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SOMMARIO Culture Economie e Territori Rivista Quadrimestrale Numero Venti, 2008 Focus: Antonio Gramsci Pag. 03 Toglia tti e Gra msci di Giuseppe Vacca Pag. 20 Gra msci e Ma cchia velli di Francesca Izzo Pag. 28 Gra msci et de Benois di Michela Nacci Pa g. 32 La “gra nde tra sforma zione”: i ra pporti tra Sta to ed economia nei “Qua derni del Ca rcere” di Terenzio Maccabelli Bordeline Pag. 61 I mutui subprime e le a ttività preda torie del ca pita le fina nzia rio negli Sta ti Uniti di Giordano Sivini Il Faro Pag. 74 Profili economici e professione: un percorso à rebours di Franco de Leonardis Pag. 91 Pesca tori e donne per la sovra nità a limenta re di Mariarosa Dalla Costa Pag. 105 Criptocristia nesimo in Kosovo nel XVIII secolo di Luca Maiocchi LibriLibriLibri Pag. 125 Presenta zione di Ugo Fabietti 1 n.20 / 2008 2 Giuseppe Va cca Togliatti e Gramsci* Focus: Antonio Gramsci La relazione tra Togliatti e Gramsci assume una rilevanza storica significativa a datare dal 1926 e si sviluppa lungo alcune direttrici agevolmente distinguibili: un confronto politico intermittente ma sotteso da un ma instrea m ininterrotto; un rapporto personale attraversato dai problemi politici e umani del prigioniero; l’attività di Togliatti editore degli scritti di Gramsci dopo la morte; l’interpretazione del suo pensiero, soprattutto i Qua derni del ca rcere. Ci limiteremo a tratteggiarne solo alcuni momenti, con particolare attenzione al rapporto fra la biografia politica e la biografia intellettuale di Gramsci, e al modo in cui Togliatti ne gestì la delicata posizione di comunista eterodosso, incardinando sulla sua figura la tra dizione del comunismo italiano. I testi di Giuseppe Va cca , Fra ncesca Izzo e Michela Na cci sono sta ti presenta ti a l convegno su “Gra msci e la Filosofia . Convegno di studi a setta nt’a nni da lla morte (1937-2007)” tenuto a Genova il 15-16 novembre 2007. Divergenze e convergenze sulla «questione russa». Com’è noto Gramsci fu arrestato subito dopo uno scontro molto aspro con Togliatti sulla posizione da assumere nei confronti della costruzione del «socialismo in un paese solo». Nuovi documenti, divenuti accessibili dopo il 1989, hanno consentito di ricostruire in modo più preciso la dinamica e i motivi del contendere presenti nel carteggio dell’ottobre 1926. La lettera che Gramsci indirizzò al Comitato centrale del Partito comunista russo il 14 ottobre 1926, scritta a nome dell’Esecutivo del Pcd’I, era diretta principalmente a Stalin, che, quanto meno dall’inizio dell’anno, seguiva personalmente lo sviluppo dei rapporti fra il partito italiano e quello russo (Cfr. Togliatti 1999, pp. 155-171 e 36-44). Infatti, l’ambasciatore sovietico a Roma Keržencev, col quale Gramsci intratteneva rapporti frequenti e amichevoli, l’aveva preannunciata a Stalin fin dal 6 ottobre, su richiesta dello stesso Gramsci (Pons 2004, p. 89, nota). Quando Togliatti, anche per consiglio di Bucharin, non trasmise la lettera di Gramsci, considerandola inopportuna, non assunse una decisione personale, ma informò l’esecutivo del Pcd’I delle sue valutazioni sulla lettera e fu da esso autorizzato a sospenderne l’inoltro in attesa dei chiarimenti che il partito italiano avrebbe ricevuto sulla «questione russa» dall’inviato del Comintern alla riunione del suo Comitato centrale già convocata per il primo novembre (Daniele 1999, pp. 413-419 e 428-434). In questa riunione, svoltasi in assenza di Gramsci che non aveva potuto raggiungere la località segreta in cui il Comitato centrale si teneva, la lettera fu archiviata e quindi non divenne mai un documento ufficiale del partito, anche se fu messa agli atti 3 n.20 / 2008 1 (Toglia tti 1972, pp. 93-113). Quella posizione venne ulteriormente sviluppa ta l’a nno dopo nella Direttiva per lo studio delle questioni russe, nella qua le Toglia tti ricostruiva la linea genera le dei bolscevichi fin da l 1905 per dimostra re che, rea lizza ndo l’egemonia del proleta ria to, la Nep era in gra do di sostenere la «costruzione del socia lismo in un pa ese solo» a nche se il gruppo dirigente si era diviso; quindi la funzione rivoluziona ria mondia le dell’Urss era ga ra ntita . (1972, pp. 172-189). 4 come Gramsci aveva chiesto a Togliatti nella replica del 26 ottobre (Daniele 1999, p. 439). Ma l’attenzione va attirata soprattutto sui contenuti del carteggio che, alla luce dello scontro in atto nei vertici del partito russo, consentono un’interpretazione del conflitto fra Gramsci e Togliatti molto diversa da quella sedimentata nella storiografia precedente. La ragione principale per cui la lettera destò a Mosca il timore che il Pcd’I potesse schierarsi con Trockij era che in essa Gramsci, pur aderendo alle posizioni della maggioranza, legava la costruzione del socialismo in Urss alla capacità di continuare a essere un fattore propulsivo della rivoluzione mondiale. In altri termini, il punto di contatto fra Gramsci e la minoranza del Pcr capeggiata da Trockij era l’analisi della situazione mondiale che entrambi ritenevano caratterizzata dalla possibilità di sviluppo di nuove rivoluzioni a breve in Europa. La materia del contendere riguardava la «stabilizzazione relativa» del capitalismo, categoria molto elastica e oscillante, che Gramsci, in base agli sviluppi della situazione internazionale nel corso del 1926, aveva messo radicalmente in discussione enfatizzando l’instabilità del capitalismo mondiale e l’attualità della rivoluzione soprattutto in alcuni paesi periferici dell’Europa occidentale e centrale (Gramsci 1971). Che fosse questo il punto nodale del dissenso fra il partito italiano e la maggioranza di quello russo, nella quale Stalin era ormai la figura dominante, è chiarito dall’intervento di Togliatti sul rapporto di Bucharin al VII Plenum del Comintern (novembre 1926): infatti Togliatti gli attribuiva il merito di aver fatto chiarezza sulla sconfitta storica subita dalla classe operaia europea, diradando la prospettiva di una rivoluzione immediata. Il confronto fra Togliatti e Gramsci continuava, quindi, a distanza, anche dopo l’arresto di quest’ultimo. Esso appare ancor più evidente nell’intervento di Togliatti sul rapporto di Stalin al medesimo Plenum. In questo Togliatti ricalcava persino i passi della lettera di Gramsci che sottolineavano il legame imprescindibile fra la costruzione del socialismo in Urss e la sua funzione propulsiva della rivoluzione mondiale, ma, come già aveva fatto nella lettera a Gramsci del 18 ottobre, confutava la tesi che fosse necessario salvaguardare a ogni costo l’unità del gruppo dirigente bolscevico. Dopo aver svolto un’aspra polemica contro Trockij e Zinoviev, Togliatti ribadiva che il legame fra l’Urss e la rivoluzione mondiale era garantito dalla linea politica del partito bolscevico, che era la linea della maggioranza capeggiata da Stalin e Bucharin, mentre la minoranza contrapponeva al «socialismo in un paese solo» la prospettiva della «rivoluzione permanente» onde le due posizioni erano ormai inconciliabili. L’unità del gruppo dirigente bolscevico si era rotta una volta per sempre, ma la funzione mondiale dell’Urss non era legata al consolidamento del potere sovietico e della sua statualità come si ravvisava nella strategia di Stalin1. Come è stato acutamente osservato, è qui l’origine dello stalinismo di Togliatti, ed è basato sul convincimento che la forza dell’Urss costituisse l’unica vera risorsa del comunismo internazionale e che Stalin avesse la visione più lungimirante sul modo di consolidarla e guidarla (Pons 2007). I sospetti di Gramsci sul comportamento di Togliatti Subito dopo l’arresto fu Gramsci a scegliere Piero Sraffa e Tatiana Schucht per tenere i contatti con il partito e con i familiari. Dell’assistenza economica e processuale si occupava il Centro interno del partito e con esso Gramsci comunica- Giuseppe Va cca Togliatti e Gramsci va anche attraverso gli avvocati che ne curavano le vicende giudiziarie. Ma Sraffa, che dalla fine del ‘27 viveva a Cambridge, dove, grazie all’amicizia di Keynes era riparato in seguito alle persecuzioni fasciste, era il tramite ideale con il Centro estero che Togliatti aveva raggiunto agli inizi del 1927. Sraffa era un comunista non iscritto che però, grazie all’amicizia con Gramsci e con Togliatti, veniva considerato dal partito un dirigente coperto. Inoltre, in virtù delle influenti relazioni del padre Angelo e dello zio materno Mariano D’Amelio, senatore del regno e primo presidente della Corte di Cassazione, egli poteva fornire un aiuto prezioso al prigioniero per quanto riguardava la sua posizione processuale e le sue condizioni carcerarie. Tania, a sua volta, essendo cittadina russa, era il canale ideale per i rapporti con l’ambasciata sovietica. Iscritta al partito bolscevico dal 1927, godeva della protezione dell’ambasciata e al tempo stesso, come parente, poteva visitare frequentemente il prigioniero e riferire al partito i colloqui avuti con lui. Poco dopo la condanna di Gramsci Togliatti assunse personalmente la gestione dei contatti con il detenuto che dalla fine del 1928 vennero organizzati attraverso il triangolo Gramsci-Tatiana-Sraffa. Il veicolo principale era la corrispondenza indirizzata da Gramsci a Tania, che solitamente la trasmetteva in copia al Centro estero del partito. Il corriere era Sraffa, che riceveva la corrispondenza in originale o in copia da Tania e la consegnava personalmente a Togliatti o a chi per lui, passando per Parigi tre o quattro volte l’anno in occasione dei suoi soggiorni in Italia dove solitamente trascorreva le vacanze con la famiglia. Ma Tania era anche il tramite della corrispondenza fra Sraffa e Gramsci che aveva sia carattere personale, sia di intermediazione delle comunicazioni di Togliatti al prigioniero. Infine, Tania trascriveva per Gramsci anche le lettere provenienti dalla famiglia Schucht, delle quali anche il partito italiano era quindi informato attraverso la corrispondenza di Gramsci con Tania e di Tania con Sraffa. Questo reticolo faticoso e complesso era necessario per consentire a Togliatti di gestire gli aspetti politicamente più delicati della condizione del prigioniero. Nelle mani di Mussolini Gramsci era oggetto di manovre e pressioni che si ripercuotevano sulle sorti del partito. Inoltre, dall’ottobre ’26 agli occhi di Mosca era un comunista eterodosso e lo sarebbe divenuto sempre più dopo il VI congresso del Comintern e la «svolta» del 1930. Anche questo costituiva dunque un problema complicato: le sue prese di posizione, il suo pensiero filtravano fuori del carcere di Turi e in vario modo giungevano all’orecchio di Mosca, mentre, per il modo in cui aveva schierato il partito con Stalin, Togliatti costituiva una garanzia di affidabilità per l’Urss e di fatto aveva preso il posto di Gramsci. D’altro canto, prigioniero e martire del fascismo, Gramsci era una risorsa straordinaria per il suo partito, che soprattutto per questo non poteva essere colpito dal Comintern. Ma, garantirne la figura di «capo della classe operaia italiana», consacrata da Togliatti fin dai tempi del processo di Roma (Togliatti 1972a), e al tempo stesso schivare i colpi che potevano abbattersi sul partito a causa della sua eterodossia costituiva un’impresa difficile e aleatoria, della quale si può avere un’idea ricordando due episodi, del 1932 e del 1938: nell’«autobiografia» scritta per la sezione quadri del Comintern nell’agosto del ‘32, diversamente da quanto aveva fatto nelle biografie precedenti Togliatti, ricostruendo la propria carriera politica, arriva a non menzionare mai il nome di Gramsci, al quale, del resto, dal giugno del ‘31 al dicembre del ‘33 la stampa del partito non fa più alcun riferimento né politico né 5 n.20 / 2008 2 (Agosti 1996, p. 144). Si può supporre che ta le comporta mento sia sta to origina to da lle a spre critiche che il Comintern a veva rivolto a Toglia tti per la sua rela zione a l Congresso di Colonia , da lla qua le tra spa riva che la sua a desione a lla «svolta » non era piena mente convinta (Pons 2007, pp. 199-200). 