
l’uno che l’altra ipotesi sembrano avere un certo fondamento.
Appare infatti innegabile che anche agli occhi di Gramsci la definitiva affermazione dell’economia di mercato abbia coinciso con il consolidarsi di una concezione dello Stato come “guardiano notturno” che altro non è che l’altra faccia
della scissione tra politica ed economia. In un contesto di questo tipo, le teorie
economiche liberali e lo stesso marxismo hanno legittimamente postulato l’esistenza di uno spazio economico autonomo, retto da leggi proprie e in parte indipendenti dalla struttura giuridica statuale. Si tratta, per riprendere una celebre
citazione dei Qua derni , di una corretta distinzione “metodica” legittimata dal
concreto svolgimento degli avvenimenti storici. Su questo si basa tutta la riflessione degli economisti classici, che appunto potevano prescindere dallo Stato,
ben consci tuttavia che lo Stato è un componente essenziale del “mercato determinato”. Richiamandosi al solito Ricardo – come noto l’economista “classico”
Terenzio Ma cca belli
La “grande trasformazione”
per eccellenza dei Qua derni – Gramsci scrive che se “si studia […] l’ipotesi
“economica” pura, come Ricardo probabilmente intendeva fare, non occorre
prescindere dagli “Stati” (dico apposta “Stati”) e dal monopolio “legale” della
proprietà? […] Questo problema è legato allo stesso problema fondamentale
della scienza economica “pura” cioè alla ricerca e alla identificazione di ciò che è
il concetto e il fatto economico, indipendentemente dai concetti e fatti di spettanza delle altre scienze17.”
Gramsci evidentemente allude in questo brano alla possibilità che la scienza economica si separi legittimamente dalla scienza della politica o dalla filosofia morale, separazione che effettivamente è avvenuta con Ricardo, accelerando un processo che ancora all’epoca di Smith non era affatto scontato. Il concetto di Stato,
alla luce di questa svolta metodologica impressa da Ricardo, diventa per così dire
un dato esogeno, un “supposto che” dal quale l’economista può prescindere (il
che non significa però che “debba” dimenticarsene). Nella riscrittura del brano
appena citato, Gramsci elabora ulteriormente questo concetto, aggiungendo
puntualizzazioni di rilievo.
“Bisognerebbe studiare bene la teoria di Ricardo e specialmente la teoria di
Ricardo sullo Stato come agente economico, come la forza che tutela il diritto di
proprietà, cioè il monopolio dei mezzi di produzione. é certo che lo Stato ut sic
non produce la situazione economica, tuttavia si può parlare dello Stato come
agente economico in quanto appunto lo Stato è sinonimo di tale situazione”18.
Per esemplificare e per dare contenuto concreto alla propria riflessione, Gramsci
menziona il fenomeno delle Trade-Unions e i diversi rapporti di forza esistenti a
livello politico. é evidente che il “mercato determinato” di Ricardo scontava il
fatto che “i salariati non potevano coalizzarsi e far valere la forza della collettività
a ogni singolo individuo”, mentre i capitalisti potevano contare sulla “forza data
dall’insieme di una classe organizzata nello Stato, che aveva nel Parlamento la sua
Trade-Union”19. L’individuazione delle leggi che regolano il mercato del lavoro
erano dunque l’esito di questa situazione creata “politicamente”, ma assunta
come un dato esogeno dagli economisti. L’acutezza di Gramsci su questo punto
è notevole, ed è davvero un peccato che non abbia portato fino in fondo il proprio argomento ricordando come tutta la riflessione di Ricardo fosse finalizzata
all’abolizione delle “leggi dei grani”. Cos’erano queste se non una “situazione
economica” creata dallo Stato, grazie al prevalere in seno al parlamento britannico di rapporti di forza ancora favorevoli alla proprietà fondiaria? é difficile pensare a Ricardo come a un teorico dello Stato: ma la sua economica politica sta
tutta nell’aver mostrato comparativamente i diversi sentieri di sviluppo in presenza o meno di leggi restrittive sull’importazione di grano. Nel far questo egli
assumeva come dato esterno la scelta politica di abrogare o mantenere le leggi
sui grani, mostrando semplicemente le diverse “leggi di tendenza” che scaturivano dall’una o dall’altra situazione. Il suo metodo consisteva appunto nell’isolare il momento economico, ossia nella elaborazione di una teoria, come scrive
Gramsci, “risultante dalla riduzione della società economica alla pura ‘economicità’ cioè al massimo di determinazione del ‘libero gioco delle forze economiche’, in cui essendo l’ipotesi quella dell’homo oeconomicus non poteva non prescindersi dalla forza data dall’insieme di una classe organizzata nello Stato”20.
Da questi brani appare innegabile la legittimazione scientifica data da Gramsci
17
Q. 7, §42, Pa ra gone ellettico?, pp. 890-891.
18
Q. 10, §41, p. 1310.
19
Q. 10, § 41,
pp. 1310-1311.
20
Q. 10, §41, pp. 1310-1311.
39
n.20 / 2008
21
Proprio gra zie a questa
sepa ra zione Gra msci delinea nei Qua derni un’a na lisi socio-politica dello
Sta to non a ffa tto a ppia ttito
sull’idea di Sta to come
pure riflesso della struttura
economica o come “comita to d’a ffa ri” della borghesia . Sullo Sta to come “educa tore” e come strumento
di inte-gra zione socia le dei
ceti suba lterni, a spetto su
cui qui non ci soffermia mo, cfr. Fonta na (2002, pp.
157-178) e sopra ttutto A.
Burgio (2002), che nella
prima pa rte del volume si
sofferma sul modo in cui
Gra msci descrive l’a scesa
della borghesia , il nuovo
modello di Sta to che essa
inca rna e il nuovo a ssetto
della società e dell’economia europea emerse da lle
ceneri dell’ordine feuda le.
22
Q. 13, §18, Alcuni a spetti
teorici e pra tici dell’“economismo”, pp. 1589-1590.
La prima stesura di questo
bra no si trova in Q. 4, § 38,
Ra pporti tra strutture e
superstrutture, p. 460,.
23
Cfr. Texier (1988, p. 80).
In pa rte contra rio a questa
lettura Liguori (xxxx p.
211).
24
Q. 4, §38, Ra pporti tra
strutture e superstrutture,
p. 460; Q. 13, § 18, Alcuni
a spetti teorici e pra tici
dell’“economismo”, p. 1590.
Come noto per Gra msci il
sinda ca lismo teorico non è
che “un a spetto del liberismo economico giustifica to
con a lcune a fferma zioni
del ma teria lismo storico”
(Q. 4, §38, Ra pporti tra
strutture e superstrutture,
p. 461). In termini genera li,
la polemica di Gra msci è
perta nto genera lmente
rivolta contro quelle “posizioni che postula no, per
ra gioni politiche
40
alla separazione tra politica (o Stato) ed economia21. Anche il passo più volte citato dei Qua derni nel quale, sottolineando la natura “politica” del “libero mercato”, Gramsci sembrerebbe contraddire queste affermazioni, si presta in verità a
una lettura che non contrasta con quanto detto finora. Scrive l’autore dei
Qua derni che
“L’impostazione del movimento del libero scambio si basa su un errore teorico
di cui non è difficile identificare l’origine pratica: sulla distinzione cioè tra società politica e società civile, che da distinzione metodica viene fatta diventare ed è
presentata come distinzione organica. Così si afferma che l’attività economica è
propria della società civile e che lo Stato non deve intervenire nella sua regolamentazione. Ma siccome nella realtà effettuale società civile e Stato si identificano, è da fissare che anche il liberismo è una “regolamentazione” di carattere statale, introdotto e mantenuto per via legislativa e coercitiva: è un fatto di volontà
consapevole dei propri fini e non l’espressione spontanea automatica del fatto
economico. Pertanto il liberalismo è un programma politico destinato a mutare,
in quanto trionfa il personale dirigente di uno Stato e il programma economico
dello Stato stesso, cioè a mutare la distribuzione del reddito nazionale”22.
Molto si è discusso sul significato che avrebbe in questo brano il concetto di
“società civile”, schiacciato per alcuni sull’idea propria della tradizione liberista
di una “società economica” distinta dalla “società politica”23. é innegabile tuttavia
che agli occhi di Gramsci la scissione tra politica ed economia aveva una sua
legittimità metodologica nel momento di formazione e consolidamento del mercato capitalistico e che la stessa genesi della scienza economica sia avvenuta grazie a quella scissione. Da un certo momento la scienza economica è diventata
autonoma rispetto alla scienza politica, e questo ha fatto sì che la riflessione sullo
Stato venisse demandata a quest’ultimo campo del sapere. Questo non significa
che gli economisti classici – e su questo Gramsci continuerà a insistere, anche
nella polemica degli anni trenta su cui ci soffermeremo più avanti – ritenessero
irrilevante la funzione fondamentale dello Stato nel definire le condizioni del
“mercato determinato” attraverso la tutela dei diritti di proprietà. E che pertanto, mutamenti nei rapporti di forza politici avrebbero permesso mutamenti nel
problema fondamentale della scienza economica, ossia “la distribuzione del reddito nazionale”.
La legittimazione della separazione tra politica ed economica rimane comunque
soltanto “metodica” e non “organica”, che altrimenti avrebbe significato – come
nei fatti è avvenuto – una ipostatizzazione ad esempio del concetto di “libero
mercato”. Questo tipo di errore è proprio secondo Gramsci non solo del liberismo, ma anche del sindacalismo teorico e del materialismo meccanicistico volgare, indirizzi come noto accomunati nella “categoria dell’economismo”24.
In sostanza, descrivendo il liberalismo come una “regolamentazione statale”, non
diversa dal protezionismo o da qualsiasi altra forma di intervento statale (Texier
1988, p. 80), Gramsci sottolinea come lo sviluppo dell’economa di mercato non
sia stato affatto un processo spontaneo, quanto una scelta consapevole di natura politica. Questo non ha comunque impedito che la scienza economica si formasse assumendo come una dato esogeno il concetto di Stato e basasse le proprie argomentazioni sull’ipotesi astratta di una separazione tra mondo economico e mondo politico25. Questo processo – ed è qui la maggiore novità – non è
Terenzio Ma cca belli
La “grande trasformazione”
tuttavia ritenuto irreversibile. Al contrario, vi sono molti segnali che mostrano
come Gramsci maturi la convinzione che tale scissione sia da abbandonare
(anche dal punto di vista “metodico”). L’interesse con cui segue il dibattito tra
“corporativisti” ed economisti “puri” sul ruolo dello Stato è un primo segnale di
questo mutamento di prospettiva.
3. Il ruolo dello Stato nell’economia: il dibattito degli anni trenta
A partire dal 1930 il dibattito economico italiano è monopolizzato dalla sfida lanciata dai teorici del corporativismo contro la scienza economica ortodossa.
Nonostante alcuni tentativi eclettici di conciliare i due approcci26, l’atteggiamento dei corporativisti è infatti generalmente di netta contrapposizione rispetto
all’economia politica tradizionale (sia classica che neoclassica). Come noto, uno
dei principali motivi di contrasto riguarda proprio il giudizio sul ruolo dello Stato
nell’economia.
Uno degli esponenti più rappresentativi dell’indirizzo corporativo è senza dubbio Ugo Spirito. Filosofo di formazione e allievo di Gentile, Spirito fu protagonista tra la fine degli anni Venti e l’inizio del decennio successivo di uno “dei più
radicali e distruttivi attacchi che siano mai stati portati innanzi in Italia contro la
scienza economica e i suoi cultori” (Santomassimo 1973, p. 67). Spirito era fautore di un radicale rinnovamento della scienza economica da realizzarsi abbandonando, da una parte, i principi dell’homo oeconomicus e, dall’altra, la concezione agnostica dello Stato propria della tradizione liberale27. é significativo l’interesse con cui Gramsci segue il dibattito alimentato dalle critiche di Spirito
(Faucci 1990, p. 214), peraltro all’origine del suo crescente interesse per i temi
economici28. Numerose annotazioni dei Qua derni vertono su Spirito e sul suo
tentativo di declinare in modo affatto nuovo il concetto di Stato. é anzi probabile che proprio le provocazioni dell’allievo di Gentile abbiano giocato un ruolo
rilevante nel ripensamento compiuto da Gramsci sui rapporti tra Stato ed economia.
Gramsci appare attratto non solo dalla diatriba sulla legittimità della finzione dell’homo oeconomicus, ma anche e soprattutto dalla celebre polemica sul ruolo
dello Stato nell’economia29. Dopo avere ferocemente attaccato le premesse individualistiche della scienza economica, la critica di Spirito si era infatti concentrata sulla netta separazione tra Stato e individuo postulata dagli economisti liberali. Ai suoi occhi, era propria questa separazione l’elemento distintivo dell’intera
tradizione liberal-liberista. Osserva Spirito che “liberale […] è chi ritiene l’individuo in tutto o in parte estraneo all’organismo statale e perciò soggetto di alcune azioni economiche estranee ai fini dello Stato: liberale, in altri termini, è
chiunque non giunga all’identificazione di individuo e Stato. In tale senso è chiaro che nessuno degli economisti [ortodossi] può sfuggire alla critica da me fatta”
(Spirito 1930, p. 195).
Il giudizio di Gramsci su queste declamazioni di Spirito è come noto di totale discredito. A essere prese di mira sono gli stessi presupposti filosofici da cui muove
Spirito nel proprio tentativo di ridefinizione del concetto di Stato. In una nota
del Qua derno 6, intitolata Pa ssa to e presente, Gramsci scrive infatti che:
“la concezione dello Stato nello Spirito non è molto chiara e rigorosa. Talvolta
(i liberisti) o per a bba gli
teorici (i sinda ca listi), il
dogma indiscutibile dell’a ssoluta e obiettiva a utonomia della sfera dell’economia , refra tta ria , per principio o costituzione na tura le, a qua lsia si intervento
regola tore da pa rte della
società politica . Su questo
fronte la critica di Gra msci
si scinde in due momenti:
l’uno orienta to a confuta re
la tesi dell’inopportunità o
dell’illiceità dell’ingerenza
della politica negli a ffa ri
dell’economia ; l’a ltro, più
in genera le, volto a contesta re la tesi che nega la
possibilità (e a fferma l’inutilità ) di ogni incidenza
della sovra struttura (dell’a zione soggettiva ) nei
confronti della struttura
economica . La polemica si
sviluppa , quindi, da un
la to in chia ve a nti-ca pita listica e, da ll’a ltro, in chia ve
a ntimecca nicistica ” (Mura
1990, p. 79).
25
Specula re a l nostro a rgomento è la rivendica zione
dell’a utonomia della “politica ”, come noto ispira ta
da lla lettura di
Ma cchia velli, la qua le,
come sottolinea Femia ,
“ma nifests its own principles a nd tendencies distinct
from those of economics”
(Femia 1983, pp. 337 e
355).
26
Come quelli, a d esempio,
di Filippo Ca rli o di
Ma ssimo Fovel.
27
Sulla figura di Spirito,
oltre a l la voro di
Sa ntoma ssimo già cita to,
cfr. La na ro (1971, pp. 57799); Perri e Pescia relli
(1990, pp. 415-458).
28
Riprendo nel seguito
a lcuni a spetti già discussi
in T. Ma cca belli (1998).
41
n.20 / 2008
29
Su questa polemica , cfr.
Fa ucci (1986, pp. 269-272);
Sa ntoma ssino (1973, cit.,
pp. 100-101); Ca va lieri
(1994, pp. 33-35).
30
Q. 6, §82 Pa ssa to e presente, p. 754.
31
“L’esclusione da lle ma terie economiche, a lmeno
da l punto di vista a cca demico, sa rebbe dura ta fino
a l 1928, qua ndo fu chia ma to a d a ssumere la ca ttedra di economia politica
a lla Sa pienza di Roma . Le
circosta nze nelle qua li era
ma tura to l’a vvicenda mento la scia va no supporre che
il regime volesse fa r occupa re il posto a uno studioso più vicino a lle proprie
esigenze rispetto a l liberista Ricci. Nella prolusione
a l corso, letta il 12 genna io
1929 e incentra ta sugli
effetti della diversa dota zione di fa ttori nello sca mbio, dopo a ver brevemente
fa tto cenno a lle circosta nze del suo ritorno ma
sopra ttutto del suo a llonta na mento da gli studi economici, ria fferma va decisa mente, a dista nza di un
trentennio, tutti i ca pisa ldi
del proprio qua dro interpreta tivo” (F. Bientinesi).
32
Sta to che a ppunto, continua va Benini, è “un produttore continuo di beni,
servizi e ordina -menti
a venti ca ra ttere di stretta
complementa rità coi beni,
servizi e ordina menti dell’inizia tiva priva ta ”
(Benini 1930, cit.,
pp. 134-135).
33
Nel fa moso sa ggio del
1901, Pa nta leoni discuteva
proprio la meta fora a ttorno a cui si era a nda ta consolida ndo, nel corso
dell’Ottocento, la tra dizione del socia lismo libera le:
l’imma gine della corsa
42
sembra sostenga addirittura che prima che egli diventasse “la filosofia”, nessuno
abbia capito nulla dello Stato e lo Stato non sia esistito o non fosse un “vero”
Stato ecc. ma siccome vuol essere storicista, quando se ne ricorda, ammette che
anche nel passato sia esistito lo Stato, ma che ormai tutto è cambiato o lo Stato
(o il concetto dello Stato) è stato approfondito e posto su “ben altre” basi speculative che nel passato e poiché “quanto più una scienza è speculativa tanto più
è pratica”, così pare che queste basi speculative debbano ipso facto diventare
basi pratiche e tutta la costruzione reale dello Stato mutare perché lo Spirito ne
ha mutato le basi speculative (naturalmente non lo Spirito uomo empirico, ma
Ugo Spirito-Filosofia)”30.
Se questi erano i fondamenti della critica di Spirito, per Gramsci era del tutto
legittimo il silenzio mantenuto fino a quel momento dagli economisti. Spirito
riuscì comunque ad alimentare un dibattito che entrò nel vivo con gli interventi
di Rodolfo Benini e Luigi Einaudi, che accettarono di discutere le questioni poste
sul tappeto dall’allievo di Gentile (Faucci 1990, pp. 214-5). Con i loro interventi
essi contribuirono peraltro a delineare con più precisione i diversi fronti dottrinali. Spettava evidentemente a Einaudi la difesa d’ufficio “dei principi sommi”
(Santomassimo 1973, p. 97) della scienza economica d’impronta liberale, mentre
in una posizione più difficilmente collocabile si poneva Benini. Già protagonista
sul finire dell’Ottocento del dibattito protezionismo-liberismo, Benini aveva poi
abbandonato la teoria economica, per dedicarsi alla statistica e alla demografia.
Nel 1928 rientra però tra i ranghi degli economisti, subentrando alla cattedra di
Umberto Ricci. Sin dagli esordi, l’approccio dello studioso cremonese alla scienza economica si era rivelato molto distante dai canoni dell’ortodossia marginalista; il corporativismo non poteva che essere un approdo naturale per la sua economia politica31. Come lo stesso Gramsci avrà modo di sottolineare, la posizione
di Benini è tuttavia abbastanza peculiare: certamente contrario al marginalismo
e al liberismo, lo studioso cremonese rimane comunque non facilmente inquadrabile anche nel panorama del corporativismo.
L’intervento di Benini, come egli stesso riconosce, è principalmente dovuto alla
sollecitazione di Spirito affinché egli prenda posizione nel dibattito. Ma l’economista cremonese è costretto a riconoscere di non avere ancora maturato una
idea compiuta sull’argomento. Accetta comunque di intervenire, riconoscendo
un fondamento reale alle questioni sollevate da Spirito e condannando il silenzio fino ad ora mantenuto da molti economisti. La celebre affermazione di Benini
è che l’economia era ancora una “mezza scienza” per non essere riuscita a ricomprendere nelle sue premesse, per una sorta di “ripugnanza” di32molti suoi cultori, “il concetto dello Stato, quale fattore della produzione” . E soprattutto,
aggiungeva Benini, l’economia si è fermata a metà strada per aver trascurato il
fatto che lo Stato è il principale regolare delle diverse forze economiche dei contraenti, l’istituzione cioè che sancisce, per usare le parole di Pantaleoni, le decisive “posizioni iniziali”33 dei soggetti economici.
“Tutti veniamo al mondo con un patrimonio ereditato, – scrive Benini – che può
variare da zero a qualche miliardo di nostra moneta; ci presentiamo alla carriera
della vita, come ad una gara di corsa, movendo da posizioni iniziali vantaggiose
o svantaggiose. La distribuzione dei corridori posti in partenza diversamente
avanzati rispetto al traguardo, non è peranco entrata nelle regole “sportive” ma
Terenzio Ma cca belli
La “grande trasformazione”
certamente fa regola nel mondo economico. Anzi, il primo capitolo da scrivere
in Economia – dopo la definizione e un po’ di nomenclatura – dovrebb’essere
proprio quello delle posizioni iniziali più o meno avanzate (leggasi: distribuzione più o meno equa della proprietà ) che la sorte e la legge ci assegnano al
nostro nascere, perché da esse dipendono molte cose: educazione d’ambiente,
modi di sentire riguardo al valore dei beni e dei servigi, professioni preferite,
capacità di resistenza nei contratti, possibilità (grazie al diritto successorio e al
fenomeno dell’interesse del capitale) di far vivere una discendenza “infinita” su
una quantità “finita” di ricchezza. E così via. Ond’è con meraviglia che vediamo
gran parte degli economisti e l’autore stesso della felice similitudine “posizioni
iniziali” relegare la premesse in capitoli terminali dell’insegnamento o in separata sede; insomma fare dell’Economia teorica una costruzione senza la chiave di
volta, che le è necessaria per reggersi in piedi in tutta la sua interezza” (Benini
1930, p. 137).
Benini declinava in questo brano uno degli argomenti topici dell’intera tradizione del socialismo liberale, da Mill in poi caratterizzata dall’enfasi posta sulla disuguale distribuzione iniziale delle risorse economiche come condizione d’ingiustizia palese dell’economia capitalista (“ingiustizia” in senso liberale prima ancora che socialista). Nonostante i trascorsi “radicali” di inizio secolo, Benini non
pare in verità avere mai tradotto in chiave “politica” il proprio giudizio sulle disuguali posizioni alimentate dall’eredità patrimoniale, come invece avevano fatto,
ad esempio, autori come Eugenio Rignano (1901) all’inizio secolo o Carlo
Rosselli nei primi scritti economici e negli scritti dell’esilio. Il giudizio non è
comunque estemporaneo, in quanto destinato a diventare una delle architravi
dell’economia politica di Benini. L’idea su cui egli continuamente insisterà è che
gli economisti liberali non abbiamo mai saputo dare una adeguata collocazione
al problema della disuguaglianza di condizioni iniziali dei soggetti economici, tra
le fonti principali delle disuguaglianze che si riproducono in ambito capitalistico.
é certamente interessante il fatto che né Spirito34 né Einaudi35 si soffermino nelle
rispettive repliche su questo passaggio, colto invece da Gramsci in tutte le sue
potenzialità.
Nel commentare il dibattito, l’autore dei Qua derni cominciava innanzitutto sottolineando la sterilità della polemica. A pregiudicare il dialogo il fatto che gli economisti (nel caso specifico Einuadi) e Spirito “si riferiscono a cose diverse e
usano linguaggi diversi”. Gli economisti, quando parlano dello Stato, pensano
“all’intervento governativo nei fatti economici” da due punti di vista: in primo
luogo “come regolatore ‘giuridico’ del mercato, cioè come la forza che dà al mercato determinato la forma legale, in cui tutti gli agenti economici si muovono a
‘parità di condizioni giuridiche’”; in secondo luogo “all’intervento governativo
come creatore di privilegi economici, come perturbatore della concorrenza a
favore di determinati gruppi”. Su un piano completamente differente si muove
Spirito, il quale non ha altro punto di riferimento che la sua immagine “speculativa dello Stato, per cui l’individuo si identifica con lo Stato”36. Se questa è la fondamentale “radice del dissenso”37 è impossibile che da essa possa scaturire un
dialogo costruttivo38.
Gramsci appare invece attratto dalle argomentazioni di Benini. Al dialogo tra
sordi tra Spirito e Einaudi è sfuggito infatti “un terzo aspetto” del problema che
“equa ”, cioè delle condizioni a ffinché la concorrenza
economica possa svolgersi
se-condo le stesse moda lità
delle competizioni sportive.
Egli tra duceva il problema
a vva lendosi dei concetti di
“posizioni inizia li” e “posizioni termina li” (cfr.
Pa nta leoni xxxx, pp. 333355). Pur ra f-figura ndo il
problema negli stessi termini dei socia listi libera li,
Pa nta leoni conda nna va
tutta via in modo perentorio l’idea le dell’ugua glia nza di condizioni inizia li.
34
Nella propria replica
Spirito si limita va a d osserva re che l’economia politica “non è ‘mezza scienza
nel significa to dimensivo
dei termini’, va le a dire nel
senso di essersi occupa ta
dell’individuo (una delle
componenti) e non dello
Sta to (l’a ltra componente),
ma mezza proprio nel
significa to deteriore di
scienza fonda ta su premesse erronee, e propria mente
sull’iposta si di un individuo e di uno Sta to inconcepibili”. Benini viene rimprovera to di ra giona re
a ncora secondo i preconcetti della scienza economica tra diziona le e di non
a vere compreso la necessità impellente di una sua
ra dica le rifonda zione.
Anche integra ndo il ra giona mento economico con
l’ipotesi dello Sta to produttore – continua va Spirito –
si rima rrebbe pur sempre
a ll’interno di una concezione dua listica
dell’individuo e dello Sta to.
La costruzione del nuovo
a ppa ra to teorico deve
invece pre-supporre
“l’immedesima zione a ssoluta della vita dello Sta to
con quella dell’individuo”,
unico “criterio” entro cui
muoversi per una rea le
“riforma della scienza
43
n.20 / 2008
economica ” (U. Spirito
1930, p. 148).
35
L’intervento di Eina udi
a ppa re detta to da l desiderio di rispondere a Benini
più che da lle provoca zioni
di Spirito. Einua di infa tti
dedica a mpio spa zio del
proprio intervento per controba tte-re a ll’idea che tra
gli economisti vi sia sta ta
una “ripugna nza ” nei confronti del concetto di “Sta to
produttore”. Secondo l’economista torinese, da Smith
in poi “a nche i liberisti più
impertinenti” si sono occupa ti delle “funzioni economiche a llo Sta to” (R.
Fa ucci 1986, p. 271). L’idea
di un pregiudizio a ntista ta listico degli economisti,
proviene, secondo Eina udi,
da lla forma in cui era no
scritti molti ma nua li di storia del pensiero economico: pa rla ndo di interventisti, protezionisti, liberisti,
ecc., questi storici “ha nno
imma gina to di fa re una
storia delle dottrine economiche ed ha nno invece
scritto una storia dell’influenza che le idee filosofiche correnti e le circosta nze politiche, economiche
socia li esercita no sul pensiero degli economisti” (L.
Eina udi 1930, pp. 160-168).
Nessuno rilievo invece da
pa rte di Eina udi sulla questione principa le solleva ta
da Benini, ossia sul fa tto
che l’economia a bbia eluso
il problema della “posizioni inizia li” dei soggetti economici. Forse memore di
questa polemica , Eina udi
dedi-cherà invece a mpio
spa zio a l tema della disugua glia nza dei punti di
pa rtenza nelle Lezioni di
eco-nomia socia le, tenute
negli a nni dell’esilio e pubblica te nel 1944.
36
Q. 10, §20 Punti per lo
studio dell’economia , pp.
1257-1258.
44
Benini diversamente è riuscito a cogliere con precisione:
è quello per cui, identificandosi lo Stato con un gruppo sociale, l’intervento statale non solo avviene nel modo accennato dall’Einaudi, o nel modo voluto dallo
Spirito, ma è una condizione preliminare di ogni attività economica collettiva, è
un elemento del mercato determinato, se non addirittura lo stesso mercato
determinato, poiché è la stessa espressione politica-giuridica del fatto per cui
una determinata merce (il lavoro) è preliminarmente deprezzata, è messa in condizioni di inferiorità competitiva, e paga per tutto il sistema determinato. Questo
punto è messo in luce dal Benini, e non si tratta certo di una scoperta; ma è interessante che il Benini vi sia giunto e in che modo vi è giunto. Poiché il Benini vi
è giunto partendo da principi dell’economia classica, ciò che appunto irrita
l’Einaudi39.
Gramsci sembra quindi apprezzare il tentativo compiuto da Benini di criticare la
scienza economica dall’interno, muovendo cioè dai suoi stessi presupposti
metodologici. Secondo l’autore dei Qua derni l’economista cremonese, nel sottolineare l’asimmetria dei rapporti di forza tra i soggetti economici, è riuscito a
mettere opportunamente in evidenza la funzione dello Stato come “condizione
preliminare di ogni attività economica collettiva”, cioè il suo ruolo decisivo nel
rafforzare, ad esempio attraverso la legittimazione dei passaggi d’eredità, la
riproduzione di radicali disuguaglianze nei punti di partenza degli individui. Ma
soprattutto, sottolinea Gramsci, il risultato è tanto più importante tenendo conto
che Benini “vi è giunto partendo dai principi dell’economia classica”. Se Spirito
non è riuscito a comprendere che “l’economia classica” è la sola “storicista”, nonostante “l’apparenza delle sue astrazioni e del suo linguaggio matematico”40 a
Benini va dato atto, invece, di aver compreso come anche gli strumenti e i concetti dell’economia politica classica siano in grado di assumere la funzione dello
Stato all’interno del ragionamento economico, quale soggetto appunto che
“interviene in ogni momento nella vita economica”. Un risultato di cui gli economisti classici erano perfettamente consci, se non altro per aver espressamente riconosciuto che nel mercato capitalistico “ogni forma di proprietà è legata
allo Stato” e che i meccanismi del mercato sono costituiti da “un tessuto continuo di passaggi di proprietà”41.
Probabilmente Gramsci non aveva sottomano la Ricchezza delle Na zioni , che
avrebbe permesso ampi riscontri alle proprie convinzioni. Come noto, infatti,
Smith scriveva che “il governo civile, in quanto viene instaurato per la sicurezza
della proprietà, viene in realtà instaurato per la difesa dei ricchi contro i poveri,
cioè di coloro che hanno qualche proprietà conto coloro che non ne hanno nessuna” (Smith 1976, p. 707), un’affermazione che collima perfettamente con le
riflessioni dell’autore dei Qua derni . Anche agli occhi di Gramsci, in sostanza,
l’intervento dello Stato non si manifesta “soltanto nella attribuzione di privilegi
economici, e soprattutto non si riduce a questa struttura giuridico-legale che è il
correlato dello scambio di merci e che assicura il principio di uno scambio ‘uguale’. Questa struttura giuridica è reale, ma non deve far dimenticare che lo Stato,
essendo la forza organizzata di un gruppo sociale, non si contenta di garantire
questa parità giuridico-formale fra coloro che scambiano, ma anche il monopolio delle condizioni oggettive della produzione (proprietà privata capitalistica).
Lo scambio di merci nella società capitalistica è anche e soprattutto rapporto
Terenzio Ma cca belli
La “grande trasformazione”
salariale capitalista. é ciò che Benini ha messo in luce nel linguaggio dell’economia politica classica” (Texier 1988, p. 19).
Indubbiamente queste considerazioni rivelano una maggiore complessità rispetto alla formula della scissione tra politica ed economia postulata dal giovane
Gramsci. Non ne incrinano tuttavia in modo radicale la sostanza: esse sono in
qualche modo il presupposto, spesso dimenticato, della scissione tra politica ed
economia realizzata dalla rivoluzione capitalista, da cui tuttavia si è potuto in
larga parte prescindere in quanto la dinamica della società civile (nel senso della
struttura economica) ha guadagnato una propria autonomia grazie proprio a
quella cornice giuridica che ha garantito la tutela dei diritti di proprietà e una
sorta di neutralità (per quanto fittizia) dello Stato. La riflessione di Gramsci appare tuttavia fare un passo ulteriore, andando nella direzione di una maggiore consapevolezza del fatto che effettivamente qualcosa è cambiato nei rapporti tra
Stato ed economia.
4. La crisi delle economie liberali
Il tema della “crisi” è come noto centrale nell’elaborazione teorica dei Qua derni .
Di particolare rilievo ai fini del nostro discorso il fatto che la riflessione sulla crisi
spinga l’autore dei Qua derni a porre su basi affatto nuove il problema dei rapporti tra Stato ed economia. Dietro la discussione tra Spirito, Einaudi e Benini
sulla funzione dello Stato si cela in effetti a parere di Gramsci uno dei più profondi mutamenti che stanno attraversando le società capitalistiche occidentali.
La guerra prima, e la crisi economica poi, hanno definitivamente rotto i fragili
equilibri dell’economia liberale ottocentesca. La “grande trasformazione”, per
riprendere la formula di Polaniy, sta ridisegnando i confini tra “politica” ed “economia”. Quanto è in gioco è la rottura dei meccanismi di autoregolazione del
mercato che avevano sorretto gli equilibri economici e politici nel corso di tutto
l’Ottocento. La diagnosi di Gramsci non è per questo meno radicale di quella
avanzata dallo studioso ungherese: la civiltà del diciannovesimo secolo è di fronte a una “crisi” che affonda le sue radici nell’allentarsi della forza del mercato
autoregolato come chiave di volta del sistema istituzionale (Polanyi 1974).
Il primo aspetto da mettere in evidenza, per entrare nel vivo della riflessione
gramsciana, è il giudizio sulla radicalità del cambiamento in atto. Siamo cioè di
fronte a una nuova fase nella storia delle società industriali dovuta al coagularsi
di una serie di problemi che risalgono al secolo precedente ma che il primo conflitto mondiale contribuisce ad amplificare:
“[...] la guerra del 1914-1918 rappresenta una frattura storica, nel senso che tutta
una serie di questioni, che molecolarmente si accumulavano prima del 1914,
hanno fatto mucchio, modificando la struttura generale del processo precedente: basti pensare all’importanza assunta dal fenomeno sindacale, termine generale in cui si assommano diversi problemi e processi di sviluppo di diversa importanza e significato (parlamentarismo, organizzazione industriale, democrazia,
liberismo), ma anche obiettivamente riflette il fatto che una nuova forza sociale
si è costituita, ha un peso non più trascurabile, ecc.”42.
Dal punto di vista politico e sociale, i motivi della crisi rimandano essenzialmente all’esaurirsi della funzione propulsiva della democrazia borghese (o liberale).
37
Q. 6, §82 Pa ssa to e presente, p. 753.
38
Un’osserva zione che
coglie con precisione lo
sta to d’a nimo dello stesso
Eina udi, se è vero che poco
tempo dopo scriverà a
Benedetto Croce di essersi
pentito di a ver pa rtecipa to
a una pole-mica che non
poteva trova re un comune
terreno di confronto e di
dia logo (Fa ucci 1986, p.
272).
39
Q. 10, §20 Punti per lo
studio dell’economia ,
p. 1258.
40
Q. 8, §216, Noterelle di
economia . Ugo Spirito e C.,
p. 1077.
41
42
Q. 6, §10 Pa ssa to e presente, p. 692.
Q. 15, §59, Risorgimento
ita lia no, p. 1824.
45
n.20 / 2008
43
Come noto Gra msci
a vvia nei Qua derni una
riela bora zione del lessico
politico proprio a lla luce
delle tra sforma zioni struttura li a vvenute sul terreno
dell’economia . Come sottolinea Burgio, “la porta ta
dei muta menti del qua dro
socia le e politico prodotti
da lla modernizza zione è
ta le da ri-chiedere un ra dica le ripensa mento della
strumenta zione a na litica
tra diziona le” (Burgio 2002,
p. 34).
44
M. Telò, Gra msci e il
nuovo ca pita lismo, “Critica
ma rxista ”, n. 6, 1987, pp.
82-83.
46
La lettura gramsciana in chiave progressiva dello Stato emerso dopo la rivoluzione industriale è stata sottolineata da Alberto Bugio, il quale ha tuttavia mostrato
come agli occhi di Gramsci questo stesso “Stato” sia entrano successivamente in
una fase involutiva. Tale dinamica regressiva ha assunto principalmente la forma
di una “chiusura castale”, una delle principali cause della “crisi organica” delineata da Gramsci (Burgio 2002, pp. 136-7). Ciò si è tradotto in una miscela esplosiva con lo scoppio della grande guerra. Dal punto di vista economico, invece, la
diagnosi di Gramsci fa leva essenzialmente sulla dinamica del saggio di profitto e
sulle trasformazioni organizzative del capitalismo avanzato, aspetti questi che
discuteremo più in dettaglio nel prossimo paragrafo.
L’aspetto che ora vorremmo sottolineare è l’immagine generale della crisi che
Gramsci ci trasmette, che appare essere comune ad autori molto diversi tra loro:
non solo Karl Polanyi, ma ad esempio Oswald Spengler, o il teorico dei cicli economici Kondrat’ev o ancora “le riflessioni di Trockij sulla dinamica delle rivoluzioni europee”. “Non è un caso se proprio alla fine della Prima guerra mondiale
vede la luce una serie di lavori che annunciano l’epilogo della civiltà occidentale, analizzano la sincronia tra un’‘onda lunga’ dell’economia capitalista e la guerra, o annunciano un nuovo ciclo di rivoluzioni” (Traverso 2007, p. 45). Gramsci
abbandonerà presto la visione “catastrofista” di queste dinamiche, elaborando
un nuovo apparato concettuale attraverso il quale leggere le risposte messe in
campo dalle società occidentali per far fronte a questi problemi (naturalmente
alla luce del fallimento della rivoluzione socialista)43. Rimane comunque il fatto
che anche agli occhi di Gramsci nella prima guerra mondiale si “condensino” una
serie di mutamenti dirompenti “le cui premesse si sono accumulate, nella lunga
durata, nel corso del secolo precedente” (Traverso 2007, p. 44).
Come è stato osservato, nei Qua derni il fenomeno delle “crisi economiche” viene
in effetti ricompresso “nel concetto più generale di ‘crisi storiche’” (Rossi e Vacca
2007, p. 132). Pur non sottovalutando la depressione scoppiata col grande crollo
del 1929, egli ritiene che questa sia una manifestazione aggravata di una fase critica delle società capitalistiche già evidente, nei suoi tratti salienti, con la guerra
mondiale e il primo dopoguerra44. La crisi del 1929 non è pertanto interpretabile
nell’ambito delle tradizionali concezioni cicliche della dinamica capitalistica, cioè
come congiuntura negativa superabile lasciando operare le stesse leggi del mercato. Gli avvenimenti degli anni trenta sono la testimonianza di una trasformazione ben più radicale, un processo irreversibile di cui è riduttivo porre l’inizio nel
“crack” del 1929. In una nota del 1933, discutendo appunto le interpretazioni
della crisi, Gramsci pone espressamente il quesito “Quando è cominciata la crisi?”:
“Si può dire che della crisi come tale non vi è data d’inizio, ma solo di alcune
“manifestazioni” più clamorose che vengono identificate con la crisi, erroneamente e tendenziosamente. L’autunno del 1929 col crack della borsa di New
York è per alcuni l’inizio della crisi e si capisce per quelli che nell’americanismo
vogliono trovare l’origine e la causa della crisi. Ma gli eventi dell’autunno 1929 in
America sono appunto una delle clamorose manifestazioni dello svolgimento critico, nient’altro. Tutto il dopoguerra è in crisi, con tentativi di ovviarla, che volta
a volta hanno fortuna in questo o quel paese, nient’altro” (Q. 15, 95, Passato e
presente. La crisi, p. 1755- 1756).
Gli anni tra le due guerre sono quindi per Gramsci un periodo di crisi di lunga
Terenzio Ma cca belli
La “grande trasformazione”
durata. Ed è questo il motivo per cui egli ricorre alla categoria di “crisi organica”
(o storica) criticando in modo severo i teorici della “crisi congiunturale”. La
depressione degli anni trenta non è unicamente dovuta alla crisi economica, per
quanto grave, ma rimanda a una dinamica “ben più antica, duratura e strutturale rispetto ai caratteri congiunturali della crisi del 1929” (Baratta 1987, p. 27).
Proprio per questi motivi, l’anacronismo della scienza economica ortodossa si
manifesta in tutta la sua gravità. A parere di Gramsci quasi tutti gli economisti di
estrazione liberale hanno sottovalutato la radicalità del cambiamento in atto. A
essere prese di mira sono soprattutto le diagnosi di Einaudi45, il quale non è
riuscito a “cogliere i fattori di mutamento del ‘mercato determinato’”, ed è arrivato a confondere “i parametri con le variabili in movimento. Di qui l’erroneità
delle sue diagnosi della crisi (le sue riflessioni sul tema ‘suonano come arguzie
da rammollito’) e l’insufficienza delle terapie da lui caldeggiate”:
“Einaudi ristampa brani di economisti di un secolo fa e non si accorge che il
“mercato” è cambiato, che i “supposto che” non sono più quelli. La produzione
internazionale si è sviluppata su tale scala e il mercato è talmente divenuto complesso, che certi ragionamenti appaiono infantili […] Einaudi non tiene conto
che sempre più la vita economica si è venuta incardinando su una serie di produzioni di grande massa e queste sono in crisi: controllare questa crisi è impossibile appunto per la sua ampiezza e profondità, giunta a tale misura che la quantità diviene qualità, cioè crisi orga nica e non più di congiuntura . Einaudi fa
ragionamenti appropriati per le crisi di congiuntura, perché vuol negare che esista una crisi organica, ma questa è “politica immediata”, non analisi scientifica, è
“volontà di credere”, “medicina per le anime” e ancora esercitata in modo puerile e comico”46.
Decisivo dunque il concetto che attraversa l’intera riflessione economica di
Gramsci, ossia il concetto di “mercato determinato”. E il mercato determinato
non è più quello prevalentemente concorrenziale del XIX secolo ma è diventato
quello oligopolistico e su grande scala della seconda rivoluzione industriale,
dove la chandleriana “mano visibile” ha sostituito la smithiana “mano invisibile”
(Chandler 1977); inoltre lo Stato non è più il “guardiano notturno” che vigila solo
per la tutela dei diritti di proprietà, ma è diventato un elemento che condiziona
fortemente lo svolgimento stesso dell’economia.
45
Cfr. Fa ucci (1986, p. 278).
Ricordia mo che per
Eina udi la crisi na sce da i
cicli economici, che possono essere di lungo periodo
(dovuti essenzia lmente a
fa ttori moneta ri) o di breve
periodo (dovuti a gli errori
previsiona li degli a genti
economici). Questi ultimi
si risolvono la scia ndo libero sfogo a lle forze di merca to, ed è a ppunto questa
la ricetta riba dita da
Eina udi per la crisi degli
a nni trenta (Fa ucci 1986,
pp. 251-252).
46
Q. 8, §216 Noterelle di
economia . Ugo Spirito e C,
pp. 1077-1078.
5. La risposta economica alla crisi: il “fordismo” come innovazione di
processo
Nel quadro di questo giudizio storico sulla crisi che attraversa le economie di
tutti i paesi industriali, Gramsci avvia la riflessione sul fordismo e sul taylorismo,
intesi come modelli di razionalizzazione dei metodi di lavoro il cui obiettivo è
appunto quello di superare la fase critica sopra delineata47. Ed è di rilievo l’abbozzo di analisi economica che Gramsci sviluppa nei Qua derni per spiegare il
fenomeno.
Quale che sia il significato che si vuole dare al termine economia , non si può
negare che le note del celebre Qua derno 22, intitolato America nismo e fordismo, costituiscono una prova esemplare dell’importanza attribuita da Gramsci
allo studio dei fatti economici, nonché della loro rilevanza come momenti con-
47
Riprendo qui a lcuni
punti presenti in M. Guidi,
T. Ma cca belli, 1999.
47
n.20 / 2008
48
49
(Dubla 1989, p. 71.)
Q. 15, §5, Pa ssa to e
presente. La crisi, p. 1756.
48
dizionanti la vita associata e civile. Come è noto, al centro delle riflessioni di
America nismo e fordismo troviamo il tentativo di interpretare i processi di riorganizzazione del lavoro in atto nelle società industriali più avanzate (“fordismo”)
nell’ottica delle trasformazioni sociali ed umane imposte dalla razionalizzazione
del mondo industriale (“americanismo”)48.
Gramsci prende in esame il fenomeno nelle sue più diverse manifestazioni, partendo dai problemi interni alla fabbrica, discutendo le ripercussioni sociali, sottolineando i mutamenti istituzionali (in particolare sul piano dei rapporti tra politica ed economia), per arrivare infine a interrogarsi sul nuovo ruolo egemonico
a livello internazionale degli Stati Uniti. Sul piano aziendale l’impronta del fordismo è data dalla crescente meccanizzazione del processo produttivo e dalla conseguente organizzazione scientifica del lavoro (quella ad esempio realizzata con
il sistema “Taylor”, una delle prime soluzioni scientifiche espressamente finalizzate alla razionalizzazione produttiva). Dirette conseguenze di tali soluzioni organizzative sono il rigido modello piramidale e gerarchico imposto dalla nuova
divisione del lavoro nonché il crescente distacco dell’operaio dalla produzione,
fenomeno quest’ultimo dovuto a una esasperata parcellizzazione delle operazioni che annulla qualsiasi possibilità di controllo del lavoratore. A fronte della rigida disciplina cui l’operaio va sempre più soggetto, si pone però il fenomeno
degli “alti salari” e quindi la possibilità di un elevamento del tenore di vita per
alcune frange di lavoratori. Tali mutamenti hanno poi decisive ripercussioni
anche fuori dalla fabbrica, arrivando a toccare anche gli ambiti più privati della
vita degli individui (ad esempio la sessualità). Il processo di razionalizzazione
produttiva investe quindi l’ambito dei rapporti tra economia e politica, che derivano dal nuovo ruolo assunto dallo Stato come organismo di regolazione e di
intervento nell’economia e nella società. Questi, in estrema sintesi, i principali
elementi di un processo di trasformazione che, sebbene destinato a propagarsi
in tutta Europa, ha come proprio baricentro, nei primi decenni del Novecento,
la società e l’economia americana.