3 Le rela zioni di Ta nia a l pa rtito sui colloqui con Gra msci a Turi sono in Gra msci e Schucht (1997, pp. 1436-1463). 6 teorico2. Per converso, quando la rivista di Tasca «Problemi della rivoluzione italiana» nell’aprile del 1938 pubblicò la lettera di Gramsci al CC del Pcr dell’ottobre ’26, creando una situazione di panico nel gruppo dirigente del partito italiano che era inquisito già da un anno dal Comintern per mancata vigilanza rivoluzionaria e oscillazioni nella lotta contro il trockismo, fu Togliatti, di passaggio da Parigi nel settembre di quell’anno, ad evitare che la segreteria sconfessasse la lettera di Gramsci come Dozza e Di Vittorio avevano chiesto. «Non è consigliabile continuare a parlare di tutte queste cose del passato con questo metodo, egli disse. Sarebbe un errore negare la vita avvenire del partito su questa base. Le cose avvenute non si cancellano. Ma non si possono legare le cose dell’avvenire a queste» (Agosti 1996, p. 214): egli aveva chiara la percezione che condannare retrospettivamente Gramsci avrebbe lacerato e indebolito ulteriormente il partito agli occhi di Stalin. Non a caso, intervenuta la morte di Gramsci nel pieno del Grande Terrore, Togliatti aveva tentato subito, scrivendo a Dimitrov, di indurre il Comintern a compiere un gesto oblativo dei dissidi trascorsi: proponeva di trasferirne le ceneri a Mosca, ma a condizione che a Gramsci venissero tributati gli onori di un «capo» mai sospettato di eterodossia (Vacca 1994, pp. 61-66). I contatti con il prigioniero riguardarono fin dall’inizio anche la possibilità della sua liberazione. I tentativi di liberare Gramsci attraverso uno scambio di prigionieri fra il governo sovietico e il governo italiano sono ampiamente noti. Quello su cui è opportuno soffermarsi in questa sede riguarda la complessa questione della lettera di Grieco. La documentazione acquisita di recente, in parte ancora inedita, ci consente di illuminare un complesso di problemi che hanno travagliato a lungo gli storici. Il primo tentativo di liberazione di Gramsci fu imbastito nell’estate del 1927 dal partito, su suggerimento dello stesso prigioniero probabilmente a seguito di una visita di Sraffa al carcere di San Vittore avvenuta in agosto. Esso fallì per il rifiuto opposto da Mussolini che seguiva personalmente la vicenda giudiziaria di Gramsci. Il tramite fra Mussolini e Gramsci era il giudice istruttore Enrico Macis, con il quale Gramsci ebbe diversi colloqui di contenuto politico durante la detenzione a San Vittore. Da quanto egli riferì a Tatiana nei colloqui svoltisi a Turi nel gennaio ’29 e nel gennaio ’33, attraverso il dialogo con Macis Gramsci aveva avuto conferma che Mussolini avrebbe potuto anche liberarlo se la richiesta gli fosse stata fatta dal governo sovietico in modo da far apparire la sua liberazione un gesto di liberalità, autonomo e gratuito3. Gramsci era una preda preziosa nelle mani di Mussolini che se da un lato operava per fiaccarne la fibra morale e indurlo a chiedere la grazia, dall’altro temeva che gli morisse in carcere perché ciò avrebbe sollevato l’indignazione dell’opinione pubblica internazionale in quanto Gramsci, al pari degli altri deputati comunisti detenuti nelle carceri fasciste, era stato tratto in arresto in violazione dell’immunità parlamentare prima ancora delle leggi speciali. D’altro canto, la peculiarità dei comunisti rispetto alle altre forze antifasciste stava nel loro essere un terminale del governo sovietico. Quindi come «capo» dei comunisti italiani Gramsci poteva essere oggetto di scambio fra il governo sovietico e quello italiano in base all’evolvere delle loro relazioni. La possibilità di essere liberato era dunque una condizione permanente del prigioniero, al di là delle occasioni che originavano i tentativi di scambiarlo. Com’è noto, alla fine di marzo del ’28, a istruttoria ormai conclusa, il giudice Giuseppe Va cca Togliatti e Gramsci Macis informò Gramsci dell’esistenza di una lettere scritta da Grieco a Basilea il 10 febbraio e spedita direttamente al carcere di San Vittore il 29 delle stesso mese, da Mosca. Nell’illustrarla al prigioniero Macis insinuò il sospetto che i suoi compagni preferissero tenerlo in galera e Gramsci condivise il suo commento, denunciando poco dopo l’episodio alla moglie che all’epoca era ancora incaricata dei rapporti fra il prigioniero e il partito (Gramsci 1965, p. 207; Schucht 1991, p. 40). Sull’interpretazione di questa lettera si è accumulata una letteratura viziata da gravi lacune documentali in gran parte colmate solo di recente. I nuovi documenti consentono di rileggere la lettera di Grieco in modo più perspicuo di quanto non si sia fatto finora, di precisare le responsabilità che Gramsci imputava a Togliatti e di inquadrare l’origine dell’inchiesta promossa dalle sorelle Schucht a Mosca nel 1939 contro Togliatti e il partito italiano accusati di aver sabotato la liberazione di Gramsci (Pons 2004). La corrispondenza di Tatiana Schucht con i familiari recuperata nell’ultimo anno e ancora inedita ci permette di chiarire l’accusa mossa da Gramsci a Togliatti a proposito della lettera di Grieco. Se la si legge distinguendola dalle lettere che nello stesso giorno questi aveva inviato a Terracini e Scoccimarro, acquista nuova luce l’incipit che nelle altre due lettere non c’è. Infatti nelle prime righe della lettera, in maniera allusiva ma trasparente, Grieco comunicava a Gramsci che il partito continuava a impegnarsi nel tentativo di liberarlo, che seguiva accuratamente i contatti intercorrenti fra il governo sovietico e quello italiano a tal fine, e si mostrava ottimista sul loro esito (Spriano 1977, pp. 129-131). Come Tania chiarisce inequivocabilmente nella corrispondenza con i familiari, per Gramsci consegnare un tale documento nelle mani di Mussolini voleva dire inibirne la disponibilità a liberarlo poiché dimostrava che il partito avrebbe potuto rivendicare l’accadimento come una sua vittoria (Rossi e Vacca 2007, pp. 86-87; Schucht 1991, p. 190). Esso non poteva ignorare che Mussolini avrebbe potuto acconsentire a uno scambio solo a condizione che risultasse un atto unilaterale di liberalità. Dunque la lettera di Grieco costituiva o una imperdonabile leggerezza, o un atto consapevole di sabotaggio. La cosa richiedeva un chiarimento e questo fu quanto Gramsci chiese al partito nel colloquio con il fratello Gennaro, a Turi, nel giugno 1930, di cui abbiamo pubblicato di recente il Rapporto scritto per Togliatti, rapporto del quale si ignorava l’esistenza (Rossi e Vacca 2007, pp. 209-217). La corrispondenza di Tania con Gramsci e con Sraffa, riletta alla luce dei nuovi documenti, dimostra che sull’episodio Gramsci intendeva condurre un’inchiesta nel pa rtito, dopo la sua liberazione. Verosimilmente egli attribuiva l’irresponsabilità di quel gesto all’uso sconsideratamente propagandistico che il partito faceva della sua condizione di prigioniero di Mussolini e questa condotta politica non favoriva certo la possibilità della sua liberazione. I suoi sospetti divennero ancora più gravi dopo la perquisizione dell’Ovra dell’estate del 1932 che mise fine al carteggio su Croce. Infatti, dal comportamento degli agenti Gramsci ebbe la percezione che i contenuti politici del carteggio, affidati ad un linguaggio metaforico o allusivo che solo Sraffa e Togliatti potevano decifrare, fossero trapelati per errori o leggerezze commesse nella comunicazione interna dal gruppo dirigente che egli sapeva essere infiltrabile dalle autorità fasciste Gramsci e Schucht 1997, pp. 1044-1045). Dell’intenzione di promuovere un’inchiesta nel partito su episodi che chiamavano in causa sia i comportamenti dei massimi dirigenti, sia la 7 n.20 / 2008 4 Per la ricostruzione di tutta la vicenda connessa a lla lettura di Grieco cfr. Rossi e Va cca (2007, pp. 80-95). 8 linea politica che ne facilitava gli errori, prima velatamente per lettera, poi attraverso i colloqui con Tania e con Sraffa, negli anni della detenzione a Turi, a Formia e alla clinica Quisisana di Roma, Gramsci informò Togliatti e ne ebbe l’assenso (Vacca 1999, pp. 90-97). Infatti, quando, subito dopo la morte di Gramsci, sentendosi investita del compito di dar seguito all’inchiesta da lui progettata Tania si rivolse a Sraffa per decidere insieme a lui come agire, non chiedeva un consiglio personale all’amico, ma istruzioni al partito sul modo di procedere per dar seguito alla volontà del «capo» defunto. Il parere che Sraffa le diede di «lasciar perdere» perché, «letta a mente fredda», la lettera di Grieco doveva considerarsi nulla più che «una leggerezza dello scrivente», non era dunque un’opinione personale, ma un’indicazione del partito da lui interpellato (Spriano 1988, pp. 167170). L’affermazione di Sraffa aveva quindi anche il valore di un’autocritica di Togliatti, con la quale evidentemente il partito riteneva di poter chiudere il caso. Del resto, come abbiamo ricordato, si era nel pieno del Grande Terrore e Gramsci ormai era morto: chi e come avrebbe potuto condurre l’inchiesta senza esporre il partito al rischio di essere travolto?4. La comunicazione politica col prigioniero Secondo una vulgata costruita massimamente su testimonianze tardive di dirigenti comunisti e compagni di detenzione di Gramsci, egli si sarebbe sempre rifiutato, una volta arrestato, di comunicare il suo pensiero politico al partito. Questa interpretazione era favorita dal modo in cui fino al 1990 era stato utilizzato l’epistolario di Gramsci. Com’è noto, erano state pubblicate in due successive edizioni solo le lettere che Gramsci aveva scritto dal carcere, mentre poco o nessun rilievo si attribuiva alle lettere dei suoi corrispondenti. La situazione cambiò dopo la pubblicazione di Antigone e il prigioniero. Aldo Natoli (1990) aveva studiato accuratamente la corrispondenza fra Gramsci e Tania, e il suo volume evidenziava la rilevanza decisiva del loro carteggio per la ricostruzione della biografia politica, intellettuale e umana del prigioniero. A breve distanza di tempo seguirono la pubblicazione delle lettere di Tania ai familiari e di quelle di Sraffa a Tania per Gramsci (Sraffa 1991). Furono vinte, così, le resistenze alla pubblicazione dei carteggi motivate da una imperdonabile sottovalutazione della figura di Tania tanto rispetto a Gramsci quanto rispetto a Sraffa, e nel 1997 uscì il ponderoso carteggio Gramsci-Tania corredato di un appartato critico particolarmente accurato dovuto a Chiara Daniele (Gramsci e Schucht 1997). Infine, si avviava la preparazione dei carteggi fra Gramsci e Giulia e fra Sraffa e Tania non ancora ultimata, e cominciò il recupero della parte restante della corrispondenza di Tania con la famiglia Schucht che nella prima donazione di Giuliano Gramsci, risalente al 1989, si arrestava al 1934. Aveva inizio così una nuova stagione di studi che, grazie ai nuovi documenti, viene ricostruendo la biografia politica e intellettuale di Gramsci nel decennio 1926-1937, sviluppando e correggendo la ricerca pionieristica avviata da Paolo Spriano (1977). Non è chi non veda quanto tale ricostruzione sia indispensabile alla comprensione dei Qua derni del ca rcere che finalmente vengono studiati dando rilievo alla diacronia delle note e alla ricostruzione del «ritmo del pensiero in sviluppo». La saldatura fra teoria e biografia getta nuova luce sulla riflessione di Gramsci e ha inaugurato una messe di nuove Giuseppe Va cca ricerche, dalle quali emergono interpretazioni sempre più distanti dalla vulgata originata dalla prima edizione dei Qua derni , l’edizione tematica PlatoneTogliatti del 1948-1951. Ma, per tornare al nostro tema, oggi affiora con crescente evidenza che il confronto di Togliatti con Gramsci non si sviluppò solo a distanza proseguendo la collaborazione strettissima intercorsa fra loro nel 1919-1920 e 1924-1926, ma si alimentò anche della conoscenza delle linee di sviluppo del suo pensiero negli anni del carcere veicolate, fino al 1932, dalla corrispondenza di Gramsci con Tania e negli anni della detenzione a Formia e a Roma dai colloqui saltuari, ma prolungati e intensi, di Sraffa con il prigioniero5. Assume un particolare rilievo, in proposito, la decifrazione dei codici letterari attraverso cui avveniva la comunicazione e, secondo una modalità specifica del pensiero gramsciano, i suoi contenuti erano al tempo stesso teorici e storico-politici (Rossi e Vacca 2007, Cap. I). Ci limiteremo a darne qualche esempio. Com’è noto, fin dagli esordi della corrispondenza con Tania Gramsci indicava come tema centrale del suo programma di ricerca il tema degli intellettuali. Non è difficile capirne il significato politico anche perché è lo stesso Gramsci a fornire le chiavi per decifrarlo. Infatti, nella lettera del 19 marzo 1927, dopo aver indicato al primo punto dei suoi propositi di ricerca il tema degli intellettuali italiani dell’Ottocento, menzionava lo scritto sulla questione meridionale dell’estate nel 1926, ancora inedito ma noto a Tatiana, e dichiarava di voler «svolgere ampiamente la tesi che avevo allora sviluppato». Il tema ricorre con analoga centralità nei successivi piani di ricerca esposti da Gramsci nella corrispondenza con Tatiana e nella prima pagina del Quaderno 1, in cui Gramsci elenca gli «argomenti principali» ai quali intende dedicare le «note e appunti» che riempiranno i quaderni. In questa sequenza assume particolare importanza la lettera a Tatiana del 25 marzo 1929 che a nostro avviso è da considerare l’effettiva enunciazione del programma di ricerca dei Qua derni . Gramsci era stato condannato da circa un anno ad una lunga detenzione e quindi il suo futuro prossimo e remoto non era più incerto. Inoltre, aveva ricevuto l’autorizzazione a scrivere e quindi poteva pianificare i suoi studi. Ma quella lettera è cruciale anche perché ad essa farà riferimento Sraffa quando, sollecitato da Gramsci, comincerà a proporgli temi da trattare nella corrispondenza, sui quali evidentemente Togliatti era interessato a conoscere il pensiero di Gramsci (Gramsci e Schucht 1997, pp. XXVII – XXVIII; Sraffa 1991, p. 15). E, non a caso, il tema più insistente riguardava appunto la sua ricerca sugli intellettuali. La questione si può riassumere nel modo seguente. Lo scritto sulla «quistione meridionale» rappresenta un passaggio decisivo negli sviluppi del pensiero politico e filosofico di Gramsci in quanto introduce nello schema teorico del materialismo storico un primo abbozzo di teoria degli intellettuali. Essa avrà un grande sviluppo nei Qua derni ma non possiamo riprenderlo in questa sede. Ci limitiamo a sottolineare il suo nesso con l’elaborazione sia della teoria dell’egemonia , sia della filosofia della pra xis che segnano la distanza del pensiero di Gramsci in carcere da quello del decennio precedente. Ma quello su cui vorrei attirare ora l’attenzione è il legame strettissimo fra lo scritto sulla «quistione meridionale» e la lettera al CC del Pcr del 1926. Infatti, in essa l’«egemonia del proletariato» scavalcava i confini dell’elaborazione leniniana per investire la natu- Togliatti e Gramsci 5 Un resoconto viva ce degli incontri di Sra ffa con Gra msci nella clinica Quisisa na è in una lettera inedita di Ta nia a Giulia del 24 ma rzo 1937, di prossima pubblica zione. Si veda inoltre la testimonia nza di Sra ffa in Spria no (1967). 9 n.20 / 2008 6 Sull’a na lisi dell’Urss Sta linia na nei Qua derni del ca rcere cfr. Va cca (1999, pp. 207-228); Benvenuti e Pons (1999, pp. 33-124). 10 ra dello Stato sovietico e l’espansività internazionale del modello di socialismo edificabile sulla base della Nep. Togliatti all’epoca non conosceva ancora lo scritto sulla «quistione meridionale». Ma sicuramente in seguito esso fu oggetto di riflessione e di approfondimento da parte di tutto il gruppo dirigente del partito se, come testimoniò Giorgio Amendola nel 1967, alla sua pubblicazione su «Lo Sta to Opera io», nel gennaio 1930, fece seguito un’ampia diffusione di un estratto dattiloscritto che costituì «uno strumento di lavoro» per la formazione di quadri del partito clandestino durante tutto il biennio 1930-1932 (Amendola 1976). L’insistenza con cui Sraffa, che concordava con Togliatti i temi sui quali interpellare Gramsci, richiese più volte di conoscere il pensiero da lui maturato nel frattempo sugli intellettuali equivaleva, quindi, alla richiesta di conoscere dove era giunta la riflessione di Gramsci sull’Urss, sulla politica e sullo Stato. E il prigioniero non esitò a riassumerla, nella lettera a Tania del 7 settembre 1931, in termini che meritano citazione: Io estendo molto la nozione di intellettuale e non mi limito alla nozione corrente che si riferisce ai grandi intellettuali. Questo studio porta anche a certe determinazioni del concetto di Stato che di solito è inteso come Società politica (o dittatura o apparato coercitivo per conformare la massa popolare secondo il tipo di produzione o l’economia di un momento dato) e non come equilibrio della Società politica con la Società civile (o egemonia di un gruppo sociale sull’intiera società nazionale attraverso le organizzazioni così dette private, come la chiesa, i sindacati, le scuole, ecc.) (Gramsci e Schucht 1997, p. 791). Non è di poco significato che, rispondendo anche a questa lettera il 2 ottobre, Sraffa scrivesse a Tania che essa «non richiedeva risposta» (Sraffa 1991, p. 36): mi sembra evidente che alle implicazioni politiche di tale concezione, che toccava sia la natura dell’Urss staliniana, sia il marxismo sovietico e la strategia del Comintern e ne colpiva le fondamenta, Togliatti non potesse rispondere altrimenti che con un no comment 6 . Altro esempio significativo di comunicazione politica in codice è il carteggio riguardante Croce, anch’esso sollecitato da Togliatti attraverso Sraffa, che si sviluppò, breve ma intenso, dal 18 aprile al 12 luglio 1932. Attraverso quelle lettere Gramsci informava Togliatti dell’avanzamento dei suoi studi e della sua riflessione sul fascismo, sulla storia d’Italia, sulla socialdemocrazia e la cultura europea, sullo stato del marxismo e su altri temi di grande rilevanza politica. Ma i suoi messaggi riguardavano anche la fermezza della volontà di respingere qualunque tentativo di indurlo a fare domanda di grazia, o la ricorrente richiesta di una iniziativa dell’Urss per la sua liberazione. Su questi temi e sulla mancata liberazione rinvio al già citato volume di Angelo Rossi e mio Gra msci tra Mussolini e Sta lin . Nell’economia del discorso mi sembra utile tornare qui sull’atteggiamento di Togliatti circa la liberazione del prigioniero. Com’è noto, fino all’autunno del 1932 egli era stato protagonista dei reiterati tentativi di scambiare Gramsci. Anche in seguito ai loro fallimenti e ai sospetti accumulati da Gramsci sui comportamenti del Centro estero del partito, all’inizio del ’33 egli provò a mobilitare il governo sovietico attraverso l’ambasciata di Roma facendo chiedere da Sraffa a Togliatti di tenere fuori il partito dalla questione. Dopo l’avvento al potere di Hitler Gramsci prevedeva un ra pprochement fra Mosca e Roma, in virtù del quale Stalin avrebbe potuto chiedere a Mussolini la sua liberazione come dimo- Giuseppe Va cca Togliatti e Gramsci strazione dei nuovi e amichevoli rapporti fra i due paesi. Nel volume menzionato abbiamo ricostruito le ragioni per cui anche questa iniziativa, che fino a ottobre 1933 sembrava molto promettente, si concluse con un nulla di fatto. Richiamiamo l’episodio per sottolineare che Togliatti, dal canto suo, per tutto il ’33 e il ’34 continuò a suggerire a Gramsci di non fare affidamento sulle possibilità di liberazione e di contare piuttosto su quello che il partito italiano gli poteva garantire: il massimo impegno per migliorare le sue condizioni carcerarie, ottenere abbreviazioni della pena, accelerare la libertà condizionata e il trasferimento in luoghi di pena che gli consentissero di potersi curare. Togliatti editore delle Letter e e dei Qua der ni Subito dopo la morte di Gramsci Tania chiese a Sraffa di «mettere in ordine i manoscritti» dei Qua derni e di «mettere in valore ogni cosa, con l’aiuto di qualcuno di noi della famiglia». Inoltre, lo informava dell’intenzione di inviare attraverso il corriere diplomatico russo, i manoscritti a Giulia eseguendo il volere di Nino perché Giulia li «ritirasse [evitando] qualsiasi perdita o intromissione di chicchessia» (Sraffa 1991q, p. 260). Si può ritenere