Come anticipato, Gramsci legge il fenomeno del fordismo alla luce della crisi
organica che ha investito le società liberali, cercando innanzitutto di ricondurre
le manifestazioni di tale crisi alle sue cause economiche, e non solo alle sue
manifestazioni sovrastrutturali e ideologiche. Ritiene infatti fondamentali
“questi tre punti: 1) che la crisi è un processo complicato; 2) che si inizia almeno con la guerra, se pure questa non ne è la prima manifestazione; 3) che la crisi
ha origini interne, nei modo di produzione e quindi di scambio, e non in fatti
politici e giuridici, paiono i tre punti da chiarire con esattezza”49.
Gramsci non rinuncia a interrogarsi sulle “origini interne” della crisi, guardando
cioè più da vicino alle cause di natura economica che hanno portato alla esigenza di un radicale mutamento nei metodi e nell’organizzazione della produzione.
La questione è affrontata ricorrendo a tipiche categorie marxiane, in particolare
alle dinamiche sottostanti la legge tendenziale della caduta del saggio di profitto, abbozzando però anche una spiegazione delle risposte alla crisi che chiama
in causa le dinamiche innovative e dello sviluppo rese celebri da Schumpeter.
L’idea fondamentale è che il fordismo sia una strategia per uscire dalla crisi; crisi,
a sua volta, che è una diretta conseguenza dei meccanismi di accumulazione. I
processi di razionalizzazione non sono così che un mezzo per incidere sul plu-
Terenzio Ma cca belli
La “grande trasformazione”
svalore relativo, secondo le modalità esposte da Marx nel libro III del Ca pita le:
“Tutta l’attività industriale di Henry Ford si può studiare da questo punto di vista:
una lotta continua, incessante per sfuggire alla legge della caduta del saggio di
profitto, mantenendo una posizione di superiorità sui concorrenti. Il Ford è
dovuto uscire dal compromesso strettamente industriale della produzione per
organizzare anche i trasporti e la distribuzione della merce, determinando così
una distribuzione della massa del plusvalore più favorevole all’industriale produttore”50.
L’analisi del fenomeno americano viene così agganciata ai cardini economici del
sistema teorico di Marx, al nucleo centrale della marxiana critica dell’economia
politica51. Lo sviluppo dell’organizzazione scientifica del lavoro, nelle sue varie
forme di fordismo e taylorismo, viene infatti analizzato come tentativo attuato
dalle classi industriali di superare un’incombente crisi di redditività, da cui l’esigenza appunto di cercare soluzioni innovative sul fronte organizzativo. “La legge
tendenziale della caduta del saggio del profitto – osserva Gramsci – sarebbe
quindi la causa del progresso dei metodi di lavoro e di produzione e di modificazione del tipo tradizionale dell’operaio”52, essendo queste ultime null’altro che
manifestazioni delle controtendenze sottostanti alla stessa dinamica del saggio di
profitto.
Le considerazioni di Gramsci si pongono tra l’altro l’obiettivo di intervenire nella
controversa questione della validità scientifica della legge marxiana della caduta
del saggio di profitto e delle crisi che da questa sarebbero dovute scaturire.
L’interpretazione corrente assegnava alla legge elaborata da Marx un rigido
determinismo, tanto che da essa sarebbe dovuto scaturire un imminente e inevitabile crollo del sistema capitalistico. Tale interpretazione era stata fatta propria
sia dagli autori marxisti che da avversari del marxismo, che appunto adducevano
il mancato crollo del capitalismo a prova lampante della falsità della legge.
Gramsci tende invece a ridimensionare il determinismo associato alla legge della
caduta del saggio di profitto, sottolineando il suo “aspetto contraddittorio”
rispetto a “un’altra legge, quella della produzione del plusvalore relativo”. In altri
termini, l’introduzione di nuovi processi lavorativi più razionali contribuisce alla
formazione di quello che Marx chiama il “plusvalore relativo”, mettendo in moto
le cosiddette cause controperanti alla caduta del saggio profitto. La crisi finale del
capitalismo avrebbe così potuto verificarsi solo se “la caduta del saggio del profitto” avesse prevalso sulla produzione di plusvalore relativo53, una tendenza,
però, che proprio l’avvento del fordismo tendeva a rovesciare.
Su questo terreno nascono le famose critiche di Gramsci a Benedetto Croce, colpevole di avere contribuito a dare un immagine distorta della legge54. L’errore del
filosofo napoletano nascerebbe a parere di Gramsci proprio dal non avere inteso il carattere contraddittorio e condizionale della legge e dall’aver dedotto la
prova della sua falsità dagli argomenti utilizzati dallo stesso Marx nel primo libro
del Ca pita le55. La contraddizione è dovuta al fatto che “mentre da un lato il progresso tecnico permette una dilatazione del plusvalore, dall’altro determina, per
il cangiamento che introduce nella composizione del capitale, la caduta tendenziale del saggio di profitto”. L’idea presentata da Marx nel terzo libro, deve essere pertanto interpretata partendo dal problema “impostato nel I libro della
Critica dell’economia politica , la dove si parla del plusvalore relativo e del pro-
50
Q, 10, §36, Punti di riferimento per un sa ggio su
Croce, pp. 1281-1282.
51
“Ta ylorismo e fordismo
ra ppresenta no a gli occhi di
Gra msci la stra tegia più
orga nica e ‘scientifica ’ di
intensifica zione dei ritmi
produttivi, la più sistema tica risposta ‘soggettiva ’ evoca ta da i mecca nismi
‘oggettivi’ da ll’a ccumula zione del ca pita le”
(Ia cchini 1987, p. 105).
52
Q, 10, §41, p. 1313.
53
Q. 10, §33, Punti di riferimento per un sa ggio su
Croce, p. 1279.
Sull’interpreta zione gra mscia na della legge della
ca duta del sa ggio di profitto si veda no le osserva zioni
di Piero Sra ffa , secondo cui
l’a utore dei Qua derni,
essendo costretto a cita re a
memoria le opere di Ma rx,
sa rebbe incorso in a lcuni
errori (cfr. Ba da loni 1992,
pp. 44-46). Il problema
degli eventua li errori interpreta tivi di Gra msci non è
rileva nte a i fini della presente ricostruzione, che si
propone sola mente di
mostra re lo stretto lega me
istituito nei Qua derni tra
la dina mica del profitto e
l’a vvento del fordismo.
54
Si veda in proposito il
sa ggio di Croce del 1899
da l titolo Una obiezione
a lla legge ma rxistica della
ca duta del sa ggio di profitto, ora in Croce (1978).
55
“Il Croce presenta come
obbiezione a lla teoria esposta nel III volume quella
pa rte di tra tta zione che è
contenuta nel I volume,
cioè espone come obbiezione a lla legge tendenzia le
della ca duta del sa ggio del
profitto la dimostra zione
dell’esistenza di un plusva lore rela tivo, senza però
49
n.20 / 2008
ma i a ccenna re una sola
volta a l volume I, come se
l’obbiezione fosse sca turita
da l suo cervello, o a ddirittura fosse un porta to del
buon senso (tutta via occorre rivedere i testi della
Critica dell’Economia politica prima di presenta re
questa critica a ll’obbiezione del Croce, ca utela che
d’a ltronde si rende necessa ria per tutte queste note,
che sono sta te scritte in
gra ndissima pa rte fonda ndosi sulla memoria ). In
ogni ca so è da fissa re che
la quistione della legge tendenzia le del sa g-gio del
profitto non può essere studia ta sola mente sull’esposizione da ta da l III volume;
questa tra tta zione è l’a spetto contra dditorio della
tra tta zione esposta nel I
volume, da cui non può
essere sta cca ta ” (Q. 10, §33,
Punti di riferimento per un
sa ggio su Croce, pp. 12781279).
56
Q. 10, §33, Punti di riferimento per un sa ggio su
Croce, p. 1278.
57
Q. 10, §41, p. 1312.
58
Q. 15, §26, Noterelle di
economia politica , p. 17821783).
59
50
Q. 10, §41, p. 1312.
gresso tecnico come causa appunto di plusvalore relativo”56.
Non è qui il caso di dilungarsi ulteriormente sulla interpretazione gramsciana
della legge tendenziale della caduta del profitto, se non per sottolineare lo stretto legame posto nei Qua derni con il fenomeno del “fordismo”. L’affermarsi del
nuovo modello organizzativo non è infatti a parere di Gramsci che una delle
dinamiche che meglio chiariscono la possibilità di sfuggire alla diminuzione del
profitto per mezzo di innovazioni che incidono sul plusvalore relativo, tanto che
la legge tendenziale del profitto “dovrebbe essere studiata sulla base del taylorismo e del fordismo”. Questi sono infatti “due metodi di produzione e di lavoro”
che nascono proprio dall’esigenza di superare “la legge tendenziale, eludendola
col moltiplicare le variabili” che possono frenare “l’aumento progressivo del
capitale costante”:
Le variabili sono queste (tra le più importanti, ma dai libri del Ford si potrebbe
costruire un registro completo e molto interessante): 1) le macchine continuamente introdotte sono più perfette e raffinate; 2) i metalli più resistenti e di durata maggiore; 3) si crea un tipo nuovo di operaio monopolizzato con gli alti salari; 4) diminuzione dello scarto del materiale di fabbricazione; 4) utilizzazione
sempre più vasta di sempre più numerosi sottoprodotti, cioè risparmio di scarti
che prima erano necessari e che è stato reso possibile dalla grande ampiezza dell’impresa; 6) utilizzazione dello scarto di energie caloriche: per esempio il calore degli alti forni che prima si disperdeva nell’atmosfera viene immesso in tubatura e riscalda gli ambienti d’abitazione, ecc.57.
Il riferimento da parte di Gramsci al “monopolio” delle imprese che attuano con
successo il modello organizzativo fordista si presta a ulteriori considerazioni. La
descrizione che troviamo nei Qua derni non solo infatti ricorre, come abbiamo
illustrato, alle categorie marxiane, ma presenta per certi versi anche alcune analogie con la teoria schumpeteriana dell’innovazione. L’applicazione dei metodi
organizzativi di Ford si può in effetti interpretare come un decisivo salto qualitativo nel processo di sviluppo economico dovuto all’introduzione di una innovazione, in questo caso di una fondamentale innovazione di processo. é emblematica a questo proposito la critica gramsciana condotta nei confronti di Einaudi, il
quale riteneva come uniche innovazioni quelle di prodotto.
Tutto il processo di razionalizzazione – scrive Gramsci – non è che un processo
di “inventività”, di applicazioni di nuovi ritrovati tecnici e organizzativi. Pare che
l’Einaudi intenda per invenzioni solo quelle che portano all’introduzione di
nuovi tipi di merci, ma anche da questo punto di vista forse l’affermazione non
è esatta. In realtà però le invenzioni essenziali sono quelle che determinano una
diminuzione dei costi, quindi allargano i mercati di consumo, unificano sempre
più vaste masse umane ecc.; da questo punto di vista quale periodo è stato più
“inventivo” di quello della razionalizzazione?58.
Il fordismo è pertanto a parere di Gramsci una innovazione di processo a tutti gli
effetti che segue le normali leggi dello sviluppo economico. I produttori godono
inizialmente di un vantaggio competitivo che li porta a trovarsi in una situazione
assimilabile al monopolio, posizione che si rafforza nel momento in cui l’innovazione organizzativa permette di passare da “un periodo di costi crescenti (cioè
di caduta del saggio di profitto) a un periodo di costi decrescenti”59. Una delle
componente decisive di tale monopolio è costituita dai cosiddetti “alti salari” che
Terenzio Ma cca belli
La “grande trasformazione”
le imprese “taylorizzate” devono pagare, “se vogliono formare una maestranza
selezionata e se vogliono contendere ai concorrenti gli operai più predisposti,
dal punto di vista psicotecnico, alle nuove forme di produzione e di lavoro”60. Le
industrie a cui si devono “l’iniziativa dei nuovi metodi tayloristici” godono pertanto di “profitti di monopolio” e conseguenti “salari di monopolio”61.
Come ogni innovazione, anche il modello fordista è però soggetto alle leggi della
concorrenza e dello sviluppo economico. Alla rottura prodotta dall’imprenditore innovativo segue la fase imitativa e la diffusione su larga scala della stessa innovazione. Se pertanto “l’industria americana ad altri salari” può sfruttare inizialmente “un monopolio dato dall’avere l’iniziativa dei nuovi metodi”, non può
impedire l’emulazione dei concorrenti. Il monopolio sarà così “necessariamente
prima limitato e poi distrutto dalla diffusione dei nuovi metodi sia nell’interno
degli S.U. sia all’esterno (cfr. il fenomeno giapponese dei bassi prezzi delle
merci) e coi vasti profitti spariranno gli alti salari”62.
Con questa descrizione dei meccanismi concorrenziali che stanno alla base tanto
della nascita del fordismo, in quanto fondamentale innovazione di processo, che
della sua successiva diffusione e propagazione, per effetto delle leggi dello sviluppo, siamo entrati nel cuore del celebre Qua derno 22, su cui dobbiamo ora soffermarci per discutere le ripercussioni a livello di rapporti tra Stato ed economia.
60
61
62
Q. 10, §41, p. 1312.
Q. 4, §52, America nismo
e fordismo, p. 493.
Q. 22, §13, Gli a lti sa la ri,
p. 2172.
6. Le risposte politiche alla crisi: l’americanismo, il fascismo e il nuovo
ruolo dello Stato
L’enfasi che abbiamo posto sull’analisi strutturale dei Qua derni non deve fare
dimenticare che l’interesse di Gramsci va bene al di là dei fattori puramente economici sottostanti l’avvento del fordismo. La riorganizzazione dei metodi di lavoro non può che investire direttamente la società nel suo complesso: da un lato
attraverso la formazione di una nuova coscienza sociale nella classe lavoratrice;
dall’altro attraverso la creazione di un nuovo assetto istituzionale delle società
industriali più avanzate. Egli dedica per questo tutta la propria attenzione al
mutamento culturale provocato dalla ristrutturazione del processo di lavoro, in
quanto persuaso che nessuna crisi è risolutiva sul solo terreno economico (Tosel
1987, p. 238). Gramsci giunge perciò a interrogarsi su quanto i cambiamenti
delle struttura economica (i nuovi tipi di produzione sviluppati dal fordismo)
abbiano inciso sulla sovrastruttura, cioè sulla dimensione storico-istituzionale e
sulle forme della vita sociale. Il presupposto da cui muove è che “i nuovi metodi di lavoro sono indissolubili da un determinato modo di vivere, di pensare, di
sentire la vita: non si possono ottenere successi in un campo senza ottenere
risultati tangibili nell’altro”63. La questione si traduce pertanto in una sorta di giudizio critico sul senso delle trasformazioni operate dal fordismo, al fine di valutare se questo possa essere giudicato un progresso o una involuzione delle società industriali.
Il punto di partenza non può che essere la prima stesura del paragrafo 72 del
Quaderno 9 dove Gramsci si interroga sulla possibilità che gli alti salari compensino i gravi sacrifici imposti alla classe lavoratrice, nei termini del maggiore e più
gravoso “consumo di forze” associato ai nuovi modelli organizzativi: il problema
è “se il tipo di industria e di organizzazione della produzione proprio del Ford
63
Q. 22, §11,
Razionalizzazione della
produzione e del lavoro, p.
2164. Ha scritto al riguardo
Catone che il nesso strettissimo istituito da Grasmci tra
il “modo di vivere, pensare,
sentire la vita” e la struttura dell’economia si traduce
in “una teoria della complessità del modo di produzione che, poggiando sulla
fondamentalità del modo
materiale di produrre e dei
rapporti di produzione
(dunque del modo di produzione in senso propriamente marxiano)”, arriva
ad “abbozzare un’analisi
spietatamente, freddamente, materialistica – nel
senso del materialismo
marxiano – del ‘modo di
vivere, pensare, sentire la
vita’ indotto dall’introduzione del fordismo” (Catone
1987, pp. 57-58).
51
n.20 / 2008
64
Q. 9, p. 1143.
65
Q. 22, pp. 2173-2174.
Notevole a ttenzione a lla
doppia stesura di questo
bra no si trova in
Ma na corda
(1987, pp. 177-180).
66
Cfr. in proposito Burgio
(2002, p. 212): “Gra msci
non ha remore nel porre in
rilievo quelle che gli
a ppa iono ca ra tteristiche
progressive del ‘rivolgimento’ economico-socia le in
corso negli Sta ti Uniti e nel
formula re, in ba se a d esse,
giudizi a nche decisa mente
positivi”.
67
L’America, osserva
Gramsci, possiede una
“composizione demografica
razionale”, nel senso che
“non esistono classi numerose senza una funzione
essenziale nel mondo produttivo, cioè classi assolutamente parassitarie. La ‘tradizione’, la ‘civiltà’ europea
è invece proprio caratterizzata dall’esistenza di classi
simili, create dalla ‘ricchezza’ e ‘complessità’ della storia passata che ha lasciato
un mucchio di sedimentazioni passive attraverso i
fenomeni di saturazione e
fossilizzazione del personale statale e degli intellettuali, del clero e della proprietà terriera, del commercio
di rapina e dell’esercito
prima professionale poi di
leva, ma professionale per
l’ufficialità. Si può anzi dire
che quanto più è vetusta è
la storia di un paese, e
tanto più numerose e gravose sono queste sedimentazioni di masse fannullone e
inutili, che vivono del
‘patrimonio’ degli ‘avi’, di
questi pensionati della storia economica” (Q. 22, §2,
Razionalizzazione della
composizione demografica,
p. 2141).
52
sia ‘razionale’, possa e debba cioè generalizzarsi, o se invece si tratta di un fenomeno morboso da combattere con la forza sindacale e con la legislazione”64. Così
formulata in prima stesura nel 1932, la domanda non è seguita nell’occasione da
una esplicita presa di posizione da parte di Gramsci. Bisognerà attendere il 1934,
quando viene redatto il Qua derno 22 su America nismo e Fordismo, perché il
quesito, nell’essere riproposto in forma immutata, venga questa volta fatto seguire da una risposta molto emblematica:
“Pare di poter rispondere che il metodo Ford è “razionale”, cioè deve generalizzarsi, ma che perciò sia necessario un processo lungo, in cui avvenga un mutamento delle condizioni sociali e un mutamento dei consumi e delle abitudini
individuali, ciò che non può avvenire con la sola “coercizione”, ma solo con un
contemperamento della coazione (autodisciplina) e della persuasione, sotto
forma anche di alti salari, cioè di possibilità di miglior tenore di vita, o forse, più
esattamente, di possibilità di realizzare il tenore di vita adeguato ai nuovi modi
di produzione e di lavoro, che domandano un particolare dispendio di energie
muscolari e nervose”65.
Queste parole dischiudono al lettore dei Qua derni la sostanziale accettazione e
la conseguente valutazione “positiva” del fordismo da parte di Gramsci66. Egli è
naturalmente perfettamente consapevole dello spazio sempre più vasto che il
lavoro alienato viene in tal modo a ricoprire, ma non per questo decide di combattere sul piano culturale l’affermazione del nuovo modello organizzativo.
Come ha osservato Battini, non sono mai in discussione nei Qua derni il taylorismo e l’automazione, “ma solamente i rapporti sociali che ne bloccano un uso
controllato e socialmente ragionevole” (Battini 1988, p. 195). Non bisogna evidentemente dimenticare che il giudizio positivo di Gramsci non va disgiunto dall’orizzonte politico di riferimento, che è ovviamente la trasformazione in senso
socialista dell’economia. In effetti, come sottolinea Baratta, “la risposta positiva
alla domanda del Qua derno 9, che coinvolge l’integrità e la psicofisica degli operai, implica uno sguardo rivolto oltre lo sviluppo del capitalismo” (Baratta 1987,
p. 26). Tuttavia le argomentazioni gramsciane affrontano il problema anche indipendentemente dalla concreta possibilità che tale transizione si possa compiere
in tempi brevi, e mantengono comunque una valutazione positiva del fenomeno
apparentemente anche in un orizzonte capitalistico. In modo schematico, possiamo individuare tre argomenti decisivi che sorreggono il giudizio “positivo” di
Gramsci sul fordismo.
Il primo concerne la fenomenologia sociale entro cui ha trovato affermazione il
fordismo, che secondo la terminologia in voga nei primi decenni del Novecento
veniva appunto denominato “americanismo”. Questo termine veniva usato in
senso dispregiativo, soprattutto da parte di quei ceti che ancora si opponevano
alla piena affermazione della società industriale. L’America – l’americanismo – è
appunto l’espressione di un paese che sebbene non abbia il vantaggio di una millenaria tradizione culturale alle spalle non ha nemmeno, tuttavia, lo svantaggio
che questa stessa tradizione ha creato: residui feudali, ceti improduttivi, forte
apparato ecclesiastico, ecc. L’affermazione del fordismo è quindi un momento
risolutivo, ritiene Gramsci, per modernizzare la cosiddetta “composizione demografica della società” europea, nella direzione di una definitiva affermazione delle
componenti “produttivistiche”67. I ceti eredi delle tradizioni della vecchia Europa,
Terenzio Ma cca belli
La “grande trasformazione”
nel momento in cui denigravano la nuova fase industriale di inizio secolo bollandola appunto con l’epiteto di “americanismo”, stavano in verità recitando il
loro canto del cigno. Ma era pur sempre una presenza ancora ingombrante quella dei ceti tradizionali, che ostacolavano in qualche modo una completa modernizzazione sociale e produttiva. é esattamente su questo terreno che si misura il
vantaggio dell’America, la cui struttura sociale si prestava più facilmente ad assimilare le trasformazioni associate al fordismo68.
Il secondo elemento che sostiene il giudizio positivo del fordismo è uno dei più
controversi, in quanto legato al problema del “nuovo tipo umano”, alla “disciplina” e all’immagine del “gorilla ammaestrato” dietro i quali Gramsci legge tendenze “progressive” nei metodo di razionalizzazione del lavoro di fabbrica. Si
tratta come noto di una complessa linea di ricerca su cui convergono diversi
piani della riflessione di Gramsci, da quello pedagogico (Manacorda 1987;
Ricuperati 1997) a quello scientifico e tecnologico (Lefons 1978, p. 125), a testimonianza della predilezione di un approccio metodologico teso a fare interagire
i piani dell’“economia”, della “politica” e della “cultura”. Vi accenniamo qui soltanto brevemente, per ricordare che il momento più delicato e critico è quello
della “disciplina”, dello sforzo che bisogna compiere per acquisire una piena
padronanza e capacità di eseguire dei gesto meccanico. Superata queste fase difficile e impegnativa, Gramsci non sembra però avere dubbi sulle possibilità di
liberazione che essa dischiude. Rimane comunque aperto il problema fondamentale: possiede il modello fordista le stesse prerogative positive nel momento in cui si allontana la prospettiva della transizione socialista? La “persuasione”
e “l’autodisciplina” che proviene dal basso può svolgere un ruolo anche nell’ambito di un’organizzazione capitalistica del lavoro? Sono domande a cui pare difficile rispondere e che, non a caso, hanno provocato notevoli divergenze tra gli
interpreti di Gramsci. Se da una parte si è accettato in toto e in modo acritico la
prospettiva gramsciana sulle valenze progressive del fordismo, dall’altro non
sono mancate feroci critiche indirizzate all’autore dei Qua derni 69.
Il terzo motivo per cui Gramsci guarda “positivamente” all’americanismo e al fordismo è quello che più direttamente riguarda il nostro discorso, in quanto verte
sull’emergere del nuovo quadro istituzionale entro cui si vanno ridefinendo i
rapporti tra Stato e mercato. Nella fase precedente la grande crisi mondiale, la
razionalizzazione americana è ancora caratterizzata dall’assenza dell’iniziativa statale ed è ancora governata dallo “spontaneismo” delle forze economiche. Il tipo
di tipo di Stato in cui prende corpo l’Americanismo è in effetti lo “Stato liberale”.
é tuttavia questa stessa cornice istituzionale, così favorevole alla concorrenza e al
libero mercato, che genera spontaneamente il fenomeno delle concentrazioni
industriali e quindi dei monopoli.
“Lo Stato è lo Stato liberale, non nel senso del liberismo doganale, ma nel senso
più essenziale della libera iniziativa e dell’individualismo economico, giunto con
mezzi spontanei, per lo stesso sviluppo storico, al regime dei monopoli”70.
Tale situazione viene però considerata da Gramsci come provvisoria, tipica della
fase precedente il 1929. Egli prefigura infatti, “anche per la società americana, un
periodo successivo di iniziativa dello Stato al livello della società civile”, altrimenti incapace di recepire e di adattarsi alle nuove esigenze dell’americanismo. “La
razionalizzazione della vita sociale e morale e dell’istintualità delle masse non può
68
Cfr. Q. 22, §2,
Ra ziona lizza zione della
composizione demogra fica ,
pp. 2142-2147.
69
Si ricorda no qui a lcuni
tra i giudizi più severi su
Gra msci, a comincia re da
Asor Rosa , secondo cui i
giudizio positivi che si leggono nei Qua derni sull’a merica nismo na scono da
“un a tta rda mento di
Gra msci sulle posizioni teoriche che furono proprie
della terza Interna ziona le,
e che lo porta rono a perseguire l’etica della produttività e della dignità del
la voro”; di Alfredo Sa lsa no,
che rimprovera l’intellettua le sa rdo di a vere eluso
il problema fonda menta le
a cui il fordismo a priva le
porte, cioè la modernizza zione ca pita listica di sta mpo ma na geria le e l’a fferma zione di un “corpora tivismo tecnocra tico” (tra scura to nei Qua derni privilegia ndo, a nche nelle
note di America nismo e
fordismo, il tema del “corpora tivismo di Sta to” (cfr.
Sa lsa no 1988); o a ncora di
Pino Ferra ris, secondo cui
Gra msci, oltre a non a vere
sa puto chia rire il ra pporto
tra a liena zione opera ia e
orga -nizza zione ca pita listica del la voro non a vrebbe
neppure «colto il nesso produzione sta nda rdizza ta –
a lti sa la ri – consumismo
di ma ssa » e la “porta ta storica » dei «processi di burocra tizza zione» insiti nella
«gra nde impresa ta ylorizza ta ” (cfr. Ferra rsi 1987,
pp. 226-227).
70
Q. 1, §135,
America nismo, p. 125.
53
n.20 / 2008
71
“Ed ecco la lotta contro
l’alcool, l’agente più pericoloso di distruzione delle
forze di lavoro, che diventa
funzione di Stato. é possibile che anche altre lotte
‘puritane’ divengano funzione di Stato, se l’iniziativa
privata degli industriali si
dimostra insufficiente o si
scatena una crisi di moralità troppo profonda ed
estesa nelle masse lavoratrici, ciò che potrebbe avvenire in conseguenza di una
crisi lunga ed estesa di disoccupazione. Quistione
legata a quella dell’alcool è
l’altra sessuale: l’abuso e
l’irregolarità delle funzioni
sessuali è, dopo l’alcoolismo, il nemico più pericoloso delle energie nervose ed è
osservazione comune che il
lavoro ‘ossessionante’ provoco depravazione alcoolica e sessuale. I tentativi fatti
dal Ford di intervenire con
un corpo di ispettori, nella
vita privata dei suoi dipendenti e controllare come
spendevano i loro salari e
come vivevano, è un indizio di queste tendenze
ancora ‘private’ o latenti,
che possono diventare a un
certo punto, ideologia statale, innestandosi nel puritanesimo tradizionale presentandosi cioè come un riconoscimento della morale
dei pionieri, del ‘vero’ americanismo, ecc.” (Q. 22, pp.
2166-2167).
72
Q. 22, §1, p. 2139. Negli
a nni trenta , il termine
“economia progra mma tica ” è a mpia mente usa to in
Ita lia , oltre che da Ugo
Spirito, a cui Gra msci,
come a bbia mo visto nel
pa ra gra fo prece-dente,
dedica numerose note dei
Qua derni, a nche da l gruppo che ruota a ttorno a
Botta i e a lla Scuola di
studi corpora tivi di Pisa .
54
essere affidata alla sola iniziativa dei gruppi industriali, ma impone la formazione
di una ideologia statale di tipo nuovo adeguata alle necessità imposte dal nuovo
industrialismo” (Battini 1977, vol. II, p. 321). In questi termini vanno intese le “iniziative ‘puritane’” ad opera dello Stato, che hanno “il fine di conservare, fuori dal
lavoro, un certo equilibrio psico-fisico che impedisca il collasso fisiologico del
lavoratore, spremuto dal nuovo metodo di produzione”71. Il problema sottolineato da Gramci è dunque l’organizzazione dello Stato e l’ampliamento delle sue funzioni. Nel quadro di una nuova struttura economica, di cui lo Stato è parte integrante, il compito essenziale che questi deve realizzare consiste nell’adeguare il
più rapidamente possibile le norme etiche alla esigenze della produzione.
Ma l’espansione dei limiti dello Stato non riguarda solamente l’adeguamento del
“modo di vita” alla razionalizzazione del processo produttivo. Nelle note di
America nismo e fordismo Gramsci avvia un’analisi della nuova fase di sviluppo
dell’economia statunitense e, più in generale, delle economie capitalistiche dell’occidente, caratterizzate dall’ampliamento dell’intervento statale a sostegno
delle dinamiche di mercato e per il controllo delle dinamiche sociali. Siamo cioè
in presenza per Gramsci di un mutamento profondo nel rapporto tra politica ed
economia, dovuto all’infrangersi della tradizionale separazione delle sfere di
competenza rispettivamente dello Stato e del mercato. “Tutta la riflessione su
America nismo e fordismo, nelle sue varie stratificazioni, converge intorno a un
punto centrale, che è nell’innervarsi sempre più stretto dello Stato nella formazione sociale capitalistica e nell’ampliarsi delle sue basi politiche di massa in
parallelo al crescere delle strutture organizzative del capitale finanziario” (De
Giovanni 1977, vol. I, pp. 230-1). I mutamenti legati alla nascita del fordismo si
vanno dunque strettamente intrecciando con lo sviluppo delle politiche economiche statali, segni inequivocabili di una “grande trasformazione” orientata dalla
necessità di pervenire a una economia di tipo programmatico:
“Si può genericamente dire che l’americanismo e il fordismo risultano dalla
necessità immanente di giungere all’organizzazione di un economia programmatica e che i vari problemi esaminati dovrebbero essere gli anelli della catena
che segnano il passaggio appunto dal vecchio individualismo economico all’economia programmatica”72.
La diffusione della politica anche nei meandri dell’economia, che Gramsci guarda come tratto tipico della società europea e americana a partire dagli avvenimenti che seguono la grande guerra, è perciò l’elemento caratteristico di una
nuova situazione storica, entro la quale l’economia deve essere, almeno in parte,
diretta (Badaloni 1981, vol. III, t. 2, p. 338). Inserite nel quadro dei radicali mutamenti avvenuti nelle società occidentali le provocazioni di Spirito possono allora nascondere esigenze reali. Nella ultima replica a Benini ed Einaudi l’allievo di
Gentile aveva infatti affermato che “il primo quesito a cui rispondere deve formularsi propriamente così: – qual era il concetto, e quindi la realtà, dello Stato
quando si compì la sistemazione classica della scienza economica e quale trasformazione esso ha subito durante il secolo XX? Non rispondere a tale quesito,
o ignorare la sua imprescindibilità, significa rendere inutile e assurda ogni soluzione dei problemi relativi all’azione dello Stato: ma, intanto, rispondervi significa trascendere la presunta economia pura e affacciarci in quel più grande campo
della storia, dal quale l’Einaudi pretende ritrarsi” (Spirito 1930, p. 173).
Terenzio Ma cca belli
La “grande trasformazione”
Se le declamazioni sull’identità tra individuo e Stato sono severamente criticate
da Gramsci, l’interrogativo sulle trasformazioni subite dal concetto di Stato
“durante il secolo XX” viene preso molto seriamente. Le questioni sollevate da
Spirito assumono allora una valenza diversa se lette alla luce degli effettivi mutamenti in atto nelle economie industriali, ed è per questo che le farraginose elucubrazioni di Spirito sono giudicato pur sempre il “segno dei tempi”, espressione di condizioni storiche “in via di sviluppo”. E se di fronte a questi mutamenti
Spirito “annega la realtà economica in un diluvio di parole e di astrazioni”,
Einaudi e in generale gli economisti liberali non sanno contrapporre altro che
un’immagine fossilizzata dell’economia politica.
Per Gramsci la struttura economica ha assunto una fenomenologia decisamente
più complessa, in quanto lo Stato è diventato un elemento importante e non più
trascurabile nella sfera economica73. Ecco allora che Gramsci arriva a porre la
questione tanto caldeggiata da Spirito: “Può lo Stato disinteressarsi dell’organizzazione della produzione e dello scambio? Lasciarla, come prima, all’iniziativa
della concorrenza e all’iniziativa privata?”74. Vi è nei fatti una crescente intersezione tra le attività dello Stato e la dinamica dell’economia che pone ormai in termini nuovi il problema, anche sul piano teorico. Riferendosi probabilmente proprio alla relazione di Spirito al convegno di Ferrara, Gramsci osserva che la
“nazionalizzazione delle perdite e dei deficit industriali” – dovuta al fenomeno
dei salvataggi delle grandi imprese in difficoltà – è un chiaro segno dei mutati
rapporti tra Stato ed economia. “Da questo complesso di esigenze, non sempre
confessate, nasce la giustificazione storica delle così dette tendenze corporative,
che si manifestano prevalentemente come esaltazione dello Stato e come diffidenza e avversione alle forme tradizionali del capitalismo”. Gramsci sottolinea al
riguardo alcuni degli “elementi più organici ed essenziali” che “conducono all’intervento statale, o lo giustificano teoricamente: l’aggravarsi dei regimi doganali e
delle tendenze autarchiche, i premi, il dumping, i salvataggi delle grandi imprese in via di fallimento o pericolanti” (appunto la “nazionalizzazione delle perdite
e dei deficit industriali” discussi da Spirito)75.
Sono appunto questi motivi che spingono Gramsci non certo ad avallare ma in
qualche modo a legittimare le istanze di rinnovamento del sapere economico
propugnate da Spirito e dal suo sodale Arnaldo Volpicelli. La formula “economia
secondo un piano” propugnata dai sostenitori dell’indirizzo corporativo è ancora velleitaria, ancorata com’è ad un linguaggio “puramente verbale” e privo di
riscontro sul terreno reale; ma è comunque giudicata come “espressione ancora
‘utopistica’ di condizioni in via di sviluppo”76, che riflette una trasformazione
della struttura economica di cui Spirito e Volpicelli hanno compreso la portata
più di molti economisti puri.
In questo contesto prende corpo l’idea che il fascismo sia stato anche una delle
risposte alla crisi del mercato autoregolato77. Se il “fordismo” era stato essenzialmente una risposta economica – pur con tutte le conseguenze che abbiamo discusso anche a livello sovrastrutturale – il fascismo era stata una risposta politica,
che tuttavia sotto la pressione dei mutamenti strutturali stava incidendo, o per lo
meno cercava di incidere, anche sull’organizzazione dell’economia.
Americanismo e fordismo, da un lato, e fascismo, dall’altro, diventano pertanto
agli occhi di Gramsci due modelli idealtipici – appartenenti al genere delle “rivo-
73
Questi a spetti sono a d
esempio colti da Gra msci
in una riflessione sul ruolo
a ssunto da llo Sta to – negli
a nni della gra nde crisi –
come punto di concentra zione del rispa rmio delle
ma sse: “Si può dire che la
ma ssa dei rispa rmia tori
vuole rompere ogni lega me
diretto con l’insieme del
sistema ca pita listico priva to, ma non rifiuta la sua
fiducia a llo Sta to: vuole
pa rtecipa re a lla a ttività
eco-nomica , ma a ttra verso
lo Sta to, che ga ra ntisca un
interesse modico ma sicuro. Lo Sta to viene così a d
essere investito di una funzione di prim’ordine nel
sistema ca pita listico, come
a zienda (holding sta ta le)
che concentra il rispa rmio
da porre a disposizione
dell’industria e della a ttività priva ta , come investitore
a medio e a lungo termine”
(Q. 22, §14 Azioni, obbliga zioni, titoli di Sta to, pp.
2175-2176).
74
Q. 22, §14 Azioni, obbliga zioni, titoli di Sta to, p.
2176.
75
Q. 22, §14 Azioni, obbliga zioni, titoli di Sta to, pp.
2176-2177.
76
Q. 8, §216 Noterelle di
economia . Ugo Spirito e C,
p. 1077.
77
I limiti della soluzione
corpora tivo sono comunque per Gra msci del tutto
pa lesi. Fa r pa ssa re l’orga nizza zione corpora tiva
come un supera mento del
ca pita lismo significa
dimentica re che “tra la
struttura economica e lo
Sta to con la sua legisla zione e la sua coercizione sta
la società civi-le, e questa
deve essere ra dica lmente
tra sforma ta in concreto e
non solo sulla ca rta della
55
n.20 / 2008
legge e dei libri degli scienzia ti”. Se quindi è vero che
“lo Sta to è lo strumento per
a degua re la società civile
a lla struttura economia ” è
comunque necessa rio che
“lo Sta to ‘voglia ’ fa r ciò,
che cioè a gui-da re lo Sta to
sia no i ra ppresenta nti del
muta mento a vvenuto nella
struttura economica ” (Q.
10, §15, Noterelle di economia , pp. 1253-1254). Il corpora tivismo non ha a ffa tto
a nnulla to l’orga nizza zione
ca pita listica della produzione, che continua a d
essere sorretta da lla logica
del pro-fitto e dell’a ccumula zione (Cfr. Rossi e Va cca
2007, pp. 135-143).
78
Q. 1, §135,
America nismo, p. 124.
Nella nota , intitola ta
America nismo, Gra msci
discute il libro di Fovel
Economia e corpora tivismo e la recensione fa tta ne
da Pa gni (cfr. Voza xxxx,
p. 201).
79
Come ha sottolinea to
Pa squa le Voza , a ttra verso
il concetto di “rivoluzione
pa ssiva ” Gra m-sci intende
ca ra tterizza te la “nuova
morfologia ” dei processi
economici, politici e socia li
successi-vi a l primo conflitto mondia le e a “quella che
si può considera re l’ultima
guerra di movimento, va -le
a dire la Rivoluzione
d’ottobre” (Voza xxxx,
pp. 202-203).
80
Cfr. Q. 1, §150, La concezione dello Sta to secondo
la produttività [funzione]
delle cla ssi socia li, pp. 132133: “Si può dire questo:
essendo lo Sta to la cornice
concreta di un mondo produt-tivo, ed essendo gli
intellettua li l’elemento
socia le che si identifica
meglio col persona le governa -tivo, è proprio della
56
luzioni passive” – che preludono le trasformazioni verso forme di “economia
programmatica”. Come noto, il giudizio sul fascismo come “rivoluzione passiva”
è l’esito di un travagliato processo intellettuale. Nelle prime note dei Qua derni
Gramsci descriveva ancora il fascismo (e il corporativismo) come fenomeni che
hanno “avuto origine di polizia economica, non di rivoluzione economica”78,
aggiungendo tuttavia, quasi a prefigurare il giudizio più maturo cui perverrà
poco tempo dopo, che “gli uomini senza volerlo [ubbidiscono] agli imperativi
della storia”: il “rivolgimento” fascista si iscriveva in questo senso entro la cornice dell’americanismo. Solo però nel Qua derno 22 il fascismo “si configura stabilmente” agli occhi di Gramsci “come rivoluzione passiva”.
“Non sarebbe il fascismo la forma di “rivoluzione passiva” propria del secolo XX
come il liberismo lo è stato del secolo IX? […] Si potrebbe così concepire: la
rivoluzione passiva si verificherebbe nel fatto di trasformare la struttura economica “riformisticamente” da individualistica a economia secondo un piano (economia diretta)”79.
La crisi dell’economia liberale ha partorito il fascismo, una delle forme in cui la
società ha reagito al predominio ottocentesco del mercato. La trasformazione
dello Stato si inserisca dunque in un discorso molto articolato e complesso che
ruota attorno alla crisi dell’economia liberale, al fallimento delle rivoluzione in
Occidente, ai fenomeni dell’americanismo e del fordismo, alla genesi del fascismo e infine alle rappresentazioni dottrinali dello Stato da parte degli intellettuali80. Questi fenomeni racchiudono il senso della “grande trasformazione” individuata da Gramsci. La posta in gioco è il collasso, supposto definitivo, della
decantata autonomia delle leggi economiche. Il fordismo, frutto degli stessi automatismi del mercato, apre in verità le porte a una rivincita del momento “politico” che, dopo essersi ritratto nel corso dell’Ottocento per lasciare libero sfogo
alle leggi di mercato, riacquista una decisiva priorità funzionale, anche nella sfera
dell’organizzazione economica.
Vi sono dunque tutti gli elementi per completare il quadro sul complessivo
mutamento intervenuto nella concezione dello Stato. Come sottolineato dalla
storiografia, questo mutamento è avvenuto sotto il segno di un progressivo
“allargamento” semantico. La prima fonte di questo allargamento è di tipo “culturale” e discende dalla nozione di “intellettuali” che costruisce uno dei punti
cardine della riflessione gramsciana. Angelo Rossi e Giuseppe Vacca hanno
recentemente attirato l’attenzione su una lettera a Tania nel quale Gramsci, nel
ribadire il proprio interesse per una storia degli intellettuali italiani, sottolineava
come a questo fosse associata l’esigenza di “approfondire il concetto di Stato”. E
di conseguenza, mano a mano che il concetto sempre più ampio di intellettuali
prendeva corpo, anche il corrispondente concetto di Stato risultava “allargato”81.
La seconda fonte dell’allargamento semantico che abbiamo discusso in queste
pagine nasce invece sul terreno economico, in particolare dai mutamenti avvenuti sul terreno delle relazioni tra politica ed economia.
5. Considerazioni conclusive: oltre lo Stato?
Nell’excursus proposto in queste pagine si è cercato di mostrare la crescente
complessità con cui l’autore dei Qua derni ha affrontato il problema dei rappor-
Terenzio Ma cca belli
La “grande trasformazione”
ti tra Stato ed economia. Partito dall’idea della necessaria “scissione” tra momento economico e momento politico Gramsci è giunto a una revisione quasi totale
di questo approccio. Gramsci ha innanzitutto proceduto a rielaborare il concetto di Stato, attraverso quel metodo dell’allargamento semantico ampiamente sottolineato dalla critica gramsciana. A ciò si deve tuttavia aggiungere che lo stesso
concetto di “economia” – e il suo correlato di “società civile” – hanno subito lo
stesso trattamento. L’esito di tutto questo è che Gramsci – anche se non lo dice
esplicitamente – mette in seria discussione quella specializzazione disciplinare
avvenuta nella scienze sociali che ha condotto alla netta separazione dei piani
dell’economia, della società e della politica. Una specializzazione che, in nuce
negli economisti classici, aveva una sua legittimazione, venuta meno a seguito
delle trasformazioni strutturali avvenute nei primi decenni del Novecento. Che
questa non sia astratta elucubrazione “metodologica” è provato dal concreto
procedere di Gramsci nell’analisti del “fordismo”, dove ha attuato un metodo
d’indagine volto a mettere in rilievo la forte interdipendenza tra fenomeni economici, sociali e politici. E anche nell’analisi del fascismo Gramsci ha posto le
basi di un approccio teorico in cui vengono ridisegnati i rapporti tra politica ed
economia, che diventano parte di un “tutto” culturale (Adamson 1980, p. 630).
L’interrogativo sul piano delle ripercussioni politiche (nel senso degli obiettivi
politici) esula dai compiti che ci siamo prefissi. Un cenno conclusivo è comunque doveroso, se non altro per il fatto che qualsiasi discussione su Gramsci e lo
Stato, ancorché da un visuale di storia del pensiero economico, non può prescindere dal ricordare che la riflessione gramsciana si situa nella tradizione marxista che prefigura l’estinzione dello Stato quale orizzonte ultimo dell’azione
politica. Ed è doveroso richiamare questo aspetto perché ritorna in questo contesto l’immagine dello Stato da cui siamo partiti, ossia quella dello “Stato guardiano notturno”.
Da questo punto di vista, il punto chiave è quella concezione “allargata” dello
Stato cui abbiamo accennato nel quale “entrano elementi che sono da riportare
alla nozione di società civile (nel senso, si potrebbe dire, che Stato = società politica + società civile, cioè egemonia corazzata di coercizione)”. Il cuore del discorso verte sulla possibilità di superare il momento della coercizione, cosa che a
parere di Gramsci potrà realizzarsi solo nel momento in cui si andranno affermando “elementi sempre più cospicui di società regolata (o Stato etico o società civile)”. L’autodisciplina dovrebbe allora sostituire la coercizione, secondo
modalità che non sembrano affatto semplici. Ma il punto che vorremmo sottolineare è appunto il paradosso di uno “Stato senza Stato” per descrive il quale
Gramsci non può fare a meno di ricorrere all’immagine dello “Stato gendarmeguardiano notturno” che, dal punto di vista dottrinario, si carica di motivi progettuali che gli sono del tutto estranei. L’orizzonte dello Stato guardiano-notturnio che invera l’ideale socialista della “libertà organica” è paradossale non solo se
visto nell’ottica della tradizione liberale, ma anche pensando all’inventore di tale
espressione, cioè Lassalle, secondo Gramsci “uno statalista dogmatico e non dialettico”. Ma agli occhi di Gramsci è questa la sola concezione dello Stato in grado
di superare “le estreme fasi ‘corporative-economiche’”:
“Nella dottrina dello Stato > società regolata, da una fase in cui Stato sarà uguale Governo, e Stato si identificherà con società civile, si dovrà passare a una fase
funzione degli intellettua li
porre lo Sta to come un a ssoluto: così è concepita come
a ssoluta la loro funzione
storica , è ra ziona lizza ta la
loro esistenza ”.