che quel «chicchessia» comprendesse anche Togliatti; infatti, dopo la morte di Gramsci partirono da Mosca due iniziative distinte per il recupero dei Qua derni : l’una, di Giulia, mirava ad entrare in possesso dei manoscritti; l’altra, di Togliatti, puntava ad assicurarli al Comintern perché confluissero nell’archivio del partito e fosse il Comintern a deciderne l’utilizzazione. Fu la sua linea a prevalere attraverso uno scontro aspro e prolungato con le sorelle Schucht che fu risolto da Stalin, alla fine del 1940, con l’affidamento a Togliatti della cura editoriale della «eredità letteraria» di Gramsci (Vacca 2005, pp. 13-22). Dalla primavera del ’38 la questione dei manoscritti di Gramsci entrò a far parte dell’inchiesta che il Comintern conduceva già da un anno sul Centro estero del partito italiano per le ragioni che abbiamo già ricordato. Per iniziativa delle sorelle Schucht si avviò quindi un’indagine sul partito italiano e su Togliatti accusati di aver sabotato la liberazione di Gramsci e, dopo la sua morte, di ostacolare la valorizzazione e la diffusione del suo pensiero. La vicenda sfociò in un vero e proprio a ffa ire politico-poliziesco, ricostruito accuratamente da Silvio Pons sulla base di una cospicua documentazione proveniente dal fondo della Segreteria di Dimitrov recuperata a Mosca nel 2003 (Pons 2004). Occupandoci qui dell’attività di Togliatti editore delle Lettere e dei Qua derni non occorre dire di più sulla vicenda, se non per aggiungere un chiarimento essenziale sull’origine dell’a ffa ire, reso possibile dal recupero di nuovi documenti, in particolare di due lettere inedite di Tania a Genia Schucht del 25 gennaio 1938 e di Genia a Tania del 16 febbraio successivo. Il nodo riguarda sempre la vexata quaestio della lettera di Grieco. Lo scambio epistolare fra le due sorelle ci permette di chiarire il modo in cui l’intenzione di Gramsci di avviare personalmente un’inchiesta sulla lettera di Grieco nel partito una volta liberato, dopo la sua morte si trasformò in un vero e proprio processo intentato da Giulia ed Eugenia Schucht contro Togliatti e contro il partito italiano. L’inchiesta si concluse con la temporanea esclusione di Togliatti dal vertice politico-decisionale del Comintern (Dimitrov 2000, p. 333) nel quale fu reintegrato solo al momento dell’invasione hitleriana dell’Urss. 11 n.20 / 2008 7 Lettera del 30 genna io 1938, inedita , Fondo Gra msci. 8 Lettera inedita , Fondo Gra msci. 9 Lettera inedita , Fondo Gra msci. 12 Come abbiamo visto, poco dopo la morte di Gramsci Tatiana aveva interpellato Sraffa circa il modo di condurre l’indagine sulla lettera di Grieco: la fine di Gramsci era giunta improvvisa e lei si sentiva investita del compito di chiarire se il partito fosse stato leale con lui (Spriano 1977 e 1988, p. 167). La risposta di Sraffa la urtò profondamente e, quasi a preannunciare l’inchiesta promossa dalle sorelle a Mosca dopo il suo rientro, Tania replicò piccata che non si trattava di «scoprire se l’intenzione [di Grieco] poteva essere buona, mentre l’azione [era] stata delittuosa», ma di «verificare con pazienza l’attività passata e presente di colui che [aveva] ispirato la lettera», cioè di Togliatti (Spriano 1977 e 1988, pp. 171-2). Poco tempo dopo Tania informò Genia dello scontro epistolare avuto con Sraffa e la investì del problema: I miei rapporti fra compagni con Piero si sono guastati a causa della mia risposta molto caustica alla sua lettera, in cui mi consigliava, per chiarire la faccenda, di recarmi semplicemente dall’autore della lettera e chiedergli spiegazioni. In risposta mi sono permessa di osservare con durezza che così, senza dubbio, non si sarebbe potuto scoprire niente, e che bisogna fare chiarezza non tanto per desiderio di vendetta o per qualsiasi altro sentimento basso, ma per un senso di dovere di fronte alla necessità di smascherare uno per uno tutti i nemici del regime sovietico […]. Quando arriverò decideremo insieme come agire7. Genia le rispose il 16 febbraio: Hai veramente ragione tu: fare come Piero consiglia non è possibile e io penso che non sia nemmeno il caso di consigliarsi con lui. Tutto deve concentrarsi qui […]. Ti chiedo fermamente: non cercare di chiarire qualche cosa là: qui tu potrai essere di molto aiuto, soltanto qui il compito che ti sei posta potrà trovare una soluzione8. Se la risposta di Tania a Sraffa mostra quanto ella fosse imbevuta della psicologia del sospetto che caratterizzava il clima del Grande Terrore, la risposta di Genia manifesta l’inclinazione ad esserne parte attiva, cioè a utilizzare i circuiti politicopolizieschi della delazione accessibili alle sorelle Schucht come esse poi effettivamente fecero nel 1939 e nel 1940. Ad ogni modo, lo scambio epistolare citato documenta il modo in cui l’inchiesta che Gramsci si proponeva di condurre nel partito dopo la sua morte divenne un’indagine del Comintern e dell’Nkvd sul partito, trasformandosi nell’affare «politico-poliziesco Gramsci-Togliatti». Ottenuto il via libera da Stalin, Togliatti si dedicò a preparare la pubblicazione delle Lettere e dei Qua derni . Delle prime aveva già fatto un regesto e «un’ampia scelta» negli anni precedenti (Daniele 2005, pp. 22-3). In seguito all’invasione tedesca e al trasferimento del Comintern a Ufa, il suo lavoro proseguì a rilento e riprese con lena dopo il rientro a Mosca nell’estate del ’43. Caduto il fascismo, la preparazione delle Lettere fu intensificata in vista della pubblicazione in Italia. Si può ritenere che alla sua partenza da Mosca, i primi di marzo del ’44, il lavoro fosse già sostanzialmente ultimato e la scelta delle lettere da pubblicare fosse già quella che vide la luce tre anni dopo9. Ma successivamente Togliatti si impegnò a fondo nel recupero delle lettere che il partito non possedeva e seguì in prima persona la lunga preparazione dell’«edizione aggiornata e accresciuta» che vide la luce nel 1965, nove mesi dopo la sua morte. Molto più complesso fu il lavoro di preparazione dei Qua derni . Avendolo ricostruito dettagliatamente in altra sede mi limito qui a ricordare che, subito dopo Giuseppe Va cca Togliatti e Gramsci la morte di Gramsci, Togliatti chiese a Sraffa di «mettere per iscritto tutto quello che Antonio» gli aveva comunicato «per la pubblicazione eventuale […] dei suoi scritti» (Spriano 1988, p. 165) e che, secondo una testimonianza di Sraffa alla Fubini risalente al 4 maggio 1965, egli aveva esposto «in una lettera tutto quello che [aveva] appreso da Gramsci sui suoi scritti». Purtroppo la lettera non ci è pervenuta e quindi non sappiamo né cosa pensava Gramsci della pubblicazione dei Qua derni , né in che misura la collaborazione di Sraffa all’edizione TogliattiPlatone, ampiamente documentata, sia stata decisiva nel determinarne i criteri e il raggruppamento dei manoscritti (Daniele 2005, pp. 16-7). Sappiamo invece che dallo studio approfondito di essi Togliatti si rese conto delle implicazioni politiche che la loro pubblicazione comportava, onde il 25 aprile del 1941 scrisse a Dimitrov: I Quaderni di Gramsci, che io ho già quasi tutti accuratamente studiato, contengono materiali che possono essere utilizzati solo dopo un’accurata elaborazione. Senza tale trattamento il materiale non può essere utilizzato ed anzi alcune parti, se fossero utilizzate nella forma in cui si trovano attualmente, potrebbero essere non utili a l pa rtito (Daniele 2005, p. 25). Questa lettera appare il vero incunabolo dell’edizione tematica del ’48-’51. Ciò non toglie che Togliatti fosse del tutto avvertito della necessità di giungere a un’edizione diacronica dei Qua derni . Il problema fu sollevato da Gastone Manacorda nel primo convegno di studi gramsciani e Togliatti accolse la sua proposta. Per suo impulso, quindi, si cominciò a studiare il progetto della nuova edizione e all’incirca nel 1960-1961 fu avviata presso l’Istituto Gramsci la preparazione dell’edizione cronologica, che vide la luce nel 1975. In fine, risale a Togliatti anche l’idea di pubblicare tutto l’epistolario di Gramsci: lo testimonia la sua lettera a Elsa Fubini del 13 gennaio 1964, nella quale scriveva: «Io posseggo […] le copie autentiche delle lettere [di Gramsci], fatte da Tania. Si tratta delle copie ricevute da noi nella emigrazione e che servirono per le prime pubblicazioni. Forse è il momento di fare anche su queste copie un riscontro. Potresti tu assumerti questo incarico? Dopo il riscontro io intendo passare queste copie all’Istituto Gramsci, perché è male che siano presso di me. Inoltre sono in mio possesso lettere autentiche di Tania ad Antonio. Anche di queste, del modo di utilizzarle e conservarle dovremo parlarne» (Daniele 2005, p. 199). L’interpretazione del pensiero di Gramsci dopo la guerra Dal ritorno in Italia fino alla morte l’azione politica di Togliatti trasse ispirazione e si sviluppò in un confronto continuo con il pensiero di Gramsci. Quindi la sua interpretazione andrebbe correlata innanzitutto alla sua opera politica. É un lavoro di grande lena, sul quale non vi sono state finora indagini adeguate. Pertanto non vi accenneremo in questa sede, così come non toccheremo il tema dell’interpretazione consegnata alla attività di editore. Non vi è maggiore interprete di un grande pensatore di colui che ne è stato il primo editore. Questo principio vale in particolar modo per Togliatti rispetto a Gramsci poiché questi non lasciò «opere», ma scritti giornalistici, lettere, interventi politici e il grande zibaldone dei manoscritti dei Qua derni . Fu dunque Togliatti a trasformare quegli scritti in Opere, costruendo, per così dire, un «autore» quale Gramsci non aveva avuto 13 n.20 / 2008 modo di essere. Tuttavia anche il compito di commentare l’edizione togliattiana dei Qua derni esorbita dai confini della relazione. Mi limiterò quindi a ripercorrere alcuni scritti di Togliatti su Gramsci, dai quali si può coglierne l’interpretazione esplicita. Essi mostrano un’evoluzione scandita non solo dal tempo, ma anche dalle circostanze politiche in cui Togliatti esplicò la sua interpretazione di Gramsci per giustificare o far progredire l’azione del Pci in Italia e nell’arena internazionale. Togliatti diede l’annuncio dell’esistenza dei Qua derni del ca rcere il 30 aprile del ’44 in un articolo de “l’Unità”, non firmato, nel quale affermava che il loro «tema principale» era una «storia degli intellettuali italiani» (Togliatti 2001, p. 94). Un anno dopo, nel Discorso su Gra msci nei giorni della Libera zione, diede notizia del loro rientro da Mosca e dell’imminente pubblicazione. Il discorso mostra una conoscenza approfondita dei manoscritti e ruota intorno a due cardini che avrebbero caratterizzato la proposta interpretativa e l’utilizzazione strategica dei Qua derni da parte del Pci. Riprendendo l’affermazione che essi contenevano soprattutto una storia degli intellettuali italiani, Togliatti anticipava l’idea che, dal punto di vista storico, la nazione italiana fosse una realtà eminentemente culturale. Quel concetto ispirò la sua relazione al V Congresso del Pci, celebrato alla fine di dicembre di quell’anno: secondo Togliatti, nel ruolo e nella funzione dei ceti intellettuali Gramsci «riconosceva e affermava esistere il tessuto connettivo della società italiana attraverso i secoli» (Togliatti 2001, p. 110; 1984, p. 183). Pertanto il Pci non solo non poteva disinteressarsi di loro, ma intendeva anche farne un cardine del rinnovamento della società italiana. A tal fine doveva sconfiggere l’egemonia della cultura idealistica facendo dei Qua derni la base dell’«anti Croce». Il discorso fu tenuto a Napoli e forse anche per questo Togliatti metteva una particolare enfasi su questo punto. Ma, com’è noto, «l’anti Croce» caratterizzò la politica culturale del Pci fino al 1956 (Liguori 1996, pp. 53-86). Tuttavia, l’aspetto più importante di quella interpretazione risiede, a mio avviso, in due criteri che ispirarono la costruzione del «partito nuovo»: la scelta del metodo storico come base dell’autonomia culturale e della strategia politica del partito; il disegno di un partito di massa di dimensioni inaudite, il tratto saliente del quale non era tanto la rappresentatività sociale o la capacità di mobilitazione, quanto l’azione politica volta a mutare molecolarmente i rapporti fra intellettuali e popolo (Togliatti 2001, pp. 110-2). Il discorso pronunciato all’Università di Torino nell’aprile del 1949 è il primo in cui Togliatti si sia espresso sul pensiero filosofico di Gramsci. É un testo raffinato ed evocativo, ricco di suggerimenti sulla formazione intellettuale del giovane Gramsci di sapore anche autobiografico. In esso Togliatti traccia uno schema delle correnti ideali presenti nell’Italia del primo Novecento, della crisi della cultura positivistica e della rottura del rapporto fra il socialismo e gli intellettuali, dell’impatto della Grande Guerra sulla cultura idealistica, dei contrasti fra Croce e Gentile, e dell’affermarsi delle nuove correnti irrazionalistiche nella filosofia, nell’arte e nella politica. Al centro del discorso, la frattura fra intellettuali e popolo, generatrice della crisi della società italiana da cui sarebbe scaturito il fascismo. É un affresco che riecheggia le note dei Qua derni e tornerà d’ora in poi, sostanzialmente immutato, nei più importanti scritti successivi su Gramsci e sulla storia della cultura italiana. Rispetto agli scritti precedenti, il Gramsci del 1919-1926 14 Giuseppe Va cca Togliatti e Gramsci è collocato sullo sfondo e, d’ora in avanti, Togliatti porrà al centro dell’attenzione il Gramsci dei Qua derni . Con un understa tement tipico dei pochi riferimenti al suo rapporto con Gramsci, Togliatti segnala l’importanza dell’azione da lui svolta per metterne in salvo e pubblicarne i quaderni; inoltre propone come chiave di lettura della revisione gramsciana del marxismo due canoni della filosofia della praxis: il concetto di storicità delle ca tegorie e quello di rea ltà delle ideologie (Togliatti 2001, pp. 131-50). Ma, come abbiamo detto, l’interpretazione esplicita di Gramsci, in cui Togliatti si cimenta nel corso degli anni, è fortemente condizionata dalle circostanze politiche e dal suo ruolo di leader del comunismo italiano e internazionale. Ecco, dunque, che nel periodo più acuto della guerra fredda, invitato da Casa Laterza a tenere una conferenza su Gra msci, ideologo dell’a ntifa scismo (il 23 marzo 1952 a Bari), egli propone una lettura dell’analisi gramsciana del fascismo che fa della crisi Matteotti il momento cruciale in cui l’interpretazione del fascismo e la strategia dell’antifascismo si fondono nella lotta del Pci per la creazione dello Stato democratico. Piegato alle necessità di resistere alla doppia offensiva che si esercita sulla «via italiana al socialismo», quella dell’«oltranzismo atlantico» e quella del Cominform, Gramsci viene presentato come l’antesignano della strategia democratica del Pci e il suo antifascismo viene definito una «dottrina del rinnovamento della nazione italiana» (Togliatti 2001, pp. 165, 166, 175-6, 178). Il legame fra Gramsci e la «via italiana al socialismo» sarà ribadito anche in seguito per legittimare la continuità storica del partito dando luogo all’invenzione di una tradizione (Togliatti 1966, II, pp. 183-90). Ma dal 1956 l’interpretazione del suo pensiero si slarga e si arricchisce di temi e motivi più distanziati dall’utilizzazione politica immediata. Il suo percorso è iscritto nelle oscillazioni e negli aggiustamenti con cui Togliatti fronteggia gli effetti dirompenti della crisi del ’56. Le innovazioni introdotte nella strategia e nell’organizzazione del partito procedono con cautela. Il paradigma è il «rinnovamento nella continuità» e Togliatti schiera il partito su una interpretazione del XX Congresso del Pcus volta a valorizzare la strategia democratica inaugurata nel ’44-’45, ma al tempo stesso a rinnovare il mito dell’Urss enfatizzandone le capacità di autoriforma. Celebrando Gramsci nel ventesimo anniversario della morte, Togliatti ne fa il precursore delle «vie nazionali» e del XX Congresso. Ma va messo nel conto che il discorso è pronunciato in una seduta congiunta del Comitato Centrale e della Commissione Centrale di Controllo. Non devono quindi passare inosservate le novità che, malgrado la circostanza, egli introduce nell’interpretazione di Gramsci. La più significativa ci pare la periodizzazione dello svolgimento del suo pensiero che colloca negli scritti del 1914-1918 i tratti originari del marxismo di Gramsci per collegarli poi direttamente ai Qua derni come luogo del loro compiuto svolgimento. L’impianto della celebrazione è sotteso dalla presentazione del XX Congresso come ritorno a Lenin per depurare il comunismo sovietico dalle «deformazioni» staliniane. Tanto più significativo appare, quindi, il fatto che, pur annettendo Gramsci all’operazione, Togliatti metta la sordina sugli anni della sua più stretta adesione agli schemi del bolscevismo e faccia un salto dal 1918 al 1930. Il richiamo al leninismo di Gramsci mostra quindi una singolare ambivalenza poiché, proprio sul punto di precipitazione del pensiero politico di Lenin, la concezione del partito, Gramsci marcherebbe una novità con la conce- 15 n.20 / 2008 10 Sul va lore e i limiti dell’Intervista cfr. Va cca (2006, pp. 101-108) e Spa gnolo (2007, pp. 100-127). 16 zione dell’«intellettuale collettivo». La formula evidenzia una significativa discontinuità fra Gramsci e Lenin: L’insegnamento di Gramsci a questo proposito si innesta direttamente in quello di Lenin, ma ha una sua forma propria, originale, che gli è data dalla dottrina del partito come intellettuale collettivo, e che tende ad essere una completa teoria della politica (Togliatti 2001, pp. 207, 198-199, 204). La formula è di Togliatti, non di Gramsci. Divenuta, da allora, il principale slogan identitario del Pci, negli enunciati di Togliatti mira a distinguere partito e Stato, criticando alla radice il modello bolscevico di «dittatura del proletariato». Togliatti chiarirà ulteriormente il significato della sua formula in uno degli ultimi scritti dedicati a Gramsci, la recensione all’antologia einaudiana de «L’Ordine Nuovo» settimanale, curata da Paolo Spriano, del gennaio 1964. Il Pci era impegnato ancora una volta in una lotta su due fronti: la ripresa vigorosa del pansindacalismo alimentata anche dalle lotte operaie dei primi anni Sessanta e il pericolo di emarginazione originato dal centro-sinistra «organico». La cultura socialdemocratica rilanciava l’accusa di «totalitarismo» alla concezione gramsciana del partito. Per respingerla Togliatti ricorreva per la prima volta alle note dei Qua derni dedicate alla critica del regime di partito unico perfezionatosi nell’Urss staliniana. Al tempo stesso, per indicare il fondamento della distinzione fra partito e Stato in Gramsci, commentava la formula dell’«intellettuale collettivo» affermando che «il principe di Gramsci è la coscienza avanzata dell’umanità, che vuole affermarsi come dirigente di tutto il processo della storia» (Togliatti 2001, pp. 301-4). Come dire che per Gramsci il partito politico è e deve rimanere un organismo della società civile, dove promuove la formazione di una «volontà collettiva» che, per assolvere una funzione dirigente del processo storico, attinge continuamente agli sviluppi dell’intelletto filosofico e scientifico mondiale. A sua volta il partito comunista è un organismo che, operando sul terreno eminentemente nazionale e interpretandone i nessi con la storia internazionale, concorre a guidare il processo di unificazione del genere umano che progredisce attraverso gli sviluppi della cultura e della scienza. Negli appunti per la relazione al primo convegno di studi gramsciani, che si svolse un anno dopo, quell’ambivalenza appare ancora più marcata. Lo sforzo di collocare i Qua derni nel solco del leninismo spinge Togliatti ad iscrivere la strategia del «socialismo in un paese solo» nella categoria della «guerra di posizione» per suggerire l’idea che, riconosciuta la sconfitta della classe operaia europea, Gramsci in carcere aderisse tout court alla politica di Stalin. L’intento di nascondere lo scontro del ’26 appare evidente. Al tempo stesso la declinazione del concetto di egemonia non consente a Togliatti di ignorare che l’Urss staliniana è catalogata da Gramsci come una «forma estrema di società politica», cioè di dittatura basata sulla compressione della società civile. Appare evidente, quindi, il tentativo di contenere le categorie più innovative dei Qua derni nei confini della critica dello stalinismo impostata nell’Intervista a «Nuovi Argomenti»10. Ciò non toglie che Togliatti introduca una innovazione metodologica fondamentale per il loro studio. L’edizione tematica e la limitazione dell’epistolario alle sole lettere di Gramsci avevano generato una radicale scissione fra teoria e biografia nella prima recezione del suo pensiero. Ora Togliatti ribaltava il paradigma e proponeva come solo criterio valido per lo studio dei Qua derni la ricostruzione più Giuseppe Va cca accurata possibile della biografia politica di Gramsci anche negli anni della detenzione. Egli affermava che «l’unità della vita di Antonio Gramsci, il punto di partenza e il punto di arrivo» era da ricercarsi «nella politica». Da questa affermazione Togliatti faceva discendere la proposta di una nuova ermeneutica dei Qua derni : Tutta l’opera scritta da Gramsci dovrebbe essere trattata partendo da [questa] considerazione, ma è compito che potrà essere assolto soltanto da chi sia tanto approfondito nella conoscenza dei momenti concreti della sua azione da riconoscere il modo come a questi momenti