81
“Io estendo molto la nozione di intellettuale e non mi
limito alla nozione corrente
che si riferisce ai grandi
intellettuali. Questo studio
porta anche a certe determinazioni del concetto di Stato
che di solito è inteso come
società politica (o dittatura o
apparato coercitivo per conformare la massa popolare
secondo il tipo di produzione
o l’economia di un momento
dato) e non come equilibrio
della società politica con la
società civile (o egemonia
d’un gruppo sociale sull’intera società nazionale esercitata attraverso le organizzazioni cosiddette private, come la
chiesa, i sindacati, le scuole,
ecc.) e appunto nella società
civile operano gli intellettuali”
(cit. Rossi e Vacca 2007, p. 47)
57
n.20 / 2008
82
Q. 6, §88, Sta to genda rme
- gua rdia no notturno, pp.
763-764.
83
Sul concetto di egua glia nza in Gra msci, in verità
non a lieno da difficoltà
interpreta tive, si veda
Revelli (1988).
84
Sulle ma trici a ristoteliche
della concezione gra mscia na dello Sta to e della
“società regola ta ”, cfr.
Fontana (2002, pp. 157-178).
85
é da nota re […] la confusione tra il concetto di
Sta to-cla sse e il concetto di
società regola ta . […]
Finché esiste lo Sta to-cla sse
non può esistere la società
regola ta , a ltro che per
meta fora , cioè solo nel
senso che a nche lo Sta tocla sse è una società regola ta . Gli utopisti, in qua nto
esprimeva no una critica
della società esistente a l
loro tempo, comprendeva no benissimo che lo Sta tocla sse non poteva essere la
società regola ta , ta nto è
vero che nei tipi di società
ra ppresenta ti da lle diverse
utopie, s’introduce l’ugua glia nza economica come
ba se necessa ria della riforma progetta ta : ora in questo gli utopisti non era no
utopisti, ma concreti scienzia ti della politica e critici
congruenti. Il ca ra ttere utopistico di a lcuni di essi era
da to da l fa tto che riteneva no si potesse introdurre l’ugua glia nza economica con
leggi a rbitra rie, con un a tto
di volontà , ecc. Rima ne
però esa tta mente il concetto […] che non può esistere
ugua glia nza politica completa e perfetta senza ugua glia nza economica (Q. 6,
§12 Sta to e società regola ta ,
p. 693).
58
di Stato-guardiano notturno, cioè di una organizzazione coercitiva che tutelerà
lo sviluppo degli elementi di società regolata in continuo incremento, e pertanto riducente gradatamente i suoi interventi autoritari e coattivi. Né ciò può far
pensare a un nuovo “liberalismo”, sebbene sia per essere l’inizio di un’era di
libertà organica82.
La dimensione “utopica” che caratterizza questa prospettiva politica è ben presente a Gramsci, come egli stesso tiene a sottolineare: il superamento del
momento coercitivo richiede l’avverarsi di una condizione che tutti gli scienziati
politici hanno sempre assunto come ipotesi del loro ragionamento, senza la
quale non sarebbe concepibile la teoria dello “stato senza Stato”. Ma nel fare ciò
non si discostavano dalla “pura scienza” – ossia dalla “pura utopia” – basandosi
“sul presupposto che tutti gli uomini sono realmente uguali e quindi ugualmente ragionevoli e uguali, cioè passibili di accettare la legge spontaneamente, liberamente e non per coercizione, come imposta da altra classe, come cosa esterna
alla coscienza”.
Ma la condizione della libertà “organica” è da realizzarsi anche e soprattutto sul
terreno economico, attuando una maggiore uguaglianza materiale tra gli individui. Questa idea viene sottolineata anche nelle critiche all’idee di Spirito sulla
“società regolata”, che rimane puro “verbalismo” se non accompagnata da una
radicale mutamento nei rapporti economici e sociali. Il superamento della coercizione e l’avvento dell’autodisciplina necessitano dunque una maggiore egua glia nza economica. Solo in questo modo è possibile dare contenuto anche all’eguaglianza politica, altrimenti destinata a rimanere un vuoto principio formale83.
La “società regolata” di Gramsci84 e l’estinzione dello Stato potrà dunque avverarsi solo nel momento in cui si infrangeranno i legami gerarchici tra le classi85.
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60
Giorda no Sivini
I mutui subprime e le attività predatorie
del capitale finanziario negli Stati Uniti
Borderline
Negli Stati Uniti ci sono milioni di famiglie che vengono espropriate della casa
perché non sono in grado di pagare le rate di mutui garantiti da ipoteche immobiliari. I mutui sono stati trasformati in titoli finanziari mediante la cartolarizzazione. Con questa trasformazione, i costi sostenuti dai mutuatari alimentano flussi di cassa che remunerano i detentori dei titoli e gli intermediari finanziari che
li hanno creati e che li gestiscono. Quando una parte consistente di mutuatari si
è trovata nella condizione di non poter rimborsare i prestiti, i flussi di cassa si
sono inariditi ed i titoli hanno perso valore. Per la posizione che avevano sul mercato finanziario, il loro crollo ha provocato effetti domino. Il mondo della finanza è stato investito da una generale crisi di fiducia, che ha inceppato i rapporti
tra gli istituti finanziari e provocato perdite ingenti.
Un’ampia pubblicistica si è occupata e si occupa delle insolvenze dei mutuatari
e delle espropriazioni delle case. Mette in evidenza che i sottoscrittori dei mutui
sono stati vittime di mediatori e di agenzie che ricorrevano a pratiche comunemente definite predatorie, ingannando i clienti con offerte apparentemente convenienti. A queste pratiche fa risalire sia gli alti costi dei mutui subprime, sia l’elevato livello di insolvenze. Una parte della pubblicistica riconosce anche che le
pratiche predatorie si sono generalizzate per la facilità con cui i mutui subprime
sono stati acquistati da chi aveva interesse a trasformarli in titoli.
In questo lavoro affronto un problema che è stato trascurato. La trasformazione
dei mutui in titoli ha contribuito a far lievitare i costi adossati ai mutuatari. Sono
serviti a remunerare gli intermediari finanziari intervenuti nel processo di cartolarizzazione; a coprire i rischi di insolvenza ai livelli che le agenzie di rating ritenevano adeguati; e, soprattutto, a rendere più appetibili i titoli rispetto ad altri
trattati sul mercato finanziario.
Per analizzare questo aspetto della crisi dei subprime, nei primi paragrafi del
lavoro mi soffermo sul sistema di a pa rtheid finanziaria, che assoggetta i consumatori americani con una incerta credit history a condizioni di credito gravose;
accenno alla situazione di milioni di famiglie costrette a subire l’espropriazione
delle case; descrivo le pratiche predatorie che le hanno indotte a sottoscrivere i
mutui. Nei paragrafi successivi esamino gli strumenti finanziari messi in atto dalle
grandi banche di Wall Street per realizzare utili basati sui flussi di cassa dei mutui;
61
infine metto in evidenza come siano stati imposti ai mutuatari costi crescenti al
fine di rendere i titoli più attrattivi per investitori e speculatori.
Nelle conclusioni faccio riferimento all’interpretazione di alcuni economisti che,
sulla scorta del pensiero di Minsky, guardano alla crisi del circuito finanziario dei
subprime come ad un ponzi scheme, che, per eccesso di speculazione, finisce
col svalorizzare il capitale finanziario. Rilevo che questa, come altre interpretazioni tutte interne alla logica della finanza, trascura il problema del rapporto tra
il capitale e l’economia reale. Avanzo la tesi che quello dei mutui subprime è da
considerare un caso paradigmatico del modo in cui, secondo la tesi di Harvey e
Arrighi, il capitale finanziario realizza l’accumulazione attraverso la spoliazione di
ricchezza sociale.
L’ a pa r theid finanziario
1
T.L. O'Brien, “Lowering
the Credit Fence; Big
Pla yers Are Jumping Into
Risky Loa n Business”, New
York Times (NYT),
December 13, 1997.
62
“Nel nostro paese abbiamo una fina ncia l a pa rtheid“, dice William Brennan,
avvocato specializzato in abusi sui mutui, riferendosi ai mutuatari subprime. “E’
gente di basso reddito, spesso minoranze etniche oberate da iniqui tassi di interesse”1. Al mercato dei subprime è costretto chi ha una ba d credit history, una
storia che viene espressa sinteticamente da un FICO credit score. Il punteggio
deriva dalla valutazione di dati che compaiono sulla scheda personale di ogni
consumatore americano, e sono riferiti alla loro situazione debitoria.
Tre grandi organizzazioni - Transunion, Experian, ed Equifax - raccolgono da
molteplici fonti (depositi bancari, istituti che gestiscono carte di credito, assicurazioni, enti che erogano servizi) le informazioni sui redditi, sui debiti, sui pagamenti; stilano con frequenza mensile rapporti individuali; e, mediante modelli
matematici messi a punto da una società specializzata, assegnano ad ogni consumatore un punteggio, appunto il FICO score. Per la sua determinazione, le
informazioni vengono pesate. Su un valore massimo di 900 scores la puntualità
nei pagamenti pesa fino al 35 per cento, il rispetto dei limiti di credito fino al 30
per cento, l’ampiezza temporale della storia dei crediti fino al 15 per cento, la
quantità di canali di credito e i tipi di credito ciascuno fino al 10 per cento.
Il FICO score definisce il rischio di credito di ciascun consumatore, ed in base ad
esso vengono definite le condizioni a lui applicate per qualsiasi finanziamento,
dall’acquisto di un’automobile, al prestito personale, al mutuo sulla casa.
Ciascuno ha diritto di conoscere il proprio indice rivolgendosi alle organizzazioni che lo produce; in realtà pochi lo sanno o lo fanno.
Se il punteggio varia tra 900 e 700, al consumatore che ha bisogno di credito vengono applicate condizioni “prime” o “A”; nel caso del mutuo immobiliare, un
buon tasso fisso, sempre che disponga di una adeguata copertura ipotecaria e di
un appropriato rapporto tra reddito e rata di mutuo. Le condizioni si fanno via
via più gravose quando il punteggio si abbassa; con meno di 640-620 gli vengono attribuite condizioni “subprime” o “B”. Se ha avuto difficoltà a rispettare le
scadenze nei rimborsi, o ha dovuto ricorrere a una pluralità di prestiti per farvi
fronte, ne paga dunque le conseguenze, indipendentemente dalle cause all’origine di questi comportamenti, il più delle volte eventi inattesi e non voluti.
Il consumatore che non ha un conto in banca finisce, in quanto privo di una credit history, in una sottospecie dei subprime, l’Alternative-A, correntemente Alt-A.
Giorda no Sivini
I mutui subprime e le attività predatorie
I mutui per l’acquisto e la ristrutturazione della casa sono deducibili dalle tasse,
ma quelli immobiliari subprime sono serviti a questo scopo solo in piccola parte.
“Molte famiglie di medio e basso reddito hanno pensato che indebitarsi con le
proprie case è una maniera sensata per riempire i buchi dei bilanci familiari, e, in
maniera senza precedenti, sono ricorse ad ipotecarle per avere soldi o rifinanziare debiti”2. La spinta ai consumi attraverso l’indebitamento è una costante dell’economia statunitense, e l’indebitamento coperto dal mutuo sulla casa era
anche in passato abbastanza diffuso3. Una campagna pubblicitaria, via tv e ma il
spam, ha sollecitato ad accendere mutui ipotecari per far fronte a consumi, investimenti e debiti da carte di credito, nonostante fosse evidente che “con un debito derivante dall’utilizzazione della credit card si può arrivare al fallimento, mentre con il mutuo immobiliare si può perdere la casa, proprio come spesso accade”4.
2
E. Schloemer, W. Li, K.
Ernst, K. Keest, Losing
Ground: Foreclosures in
the Subprime Ma rket a nd
Their Cost to Homeowners,
Center for Responsible
Lending, December 2006.
3
P. Jorion, “Misère de
l’Eta t-Providence a ux
Eta ts-Unis: l’exemple de la
politique a mérica ine du
logement“, L’Homme et la
société, 163-164, 2007.
“Il sogno a mer ica no pignor a to” 5
Nel 2007 sono state registrate 2,2 milioni di azioni legali contro proprietari di
case che non avevano fatto fronte ai debiti contratti con mutui immobiliari. Nel
2006 le azioni erano state 1,3 milioni, nell’anno precedente 0,9; nel 2004 0,7; nel
1993 solo 0,4. Questi dati non si riferiscono ad azioni direttamente finalizzate
all’espropriazione di case, bensì a notifiche di insolvenze, pignoramenti, aste e
cessioni ai creditori; più azioni, dunque, che possono riguardare uno stesso
mutuo. I mutuatari colpiti sono stati 1,3 milioni nel 2007, con un aumento del 75
per cento rispetto all’anno precedente; negli ultimi due anni, dunque, più di 2,2
milioni; altri due milioni – secondo recenti stime - non si troveranno in stato di
insolvenza nel 2008 e 2009, sui tre milioni e mezzo che si stanno dibattendo in
debiti superiori al valore della casa6.
Questi dati si riferiscono a tutti i mutui immobiliari, ma un peso determinante
nella diffusione delle procedure legate all’insolvenza l’hanno i mutui subprime,
accordati a persone in condizioni economiche precarie, che spesso già stavano
subendo le conseguenze di crisi localizzate. Una analisi, peraltro riferita agli anni
precedenti alla crisi, dal 1999 al 2005, mette in evidenza che, tra le cause di insolvenza, la principale (41,5 per cento) è riconducibile alla contrazione del reddito
familiare dovuta alla perdita di un posto di lavoro; pesano poi (38,4 per cento)
altri eventi inattesi: dalla rottura delle relazioni familiari, alle malattie, ai decessi7.
Le conseguenze dell’espropriazione della casa sono drammatiche. “La perdita
non riguarda solo il posto in cui si vive e, con esso, di una parte significativa della
propria ricchezza; riduce anche le capacità di contrarre nuovi prestiti e impedisce l’acquisto e persino l’affitto di una nuova abitazione”8.
La crisi si manifesta in forme più acute nelle aree in cui le minoranze nere ed
ispaniche hanno maggior peso, e in genere nei quartieri popolari, ma si sta
estendendo anche al ceto medio. Tra le aree metropolitane è in testa, per numero di azioni legali, Detroit. Dal 2001 al 2006 aveva perso oltre 130 mila posti di
lavoro, e nel 2007 cinque famiglie su cento sono state coinvolte nei pignoramenti, altre tre nel 20069.
Quando le famiglie espropriate sono costrette ad abbandonare le case, queste,
sempre più spesso invendute, rimangono abbandonate, e tutto il quartiere si
deteriora. A Cleveland dove sono state cacciate 14 mila famiglie, molti edifici non
4
M. Moss, “Era se Debt Now.
(Lose Your House La ter.)”,
NYT, October 10, 2004.
5
F. Fessenden,
“The America n Drea m
Foreclosed”, NYT, 14
ottobre 2007.
6
Volunta ry Loa n
Modifica tion, Center for
Responsible Lending,
Ja nua ry 30, 2008.
7
Sta tement of J. M. Robbins,
Cha irma n of the Mortga ge
Ba nkers Associa tion, before
the US House Committee on
Fina ncia l Services, on
“Subprime Preda tory
Lending”, Ma rch 27, 2007.
8
9
Sheltering Neighborhoods
from the Subprime
Foreclosure Storm, Joint
Economic Committee
Specia l Report, 2007.
Rea ltyTra c Yea r-End 2007,
Metropolita n Foreclosure
Ma rket Report, Februa ry
13, 2008.
63
n.20 / 2008
10
C. Ma a g, “Clevela nd Sues
21 Lenders Over Subprime
Mortga ges”, NYT, Ja nua ry
12, 2008.
11
Testimony of M. D.
Ca lhoun, Center for
Responsible Lending, before
the US House Committee on
Fina ncia l Services, on
“Subprime Preda tory
Lending”, Ma rch 27,2007:
12
I. Ackelsberg, Esquire,
Written Sta tement before
the U.S. Sena te Committee
on Ba nking, Housing a nd
Urba n Affa irs, on
“Mortga ge Ma rket Turmoil:
Ca uses a nd Consequences”,
Ma rch 21, 2007
64
più occupati sono stati demoliti per prevenire il diffondersi di atti vandalici e di
incendi dolosi10. I costi gravano su chi resta; e se, le tasse sulla proprietà immobiliare non aumentano in proporzione alle spese di intervento, diminuiscono i
servizi pubblici, cresce l’insicurezza, cala il valore degli immobili; chi se ne vorrebbe andare non riesce a venderli. I servizi commerciali si contraggono, e si
moltiplicano altri tipi di insolvenze, in particolare relative all’uso delle carte di
credito.
I sindaci di Cleveland e di Baltimora sono stati i primi a reagire, chiamando in
causa, sul piano giudiziario, chi ritenevano all’origine della situazione. Cleveland
ha denunciato ventuno grandi finanziarie per le responsabilità che avrebbero
avuto nella concessione di prestiti ipotecari a condizioni esose; Baltimora si è
limitata ad agire contro un istituto locale accusato di pratiche predatorie.
Iniziative di questo tipo si stanno diffondendo, e crescono anche le cla ss a ctions
(116 nel 2006 e 166 nel 2007) di mutuatari contro società che hanno operato nel
mercato primario, anche se, a seguito della crisi, molte sono già fallite.
L’alto tasso di espropriazioni non è il prezzo pagato per consentire a strati sociali meno abbienti di accedere alla proprietà della casa, come voleva la retorica
della ownership society di Bush. Il numero di case espropriate è infatti più alto
di quelle acquistate. Il calcolo, non contestato, è stato fatto alla fine del 2006 dal
Center for Subprime Lending, una organizzazione nata per la tutela dei mutuatari; e da allora la situazione è peggiorata. Tra il 1998 e il 2006 circa 1,4 milioni di
mutuatari subprime avevano acquistato per la prima volta una casa, ma nello stesso periodo altre 2,4 milioni l’avevano persa od erano in procinto di perderla11.
Le pr a tiche pr eda tor ie
“I mutui subprime si sono propagati come una corsa all’oro, dove l’oro era la ricchezza investita nella proprietà della casa. Una corsa determinata dal collasso
delle regole di sottoscrizione dei mutui. Per essere chiari, queste regole sono
state travolte dalla caccia al profitto ad ogni costo”12. Negli anni ‘90 il valore complessivo dei mutui negli Stati Uniti si aggirava sui mille miliardi di dollari; si è moltiplicato per quattro tra il 2001 e il 2003; poi si è assestato attorno a 3 mila miliardi. I mutui subprime sono progressivamente cresciuti. Erano, in valore sul totale dei mutui immobiliari, il 5 per cento nel 1994, 9 nel 1996, 13 nel 1999; hanno
superato il 20 per cento nel 2006; in quantità intorno al milione all’anno fino al
2002, un milione e mezzo nel 2003, due milioni e duecento mila nel 2004, tre
milioni e 300 mila nei due anni successivi.
Quelli finalizzati al primo acquisto di una casa sono cresciuti percentualmente
dall’8 all’11 del totale dei subprime negli ultimi cinque anni; gli altri sono serviti
per rifinanziare debiti preesistenti, ristrutturare, sostenere consumi e costi
imprevisti. Il rifinanziamento di mutui già coperti da ipoteca era stato possibile
tra il 2001 e il 2005, quando, per il valore delle case sempre crescente, l’accresciuto valore dell’immobile garantiva il nuovo prestito. Quando nel 2006 la tendenza del mercato immobiliare si è invertita, il rifinanziamento ha cessato di
essere una opzione.
Con l’aumento dei tassi di interesse deciso dalla Federal Reserve nel 2004 la sottoscrizione di mutui a tasso fisso è andata rallentando. Mediatori e agenzie di cre-
Giorda no Sivini
I mutui subprime e le attività predatorie
dito sono stati allora spinti ad impegnarsi sempre più sul ‘mercato emergente’
dei subprime, adattando la propria offerta alle condizioni di gente economicamente in difficoltà, rendendola così semplice da attrarre anche persone che
avrebbero potuto aspirare a mutui a tasso fisso13.
Sono stati aggirati i vincoli posti a garanzia della capacità di rimborso dei mutuatari. Nelle richieste di mutuo non c’è stato più bisogno di documentare il reddito. Questi ‘sta ted income’ loa ns, definiti anche ‘lia rs loa ns’, riguardavano nel
2006 più del 50 per cento dei mutui subprime. C’erano persino i ‘nina ’ loa ns,
una abbreviazione per ‘no income, no a ssets‘, che prescindevano dall’indicazione del valore dell’immobile. Oltre diecimila periti che avrebbero dovuto attestarlo hanno sottoscritto una petizione diretta alle autorità federali di controllo
per denunciare di essere stati sottoposti a minacce quando avevano rifiutato di
gonfiare i valori degli immobili ai livelli richiesti dalle agenzie di credito.
Rimossi i vincoli relativi al reddito e al valore della proprietà immobiliare, coloro
che aspiravano al mutuo venivano convinti con proposte di pagamenti facilitati e
promesse di futuri rifinanziamenti a condizioni migliori. Il sistema più diffuso - il
91 per cento dei casi nel 2006 - è stato quello dei mutui a tasso variabile (ARMs,
Adjusta ble Ra te Mortga ges), tre quarti dei quali hybrids in quanto le prime due
(2/28 ARMs) o tre annualità (3/27 ARMs) erano a tasso fisso; nelle annualità successive scattava il tasso di interesse variabile. I Pa y Option ARM loa ns prevedevano rate inferiori al rimborso degli interessi, e producevano un progressivo
aumento del debito. Con i mutui ba lloon si pagavano solo gli interessi, mentre
alla chiusura il mutuatario doveva rimborsare l’intero debito principale - il ba lloon , appunto - o, in alternativa, accendere un nuovo mutuo o farsi espropriare
l’abitazione.
Spesso veniva contrattualmente limitata la possibilità di ricorso dei mutuatari
all’autorità giudiziaria; erano imposte condizioni onerose per i ritardi nei pagamenti, e penalità per l’estinzione anticipata del mutuo, rendendo quindi più
costoso il rifinanziamento prima della scadenza. Le tasse e i costi di assicurazione
non venivano inclusi nei contratti e fatti pagare a parte dopo la sottoscrizione.
I mediatori erano stati estremamente attivi nell’approfittare dell’ampio ventaglio
di soluzioni che potevano offrire. “Passavano di casa in casa. Bussavano.
Lasciavano lettere nelle cassette postali, chiamavano al telefono… Erano dappertutto”14. In parte erano operatori indipendenti, in parte rappresentanti di
agenzie di credito, banche e assicurazioni locali, aumentate da 30 a 53 mila tra il
2000 e il 2004. Questa rete diffusa faceva capo ad un numero ristretto di società
che operavano all’ingrosso, dando indicazioni sulle condizioni generali minime
di sottoscrizione. Quasi i quattro quinti dei mutui subprime sono passati da questi grossisti. Nessuno era soggetto a controlli pubblici.
Lou Barnes, proprietario di una piccola banca nel Colorado, che da decenni si
occupava di mutui, ricorda che dalla metà degli anni ’90 per chiudere un contratto non si chiedeva più di documentare il reddito, ma si stava attenti a non
dare crediti superiori al 70 per cento del valore dell’immobile. Poi i grossisti
hanno fatto pressione per moltiplicare i mutui. “Un giorno è arrivata una mail
che diceva: compriamo mutui senza documentazione al 95 per cento del rapporto tra prestito e valore dell’immobile, una cosa che non avevo mai visto. Non
passò molto tempo e la mail disse cento per cento”15.
13
Sul fenomeno dei mutui
subprime sottoscritti da
persone con buone credit
histories cfr. R. Brooks, R.
Simon, “As Housing
Boomed, Industry Pushed
Loa ns to a Broa der
Ma rket”, Wa ll Street
Journa l, December 5, 2007.
14
N. D. Schwa rtz,”Ca n the
Mortga ge Crisis Swa llow a
Town?”, NYT, September 2,
2007.
15
D. Schechter, “Subprime
or Subcrime? Time to investiga te a nd Prosecute”,
www.zma g.org.
65
n.20 / 2008
16
W. Apga r, A. Bendimera d,
R. S. Essene, Mortga ge
Ma rket Cha nnels a nd Fa ir
Lending: An Ana lysis of
HMDA Da ta , Joint Center
for Housing Studies,
Ha rva rd University, April
25, 2007.
17
R. Brooks, R. Simon, cit.
18
Testimony before the U.S.
Sena te Committee on
Ba nking, Housing a nd
Urba n Affa irs, on
“Preserving the America n
Drea m: Preda tory Lending
Pra ctices a nd Home
Foreclosures”, Februa ry 7,
2007.
19
66
F. Fessenden, cit.
I mediatori che facevano sottoscrivere mutui più onerosi del necessario venivano premiati. “Gli interessi dei finanziatori e degli agenti erano allineati, nel senso
che entrambi potevano beneficiare finanziariamente del collocamento di prestiti fatti a condizioni più elevate di quelle suggerite nei prontuari”16. In media su
un subprime il mediatore riceveva una commissione pari al 1,88 per cento del
valore del mutuo, contro l’1,48 di quella per un mutuo normale. Una delle
imprese più attive, la Century Financial Corporation, garantiva ai mediatori un
premio pari al 2 per cento del valore del mutuo se gli interessi applicati ai mutuatari erano dell’1,25 per cento più alti della norma17. Nella prospettiva della cartolarizzazione, mutui a costi elevati rendevano di più quando venivano venduti sul
mercato secondario.
“Preserving the American Dream” è il titolo della sessione della commissione del
Senato in cui sono state raccolte alcune testimonianze di gente travolta da pratiche predatorie. Tra queste, Delores King18. “Abito nel South Side di Chicago, in
una casa che possiedo da 36 anni. Ero impiegata amministrativa; ho lavorato per
23 anni nella Chicago School of Optometry. Sfortunatamente nel 2004 sono stata
vittima di una truffa che mi è costata tre mila dollari. Per farvi fronte ho deciso di
rifinanziare il mio mutuo (...). Nel febbraio 2005 ho ricevuto un messaggio telefonico da un certo Chad, un mediatore che lavorava per conto della Advantage
Mortgage Consulting. Mi disse che me ne avrebbe procurato rapidamente uno;
un buon mutuo adatto alla mia situazione. (...) Mi ha portato a casa il contratto
e mi ha fatto firmare pagine e pagine di documenti. Mi ha fatto fretta, senza spiegarmi niente. Non mi ha detto che era un mutuo strano, non usuale. Non mi ha
neppure lasciato le copie che avevo firmato; più tardi ho dovuto richiederle alla
società per cui lavorava. Quando avevo accettato il mutuo, Chad mi aveva detto
che era a tasso variabile, che l’interesse iniziale era solo dell’1,45 per cento; che
la rata regolare sarebbe stata intorno al 6 per cento, e il pagamento mensile intorno a 800 dollari (...). Credevo che l’ammontare da pagare sarebbe aumentato un
poco alla volta; non avevo idea che sarebbe esploso, come è successo, dopo soli
soli due anni (...). All’inizio pagavo 832 dollari al mese, comprese le tasse e l’assicurazione. Ora 1.488 dollari. E’ più del mio intero reddito mensile. Per farvi
fronte mi sono fatta aiutare da familiari e amici, ma adesso mi è impossibile continuare. Il mese scorso ho versato solo 1.200 dollari. Finirò sulla strada se qualche cosa non cambia, e presto”.
Jacqueline Cila di Lond Island, divorziata, con un figlio di sette anni, ha raccontato al New York Times una storia analoga, e sulla stampa se ne sono lette tante
di simili. Aveva, come al solito, spedito due mila dollari per la rata di mutuo, ma
all’indomani aveva ricevuto un avviso che l’informava che era inadempiente:
avrebbe dovuto pagare 2.798 dollari, perchè il tasso era aumentato. Al mutuo era
ricorsa per rifinanziare uno acceso nel 1997. “Lo feci tramite l’amico di un amico,
e non portai con me un avvocato. Chiesi: ‘E’ un mutuo a tasso fisso?’ Mi risposero ‘Si’. Non avevo capito che era fisso solo per due anni”19.
La casistica relativa alle condizioni contrattuali è molto ricca, riferita al comportamento dei mediatori, che hanno guadagnato sui contratti in maniera più che
proporzionale al loro valore, approfittando - liberi da rischi - dello stato di bisogno dei mutuatari e dell’incapacità di capire che cosa sottoscrivevano. “Prima
che concludessimo il contratto - ha riferito la signora Amy Womble alla commis-
Giorda no Sivini
I mutui subprime e le attività predatorie
sione del Senato - il mediatore era stato molto gentile, ed era sembrato veramente attento ad aiutarmi. Una volta firmato, è sparito. Per cinque mesi non ha
neppure risposto alle mie telefonate, e non mi ha mai fornito l’aiuto promesso
per farmi abbassare la rata mensile che dovevo pagare”20.
La proliferazione di pratiche predatorie era stata segnalata molto prima che
esplodesse la crisi. L’aumento dei casi di insolvenza e dei pignoramenti aveva
suscitato già nei primi anni del 2000 un movimento in difesa delle categorie più
deboli, anziani, donne, ispanici e afroamericani. Alan Greenspan, governatore
della Federal Reserve, era stato messo sull’avviso per le conseguenze che stavano producendo i mutui subprime, ma si era corazzato dietro il principio del libero mercato21. L’Office of the Controller of the Currency, competente per le attività degli istituti bancari operanti a livello federale, aveva impedito che fossero
perseguite le loro filiali locali negli Stati che avevano adottato leggi contro le pratiche predatorie. Al procuratore generale di New York che considerava “abominevole” questa insensibilità verso persone vulnerabili, il Controller aveva risposto che le leggi avrebbero avuto ripercussioni negative sul mercato secondario22.
Nel 2001 erano state avanzate proposte per aumentare i controlli sulla concessione dei mutui, ma si erano scontrate con il fatto che il Governo e la Federal
Reserve erano determinati ad evitare ostacoli ad ‘innovazioni finanziarie’ che,
estendendo la proprietà della casa, avrebbero contribuito a realizzare la ownership society predicata dal Presidente Bush. Per la diffusione dei mutui 2/28 e 3/27
ARMs si era impegnato lo stesso Alan Greenspan. In un discorso alla National
Credit Union Administration aveva sostenuto che i consumatori americani traevano benefici dall’offerta di prodotti alternativi ai tradizionali mutui a tasso fisso.
Lo aveva fatto nel febbraio 2004, poco prima di portare i tassi di interesse, in successione, dall’1 al 5,25 per cento23.
Da un punto di vista opposto, nel marzo 2002, in un’intervista al New York Times
che si stava occupando delle pratiche predatorie, la direttrice di un’organizzazione non profit aveva chiarito: “Sul terreno non c’è solo un mediatore o un prestatore canaglia. C’è molto di più, incorporato in tutto l’apparato finanziario
(…). Le banche di investimento e di assicurazione di Wall Street hanno trovato
la strada per trar profitto da questo segmento di mercato (...). Senza il mercato
secondario, senza la cartolarizzazione, non si avrebbe questa proliferazione di
attività predatorie”24.
I ma ghi della fina nza e lo tsuna mi
In cima alla piramide dei mediatori, delle agenzie di credito e dei grossisti stanno 25 grandi istituzioni bancarie che nel 2005 avevano raccolto l’85 per cento dei
3,1 milioni di dollari di mutui. Il resto era stato trattato da poche altre società che
si occupavano a livello nazionale solo o prevalentemente del credito immobiliare. A questo capitale finanziario concentrato interessava che si facessero mutui,
indipendentemente dalle condizioni contrattuali. “Predisponendo i mutui per
venderli rapidamente non si prestava attenzione al fatto che venissero rimborsati. I maghi della finanza rendevano facile il trasferimento dei rischi”25.
Con la cartolarizzazione, mutui provenienti da molte fonti venivano assemblati
per dar luogo a titoli che venivano venduti agli investitori. Ciascun titolo era giu-
20
Testimony of Ms. Amy
Womble, Consumer from
Pittsboro, North Ca rolina ,
before the U.S. Sena te
Committee on Ba nking,
Housing a nd Urba n Affa irs,
on “Preserving the
America n Drea m:
Preda tory Lending
Pra ctices a nd Home
Foreclosures”, Februa ry 7,
2007.
21
P. Krugma n, "A
Ca ta strophe Foretold", NYT,
October 26, 2007.
22
D. Hevesi, “Residentia l
Rea l Esta te; Loser US
Lending Rules Are
Protested”, NYT, April 2,
2004.
23
Il rilievo sul comporta mento di Greenspa n è sta to
fa tto da l sena tore C. J.
Dodd, Cha irma n, nell’intervento introduttivo a l
U.S. Sena te Committee on
Ba nking, Housing a nd
Urba n Affa irs on “Mortga ge
Ma rket Turmoil: Ca uses
a nd Consequences”, Ma rch
21, 2007.
24
D. Hevesi, “A Wilder Loa n
Pool Dra ws More Sha rks”,
NYT, Ma rch 24, 2002.
25
F. Norris, “A Ba d Loa n by
Any Other Na me”, NYT,
November 23, 2007.
67
n.20 / 2008
26
D. Berenba um, Executive
Vice President of the
Na tiona l Community
Reinvestment Coa lition,
Testimony before the Sena te
Sub-Committee on Housing,
Tra nsporta tion a nd
Community Development,
on “Ending Mortga ge
Abuse: Sa fegua rding
Homebuyers”, June 26,
2007.
27
In origine Fa nni Ma e e
Freddie Ma c era no solo
nomignoli con cui la gente
pronuncia va gli a cronimi
delle due società - rispettiva mente FNMA (Federa l
Na tiona l Mortga ge
Associa tion) e FHLMC
(Federa l Home Loa n
Mortga ge Corpora tion) ma divennero ta nto popola ri che furono a dotta ti
ufficia lmente.
68
ridicamente separato dagli altri, e, a sua volta, separato dall’insieme dei mutui di
cui era costituito. Non era vincolato ad essi se non per il flusso di cassa che da
essi derivava. “Nessuno è responsabile quando lo tsunami colpisce i mutuatari”26,
era la prospettiva in cui operava il capitale finanziario. Tra il 2001 e il 2006 la
quantità cartolarizzata aumentò dal 50 all’80 per cento del totale dei mutui subprime, e il valore dei titoli subprime passò da 95 a 483 miliardi di dollari, cioè dal
43 al 71 per cento del totale dei titoli basati su questi mutui.
La cartolarizzazione dei mutui immobiliari era stata inventata negli Stati Uniti nel
1977. Nel 1985 era stata estesa ai prestiti per l’acquisto di automobili, nel 1986 a
quelli coperti dalle carte di credito, poi ad altre attività. Il primo a realizzare la
cartolarizzazione era stato Freddie Mac, insieme con la Bank of America e con
Salomon Brother, per liberarsi degli immobilizzi derivanti da mutui acquistati
che, in mancanza di uno sbocco, era obbligata a detenere in portafoglio. Questa
era la funzione per cui la società era stata creata nel 1970 da una costola di Fannie
Mae, che, con lo stesso obiettivo, era stata costituita nel 1939 come agenzia
governativa. Entrambe dovevano acquistare mutui immobiliari da coloro che
erogavano i crediti, per liberarli dall’esposizione finanziaria, fornendo la liquidità necessaria per espandere l’attività.
Fannie Mae e Freddie Mac, in concorrenza tra loro, sono - una dal 1968, l’altra
dalla fondazione nel 1970 - società per azioni quotate in borsa. Per la funzione
pubblica di sostenere la diffusione della proprietà immobiliare vengono tuttora
considerate Government-Sponsored Enterprises; nei loro consigli di amministrazione siedono persone nominate direttamente dal Presidente degli Stati
Uniti27. Entrambe - dovendo, per i mutui che si accollavano, ottenere la garanzia
di una agenzia federale - hanno per lungo tempo dettato le condizioni della loro
erogazione. Dovevano essere conforming mortga ges, per mutuatari che davano
garanzie oggettive di solvibilità e che sottoponevano ad ipoteca immobili di valore sensibilmente inferiore al prestito erogato, stipulando in certi casi assicurazioni accessorie.
Fannie Mae e Freddie Mac fino agli anni ’90 avevano in portafoglio quasi la metà
del totale dei mutui. Banche ed istituti finanziari che operavano in concorrenza
adottavano standard contrattuali non dissimili. Prima della cartolarizzazione, gli
utili derivavano, per tutti, dall’oculata gestione dei flussi di cassa derivanti dai
mutui acquistati sul mercato primario e detenuti in portafoglio.
Dal sistema “origina te a nd hold” - finanziare e tenere in portafoglio - si era passati per i mutui ‘conformi’, la grande maggioranza, al sistema “origina te a nd sell”finanziare e vendere sul mercato secondario, per lo più a Fannie Mae e a Freddie
Mac. Con l’avvento della cartolarizzazione si è andato generalizzando il sistema
“origina te to distribute”, allungando i passaggi sul mercato secondario. Questo
sistema si è diffuso dopo il 1999 quando una legge statunitense ha consentito alle
banche di deposito di competere con altri istituti finanziari già liberi da controlli,
ricorrendo anche ad operazioni fuori bilancio attraverso proprie collegate.
Nel processo di cartolarizzazione dei mutui intervengono in sequenza diversi
operatori, nel mercato primario e in quello secondario, ciascuno dei quali trae
ricavi dalla funzione che svolge. La sequenza inizia sul mercato primario con il
mediatore, il broker , che materialmente interagisce con il mutuatario nella definizione del prestito coperto da garanzie ipotecarie. Il più delle volte lavora per
Giorda no Sivini
I mutui subprime e le attività predatorie
una banca o una agenzia finanziaria locale. Questa, definita origina tor, eroga il
denaro al mutuatario, e registra il proprio diritto - garantito da ipoteca - a riaverlo con gli interessi, secondo le condizioni contrattuali. Cede poi il mutuo all’eventuale grossista, e questo ad un a ggrega tor che opera sul mercato secondario
e che lo assembla insieme a tanti altri di diversa provenienza. L’a ggrega tor è una
società o un consorzio, il più delle volte legato ad una delle grandi istituzioni
finanziarie di Wall Street, costituito per gestire queste attività fuori bilancio al
riparo di responsabilità giuridiche28, e che per questo viene definito specia l purpose vehicle o entity.
Con l’assemblaggio i mutui sono raccolti in pacchetti, pools, corrispondenti a
titoli RMBS (Residentia l Mortga ge Ba cked Securities). Ciascun pool è suddiviso
gerachicamente in più strips o tra nches, tecnicamente denominate senior , mezza nine ed equity. I flussi di cassa generati dai mutui remunerano i titoli secondo un ordine di priorità che va dalle tra nches senior - quelle con rischi più bassi
- via via a quelle subordinate, così che le eventuali insolvenze dei mutuatari si
riflettono in ordine inverso a partire dalle ultime, più rischiose.
Ultimo elemento della catena di operatori nel sistema di cartolarizzazione è il
ma ster servicer , solitamente delegato dall’a ggrega tor alla raccolta delle rate di
mutuo e alle procedure di esecuzione in caso di insolvenze, nonchè alla distribuzione dei flussi di cassa ai detentori dei titoli. E’ una attività che le economie
di scala rende altamente concentrata, anche se, tenendo conto della distribuzione geografica dei mutui, viene subappaltata a diversi servicers, non di rado contrattualmente obbligati a detenere titoli ad alto rischio “per indurli ad essere
aggressivi nella raccolta dei pagamenti”29. Valutati in rapporto alla loro efficacia,
vengono spesso cambiati, così che i mutuatari, nel corso della gestione dei
mutui, restano sovente senza referenti stabili. I servicers, d’altra parte, devono
seguire le procedure incluse nella documentazione della cartolarizzazione, che
di solito limitano la possibilità di modificare i termini del contratto di mutuo.
“Molti servicers non vogliono discutere di modificarli prima che siano passati
almeno tre mesi dall’insolvenza, quando ormai tanti mutuatari sono in gravi difficoltà finanziarie; per di più non vogliono o non possono fare cambiamenti”30.
Nell’assemblaggio dei mutui gli a ggrega tors lavorano con una agenzia di rating,
che determina le condizioni per assegnare ai titoli quella valutazione di basso
rischio che per legge devono avere per essere detenuti in portafoglio da alcune
categorie di investitori istituzionali come i fondi pensione. Moody’s, Standard &
Poor’s, e Fitch sono le agenzie di rating che dominano anche il mercato delle cartolarizzazioni anche se la loro funzione originaria riguarda la valutazione dei
rischi di impresa31. I loro introiti dipendono dalla quantità di operazioni di cartolarizzazione a cui partecipano, in quanto è l’a ggrega tor che le sceglie e le paga.
Considerando che per queste attività ricevevano “commissioni circa il doppio di
quelle ottenute per valutare i titoli delle imprese”32, le agenzie di rating avevano
interesse a concentrarsi “eccessivamente” sulla quantità - piuttosto che sulla qualità - di mutui cartolarizzati33, giungendo persino a cercare di ostacolare l’approvazione di leggi statali contro le pratiche predatorie, minacciando di non operare più in quegli stati che le avessero adottate34.
Sulla valutazione dei livelli di rischio influisce l’esistenza di strumenti cuscinetto,
che hanno la funzione di proteggere le tra nches senior dai rischi. Lo strumento
28
K. C. Engel, P. A. McCoy,
“Turning a Blind Eye: Wa ll
Street Fina nce of Preda tory
Lending”, Fordha m La w
Review, vol. 75, 2007, p. 127
29
C. L. Peterson, Associa te
Professor of La w, University
of Florida , Written
Testimony before the U.S.
Sena te Subcommittee on
Securities, Insura nce, a nd
Investment on “Subprime
Mortga ge Ma rket Turmoil:
Exa mining the Role of
Securitiza tion”, April 17,
2007.
30
V. Ba ja j, “For Some
Subprime Borrowers, Few
Good Choices”, NYT, Ma rch
22, 2007.
31
Sulla problema tica delle
va luta zioni cfr. J. C. Coffee
Jr., “The Role a nd Impa ct of
Credit Ra ting Agencies on
the Subprime Credit
Ma rkets”, before the Sena te
Ba nking Committee,
September 26, 2007.
32
L. Ra nda ll Wra y, Lessons
from the Subprime
Meltdown, Levy Economics
Institute, Working Pa per
no. 522, 2007.
33
K. Eggert, Professor of
Law, before the
Subcommittee on Securities,
Insurance, and Investments
on “Subprime Mortgage
Market Turmoil: Examining
the Role of Securitiza tion”,
April 17, 2007. Le a utorità
giudizia rie di Connecticut,
New York e Ohio sta nno
inda ga ndo se le tre a genzie
si sia no impegna te in pra tiche a nticompetitive e se i
ra tings sia no sta ti influenza ti da lle società che li
richiedeva no: cfr. L.
Browning, “Connecticut
Investiga tes Ma jor DebtRa ting Agencies”, NYT,
October 27, 2007.
34
K. Eggert, cit.
69
n.20 / 2008
35
J. Kregel, Minsky’s
Cushions of Sa fety: Systemic
Risk a nd the Crisis in the
U.S. Subprime Mortga ge
Ma rkets, Public Policy Brief
Series, Levy Economics
Institute, 2008, p. 11.
più importante è costituito dalla stessa suddivisione del pool in tra nches, in
quanto quelle subordinate proteggono le senior. L’agenzia di rating agisce su
questa suddivisione. Altri strumenti, su cui essa può esercitare il controllo, sono
l’overcolla tera liza tion , quando nel pool viene compresa una quantità aggiuntiva di mutui per supplire ai flussi di cassa di quelli eventualmente insolventi; il
credit enha ncement che fa intervenire garanzie di tipo assicurativo; l’excess
sprea d, dato dalla differenza tra l’ammontare dell’interesse pagato sui mutui e
l’ammontare dell’interesse trasferito ai detentori di titoli, trattenuta per compensare le eventuali insolvenze.
Alla protezione dal rischio ha concorso anche, in termini generali, l’andamento
positivo del mercato delle abitazioni e la continua crescita del loro valore fino al
2004. Gli investitori potevano alimentare il flusso di cassa dei titoli contando sia
sul rifinanziamento dei debiti, sia sul recupero dei crediti mediante l’espropriazione e la vendita degli immobili dei mutuatari insolventi.
Il sistema “origina te to distribute” ha frammentato il rapporto di credito, che un
tempo si svolgeva tra due parti - il creditore e il debitore, o tre - quando interveniva anche un acquirente esterno come Freddie Mae o Fannie Mac. Le banche
che erogavano i mutui e li tenevano nel portafoglio erano interessate a monitorare i debitori e ad evitare le insolvenze. Con la cartolarizzazione, il monitoraggio si è spostato dalla banca alle agenzie di rating, dal singolo mutuo ai pools di
mutui, dalla solvibilità dei mutuatari al rischio degli investitori. In questa situazione le banche che erogano i mutui “non hanno alcun interesse per la valutazione del rischio di credito, dal momento che gli interessi e il debito principale
vanno rimborsati agli acquirenti finali dei titoli”35. Sono questi, del resto, che reggono il circuito complessivo dei mutui dal momento che a fronte dei titoli che
acquistano forniscono soldi che arrivano agli origina tors che fanno nuovi mutui.
Nei passaggi intermedi dai detentori dei titoli ai mutuatari e viceversa tutti gli
operatori vivono di commissioni, rapportate alle funzioni che svolgono - dai
mediatori, alle agenzie locali che erogano i crediti, alle società cui i grandi istituti finanziari demandano le funzioni di assemblaggio dei mutui, ai servicers.
Il “pr ezzo a ppr opr ia to”
36
V. Ba ja j, R. Nixon,
“Subprime Loa ns Going
From Boon to Housing
Ba ne”, NYT, December 6,
2006.
37
J. C. Duga n, Comptroller
of the Currency, Testimony
before the Committee on
Fina ncia l Services of the US
House of Representa tives,
on “Recent Events in the
Credit a nd Mortga ge
Ma rkets” September 5,
2007.
70
“I titoli subprime erano particolarmente appetiti, perchè gli alti interessi che i
mutuatari pagavano li rendevano più remunerativi dei prime, pur tenendo conto
dei maggiori rischi”36. In una situazione di grande liquidità, la loro emissione consentiva di rastrellare sempre nuovi fondi per accendere nuovi mutui. Il circuito
era alimentato da investitori istituzionali e da hedge funds, interessati rispettivamente soprattutto alle tra nches estreme dei pools. L’attività era orchestrata dalle
grandi banche di Wall Street, impegnate anche ad erogare prestiti agli investitori, e ad investire esse stesse in questi titoli per utilizzarli come attività sottostanti altri strumenti finanziari. In particolare ne avevano fatto ampio uso per mobilitare su scala internazionale nuovi capitali emettendo carta commerciale garantita dai titoli RMBS (a sset-ba cked commercia l pa per )37.