concreti aderisca ogni formulazione e affermazione generale di dottrina. Inoltre Togliatti aggiungeva di non escludere che «alcune note» dei Qua derni «fossero dettate da preoccupazioni destate in lui da frammentarie notizie giuntegli circa l’orientamento e l’attività del partito comunista dopo il suo arresto» (Togliatti 2001, pp. 213-5). Egli dunque suggeriva di indagare sui rapporti di Gramsci col partito anche negli anni della detenzione e avanzava la proposta di una nuova filologia che sarebbe stata in parte accolta solo venti anni dopo, da Paolo Spriano, con la pubblicazione di Gra msci in ca rcere e il pa rtito. La relazione che Togliatti tenne al primo convegno di studi gramsciani (gennaio ’58) ricalcava gli appunti preparatori e, in quanto discorso pubblico, dava ampio spazio alla polemica contro le contestazioni neo-consiliari del «gramscismo» sviluppate dagli intellettuali raccolti intorno alla rivista «Ragionamenti» e contro Rosario Romeo, che aveva addebitato a Gramsci una interpretazione del Risorgimento come «rivoluzione agraria mancata»11. Come ha osservato Guido Liguori, in quella sede Togliatti correggeva anche l’affermazione fatta negli appunti precedenti che l’impostazione del saggio sulla «quistione meridionale» fosse di derivazione esclusivamente «leninista» e dava conto dell’influenza che la scuola economico-giuridica e soprattutto Salvemini avevano esercitato sulla formazione del Gramsci «meridionalista» (Liguori 1996, p. 102). Ma forse il punto più significativo della sua polemica era quello che riguardava Romeo. Togliatti obiettava che nelle note sul Risorgimento Gramsci si era proposto di comprendere le ragioni per cui i moderati erano riusciti a imporre la loro egemonia ai democratici e non di rimproverare loro di aver mancato il compito di promuovere una riforma agraria radicale. Tuttavia evitava di menzionare il concetto di «rivoluzione passiva», con il quale Gramsci aveva specificato la formazione dello Stato unitario evidenziando il carattere duraturo del «blocco storico» risorgimentale. É arduo pensare che quel concetto, complementare di quelli di «guerra di posizione» e di «egemonia», gli sfuggisse. Si può affacciare l’ipotesi che egli fosse consapevole del fatto che nello sviluppo dei Qua derni la nozione di «rivoluzione passiva» assumeva il carattere di una interpretazione di intere epoche della storia mondiale e si estendeva anche all’epoca successiva alla Grande Guerra e alla Rivoluzione d’ottobre. Essa dunque implicava un giudizio di subalternità dell’Urss staliniana – in quanto forma «economico-corporativa» di «Stato operaio» - (Vacca 1999, pp. 213-6) nella storia mondiale fra le due guerre. Essendo la categoria basilare dell’ermeneutica storica dei Qua derni , una volta tirato in ballo il concetto di «rivoluzione passiva» non avrebbe potuto restare confinato all’interpretazione del Risorgimento. Si può quindi pensare che Togliatti lo tacesse di proposito per non consentire l’apertura di varchi pericolosi nello Togliatti e Gramsci 11 Per la contestua lizza zione del testo nel diba ttito su Gra msci 1956-1958 cfr. Liguori, (1996, n. 7, pp. 91-107). 17 n.20 / 2008 12 Sull’ultimo Toglia tti cfr. Va cca (1991, l’ultimo ca pitolo) e Spa gnolo (2007). schema del Gramsci «leninista» da lui foggiato nel ’56-’58. Infatti quattro anni dopo, in una stagione caratterizzata da riflessioni molto più approfondite sulla crisi del comunismo internazionale12, il concetto di «rivoluzione passiva» venne impiegato da Togliatti per sviluppare una replica compiuta alle posizioni di Rosario Romeo (Togliatti 1964). In questa fase si colloca l’ultimo scritto di Togliatti su Gramsci, la recensione all’antologia mondadoriana 2000 pa gine di Gra msci curata da Giansiro Ferrata e Niccolò Gallo. Togliatti l’aveva incoraggiata e favorita anche con la pubblicazione, su «Rinascita», della lettera di Gramsci al CC del Pcr del 14 ottobre del 1926 (Daniele 2005, pp. 52-3). La recensione, significativamente intitolata Gra msci, un uomo, apparve nel supplemento libri di «Paese Sera» il 19 giugno del 1964. In essa Togliatti distingueva decisamente la figura di Gramsci dalla vicenda del suo partito per indicare nella sua azione e nel suo pensiero un crocevia della cultura mondiale «nel quale tutti i problemi del nostro tempo sono presenti e s’intrecciano» (Togliatti 2001, pp. 309-10). Alla fine del suo travagliato percorso, dunque, l’immagine di Gramsci che Togliatti proponeva era quella di un classico del Novecento. 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Scritti in onore di Giulia no Proca cci , Carocci editore, Roma 19 Fra ncesca Izzo Gramsci e Machiavelli Focus: Antonio Gramsci La prima metà del ‘900 può essere considerata un nuovo “momento machiavelliano” per l’intenso interesse che molti intellettuali europei manifestarono per il Segretario fiorentino, specie in Germania e in Italia, dove “il problema della formazione dello Stato si pose al centro della lotta sociale e politica” (Paggi 1984, p. 388). La crisi dello ius publicum europeum, esplosa con la serie di eventi che si snodano dalla I guerra mondiale alla Rivoluzione d’ottobre, dalla avanzata dei fascismi alla fine dell’egemonia mondiale dell’Europa, riproponeva con urgenza il tema dell’ordine politico, al di là della sua moderna incarnazione nello Stato. E per questa via la lezione del Machiavelli, il primo teorico della politica dei tempi nuovi, diveniva di stringente attualità, sotto il duplice profilo della riconsiderazione della genesi della modernità e della natura e del destino della politica nel presente storico. Da Mosca a Croce, da Meinecke a Schmitt e a Horkheimer, da Gentile a Mussolini, a Gobetti, per non parlare della storiografia machiavelliana dei Russo, degli Ercole, degli Chabod, Machiavelli circola, dunque, nel pensiero europeo ed italiano, come in pochi altri momenti storici. Eppure non credo di sbagliare se, nel quadro di questa diffusa presenza e rinnovato mito del Segretario, considero il Machiavelli dei Qua derni del ca rcere un caso a sé. In nessuno dei tanti pensatori, che hanno stabilito con la sua opera un intenso e diuturno scambio, si può notare una incidenza così pervasiva ed essenziale, come accade nell’opera di Gramsci. Nelle note carcerarie la sua figura assurge a metafora 20 della genesi e della struttura dello Stato-nazione moderno (dal declino degli istituti feudali del Papato, dell’Impero e del Comune alla na ziona lizza zione degli intellettuali) che Gramsci veniva elaborando. E, per questa via, egli diviene un modello, se non il modello, che si affianca a Lenin, del filosofo della prassi, ovvero dello scienziato della politica che traduce in impulso all’azione la sua teoria e che trae dalla sua prassi concetti teorici. Al di là di rigorosi criteri storici e filologici, Gramsci concentra nell’opera del Segretario fiorentino la morfologia dell’intera epoca moderna, e si ispira alle categorie machiavelliane per fissare gli elementi di una nuova fa se della modernità poststa tua le (il moderno Principe). La forte coloritura teorica della figura storica di Machiavelli non impedisce però a Gramsci di accostarsi alla sua opera così come in quel tornante della storia d’Europa veniva recepita e discussa. “Mi ha colpito il fatto come nessuno degli scrittori sul centenario abbia messo in relazione i libri del Machiavelli con lo sviluppo degli Stati in tutta Europa nello stesso periodo storico.Deviati dal problema puramente moralistico del cosiddetto “machiavellismo” non hanno visto che il Machiavelli è stato il teorico degli Stati nazionali retti a monarchia assoluta, cioè che egli, in Italia, teorizzava ciò che in Inghilterra era energicamente compiuto da Elisabetta, in Ispagna da Ferdinando il Cattolico, in Francia da Luigi XI e in Russia da Ivan il Terribile, anche se egli non conobbe e non poté conoscere alcune di queste esperienze nazionali, che in realtà rappresentavano il problema storico dell’epoca che il Machiavelli ebbe la genialità Fra ncesca Izzo di intuire e di esporre sistematicamente” (Lettera a Tania del 14-11-1927, LdC, 1965, pp. 145-6). Da questo fondamentale nodo interpretativo prende avvio la rielaborazione gramsciana del “problema Machiavelli”. Nella sua critica del “machiavellismo”, ovvero della riduzione di Machiavelli a teorico della Realpolitik e dello Stato-potenza, Gramsci si riallaccia alla interpretazione “democratica” di De Sanctis che fa del Segretario l’eroe borghese della nazione moderna , e il creatore dello spirito moderno all’interno di quel vero e proprio snodo ideologico rappresentato dal nesso Rinascimento-decadenza dell’Italia. L’interpretazione di De Sanctis è nota: le grandi conquiste delle scienze e delle arti si accompagnano ad una corruzione della coscienza morale, religiosa e civile, il cui prototipo è “l’uomo del Guicciardini”. L’intellettuale borghese italiano era preda, russoianamente, di uno scarto tra intelligenza e moralità; mentre Machiavelli si distingueva per l’utopistico tentativo di sottrarsi a questo destino, per lo sforzo (vano) di voler unire ragione e passione, scienza e vita, allo scopo di edificare lo Stato italiano. Gramsci rimane debitore dell’impianto desanctisiano, ma, per il fatto stesso che la sua prospettiva non ha più lo stato come unico orizzonte storico, come era per De Sanctis, l’analitica muta profondamente, determinando risultati che si riflettono sullo stesso profilo di Machiavelli. In Gramsci, il tema Rinascimento - decadenza italiana - cosmopolitismo, fondamentale anche per l’elaborazione del concetto di nazionale-popolare, si inscrive in una visione che ha già metabolizzato la crisi della forma statale. Egli stende le note dei Qua derni a partire dal dato acquisito che la scena mondiale non è più dominata dall’Europa e che gli Stati Uniti e l’URSS ne sono divenuti i nuovi soggetti; anzi, la convinzione di Gramsci, espressa nelle note più tarde, è che egemone sia l’americanismo, la formazione economico-sociale capitalistica più adeguata ad una civiltà democratica poststatuale. L’Europa ha perduto la sua egemonia e il suo dominio, con la crisi del principio politico che l’ha formata, lo Stato e che le ha consentito di conquistare il mondo e di mantenerne gran parte in una Gramsci e Machiavelli condizione di permanente minorità. Il processo si è pienamente manifestato quando, da un lato, gli Stati Uniti sono intervenuti nel conflitto intereuropeo e nelle decisioni sugli assetti del dopoguerra e dall’altro si è consumato lo scisma della Russia. Di fatto un frammento della civiltà europea si separava violentemente sulla base dell’assunto che la forma statuale non era più in grado di espandere il suo principio ispiratore democratico, e che non unificava più, anzi lacerava e divideva la stessa umanità europea sino alla guerra e alla brutale