Carta commerciale è una lettera con cui l’emittente riconosce il debito contratto con un investitore. Per il primo è uno strumento per finanziarsi, per il secondo per gestire la propria liquidità con un buon rendimento di breve periodo che
Giorda no Sivini
I mutui subprime e le attività predatorie
l’emittente gli assicura38. Le grandi banche avevano costituito società, tecnicamente definite structured investment vehicles, per gestire fuori bilancio anche
queste operazioni. Guadagnavano dalla differenza tra il tasso a breve del denaro
preso a prestito contro a sset-ba cked commercia l pa per e il tasso a lungo più
alto dei titoli39, e investivano il guadagno in nuovi titoli RMBS utilizzati per l’emissione di altra carta commerciale.
I circuiti di produzione di titoli cartolarizzati e di carta commerciale sono entrati in crisi quando la rovina di milioni di mutuatari ha alterato gli attesi flussi di
cassa dei titoli, facendo saltare i cuscinetti che li proteggevano dalle insolvenze.
Il sistema “ha funzionato bene finchè i titoli erano considerati sicuri e liquidi, il
che assicurava che anche la carta commerciale e gli altri titoli emessi per finanziare i loro acquisti erano sicuri e liquidi”40. Poi c’è stato il crollo, che con un effetto domino ha investito altri titoli e più in generale i rapporti fiduciari tra i principali operatori finanziari.
La crisi dei subprime si è imposta all’attenzione dei media e della politica non per
i disastri sociali che il sistema stava già da tempo producendo, ma per la constatazione che erano venute meno le capacità di previsione e di tolleranza dei rischi.
Prima di allora il capitale finanziario si era garantito utili ingenti con gli esorbitanti costi fatti gravare sui mutuatari. Chi erogava i prestiti “era incentivato a caricare tassi di interesse più alti, e oneri nel caso di rimborsi anticipati, perché queste condizioni generavano prezzi maggiori quando i mutui venivano venduti”41.
E gli investitori in titoli subprime, che beneficiavano dei flussi di cassa dei mutui,
“facevano pressioni per imporre costi più alti ai mutuatari”42.
“Anche prima della crisi dei subprime la cartolarizzazione aveva consentito che
si verificassero insolvenze e pignoramenti, che molti consideravano eccessivi e
pericolosi. Però, dal momento che coloro che assemblavano i mutui erano stati
capaci di valutare e distribuire questi rischi, e la domanda aveva fatto aumentare
i tassi di interesse in maniera da giustificarli, le insolvenze ed i pignoramenti
erano stati accettati, anno dopo anno, senza che la reputazione e le finanze delle
banche venissero danneggiate”43. Oltretutto, le azioni legali contro brockers e
origina tors tentate dai mutuatari, non interrompevano le procedure di pignoramento e di espropriazione avviate da chi aveva acquistato e deteneva i titoli in
buona fede44.
La generalizzazione delle pratiche predatorie aveva fatto lievitare i tassi di interesse applicati ai mutui, perchè le agenzie di rating avevano preteso una migliore protezione degli investitori45. Ciononostante, circa la metà dei punti percentuali in più imposti ai mutuatari subprime rispetto ai tassi di interesse dei mutui
conformi non era giustificato dal maggior rischio46. Su un campione di mutui subprime 2/28, i tassi di interesse per i primi due anni erano quasi eguali a quelli dei
mutui a tasso fisso, al quarto anno il divario era prossimo ai 4 punti percentuali47.
Le penalità per il rimborso anticipato del debito erano applicate al 70 per cento
dei mutui subprime contro il 2 per cento dei mutui conformi48.
Nel sistema di a pa rtheid finanziario, le persone già in difficoltà, segnate dallo
stigma del credit score basso, dovevano dunque sopportare oneri crescenti al
fine di aumentare la redditività dei titoli cartolarizzati. Gli interessi che i mutuatari pagavano coprivano i costi dei cuscinetti, remuneravano gli intermediari,
davano ai titoli una redditività appetibile, e, alla carta commerciale garantita dai
38
La ca rta commercia le ha una dura ta ma ssima di 270 giorni ed è
rinnovabile.
39
G. Morenson, J.
Anderson, “Subprime
Problems Sprea d Into
Commercia l Loa ns”,
NYT, August 15, 2007.
40
L. R. Wra y, cit., p.13.
41
K. C. Engel, P. A.
McCoy, cit, , p. 122.
42
43
Ivi.
K. Eggert, cit.
44
Assignee Lia bility,
Center for Responsible
Lending, November 2,
2007.
45
K. C. Engel, P. A.
McCoy, cit, , p. 119.
46
Ivi.
47
S. C. Ba ir, Cha irma n
of Federa l Deposit
Insura nce Co., on
"Subprime a nd
Preda tory Lending",
before the
Subcommittee on
Fina ncia l Institutions
a nd Consumer Credit,
US House of
Representa tives, Ma rch
27, 2007.
48
J. Hightower,
“Subprime Loa ns =
Primetime for Va mpire
Lenders”,
www.zma g.org.
71
n.20 / 2008
49
Cita to da C. Bloice,
“We’re a n ‘Emerging
Ma rket’ in Big
Trouble”,
www.zma g.org.
50
Cfr. H. Minsky,
Potrebbe ripetersi?
Insta bilità e fina nza
dopo la crisi del ’29,
Torino Eina udi, 1984
51
La posizione di
Minsky è sintetizza ta
in P. Ma Culley, “The
Pla nkton Theory Meets
Minsky”, Pimco Bonds,
Ma rch 2007,
www.Pimco.com.
52
J. Kregel, cit., p.14; L.
R. Wra y, cit., pp. 23-25.
53
Cfr. M. Zuckoff,
Ponzi’s Scheme: The
True History of a
Fina ncia l Legend, New
York, Ra ndom House,
2005.
54
D. Ha rvey, La guerra
perpetua . Ana lisi del
nuovo imperia lismo, Il
Sa ggia tore, 2006.
55
G. Arrighi, Hegemony
Unra velling, 1 e 2, New
Left Review, nn. 32 e
33, 2005.
72
titoli una straordinaria capacità di circolazione. “Un tempo ai richiedenti marginali era semplicemente negato il credito, mentre ora chi lo eroga può giudicare
in maniera efficiente il rischio, e dargli un prezzo appropriato”, aveva rilevato con
soddisfazione Alan Greenspan nella primavera del 2005. Col termine “prezzo
appropriato” si riferiva a questi costi imposti ai mutuatari. “Questo miglioramento - aveva infatti aggiunto - ha portato alla rapida crescita dei mutui immobiliari
subprime”49.
‘P onzifica tion’ e ‘dispossession’
Quando il circuito della cartolarizzazione si è bloccato, e la crisi dei subprime è
sprofondata nella catastrofe finanziaria, nel mondo dell’economia e della finanza
sono state riconsiderate le tesi di Hyman Minsky, secondo il quale nei periodi di
stabilità e di liquidità l’economia diventa fragile a causa di attività speculative che,
in mancanza di regolamentazioni, arrivano a livelli incontenibili50. Gli operatori
prendono a prestito più di quanto possono restituire e alimentano bolle che
scoppiano quando, nell’impossibilità di indebitarsi ulteriormente, sono costretti
a passare da comportamenti speculativi a comportamenti “ponzi”, liquidando le
proprie attività51. Le grandi crisi finanziarie hanno quindi, secondo Minsky, cause
endogene, dovute alla generalizzazione dei processi di ponzifica tion .
Il sistema dei subprime viene considerato un “ponzi scheme”, prodotto dalla frenesia speculativa delle banche di Wall Street, che le ha indotte a sottovalutare le
capacità dei cuscinetti posti a copertura dei rischi legati ai titoli cartolarizzati. I
cuscinetti hanno funzionato finchè l’aumento dei prezzi delle case è stato sostenuto dalla domanda di nuovi mutui, e finchè la moltiplicazione dei mutui e il loro
rifinanziamento ha supplito alle difficoltà di quei mutuatari che non riuscivano a
far fronte ai debiti52.
Sarebbe stato possibile neutralizzare i processi dell’economia reale con un diverso approccio al problema dei rischi finanziari? Non pochi osservatori, soprattutto quelli che attribuiscono alle agenzie di rating le principali responsabilità, sembrano dare una risposta positiva, ma la danno eludendo i problemi sociali connessi con l’attività speculativa.
Il richiamo di Minsky a quel grande truffatore che è stato Charles Ponzi è metaforico. Ponzi è entrato nella storia per aver pagato elevati interessi sui depositi
con i soldi derivanti da sempre nuovi depositi di gente attratta da alti interessi;
più volte perseguito e condannato per vicende di questo tipo, è morto in povertà53. Quel che conta per Minsky è che, in un’economia non regolata, la voracità
della speculazione porta il capitale finanziario alla rovina. Il suo campo di interesse riguarda la finanza, e si ferma ad essa. I truffati da Ponzi, e la gente indebitata con i mutui subprime restano fuori.
Le attività sottostanti ai titoli finanziari hanno però la concretezza dei mutui e dei
mutuatari. Si constata allora che il sistema speculativo si blocca per l’impossibilità del capitale finanziario di speculare indefinitamente drenando ricchezza sociale. I redditi stremati dagli interessi imposti da Wall Street cessano di alimentare,
ai livelli attesi, il flusso di cassa dei titoli cartolarizzati, e il crollo del mercato
immobiliare porta alla distruzione della ricchezza congelata nelle ipoteche.
Con Harvey54 e Arrighi55 si guarda, diversamente da Minsky, al rapporto tra eco-
Giorda no Sivini
I mutui subprime e le attività predatorie
nomia materiale e capitale finanziario. La ricerca di condizioni di profittabilità lo
porta storicamente a fissarsi laddove trova adeguate condizioni produttive,
immediate o differite nel tempo, oppure ad appropriarsi di risorse materiali
mediante processi di spoliazione di beni collettivi, proprietà pubbliche, capitali
nazionali.
Accumulazione per spoliazione (a ccumula tion by dispossession ), scrive Harvey,
“è liberare un insieme di risorse (inclusa la forza lavoro) a costi molto bassi o
nulli, così che il surplus di capitale possa impadronirsene e utilizzarlo immediatamente a fini di profitto”56.
Dispossession è stato tradotto dall’inglese con espropriazione57. Harvey e Arrighi
guardando ai processi di dispossession non si curano di fare una distinzione tra i
contesti in cui sono prodotti, legittimando l’utilizzazione generica del termine
italiano espropriazione58. Per interpretare il fenomeno dei subprime è invece
necessario qualificare la dispossession rispetto al modo specifico con cui il capitale finanziario entra in rapporto con l’economia reale. Nell’accumulazione originaria, si impone come denaro, nella forma di merci che disgregano le relazioni produttive precapitalistiche. E’ la situazione classica di una espropriazione
delle condizioni di esistenza che crea proletarizzazione, per valorizzare produttivamente il capitale e produrre nuova ricchezza sociale.
Nella situazione attuale l’accumulazione originaria è, però, marginale. Il capitale
finanziario si impone invece come denaro che, con la mediazione di strumenti
finanziari, si appropria di ricchezza sociale. Non agisce in vista di una valorizzazione produttiva delle risorse appropriate, ma per un aumento del suo proprio
valore. Con gli eccessi speculativi, come rileva Minsky, si autodistrugge.
Dispossession qualifica quindi le pratiche predatorie del capitale finanziario finalizzate alla spoliazione - non all’espropriazione - delle risorse che qualificano le
attuali condizioni di esistenza, procurando crescente povertà. “Per il capitale in
cerca di flussi di reddito stabile - osserva Chesnais59 - non ci sono investimenti
migliori delle industrie di servizio pubbliche privatizzate perchè le famiglie si
sono abituate al gas, all’elettricità ecc. Sono fonti di profitti regolari e sicuri, tanto
più che lo stato vi ha fatto importanti investimenti. Analogamente, con la privatizzazione delle pensioni somme molto elevate non sono più sottratte ai mercati finanziari”. Sono esempi, tra i tanti, di modalità di accumulazione per spoliazione. Questo lavoro sui subprime vuole essere un contributo puntuale in questa prospettiva interpretativa.
56
Cit., p. 178.
57
“Accumula zione per
espropria zione” è il titolo
di un pa ra gra fo del libro
di Ha rvey, cit., p. 122.
58
D. Ha rvey, cit., pp. 1789; G. Arrighi, I, cit., p. 44.
59
F. Chesna is, La fina nce
mondia lisée, Pa ris,
La Découverte, 2004,
pp. 44-5.
* Professore ordinario di Sociologia politica, Facoltà di Economia, Università
della Calabria ([email protected])
73
Fra nco de Leona rdis
Profili economici e professione:
un percorso à rebours1
Il Faro
Alla memoria del dott. Lorenzo Cuneo
P r emessa
Testo della rela zione
tenuta nel corso del
convegno presso la Società
di Letture e Conversa zioni
Scientifiche sul tema
"Vilfredo Pareto -Genova lo
ricorda" Genova ,
pa la zzo Duca le 27/28 novembre 2006.
1
J.K. Huysma ns, a utore di
A rebours tra dotto in ita lia no da llo scrittore ligure
Ca millo Sba rba ro, col titolo emblema tico
Controcorrente.
2
Gli a ntecedenti delle
Fa coltà di Economia sono
da ritrova rsi nella Scuola
Superiore di Commercio, la
prima delle qua li in
Europa sorse a d Anversa
nel 1852 con una orga nizza zione dida ttica ed un
progra mma di studi che
univa la ba se teorica con
elementi di a pplica zione
pra tica . Un secondo modello sorge a Venezia nel 1877
con ca ra tteristiche più
scientifiche. Nel 1881 a
Fila delfia (Università della
Pennsylva nia ) viene fonda ta la più a ntica fa coltà
commercia le a merica na ,
la Whorton School of
Fina nce a nd Commerce;
a d essa seguono a ltre
74
I miei primi anni di formazione universitaria alla Facoltà di Economia e
Commercio a Genova2 (ora di Economia), fra il finire degli anni 50 e l’inizio degli
anni 60 furono fortemente improntati dalla divulgazione e, quindi, dallo studio
di testi di Economia Politica, Statistica e Matematica, discipline convergenti e
sistemiche per comprendere quella magmatica realtà che i fatti e gli atti economici ci ripropongono in ogni istante della nostra vita.
La teoria economica si limita all’analisi dei fatti economici, al comportamento
individuale edonistico e si sviluppa indagando sul mondo delle ideologie , dei
valori e delle passioni3.
Nell'apparente inconciliabile difformità fra tendenza al perfezionamento teoretico della scienza economica e il sapere istintivo degli operatori economici sta proprio la funzione professionale. L’esperienza diretta degli affari in cui convergono
i desideri degli individui per perseguire l'interesse di massimizzare le proprie utilità, di agire razionalmente calcolando i rapporti costi benefici, è il fondamento
per la conoscenza del mercato, il quale altro non è che un insieme di forze meccaniche e la scienza economica studia il bilanciamento di queste come le leve nel
caso della meccanica. Gli aspetti reali del mercato sono il riferimento a cui le
astratte forme in cui si articolano le mutevoli leggi economiche e sono al contempo il campo di osservazione dei comportamenti degli individui.
L’impostazione professionale in definitiva non può fare a meno di criteri di astrazione utili alla selezione dei fatti.
E questo è il mondo vissuto concretamente nelle diverse prassi professionali.
Percorso a rébours per verificare e constatare quale rilievo hanno avuto nella formazione gli studi delle dottrine economiche. Chi nella realtà professionale non
si è confrontato con i mercati, i prezzi, le aziende, la finanza, le imposte? Chi non
ha, con indipendenza di giudizio e spirito di verità analizzato e proposto soluzioni che tenessero conto della caratterialità, delle debolezze o certezze dei soggetti clienti? Mi ricordo di un imprenditore che volle costituire un negozio per
introdurre la moda di certi abbigliamenti maschili in una località turistica che
oggettivamente si presentava avulsa da questa propensione particolare ai consumi di quei capi di abbigliamento. Ebbene, passato il tempo di start–up, questa
attività divenne il fulcro che valorizzò un’intera località. Il cliente, aggiungo, fu
Fra nco de Leona rdis
Profili economici e professione: un percorso à rebours
compreso dal professionista, pur enunciando perplessità, vincoli e rischi.
Per questa ragione ho accettato di dare un contributo a questo convegno sul
Pareto. Articolerei l'intervento ripercorrendo studi economici e adattandoli alla
particolare “forma mentis” di un professionista al fine di contribuire ad una
migliore comprensione dei gradi di utilità che questa scienza ci può offrire e in
oggi troppo lesionata dalle attuali prassi legislative.
Dopo alcuni richiami alla genealogia di Vilfredo Pareto ed una sintesi del Pareto
all'inizio della sua attività quale economista di impresa, ripercorrerò in breve
alcuni concetti che lo contraddistinguono quale economista e sociologo. Quale
economista mi è sembrato altresì opportuno riprendere gli insegnamenti di due
autori Adamo Smith e Luigi Einaudi, distanti nel tempo ma di viva attualità per i
temi che possono riproporsi oggi, come quello del lavoro; quale sociologo si è
accennato al tema delle scienze cognitive, neuroscienze applicate al comportamento economico. La parte finale dell'intervento è dedicata all'economia finanziaria, richiamando la Scuola di Scienza delle Finanze ed i contributi principali
dati allo sviluppo della finanza pubblica in Italia verificando nell'attualità l'assenza di linee guida che armonizzino i cicli economici e sviluppi normativi.
Pareto non ebbe da Genova, a partire dagli anni 70, quella continuità di studi che
altrove in sede internazionale gli fu riconosciuta. Nel 1973 a Roma, all’Accademia
Nazionale dei Lincei si tenne un convegno internazionale al cui parteciparono
studiosi di tutto il mondo. Ancor prima nel lontano 1960 fu tenuta la
Celebrazione Franco – italiana di Vilfredo Pareto (a Parigi il 30 settembre 1960)
promossa e sostenuta dall’allora ordinario della cattedra di Economia
all’Università di Genova Prof. Eraldo Fossati, tenace cultore della scienza economica con particolarissimo riguardo al Vilfredo Pareto nel nome del quale fondò
il Laboratorio di Economia che la tradizione non riuscì a mantenere4.
La genea logia e a lcune a nnota zioni dei fa milia r i.
La sua discendenza risale come gruppo familiare Pareto ad un certo Antonio
registrato in un atto notarile del 1267. Nel 1307 Ba rtolomeo e Angelo vennero
sepolti nella cattedrale di S. Lorenzo.
Ai Pareto appartenne Gio Benedetto contadino della Valpolcevera che il 29 agosto 1490 asserì di aver assistito all’apparizione della Madonna sul monte Figogna.
Nel 1727 Gio Lorenzo Ba rtolomeo originario della Fontanabuona, ricco commerciante di grani ottenne l’iscrizione nel Libro d’Oro della nobiltà genovese col
titolo trasmissibile di marchese. Uno dei suoi nipoti Lorenzo Antonio (17371802) sposò Angela Balbi e dalla loro unione nacquero sei figli:
- Il primogenito Gio Benedetto (1768-1831) nonno paterno di Vilfredo, fu elevato
da Napoleone alla baronia imperiale nel 1811. Ebbe due figli, Domenico e Raffaele.
Domenico Pareto (1804-1898) zio di Vilfredo fu diplomatico per molti anni presso l’ambasciata di Russia. Raffaele Pareto (1812-1882) padre di Vilfredo, sposò
Marie Méténier ( 1813-1889 ) ed ebbe tre figli, Aurelia, Cristina e Vilfredo che nacque a Parigi il 15 luglio 1848. Raffaele si trasferì a Genova nel 1852 e fu incaricato
dell’insegnamento del francese nella Regia Scuola di Marina, fino al 1859 anno in
cui venne nominato docente di agricoltura e contabilità nell’Istituto Tecnico Leardi
di Casale Monferrato. Nel 1861 Francesco de Sanctis, (ministro dell’educazione
pubblica dell’ultimo Gabinetto Cavour) gli conferì la laurea ad honorem in inge-
istituzioni simili: nel 1898
a Berkeley e a Chica go; tra
il 1900 e il 1905 nelle
Università dell’ Illinois, del
Vermont e del Wisconsin;
corsi specia li di commercio
vengono successiva mente
istituiti a New York. A pa rtire da l fine ‘800 primi ‘900
in tutta Europa si forma no
presso le università Scuole
Superiori di Commercio. A
Ba ri da l 1882 è a ttiva una
Scuola di Commercio con
Ba nco Modello e diviene
Scuola Superiore di
Commercio nel 1886. La
Scuola Superiore
d’Applica zione di Studi
Commercia li di Genova
viene fonda ta con R.D. 22
ma ggio 1884 e inizia i propri corsi il 29 novembre
1886. Un modello più complesso e più evoluto sorge a
Mila no nel 1902: l’istituto
Superiore Commercia le
Luigi Bocconi che ottiene
da l Ministero nel 1906 il
diritto di concedere la la urea e il titolo di dottore in
Scienze Economiche e
Commerciali; (Luigi
Bocconi deceduto nel 1896
nella battaglia di Adua,
figlio di Ferdinando
Bocconi, (1836-1908), venditore ambulante di tessuti,
poi titolare di un piccolo
negozio in via s. Redegonda
a Milano e nel 1889 inaugurò, insieme al fratello
Luigi, il primo grande
magazzino italiano denominato prima Magazzini
Bocconi in seguito Alle città
di Italia divenendo infine
la Rinascente). Gli Istituti
Superiori di Commercio
sono i centri di formazione
di una composita classe
dirigente economica-tecnica con l’apporto di un
corpo docente specialistico.
Tra i fondatori delle tre più
antiche scuole italiane
rammentiamo i Direttori
Francesco Ferrara
(1810-1900) a Venezia,
(la prima scuola
75
n.20 / 2008
del genere in Ita lia fonda ta con R.D. 6/08/1868 )
Ma ffeo Pa nta leoni (1857 1924) a Ba ri e Ja copo
Virgilio (1834-1891) a
Genova . A Genova la
Scuola Superiore diviene
nel 1913 Istituto Superiore
di Scienze Economiche e
Commercia li e si tra sforma
in Fa coltà di Economia e
Commercio dell’Università
degli Studi di Genova nel
1936. (Cfr. Da lla Scuola
Superiore di Commercio
a lla Fa coltà di Economia ,
a cura di Pa ola Ma ssa
Piergiova nni, Genova ,
1992, pp 15-23).
3
Autori va ri, Vilfredo
Pa reto (1848- 1923).
L’uomo e lo scienzia to, a
cura di Ga vino Ma nca ,
Mila no, Libri Schewiller,
2002, p.14.
4
Celebra zione
Fra nco-ita lia na di Vilfredo
Pa reto ( Pa rigi 30 – 091960) , Mila no, Giuffrè
Editore, 1960.
5
In Memorie
dell’ Acca demia di Scienze,
lettere ed Arti di Genova ,
Genova , 1814, III,
pp.225-244.
6
L’8 genna io 1873 tiene a
Genova una conferenza
sul sistema elettora le proporziona le e la città lo
rivedrà a lla Società di
Letture e conversa zioni
scientifiche di Genova per
un Discorso sul risca tto
delle ferrovie in
L’Economista , 14 febbra io
1876, pp 165-167 e p.169; 20
febbra io 1876 pp. 201-203.
Nel ma rzo del 1898
Vilfredo Pa reto è di nuovo
a Genova per riscuotere
una grossa eredità dello
zio Domenico.
76
gneria quale riconoscimento del valore scientifico delle sue pubblicazioni e dei
lavori di idraulica realizzati soprattutto in Francia. Nel 1862 si trasferì a Torino e il
ministro Gioacchino Napoleone Pepoli lo nominò Reggente di Divisione nella
sezione delle bonifiche ed irrigazione del Ministero dell’Agricoltura Industria e
Commercio. Nel 1864 si trasferì a Firenze ove diresse la rivista “Giornale
dell’Ingegnere, Architetto e Agronomo” e nel 1877 a Roma dove concluse la sua
carriera col grado di Ispettore di prima classe del Corpo Reale del Genio Civile.
- Giovanni Agostino Placido Vincenzo Maria (1773-1829) studioso di matematica ed economista, intellettuale a favore dei rivoluzionari francesi fece parte fino al
1802 della Commissione di Governo della Repubblica Ligure presieduta dal consigliere di stato, generale Giovanni Francesco Déjan con funzioni di amministratore
delle pubbliche finanze redigendo relazioni ufficiali in difesa degli interessi genovesi e inviate ai ministri centrali di Parigi; secondo il Girolamo Serra se queste relazioni fossero raccolte in volume costituirebbero un trattato di finanza applicata.
Alla caduta di Napoleone, su designazione dei genovesi iniziò una strenue lotta per
l’autonomia ma inutilmente in quanto in sede internazionale venne stabilito il definitivo rientro negli Stati Sardi. Lasciò diverse memorie e le “Considerazioni sulle
cagioni della ricchezza dei genovesi nel XII, XIII, XIV secolo”5.
- Lorenzo Pa reto (1800-1865) geologo prese parte alla vita politica sollevando nel
1847 il popolo genovese per far decidere Carlo Alberto alle riforme. La sua vita
battagliera si può compendiare in un documento rivelatore e precisamente il discorso che pronunciò al Parlamento italiano il 15 gennaio 1862 constatando l’abuso dei decreti legge: “si dirà che lo Stato non è più il dispotismo di uno solo,
ma ch’è il dispotismo ministeriale tinto di una logora vernice di parlamentarismo
e guai, ripeto,se questa idea si ingenera nel paese!”.
- Gli altri figli furono Ma ria Teresa ( nata nel 1785), Luigi Nicolò ( nato ne 1784)
e Teresa Bia nca Ca milla ( nata nel 1787).
Lo zio di Vilfredo Pareto, Da ma so, (1801-1862) letterato e studioso di letteratura inglese fu amico di Mazzini e patì con altri patrioti il carcere.
Ga eta no Pa reto( 1803-1894), cugino di Vilfredo fu grande viaggiatore e partecipò alle cinque giornate di Milano.
- Ernesto Pa reto (1818- 1893) rivoluzionario mazziniano, ospitò il grande patriota. La moglie inglese Costanza Fitzgerald Wright fu anch’essa una pericolosa rivoluzionaria.
P a r eto, economista d’impr esa .
Una prima osservazione può riguardare Vilfredo Pareto quale economista di
impresa per circa venti anni; egli appartiene a quella élite degli ingegneri matematici fulcro dell’incipiente processo di industrializzazione. Nel 1861 è assunto
come ingegnere alla Società Anonima delle Stra de Ferra te. Entra nel novembre
del 18736 nella Società per l’Industria del Ferro, settore (insieme a quello dell’acciaio) che soffriva di arretratezza rispetto ad un più esteso mercato internazionale. Per Pareto furono anni di sacrificio in un contesto pionieristico della
nascente industrializzazione; un esempio significativo è costituito dalle doglianze dei produttori sulla mancanza del carbone necessario al processo di trasformazione. “Se non ci è, andate a prenderlo dove si trova” profetiche parole del
Pareto che anticipavano i processi di integrazione verticale delle aziende mani-
Fra nco de Leona rdis
Profili economici e professione: un percorso à rebours
fatturiere del tipo, realizzati nel settore siderurgico dal progetto dell’ing. Oscar
Sinigaglia7 (1877-1963) che prevedeva la realizzazione di stabilimenti siderurgici
sul mare in quanto ricettivi di carbone e minerali provenienti dall’estero.
Il trasporto marittimo veniva così integrato al processo produttivo: le cosiddette
flotte industriali.
Quel progetto iniziale della Società per l’Industria del Ferro fu un concreto
esempio di business- plan che richiedeva una adeguata immissione di capitali e
quindi una valutazione fra costi di impianto e di gestione attesi con fonti di finanziamento costituiti da capitali di rischio. Purtroppo quel progetto iniziale non
trovò riscontro e il Pareto cercò di dare concreti indirizzi per una prospettiva
industriale. Nel dicembre 1878 viene nominato Direttore Generale8 in una situazione precaria sia finanziaria che economica. Il possibile risanamento passò attraverso la Banca Generale che partecipò alla costituzione della Società delle
Ferriere Ita lia ne, dando inizio nel 1880 ad un nuovo ciclo per l’industria siderurgica in Valdarno. Pareto restò fino al 28 maggio 1890 e venne “esonerato” dall’incarico. La conclusione di questo periodo si può definire non certamente adeguata ai sacrifici profusi9.
Per Pareto la lunga esperienza aziendale, con ragionevole certezza, fu la fonte alla
quale attinse quei materiali grezzi che levigò per pervenire all’elaborazione delle
analisi economiche successive che lo portarono alla teorizzazione economica
dell’equilibrio, dell’ottimo paretiano e della distribuzione dei redditi.
P a r eto, economista e sociologo.
Una lettura di Vilfredo Pareto, nel contesto della intera dottrina economica, rivela che è irrazionale la ricerca di leggi economiche assolute e invita ad esaminare
invece il comportamento sociale in cui i singoli individui non soggiacciono a
schemi preordinati né a strumenti di costrizione totalitaria sotto false apparenze
di una inesistente eguaglianza sotto questi profili.
L’inizio del Cours d’économie politique pubblicato presso l’editore F. Rouge in
due volumi a Losanna nel 1896 - 1897 e tradotto da Renzo Fubini nel 1942 per
l’edizione Einaudi è al proposito significativo: “la scienza di cui intraprendiamo
lo studio è una scienza naturale come la psicologia, la fisiologia, la chimica
ecc..Come tale non ha da darci precetti”. I due tomi si compongono di due parti:
la prima “ Principes d’économie politique pure”, la seconda “Economie politique
appliquée”, quest’ultima si suddivide a sua volta in tre libri, il primo dedicato ai
capitali (personali , mobiliari, immobiliari), il secondo al funzionamento dell’organismo economico (produzione, commercio, crisi economiche), il terzo è sulla
ripartizione e il consumo delle ricchezze.
Pareto, pur divergendo dal Walras nella formulazione di idee sociali, il primo
convinto liberale e successivamente scettico di ogni dottrina sociale, il secondo
propugnatore di riforme sociali, furono entrambi i fondatori della teoria dell’equilibrio economico generale.
Pareto definisce questi sistemi “reali” i quali deviano rispetto alle matrici originali. Tra le matrici originali e i sistemi reali si manifestano quelle azioni non logiche (verità soggettive) che differiscono secondo intensità di azione dalle verità
oggettive. E’ per questa via che Vilfredo Pareto impegna le sue forze nel Tra tta to
di sociologia genera le. In esso vi è l’analisi del contrasto fra la scienza logico-spe-
7
Osca r Siniga glia , Alcune
note sulla siderurgia
ita lia na , Roma , Tipogra fia
del Sena to, 1946.
Sulla figura di Osca r
Siniga glia cfr. Osca r
Siniga glia , Sta bilimento
tipogra fico Iulia , Roma
1962.
8
Ilva Altiforni e a ccia ierie
d’Ita lia 1897-1947,
Berga mo, I.I.A.G.,1948,
p. 271.
La Società “Ilva Alti forni” e
“Accia ierie d’Ita lia ” , denomina zione a ssunta nel
1918 deriva va
da ll’a ssorbimento di un
gruppo di società cui
a ppa rteneva no i ma ggiori
sta bilimenti siderurgici
ita lia ni e precisa mente le
Società a nonime “Ferriere
Ita lia ne”, fonda ta a Roma
nel 1880, “Ligure
meta llurgica ”, fonda ta a
Genova nel 1890, “Elba di
Miniere e di Alti forni”
fonda ta a Genova nel 1899,
“Siderurgica di Sa vona ”
fonda ta a Mila no nel 1900
e infine l’ “Ilva ” fonda ta a
Genova nel 1905.
9
Autori va ri, Vilfredo
Pa reto (1848- 1923).
L’uomo e lo scienzia to, a
cura di Ga vino Ma nca ,
Mila no, Libri Schewiller,
2002.
77
n.20 / 2008
10
Cfr. Vilfredo Pa reto,
Crona che ita lia ne, a cura
di Ca rlo Monga rdini,
Brescia , Morcellia na ,
1965, pp.32-33.
Ra ccolta di a rticoli
pubblica ti da l Pa reto sul
Giorna le degli economisti
da l 1891 e da l 1893 a l
1897.
78
rimentale e l’operare, la distinzione fra il valore sperimentale di una concezione
e la sua utilità sociale, la distinzione fra la massima utilità di una collettività e per
una collettività. Giustapposizione fra azione logica e non logica. Le azioni logiche
sono le azioni in cui esiste un legame tra mezzi impiegati e scopo fissato; tale
relazione non esiste nelle azioni non logiche. Pareto definisce “residui” gli schemi che permettono di esprimere gli atti come parte costante di una azione mentre sono “derivati” le sue parti variabili. I residui non esistono nella realtà oggettiva ma hanno una esistenza soggettiva legati agli individui che le generano.
L’idea che l’equilibrio concorrenziale determini uno stato ottimale per l’economia
è assimilabile all’immagine di A. Smith della “mano invisibile”. L’ottimo economico attiene a proprietà di efficienza allocativa e non riguarda la distribuzione della
ricchezza fra gli individui. Pareto distingue fra “massimo di ofemilità per la collettività” (nozione economica di ottimalità paretiana) e “massimo di utilità della collettività” che Pareto attribuisce alla sociologia. Pareto per questa via dette origine
allo studio sulla distribuzione dei redditi che in buona sostanza evidenzia come,
su base statistica, i redditi percepiti dai ricchi risultano più elevati di quanto accadrebbe se il reddito fosse distribuito secondo la normalità gaussiana. Non è forse
di questi giorni la asserita disparità esistente fra la curva dei redditi reali con quella dei redditi fiscali?. Pareto parla di eterogeneità sociale per cui la distribuzione è
riferibile a gruppi di individui secondo la casualità, determinando una eterogeneità della distribuzione, senza tuttavia specificare la ratio della diversa qualità
reddituale dei gruppi di individui. In definitiva Pareto era insoddisfatto della teoria economica, non per mancanze delle sue teorie, ma per la natura della stessa
economia, scienza evolutiva che suggeriva approfondimenti sociologici. Il percorso dall’economia alla sociologia origina dalla distinzione fra azioni logiche e
azioni non logiche e nella convinzione che, per il più degli uomini, la seconda
categoria è di gran lunga maggiore della prima: “gli uomini, in genere, compiono
azioni non logiche e credono e vogliono far credere che sono azioni logiche”.
Samuelson ha osservato molto acutamente che la sociologia si muove nella
“penombra delle utilità”.
Si è così sviluppato, in sintesi, il passaggio dalla teoria pura dell’equilibrio economico alla teoria dinamica dell’equilibrio sociale.
L’insegnamento di economia politica a Losanna, succedendo alla cattedra del
Walras, a partire dal luglio 1893, rappresenta per il Pareto il suo convincimento
che l’Italia non poteva ospitare l’espressione del proprio pensiero libero e spregiudicato. Così scrive all’amico Placci il 28 maggio 189410: “Puoi tu , vivendo come
fai , scrivere senza riguardi e chiamare pane il pane?. Questo non lo so. Per me
ho eletto di vivere a Losanna appunto per non avere nessun vincolo, fuorchè
quello strettissimo di cercare con ogni cura il vero. Anche in Italia scrivevo assai
liberamente, ma pure alcune volte mi accadde di tacere qualche verità, cedendo
a considerazioni di un falso amore patrio”.
Pareto fu un instancabile sostenitore della libertà economica ed espresse continuamente il suo pensiero negli articoli che scrisse in diversi giornali del tempo,
in primo luogo, sul Giorna le degli economisti . Altri economisti perseguirono il
concetto di un'economia libera; in questo breve intervento mi riferirò ad Adamo
Smith e Luigi Einaudi, i quali in diversi periodi storici e in diverse forme affermavano la natura libera dell'economia.
Fra nco de Leona rdis
Profili economici e professione: un percorso à rebours
Liber tà economica – Ada mo Smith – Vilfr edo P a r eto – Luigi Eina udi.
Il significato delle teorie liberiste di Adamo Smith (1723-1790) ha subito mutamenti per due ragioni: la prima è l'avvenuto intervento nei mercati del potere dei
managers che tradizionalmente hanno il ruolo di programmare, costruire il mercato e di minimizzarne i rischi. L’attribuzione dell’autonomia per i managers
costituisce il presupposto per lo stimolo al rischio e ciò porta l’impresa ad un
percorso innovativo.
La seconda è il rapporto tra pubblico e privato. Il pensiero di Smith tende ad
affermare che Stato e mercato si escludono reciprocamente; la storia delle società capitalistiche moderne è improntata a due fenomeni contrapposti: la pubblicizzazione del privato e la privatizzazione del pubblico. Per Smith il mercato è il
meccanismo spontaneo di formazione delle ricchezze nel quale le situazioni non
hanno ruoli, per il capitalismo moderno il problema è trasformare il mercato in
una istituzione trasparente11.
La filosofia di Adamo Smith, come si riceve dai suoi due testi, La teoria dei sentimenti mora li(1759) e L’inda gine sulla na tura e ca usa della ricchezza delle
nazioni (1776) risale agli stoici e agli epicurei rafforzata dalle teorie di
Bacone(1561- 1626), Hobbes(1588-1679), Locke (1632-1704) e dei Fisiocratici.
L’essenza delle sue teorie si compendia sulla superiorità di ciò che è spontaneo
sopra la legge fatta dall’uomo12; quello che in Pareto viene definito comportamento costante in quanto derivato dalla natura: ciò che è variabile è una testimonianza delle diversità.
Scopo principale dell’analisi di Smith era quella di dimostrare che il lavoro è il vero
creatore del valore, che la divisione del lavoro è il mezzo che può rendere il lavoro stesso più produttivo (e quindi capace di creare maggior valore) e il mercato il
mezzo per rendere possibile la divisione del lavoro e determinarne la portata.
11
Piero Ba ira ti,
Il ca pita lismo fa i conti
con Smith, in Il Sole 24 ore
del 17-07-1990.
12
Giova nni Ma la godi,
La beneficenza della
na tura cura i ma li
dell’istituzione, in
Il Sole 24 ore del 17-7-1990.
Sulla pr eca r ietà del la vor o.
Recenti articoli su quotidiani riportano che nella società italiana esiste troppa
precarietà del lavoro. Il problema a mio avviso va analizzato sotto diversi aspetti.
Non si può ignorare che in Italia i livelli di offerta di lavoro sono superiori alla
domanda di investimenti. Sotto questo profilo la storia economica anche recente ci può dare utili indicazioni nel senso che ad investimenti durevoli corrisponde una minore precarietà del lavoro nel senso di una più stabile occupazione
presso la stessa azienda. Oggi i processi produttivi sono “volatili”, sia per effetto
della globalizzazione dei mercati sia per l'introduzione delle tecnologie dell'informazione e del trattamento delle informazioni. Ne consegue che l'offerta di
lavoro deve poter seguire le linee di questa economia che definirei “sottile”. In
tempi recenti il premio Nobel13 (1992) dell'economia Gary S. Becker, nato nel
1930, indica nel valore dell'uomo e quindi nel “ capitale umano” una possibile via
di soluzione. L'istruzione e la formazione sono i più importanti investimenti nel
capitale umano. E' dimostrato statisticamente che i redditi delle persone più
istruite sono mediamente quasi sempre superiori considerando altresì i costi per
l'istruzione. La correlazione è stata osservata in Paesi con culture e sistemi economici diversi14.
Le tesi di Becker e della Scuola di Chicago (che vede nel mercato lo strumento
13
La motiva zione del
conferimento del premio è
sta ta "For ha ving extended
the doma in of microeconomic a na lysis to a wide
ra nge of huma n beha viour
a nd intera ction, including
nonma rket beha viour".
14
Ga ry Becker,La urea to in
profitto, in Sole 24 ore del
9-12-2001 (inserto della
domenica p. 1).
79
n.20 / 2008
15
G. Borga tta , La fina nza
di guerra e del dopoguerra , Alessa ndria ,
Sta bilimento Tipo
Litogra fico Succ.Ga zzotti &
C., 1949, p. 125.
16
La motiva zione del conferimento del premio è
sta ta "For ha ving renewed
resea rch in economic
history by a pplying economic theory a nd qua ntita tive methods in order to
expla in economic a nd
institutiona l cha nge".
17
D.North, Una nuova
economia di guerra , in
Sole 24 ore, del 10 ottobre
2001.
18
Sull'opera , la vita e il
pensiero di F. Ferra ra cfr.
Ricca rdo Fa ucci,
L'economista scomodo.
Vita e opere di Fra ncesco
Ferra ra , Pa lermo, Sellerio,
1995.
80
per risolvere la maggior parte dei problemi economici) erano già state intuite dal
Pareto che considerava il momento economico coesistere con le altre azioni dell'uomo. In occasione dei 100 anni di fondazione della Facoltà di Economia della
Sapienza di Roma, il Governatore della Banca d'Italia Mario Draghi, nato nel
1947, afferma nella sua “lectio magistralis”del 9/11/2006 che “l'istruzione è il fattore più importante per la crescita” ed ancora “l'istruzione è una medicina potente per avere maggiore partecipazione al mercato del lavoro, maggiore produttività, maggiore competitività. A parità di ogni altra circostanza, nel nostro Paese
la probabilità di partecipare al mercato del lavoro aumenta del 2,4% per ogni
anno di scuola frequentato (3,2% nelle regioni meridionali)”. Occorre attuare
forme di “finanziamento diretto agli studenti meritevoli e alle loro famiglie”. Il
riconoscimento del merito non è garanzia di equità ma, senza, la società è sicuramente più iniqua.
Certo, dopo l'11 settembre 2001 si sono modificate molte strategie e comportamenti in campo economico e gli stessi economisti affermano non avere parametri di riferimento.
Le economie occidentali dovranno considerare le variabili guerra e terrorismo.
Già il Borgatta, allievo di Einaudi, esponeva che: “la finanza della guerra totale
offre un modello più di ogni altro completo e fecondo di indagini analitiche dei
fenomeni della finanza straordinaria”15.
Pochi giorni dopo l'attentato dell'11 settembre 2001, l'economista premio Nobel
North16, nato nel 1920, in un'intervista di Mario Platero17 affermava che perdendo
alcune delle nostre libertà ci saranno anche delle conseguenze economiche sul
piano dell'efficienza o per un utilizzo ottimale delle risorse e così via. Il nuovo
modello da cui assumere qualche indicazione deve includere sia variabili politiche
che economiche e l'interazione fra mercato, ruolo dello Stato e della politica.
Ritornando ad Adamo Smith, l'altro suo concetto, legato pur sempre al lavoro, fu
quello di considerare la ricchezza come un flusso invece che come un patrimonio inerte. A. Smith fornì una pesante critica delle assurdità a cui portava la severa regolamentazione dell’attività economica sotto il sistema mercantilistico.
Siamo nel 1776, anno della dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti
d’America, momento culminante e fondante per la definitiva condanna del sistema coloniale dannoso sia alla madre patria che alle colonie. Smith credeva in ciò
che è naturale contro ciò che è obbligatorio. Nella Theory of mora l sentiments
aveva già trattato dell’azione umana provocata dal “amore del proprio vicino, il
desiderio di essere liberi, il sentimento del possesso, l’abitudine al lavoro e la disponibilità agli scambi”. “Evitate ogni interferenza col libero gioco di queste forze
ed ogni individuo sarà condotto da una mano invisibile a favorire un obiettivo
che non rientrava nelle sue intenzioni”. Il Pareto conferma che l’uomo lasciato
libero troverà i mezzi per proteggere in maniera più o meno armoniosa i propri
interessi e quegli degli altri. Non è casuale la sua partecipazione, a Firenze, nel
1874 alla fondazione, con professori, uomini d’affari e politici libero scambisti,
della Società Ada mo Smith.
Dal 1868 esisteva la Società di Economia Politica sui modelli francese e belga.
Presidente era Giovanni Arrivabene (1787-1881) , carbonaro del 1821, successivamente economista a Bruxelles. Ricopriranno ruoli primari Ferrara (1810-1900),
Minghetti (1818-1886) e Scialoja (1856-1933). Francesco Ferrara18, non condivise
in allora l'introduzione dell' insegnamento dell'economia negli istituti tecnici in
Fra nco de Leona rdis
Profili economici e professione: un percorso à rebours
quanto la teoria economica è per sua natura complessa e controversa. Nel 1874
promosse la costituzione della Società Ada mo Smith.
La dissociazione del Ferrara dalla Società di Economia Politica è palese: il
31/03/1871 in una lettera che Ferrara scrisse a Jacopo Virgilio (1834-1891) si
legge “trovo nel fatto che non abbiano invitato lei al banchetto degli economisti
perché ella è economista e quella (leggi Società di Economia Politica ) è ormai
divenuta una società di faccendieri politici”.
Il 25 agosto 1874 scriveva ancora a Jacopo Virgilio allegando una copia dello statuto della Società Adamo Smith che annoverò la maggioranza dei professori di economia. Sull'importanza della corrispondenza fra F.Ferrara e J. Virgilio nel processo
di formazione dell'insegnamento economico si auspica la pubblicazione. Sono gli
anni della rivoluzione marginalista in cui i padri Leon Walras (1834-1910) e Stanley
Jevons (1835-1882) ebbero a Genova in Gerolamo Boccardo (1829-1804) un valido presentatore e in opposizione alle tesi del Ferrara. Questo genovese rappresentante delle correnti eclettiche fu geografo, geologo, antropologo e sociologo19.
Smith affermava: “non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del panettiere che dobbiamo aspettarci il nostro pranzo ma dal loro amore per il proprio
interesse”. Nonostante la fiducia nel mercato Smith era ben conscio che “ i proprietari terrieri amano mietere dove hanno seminato” e non escludeva l’esistenza
delle imprese pubbliche ( fornitura pubblica di infrastrutture, politica monetaria
del Governo, regolamentazione della tassazione come mezzo non solo per rastrellare denaro ma anche per controllare certe attività e per tenere sotto controllo gli
obiettivi a lungo termine fuori dall’interesse del singolo limitato nel tempo.
La lezione durevole di A.Smith secondo Lord Roll of Ipsden nella conferenza “
Wea lth of Na tions 1990 ”, tenutesi ad Edimburgo nell’estate del 1990 per celebrarne il bicentenario della morte20 è così compendiata:
1) la scienza economica è una disciplina che anche i non specialisti devono
poter comprendere. Il rinchiudersi così frequente ai giorni nostri in una specializzazione sempre più ristretta espressa in complicate formule matematiche è
sicuramente inferiore alla vasta analisi contenuta nella Wea lth of Na tions, con i
suoi intimi legami, con filosofia, morale, diritto, retorica. Un ritorno a questa concezione della politica economica come parte di una cultura molto più vasta è
necessario da molto tempo.
2) E’ necessario attenersi alla virtù della libertà politica come fondamento di
ogni libertà, alla negazione dei privilegi accordati ad interessi particolari, al saggio uso dei meccanismi di mercato per la allocazione delle risorse. Tutto questo
deve essere fatto nell’ambito della conservazione dei valori e nel raggiungimento di obiettivi che attraverso il processo democratico possano essere accettati da
tutte le società. Dobbiamo riconoscere che affermare e conservare questi valori
obbliga spesso ad eludere le forze di mercato o a modificare in qualche misura i
risultati della loro libera azione.
A partire dal 1880 Pareto in particolare difende con numerosi scritti la libertà di
commercio contro l’attività dello Stato nelle attività economiche; evidenzia che
il miglioramento di vita della classe operaia passa attraverso l’aumento della produzione. E’ antiprotezionista e avversa le sovvenzioni statali alle industrie, lo
Stato burocrate e accentratore.
Più tardi Luigi Einaudi (1874-1961), in un testo ormai introvabile, ha svolto dei
saggi bibliografici e storici su economisti e dottrine economiche e notevole spa-
19
Cfr. Atti del convegno
17-18 settembre 2004
“Gerola mo Bocca rdo
(1829-1904) tra scienza
economica e società
civile”, Genova , 2004.
20
In Economia il testo
sa cro è il suo, Estra tto della
rela zione di Lord Roll of
Ipsden, in Il Sole 24 ore del
17-07-1990 p. 5.
81
n.20 / 2008
21
Luigi Eina udi, Sa ggi
bibliogra fici e storici intorno a lle dottrine economiche, Roma , Edizione di
Storia e Lettera tura , 1953,
pp.71-115.
22
Qua ndo Eina udi critica va le trincee del merca to,
in Il Sole 24 ore, mercoledì
18 ottobre 2006, p.11.
23
Gli scritti sono sta ti ra ccolti da lla pa ziente ricerca
di Roberto Ma rchiona tti,
From our ita lia n correspondent, Luigi Eina udi’s
a rticles in the Economist,
1908,-1946, voll. 2, Firenze,
Leo S. Olschki Editore,
2000.
Gli a rticoli
a ppa rsi sull’Economist ra ppresenta no l'integra zione
idea le degli otto volumi
delle Crona che economiche e politiche di un trentennio ( 1893-1925),
Torino, Giulio Eina udi
Editore,1964.
24
Sidney Homer,- Richa rd
Sylla , Storia dei ta ssi
d’interesse, presenta zione
di PierLuigi Ciocca ,
Ca riplo, La terza ,
1995, p. XII.
82
zio è stato attribuito ad Adamo Smith quale bibliofilo al fine di desumerne il più
completamente possibile il pensiero21.
Proprio recentemente le teorie liberiste di Luigi Einaudi, sia negli aspetti intuitivi
che applicativi, sono state ricordate a Londra dal Governatore della Banca d’Italia22.
Infatti, Luigi Einaudi fu per tre decenni corrispondente del “Economist” dall’Italia23.
Il Governatore ricorda che Luigi Einaudi “vedeva con favore qualunque provvedimento, regola o istituzione che fosse volta a promuovere la creatività umana; ma
qualsiasi istituto giuridico, o d’altra natura che rischiasse di bloccare deliberatamente o meno l’evoluzione della società imbrigliando l’iniziativa umana, era per
lui occasione per le sue analisi accurate e pignole; sostenne e difese l’idea di un
sistema giuridico basato su poche, semplici leggi e la loro rigida applicazione”.
Particolare attenzione fu sempre data dall'Einaudi agli studi finanziari e in particolare monetari.
I tentativi della dottrina economica moderna di “spiegare” l’interesse e di comprenderne gli effetti sono innumerevoli. I contributi possono essere ricondotti
alla “Teoria reale” e alla “Teoria monetaria”. Secondo la “Teoria reale” il tasso di
interesse reale è fissato dal calcolo degli individui che comparano il sacrificio
reale dell’astenersi dal consumare oggi (risparmio) col beneficio atteso di consumare di più e meglio domani (investimento). Manipolare il prezzo naturale del
tasso d’interesse attraverso la politica monetaria è inopportuno e produce distorsioni al limite inflazionistico o deflattivo. Secondo la “Teoria monetaria” l’interesse è determinato dalle forze che agitano i mercati della moneta, del credito,
delle valute e della finanza. La “Teoria reale” è suscettibile di verifica sul piano
statistico econometrico invece la “Teoria monetaria” non è suscettibile di immediata verifica econometrica. Gli effetti del tasso di interesse nel modello econometrico proposto dalla Banca d'Italia rivelano che un tasso d’interesse più elevato di un decimo (11% invece di 10%) implica dopo un anno più bassi livelli delle
variabili reali, come gli investimenti in macchine, (- 4,5%), la produzione complessiva (-0,6%), l’occupazione (-0, 2%) e delle variabili monetarie come i prezzi
al consumo (- 0, 1% ) e i salari nominali (-0, 2%)24.
La razionalità che è posta alla base delle scelte degli speculatori dei mercati della
moneta e della finanza è più complessa: vi è qui un misto di calcoli e convenzioni da cui le decisioni scaturiscono, per cui vi sono oggettive difficoltà di quantificazioni. Le difficoltà connesse alla valutazione delle cosiddette “attese dei mercati valutari” riportano all'analisi dell'homo oeconomicus e alla sua irrealtà.
Si è avuta la conferma dalle teorie sociologiche come recentemente dalla psicologia e dagli studi sul cervello aprendo gli orizzonti agli studi di neuro economia.
Se la nostra mente fosse governata esclusivamente da processi di tipo riflessivo
e deliberato e il nostro cervello costituito dalla sola corteccia pre-frontale dove
hanno sede le attività cognitive superiori, allora l’economia tradizionale sarebbe
una buona teoria delle nostre scelte reali. La realtà ci impone di considerare che
la nostra economia emotiva è molto più ricca, estrosa e bizzarra, quello che il
Pareto definiva azioni - non logiche. Gli errori (e qui sarebbero interessanti le
definizioni stesse di errori) che gli individui commettono sono la regola e non
l'eccezione. Le illusioni cognitive sono indotte da processi automatici e spontanei attraverso i quali decodifichiamo la realtà in maniera rapida e intuitiva ma
anche approssimativa e fuorviante.
Di fronte ad uno stesso problema può così accadere che si prendano decisioni
Fra nco de Leona rdis
Profili economici e professione: un percorso à rebours
diametralmente opposte a seconda di come ce lo rappresentiamo o di come,
magari strumentalmente, ci viene presentato. L'incertezza è la costante in cui vengono prese istante per istante le decisioni, ma non sempre queste sono le più
razionali. La nostra percezione sensoriale del rischio è volubile e noi intendiamo
dati, proporzioni, percentuali e statistiche in un modo che è influenzabile.
L'inadeguatezza della teoria economica che fa dipendere ogni decisione dal perseguimento della massima utilità per chi le prende rivela che in realtà le nostre
scelte necessitano analisi e interventi per una diversa interpretazione da parte di
psicologi cognitivi, neuroscienziati ed economisti sperimentali. La stupidità esiste
e gli errori che si compiono sono ricorrenti e prevedibili. Appartengono ad una
logica diversa da quella matematica ma non per questo meno sistematici. Gli studi
sulla neurobiologia della razionalità attraverso idonee sperimentazioni ci permettono di verificare l'attività cerebrale e di conseguenza ci suggeriscono che i nostri
processi decisionali sono la risultante di una continua negoziazione tra processi
automatici e processi controllati; per rendere l'idea, tra ragione e sentimento25.
Lo studio delle scienze cognitive e di processi decisionali e di giudizio nelle
incertezze è oggetto delle ricerche di Daniel Kahneman26, recentemente a
Genova al Festival della Scienza, (nato nel 1934 e recente premio Nobel per l'economia).
Economia fina nzia r ia
La Scienza delle Finanze, o meglio, l’economia finanziaria è la disciplina che studia l’attività economica che si svolge nell’ambito degli assetti coercitivi in contrapposto con l’Economia Politica che si occupa, invece, dell’attività economica
che si svolge nell’ambito di quella contrattuale. Così Cesare Cosciani (1908-1985)
definiva la Scienza delle Finanze27. L'economia politica è più semplicemente la
scienza degli affari28.
Il contributo alla teoria della finanza pubblica fu dato da diversi economisti italiani guidati non da finalità predeterminate o principi immutabili, ma uniti nella
tematica affrontata e negli strumenti utilizzati. L’intervento pubblico nell’economia è stato da sempre analizzato a partire proprio da Adamo Smith e si compendia nel livello di produzione di servizi da parte dello Stato per soddisfare
bisogni pubblici. La domanda che si sono posti i ricercatori e che è sempre di
attualità è quella di capire come mai i cittadini, a differenza di come agiscono per
il soddisfacimento di altri loro bisogni, dimostrano rigidità nel pagare tali servizi
e pertanto si prefigura la necessità coercitiva del prelievo fiscale. E qui si innesta
l’ulteriore domanda: qual è il livello di equità e neutralità affinché le imposte incidano in maniera conforme a diversi livelli di ricchezza e cioè non possano alterare la distribuzione del reddito e l’allocazione delle risorse? Le domande esigono riflessioni sulla natura dello Stato e sulla sua attività finanziaria e cioè a quali
limiti e a quali condizioni possa esercitare l’attività del prelievo dei tributi29.
Le nozioni sull'a ttività fina nzia ria dello Sta to e sulle connessioni tra finanza
pubblica e scienza economica, i rapporti tra analisi astratta e approssimazioni al
concreto sono il campo di osservazione non solo dello studioso ma coinvolge il
giudizio sulla esperimentazione della prassi professionale colta nell'istante per la
formulazione di un giudizio di valore tra variabili finanziarie connesse al prelievo
dei tributi e le altre variabili soggettive e d'impresa .
25
Cfr. l'a rticolo di Ma tteo
Motterini,Cha rlie Brown
decide così, in il Sole 24 ore
del 16 ottobre 2006, p.36.
26
La motiva zione del
conferimento del premio è
sta ta “"For ha ving
integra ted insights from
psychologica l resea rch into
economic science,
especia lly concerning
huma n judgment a nd
decision-ma king under
uncerta inty”
27
Cesa re Coscia ni,
Istituzione di Scienza
delle Fina nze, Torino,
Utet, 1961, prefa zione.
28
“La scienza dell’economia politica come la conoscia mo in Inghilterra può
essere definita come la
scienza degli a ffa ri (The
science of business) nella
forma che gli a ffa ri ha nno
nelle gra ndi comunità produttive e commercia li”. Cfr.
Wa lter Ba gehot, Economic
Studies, in Collected works,
a cura di N. St. John Steva s,
The Economist, Londra
1978. L’Economist fu fonda to da Ja mes Wilson nel
1843 e a ll’inizio fu un
foglio rigida mente dottrina rio e fu lo strumento del
la issez- fa ire
nell’Inghilterra della metà
800. L’Economist a vversò
con la ma ssima intra nsigenza (dura nte la direzione proprietà Wilson) tutti i
tenta tivi di riforma socia le
nei qua li sono sta ti individua ti i prodromi ottocenteschi del “Welfa re Sta te”. Per
Wilson il libero sca mbio
non era una dottrina economica ma una forma di
religione che si esprimeva
nell’ordine na tura le che gli
uomini, a ttra verso le istituzioni da loro fonda te, non
doveva no a ltera re; a sseriva di a vere fiducia inta cca bile nell’opera di Ada mo
Smith.
83
n.20 / 2008
La direzione editoria le del
foglio pa ssò nel 1861( dopo
la morte di Wilson nel
1860) a Wa lter Ba gehot
(sposò Eliza , una delle
figlie di Wilson) che ma ntenne fino a l 1877.
Ba gehot, interprete del
clima genera le della City,
non ebbe spunti ideologici
forti, bensì pra tica va le
virtù del compromesso. Sua
fu l’opera Lomba rd street,
testo di indubbio fa scino
che Luigi Eina udi curò per
la versione in qua rta serie
della Biblioteca
dell’Economista
dell’Unione Tipogra fico
Editrice Torinese (cfr.
Wa lter Ba gehot, Lomba rd
street, il merca to moneta rio inglese, tra duzione di
Luigi Eina udi, sa ggio introduttivo di Giuseppe Berta ,
Torino 1986).
29
Un contributo qua le sa ggio storico sulla scuola ita lia na di economia pubblica è sta to a ffronta to da
Nicolò Bella nca , La teoria
della Fina nza pubblica in
Ita lia , 1883-1946, Firenze,
Leo S. Olschki Editore,
1993.
30
Nicolò Bella nca , op. cit.,
con riferimenti a lle opere
di A. De Viti de Ma rco, M.
Pa nta leoni , pp. 29- 30.
31
Cfr. L. Eina udi Di a lcuni
connota ti dello Sta to elenca ti da i tra tta tisti fina nzia ri, in Rivista di diritto
fina nzia rio e scienza delle
fina nze, dicembre 1942,
pa g. 48.
32
Cfr. N. Bella nca ,
op. cit. , p. 51.
84
Nella ricerca finanziaria lo Stato si presenta sia come un soggetto economico
(interventi propriamente caratteristici del debito pubblico, delle partecipazioni
finanziarie in settori denominati “di pubblico interesse”, che come soggetto
avente come attività propria quella intrinsecamente riferita alla teoria delle imposte. Secondo una classificazione sulla natura dello Stato ricondotta a Nicolò
Bellanca30, lo Stato finanziario è riconducibile allo:
- Stato parassita quando è la conseguenza di gruppi di individui che “si impadroniscono della forza coercitiva e la utilizzano in difesa dei loro propri particolari interessi che gabellano (con l'aiuto degli economisti e dei giuristi) come fini
dello Stato e interessi della collettività”;
- Stato tutore allorquando non si suppone più che “gli individui si muovano in
conformità dei loro gusti, tali che ognuno sia più illuminato del compagno circa
i gusti propri;
- Stato scambista di derivazione della teoria economica. Qui lo Stato è “ paragonabile ad un privato come subietto di diritto e come subietto agente economico”;
- Stato organicista o corporativo nel quale è assente la lotta tra gli individui in
quanto i singoli sono identificati nell'ente collettivo.
La ridefinizione dello Stato secondo Mauro Fasiani (1900-1950) è articolata, riformulando il processo finanziario in termini di azioni non logiche o meglio sulla
prevalenza delle azioni non logiche su quelle logiche secondo la teoria del
Pareto. Qualora le decisioni finanziarie delle classi elette mirino al proprio esclusivo interesse di gruppo si ottiene il massimo di utilità per l'élite e si perviene allo
Stato monopolistico in cui si massimizza il dominio politico. Se la classe dirigente esercita il potere finanziario nell'interesse particolare di ciascun cittadino si
perviene alla forma di Stato cooperativo con un massimo di utilità per l'intera
collettività. Se la classe dirigente esercita il potere finanziario nell'interesse della
collettività considerata unitariamente si raggiunge il massimo di utilità della collettività a cui corrisponde la forma di Stato tutorio. Nella realtà i tre casi limite
sono intrecciati.
Il punto di riferimento dell'attività finanziaria dello Stato è la soddisfazione di
taluni tipi di bisogni . Secondo il Fasiani sono pubblici i bisogni a cui lo Stato
provvede con l'attività finanziaria. La difficoltà nella classificazione dei bisogni
pubblici ha portato Luigi Einaudi ad affermare “in un tempo in cui tutto muta e
nessuno sa quali siano i servigi pubblici e a chi spettino e se spettino a qualche
ordine di Stato o a nessuno di essi”31.
La Scienza delle finanze considera l'a tto fina nzia rio come la risultante di un'attività sia politica che economica. I concetti elaborati furono attinti da una traslazione delle elaborazioni di analisi economiche quali “ rendita del consumatore,
razionalità delle scelte, coercizione, edonismo, individualismo sociologico, illusione finanziaria, azione non logica, élite, bisogni consolidati ecc.”.
La finanza pubblica consiste nel provvedere i mezzi per il conseguimento degli
scopi della vita collettiva. Qui si appalesa necessaria la distinzione fra collettivismo
e individualismo. La scuola austriaca (Carl Menger 1840-1921, Emil Sax 1845-1927)
fece una acuta osservazione sulla definizione di Collettivismo, per cui l'individuo
agisce “solo come membro del gruppo e in rapporto ad esso” e di Individualismo
in cui prevale la tendenza dell'uomo a foggiare la sua condotta “come emanazione della sua personalità e della sua autonomia”. Queste due forze “agiscono contemporaneamente in tutti gli uomini” e sono “ insite nella natura umana”32.
Fra nco de Leona rdis
Profili economici e professione: un percorso à rebours
Carlo Angelo Conigliani (1868-1901) non condivise la distinzione tra egoismo
individuale o individualismo e egoismo di specie o collettivismo quali forze psicologiche distinte. Il collettivismo per Conigliani rigetta il concetto edonistico
che è il principio unitario della scienza economica per sostituirlo con un concetto dualistico egoismo individuale/egoismo di specie. Il Conigliani intravede
negli “ interessi di classe” non una forma di collettivismo ma “egoismi individuali propri e comuni a tutti gli individui componenti la classe”, ne consegue che il
bisogno pubblico è in corrispondenza con moventi individuali. In termini paretiani, nell'esercizio dell'attività finanziaria i governanti tendono a massimizzare
l'ofemilità per la collettività tenendo conto più di vincoli riguardanti il consenso
politico dei governati che non la minimizzazione dei propri costi marginali33.
Se al rapporto fra governanti e governati si applica il principio del minimo mezzo
con la legge dell'egemonia ne consegue che sono i governati a graduare i cosiddetti bisogni pubblici e il sistema delle imposte assume natura politica; il
Conigliani definisce l'imposta come “un atto economico di coazione politica”,
mentre per l'Einaudi “l'imposta è quella quota che si dà allo Stato in relazione ai
servizi reali o immaginari che esso presta”.
Il potere fiscale, sostiene sempre il Conigliani, “è un fenomeno di psicologia collettiva”. Esso ha dei costi politici costituiti dal grado di consenso. Se si forma il
convincimento che potere fiscale sia eccessivo rispetto alle economie individuali si ha una diminuzione dell'assoggezione morale dei cittadini34.
Basti considerare attualmente la posizione dei governanti che utilizzano il processo mediatico per creare consensi sulla politica fiscale (dicono i governanti: se
c'è qualcosa di errato negli attuali provvedimenti legislativi per l'esercizio finanziario del 2007 ciò è dovuto ad un'errata comunicazione mediatica). La comunicazione mediatica viene usata per creare diversivi alle reali necessità di risolvere
i problemi attinenti più in generale l'economia italiana. Deviazione mediatica per
attivare consensi e convincimenti utili alla classe dominante politica.
Amilcare Puviani35 si pone su una posizione diversa dal Conigliani in quanto il
primo afferma che il pagamento delle imposte è frutto di una scelta volontaria e
i contribuenti sono in destinatari di illusione finanziaria; il secondo afferma che
le imposte sono pagate o per interesse politico o per forze egemonica dell'ideologia del consenso.
Un sistema tributa rio richiede alcuni requisiti:
a) l'equità nella ripartizione dei tributi per cui si assume il concetto del sacrificio uguale proporzionale per cui l'imposta deve incidere su ciascun contribuente
per un sacrificio di utilità proporzionale all'utilità totale che ottiene dal suo reddito. Se l'utilità marginale fosse costante il principio implicherebbe un'imposta
proporzionale conseguendone che l'imposta progressiva suppone un'inclinazione decrescente della curva dell'utilità marginale;
b) la neutralità ossia la minimizzazione degli effetti distorsivi sull'allocazione
privata delle risorse. I governanti il più delle volte hanno come obiettivo la non
neutralità in quanto reputano non accettabili alcune scelte individuali;
c) l'efficacia macroeconomica quale contributo della politica tributaria alla stabilizzazione dell'economia; l'azione ha natura prevalentemente politica con il
fine ultimo di creare benessere sociale e quindi non solo economico. E qui le
risorse dell'Erario non sono costituite dalle sole imposte ma altresì dallo sviluppo del debito pubblico. Lo Stato può sostituire a prelievi tributari obbligatori un
33
Cfr. N. Bella nca ,
op. cit. , pp. 180-185.
34
Cfr. N. Bella nca ,
op. cit., pp 196-198.
35
Per comprendere il
problema fina nzia rio dello
Sta to che si a rticola va in
imposte contorte , intrica te
norme, procedure a mministra tive, Amilca re Puvia ni
(1854-1907) nel 1897 ela borò un criterio interpreta tivo ba sa to sul concetto di
“illusione fina nzia ria ”
ossia la ra ppresenta zione
erronea che il soggetto è
indotto a forma rsi sui fa tti
fina nzia ri.
Per effetto dell’illusione, la
qua ntità , la qua lità ca use
ed effetti delle spese e delle
entra te pa iono a l contribuente diversi da quel che
effettiva mente sono. E’ il
collega mento tra oggettiva
determina zione del tributo
col “sentimento del contribuente”. Cfr. Amilca re
Puvia ni, Teoria dell'illusione fina nzia ria , a cura di
Fra nco Volpi, Mila no, Isedi,
1973, p.27.
85
n.20 / 2008
36
Cfr. N. Bella nca ,
op. cit., pp. 208-213.
37
Cfr.N. Bella nca ,
op cit., p. 64.
38
Al rigua rdo per i ra pporti
tra fina nza pubblica e
mora le cfr lo studio di
Amedeo Fossa ti, Mora ls
a nd public economics,.
The ca se for justice a nd
equa lity, in Studi
economici n. 83, 2004/2.
39
Cfr. N. Bella nca ,
op. cit., pp. 126-128.
40
Ma uro Fasiani, Principi
di Scienza delle fina nze,
Torino, Gia ppichelli editore, 1941.
86
mezzo non coercitivo di finanziamento, il quale in competizione con il debito
privato dipende dall'entità e dai caratteri dell'offerta del risparmio.
Sul lato delle spese, distinguendole tra spese produttive (destinate ad accrescere il reddito nazionale), spese redistributive (che trasferiscono le risorse da un
individuo ad un altro), spesa – prezzo (lo Stato paga il corrispettivo di una prestazione) e spese sussidio (mero onere), esse conservano la natura economica
dell'intervento36.
Il problema dell'equilibrio finanziario, quale punto di ottimo collettivo, trova la
regola nel rendere uguali le utilità marginali ponderate dei beni privati e pubblici. La ripartizione del costo dei servizi pubblici avverrebbe in modo da mantenere in equilibrio i bilanci edonistici di tutti i contribuenti mentre la quantità complessiva dei servizi pubblici sarebbe sancita dalla regola del pareggio statale37.
La natura del processo logico che porta alla legge di bilancio (oggi legge finanziaria) altro non è che percorso di formazione della valutazione collettiva nella
finanza pubblica. Il Pantaleoni (1857-1924) indica una serie di enunciati a cui i
singoli ministeri si attengono per predisporre le voci di bilancio. Il Puviani nell'opera sulla teoria delle illusioni nelle entrate pubbliche stigmatizza i rapporti tra
finanza pubblica e morale38.
Secondo il Pantaleoni l'equità vorrebbe che ciascun cittadino versasse al fisco in
quella proporzione del suo reddito nella quale consuma i beni pubblici. In questo caso le imposte sarebbero dei prezzi economici. Di qui la diversificazione dei
concetti di capacità 1) di consumo ( prestazioni pubbliche richieste da chi non
può sostenere le spese) 2) di domanda (corrispondente a effettività e solvibilità)
3) contributiva ( l'onere dei beni pubblici ricade maggiormente su chi può pagare per essi).
Con quest'ottica di riferimento la tassa assume il vero carattere di prezzo, l'imposta no39.
Nella formulazione della capacità contributiva (direi più correttamente capacità
di sostenibilità ) la teoria elaborata dalle scienze delle finanze riporta alcuni concetti riferibili agli attuali sistemi tributari:
1) discriminazione quantitativa ( esenzione dei redditi minimi, il sacrificio tributario e l'uguaglianza dei sacrifici, classificazione delle imposte proporzionali, progressive, regressive, rapporti sacrifici uguali ad imposte eguali);
2) discriminazione qualitativa connessa alla diversa origine dei redditi (redditi di
capitale, di lavoro e misti e al loro trattamento fiscale);
3) ripartizione delle imposte (dirette e indirette ed accertamento delle medesime);
4) determinazione dei redditi imponibili40
In Italia si è assistito negli ultimi venti anni ad una legislazione fiscale che mal si
adatta alla realtà e all’evoluzione dell’economia nell'ambito degli assetti istituzionali del paese.
Nel Testo Unico delle Imposte dirette sulla base della delega contenuta nell’art.
63 della L. n.1 del 5 gennaio 1956, in linea generale coesistevano l’imposta dominicale sui terreni, sul reddito agrario e sul reddito dei fabbricati, con l’imposta sui
redditi di ricchezza mobile, la quale si suddivideva in categoria A per i redditi di
capitale, categoria B (redditi alla cui produzione concorrevano insieme il capitale e il lavoro, come quelli derivati dall’esercizio di imprese commerciali ovvero
da attività commerciali o da operazioni speculative anche isolate), categoria C1,
redditi di lavoro autonomo delle persone fisiche (prodotti nell’esercizio di arti,
Fra nco de Leona rdis
Profili economici e professione: un percorso à rebours
professioni e di imprese organizzate prevalentemente con il lavoro proprio del
contribuente e dei componenti della famiglia), categoria C2, redditi di lavoro
subordinato e assimilati. Alle singole categorie reddituali si applicavano aliquote
differenziate e progressive per classi di reddito ed inoltre al livello di reddito
complessivo netto delle persone fisiche oltre, in allora, la soglia di Lire 720.000
veniva applicata l’imposta complementare progressiva.
Ai soggetti tassabili in base al bilancio veniva applicata l’imposta sulle società
commisurata ad una aliquota proporzionale sulla base del reddito e del patrimonio41. Negli scambi l’imposizione si concretizzava con l’applicazione dell’IGE
(Imposta Generale sull’Entrata42) istituita nel 1940 in sostituzione della vecchia
imposta sugli scambi. Fu proprio il ministro Vanoni ad introdurre l’obbligo della
dichiarazione unica annuale.
L’assetto dei tributi come delineato dall’economista Ezio Vanoni fu modificato
con la riforma contenuta nella delega legislativa di cui alla L. n. 825 del 9 ottobre
1971 che si propose un autentico rinnovamento del sistema fiscale, nell’intento
di definire con assoluta certezza l’area contributiva nazionale e gli indici di capacità contributiva dei singoli soggetti nonché di introdurre nuovi principi generali di accertamento, sanzioni e contenzioso. L’obiettivo era quello di determinare:
basi imponibili certe, costituite dalle analitiche fonti di reddito alle quali applicare una tassazione unica ad aliquote progressive; effettiva capacità contributiva
del soggetto corrispondente ad un equo carico fiscale.
Alla riforma fu altresì demandata la sostituzione dell’Ige e delle imposte di consumo con l’Iva a partire dal 1/1/1973. Nella riforma generale del 1971 fu dedicata scarsa attenzione alla finanza locale poiché il legislatore delegante provvide
alla soppressione dei tributi locali sostituendoli con trasferimenti finanziari a
carico dello Stato e contributi commisurati agli importi dei tributi eliminati. In
breve con la riforma si preferì la centralizzazione della materia tributaria e finanziaria che provocò distorsione nella domanda di risorse finanziarie locali con
conseguente alterazione dei bilanci degli enti locali, aggravata dalla entrata in
funzione delle Regioni, a partire dall’anno 1970.
Successivamente, a parte sporadici interventi, la legislazione tributaria è sempre
stata affidata a decreti legge o a provvedimenti contenuti principalmente nelle
leggi finanziarie annuali. Ne consegue che allo stato attuale la normativa tributaria
ha assunto tali complessità e prodotto macroscopiche inefficienze da compromettere il sistema economico arrecando gradi crescenti di incertezza e di instabilità. Al
miglioramento delle analisi econometriche. utilizzando sofisticati metodi statistici
come la “cluster analysis” per cui vengono individuati modelli organizzativi caratterizzanti i diversi settori dell’economia, non corrisponde una reale certezza legislativa che compendi i mutati e i mutevoli aspetti che gli stessi strumenti matematici ci evidenziano. Lo Stato e gli Enti locali devono ridefinire il loro grado di intervento nell’economia individuando quei settori strutturali che diversamente non
possano essere affidati alla privata iniziativa e conseguentemente riorganizzare con
una riforma di largo respiro l’assetto dell’imposizione per cui il cittadino o l’impresa acquisisca la consapevolezza di una corretta loro contribuzione per il soddisfacimento di bisogni corrispondenti a servizi pubblici resi.
La mancanza di coordinamento, o meglio, di attuazione di una politica fiscale
adeguata alle reali necessità del bilancio dello Stato ha portato ad attuare negli
ultimi trentatrè anni provvedimenti chiamati “di condono”che hanno assunto o
41
Filiberto De Angelis,
Giuseppe Potenza , Angelo
Testa , Testo unico sulle
imposte dirette, Mila no,
Giuffrè Editore, 1960.
42
Ga eta no Sta mma ti,
L’Imposta Genera le sull’
Entra ta , Torino, Utet, 1956.
87
n.20 / 2008
aspetti generali come nel 1973, nel 1982, nel 1992, nel 2002 e 2003 o specifici su
diverse tipologie di imposte e di adempimenti. Sul versante contributivo previdenziale i provvedimenti di condoni generali sono stati emanati nel 1983, nel
1988, nel 1990, nel 1991, nel 1994, nel 1996 e nel 1997.
Nell'attuale situazione politica in cui è stata approvata la legge del bilancio dello
Stato per l'anno 2007 ricollegata ai noti provvedimenti estivi, conosciuti come
Legge Bersani, non si può essere che fortemente critici in quanto sono proprio le
professioni economiche a ricevere l'impatto conseguente una mera burocratizzazione degli adempimenti e che sull'economia reale graveranno lo svolgimento
operativo delle attività economiche e professionali con aggravio di costi senza
alcun beneficio.
Un esempio di distorsione nelle informazioni riguardanti la distribuzione dei redditi (delle persone fisiche) e la loro destinazione è rappresentato dalla mancata
segmentazione nella dichiarazione annuale dei redditi finanziariamente percepiti
e dei costi sostenuti in termini di imposte pagate e contribuzione previdenziale,
assistenziale e antinfortunistica. Fra i costi per imposte pagate occorrerebbe altresì evidenziare, oltre l'Ire, l'Irap per i professionisti, l'eventuale incidenza dell'Iva e
le addizionali, l'Ici, altresì diversi tipi di tasse e di diritti come la Tia, i diritti camerali, le tasse di pubblicità, l'imposta su bollo, la tassa di possesso ecc. Si perverrebbe così ad avere in un processo di reale trasparenza finanziaria alla conoscenza del proprio reddito spendibile e la quota di esso destinata alla contribuzione dei
servizi pubblici dello Stato e degli Enti locali.
Un'altra distorsione dell'attuale sistema impositivo è la tendenza a voler attuare
l'imposizione con velocità crescenti di acquisizione finanziaria delle entrate non
considerando, in special modo per le imprese, la diversa velocità di formazione del
reddito. In breve, la differenziazione tra ciclo finanziario dell'imposta e ciclo economico di produzione è concausa di fasce di evasione ed elusione indotte dal
sistema dovute, si ripete, ad una mancata correlazione dei cicli finanziari a quelli
economici delle imprese.
Gli attuali provvedimenti previsti per combattere l'evasione non si muovono dall'approfondimento della conoscenza delle cause che inducono il sistema ad avere
queste ampie fasce d'evasione. Non può risolvere certamente i problemi l'inserimento in dichiarazione fiscale di una gran massa di dati relativi al contribuente e
sue parti correlate o corrispondenti che snaturano taluni istituti tipici che ho
richiamato nella presente relazione e che riguardano in buona sostanza l'effettività del reddito da tassare.
Per le imprese, tre brevi considerazioni riguardanti la formazione dei redditi imponibili: la prima riguarda le aliquote economiche o tecniche degli ammortamenti le
quali dovrebbero essere determinate o riviste annualmente con un provvedimento
unitario e chiaro, in secondo luogo i piani di ammortamento dovrebbero essere
impostati secondo metodi finanziari che includano nel costo sostenuto di un bene
ammortizzabile altresì gli interessi passivi che derivano figuratamente dall'impiego
normale dei capitali propri di rischio. Inoltre, per una corretta definizione degli
investimenti in beni ammortizzabili nel lungo periodo occorre considerare l'eventuale costo di sostituzione sulla base di coefficienti medi di svalutazione monetaria.
Da ultimo, considerare in quote di esenzione fiscale le parti del reddito reinvestite
in beni durevoli tenendo conto dell'applicazione della forza lavoro.
Ho terminato il mio percorso à rebours e posso concretamente affermare che gli
strumenti avuti nella formazione universitaria quali l'insegnamento in particolare
88
Fra nco de Leona rdis
Profili economici e professione: un percorso à rebours
dell'economia e di scienza delle finanze nonché di statistica, di politica economica e
di diritto tributario permangono tuttora nell'indirizzo e nella prassi professionale.
Anzi, la pratica professionale necessita di un processo continuo di osmosi con l'insegnamento nelle Università di Economia. Senza tali strumenti non sarebbe possibile lo svolgimento e la risoluzione dei casi che la professione ti impone e al contempo tale consapevolezza contribuisce all'assunzione di quella funzione critica e
libera da pregiudizi che tanto caratterizzò l'opera di Vilfredo Pareto.
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89
n.20 / 2008
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Ringr a zia menti
Si ringrazia il Comune di Céligny per aver provveduto al reperimento della fotografia della tomba di Vilfredo Pareto.
90
Ma ria rosa Da lla Costa
Pescatori e donne per la sovranità alimentare*
Il Faro
Da l Ker a la ...
Il movimento internazionale dei pescatori ha le sue origini nello stato del Kerala
nel Sud dell’India negli anni ’70 del Novecento. Nel 1979 si formalizza la Kera la
indipendent fishworkers’ federa tion , probabilmente il più grande sindacato del
Kerala non affiliato ad alcun partito politico. Va ricordato comunque che questo
stato fin dal 1957 aveva sempre avuto al governo una coalizione di sinistra o guidata da un partito di sinistra che aveva portato avanti uno sviluppo corredato da
un buon sistema di welfare. Per cui la povertà che caratterizzava tante regioni
dell’India qui era stata debellata e così pure l’analfabetismo. Il 100% della popolazione risultava alfabetizzata. Tale eredità era talmente forte che avrebbe condizionato anche il governo non di sinistra che sarebbe succeduto nei primi anni del
nuovo millennio1.
Quali erano le cause che avevano portato i pescatori ad organizzarsi?
Era l’aver constatato e subito, così come era successo ai contadini con la
Rivoluzione verde, le false promesse di uno sviluppo industriale della pesca che
qui era segnato fondamentalmente dall’arrivo di grandi pescherecci con reti a
strascico che rovinavano i fondali, nonché dalle cosiddette Rivoluzioni blu nell’allevamento del pesce che, mentre promettevano di aumentare l’offerta di cibo,
distruggevano in realtà più risorse di quelle che producevano. Lo scenario già
visto in agricoltura si dischiudeva sulle onde del mare o nelle vasche degli allevamenti blu. La vantata maggior produttività nascondeva costi economici, sociali, ambientali che la svuotavano di significato. Anzi la connotavano negativamente poiché riduceva l’offerta dell’alimento pesce, distruggeva l’ecosistema,
distruggeva occupazione e possibilità di vita. Da qui un iniziare ad organizzarsi
per contrastare questi balzi tecnologici nel settore ittico puntando invece a salvaguardare metodologie tradizionali e sostenibili di pesca e di allevamento, a
chiedere politiche che valorizzassero il mestiere di pescatore e lo corredassero
dei necessari diritti e garanzie. Ma soprattutto l’aver constatato le massicce
distruzioni di risorse, l’espulsione di popolazioni, le profonde iniquità e impossibilità di sussistenza derivanti da questi più avanzati livelli di sviluppo, avrebbe
unito i pescatori del Kerala e di molte altre regioni dell’India e del mondo nella
causa comune di una sovra nità a limenta re fonda ta sul diritto per le comunità
di pescatori ad a ccedere a lle loro zone di pesca e fonti d’a cqua , potendole gesti-
*
Rela zione tenuta a l
convegno interna ziona le
“Globa liza ciòn y desa rrollo
desigua l. El desa fio politico
de los movimientos
suba lternos”, Universida d
Complutense, Foro
Complutense, Universida d
Noma da , Ma drid,
25-29 giugno 2007.
1
Fonda menta le in merito
l’a rticolo di G.
Ma dhusooda na n (2003) “Il
modello Kera la a lla prova
dell’a mbienta lismo”, in
CNS Ecologia Politica , n.34, a gosto-dicembre 2003,
Anno XIII, fa scicolo 55-56.
L’a ttua le governo è nuova mente di sinistra .
91
n.20 / 2008
2
Da l discorso tenuto a
Oslo il 15 giugno del 1999
in occa sione del conferimento del premio della
Fonda zione Sophia . La tra duzione ita lia na è riporta ta in Da lla Costa (2005b,
pp. 82-83).
92
3
(Da lla Costa 2005b, p. 96).
4
(Shiva 2001, p.48).
5
(Shiva 2001, p. 49).
6
(Ra pporto SOFIA 2002)
re, potendo esercitare il loro mestiere in un ra pporto orga nico con il mantenimento di quell’ecosistema che racchiudeva le loro risorse di lavoro e di vita.
Emergeva subito che difesa del lavoro non era solo difesa di un’a nonima possibilità di occupa zione, era difesa di un sistema di vita , di un contesto di rela zioni con la na tura e con gli uma ni che non si voleva abbandonare e da cui non
si accettava di essere espulsi. Diceva Thomas Kocherry leader storico del movimento dei pescatori: “Per noi la pesca è un modo di vivere, non una mera fonte
di reddito. Il mare è la nostra madre”2.
Ma r i vuoti
Il primo evento che giunge a minare la parca vita delle comunità costiere del
Kerala è la gra nde pesca mecca nizza ta con reti a stra scico che giunge nell’oceano indiano già negli a nni ’60 del secolo appena trascorso. I pescatori locali
che conducono la piccola pesca, mestiere fondamentale per le comunità costiere, ne constatano subito il danno nella diminuzione del loro pescato. Teniamo
presente che il 60% del miliardo di abitanti dell’India vive lungo le sue coste. Le
catture dei pescatori locali costituiscono circa il 30% del pescato complessivo
nazionale che ammonta a 3 milioni di tonnellate l’anno, ma loro rappresentano
tra l’80% e il 90% dei 10 milioni di lavoratori ittici di questo paese3 e dipendono
dal mare per la loro sussistenza. Mentre fino alla fine degli anni ’50 il tasso di crescita del pescato nei mari dell’Asia meridionale era cresciuto del 5% all’anno
senza nuove tecnologie di cattura tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80
in India il tasso scende al 2%4.
Nel mondo la grande pesca meccanizzata è contraddistinta da grandi sprechi. Si
calcola che lo scarto, cioè il pesce che viene ributtato in mare morto o morente
perché non rientra nelle specie selezionate per il mercato sia circa un terzo (cioè
27 milioni di tonnellate) del pescato complessivo. Ma quando si tratta di pescare gamberi o gamberoni, pesca che avviene con la sciabica, speciale rete a strascico per fondali bassi che ne vengono devastati, lo scarto può arrivare a 16 milioni di tonnellate all’anno, in certe zone a 15 tonnellate per una tonnellata di gamberi pescati. Significativamente, nelle principali aree di pesca dei gamberi in
India, il pescato annuo di questo crostaceo è passato da 45.477 tonnellate nel
1973 a 14.582 nel 1979 e, fatto ancor più significativo, si esportano gamberi sempre più giovani, il che è indice di sovrapesca5.
A livello globale secondo il rapporto della Fao Sofia 2002 il 47 % circa dei principali stock o gruppi di pesce sono completamente sfruttati e di conseguenza non
offrono molte speranze di nuove espansioni, il 18% è già supersfruttato, in continua diminuzione e senza prospettive di espansione, il 10% sta per esaurirsi.
Quindi solo il 25 % non è soggetto a cattura irrazionale.6
Anche nel settore della pesca, come in agricoltura, il rapporto Nord Sud ci
mostra una costruzione di abbondanza che da un lato è falsa per il Nord stesso
dall’altro è causa di una miseria sempre più larga per il Sud cui sottrae risorse
fondamentali per l’alimentazione. Secondo quanto denunciato da Thomas
Kocherry “Molti governi soprattutto del Nord sovvenzionano una pesca insostenibile. Secondo dati della Fao ogni anno i governi pagano complessivamente 116
miliardi di dollari Usa per catturare l’equivalente in pesce di 70 miliardi di dollari. Nazioni sviluppate che hanno sovrasfruttato le loro acque, sono entrate nelle
Ma ria rosa Da lla Costa
Pescatori e donne per la sovranità alimentare.
acque di paesi in via di sviluppo. L’Unione europea ha circa il 40% in più del
necessario di imbarcazioni per catturare pesce su base sostenibile. Le grandi flottiglie da pesca industriali hanno rapinato tutti gli oceani. Sono diventate una
minaccia per i 100 milioni di pescatori e hanno connessioni organiche con la
monocoltura costiera dei gamberetti”7.
La cattura globale di pesce per “l’avanzamento” delle tecniche di pesca e per la
possibilità di lavorare e congelare il pesce sui grandi pescherecci industriali è
passata dai 20 milioni di tonnellate circa degli anni ‘50 del Novecento ai 94,8
milioni di tonnellate dell’anno 2000. Ma proprio tale dimensione di cattura con
le modalità che la caratterizzano ha significato che lo sfruttamento del patrimonio ittico ha superato la capacità riproduttiva degli stock. In alcuni casi li ha semplicemente annientati. Davanti ai banchi di Terranova, luogo della pesca al merluzzo sin dal Cinquecento, il mare è stato svuotato del prezioso pesce ed è rimasto vuoto. Neppure il divieto di pesca del governo canadese nel 1992 è riuscito
a mutare la situazione, attualmente invariata. Con la scomparsa del pesce sono
scomparsi 80.000 posti di lavoro nel settore ittico per uomini e donne.
Anche il settore del “migliora mento tecnologico”, in continuo sviluppo soprattutto grazie alle sovvenzioni statali, contribuisce ad aumentare la pressione sul
mare. Queste sovvenzioni che dovrebbero creare posti di lavoro nelle zone
costiere povere favorendo lo sviluppo dell’attività di pesca, il più delle volte sono
invece impiegate in nuova tecnologia che incrementa l’overfishing. Secondo la
Banca mondiale tali sussidi ammonterebbero a un totale di 20 milia rdi di dolla ri l’anno8.
Le flotte europee sono di casa nei mari africani con conseguenze spesso devastanti per le popolazioni del luogo. Gli accordi in tal senso tra Unione europea e
paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico sono numerosi. Significativo quello tra
Ue e Mauritania del 1° agosto del 2001 che prevede l’accesso alle acque con una
contropartita finanziaria di 430 milioni di euro. Dopo anni di pesca i timori per
le popolazioni locali sono molteplici9. L’Africa occidenta le come conseguenza di
anni di pesca europea ha perso la metà degli stock di pesce da fonda le, una categoria che comprende le specie più pregia te dal punto di vista commerciale. A
Dakar in Senegal Daniel Pauly, un’autorità per gli studi sullo sfruttamento globale delle risorse ittiche, dichiarava alla conferenza organizzata dal Wwf international nel 2002: “A causa dello sfruttamento non sostenibile delle risorse ittiche da
parte delle flotte straniere gli ecosistemi dell’Africa occidenta le si sono impoveriti qua nto quelli del Nord Atla ntico, ma le conseguenze sullo sviluppo e sulla
sicurezza alimentare sono gravissime, ben peggiori di quelle che si possono verificare in Europa o in Nord America”10. La cattura eccessiva dei pescherecci dei
paesi ricchi impoverisce le acque del Sud. Klaus Toepfer, direttore esecutivo
dell’Unep (United nations environmental programme, Programma delle nazioni
unite per l’ambiente), sottolinea: “In molte parti del mondo gli stock di pesce
sono in sofferenza da quando un numero eccessivo di pescherecci, che gode di
molti sussidi fina nzia ri , sta riducendo drasticamente il numero di pesci. Alcuni
paesi in via di sviluppo che hanno buone riserve ittiche hanno stipulato accordi
di pesca con paesi stranieri nella speranza di aumentare l’afflusso di valuta con
cui pagare i loro debiti e stimolare la crescita economica. Ma le nostre ricerche
indicano che se non vengono attivati dei rigorosi meccanismi di salvaguardia
questo può rivelarsi un errore pericoloso”11. E’ chiaro. Si ripropone la spira le di
7
(Kocherry 1999)
Kocherry (senza da ta )
8
(Ca rbone 2002).
9
(AA.VV. 2002a ).