dominazione. Gramsci aveva profondamente introiettato questa cesura storica, quando si era schierato, con la fondazione del partito comunista e l’adesione all’Internazionale comunista, per lo scisma sovietico e per l’affermazione di un diverso principio di unificazione del mondo, contro la II Internazionale che rimaneva inscritta nella forma storica dello stato di cui invocava solo la riforma, ritenendolo ancora veicolo e strumento di civiltà sul piano mondiale. Ciò non toglie, però, che, fin dal ’26 e poi con sempre maggiore lucidità e consequenzialità, Gramsci considererà fallita quella rottura, dal momento che l’Ottobre era sfociato nella territorializzazione dei Soviet e nel ripiegamento dell’Internazionale Comunista a sola difesa degli interessi statuali dell’URSS. Occorre tenere presente questo quadro dell’epoca e delle sue sfide per intendere la prospettiva storica nella quale Gramsci colloca la sua lettura di Machiavelli, soprattutto per intendere la portata e i limiti del concetto di nazionale-popolare. Il processo di sviluppo dello Stato consiste, per Gramsci, nella na ziona lizza zione del territoria le, ovvero in quel complesso di eventi che si condensano, per un verso, nella rivoluzione scientifico-filosofica moderna che spezza il monopolio culturale cosmopolitico della Chiesa cattolica e dell’umanesimo imperiale e, per l’altro, nel diverso rapporto tra città e campagna, che, con la iniziale formazione di un esercito non più mercenario, esprime la nascita di un nuovo blocco storico urbano-rurale. La dimensione “territoriale”(nazionale-popolare),propria dello Stato, è dunque frutto di due processi interconnessi ma distinti: l’uno è rappresentato dall’egemonia della città sulla campagna (dal 21 n.20 / 2008 superamento della fase economico-corporativa del comune medievale, per quanto riguarda la storia particolare dell’Italia mentre, per quanto riguarda il resto dell’Europa, dall’alleanza della corona con i ceti borghesi contro l’aristocrazia feudale); l’altro è costituito dall’ “andata al popolo” dei ceti intellettuali, dal loro distacco dalle funzioni cosmopolite dell’Impero e del Papato. L’andata al popolo coincide con la Riforma religiosa e solo l’unione di Riforma e Rinascimento costituisce il vero passaggio alla nuova epoca storica. Nell’idea gramsciana di nazione la presenza del “religioso” viene dunque ad assumere un ruolo essenziale, anzi ciò che le dà forma è proprio l’incontro tra il “filosofico” delle classi dirigenti intellettuali e il “religioso” popolare, un “religioso” che però sia stato percorso dall’anelito della libertà. Il pieno recupero della storicità di Machiavelli, in polemica con il machiavellismo, sfocia nella sua stilizzazione prototipica del processo di nazionalizzazione e a Machiavelli, simbolo dello Stato-nazione, nei Qua derni Gramsci contrappone Cesare, figura, a propria volta, simbolo della tendenza cosmopolitica , risultata poi storicamente vincente in Italia. Ma storicizzare l’opera machiavelliana, calandola nell’epoca della formazione degli Stati nazionali, comporta fare i conti con lo scarto tra la folgorante modernità del suo pensiero e il contesto di decadenza e di crisi politica ed intellettuale nelle quali è piombata la penisola, la “corruttela italiana”. De Sanctis (ed anche Russo) legge questo scarto nella tensione utopica che segnerebbe il Principe e Croce si appella all’estetismo machiavelliano, al suo “amore dell’arte per l’arte”, mentre Gramsci lo risolve nella visione unitaria della genesi del “mercato determinato” e degli Stati nazionali, nel rapporto Italia e Europa. Il Machiavelli che emerge dai Qua derni non ha il profilo né dell’utopista, né dell’artista, bensì del teorico rea lista , dello scienziato della costituzione degli Stati assoluti europei. Attraverso Machiavelli, Gramsci colloca la “quistione della nazione italiana”, con sempre maggiore consapevolezza teorica e profondità analitica, nel quadro di un’analisi differenziale del processo di fusione tra economia (mercato capitalistico) e 22 politica (Stati nazionali) e di formazione del blocco storico borghese che segna l’intera epoca moderna, fino al pieno manifestarsi della sua crisi con la Prima guerra mondiale. Su questa base diventa possibile applicare il criterio gnoseologico della traducibilità dei linguaggi che Gramsci ricava dal Marx della Miseria della filosofia dove era utilizzato per dar conto della reciproca implicazione della filosofia classica tedesca e della rivoluzione francese e quindi della reciproca convertibilità di filosofia e politica. Grazie ad esso, Machiavelli diventa, nella lettura di Gramsci, il filosofo che, dalle città-stato italiane in rovina, è in grado di enunciare i principi dell’autonomia della politica (sperando di applicarli anche all’Italia), proprio perché in Francia, in Spagna ed Inghilterra una borghesia non economico-corporativa ma egemonica stava praticamente costruendo un’istituzione sovrana, non più dipendente, come le altre istituzioni feudali, dal Papato e dall’Impero. Gramsci vede nel Segretario fiorentino prendere forma una nuova filosofia che nasce da un’integrale autonomia della politica: il Principe machiavelliano è il Centauro, unione di forza e consenso, di coercizione e di morale, di disciplina e religiosità. La politica si presenta non come sfera distinta e subordinata, ma come principio unitario di una nuova concezione del mondo integralmente storica. Ma nel momento stesso in cui riconosce in Machiavelli il primo filosofo della prassi, la figura che anticipa come “politico in atto” Marx, egli indica l’incompiutezza, la fragilità della sua opera, incompiutezza e fragilità che sono di Machiavelli nella misura in cui sono di un’intera epoca storica. Sul terreno dell’immanenza, sul quale è costruito lo Stato moderno, si è rivelato impossibile diffondere la nuova cultura. Di qui, per Gramsci, la degenerazione dello Stato-nazione (strutturalmente democratico) in Stato-potenza, sino al nazismo e al fascismo che, nell’esplosione della crisi organica dello Stato, punta al “volontariato” della nazione per ricostituirne artificiosamente e autoritariamente l’unità. Si è aperta, dunque, una più alta contraddizione che il moderno Principe è chiamato ad affrontare. Il compito che gli si para dinnanzi richiede l’elaborazione di un’egemonia, sul piano globale, della città sulla campagna (il moderno Fra ncesca Izzo cosmopolitismo connesso all’americanismo) e di una riforma intellettuale e morale ovvero un’etica conforme di massa, ciò che né lo Stato etico hegeliano ha potuto affrontare e neppure la “religione della libertà” crociana. E che la chiusura territoriale della rivoluzione dell’Urss staliniana ha lasciato sostanzialmente cadere. Sollevando il tema, così denso, della riforma intellettuale e morale di massa, Gramsci è ben consapevole di affermare l’esistenza, nell’epoca post-statuale, di una questione religiosa irrisolta e di una lotta egemonica tra metafisica e storicismo sul terreno del “religioso”. Quindi, rispetto all’impianto desanctisiano, il tema deca denza -cosmopolitismo è declinato con tutt’altra ottica. De Sanctis interpreta Machiavelli e la storia d’Italia alla luce di una prospettiva storica nella quale lo Stato sovrano è ancora il soggetto indiscusso della politica mondiale e il ritardo nella formazione dello Stato prolunga i suoi effetti nella debolezza del Regno d’Italia, nella scarsa autonomia della sua politica estera, nel deficit di sovranità nei confronti delle grandi potenze europee. Mentre in Gramsci , come si è già accennato, il tema Rinascimento -decadenza italiana -cosmopolitismo, è declinato in una forma che ha già scontato la crisi dello Stato. é vero che Machiavelli è innalzato a simbolo del nazionale-popolare, cioè del momento originario in cui si manifesta la radice democratica dello Stato territoriale. Ma nei Qua derni a Machiavelli si accompagna e si contrappone la figura di Cesare, incarnazione di un’altra epoca storica e della sua articolazione cosmopolitica. Cesare è colui al quale risalire per intendere le radici profonde del destino cosmopolitico, di lunga durata, dell’Italia e del ritardo e fragilità dello Stato unitario. Se per tutta l’epoca moderna Machiavelli è l’incarnazione categorica dello Stato-nazione, con lo sviluppo e l’unificazione del mercato mondiale il suo posto viene occupato da Cesare e dal cosmopolitismo di stampo moderno. Nel cuore della crisi seguita alla I guerra mondiale, il rapporto tra nazionale e cosmopolitico tende a rovesciarsi poiché il quadro dell’epoca non è più dominato dallo Stato nazione, quale soggetto esclusivo dello sviluppo storico. Gramsci e Machiavelli Nel Q. 6 Gramsci espone i termini generali in cui si manifesta la crisi: “già oggi si verifica nel mondo moderno un fenomeno simile a quello del distacco tra “spirituale” e “temporale” nel Medio Evo….gli intellettuali tradizionali, staccandosi dal raggruppamento sociale al quale avevano dato finora la forma più alta e comprensiva e quindi la coscienza più vasta e perfetta dello Stato moderno, in realtà compiono un atto di incalcolabile portata storica: segnano e sanzionano la crisi statale nella sua forma decisiva” Il distacco degli intellettuali, principali agenti della nazionalizzazione del territoriale mediata dalla forma dello stato, costituisce il segnale più evidente dello scollamento tra nazione e Stato e l’indice, ancora disorganico e pulviscolare, di nuove possibili aggregazioni. La ricerca di Gramsci è orientata a cogliere queste possibilità all’interno della contraddizione “fondamentale” che vede aprirsi negli sviluppi della crisi post-bellica. In un brano assai noto e analizzato di recente da studiosi che ne hanno sottolineato l’ispirazione originale nel contesto degli anni ’30, egli scrive “Tutto il dopoguerra è crisi…Per alcuni (e forse non a torto) la guerra stessa è una manifestazione della crisi…Una delle contraddizioni fondamentali è questa: che mentre la vita economica ha come premessa necessaria l’internazionalismo o meglio il cosmopolitismo, la vita statale si è sempre più sviluppata nel senso del “nazionalismo”, “del bastare a se stessi” ecc. Uno dei caratteri più appariscenti della “attuale crisi” è nient’altro che l’esasperazione dell’elemento nazionalistico( statale nazionalistico) nell’economia” (Q.15, pp.1755-6). [Nota: Sull’originale posizione di Gramsci nel panorama degli anni Trenta si è soffermato in diversi saggi M.Telò, tra i più recenti segnalo Note sul futuro…(1999), in particolare le pp.52-56., mentre sul tema della crisi va visto G.Vacca (1999)]. La tradizione italiana, che nella lunga fase storica segnata dall’esclusivo dominio della forma statale, aveva contribuito a relegare il paese ai margini dello sviluppo storico appare ora in singolare sintonia con la nuova struttura del mondo: nazione e cosmopolitismo