10
11
(AA.VV. 2002)
(Ca rlini 2002)
93
n.20 / 2008
12
(AA.VV. 1998)
13
(Shiva 2001, p. 46)
uno sviluppo estroverso, in nome del pagamento del debito, che produrrà altro
debito, con immediate e future conseguenze molto pesanti sulla popolazione a
cominciare dalla riduzione dei livelli di autosufficienza alimentare. Mentre il
pesce e il denaro andranno verso i paesi avanzati. Lungo le coste in molti paesi
il pesce a veva ra ppresenta to l’a pporto di proteine più sicuro e meno ca ro
rispetto a lla ca rne. Secondo i dati della Fao, il pesce, i molluschi e i crostacei
rappresentano il 29 per cento delle proteine animali consumate in Asia, il 19 per
cento in Africa e l’8 per cento in America latina12. Oltre 200 milioni di persone nei
Pvs dipendono da questo prezioso alimento per la loro sopravvivenza13. Ma,
quando il pesce entra nel mercato globale, a livello locale comincia a scarseggiare e a rincarare.
Va sche str a r ipa nti
14
Così ritiene a nche l’economista Rosa mond Na ylor
della Sta nford University
secondo qua nto riferisce F.
Unga ro (2002)
94
L’a ltro grande evento che ha indotto pescatori e comunità costiere ad organizzarsi in India, per collegarsi quindi coi pescatori di altri paesi del Sud e del Nord
del mondo, è stato l’avvento della cosiddetta prima Rivoluzione blu . Cioè l’acquicoltura industriale, anzitutto di gamberetti. Questo allevamento si è installato
in molti paesi tropicali, non solo in India, e, nonostante i suoi consumatori si trovino prevalentemente nei paesi avanzati, si situa di regola nei Pvs per il grande
impatto ambientale che ha. E’ detto industria “mordi e fuggi” perché, proprio la
devastazione dell’ecosistema che provoca, fa sì che spesso debba lasciare quel
luogo dopo averlo sfruttato, o debba lasciarlo a causa dello scoppiare di epidemie che colpiscono l’allevamento, o a causa della mutevolezza della richiesta di
mercato. Come la Rivoluzione verde anche la Rivoluzione blu si presentò con un
intento umanitario, questa volta coniugato ad uno ecologico: combattere la scarsità dell’offerta globale di cibo, fornendo, col pesce allevato, proteine alle popolazioni povere, e ridurre la pressione sul mare. I motivi addotti erano evidentemente falsi poiché il prodotto, un cibo assolutamente voluttuario, non era destinato ai poveri bensì a una clientela abbiente dei paesi avanzati; la pressione sul
mare non sarebbe stata ridotta bensì aumentata in quanto il cibo ittico necessario per l’allevamento dei gamberetti avrebbe dovuto essere prodotto con pesce
pescato in mare dai grandi pescherecci con reti a strascico, e si sarebbero distrutte più risorse di quelle che si sarebbero prodotte con l’allevamento. Si reputa
infatti che l’allevamento industriale di pesce necessiti in genere di catturare per
il cibo ittico il doppio in peso di quello che si produce14. Ma per alcune specie il
rapporto è più alto. Per produrre 3 chili di salmone con l’acquicoltura sono
necessari 2,7 chili di mangime ittico per produrre i quali sono necessari 15 chili
di pesce. Il che rappresenta un enorme spreco. In generale sono necessarie da 4
a 6 tonnellate di cibo ittico per ettaro. Ma dobbiamo computare anche il pesce
distrutto attraverso la devastazione operata nei fondali sui pesci giovani e le uova
per l’impiego delle reti a strascico nel catturare il pesce necessario alla produzione del cibo ittico.
Circa un terzo del pesca to complessivo, e cioè 30 milioni di tonnella te, non
sono destina te a ll’a limenta zione uma na bensì a nutrire a nima li tra cui lo
stesso pesce di a lleva mento.
Ma oltre a questi costi nascosti l’acquicoltura industriale ne racchiude altri.
L’impianto consta in genere di grandi vasche di 2 metri di profondità per un etta-
Ma ria rosa Da lla Costa
Pescatori e donne per la sovranità alimentare.
ro di superficie. La loro installazione comporta la distruzione delle foreste di
ma ngrovie che caratterizzano le coste dei paesi tropicali. Queste foreste hanno
varie ed importantissime funzioni. Tutelano la costa dall’erosione del terreno, la
difendono dagli uragani o da altre catastrofi naturali, costituiscono una preziosa
nursery per specie di pesci che nelle loro acque tranquille riescono ad affrontare l’iniziale periodo di vita prima di avventurarsi in mare, contribuendo con ciò
a salvaguardare la riserva ittica per i pescatori. I gamberetti devono essere allevati in una combina zione di a cqua sa la ta e a cqua dolce che deve essere continuamente regolata ma le movimentazioni meccaniche e la crescita stessa dei
gamberi fanno sì che l’acqua si riversi nel territorio circostante sa linizza ndolo e
sa linizza ndo a nche le falde di acqua dolce dove il prelievo è stato eccessivo. Ma
con l’a cqua si riversano gli antibiotici, gli escrementi dei gamberi, il grande residuo del cibo ittico di cui solo il 17% costituisce biomassa che viene utilizzata dai
gamberetti stessi. Anche sotto questo aspetto uno spreco totale. Con l’acqua
inoltre si riversano i detergenti quando si fanno le operazioni di pulizia. La compromissione del territorio, la sua salinizzazione e inquinamento chimico, rendono impossibile la prosecuzione dell’agricoltura e arrivano a compromettere la
stessa pesca in mare poiché la prima fascia viene inquinata e i pesci tendono a
migrare più al largo aumentando la distanza che i pescatori devono affrontare
per il loro lavoro. Frequenti sono inoltre le morie di pesci.
Molte popolazioni devono la scia re il territorio sa linizza to e inquina to, ove
anche gli animali muoiono, in cerca di improbabili reinsediamenti rurali visto che
le terre da coltivare disponibili sono sempre meno. Questi allevamenti si sono
insediati in Ecuador, Bangladesh, Brasile, Cina, Filippine, Honduras, Indonesia,
Messico, Sri Lanka, Thainlandia e Viet Nam oltre che in India. Hanno visto lotte
e scontri sanguinosi, numerosissimi momenti di protesta. In 11 paesi sono stati
denunciati omicidi legati all’industria di gamberi. In India questa industria ha
attaccato i 7000 chilometri di coste di questo paese. Ma gli espulsi a causa di queste installazioni quasi mai hanno territori dove ripristinare le loro economie.
L’alternativa sono la miseria, il degrado e la fame negli slums delle grandi città.
L’occupa zione creata da questi allevamenti è minima se confrontata all’occupazione che distrugge. In Ecuador, ad esempio, un etta ro di foresta di mangrovie
riesce a garantire cibo e sussistenza a dieci fa miglie mentre un’industria di gamberetti di ben 110 etta ri dà lavoro solamente a 6 persone.
Negli allevamenti lavorano spesso donne e ba mbini , dalle otto alle dieci ore al
giorno in condizioni igienico sa nita rie disa strose, per cui sono soggetti a frequenti patologie soprattutto dissenteria e malattie della pelle. Si riferiscono
anche casi di stupro sulle lavoratrici.
Anche le ore lega te a lle incombenze del la voro domestico nel territorio circostante a umenta no. Bisognerà andare più lontanto per cercare legna da ardere e
acqua potabile15.
La lavorazione stessa dei gamberetti in alcune aree ci presenta scenari infernali.
Come nella Ma cha r Colony nella fisheries area a Karachi in Pakistan. Qui la lavorazione di questi crostacei è basata sullo sfruttamento intensivo dei bambini.
Accovacciati in lunghe file sul pavimento bagnato e maleodorante, sgusciano montagne di gamberetti per dodici ore al giorno sotto il controllo assillante dei sorveglianti. La paga è in base al numero di cestini di pesce lavorato riempiti. Chi in un
giorno arriva a prepararne 15 chili può avere due dollari. Per la posizione in cui
15
Per le informa zioni
complessive di cui subito
sopra vedi Shiva (2002, p.
51 e segg.); Da lla Costa e
Chilese (2005, p. 69);
Sha na ha n (2003)
95
n.20 / 2008
16
(Da lla Costa e Chilese
2005, p. 69).
17
(Brown senza da ta )
devono lavorare e per dover tenere le mani in acqua salata con il ghiaccio mischiato ai gamberetti questi piccoli sono votati all’artrite alle dita e a danni alla schiena16.
La Banca mondiale ha sostenuto l’acquicoltura industriale fin dagli anni ’70 ed
oggi è il settore a limenta re a più a lta crescita 17. Ma la costruzione delle vasche,
delle strade per trasportare il prodotto, delle infra strutture per la refrigerazione
e altro saranno in gran parte a ca rico dello sta to ospita nte che così si indebiterà ulteriormente nega ndo invece, come già abbiamo visto in agricoltura, il
sostegno ai pescatori locali, ad esempio per il carburante, e i servizi primari per
la popolazione. Nel 1991, dentro il nuovo quadro neoliberista che venne imposto all’India, il governo costituì la Mped /(Marine products export development
authority, Agenzia per lo sviluppo delle esportazioni dei prodotti ittici) per sostenere ancora di più l’acquicoltura. Infatti l’Agenzia ha fornito assistenza tecnica e
sussidi significativi a tale settore nel paese. Nello stesso anno il governo autorizzava la pesca d’alto mare.
Fr a nkenstein fish
18
(Shiva 2002, pp. 60-61).
Ma una seconda Rivoluzione sarebbe giunta a minacciare il mondo blu , la modifica zione genetica del pesce. A volte si sarebbe proposta ancora con intenti umanitari: evitare l’uso di antibiotici modificando geneticamente il pesce per renderlo più resistente alle malattie. Altre volte la ragione sarebbe stata dichiaratamente commerciale. Particolarmente puntato il salmone atlantico: farlo crescere
più in fretta, 12-18 mesi al posto dei naturali 3 anni, e renderlo più resistente al
freddo. Ma l’ingeneria genetica che pretenderebbe aumentare l’offerta di pesce
rischia di distruggerla. Il pesce che deve crescere più in fretta può richiedere più
cibo, quello più resistente può distruggere le specie selvatiche. Le specie transgeniche di allevamento possono fuoriuscire, come spesso succede, dalle zone di
allevamento e incrociarsi con le altre specie con esiti imprevedibili sulle stesse e
sull’ecosistema. Comunque quando la natura viene forzata da un lato viene indebolita dall’altro. Esiti del cosiddetto effetto Frankenstein sono stati ad esempio
quelli derivati dall’introduzione, fra il 1968 e il 1975, del gambero opossum in
diversi laghi a Nord del lago Flat Head nel Montana per accrescere le risorse alimentari del salmone Kakonee. A mano a mano i gamberi divorarono tutto lo zooplancton che costituiva una fonte alimentare importante per il salmone e la
pesca di questo pesce precipitò. Prima del 1985 il raccolto annuale del salmone
era pari a 100.000 unità, nel 1987 era sceso a 600 unità18.
Altr a economia
Ma l’a lterna tiva per allevare pesce in modo sensato ed effettivamente produttivo esisteva già da 500 a nni . E’ dal ‘500 infatti che l’India ha sistemi tradizionali
e sostenibili di acquicoltura che l’avevano resa il primo produttore mondiale di
gamberi. Tali sistemi, con modestissimo impatto ambientale, si coniugavano e si
alternavano con l’agricoltura ove questa era praticabile. Erano sistemi integrati di
acquicoltura e agricoltura. Tra i più conosciuti, il sistema bheri costituito da
va sche di dimensioni va ria bili , adottato in zone paludose e melmose, ad esempio nel Bengala occidentale. Se è stagionale, si alleva pesce da novembre a
dicembre, in altri mesi il riso. Se è perenne, in quanto per l’alta salinità del ter-
96
Ma ria rosa Da lla Costa
Pescatori e donne per la sovranità alimentare.
reno non può crescere il riso, si allevano gamberi e pesce tutto l’anno. In altre
zone come l’Orissa vicino agli estuari, alle spiagge e attorno ai laghi si usa il sistema gheri . Si tratta di grandi stagni ove si fanno arrivare i pesci e i gamberi con le
maree e saranno le maree stesse a nutrirli mentre un sistema di piccole barriere
di bambù evita che fuoriescano in mare quando la marea si ritira. Grazie ad un
sistema di chiuse vengono poi catturati con le reti o con le mani. Ma soprattutto
questo sistema si a lterna con la coltivazione del gra no e con la coltivazione del
riso. Anzi quando questo viene tagliato una parte della spiga viene lasciata nel
terreno proprio per costituire cibo per il pesce. Altro sistema è il tha ppa l che
indica durante l’alta marea la ricerca con le mani dei gamberi, ostriche e altro
pesce che è stato spinto verso la spiaggia. Spesso la ricerca è aiutata dall’immersione in acqua di una stuoia fatta con erba secca e piante di balsmo intrecciate
con chicci di riso che attraggono il pesce. Una volta catturato viene messo in recipienti con acqua salata. Sono immagini che nel contempo danno l’idea dell’estrema semplicità ma anche produttività dei metodi usati, della loro sostenibilità sotto tutti gli a spetti e della ricchezza dell’offerta del mare. Tali sistemi avevano fornito di che vivere alle popolazioni costiere per secoli19. Quella ricchezza
è però quello che le metodologie della grande pesca industriale e dell’allevamento industriale hanno pregiudicato e stanno pregiudicando sempre più.
19
(Shiva 2002, pp. 58-60).
Autor ga nizza r si
E’ di fronte alla massiva distruzione di risorse attuata dalla grande pesca meccanizzata e dall’acquicoltura industriale, e alla conseguente impossibilità di sussistenza ed espulsione di popolazioni che il movimento dei pescatori organizza
una serie di lotte e cresce puntando a collegare i pescatori di tutta l’India. Nel
1982 vi fu una scissione ma il nome e larghissima parte degli aderenti al sindacato rimasero con Kocherry e ottennero dal governo la sospensione della pesca a
stra scico lungo le coste del Kera la dura nte il periodo monsonico della riproduzione, da giugno a settembre. Più tardi questo movimento raggiunse effettivamente una dimensione nazionale e assunse il nome di Na tiona l fishworkers
forum (Nff). Si propose quindi di costruire una rete mondiale. Organizzando
incontri e collegamenti con pescatori in lotta in altri paesi del mondo, tanto per
menzionarne alcuni, con pescatori del Madagascar, del Senegal, delle province
canadesi di Nuova Scozia e di Terranova, nel 1997, dopo aver lanciato 4 grandi
scioperi a livello nazionale che iniziano nel ’91 e sono sostenuti da forme molto
dure di lotta delle comunità costiere, con la conferenza di Nuova Delhi si costituiva come World forum of fish ha rvesters a nd fish workers. Ma sarebbe decollato a livello veramente planetario con la conferenza di Loctudy, un paesino della
Bretagna in Francia nel 2000. Il movimento si dà uno sta tuto, una struttura orga nizza tiva , si ripropone di costruire a livello loca le a lterna tive a l ca pita lismo
attuando modelli di produzione e sociali che rispondano ai reali problemi delle
comunità locali, che favoriscano la decentralizzazione e l’autonomia, che siano
sostenibili per il mare e per quelli che ci vivono. Decide che il 21 novembre, data
eletta a giornata internazionale della pesca nella conferenza di Nuova Delhi del
1997, i forum continentali si impegneranno nell’organizzazione di manifestazioni e scioperi per sensibilizzare tutti alle problematiche portate avanti dal movimento dei pescatori. L’anno seguente, nel novembre 2001, il movimento decre-
97
n.20 / 2008
20
(Da lla Costa e Chilese
2005, pa g. 80). Nel testo è
complessiva mente tra tteggia to e a na lizza to il percorso del movimento dei
pesca tori.
98
ta infatti uno sciopero globa le che coinvolge tutto il mondo della pesca e si
oppone alla depredazione dei mari. Ma a Loctudy un’altra scissione avrebbe visto
Kocherry alla guida di una nuova formazione, il World forum of fisher peoples cui
avrebbero aderito i delegati asiatici e la maggioranza di quelli africani mentre il
resto del movimento coordinato dal canadese François Poulin manteneva il
nome originario. L’anno precedente il movimento dei pescatori era giunto con
la Carovana del ’99 nei paesi europei ed era stato una componente molto importante nella manifestazione di Seattle. Nel ’99 aveva fatto conoscere ai cittadini dei
vari paesi europei la sua lotta contro i motopescherecci con reti giga nti in joint
venture con multinazionali straniere che mettevano a repentaglio la vita dei
pescatori e rovinavano il terreno di pesca. Aveva fatto conoscere la sua lotta contro la gra nde pesca che distrugge la biodiversità biologica lungo la costa e al
largo. Aveva fatto conoscere ancora le lotte contro l’a cquicoltura industria le
portatrice di un impatto devastante e la violenza della repressione che dovevano
subire le popolazioni in lotta. Aveva dichiarato la sua volontà di costruire alternative locali su base sostenibile che rispondessero anzitutto ai bisogni delle
popolazioni costiere. Nel 2004 a l World socia l forum di Mumba y sceglie, come
molti altri movimenti, di non partecipare ma di costruire una presenza altra,
mentre decide come forma di protesta contro l’invasione dei motopescherecci
con reti a strascico di bloccare la stazione ferroviaria e portare avanti altre forme
di lotta. Va ancora ricordato che il movimento dei pescatori con altre componenti dei movimenti indiani aveva ottenuto nel 1996 la sentenza della Corte
Suprema che ordinava la rimozione entro il 31 marzo 1997 di tutti gli impianti di
acquicoltura, all’infuori di quelli tradizionali e tradizionali migliorati, da tutte le
coste indiane soggette a regolamentazione fino a una distanza dal mare di 500
metri e nei mille metri vicini ai laghi Chilika e Pullicat, zona umida di rilevanza
internazionale. Il verdetto della Corte non fu ma i osserva to da l governo che
anzi varò l’Acqua colture a uthority bill per legittimare l’allevameno dei gamberetti in tali aree e trasferendo la competenza in merito al Ministero dell’agricoltura mentre si stava e si sta ancora chiedendo di dare attuazione al Ma rine fishing regula tion a ct del 1978 che era orientato a tutelare tre aspetti fondamentali del mondo della pesca: la vita e l’economia dei pescatori tradizionali, la conservazione delle risorse ittiche, l’osservanza della legge e dell’ordine in mare.
Come dicevamo i gra ndi scioperi na ziona li degli a nni ’90 erano stati sostenuti da lotte durissime delle comunità costiere che si erano concretizzate in scioperi della fame, sit-in, marce, blocchi delle autostrade, delle reti ferroviarie, degli
areoporti, occupazione degli uffici governativi, dei porti20. Dopo tali eventi si era
formato il Comita to Mura ri con la partecipazione di 16 parlamentari, di tutti i
ministri organicamente collegati al settore per le acque marine e le acque interne e di sei rappresentanti delle parti interessate. Ma le 24 raccomandazioni che
ne scaturirono, molto importanti, ufficialmente accettate dal governo, non vennero mai osservate. Le lotte contro gli impianti industriali di acquicoltura o contro la grande pesca si scontrano invece sempre con una dura repressione.
Il 2004 segna un’altra significativa tappa per il movimento dei pescatori che prende contatto con l’Ilo (Interna tiona l la bour office) per arrivare a statuire assieme a tale ente, per la prima volta, delle regole riguardo al la voro informa le della
pesca . A partire dall’avere contratti scritti e la lista delle persone a bordo, dalla
necessità di avere documenti di identità e diritti riguardo al rimpatrio e al reclu-
Ma ria rosa Da lla Costa
Pescatori e donne per la sovranità alimentare.
tamento, dalla nessità di avere leggi e regolamenti riguardo alla sistemazione a
bordo, al cibo, all’acqua potabile, dall’avere una normativa che assicuri le cure
mediche di primo soccorso e la dotazione di un kit di salvataggio in buono stato.
Si vuole avere una tutela previdenziale anzitutto come pensione, che si richiede
dai 60 anni, e coperture assicurative tanto più necessarie visti i rischi del lavoro.
Si vuole avere una normativa che stabilisca un’età minima per il lavoro a bordo,
un minimo di ore di riposo in relazione alle ore di lavoro, si sottolinea la necessità di assicurare l’istruzione dei ragazzi anche proponendo degli orari flessibili
poiché posticipare di anni il lavoro sulle imbarcazioni espone maggiormente al
rischio di soffrire il mal di mare e di non acquisire la necessaria confidenza con
l’ambiente marino. Altrettanto si richiede di stabilire un minimo salariale per chi
riceve una paga avendo particolare attenzione al lavoro migrante e dei tribali21.
Con il documento Towa rd a Fisheries policy in India 22 si avanzano una serie di
altre richieste concernenti le condizioni di vita dei pescatori mentre si auspica la
messa a punto di una politica della pesca che tenga conto delle fondamentali esigenze della popolazioni costiere e del loro rapporto organico con le risorse
alieutiche. Quindi si avanzano, in particolare nei confronti degli stati interessati
dalle attività di pesca, richieste che riguardano le condizioni di vita del villa ggio, dalla drammatica necessità di spazio per costruire abitazioni, all’assicurare la
possibilità di cibo (fortemente pregiudicata, ricordiamo, dall’acquicoltura industriale e dalla grande pesca), all’assicurare i fondamentali servizi come istruzione, sanità, acqua potabile, e tutte le infrastrutture di cui un villlaggio necessita.
Altre richeste ancora riguardano le sovvenzioni per il combustibile necessario
alle imbarcazioni, e forme di assicurazione e credito che garantirebbero maggior
sicurezza (oltre naturalmente alla pensione di cui abbiamo già detto). Ma proprio
il dettato neoliberista nega il sovvenzionamento alla piccola pesca mentre incoraggia i grandi sovvenzionamenti alla grande pesca.
Si ribadisce la necessità di continua re la lotta per avere una regolamentazione
della pesca a partire dall’attuazione del Marine fishing regulation act opponendosi alla tendenza espressa dal governo di intensificare invece la capacità produttiva di pesca.
Le donne e il ma r e
Il ruolo delle donne nel settore ittico è stato a lungo ignora to e sottostima to. In
realtà il loro lavoro, che si concentra nell’attività di preparazione (ad esempio
tagliare in filetti) e vendita del pesce, genera quel guadagno che a sua volta permette ai mariti di pagare un equipaggio e di andare a pescare e nel contempo
permette di sostenere le spese per la famiglia e per la comunità23. Pregiudicate
anch’esse nei loro mestieri dall’arrivo della grande pesca si sono organizzate in
cooperative adottando forme di risparmio e credito che gli permettessero di affrontare meglio l’attività di mercato. D’altronde l’organizzarsi in cooperative è stata la
forma di organizzazione fortemente sostenuta dal movimento dei pescatori.
Fondamentale è stato il loro ruolo nelle lotte. Per cui anche nelle strutture organizzative che, a tutti i livelli, il movimento internazionale dei pescatori si è dato,
si è stabilita l’assoluta paritarietà di rappresentanza fra uomini e donne.
In questa planetaria battaglia, di mare e di terra, che vede le ragioni del profitto
distruggere la ragioni della vita, la voce e l’azione delle donne accanto a quella
21
(AA.VV. 2004)
22
(AA.VV. 2004a ). Va l la
pena di ricorda re, per
a vere più chia ro il qua dro
dei soggetti interessa ti a
ta li rivendica zioni, che
secondo lo sta tuto del Wffp
i pesca tori che ha nno diritto di divenire membri a ttivi del Forum sono tutte le
persone che pra tica no
diretta mente la pesca e nei
diversi pa esi a ppa rtengono
a lle seguenti ca tegorie:
==> Persone che
pra tica no la
pesca di sussistenza ;
==> Pesca tori a rtigia ni;
==> Comunità
a utoctone o
a borigene che
pra tica no la pesca ;
==> Pesca tori costieri e
continenta li
tra diziona li;
==> Pesca tori a utonomi
che pra tica no la
piccola pesca ;
==> Membri
d’equipa ggio;
Inoltre: i membri d’equipa ggio che a ppa rtengono a
gruppi non nomina ti precedentemente, ma che
a ttua lmente fa nno pa rte
delle orga nizza zioni definite a l sottopa ra gra fo a )
dell’a rticolo 2 e cioè le
orga nizza zioni che condividono gli obiettivi dell’a rticolo 1 dello sta tuto;
le orga nizza zioni popola ri
ra dica te nelle comunità di
pesca tori o che riuniscono
donne impegna te nella
difesa della pesca ;
i la vora tori del settore ittico la cui a ttività consiste
nella tra sforma zione, vendita (a d eccezione dei
commercia nti) e tra sporto
del pesce.
Per il complesso di queste
rivendica zioni vedi M.
Da lla Costa , M. Chilese, op.
cit., pa g. 97 e segg. Lo sta tuto nella sua integrità è
riporta to tra gli a llega ti
nello stesso testo.
99
n.20 / 2008
23
In Ca na da , negli Sta ti
Uniti, in Gia ppone e in
Norvegia , dove la crisi ha
costretto i pesca tori a
ridurre l’equipa ggio, le
mogli ha nno dovuto integra rlo e la vora re sulle
imba rca zioni (AA.VV.
1998).
degli uomini è imprescindibile. Non a caso si è scritto più volte nei documenti
che segnano le tappe organizzative di questo movimento che d’ora innanzi si
abbandonerà qualunque discriminazione nei loro confronti. Nello statuto stilato
a Loctudy al punto 3 dell’a rticolo 1 che definisce gli obiettivi del World forum
of fisher peoples viene enunciato l’obiettivo di riconoscere, sostenere e migliorare il ruolo della donna nella vita economica, politica e culturale delle comunità di pescatori”. E questo impegno corrisponde pienamente all’impegno assunto anche dalle organizzazioni contadine.
Significativamente alla conferenza di Nyeleni (Mali, febbraio 2007) a cui le reti
dei pescatori hanno partecipato assieme a quelle degli agricoltori, dei pastori e
di altre figure del mondo rurale, i lavori sono stati preceduti da una giorna ta di
discussione a l femminile, un Forum delle donne.
Sovr a nità a limenta r e e vita
Complessivamente il movimento interna ziona le dei pesca tori che abbiamo
considerato nel suo filone india no in quanto motore propulsore di un coordinamento fra pescatori con esigenze analoghe nel Sud e nel Nord del mondo, rappresenta un a ltro fonda menta le a nello di quella rete che si propone la sovra nità a limenta re assumendo che le fondamentali fonti della vita, come la terra e
il ma re, costituiscono beni comuni e come tali vanno gestiti. Per cui ne rivendica il diritto di accesso e gestione da parte di quelle comunità che producono il
cibo, in questo caso i pescatori, e lo producono con quelle modalità sostenibili
sotto ogni aspetto che ne permettono la rinnova bilità . Si tratta della rinnovabilità del pa trimonio ittico, ma non solo. La concezione del mestiere di pescatore
infatti è inscritta in un ra pporto orga nico con l’ecosistema di cui si vuole mantenere la poliedricità di offerta (ambiente, clima, culture, altri beni che il mare e
il territorio costiero racchiudono). Come il contadino, secondo la concezione
dell’agricoltura contadina o della contadinità responsabile, è legato non solo alla
terra per ricavarne un prodotto ma al territorio, così il pescatore, nella concezione della pesca portata avanti da questo movimento, è legato non solo al mare
per catturare o allevare pesce ma a quel contesto di risorse che danno possibilità a un sistema di vita e che deve contribuire a salvaguardare. E’questo sistema
di vita e di riproduzione di vita infatti che si vuol mantenere, su cui si costruisce il diritto di resistenza , di contro a quelle politiche di espulsione che il neoliberismo, ma anche il produttivismo industriale, promuovono sempre più concependo il mondo solo come grande mercato da esportazione. Anche qui, come
abbiamo già visto in agricoltura, accettare queste politiche vorrebbe dire per i
piccoli pescatori e le comunità costiere che vivono della pesca accettare la loro
espulsione, la loro estinzione. Per l’umanità nel suo complesso accettare una
dipendenza sempre più forte dal denaro per l’acquisto di un prodotto ittico
sempre più caro se viene dal mare, oppure meno caro e più inquinato se viene
dall’ allevamento.
Di contro alla sistema tica guerra a lle economie di sussistenza , e a i criteri di
sostenibilità di cui sono portatrici, il movimento internazionale dei pescatori
vuole ma ntenere metodi di produzione che hanno concesso di vivere per millenni permettendo nel contempo di salvaguardare la rea le offerta di a bbonda nza che le risorse naturali e gli ecosistemi racchiudono.
100
Ma ria rosa Da lla Costa
Pescatori e donne per la sovranità alimentare.
Altrettanto vuole mantenere il suo sa pere. E’significativo che in luoghi del Nord
come la Nuova Scozia, 150 pescatori della Baia di Fundy si siano uniti per autogestire la loro pesca. Anziché ottenere un’assegnazione individuale di quote di
pesca dal governo federale hanno costituito il Fundy fixed gear council per autogestire le loro quote complessive24 riconoscendo che di fronte a risorse limitate
un approccio comunitario sarebbe stato la miglior soluzione per amministrarle
bene. Oppure nelle Filippine l’associazione Agri-Aqua che vede assieme agricoltori e pescatori si è proposta la ricostruzione delle foreste di mangrovie ben
sapendo che senza quell’ecosistema non si può pensare di riavviare quell’economia e quei mestieri25.
In ogni articolazione del discorso emerge la dimensione della solida rietà , della
eticità , della responsa bilità , del senso del limite. Di contro alla smisura ta pesca
che svuota il ma re negando il diritto di occupazione e vita a sempre più pescatori, e di contro agli insensa ti giochi fina nzia ri che la sostengono, questo movimento difende la sensata e misurata pesca tradizionale che tiene conto anzitutto dei bisogni delle comunità costiere ma in un rapporto di solidarietà con tutti
i pescatori del mondo di cui vuole rafforzare il diritto di continuare a lavorare e
a vivere. Ed altrettanto in un rapporto di solidarietà con il diritto al cibo, cibo
sano e abbondante, di tutte le comunità del mondo. I pescatori del Wold forum
of fisher peoples infatti a Loctudy adottano il loro statuto: “...affermando che
l’Oceano è sorgente di vita, determinati ad assicurare l’inesauribilità della pesca
e delle risorse marine per le genti di oggi e le generazioni future...”26.
Il movimento quindi porta avanti la sua a zione per la sovra nità a limenta re a
partire dalla ricostituzione di livelli di a utosufficienza basati su un rapporto
organico tra mestieri e risorse dell’ecosistema. Crede che la prima sicurezza alimentare derivi dal ripristino di questi modelli di produzione e di vita. Nega che
la sicurezza alimentare risieda nella disponibilità di valuta pregiata sufficiente per
“comperare” la sicurezza alimentare sui mercati internazionali ove i piccoli produttori del Sud non decidono il prezzo né delle esportazioni né delle importazioni. E ove dovremmo acquistare sempre più pesce inquinato di allevamento.
Nega che la sicurezza alimentare possa derivare dalla graziosa concessione degli
aiuti, da sempre strumento in mano ai governi più forti per condizionare i governi più deboli. Crede che la sicurezza alimentare derivi dalla sovranità alimentare.
Decide che le fonti e i cicli di riproduzione spontanea della vita non sono mercificabili e anzi costituiscono il grande bene comune da cui partire per ripristinare economie che permettano di avere un qualche controllo sulle condizioni
della propria vita.
24
25
(AA.VV. 1998). In Ita lia a
Monterosso in Liguria , c’è
a ncora qua lcuno che tiene
viva l’a rte notturna della
pesca delle a cciughe, u pa n
du ma “il pa ne del ma re”
come le chia ma no gli
a nzia ni del luogo.
Trent’a nni fa la pesca era
l’a ttività principa le del
posto. Oggi, invece, rima ngono sola mente due ba rche
che pesca no con la la mpa ra , torna ndo a riva a lle 4
o a lle 5 del ma ttino. Le difficoltà non ma nca no e
a nche in questa loca lità si
cerca di ottenere un ma rchio che riconosca la qua lità delle a cciughe, permettendo la sa la gione in loco
e a ssicura ndo così un futuro a ll’orma i esigua comunità di pesca tori. (Chilese
2005, p. 59). A Ca mogli,
vicino a Genova , una
coopera tiva di pesca tori
usa una rete costruita
diretta mente da loro in
fibra di cocco che a lla fine
dell’a nno viene la scia ta a l
ma re come cibo per i pesci,
evita ndo così di a nda re a
costituire a ltro rifiuto.
26
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Luca Ma iocchi
Criptocristianesimo in Kosovo nel XVIII secolo
Il Faro
Nota: Al fine di rendere la lettura più agevole, utilizzeremo solamente il nome slavo (serbo, o macedone,
nel caso di Skopje) delle località, eccettuata Zogaj, che
si trova attualmente in territorio albanese. é una scelta che tiene conto unicamente della maggiore familiarità che attualmente il pubblico italiano ha con le
denominazioni serbe delle località kosovare.
Introduzione
é stato scritto molto sulla questione dell’identità
nazionale e religiosa nei Balcani: ne è stata sottolineata l’ossessiva affermazione che ha condotto
negli anni Novanta del secolo scorso a quella che
Predrag Matvejević chiama “malattia identitaria”
(Matvejević 1996, pp. 65-73), ne è stato condannato l’uso strumentale e il suo accentuato aspetto di
contrapposizione con l’“altro”. Gli eventi degli ultimi anni – e degli ultimi mesi – hanno fatto sì che
la regione balcanica venga considerata come il
campo di battaglia dove si scontrano identità
opposte e ben definite, anche se a volte dai confini artificialmente rigidi. Questo lavoro si propone
di aprire una finestra su un fenomeno sociologico
e politico della storia dei Balcani caratterizzato da
una tendenza opposta, che vede invece un’identità dai contorni sfocati, volutamente negata o
mimetizzata anziché portata con orgoglio o addirittura imposta. I materiali documentali originali su
cui si basa l’articolo sono tratti per lo più
dall’Archivio Storico della Congregazione per
Evangelizzazione dei Popoli e riguardano la diocesi di Skopje nella seconda metà del XVIII secolo. Si
tratta principalmente delle relazioni inviate dal
clero cattolico della zona durante l’arcivescovato
di Matija Mazarek – un prelato che fu a capo della
diocesi per un periodo di tempo straordinariamente lungo (1758-1808) – alla Congrega tio de
propa ga nda fide, un’istituzione creata dal
Vaticano nel 1622 con il compito di sostenere l’attività evangelica nel mondo.
Occorre innanzitutto identificare il territorio a cui si
riferiscono le osservazioni dell’arcivescovo e dei
suoi parroci. Ai tempi di Mazarek la diocesi di
Skopje consisteva di otto parrocchie: da sud-est
verso nord-ovest Skopje, unita a Kratovo (chiamate
nei documenti “Scopia” e “Cratovo”); Skopska Crna
Gora (“Montenegro” o “Zarnagora”), costituita dai
quattro villaggi di Letnica, Sasare, Vrnez e
Vrnavokolo; Janjevo (“Jagnevo”), luogo di residenza dell’arcivescovo; Prizren (“Prizreno”); Zur
(“Sumbi”); Zogaj (“Sogagni”); Djakovica
(“Giacova”); Peć (“Pecchia”). . Ad esse si aggiunse
una nona parrocchia, quella di Rogovo, nel 1763. Si
tratta, insomma, di una fascia di territorio che
copre gran parte dell’odierno stato indipendente
del Kosovo, delimitata a est dalla linea JanjevoSkopska Crna Gora, a ovest da Rogovo (nell’attuale Montenegro) e da Zogaj (nell’attuale Albania), a
nord dalla linea Peć-Priština e a sud dal triangolo
formato da Zur, Skopje e Skopska Crna Gora
1.Chi sono i criptocristiani? Cenni storici
sulla loro esistenza nella regione
Nella relazione della sua prima visita generale della
diocesi, nel gennaio 1760, Mazarek riporta un episodio significativo, un esempio dei molti casi simili che gli capiteranno nel corso del suo arcivescovato: “Nella medesima città [Djakovica], nell’atto,
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n.20 / 2008
che cresimavo li ragazzi, si accostò, e si inginocchiò un giovane albanese di 18 anni per esser cresimato, ma tenendo la Fede occultam.te, ricercai
da lui la protesta in presenza di tutto il popolo, e
rispondendo di non potersi astenere dall’esercizio
di quelli atti vietati dalla Bolla di Felice Mem.
Benedetto XIV, rissolutam.te lo scacciai d’avanti, e
l’esclusi dal Sacramento della confirmazione, il
quale proruppe in dirottissimo pianto, ma non ardj
dalli Turchi fare la protesta. Di questa sorte di
gente, che sono occulti, e che non confessano la
Fede palesam.te, ne li dà l’animo di osservare le
condizioni intimate nella constituzione di
Benedetto XIV, già abbastanza hanno palesato li
miei prudenti antecessori all’E.E.V.V. Nulladimeno
per sgravare la mia conscienza, ancor io voglio
dimostrare alla pietosa Madre l’infelicissimo stato
di tale gente; e come per esser abbandonati da noi
missionarj, assolutam.te abbracciano il
Mahometismo, e questi tali ci portano un’incredibile odio, aversione, et esecrazione, e la più grande persecuzione da essi patiamo, che dalli veri, et
antichi Turchi” (SOCG 792.145v-146r).
Questo ragazzo albanese è un rappresentante di
una classe di credenti che fu per secoli il tormento
della Chiesa cattolica e in seguito fu l’oggetto d’esame di molti studiosi: i criptocristiani. Noti in area
albanese con il nome di la ra ma në (“screziati”) e
chiamati quasi sempre nei documenti vaticani “cristiani occulti”, costoro mostravano tutti o quasi
tutti i comportamenti tipici dei musulmani (frequentavano la moschea, facevano circoncidere i
figli, mangiavano carne di venerdì, ecc.), ma in privato si attenevano alla religione cristiana. Questa
dicotomia tra la religione “pubblica”, quella musulmana, e un’altra religione che veniva osservata unicamente in privato non era un comportamento
esclusivo dei cattolici sudditi dell’impero ottomano, ma riguardò anche gli ortodossi; né fu un fenomeno che interessò solo i cristiani: esisteva anche
una comunità ebraica nell’area di Buchara e in
Turkestan i cui membri professavano l’Islam solo
esteriormente (Babachanov 1951, pp. 162-165),
mentre è nota la presenza in Turchia almeno fino
al 1950 di un gruppo di ebrei dönme (convertiti),
in apparenza fedeli all’Islam, ma in privato ancora
legati alla setta ebraica di Sabbatai Zevi (Didier
1981, p. 120). Non si simulava solo l’appartenenza
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all’Islam: si ha prova anche di un caso in cui i cattolici ottomani non fingevano di essere musulmani, bensì si facevano passare per un’altra tipologia
di cristiani vista con minor sospetto dalle autorità
ottomane. Nel 1769 si scriveva a Roma dalla Terra
Santa che in quei luoghi i cattolici armeni, i grecoortodossi e i siro-ortodossi fingevano in pubblico
di essere maroniti e frequentavano perfino le funzioni religiose di quella setta (Acta 139.333r-333v).
Il fenomeno della dissimulazione religiosa non è
certo estraneo nemmeno alla tradizione storica
occidentale. La conversione soltanto esteriore al
cristianesimo degli ebrei spagnoli e la finta fede
cattolica dei protestanti tedeschi del XVI secolo
sono episodi che hanno moltissimo in comune
con il criptocristianesimo praticato sotto il dominio turco.
Nelle terre sottomesse alla potenza ottomana il
primo episodio documentato di questa “tecnica”
sociale di autodifesa risale al 1330, all’invasione
ottomana di Nicea. Ne è una prova la richiesta fatta
dagli abitanti di quel luogo otto anni più tardi al
patriarca di Costantinopoli: i niceani pregavano di
essere riammessi all’ortodossia, anche se non formalmente, spiegando di essersi convertiti in massa
per paura nel primo periodo successivo all’invasione turca, ma di essere rimasti sempre intimamente cristiani. La risposta del patriarca dice molto sull’atteggiamento differente delle autorità cattoliche
e ortodosse riguardo alla questione del criptocristianesimo. In questo caso il capo della Chiesa
orientale replicò che una conversione pubblica
sarebbe stata auspicabile, ma che un ritorno al
Cristianesimo solo nella sfera privata era comunque accettato e senz’altro preferibile all’islamizzazione completa (Skendi 1967, pp. 228-229).
La prima reazione a questo problema da parte
della Congregazione per la Propagazione della
Fede è invece documentata nel 1628, quando i
primi rapporti dalle missioni in terra ottomana
cominciarono a giungere a Roma. La risposta delle
autorità vaticane consistette in una severa proibizione a negare la fede cattolica, anche se ciò poteva costare la vita (Acta 1628.166r). Fin da subito la
questione del criptocristianesimo si propose con
particolare evidenza nelle regioni a popolazione
albanese. Il Vaticano era a conoscenza della situazione delicata in quest’area perlomeno dal 1612,
Luca Ma iocchi
anno in cui all’arcivescovo di Bar venne impartito
l’ordine di non concedere più i sacramenti ai cristiani convertiti che li richiedevano (SOCG
Grecia.2.401r), anche se ci sono fondati sospetti
che il clero locale cattolico fosse a conoscenza
della prassi criptocristiana già dalla seconda metà
del XVI secolo (Zefi 2006, p. 138). Le condizioni
divennero critiche un decennio dopo la ritirata
austriaca del 1690. Nel marzo 1702 l’arcivescovo di
Bar Vicko Zmajević scrisse a Roma che dopo la
guerra con l’impero austroungarico la Porta si era
resa conto della pericolosità di avere così tanti cristiani in una delicata zona di frontiera e aveva inviato emissari nelle terre albanesi con il preciso compito di convertire i cattolici all’Islam. Non si trattava però di un processo di conversione violenta, dal
momento che lo stesso arcivescovo precisò che i
cattolici della zona avevano anche altre opzioni
oltre all’islamizzazione: potevano emigrare in
un’altra parte dell’impero ottomano, oppure sottoporsi al pagamento annuo di “uno zechino per
testa” (la normale tassa pro capite sui non musulmani). Il risultato immediato, scriveva Zmajević,
era stato che molti cattolici albanesi della sua diocesi avevano attraversato il confine e si erano stabiliti in territorio veneziano, mentre circa 500 si
erano convertiti (Bartl 1975-1979 I, p. 37). Le conseguenze di questa politica aumentarono in
maniera esponenziale nei mesi successivi, con un
ritmo di conversioni davvero impressionante, se
consideriamo esatti i dati forniti dall’arcivescovo:
secondo una lettera dell’aprile 1702 il numero dei
convertiti era già salito a 1.000, in un’altra del
primo luglio dello stesso anno si parlava di 1.500
apostasie e appena tre giorni dopo, il 4 luglio, di
circa 2.000 (Bartl 1975-1979 I, pp. 38-45). Il numero di islamizzati pare così essersi quadruplicato nel
giro di soli quattro mesi. Anche a non voler credere alla precisione delle cifre di Zmajević, rimane il
fatto che l’ordine da Istanbul aveva avuto un effetto dirompente per la Chiesa cattolica.
Fu proprio Vicko Zmajević, che evidentemente si
rendeva conto in prima persona della gravità del
problema, il primo a decidersi a intraprendere
un’azione più decisa nei riguardi dei “cristiani
occulti”. Dopo che il suo parente e predecessore
Andrija Zmajević aveva emanato un decreto che
condannava i criptocristiani (Malcom 1999, p. 167)
Criptocristianesimo in Kosovo nel XVIII secolo
– evidentemente senza troppo successo –, egli
decise che il problema andava risolto una volta per
tutte. Spedì una lettera circolare a tutto il clero di
“Servia, Macedonia e Albania”, annunciando un
concilio generale per “proteggere e rafforzare la
Fede in Albania, cancellare i vizi nocivi ed estirpare le cattive abitudini” (Gashi 1994, p. 53). Il concilio si tenne nel 1703 ed è oggi noto come “Primo
Concilio Albanese”. Condannava aspramente ogni
manifestazione nascosta della fede cattolica senza
una dichiarazione pubblica e intendeva inoltre
porre fine alla diffusissima pratica di conferire i
sacramenti anche a coloro che non si professavano
apertamente cristiani (Gashi 1994, pp. 53-54;
Frazee 1983, p. 168; Skendi 1967, p. 237;
Stadtmüller 1956, pp. 68-91).
Nonostante il suo carattere solenne, il Concilio
non sembra aver avuto un effetto immediato né in
Albania né nella diocesi di Skopje. Un ventennio
più tardi lo stesso Zmajević compì una visita delle
diocesi sotto il dominio ottomano e constatò con
disappunto che i criptocristiani venivano quasi
sempre ancora ammessi ai sacramenti. Inoltre il
numero dei “cristiani occulti” era aumentato di
molto per effetto della guerra turco-veneziana del
1715-1718 e del conseguente inasprimento dell’atteggiamento ottomano nei confronti dei cristiani
(Bartl 1975-1979 I, p. 117). Nel 1726 si comunicava
nuovamente dall’Albania che il decreto con il quale
si proibiva ai cattolici albanesi di fingersi musulmani davanti ai “turchi” era di difficile esecuzione e si
chiedevano istruzioni differenti (Acta 96.56r). La
relazione trasmessa a Roma nel 1743 dal nuovo
arcivescovo di Skopje, Nikolović dipinse un quadro della situazione nella sua missione che suscitò
grande allarme all’interno della Sacra
Congregazione. L’arcivescovo comincia con il dire
che all’interno del suo gregge di fedeli è opportuno operare una fondamentale distinzione tra credenti “occulti” e credenti “palesi”. Sembra anche
alludere a un diverso grado di occultamento della
fede all’interno della comunità stessa dei criptocristiani, dal momento che dapprima afferma che l’adesione alla fede cattolica viene mantenuta nell’assoluta segretezza (“professano interiormente la
Fede Cristiana, ma tanto nascostamente, che talvolta il Padre non si palesa ai Figli, ne i Figli al
Padre, e nell’esterno si mostrano, e si fanno crede-
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re per Turchi”) (SC Servia I.317r), mentre solo
poche righe dopo parla di una fedeltà al cristianesimo pochissimo dissimulata, perlomeno tra le
mura domestiche (“nelle loro case professano la
Fede Cristiana, battezzano i loro Figli, ai quali continuamente inculcano la costanza in simil Fede di
Cristo”). La negazione pubblica della fede non era
l’unico aspetto di una situazione drammatica dal
punto di visto dell’ortodossia dottrinale: ai criptocristiani venivano inoltre regolarmente somministrati i sacramenti (SC Servia I.317v), i cadaveri dei
cattolici venivano lavati come nella tradizione
musulmana (SC Servia I.321v), le coppie cattoliche
si sposavano davanti al cad” prima che davanti al
prete (ciò per dare maggiore validità al contratto
ed evitare che le mogli venissero rapite) (SC Servia
I.319v), i matrimoni misti tra donne cattoliche e
uomini musulmani erano all’ordine del giorno (ve
ne erano anche tra uomini cattolici e donne
musulmane, nonostante fossero proibiti dalla
legge). Proprio la situazione delle donne era la più
delicata. A detta di Nikolović-Kazazi, esse venivano
concesse ai musulmani per la paura dei padri di
essere riconosciuti come cristiani, oppure per
legami di amicizia o di interesse, oppure venivano
semplicemente prese con la forza (SC Servia
I.318v). I casi di rapimento erano allora sorprendentemente frequenti: nella parrocchia della
Skopska Crna Gora, ad esempio, tra la seconda
metà degli anni Settanta e la prima metà degli anni
Ottanta del XVIII secolo i musulmani albanesi
gestivano con una certa regolarità una sorta di
“racket” dei matrimoni, in base al quale, se un
padre cattolico voleva dare in sposa la figlia, doveva pagare perché questa non fosse rapita e data in
sposa a chi decidevano i suoi rapitori, di solito a
musulmani (SOCG 847.604r; 859.465r-465v;
872.144v-146r). Il visitatore apostolico Pjetër
Mazreku nella prima metà del XVII secolo scrisse
che i matrimoni misti tra membri di religioni differenti erano proibiti e che il prete che avesse celebrato un’unione di questo genere sarebbe stato
punito dalla legge ottomana (“Sarebbe di mala
maniera castigato quel Prete, ch’hauesse ardire
d’assistere à un contratto matrimoniale fra Turco
et Christiana; poiché quando un Turco volesse
pigliar una Cristiana per forza ò per consenso di
lei, meritaria pena capitale per legge Turchesca, si
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servisse in tal caso di Prete catolico”) (Draganović
1938, p. 14), ma, se pure una legge così ci fosse
mai stata, i documenti in esame dimostrano che
essa era assai poco rispettata.
Sebbene queste donne quasi sempre non si convertissero all’Islam dopo il matrimonio, non assumessero un nome musulmano e conservassero
tutte le abitudini anche esteriori del cattolicesimo
(messe, digiuni, confessioni, ecc.), esse venivano
comunque considerate dalle autorità ecclesiastiche come viventi in stato di concubinato, dal
momento che il loro matrimonio non aveva alcun
valore agli occhi della Chiesa cattolica. La questione era stata già esaminata dal sinodo di Shkodër
del 1678 e queste unioni erano già state dichiarate
proibite (Zefi 2006, p. 153). Nikolović-Kazazi
mostra tuttavia una notevole comprensione per la
situazione difficile di queste credenti, le quali facevano il possibile per rimanere cristiane, ma trovavano spesso l’ostacolo maggiore proprio nella
Chiesa alla quale si rivolgevano. Il clero della diocesi di Skopje, che comprendeva la situazione difficile di molte delle proprie fedeli, aveva deciso
autonomamente nel 1728 di riammettere ai sacramenti le mogli cattoliche dei musulmani, come
spiega l’arcivescovo: “A tali donne i Missionari non
amministrarono i Sagramenti sino all’anno 1728,
perche le giudicavano come in Stato di
Concubinato: ma molte di queste dopo avere
aspettato molti anni, vedendosi escluse dalla
Chiesa, per disperazione rinegavano la Fede” (SC
Servia I.318v). Nikolović-Kazazi era ben cosciente
della reazione negativa che questo “lassismo”
avrebbe provocato a Roma, tuttavia si spinse perfino a proporre alla Congregazione di emanare un
decreto che permettesse di amministrare i sacramenti a queste donne, il che andava apertamente
contro le reiterate indicazioni del Vaticano. Motivò
la sua proposta facendo notare che questi legami
matrimoniali interreligiosi non erano equivalenti al
concubinato, dal momento che erano stipulati con
dei contratti civili di matrimonio, per quanto
appartenenti a un sistema legislativo basato in gran
parte sulla dottrina coranica (SC Servia I.319r). In
caso contrario, affermava, il pericolo immediato
era di perdere moltissime buone cattoliche che si
vedevano abbandonate dal clero. Il Vaticano non si
mostrò mai molto incline a queste concessioni,
Luca Ma iocchi
neanche quando l’arcivescovo illustrò i casi di
donne per le quali il marito cattolico aveva acconsentito a sposarsi secondo il rito cattolico, in modo
da non far perdere alla propria moglie la possibilità di ricevere i sacramenti. Anche questa volta la
risposta da Roma fu no: la donna era comunque
ritenuta indegna, in quanto compiva atti di fornicazione con un “turco” (SC Servia I.446v).
Più in generale, il pericolo di allontanarsi gradualmente dalla fede era corso anche dalle migliaia di
criptocristiani presenti nella diocesi. Nella sua relazione Nikolović-Kazazi cerca dapprima di difendere l’operato dei suoi parroci (tra i cui quali figura
già anche Mazarek) nei loro confronti, trincerandosi dietro a una presunta vaghezza dei regolamenti. In seguito, pur con molto tatto, suggerisce
velatamente di permettere ai preti locali di continuare a seguire una linea morbida con i “cristiani
occulti”, in modo da tenerli – per quanto solo a
metà – nel campo cattolico e non lasciarli scivolare inevitabilmente verso la piena islamizzazione:
“L’Esponente pertanto senza entrare a discutere,
se le d.te canoniche disposizioni [riguardanti i
criptocristiani] siano chiare, o ambigue, rappresentando lo Stato, e la prattica di quei Cristiani, e
dei Sagri Ministri, poneva in considerazione, che
non essendovi modo di ritrarre i detti Cristiani dall’indicato loro vivere, qualora gli si negassero i
Sagramenti, e gli si dicessero di nulla giovargli tal
professione di Fede, e gli si negasse l’applicazione
delle Messe per l’anime dei loro Defonti, disperati
si sarebbero affatto separati con le loro famiglie di
generazione in generazione dalla Fede Cattolica;
onde in tale stato di cose chiedeva alla Santità
Vostra un’ordine chiaro, e chiarissimo di non
ammettere tali Cristiani alla participazione de SS.
Sagramenti; poiché non emanando tal’ordine positivo, non permetterebbero i Sagri Operarj, che
tante migliaia d’Anime si allontanassero affatto
dalla S. Fede, e le ammetterebbero ai SS.
Sagramenti, come fin’a quel tempo avevano fatto”
(SC Servia I.317v-318r). Un simile atteggiamento
comprensivo, di parziale giustificazione dei criptocristiani, si era registrato negli anni immediatamente successivi al Concilio Albanese anche da
parte di vari vescovi presenti in zone abitate da
albanesi. Ad essi, però, il Santo Uffizio mandò due
istruzioni, nel 1724 e nel 1730, sostenendo che i
Criptocristianesimo in Kosovo nel XVIII secolo
“cristiani occulti” non erano in alcun modo giustificabili, dal momento che le tasse imposte dagli
ottomani non erano poi così alte e che era noto
che la Porta garantiva una certa libertà religiosa.
Nel caso la pressione fiscale si rivelasse insostenibile, il consiglio del Santo Uffizio era di emigrare
(Vienna 57.111r-118r; Zefi 2006, 166-169).
La descrizione di Nikolović-Kazazi delle ripetute
irregolarità dottrinali commesse nella diocesi di
Skopje giunse fino a papa Benedetto XIV, il quale
reagì immediatamente emanando il 2 febbraio
1744 una lettera apostolica dal titolo Inter omnigena s ca la mita tes (è la “Bolla di Felice Mem.
Benedetto XIV” citata da Mazarek). La lettera ribadiva in pratica le disposizioni del Concilio
Albanese, mettendo l’accento sull’interdizione dei
sacramenti per le donne sposate con musulmani,
anche nel caso in cui avessero mantenuta intatta la
fede cattolica e fossero state riconosciute come
mogli legittime dallo Stato ottomano. Si ripeteva
inoltre la proibizione del battesimo per i figli di
matrimoni interreligiosi, a meno che non fosse
assicurato che i bambini avrebbero ricevuto un’educazione cristiana (SC Servia I.362r-365r). Il
richiamo all’ordine da parte del Papa non poté
venire ignorato dal clero di “Servia”: già in una relazione del 1749 Nikolović-Kazazi dichiara che tutti i
criptocristiani sono stati privati dei sacramenti
“con eterna lor disperazione”, anche se, a dire la
verità, non dice che provvedimenti siano stati presi
per le altre irregolarità descritte nel rapporto del
1743 (SOCG 741.43r). Ciononostante, le stesse
indicazioni contro i “cristiani occulti” dovettero
essere ripetute nel 1754, nell’enciclica Quod provincia le, specificando che era assolutamente proibito abbandonare il proprio nome di battesimo
per assumerne uno di origine araba, dunque
musulmano (Acta 133.319v-320r). Gli ordini da
Roma erano senz’altro chiari, ma nel caso della
diocesi di Skopje caddero nel vuoto, dal momento
che fino all’avvento di Mazarek non ci fu nessun
arcivescovo in grado di imporne l’applicazione. La
persona che ai tempi della pubblicazione della
Quod provincia le avrebbe dovuto assumersi quel
compito era il predecessore di Mazarek, Toma
Tomičić, il quale però non esercitò mai veramente
la propria autorità nella diocesi.
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2.Mazarek e i “cristiani occulti”
Così, al momento del suo insediamento il giovane
arcivescovo Mazarek aveva l’onere di rimediare a
una situazione sfuggita al controllo delle autorità
religiose da più di un decennio. Non a caso la
relazione della sua prima visita diocesana contiene
ampi passaggi incentrati sul problema dei
criptocristiani. In uno di questi brani egli cerca di
dare una spiegazione puramente economica e
sociologica del fenomeno: “Il Regno di Servia per
esser un Paese fertilissimo, et abbondantissimo di
frumenti, armenti, e di ogni altra cosa, perciò continuamente vengono molte familie cattoliche dalle
montagne di Albania, li quali per esser di natura
calida, iraconda, e superba, facilissimi alli omicidj,
non sofrono di esser calpestati dalli Turchi, come
ci insegna il Santo Evangelio, non umiliandosi al
tributo ottomano, sempre di giorno, e di notte
vanno armati, per un minimo affronto di parole, e
di fatti si amazzano, perciò subito venuti disgraziati nella nostra Servia muttano li nomi, del resto
desiderando di voler mantenere con il cuore la
Fede di Cristo, e quanto sia possibile astenersi dalli
esercizj turcheschi. Ma li astuti turchi di Servia
accorgendosi della loro astuzia, et insieme superbia, subito li mandano il loro Hocia sforzandoli à
circoncidersi, à biasimar la S. Fede, alzando il dito,
li sforzano di venire ogni venerdì nelle loro
Moschee ad esercitare quelli loro esercrandi Riti:
La onde facendosi li uomini turchi, per timore, vergogna, e superbia, uno dall’altro pervertono anche
lo loro mogli, e figlj, eccettuatene alcune buone
vechierelle, le quali in nisun conto vogliono abbandonar la S. Fede” (SOCG 792.146r).
Dunque Mazarek sembra inquadrare con precisione chi sono i suoi fedeli che più spesso cadono
nella tentazione del criptocristianesimo: gli albanesi che dalle zone montuose dell’Albania settentrionale (Malësi) scendono nelle pianure del Kosovo.
Attenendosi all’analisi fornita dall’arcivescovo, il
loro processo di islamizzazione può brevemente
essere riassunto nei seguenti punti:
1- I nuovi arrivati si rifiutano di pagare la cizye (la
tassa sui non-musulmani) a causa, dice Mazarek,
della loro natura arrogante.
2- Inizialmente si convertono solo esteriormente
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all’Islam tramite l’escamotage del criptocristianesimo (“subito venuti disgraziati nella nostra Servia
muttano li nomi, del resto desiderando di voler
mantenere con il cuore la Fede di Cristo, e quanto
sia possibile astenersi dalli esercizj turcheschi”).
3- Dopo qualche tempo i religiosi musulmani li
costringono a convertirsi completamente.
4- Una volta convertiti, gli uomini tentano di islamizzare le proprie mogli e i propri figli.
2.1.La questione fisca le
Il primo punto introduce un problema fondamentale: la cizye, ovvero l’imposta sui cittadini maschi
non musulmani (zimmi ). Nel sistema ottomano
ogni suddito di religione non islamica era tenuto al
pagamento di una somma forfettaria che nel corso
dei secoli andò lievitando a volte in maniera molto
brusca. Secondo studi recenti, al momento della
conquista turca dei Balcani questa tassa si presentò semplicemente come un prolungamento dell’imposta sul ricavato del contadino, la quale era
applicata sul territorio già da lungo tempo.
All’inizio della dominazione ottomana la cifra
annua restò ferma sulla singola moneta d’oro pro
capite, nonostante secondo la legge shariatica gli
amministratori musulmani avessero il diritto di esigere fino a quattro monete d’oro (Minkov 2004, p.
33). Sebbene il sistema legislativo ottomano fosse
ben lungi dall’essere un modello di tolleranza
verso i cristiani, la concezione della cizye non era
quella di un onere fiscale aggiuntivo per cittadini
“inferiori”, ma essa veniva piuttosto vista come una
tassa che compensava il servizio militare che i
rea ya cristiani, a differenza di quelli musulmani,
non erano tenuti a prestare (Jelavich 1983 I, p. 60).
Tuttavia, all’epoca di Mazarek la cizye era aumentata esponenzialmente, tanto da diventare spesso
un fardello insostenibile per i contadini cristiani. é
dunque logico supporre che il desiderio di liberarsi di questa tassa spingesse molti a convertirsi
all’Islam. Secondo alcuni studiosi l’aumento della
cizye era uno strumento della politica di conversione messa in atto dalla Porta (Jelavich 1983 I, p.
81), mentre secondo altri la crescita di questa
imposta era dovuta semplicemente al bisogno
immediato di denaro della macchina statale e
all’inflazione (Minkov 2004, pp. 95-96): lo Stato
ottomano, infatti, non aveva nessun interesse a far
Luca Ma iocchi
convertire i propri sudditi cristiani, dato che si
sarebbe così privato di una fetta importante delle
proprie entrate in bilancio (nel 1527, cioè in un’epoca in cui la cizye era piuttosto ridotta, questa
tassa forniva il 42% delle entrate della parte europea dell’impero) (Castellan 1999, p. 143). Una
prova dello scontento dei governatori ottomani di
fronte alle conversioni all’Islam viene proprio dal
Kosovo: nel 1706 da Istanbul vennero inviati firmani ai pascià di Scutari, Dukagjin e Prizren, con l’ordine di riscuotere la cizye dai cittadini cristiani;
poco dopo gli abitanti di Djakovica protestarono
perché il governatore di Prizren li minacciava
dichiarando che era inutile che si convertissero
all’Islam per evitare di pagare le tasse, perché la
cizye sarebbe stata richiesta anche ai nuovi musulmani (Tričković 1989, p. 145). Dunque, perlomeno
in quella regione, le autorità scoraggiavano l’islamizzazione per motivi finanziari ed erano ben
coscienti del fatto che molto spesso ci si faceva
musulmani soltanto per motivi economici e non
certo per intima convinzione. Già all’inizio del XVII
secolo il governatore di Dhurrës aveva reagito
duramente a queste conversioni “interessate”,
addirittura raddoppiando le tasse a un villaggio
che si era convertito in blocco per non pagare
(Rački 1888, p. 106). é evidente che le autorità non
premevano per la conversione all’Islam, e questo,
più che per una filosofia politica di tolleranza, per
una mera questione di contabilità.
Ad ogni modo, la situazione nel XVIII era profondamente cambiata: la frammentazione e il decentramento del potere ottomano avevano un effetto
anche sulla tassazione. Il carico fiscale a cui era sottoposto un contadino cristiano ai tempi dell’arcivescovo Mazarek (escluse le tasse straordinarie
che ormai nel XVIII secolo erano diventate la
norma) (İnalçık 1985, pp. 313-318) era diviso
sostanzialmente in due: una parte al padrone della
terra, o meglio a colui il quale aveva il diritto alla
riscossione delle tasse su di essa, che quasi sempre
si identificava con il signore locale, e una parte
direttamente all’erario statale (Pulaha 1988, p.
459). Di quest’ultima quota faceva parte la cizye.
Ne risulta che i maggiorenti locali non avevano
interesse a fare sì che i cristiani pagatori di cizye
restassero fedeli alla loro religione, dal momento
che ad essi non veniva in tasca un soldo
Criptocristianesimo in Kosovo nel XVIII secolo
(McGowan 1981, p. 68). Sebbene i documenti in
nostro possesso non presentino prove sufficienti
per affermare che la mancanza di questo freno inibitore abbia dato luogo a una sistematica campagna di islamizzazione forzata da parte delle autorità territoriali, ciò non toglie che chi si occupava di
riscuotere le tasse non si preoccupasse minimamente di alleggerire la pressione sui cristiani per
non perdere gli introiti della tassa sugli zimmi .
Dunque il desiderio di sottrarsi alla cizye rimane
come motore principale dell’ondata di conversioni
che decimò la popolazione cattolica del Kosovo a
partire dalla fine del XVI secolo. Ovviamente questo fenomeno non interessò esclusivamente il
Kosovo, ma è innegabile che fu particolarmente
intenso nei territori abitati da albanesi. A questo
punto sorgono alcuni interrogativi: se la pressione
fiscale era identica per tutti i non musulmani in
tutta la regione, perché i cattolici erano più propensi alla conversione rispetto agli ortodossi? E
per quale ragione i “vecchi” cattolici della diocesi
accettavano di pagare la cizye pur di mantenere la
propria fede, mentre gli immigrati dal Malësi tendenzialmente si rifiutavano?
é stato fatto notare che gli ortodossi erano sottoposti a un carico fiscale ancora maggiore rispetto ai
cattolici, dal momento che, oltre alle tasse dovute
allo Stato ottomano, dovevano pagare anche le
imposte richieste dalle proprie autorità ecclesiastiche (Minkov 2004, p. 95). In teoria, dunque, sarebbero dovuti essere loro i primi a farsi musulmani.
Il ragionamento in termini economici è corretto,
ma dalle testimonianze dei sacerdoti cattolici della
diocesi di Skopje sembra emergere una presenza
incontestabilmente maggiore del clero ortodosso
in Kosovo, il che può aver significato per i fedeli
ortodossi un maggior “ancoraggio” alla propria
fede che può averli aiutati a resistere e a non convertirsi. La forte presenza sul territorio dei preti e
dei vescovi ortodossi, inoltre, doveva garantire
non solo una migliore assistenza spirituale per i
fedeli, ma anche un peso e una protezione politica
maggiori, tanto più che il millet ortodosso, a differenza di quello cattolico, era ufficialmente riconosciuto dalla Porta e dunque i suoi appartenenti
godevano di una posizione giuridica meglio definita di quella dei cattolici. In definitiva, non è errato
supporre che perlomeno in Kosovo, dove la pre-
111
n.20 / 2008
senza del clero cattolico era molto poco ramificata,
gli ortodossi si trovassero in una posizione meno
esposta ai soprusi e alle tasse irregolari, o perlomeno avessero l’appoggio di una comunità più
ampia. Questi fattori sociologici e politici possono
aver controbilanciato il maggior carico fiscale che
dovevano sostenere e dunque possono aver contribuito a ridurre il numero di conversioni dall’ortodossia all’Islam. Che gli ortodossi fossero meno
propensi ad abbracciare l’Islam era un fatto noto
alla Congregazione, la quale scriveva a Mazarek
dicendo che i cattolici avrebbero dovuto essere
ancora più saldi nella fede degli “scismatici”, i
quali, a detta dei cardinali romani, non si convertivano mai (Urošević 1934, p. 166).
Per quanto riguarda l’evidente differenza che
emerge dai rapporti di Mazarek tra cattolici “di vecchia data” saldi nella fede e immigrati dalle diocesi
albanesi che si convertivano immediatamente, partiremo dalla spiegazione data dallo stesso arcivescovo in relazione all’episodio del ragazzo criptocristiano presentato all’inizio dell’articolo: “Il motivo perche si fanno così facilm.te li detti albanesi
turchi proviene, come dissi, dalla loro perversa, e
superba natura, e non, perche non siano bene
instruiti nella S. Fede, essendo bene imbevuti nella
Fede Cristiana” (SOCG 792.145v). L’individuare la
causa dell’islamizzazione nel carattere e nel comportamento collettivo di un popolo sembra però
decisamente in contrasto con una motivazione
economica piuttosto evidente: nel caso degli
immigrati dal Malësi la volontà di evitare le tasse
era senz’altro accresciuta dal fatto che gli abitanti
di quella regione montuosa erano abituati fin dai
primi tempi della conquista turca a subire una
pressione fiscale davvero lieve, ed è quindi logico
supporre che la cizye o qualsiasi altra imposta
venisse loro richiesta sulla nuova terra dovesse
apparire ai loro occhi come un intollerabile sopruso (Pulaha 1988, p. 507). Eppure l’analisi di
Mazarek, il quale altrove pur non trascura il lato
economico, ha il merito di presentare anche l’aspetto psico-sociologico della questione delle conversioni “facili” degli albanesi. Anche gli slavi cattolici erano oppressi dalla pressione fiscale, tuttavia
essi furono molto meno propensi alla conversione.
Questa differente “resistenza” religiosa dei due
gruppi etnici è innegabile. In effetti il cattolicesimo
112
in tutta l’Albania subì molto presto un brusco crollo in seguito alla conquista ottomana, con un
numero di conversioni paragonabile solo a quello
della Bosnia, e tutto ciò nonostante la comunità
cattolica albanese fosse in posizione migliore di
altre per resistere, dati i suoi continui rapporti con
Ragusa, Venezia, Roma e Napoli (Zefi 2006, p. 96).
Presentiamo qui solo alcuni dati che forniscono
un’idea dell’avanzata eccezionalmente rapida della
religione musulmana nelle terre albanesi. In queste zone il tasso di conversione all’Islam ebbe un
incremento davvero impressionante nel corso dei
secoli: secondo i dati del Vaticano tra il XVI e il
XVII secolo la percentuale degli albanesi islamizzati non superava ancora il 30% (Zefi 2006, p. 69); nel
1610 l’arcivescovo Marino Bizzi sostanzialmente
confermò questo dato, riferendo che gli albanesi
cristiani erano dieci volte di più di quelli musulmani (Rački 1888, p. 139). Il punto di svolta, il
momento decisivo fu la guerra turco-veneziana del
1645-1669, contemporaneamente alla quale si verificarono persecuzioni ai danni degli albanesi cattolici tali da fare scendere il loro numero totale da
350.000 a 50.000 (Zefi 2006, p. 73). Alcuni vedono
la spiegazione di questo crollo e della poca resistenza all’islamizzazione nell’insufficiente presenza
del clero cattolico sul territorio: la mancanza di
preti che agissero a sostegno dei fedeli avrebbe
allentato i legami tra la popolazione e la fede cattolica, rendendo così più facile il passaggio
all’Islam (Zefi 2006, p. 100; Malcom 1999, p. 147).
Un’analisi differente, invece, viene proposta da
Skender Rizaj, il quale spiega il gran numero di
conversioni in termini di “carattere popolare”: gli
albanesi sono stati da sempre molto più attaccati
alla loro identità etnica (o addirittura nazionale)
che a quella religiosa; di conseguenza per loro
“essere albanesi” riveste molta più importanza
rispetto a “essere cattolici” (Rizaj 1985, pp. 129130). Tanto più che gli albanesi, a differenza, ad
esempio, dei serbi, non hanno mai avuto una chiesa nazionale che potesse fungere da polo identitario (Elsie 2004, p. 81). Dunque il cambio di fede
non ha implicato per essi un senso di perdita di
identità, il che ha agevolato l’islamizzazione e l’ha
resa assai meno scioccante che per gli slavi ortodossi (e anche, evidentemente, per gli slavi cattolici). C’è da aggiungere che la forte struttura a clan
Luca Ma iocchi
degli albanesi può avere giocato un ruolo di
coesione e di identificazione più significativo del
sentimento di unità nazionale leggermente anacronistico a cui fa riferimento Rizaj. Nel corso
dell’Ottocento, infatti, di fronte al crescere delle
entità nazionali serba e greca, crebbero di forza
anche i legami tra le tribù albanesi di religioni differenti e scemarono i conflitti legati alla diversità
delle fedi (Koliqi 1972, pp. 158-160). Questa interpretazione trova eco nella testimonianza della viaggiatrice inglese Georgine Muir Mackenzie, la quale,
passando per il Kosovo all’inizio degli anni ’60 del
XIX secolo, riporta l’episodio di un musulmano
albanese che intercede per un connazionale cattolico; ella sostiene che sia un fatto noto in quei luoghi che un albanese si schiera sempre dalla parte
di un altro albanese, che abbia o meno la sua stessa religione (Muir Mackenzie 1877 II, p. 85). In
generale, la fede pare essere un elemento di
importanza minore per gli albanesi che per i loro
vicini slavi, anche se alcuni attriti tra vari gruppi
religiosi albanesi persistono tuttora e sembrano
smentire parzialmente questa affermazione
(Duijings 2000, pp. 158-164).
La freddezza degli albanesi verso la religione è confermata dai documenti vaticani dell’epoca, in particolare per quanto riguarda proprio gli abitanti del
Malësi. L’arcivescovo di Shkodër nel 1784 scriveva:
“Generalmente il Clero, ed i Cattolici sono edificanti, e fervorosi prescindendo dai Montagnoli
[abitanti del Malësi] assai indifferenti agli Atti di
Religione” (Acta 156.190r). Nel caso del Kosovo
degli anni di Mazarek, l’ipotesi della scarsità di
sacerdoti albanesi come giustificazione per l’islamizzazione rapida degli immigrati dal Malësi regge
poco: praticamente tutti i preti presenti nella diocesi di Skopje erano albanesi, eccezion fatta per
l’arcivescovo stesso e per suo fratello Josip, dei
quali sappiamo con certezza che erano di lingua
madre slava. Né si può addurre una carenza di
insegnamento dottrinale già nelle zone di provenienza, dal momento che l’Albania settentrionale
era relativamente ben fornita di clero cattolico e
Mazarek specifica esplicitamente che i nuovi arrivati già avevano ricevuto un’adeguata assistenza
spirituale (“non, perche non siano bene instruiti
nella S. Fede, essendo bene imbevuti nella Fede
Cristiana”). Restano dunque la motivazione econo-
Criptocristianesimo in Kosovo nel XVIII secolo
mica (il rifiuto di pagare le tasse sui non musulmani) e quella psicologica (il poco attaccamento alla
religione). Ebbene, a giudizio dell’arcivescovo questi due fattori insieme erano le cause fondamentali delle conversioni degli immigrati albanesi in
Kosovo, uno visto come la conseguenza dell’altro
(“per esser di natura calida, iraconda, e superba
[...] non sofrono di esser calpestati dalli Turchi,
come ci insegna il Santo Evangelio, non umiliandosi al tributo ottomano”).
2.2.Da “pa lesi” a “occulti”
Per capire le dinamiche del passaggio dal cristianesimo al criptocristianesimo va fatta una distinzione
tra i concetti di “criptocristianesimo autentico” e
“conversione incompleta”. Il primo termine implica il mantenimento di una separazione netta tra
Islam e religione cristiana (nella fattispecie, cattolica): chi si converte è perfettamente conscio di
stare semplicemente fingendo di essere musulmano, mentre in privato mantiene la sua fede originaria al riparo da ogni influenza o contaminazione
dottrinale; c’è la consapevolezza di stare mettendo
in atto un semplice espediente che non andrà ad
intaccare le convinzioni più profonde.
“Conversione incompleta”, invece, significa un
passaggio da un’idea spuria e confusa di cristianesimo a una forma ugualmente inesatta di Islam,
senza che avvenga alcun cambiamento sostanziale
nelle credenze religiose individuali: il processo di
conversione non si completa e il soggetto rimane
“a metà strada” tra una religione e l’altra, accettando pratiche e credenze di entrambe e spesso confondendole e mescolandole. Questo processo è
ben descritto da P.F. Sugar, il quale, parlando della
penetrazione della religione del conquistatore nei
Balcani ottomani, scrive: “Ciò che ne emerse fu
una curiosa varietà di ‘Islam folclorico’ europeo, o
piuttosto balcanico, che includeva icone, il battesimo come prevenzione delle malattie mentali e
molte altre caratteristiche sostanzialmente non
musulmane. Non era difficile per i cristiani che avevano una fede superstiziosa e folclorica passare a
una versione folclorica dell’Islam simile ma più
sicura” (Sugar 1977, pp. 53-54). Più sicura, naturalmente, perché garantiva un migliore status sociale
ed economico. Insomma, perché non convertirsi a
una religione che sottrae al pagamento di una
113
n.20 / 2008
tassa, se ciò non implica alcun mutamento significativo delle intime credenze religiose?
Una situazione parallela che esemplifica questi due
diversi modi di seguire contemporaneamente due
fedi è quella dei ma rra nos spagnoli. Anche nella
Spagna che veniva gradualmente riconquistata agli
arabi molti appartenenti a una comunità religiosa
minoritaria, quella ebraica, dissimulavano la propria religione fingendosi convertiti al cristianesimo
per ottenere un avanzamento sociale. Nel loro
caso si è operata una distinzione teorica tra “biconfessionalismo transitorio” e “biconfessionalismo
stabile”. Il primo nasce da uno stato confusionale
che colpisce le classi più deboli; la separazione tra
la sfera interiore e quella esteriore viene meno, il
cristianesimo da osservare in pubblico e l’ebraismo
privato si confondono e il risultato è spesso la conversione totale, o quasi, al cristianesimo per motivi di opportunità, pur senza avere piena coscienza
del processo – è in sostanza una situazione simile
alla conversione imperfetta. Nel biconfessionalismo stabile, invece, le due fedi rimangono distinte
all’interno dei loro ambiti, senza che ciò rappresenti l’anticamera della conversione interiore – in
campo cristiano si potrebbe parlare in questo caso
di criptocristianesimo autentico (Didier 1981, pp.
81-82). é chiaro che per essere un vero criptocristiano che rifiuta interiormente la religione che
professa esteriormente bisogna avere una forte
base dottrinale e filosofica. Nell’Occidente della
Riforma questa pratica ebbe una sua formulazione
teorica nel nicodemismo predicato in Germania da
Brunfels, secondo l’idea che Dio legge in ogni caso
nell’animo umano e dunque è lecito dissimulare e
fingere di abbracciare un’altra religione quando
non c’è più speranza, perché Dio saprà distinguere la fede che ognuno porta nel cuore (Ginzburg
1970, p. 68).
I casi descritti da Mazarek sembrano a volte indicare una via di mezzo tra criptocristianesimo autentico e conversione imperfetta, un cambiamento di
religione che assume significati diversi con l’andare del tempo: mentre le parole dell’arcivescovo del
1760 sulla volontà degli immigrati albanesi di mantenersi cristiani fanno pensare a un caso di criptocristianesimo autentico (si convertono “desiderando di voler mantenere con il cuore la Fede di
Cristo, e quanto sia possibile astenersi dalli esercizj
114
turcheschi”), dall’altra parte i suoi rapporti successivi riguardanti questi nuovi islamizzati puntano
decisamente verso la conversione incompleta.
Dunque, almeno inizialmente, la dissimulazione
della fede appare come pienamente consapevole,
con l’Islam e il cristianesimo che rimangono ben
distinti all’interno delle rispettive aree “di competenza”: la vita pubblica per l’Islam e quella privata
per la religione cristiana. Per quanto Mazarek
dichiarasse che i nuovi arrivati dall’Albania avevano
inizialmente una fede cattolica incontaminata, formata secondo i dettami della Chiesa – dunque non
una “variante folclorica” disordinata e superstiziosa – è certo che, una volta convertitisi all’Islam, la
loro pratica della religione musulmana era molto
simile a quella poco ortodossa descritta da Sugar
come “Islam folclorico”, con una commistione
piuttosto caotica di elementi religiosi eterogenei.
A proposito dei musulmani albanesi è stato detto
che essi non rientravano perfettamente nell’idea di
conversione incompleta, ma costituivano piuttosto
una classe particolare, quella degli “opportunisti”,
i quali non credono veramente in nessuno degli
insegnamenti fondamentali né del cristianesimo
né della religione musulmana, ma piuttosto tendono ad accettare solo alcuni elementi superficiali di
entrambe le fedi, scelti a seconda delle necessità
immediate, sotto forma di superstizione. Sarebbe
così scorretto parlare in questo caso di conversione incompleta, dal momento che l’islamizzazione
appare piuttosto come il risultato di un atteggiamento di sostanziale indifferenza, o come conseguenza del semplice desiderio di prendere il
meglio da entrambe le fedi, senza sceglierne veramente una (Dawkins 1933, p. 270). La stessa opinione sulla spiritualità della popolazione albanese
era condivisa dalla Muir Mackenzie, la quale notava che la fede islamica degli albanesi convertiti era
frutto unicamente di interesse materiale, non
aveva un vero fondamento dottrinale e non costituiva un ostacolo insormontabile per un eventuale
ritorno al cristianesimo. La Mackenzie definiva il
credo degli albanesi “nessun credo a parte l’interesse personale”, un’idea che solo per questioni di
convenienza veniva chiamata “Islam” (Muir
Mackenzie 1877 I, p. 226; II, p. 87). Anche il barone de Boislecomte, che nel 1834 visitò l’alta
Albania e stese su di essa un lungo rapporto per il
Luca Ma iocchi
governo francese, notò che il passaggio all’Islam in
quelle terre era tutt’altro che sincero e che aveva
come motore principale l’interesse. Ad ogni modo,
aggiungeva, la religione musulmana che veniva lì
praticata era priva del carattere inclusivo e dominante che aveva in altre parti dell’impero ottomano (Turquie, pp. 187r-187v). Sostanzialmente dello
stesso parere era anche l’arcivescovo Mazarek, il
quale scrisse in una lettera che i suoi diocesani
albanesi non erano né cristiani, né musulmani, ma
usavano le convinzioni religiose ora di una fede,
ora dell’altra, a seconda di come tornava loro
comodo (SC Servia III.156v).
Queste divisioni tra le diverse classi di criptocristiani (autentici, convertiti imperfetti, opportunisti) non sono solo distinzioni storiografiche scritte
da studiosi vissuti secoli dopo gli anni in cui questi
problemi si presentavano. Ritroviamo più o meno
gli stessi distinguo anche nei documenti del periodo in esame. La prima relazione di Mazarek non
doveva avere lasciato le autorità vaticane troppo
tranquille, dal momento che nel 1762 giunse a
Roma il vicario dell’arcivescovo, Gjon Logoreci,
presentando alle autorità due rapporti che avevano come oggetto proprio i criptocristiani e la commistione religiosa con le altre fedi, in risposta a
una precisa richiesta della Congregazione. In uno
di questi rapporti Logoreci specifica che nella sua
diocesi esistono tre tipi differenti di “cristiani
occulti”, termine con cui egli identifica tutti coloro
che assumono un nome musulmano:
a) battezzati, ma che osservano i riti islamici.
b) battezzati, che non osservano i riti islamici né
quelli cristiani. I musulmani sanno perfettamente
che non appartengono alla loro comunità e li chiamano ka ur , “infedeli” (Logoreci traduce con “cristiani”).
c) persone che di musulmano hanno solo il nome,
mentre professano apertamente la fede cristiana,
osservandone coscienziosamente i riti. Costoro
sono riconosciuti come cristiani da tutti i musulmani, comprese le autorità (SOCG 798.413r-414r).
Gli appartenenti al primo gruppo potrebbero essere sinceramente convertiti all’Islam, ma potrebbero anche essere criptocristiani autentici che limitano l’osservanza della religione cattolica al privato e
pubblicamente si attengono scrupolosamente ai
riti musulmani. Coloro che fanno parte del secon-
Criptocristianesimo in Kosovo nel XVIII secolo
do gruppo, invece, sembrano essere sostanzialmente areligiosi, dal momento che non abbracciano formalmente nessuna delle due fedi; tanto è
vero che la comunità musulmana continua a considerarli come cristiani. Tuttavia, il fatto che questi
individui adottino un nome musulmano e allo stesso tempo si considerino cristiani pur senza rispettare i riti religiosi fa pensare a una certa noncuranza per le questioni di fede, il che ricorda allo stesso tempo le tesi dell’opportunismo e della conversione imperfetta. Logoreci confessa che a queste
persone sono sempre stati dati regolarmente i
sacramenti nella diocesi di Skopje, e spiega che ciò
è stato fatto perché tutti costoro giurerebbero
davanti alla giustizia turca di essere cristiani, se
venisse loro posta una domanda esplicita. Questa
previsione del vicario lascia perplessi: non si vede,
infatti, quale sarebbe il senso dell’assumere un
nome musulmano per ragioni di opportunità, se
poi ci si confessasse cristiani di fronte alle autorità,
esponendosi così alla pressione fiscale e agli altri
svantaggi derivanti dall’essere un zimmi , senza
considerare le pene derivanti dal fatto di figurare
come apostati dall’Islam. Una possibile spiegazione di questa strana affermazione è che Logoreci
cerchi in questo modo di giustificare la pratica
espressamente proibita dalla Sacra Congregazione
di concedere i sacramenti ai criptocristiani. Eppure,
non è nemmeno da escludere che l’identità religiosa di molti diocesani fosse così labile da mutare
molto facilmente a seconda delle influenze esterne,
e che dunque alcuni “cristiani occulti” potessero
tornare ad essere “cristiani palesi” in circostanze
particolari. Mazarek presenta tre esempi di gruppi
di famiglie di criptocristiani che egli riesce a convincere a tornare a professare apertamente il cristianesimo – o almeno riesce a strappare da essi
una promessa in questo senso. In un caso, vicino a
Zogaj, l’arcivescovo fa leva sull’interruzione dei
sacramenti – il che sottintende che essi erano stati
fino ad allora concessi regolarmente dal parroco
locale (SOCG 859.461r) – per fare ritornare la
popolazione alla professione pubblica del cattolicesimo, mentre negli altri due casi (ancora vicino a
Zogaj e nei pressi di Djakovica) l’opera di convincimento avviene in condizioni ancora più difficili, nei
confronti di gruppi di persone che da decenni si
erano formalmente allontanate dal cattolicesimo:
115
n.20 / 2008
“Qui voglio dimostrare alla Sacra Cong.ne qualm.te
in questa parochia [Zogaj] cinque case di grosse
famiglie, cattolici occulti, alli quali da ottanta anni in
quà mai sono stati amministrati li S.S. Sacramenti,
perche professavano palesamente l’ottomanismo,
ora in questi due giorni tanto io, quanto il mio
Vicario con amonizioni, con prediche, e con benedizioni, e con minacie per l’altra vita, li abbiamo
ridotti, e capacitati, che senza mantenere palese la
S. Fede, tutti si dannavano, onde per misericordia
di Dio si animarono, e convertirono tutti quanti
uomini, e donne, e vecchi con barba bianca, e mi
promisero con pianto, e giuramento di mantenere
in avenire la Santa Fede palese avanti Governatori,
e Giudici turchi etiam cum proprj sanguinis efusione: Et io con allegrezza, e tenerezza li abbracciai, e
li promisi, che se il Governatore li angariarà con
gran estorsione di dennari, perche mantengono
palese la S. Fede di Cristo, di aiutarli con dennaro,
e con robba: se poi il Governatore li taglierà in
odium fidei, mi dissero tutti li cattolici, felici noi se
averemo tal fortuna di essere martiri, e patire ogni
tormento per Gesu Christo!” (SOCG 872.139r-139v.
L’episodio di Djakovica, al quale viene dato molto
meno spazio, si trova in SOCG 895.96v). Come si
vede, l’affermazione di Logoreci, secondo la quale
anche i criptocattolici più “insospettabili” potevano
tornare a dichiararsi pubblicamente cattolici, non è
poi così assurda.
Per quanto riguarda i membri della terza classe di
“cristiani occulti” (cattolici confessi, ma con nome
musulmano), il vicario specifica subito che si tratta
principalmente di donne con parenti musulmani, a
cui il nome di origine araba è stato imposto fin da
piccole. Le autorità sanno perfettamente che esse
di musulmano hanno solo il nome, ma, essendo
donne, la loro identità religiosa rimane un fatto privato di scarsissima rilevanza per lo Stato. Non sono
però solo le donne a trovarsi nella situazione paradossale di osservare strettamente il cattolicesimo
pur portando un nome musulmano che in teoria le
allontana inesorabilmente dalla loro religione: in
una relazione del 1787 l’arcivescovo di Sapë, nel
nord dell’Albania, afferma che nella sua diocesi esistono molti uomini con nomi di origine araba che
si dichiarano però apertamente cattolici e osservano rigorosamente tutti i precetti religiosi dettati
dalla Chiesa. I motivi per cui non decidono di farsi
116
chiamare in un altro modo, aggiunge, sono banalmente pratici: sono da sempre conosciuti da tutti –
musulmani e non – con quel nome e sarebbe oltremodo scomodo cambiarlo (Acta 157.12r-12v).
Oltre a questi tre gruppi di criptocristiani Logoreci
presenta un caso interessante di dissimulazione
religiosa talmente superficiale da poter essere definita “temporanea”: riferisce che alcuni mercanti
cattolici palesi, i quali pagano regolarmente la
cizye, quando si devono recare a vendere i propri
prodotti nelle piazze adottano nomi musulmani
unicamente per il periodo lavorativo. Il motivo è
“la tirannia e l’avaria del popolo” (SOCG 798.414r).
Non è ben chiaro il significato di quest’ultima
frase, ma pare di capire che il problema di questi
mercanti non fossero i rapporti con le autorità
ottomane, bensì quelli con i loro clienti musulmani, i quali evidentemente compravano più volentieri dai loro correligionari (o presunti tali) che dai
cristiani. Il cambio di religione avviene in questo
caso per motivi “professionali” e non ha assolutamente alcuna implicazione dottrinale. Del resto, la
necessità della finzione davanti alla maggioranza
musulmana interessa perfino gli stessi preti della
diocesi di Skopje, i quali quando viaggiano si vestono in modo da spacciarsi per “Turchi, e Bravi del
Bassà, portando due, ò trè pistole, schioppo, e
lunga spada, senza le quali insegne verrebbero spogliati, ed anche privati di vita dalla più vile Canaglia”
(SOCG 798.414v). Questo camuffamento, o perlomeno questa cura nel non farsi riconoscere come
sacerdoti, si ritrova anche spessissimo nelle relazioni delle visite diocesane di Mazarek, il quale teme
costantemente di essere riconosciuto dai signori
turchi e di essere da loro sottoposto ad estorsioni
di denaro.
2.3.Da “occulti” a “ver i tur chi”
Il terzo punto della tesi di Mazarek, quello secondo cui il clero musulmano costringeva i criptocristiani albanesi a convertirsi completamente (“Ma li
astuti turchi di Servia accorgendosi della loro astuzia, et insieme superbia, subito li mandano il loro
Hocia sforzandoli à circoncidersi, à biasimar la S.
Fede, alzando il dito, li sforzano di venire ogni
venerdì nelle loro Moschee ad esercitare quelli
loro esercrandi Riti”), trova qualche riscontro nei
successivi rapporti dalla “Servia”. Logoreci accenna
Luca Ma iocchi
nel 1760 e nel 1762 a una pratica di convincimento messa in atto dai capi della comunità religiosa
islamica nei confronti dei criptocristiani (SC Servia
I.595v; SOCG 798.414r). L’attività delle autorità
religiose islamiche, come afferma l’arcivescovo, è
rivolta a coloro che si sono già formalmente convertiti, mentre sembra che l’opera di proselitismo
non tocchi o quasi cattolici confessi. Sembra anzi
che le relazioni degli hoca siano migliori con i non
musulmani che con i nuovi islamizzati: “L’Hoccia
padrone di questo contado [Janoš, nei pressi di
Djakovica], assai più ama, e si fida di questi buoni
cattolici, perche li vede in ogni cosa sinceri, e fedelissimi come Iddio ci comanda, e dell’altre case
Turche, che qui sono molte, non li ama, ne si fida
affatto, perche in ogni cosa li trova ingannatori, e
falsari, conforme è stato il loro maledetto
Legislatore, Mohametto” (SOCG 895.97r).
Nella storia sono rari i casi in cui i governatori dell’impero ottomano costrinsero i zimmi a convertirsi all’Islam, e ciò sia – come abbiamo visto – per
questioni fiscali (per non privarsi di una fonte di
ingenti entrate), sia perché la conversione forzata
è estranea alla dottrina musulmana, sia perché
un’islamizzazione violenta della popolazione sottomessa avrebbe potuto causare un’instabilità
insostenibile per un impero così vasto (McCarthy
2005, p. 125). Se pure in particolari contingenze vi
furono tentativi di conversioni di massa dei cristiani, non risulta che essi siano mai partiti dal basso,
dai capi religiosi locali, ma sembra più probabile
che siano stati ordinati e diretti dall’alto, dalle
autorità statali, per calcolo politico. Le parole di
Mazarek sembrano voler alludere, più che a una
conversione vera a propria, a una spinta nei confronti dei “cristiani occulti” per il perfezionamento
nelle pratiche islamiche esteriori; ma l’affermazione dell’arcivescovo, secondo cui queste pressioni
da parte della comunità musulmana portavano alla
fine i criptocristiani a diventare dei veri e propri
musulmani toutcourt, è abbondantemente contraddetta dalle sue stesse relazioni successive, che
descrivono più volte le diffusissime irregolarità e le
abitudini sincretiche nella pratica quotidiana
dell’Islam in Kosovo. Dai documenti esaminati
appare molto più verosimile che i nuovi convertiti
completassero la loro islamizzazione cominciando
dopo qualche tempo a considerarsi musulmani
Criptocristianesimo in Kosovo nel XVIII secolo
anziché cristiani, semplicemente per una questione di abitudine e a causa dei legami allentati con il
clero cattolico, senza che realmente cambiasse
alcunché di fondamentale nelle loro credenze e
nelle loro abitudini religiose. Lo stesso Mazarek
ipotizza che il completamento della conversione
all’Islam sia piuttosto il risultato dell’abitudine e di
un processo lento e graduale, dal momento che
all’interno della stessa relazione del 1760 poche
pagine più avanti si legge: “Non avendo perche
visitarli li missionarj, si raffredano, e si vanno disgraziati imbevendo nelle favole, e bugie della setta
mahomettana scordandosi della S. Fede” (SOCG
792.147v).
2.4.Le divisioni r eligiose fa milia r i e la sepa r a zione donne-uomini
Chi invece giocava un ruolo primario nella diffusione dell’Islam, più che gli hoca , erano proprio i
suoi adepti meno entusiasti e più recenti, ossia i
criptocristiani stessi. é contro di loro che Mazarek
punta l’indice nel quarto punto della sua tesi sulla
progressiva islamizzazione dei cattolici (“La onde
facendosi li uomini turchi, per timore, vergogna, e
superbia, uno dall’altro pervertono anche le loro
mogli, e figlj”). Si tratta di un processo di proselitismo che avviene all’interno delle famiglie, per
motivi che spesso hanno poco a che fare con le
convinzioni religiose, e spesso crea delle profonde
spaccature in seno allo stesso nucleo familiare. Vi
sono parecchi esempi di questo tipo di “scisma”
familiare, soprattutto nei casi in cui il marito si converte all’Islam per questioni fiscali, mentre la
moglie rimane cattolica e continua ad educare i
propri figli secondo i dettami della sua fede. Come
già era accaduto a Nikolović-Kazazi, anche a
Mazarek si presenta il problema delle cattoliche
sposate con musulmani. é principalmente a causa
di queste donne esposte al proselitismo islamico
dei mariti e dei familiari che il clero della diocesi di
Skopje continua a tenere informata la Sacra
Congregazione sulla questione dei criptocristiani,
nonostante questo problema fosse già stato formalmente risolto dalla lettera apostolica del 1744,
dove si escludevano i “cristiani occulti” dalla partecipazione alla vita religiosa cattolica. Le donne cui
Mazarek e i suoi parroci vanno a fare visita si trovano intrappolate tra la riprovazione dei mariti
117
n.20 / 2008
convertiti, che vorrebbero musulmane anch’esse,
e il distacco della Chiesa cattolica, che le considera mogli illegittime di infedeli. Eppure esse rappresentano spesso l’ultimo baluardo del cristianesimo in un mare musulmano in continua espansione. Va notato che il fatto che la popolazione femminile fosse molto più restia di quella maschile ad
abbandonare la fede cattolica non è una caratteristica esclusivamente kosovara, bensì un fenomeno
diffuso ovunque vi fosse la presenza di criptocristiani sotto il dominio ottomano (Skendi 1967, p.
236). La frattura religiosa all’interno della famiglia
segue quasi sempre la linea maschio-femmina, con
il marito e i figli che si convertono all’Islam, mentre la moglie e le figlie rimangono cristiane. é una
situazione ammessa anche dalla legge islamica
nella versione ottomana, secondo la quale i matrimoni misti tra musulmani e “infedeli” sono
ammessi (solo in caso la moglie sia cristiana, non
viceversa), e i figli maschi della coppia devono
obbligatoriamente essere cresciuti come musulmani, mentre la religione delle figlie è lasciata alla
loro scelta personale (Minkov 2004, p. 89). Anche
de Boislecomte, scrivendo delle peculiarità
dell’Islam nell’Albania settentrionale, narra di simili esempi di nuclei familiari divisi dalla religione
(Turquie, pp. 187v-188r). Questo fenomeno non
deve aver conosciuto interruzioni in Kosovo fino al
Novecento, dal momento che almeno fino agli
anni Cinquanta si ha notizia di famiglie i cui membri professano religioni differenti (Duijings 2000,
p. 13, nota 13).
Dai documenti vaticani del XVIII secolo risulta che
erano frequentissimi i casi in cui il marito o addirittura anche i figli maschi premevano per l’islamizzazione completa di tutta la famiglia (SC Servia
I.595v; SOCG 815.220r; SC Servia II.339r; Zefi 2006
134-135). Le ragioni di un conflitto tanto sorprendente tra gli abitanti di una stessa casa sono da
ricercare, più che in un sincero fervore religioso,
nel desiderio dei criptocristiani o anche dei nuovi
musulmani “sinceri” di apparire il più possibile credibili o impeccabili davanti alla loro nuova comunità religiosa. Avendo in mente questo obiettivo, di
certo una moglie cristiana non aiutava. Questi delicati rapporti familiari e queste considerazioni
sociologiche, di immagine, furono intuite anche
dagli stessi organi ecclesiastici cattolici, tanto è
118
vero che nel secondo paragrafo della già citata
Enciclica Quod provincia le si nota che le conversioni all’Islam avvengono non solo per non pagare
le tasse sui cristiani, ma anche, in alcuni casi, affinché i parenti già islamizzati non possano essere
sospettati di apostasia dalla religione coranica e
quindi puniti dalle autorità giudiziarie ottomane
(“ut tam ipsi, quam eorum Parentes a mahumetana secta apostatasse minime credantur, nec poenis
in se inflictis multarentur”) (Acta 133.320r).
A volte il conflitto tra chi si convertiva e chi rimaneva cristiano andava al di là del nucleo familiare e
più o meno con le stesse motivazioni si estendeva
a un’intera comunità. é il caso del villaggio di
Brasaljce, un piccolo centro nei pressi di Janjevo
abitato nel 1777 da quindici famiglie islamizzate e
una cristiana. Mazarek si sofferma a lodare la condotta irreprensibile di questo piccolo manipolo di
fedeli, soprattutto in considerazione del fatto che
le quindici “case turche” premono per la loro conversione all’Islam (SOCG 847.609v). Qui possono
entrare in gioco sia la sincera volontà di proselitismo dei nuovi musulmani, sia il timore di essere
presi di mira dal fisco ottomano. Secondo la legge
ottomana, la quale a sua volta riprendeva il Nomos
Georgikos bizantino del VII secolo, ogni villaggio,
in particolare uno di modeste dimensioni come
Brasaljce, era considerato come una sola unità
fiscale (a va rız ha ne) sia per quanto riguardava le
imposte ordinarie (Castellan 1999, p. 150; İnalçık
1985, p. 134), sia – soprattutto a partire da dopo il
XVI secolo – nel caso delle frequentissime tasse
straordinarie (İnalçık 1993, p. 152). é dunque probabile che gli abitanti criptocristiani/musulmani di
Brasaljce temessero di essere considerati come
appartenenti a un villaggio cristiano a causa di
quell’unica famiglia cattolica, il che poteva significare imposte più pesanti e una minore tutela di
fronte all’ingordigia degli esattori. Secondo la Muir
Mackenzie, invece, la ragione per cui i nuovi islamizzati si adoperavano per la conversione dei loro
vicini era un’altra: “Una volta che alcune famiglie di
un villaggio divengono maomettane, non smettono di tormentare gli altri fino a quando non li
costringono a seguire il loro esempio, perché
apparentemente niente dà più noia a un rinnegato
di una costanza maggiore della sua” (Muir
Mackenzie 1877 I, pp. 218-219). Le donne poteva-
Luca Ma iocchi
no essere per una famiglia di criptocristiani o di
neoconvertiti ciò che la casa cattolica di Brasaljce
era per il resto del villaggio: un danno per l’interazione sociale con l’esterno, un potenziale pericolo
o addirittura un motivo di vergogna. Tuttavia, va
aggiunto che così non era in tutti i casi, anzi: più
spesso chi si convertiva – solo formalmente o
meno – all’Islam lasciava che la moglie professasse
la fede che preferiva. Già agli inizi del XVIII secolo
questo portò a un progressivo approfondirsi del
solco tra uomini criptocristiani/musulmani e
donne cattoliche, cosa che per una pura questione
statistica aumentava la probabilità di matrimoni
misti interreligiosi. Nel 1724 Petar Karadžić, uno
dei predecessori di Mazarek, chiese alla Sacra
Congregazione il permesso di concedere i sacramenti alle donne albanesi che avevano sposato dei
“rinnegati”, sottolineando che vi erano state
costrette appunto dalla scarsità di uomini cattolici
(Acta 94.242r). Nel corso del secolo divenne sempre più drammaticamente chiaro che la comunità
cattolica nelle terre popolate dagli albanesi andava
sempre più configurandosi come una comunità a
grande maggioranza femminile. Oltre a questo
squilibrio, la sopravvivenza della religione cattolica
nella regione veniva resa ancora più complicata
dalla Inter omnigena s del 1744 che, come già
detto, allontanava dalla vita religiosa cattolica le
fedeli sposate con dei musulmani convertiti, simulatori o sinceri che fossero. Era inevitabile che il
punto di vista intransigente del Vaticano si scontrasse con i tentativi di accomodamento del clero
locale, il quale vedeva il proprio gregge assottigliarsi in maniera allarmante. Nel 1754 l’arcivescovo di Bar si trovò addirittura costretto a implorare
la Congregazione di concedergli di confessare le
mogli dei “cristiani occulti”, poiché ormai quasi
tutto il sostentamento economico dei suoi preti
derivava dalle offerte di costoro (SOCG 124.110r112r). Si legge poi una certa frustrazione nelle
parole della prima relazione di Mazarek, quando
l’arcivescovo lascia intendere che le disposizioni
della Inter omnigena s fanno più male che bene
alla causa cattolica e afferma che perciò a volte egli
le trasgredisce. Si riferisce in particolare alle donne
riconvertite dal clero locale dall’Islam al cristianesimo, le quali si trovano per le nuove direttive del
Vaticano a non poter essere ammesse né a una
Criptocristianesimo in Kosovo nel XVIII secolo
comunità religiosa, né all’altra: “é da compiangersi
al sommo l’infelice stato delle donne in gran
numero state convertite dal mahometismo alla
Fede di Cristo per lo passato, e battezzate occultam.te; et hora poveracie da noi abbandonate, le
quali prorompendo in sanguinose lacrime, e disperate ci maledicono continuam.te, dicendo come ci
ingannassimo noi misere abbandonare la setta di
Mahometto, quando poi siamo adesso scacciate
dalli missionarj di Cristo, e con altre molte lamentazioni, le quali tanto ci infastidiscono e dispiacciono, che molte volte tralasciamo, e sfugiamo di visitare quelle, che palesam.te mantengono la Fede;
attesoche appenna ci mettiamo à confessare una,
che è cattolica publicam.te, molte altre corrono, e
si mettono d’avanti inginocchioni à confessarsi,
che sono occulte, e tanto ci molestano, pregano,
adducono scuse, commovendoci à compassione, li
amministriamo li sacramenti, battezando li loro
figli, et alle volte confessandole con nostro grandissimo scrupolo” (SOCG 792.147v).
Abbiamo già accennato al fatto che le donne fossero esenti dalla cizye, il che toglieva uno dei principali motivi alla conversione, ma vanno considerati
anche altri fattori che hanno contribuito a fare di
esse il baluardo del cattolicesimo nell’area. Ad
esempio, le donne erano molto meno esposte
degli uomini al contatto con la vita sociale della
comunità, specialmente le albanesi, per le quali la
legge tradizionale, il Canone di Lek Dukagjin, prescriveva rapporti molto limitati con il mondo al di
fuori della famiglia (Malcom 1999, p. 49). é dunque
possibile che intere zone di una parrocchia – specialmente le aree rurali – siano state investite in
pieno dall’ondata di islamizzazione, la quale ha
però lasciato una comunità cattolica a volte consistente e totalmente femminile. Nella parrocchia di
Janjevo, ad esempio, quella in cui risiedeva lo stesso arcivescovo Mazarek, nel 1763 il parroco Pal
Zogaj comunicò che, al di fuori della città e a parte
l’eccezione di Brasaljce, nell’intera parrocchia non
era rimasto un solo cattolico uomo, ma unicamente donne (SC Servia II.35v). Pochi anni prima, nel
1760, si riferiva che la popolazione cattolica nei
dintorni di Janjevo ascendeva a circa 230 donne
(SOCG 792.151r), il che, tolte la cinquantina di
anime – sia uomini che donne - di Brasaljce, indica uno “zoccolo” cattolico esclusivamente femmi-
119
n.20 / 2008
nile piuttosto significativo. Nelle campagne intorno a Peć rimane sostanzialmente inalterato dal
1760 al 1772 un gruppo di donne credenti intorno
alle duecento unità, delle quali nel 1779 si parla
come di “alcune vecchie” (SOCG 792.144r; SC
Servia II.166v, 340r).
Il caso di Rogovo, invece, dimostra come fosse
sistematica la distinzione all’interno delle famiglie
tra chi si convertiva e chi continuava a professare il
cristianesimo: nel 1767 si riferisce che nel villaggio
vivono 9 famiglie di cattolici confessi e 80 case di
“cristiani occulti”, all’interno delle quali i capifamiglia si sono convertiti all’Islam, mentre le mogli e i
figli (maschi e femmine) sono rimasti apertamente
cattolici (SC Servia II.81v); l’anno dopo si scrive
che la popolazione cattolica totale è di circa 300
persone, ma si ribadisce che i padroni di casa sono
quasi tutti convertiti (SC Servia II.127v). La frattura
tra i sessi si verificava solamente con la maggiore
età, ma spesso in maniera quasi automatica. Se è
vero che nella maggioranza dei casi l’islamizzazione del capofamiglia bastava a fare in modo che l’intera casa venisse considerata musulmana ai fini
fiscali, d’altra parte le guerre con l’Austria e il
costante bisogno di denaro dell’impero ottomano
avevano portato a un sostanziale cambiamento
anche nella riscossione delle imposte. Fino alla
fine del XVII secolo la Porta aveva prelevato le
tasse secondo il sistema già noto della singola casa
o addirittura del gruppo di case come unità fiscale;
le tasse venivano dunque calcolate sulla base della
fede del contribuente (il padrone di casa), il che
lasciava a tutti gli altri una certa libertà religiosa. A
partire dal 1691, invece, Istanbul si era trovata nella
necessità di raccogliere in fretta ingenti fondi per
fronteggiare la Lega Santa ed aveva così deciso di
passare al metodo shariatico di riscossione della
cizye, il quale prevedeva che la responsabilità fiscale fosse individuale e ricadesse su ogni maschio
adulto, capofamiglia o meno (McGowan 1981, p.
81). In questo modo si accelerava la conversione
degli uomini cattolici, i quali a seconda del periodo e del bisogno venivano considerati maggiorenni ad età diverse e dovevano quindi convertirsi
all’Islam per evitare di pagare la cizye. All’epoca
della prima visita diocesana di Mazarek (1760) l’età
limite sembra essere quindici anni, anche se l’arcivescovo non fa accenno alla questione delle tasse,
120
ma parla solamente di atti religiosi tipici dell’Islam
che prima di questa età non possono essere compiuti. Probabilmente il riferimento è alla ša ha da h,
la professione di fede musulmana. Mazarek scrive
che in caso di morte di ragazzi al di sotto di questa
età, benché portino un nome musulmano, non
sussiste nemmeno l’obbligo della sepoltura secondo il rito islamico (SOCG 792.149v).
Va sottolineato che le divisioni religiose in famiglia
non avvenivano sempre in maniera pacificamente
meccanica: in un rapporto del 1769 si legge che
una donna cattolica giunge addirittura a uccidere il
proprio figlio maschio appena nato, una volta che
il marito si converte all’Islam (SC Servia II.153r).
Inoltre, non in ogni caso gli uomini erano propensi a cambiare religione a seconda della convenienza, ma si trovavano a volte combattuti tra pulsioni
differenti e in mezzo a conflitti familiari laceranti,
come dimostra il caso di questa famiglia immigrata
dal Malësi presumibilmente tra la fine degli anni
Sessanta e l’inizio degli anni Settanta del XVIII
secolo: “Anni sono essendo venuto un montagnolo da Pulati subito mutò nome e come mutò così
anche si perdè morendo in disgrazia di Dio. Li di
lui figli, e figlie procurassimo di tenere nella S.
Fede tanto esso vivente, quanto dopo la di lui
morte: così infatti successo, e fuor di trè che ancora sono vivi, gl’altri morirono cattolici; quando in
questi giovani il maggiore d’essi quasi pazzo ed
assai volubile in ogni affare perche non trovò
donna Cattolica per marito ed essendo villano, e
volubile, disperato senza mia saputa, ed inaspettatam.te rinegò pubblicam.te con mio sommo dispiacere e delli due minori Fratelli, quali sono veri
Cattolici e promettono d’essere, e di stare saldi
avendo un particolare odio al rinegato, da cui si
sono subito divisi, quantunque fosse protetto il
rinegato dell’Ottomani” (SC Servia II.300v). Va infine segnalato il caso curioso, esemplificativo di una
particolare confusione religiosa, di una coppia
mista (marito criptocristiano/musulmano e moglie
cattolica) discesa nel 1792 a Djakovica dal Malësi:
l’uomo acconsente a sposarsi in segreto secondo il
rito cattolico, ma è poi contrario al battesimo del
figlio, che viene quindi portato di nascosto dalla
madre a ricevere il sacramento per mano del parroco (SC Servia III.151r).
Luca Ma iocchi
3.La “scomparsa” dei criptocristiani
A partire dalla relazione di Mazarek del 1760 e da
quella di Logoreci di due anni dopo il rapporto tra
clero cattolico e criptocristiani si fece ancora più
complicato. Se da una parte il Vaticano, come
abbiamo visto, manteneva una linea chiara e rigidamente stabilita, volta ad escludere i “cristiani
occulti”, i preti cattolici del luogo dovevano usare
una certa diplomazia nei confronti di una speciale
classe di credenti che si andava sempre di più
ingrandendo e che era difficile ignorare. Il dilemma che dovevano fronteggiare i sacerdoti della
diocesi di Skopje è ben riassunto da Mazarek quando scrive, a proposito della sua prima visita generale, poche righe dopo aver presentato il caso del
giovane albanese che abbiamo riportato all’inizio
di questo capitolo: “Se non li [ai criptocristiani]
aministriamo li sacramenti si disperano affatto, e si
adirano contro di noi, e si perdono infinite anime.
Se poi li lusinghiamo, amministrandoli li sacramenti incorriamo nella scommunica dal sommo
Pontefice: Io appogiato sopra la Bolla di Benedetto
XIV hò proibito, che in nisun conto, e per niente
tale gente siano compatita, e consolati con li sacramenti, ma che vadano pur tutti, giache così vogliono, in perdizione, et in mal hora, e che noi missionarj compiangendo dolorosam.te la loro perdita,
soffriamo da essi gran persecuzioni, lamenti, e
pianti, non potendo rimediarli, essendo così l’ordine di Gesu Cristo, e del suo vicario” (SOCG
792.147r).
Si trattava, insomma, di una coperta troppo corta:
da una parte i preti rischiavano di attirarsi le ire dei
criptocristiani e di perdere moltissime di queste
anime in bilico tra cristianesimo e Islam; dall’altra
non potevano amministrare loro i Sacramenti
senza contravvenire alle disposizioni della Chiesa.
Le nuove notizie dalla diocesi di Skopje causarono
un ulteriore giro di vite nei confronti del criptocristianesimo, creando altre difficoltà ai preti cattolici
e suscitando ostilità nei loro confronti. Nella sua
successiva visita della diocesi, nel 1764, l’arcivescovo passò per il villaggio di Lapušnik, non lontano
da Janjevo, dove dovette affrontare le richieste di
sacramenti da parte dei “cristiani occulti” locali, i
quali avevano nomi musulmani, ma non osservavano affatto i riti islamici ed erano noti a tutti come
Criptocristianesimo in Kosovo nel XVIII secolo
cristiani (SOCG 815.214v). Le loro pretese furono
respinte, ma il problema si ripresentò nei moltissimi villaggi intorno a Prizren, dove la maggioranza
della popolazione si riteneva ancora cattolica, pur
avendo adottato da tempo nomi di origine araba.
In questo caso Mazarek evitò addirittura di visitare
quei luoghi, sicuro che avrebbe ricevuto le medesime richieste e che avrebbe di nuovo dovuto per
forza di cose opporre un analogo rifiuto, poiché
l’accontentare quelle persone sarebbe stato solamente, come egli si espresse, uno spreco di olio
santo, date le proibizioni sempre più esplicite della
Sacra Congregazione (SOCG 815.217v). Di nuovo
venne portata all’attenzione del Vaticano la questione delle donne cattoliche sposate a uomini
musulmani o criptocristiani, insistendo sul loro
stoicismo e perseveranza nel conservare la fede
nonostante le pressioni dei familiari maschi
(SOCG 815.220r). é da notare che questa volta,
contrariamente a quanto stabilivano i precedenti
decreti a proposito di queste credenti, le autorità
ecclesiastiche mostrarono una certa dose di comprensione per la loro difficile situazione. Nelle risoluzioni relative alla seconda visita di Mazarek, che
fu esaminata dalla Congregazione nel 1766, si
legge un ordine piuttosto curioso: d’ora in avanti si
potranno concedere i sacramenti a queste fedeli, a
patto che sia l’arcivescovo stesso ad amministrarli
di nascosto, in modo che i parrochi continuino a
credere del tutto valide le indicazione del Concilio
Albanese e della Inter Omnigena s (Acta 136.236r).
Nonostante questo parziale “ammorbidimento”, i
rapporti tra clero cattolico e criptocristiani rimasero tesi, tanto che qualche anno più tardi Ndre
Krasniq, parroco di Djakovica, scrisse di essere
stato addirittura minacciato di morte dai suoi parrocchiani “occulti” per essersi rifiutato di battezzare i loro figli, ai quali erano già stati attribuiti nomi
musulmani (SC Servia II.149v). Nel 1773 Logoreci
affermò di essere solito concedere i sacramenti ai
criptocristiani di Plava, contravvenendo apertamente agli ordini della Sacra Congregazione (SC
Servia II.216r), e il 31 gennaio 1774 il Vaticano si
ritrovò a dover emanare un nuovo decreto che per
l’ennesima volta condannava coloro che si fingevano musulmani pur ritenendosi cattolici (Gashi
1994, p. 57).
Da allora in poi le tracce del contrasto tra il clero
121
n.20 / 2008
locale e i criptocristiani sembrano scomparire.
Ovviamente la ragione non è la scomparsa del problema: non tutti coloro che avevano credenze religiose a metà tra l’Islam e il cattolicesimo si decidevano per una delle due fedi, ma fu piuttosto la
Chiesa che operò un taglio netto, escludendo gli
indecisi e classificandoli come “infedeli” alla pari
dei musulmani in tutto e per tutto. A proposito
dell’islamizzazione del Kosovo nel Settecento,
Radmila Tričković scrive che il clero cattolico sopportava “pazientemente” che i suoi fedeli albanesi
si facessero musulmani (Tričković 1989, p. 145).
Ciò non è vero, poiché abbiamo visto come il
Vaticano diede più volte battaglia a chi anche solo
si avvicinava all’Islam. é in quest’ottica che va interpretata la severità nell’escludere i criptocristiani
dalla vita religiosa: questo atteggiamento intransigente doveva nelle intenzioni di Roma essere una
minaccia per coloro che non volevano professarsi
pubblicamente cristiani; lo scopo di una tale politica era di riportare i “cristiani occulti” sulla retta via
e spingerli ad abbandonare quelle loro pratiche
dottrinalmente assai poco corrette. Non si voleva
ridurre la comunità cattolica dell’area a un piccolo
gruppo di puri votati al martirio, ma semplicemente richiamare all’ordine coloro che peccavano in
maniera così vistosa agli occhi delle autorità ecclesiastiche, le quali probabilmente, dal loro osservatorio romano, faticavano a rendersi conto delle difficoltà che si presentavano a un cristiano che viveva in una formazione statale islamica. D’altra parte,
è innegabile che in termini pratici questa chiusura
formale sortì un effetto non desiderato, tagliando i
ponti tra una larga fetta di popolazione e la sua
fede originaria. Un altro viaggiatore inglese,
William Hobhouse, il quale attraversò il nord
dell’Albania alla fine del primo decennio
dell’Ottocento, osservò che in quelle zone c’era tra
la popolazione un crescente sentimento anticlericale dovuto proprio all’insistenza dei preti nel fare
osservare troppo rigidamente i dettami della
Chiesa (Frazee 1983, p. 239).
Anche se è errato dire che il Vaticano non fece
nulla per contrastare le conversioni all’Islam nella
regione, di certo il tipo di opposizione che esercitò finì involontariamente per favorire il processo di
islamizzazione. Vista in questa luce, l’affermazione
di Tričković sembra addirittura troppo clemente
122
nei confronti delle autorità vaticane, che non giocarono un ruolo passivo, ma addirittura uno attivo
in negativo, dando impulso alle conversioni dei
criptocristiani. Tuttavia, sarebbe esagerato affermare che una linea più tollerante seguita dal
Vaticano avrebbe potuto tenere i criptocristiani
eternamente “sospesi” tra adesione esteriore
all’Islam e osservanza interiore del cattolicesimo,
non tanto perché l’occultamento della fede fosse
particolarmente difficile da mantenere, quanto
perché le pratiche cristiane osservate in questa
forma con il tempo venivano inevitabilmente a
contaminarsi con elementi religiosi islamici.
Dunque, già a partire dai primi anni dell’arcivescovato di Mazarek, i “cristiani occulti” non esistono
più per la Chiesa, bensì sono considerati come
“infedeli” uguali agli altri, da trattare come tali. Con
ciò, ovviamente, non si eliminava il problema sull’atteggiamento da tenere nei confronti di queste
persone, le quali continuavano a insistere presso i
loro vecchi sacerdoti cattolici per ricevere servizi
spirituali. Va considerato, oltretutto, che l’arrivo di
nuova popolazione cattolica dalle diocesi albanesi
continuava a mantenere la questione attuale, dal
momento che all’immigrazione seguiva spessissimo e in tempi brevi la conversione formale
all’Islam, ma quasi sempre i nuovi arrivati desideravano continuare ad essere trattati dal clero cattolico come fedeli cristiani. Nel 1793, in corrispondenza di una consistente ondata di immigrazione
dall’Albania settentrionale, Mazarek chiese di
nuovo (invano) il permesso di poter amministrare
i sacramenti ai criptocristiani (SC Servia III.164v),
nonostante già da anni non parlasse più di questa
classe di credenti, ma solo di “turchi”, o di “rinnegati albanesi”. é l’ultimo accenno che l’arcivescovo
fa ai “cristiani occulti”, senza che ciò significhi che
i suoi rapporti con essi finirono allora. Le pretese
dei nuovi musulmani nei confronti dei sacerdoti
cattolici e le manovre diplomatiche di questi ultimi
per non scontentare nessuno furono una costante
di quegli anni. Ancora nel 1846 un successore di
Mazarek riferisce che nella diocesi di Skopje un
terzo di coloro che si considerano cattolici è in
realtà costituito da criptocristiani, ossia, secondo la
Chiesa, da “infedeli” (Zefi 2006, p. 140).
Un’ulteriore dimostrazione del fatto che la questione dei criptocristiani non fosse affatto risolta è
Luca Ma iocchi
la necessità che il Vaticano sentì di riunire il
Secondo Concilio Albanese nel 1871, ripetendo la
proibizione ai sacerdoti di battezzare i figli dei
musulmani e di concedere ai criptocristiani i sacramenti (Zefi 2006, p. 174). Più o meno le stesse indicazioni vennero ripetute a parte all’arcivescovo di
Skopje nel 1882 (Gasper 1986, p. 144) e nel 1895 si
tenne il Terzo Concilio Albanese, l’ultimo. Le risoluzioni di questo concilio, pur ripetendo in sostanza le consuete proibizioni di seguire usi non cristiani e di assumere nomi di origine araba, presentano una novità piuttosto significativa: si cerca di
favorire le riconversioni al cattolicesimo non pretendendo più, come stabiliva il Primo Concilio, che
i criptocristiani dichiarino la loro apostasia
dall’Islam di fronte alle autorità, pronti a sopportare il martirio. Nel 1895, probabilmente ormai troppo tardi, la Chiesa fa così un passo in direzione dei
criptocristiani, dichiarandosi disposta a riaccoglierli nuovamente nel suo seno a patto che essi si
dichiarino veri cristiani davanti alla sola comunità
cattolica riunita, e non più davanti ai governanti
musulmani (Zefi 2006, pp. 176-177).
Una qualche forma di criptocristianesimo è esistita
nella regione del Kosovo fino ad oggi, se è vero
quanto scrive Ger Duijings all’inizio degli anni
Novanta, ossia che in alcuni villaggi sperduti dell’area della Skopska Crna Gora si trovano cattolici
che professano esteriormente l’Islam per motivi di
convenienza, per via di legami matrimoniali che li
avvicinano a clan musulmani (Duijings 2000, pp.
39-40).
Materiale d’archivio
Archivio Storico della Congregazione per
l’Evangelizzazione dei Popoli (Roma)
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SC – Scritture riferite nei congressi
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Vienna – Fondo di Vienna
Archives du Ministère des affaires étrangères (Parigi)
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Presentazione
LibriLibriLibri
UGO FABIETTI: Postfazione a: Roberto Malighetti,
Clifford Geertz. Il la voro dell’a ntropologo, Utet,
Torino, 2008
La pubblicazione di questo libro di Roberto
Malighetti sembra giungere quanto mai opportuna
nel momento attuale, in quanto Clifford Geertz è
scomparso lo scorso anno e la comunità degli
antropologi italiani sembra aver lasciato ad altri il
compito di ricordarne e commentarne la figura
eminente, la complessità dell’ opera e la rilevanza
del “vento interpretativo” da lui portato negli studi
antropologici. In Italia infatti della scomparsa di
Geertz, a parte qualche noticina in riviste di secondaria importanza, sembra non essersi accorto nessuno, salvo i sociologi che, di fronte all’assenteismo dei loro colleghi antropologi, hanno ritenuto
opportuno ricordarlo (a modo loro) su una accreditata rivista di... filosofia [Nota: Aut-Aut, n. 335
luglio settembre 2007, con articoli di Alessandro
Dal Lago, Pier Paolo Giglioli, Nadia Urbinati e
un’intervista rilasciata dallo stesso Geertz del
2002]. Sede d’altronde quanto mai adeguata, perché come è noto - e il libro di Malighetti ne è la più
ampia ed esplicita conferma - Geertz si ispira a, e al
tempo solleva, problemi a cui gli stessi filosofi non
si sono certo mostrati insensibili.
Ma non ci si inganni. Clifford Geertz . Il la voro dell’a ntropologo non è un libro “scritto apposta”,
cioè sull’onda del “vuoto” seguito alla scomparsa
dell’illustre studioso nordamericano. Questo libro
è invece la riproposizione, ampiamente rivista e
aggiornata, di un volume che lo stesso Malighetti
aveva pubblicato nell’ormai lontano 1991, quando
l’opera di Geertz, tra molte diffidenze e reticenze,
cominciava a essere conosciuta anche nel nostro
Paese. Quando i suoi lavori iniziarono a essere tradotti in Italia nella seconda metà degli anni Ottanta
(confermando il proverbiale ritardo con cui da noi
molte discipline - purtroppo l’antropologia non è
l’unica - accolgono certe novità culturali), Geertz
fu infatti “capito poco”, più che veramente ignora-
to dalla comunità antropologica di allora [Nota: in
realtà il primo libro di Geertz tradotto in italiano fu
Isla m. Ana lisi socio-cultura le dello sviluppo religioso in Ma rocco e in Indonesia , Brescia,
Morcelliana 1973 (ed. or 1968). Il libro passò però
praticamente inosservato. In Italia Geertz cominciò ad essere preso in considerazione solo dopo la
pubblicazione del suo Interpreta zione di culture,
Il Mulino, Bologna 1987]. La sua prospettiva ermeneutica, e la concezione della “cultura come testo”
che accompagnava quella prospettiva, erano inoltre e forse soprattutto “disturbanti” per una comunità antropologica fortemente debitrice o di un
orientamento etnologico più o meno classico, o
dell’affascinante (ma per altri versi anche “inquietante”) strutturalismo lévi-straussiano, o dello storicismo di varia configurazione, da quello storicista
a quello marxista, più o meno ortodosso.
Col tempo tuttavia Geertz divenne, anche da noi,
un importante punto di riferimento per alcuni
antropologi (ma non solo) che, sebbene per motivi anche diametralmente opposti gli uni dagli altri,
si trovavano in quel momento in uno stato di
“indeterminatezza teorica”. Da Geertz, ovviamente, si imparò quanto fosse fondamentale la dimensione ermeneutica nella costruzione della rappresentazione etnografica. Ma, come spesso accade,
fu anche quella volta questione di imparare soprattutto un nuovo linguaggio. Se posso citare il mio
caso personale, direi che di Geertz mi coinvolse la
scrittura. Diretta, ironica, suadente e anche un po’
complice, piuttosto lontana tanto da quella troppo
rassicurante, forse perché fortemente “oggettiva”,
dei classici, quanto da quella grondante esprit de
géométrie di un Lévi-Strauss (Tristi tropici è, almeno in parte, un’altra storia). Geertz sembrava
coniugare al meglio la tradizione anglosassone
(schiettezza nordamericana più ironia britannica)
con una densità argomentativa di matrice europea
(senza essere un adepto, al contrario di molti suoi
colleghi statunitensi, della cosiddetta French
Theory). [Nota: Con l’espressione French Theory
125
n.20 / 2008
si indica l’insieme, del tutto inorganico, delle suggestioni teoriche che, provenienti appunto dal
lavoro di alcuni intellettuali francesi (Foucault,
Derrida, Lyotard, Bourdieu, Baudrillard ecc.) sono
state riprese negli Stati Uniti e utilizzate, a volte in
maniera discutibile, a sostegno di varie posizioni
nel campo delle scienze umane e degli studi postcoloniali]. Quanto a me, ex-studente di filosofia ma
poco familiare con l’ermeneutica, ritrovai in
Geertz quello “spessore” (le dimensioni del senso,
del significato) che l’antropologia, nelle sue varianti storiche, sembrava aver estromesso dal suo programma.
In Italia Geertz non ebbe inizialmente grande risonanza perché cambiava improvvisamente le regole
del gioco a cui (ci) si era abituati. Egli induceva il
sospetto che, benché sia sempre l’antropologo ad
avere l’ultima parola (“cosa fa l’a ntropologo? scrive...”) non è poi così ovvio pensare che tutto possa
risolversi in descrizione, comparazione e generalizzazione, come invece l’intera storia dell’antropologia precedente sembrava indicare. Il fatto che
anche “gli altri” potessero produrre senso e significato (una cosa che per altro molti antropologi
prima di lui sapevano benissimo senza trarne però
le debite conseguenze), Geertz lo argomentò in
maniera sottile, ricca di esemplificazioni etnografiche, credendo che bisognasse perseguire fino in
fondo il quanto mai enigmatico imperativo malinowskiano: vedere le cose dal punto di vista dei
nativi. Enigmatico perché fino a Geertz non si
sapeva bene se l’antropologo dovesse far finta di
mettersi nella testa del nativo, se dovesse dichiaratamente sostituirsi a lui, oppure imparare tutto ciò
che un nativo sa “per essere come lui”. Geertz, che
non ha mai amato le teorie chiuse, i sistemi e le
formule, pose infatti il problema in termini di
comunicazione. L’antropologia era infatti per
Geertz un “ampliamento del discorso umano”, un
tentativo mai concluso di cogliere il modo in cui,
sul campo, si stabiliscono relazioni comunicative
capaci di far emergere oggetti nuovi di riflessione
per l’antropologia, una scienza, come lui amava
dire, “in divenire”.
La prima versione di questo libro di Malighetti contribuì non poco, anche nel periodo in cui era in
gestazione, a farmi cogliere alcuni aspetti importanti del lavoro di Geertz. E credo che anche altri
126
antropologi italiani, oltre al sottoscritto, siano stati
“sollecitati” dal libro di Malighetti a cogliere in
maniera più adeguata e articolata le connessioni
tra la teoria etnografica dell’antropologo americano e alcuni aspetti della riflessione filosofica del
Novecento. Possiamo infatti affermare con relativa
sicurezza che il merito di questo libro è duplice: da
un lato esso fu, per il pubblico italiano, un’eccellente “introduzione a Geertz” (non si fraintenda
però sul termine “introduzione” pensando che si
sia trattato di una “scorciatoia”); mentre, dall’altro
lato, costituì il primo testo critico in assoluto, a
livello mondiale, sul lavoro dell’antropologo americano (come mi suggerisce il ricordo di un incontro tra Malighetti e lo stesso Geertz). In quest’ultima accezione il libro - oggi potenziato in molte sue
parti - “smonta e rimonta” la macchina teorica di
Geertz senza nulla concedere a tentazioni “storicistiche” di sorta. A Malighetti non interessa infatti
distinguere Geertz da altri antropologi o accostarlo a “precursori” e a “successori”. Malighetti punta
dritto al cuore del problema almeno nel senso che,
nel momento stesso in cui delinea il retroterra epistemologico-filosofico di Geertz, ne osserva le ricadute nella sua pratica etnografica.
Quanto la connessione tra teoria etnografica e pratica del campo sia al centro degli interessi di
Malighetti i lettori potrebbero d’altronde constatarlo leggendo un altro suo libro: Il Quilombo di
Frecha l. Identità e la voro sul ca mpo in una
comunità bra silia na di discendenti di schia vi
(Malighetti, 2004). In questo lavoro sono infatti
presenti molti spunti derivanti dall’opera geertziana, spunti grazie ai quali Malighetti ha potuto articolare, in tutta autonomia e senza alcun “complesso di dipendenza”, i principali nodi teorici sviluppati dall’antropologo americano in relazione ad un
contesto etnografico particolare. Dopo aver pubblicato il suo primo lavoro su Geertz Il filosofo e il
confessore. Antropologia ed ermeneutica in
Clifford Geertz (1991), Malighetti ha infatti compiuto ricerche in Brasile presso una comunità
impegnata da molti anni a rivendicare il legittimo
possesso di alcuni territori di fronte alle pretese
dei fa zenderos - e di conseguenza a riplasmare la
propria identità di fronte a questi ultimi e alla autorità brasiliane. Il frutto di questa ricerca non è però
soltanto un resoconto particolareggiato dell’emer-
sione di una forma di identità collettiva come conseguenza di lotta per vedere riconosciuti i propri
diritti sulla terra; Il Quilombo di Frecha l è anche, e
forse soprattutto, un libro che pone problemi
metodologici cruciali per lo statuto scientifico delle
discipline antropologiche, interrogandosi continuamente sulle dinamiche della ricerca sul campo
e sulle condizioni della produzione di un sapere
etnografico determinato dai modelli comunicativi
tra l’etnografo e i suoi interlocutori. Riprendendo
Geertz, e ridiscutendone in maniera critica le posizioni espresse da quest’ultimo al riguardo,
Malighetti problematizza in maniera decisa la questione del rapporto dell’antropologo con i suoi
interlocutori. E’ in questo modo che Malighetti
rende manifesti i punti di vista e le narrazioni particolari che si incontrano nell’intreccio dialogico,
così come le forme parziali in cui la memoria della
comunità viene riattivata dagli individui nell’intento
di fornire una rappresentazione identitaria stabile
del proprio villaggio. Nelle pagine de Il Quilombo
possiamo infatti seguire l’intera “storia” senza mai
perdere contatto con la relazione che Malighetti
costruisce con i quilomboles e, tramite essa, con i
problemi metodologici ed epistemologici posti
dalla ricerca etnografica in generale.
Contrariamente a quanto potrebbe pensare qualcuno sulla base di quanto ho appena detto, la prospettiva di Malighetti non è mai condizionata da
quello stile riflessivo che, sull’onda di certe suggestioni geertziane male interpretate - e senza che
Geertz ne sia stato per altro responsabile - hanno
puntato decisamente verso la dimensione introspettiva più che verso una vera ermeneutica. La
problematizzazione dell’Io sul campo non dovrebbe infatti essere un’indagine sul Sé del ricercatore:
può anche esserlo naturalmente, ma a patto che
tale problematizzazione sia prima di tutto la condizione dello svelamento delle procedure di costruzione dell’oggetto del discorso scientifico.
“Intendevo - scrive infatti Malighetti - evitare l’ormai “aneddotica” critica di Sahlins agli approcci
riflessivi, considerati incapaci - egli prosegue - di
veicolare informazioni etnografiche che superassero la vita privata dell’antropologo [Nota: L’“aneddotica critica di Sahlins agli approcci riflessivi” a cui
accenna Malighetti, si riferisce al fatto che Sahlins
mise in scena il buffo dialogo tra un antropologo e
un nativo, in cui quest’ultimo chiedeva all’antropologo iperriflessivo implorandolo: “ma non si
potrebbe parlare anche un po’ di me”?]. Ero deciso a emanciparmi dalle pratiche confessionali che
non consideravo esperimenti compiutamente dialogici” (Malighetti, 2004, p. 70). Malighetti è infatti
propenso a perseguire un modello di inchiesta che
prenda sul serio l’invito ermeneutico di Geertz,
invito a cui non sempre è facile, nota Malighetti,
tenere fede. Nemmeno Geertz, e molti altri che a
lui si sono ispirati, si sono rivelati sempre in grado
di spingersi molto più in là di alcune dichiarazioni
d’intenti. Infatti, enunciare la necessità di una
visione ermeneutica della ricerca sul campo, o
anche esplorarne teoricamente la “ineludibilità”,
non significa che per questo stesso fatto, tale
aspetto dell’etnografia risulterà a livello testuale.
Per questo Malighetti si interroga continuamente
sui limiti dei vari modi di scrivere etnografia. Di
questi vari modi egli dice: “Nonostante la loro
apertura nello stile narrativo e sebbene avessero
reso l’io e l’altro, la cultura e i suoi interpreti, entità meno sicure, rivelando lo status artificioso e
contingente di ogni descrizione etnografica, ebbi
modo di constatare come tendessero a riprodurre
forme di realismo e oggettivismo etnografico da
cui cercavano, senza successo, di emanciparsi.
Riproducevano, così, il tradizionale dualismo fra
soggetto e oggetto” (Malighetti, 2004, p.65). E
poco più avanti aggiunge: “Le costruzione
dell’Altro, le sue spiegazioni, sono considerate
indipendenti e spontanee, elaborate in isolamento
e non in risposta alle sollecitazioni dell’antropologo....Così, se il discorso di Rabinow determina
un’irriducibile differenza fra il Sé e l’Altro, tralasciando di indicare il processo attraverso il quale i
significati sono prodotti, il modello di analisi di
Geertz fa emergere i significati ma non i soggetti”
(Malighetti, 2004, p. 65). Ciò che non soddisfa
Malighetti, di questi approcci pur innegabilmente
“ermeneutici”, non è dunque l’impossibilità di
ottenere una perfetta immedesimazione o empatia
con l’Altro. Immedesimazione o empatia non sono
nemmeno troppo auspicabili perché, come tali,
non comportano la possibilità che io possa far
intendere a qualcun altro (per esempio il lettore
del mio resoconto etnografico) il grado della mia
identificazione all’Altro. L’immedesimazione non
127
n.20 / 2008
comporta media zione. Invece la riflessività, intesa
nel senso di una interpretazione che si fonda su
una “unità ermeneuticamente prodotta tra l’etnografo, in quanto soggetto di conoscenza, e la gente
studiata in quanto oggetto di conoscenza”
Josephides, 1997, p. 17), può raggiungere lo
scopo. Riflessività significa, in questo caso, sentire
come l’altro, introducendo la dimensione della
mediazione (come) che, per poter essere realizzata, ha bisogno di esprimersi tramite figure retoriche [Nota: Per esempio tramite l’allegoria. Cfr.
Fabietti, 1999, pp. 100-104]. In questo senso esperienza e interpretazione non sono separabili, perché se è vero che nel testo etnografico e nel lavoro teorico i due aspetti della ricerca sono distinguibili, nella situazione etnografica (il campo) essi
appartengono allo stesso processo di conoscenza.
E quest’ultimo, per quanto improntato a riflessività, quindi ad un riconoscimento del Soggetto (l’etnografo) nella situazione da lui esperita, deve essere trasmesso, comunicato.
Rovesciando l’idea di un Altro (il “nativo”) che dà
risposte a un Sé (l’antropologo), in quella di un Sé
che è un tramite per la comprensione dell’Altro,
passando insomma dall’ “osservazione (dell’Altro)
partecipante a una osservazione della partecipazione” (del Sé), Malighetti punta invece alla esplicitazione del modo in cui i suoi “resoconti e le
situazioni da essi analizzate si elaborano e si modificano in un processo dialettico contestuale, all’interno di un particolare spazio sociale da cui derivano il loro consenso [Nota: L’espressione è di
Barbara Tedlock (1991): “From participant observation to the observation of participation: the
emergence of narrative ethnography”]. Il campo
diventava così una working fiction (Geertz) in cui
condividevo con i miei interlocutori un mondo di
significati....” (Malighetti, 2004, p. 71).
Mi sono soffermato sull’esperienza etnografica di
Malighetti con uno scopo ben preciso: cercare di
far intendere come Clifford Geertz. Il la voro dell’a ntropologo non sia, nella storia del suo autore,
un puro esercizio di teoria né, tantomeno, di ricostruzione storica della figura del grande antropolo-
128
go statunitense. Mi sono soffermato sull’esperienza etnografica di Malighetti per cercare di far comprendere meglio, al lettore di questo libro su
Geertz, come le problematiche in esso discusse
abbiano avuto, per quanto riguarda il suo autore,
una ricaduta concreta sul suo stesso lavoro di
campo. Il che equivale, credo, a un invito: dopo
aver letto questo libro, il lettore prenda conoscenza del Il Quilombo di Frecha l, che dello studio su
Geertz è, in un certo senso, un’ ideale, e al tempo
stesso critica, “applicazione etnografica”.
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