non divergono più, anzi il cosmo- 23 n.20 / 2008 politismo risulta essere una risorsa della nazione italiana nel nuovo contesto storico. “Il popolo italiano è quel popolo che “nazionalmente” è più interessato ad una moderna forma di cosmopolitismo [in questa stesura del ’35 il termine cosmopolitismo sostituisce quello di “internazionalismo”]… Collaborare a ricostruire il mondo in modo unitario è nella tradizione del popolo italiano, della storia italiana… si può dimostrare che Cesare è all’origine di questa tradizione… La “missione” del popolo italiano è nella ripresa del cosmopolitismo romano e medioevale, ma nella sua forma più moderna ed avanzata” (Q.19, p. 1988). Ed ecco ritornare la figura di Cesare, non più simbolo della inadeguatezza dell’Italia a ricoprire il ruolo di un forte Stato nazionale europeo ma cifra simbolica di una nuova collocazione dell’Italia in un mondo aperto al cosmopolitismo. La figura di Cesare incarna la doppia funzione del cosmopolitismo: da fenomeno negativo che aveva impedito il formarsi di un nesso nazionale-popolare in Italia, con la separazione delle funzioni intellettuali dalle masse popolari, il cosmopolitismo diventa una risorsa perché consente di affrontare la contraddizione dell’epoca, racchiusa per Gramsci nel contrasto tra un mercato mondiale tendenzialmente unificato e dimensione statale nazionale della politica. A condizione però che sia di tipo nuovo, che non smarrisca il lascito prezioso dello Stato nazionale, la grande eredità dell’epoca moderna: il legame tra funzioni intellettuali e popolo, la radice unificante di ragione e vita che è al cuore della modernità. Il cosmopolitismo liberale -sia nella versione wilsoniana che lo affida alla spontaneità del mercato che nella versione dei chierici europei a u dessus de la melée, per i quali vale l’unità dello spirito, della cultura al di sopra delle divisioni delle masse irrazionali e facili preda di ideologie “religiose” - risulta assolutamente inadeguato ad affrontare il nodo storico della tendenziale unificazione del mondo. L’originale sforzo teorico di Gramsci mira, in un quadro storico-concettuale dominato dal giudizio sull’americanismo in termini di rivoluzione passiva, a ritradurre l’idea di comunismo e di internazionalismo che era al fondo della sua adesione alla 24 Russia dei Soviet, in una versione del cosmopolitismo che conservi in sé e sviluppi la radice democratica dello Stato moderno. Un cosmopolitismo democratico, è questa, a mio avviso, l’idea del comunismo che circola nei Qua derni . II)Machiavelli scienziato o uomo appassionato, politico in atto? Si tratta del discusso rapporto dell’invocazione finale con le restanti parti del Principe che allude al tema della relazione teoria -prassi , scienza –politica, per un verso, e per l’altro al nesso di logica e passione e alla loro fusione nel “mito politico” e nel moderno Principe. “Il carattere fondamentale del Principe è quello di non essere una trattazione sistematica ma un libro “vivente”, in cui l’ideologia politica e la scienza politica si fondono nella forma drammatica del “mito”… Anche la chiusa del Principe è legata a questo carattere “mitico” del libro:dopo aver rappresentato il condottiero ideale il Machiavelli con un passaggio di grande efficacia artistica , invoca il condottiero reale che storicamente lo impersoni:questa invocazione appassionata si riflette su tutto il libro conferendogli appunto il carattere drammatico” (Q. 13, p.1555). Come è possibile questa unione, che suona “blasfema” alle orecchie dei filosofi e degli scienziati che, come Croce o Weber , ritengono che la scienza e la politica si ispirino a “demoni” distinti e inconciliabili? Nel cercare di definire la peculiare natura del Principe, Gramsci si rifà di nuovo al modello della filosofia della prassi, ovvero al parallelo con Marx. Come Marx, Machiavelli fonde in sé e nella propria opera la passione, l’appartenenza ad una parte politica, con la ragione, conoscenza obiettiva e “spassionata” delle cause e degli effetti delle cose. Questa giunzione è giustificata, nel caso del Segretario, dall’essere egli il teorico dello Stato allorché questo sta per divenire il soggetto di un’intera epoca storica, mentre, nel caso di Marx, la giustificazione è data dal criterio della storicità applicata alla stessa concezione materialistica della storia, da un atto di autostoricizzazione che Fra ncesca Izzo dovrebbe impedire ogni torsione ideologica e totalizzante. Come Marx del Ma nifesto, Machiavelli ha scritto un’opera scientifica, ma non “libresca”, programmaticamente volta a mobilitare, a spingere all’azione; in essa è sviluppata un’analisi della realtà, non puramente teoretica, ovvero contemplativa del dato obiettivo, bensì consapevolmente costruita sul presupposto della modificabilità dell’oggetto, della sua trasformazione. Anche Machiavelli ha scritto un “manifesto di partito” L’interpretazione della figura del Segretario come “politico in atto” porta Gramsci ad approfondire, in due paragrafi del Q.13 di grande rilevanza filosofica, i fondamenti della sua interpretazione del marxismo in termini di filosofia della prassi, ovvero della traducibilità di storia, filosofia e politica. Gramsci può sostenere che Machiavelli è insieme un teorico e un politico, uno scienziato politico (nesso teoria-prassi) in quanto fa valere, sul piano filosofico, una determinata concezione della realtà che rifiuta la scissione(ribadita invece da Croce e Weber) tra l’essere e il dover essere, tra fatto e valore. Nella visione che egli sinteticamente espone la realtà (l’essere) non sussiste isolata nella sua obiettiva trascendenza(necessità), mentre il dover essere si configura come la più o meno fondata opzione di valore del soggetto (libertà), assolutamente indipendente dalla costituzione obiettiva dell’oggetto conosciuto. Secondo le filosofie della scissione, si è tanto più liberi quanto più si prescinde dai condizionamenti materiali e passionali. Per Gramsci, al contrario, il nesso tra essere e dover essere è dialettico e incardinato nella “struttura” della realtà, e la libertà del soggetto è tanto maggiore quanto più storicamente determinata. Attraverso Machiavelli, egli mette a punto uno degli aspetti fondamentali della sua concezione della filosofia della prassi, ricavato direttamente dalla rilettura delle Tesi su Feuerba ch,( interpretazione-trasformazione della realtà, rapporto tra oggettività e soggettività). Il politico in atto è il vero filosofo in quanto coglie (e vi interviene) l’intima natura della realtà, che non è un’oggettività trascendente ma “un rapporto di forze in continuo movimento e mutamento” che è l’espressione con cui Gramsci reinterpreta e dilata la formula marxia- Gramsci e Machiavelli na dell’uomo quale insieme dei rapporti sociali di produzione e di cui è parte essenziale la stessa teoria: conoscere in qualche modo è già intervenire, modificandola, sulla realtà. La chiave che consente a Gramsci di definire Machiavelli non un realista, un seguace della Realpolitik, ma un filosofo della prassi è data, appunto, dalla concezione storicistica o meglio dialettica, della realtà, costituita da rapporti di forze integralmente storiche, da cui è stata eliminata ogni minima traccia di trascendenza. III) Gli interlocutori del Principe: il tiranno o il popolo? A chi si rivolge Machiavelli con la sua opera? Gramsci rifiuta innanzitutto la vulgata “progressista” , “romantico-liberale” o anche “rivoluzionaria” che, considerando il Principe un’opera “obliqua” (Procacci 1965, p. 314), tendeva a privilegiare i Discorsi e le Istorie fiorentine e a prospettare gli altri scritti sotto una veste di satira disvelatrice delle infamie del potere. Considera che Machiavelli abbia in mente un fine schiettamente politico, educare chi non sa alle necessità del momento storico, che richiede la mobilitazione di tutti i mezzi idonei al raggiungimento dell’altissimo fine dello Stato unitario nazionale. Oltre a ciò, Machiavelli svela a chi non sa che la moltitudine non diventa Popolo senza l’intervento della forza, senza elementi di costrizione, svolgendo un’opera di critica dell’ideologia. Sostanzialmente Gramsci ritiene che il Principe costituisca un tassello della riforma intellettuale e morale che deve accompagnare la nascita del nuovo ordine politico; questa riforma ha a suo centro l’idea della immanenza e, in particolare, l’idea che la conservazione della vita e della libertà va perseguita con mezzi esclusivamente mondani. Se è così, occorre saper accettare, acquisendo un adeguato abito morale, la contingenza dei fini, il rischio della loro fallibilità, che spesso si paga al prezzo di enormi perdite umane e di arresto o regressione sulla via dell’incivilimento progressivo dell’intera umanità. é la totale immanenza dei fini, ovvero il fatto che 25 n.20 / 2008 solo la empirica verifica storica può accertarne la giustezza, la loro corrispondenza al processo di unificazione (riconoscimento reciproco della comune appartenenza al genere) ed incivilimento dell’umanità, che rende il problema dei mezzi così delicato. Tutti i mezzi sono leciti per raggiungere un certo fine, vale solo il criterio della loro adeguatezza o non-adeguatezza, ma risulta poi dirimente accertare se quel fine si è dimostrato storicamente progressivo. Nel caso di Machiavelli, poiché Gramsci valuta la creazione dello Stato moderno la più grande conquista della civiltà borghese-capitalistica, il fine risulta storicamente vincente, e quindi i mezzi predicati sono giusti e santi. E chi non sa deve accettare, se vuole quel fine, un “capo” che vuole e può raggiungerlo perché conosce i mezzi e ha il coraggio di usarli, e condividere la responsabilità di quei mezzi anche se sul piano della morale privata prova repugnanza. Il partito, al posto del Principe, un organismo al posto di un uomo significa un allargamento delle possibilità che i mezzi siano adeguati al fine. Per il fine del comunismo, i mezzi devono essere democratici, per l’esistenza di una pluralità di soggetti e opzioni su cui esercitare egemonia e non dominio. Siamo in un mondo globale, complesso e ricco di differenze. E ancor più c’è bisogno di sapere, di prevedere, di conoscere per ridurre i rischi della decisione politica. Il partito è il soggetto dell’epoca che si apre, un capo collettivo e democratico investito del compito di creare una nuova etica e morale. Al cuore della nuova filosofia dell’immanenza è posta l’accettazione piena da parte del soggetto moderno che il regno dei fini non è garantito né da Dio, né dalla natura né dalla Storia con la maiuscola, e che gli uomini ne sono il solo attore ed autore responsabile, sebbene non abbiano il controllo pieno della realtà(l’insieme degli eventi e la loro complessità che soverchia le capacità di analisi e previsioni dei singoli e dei gruppi). Questo è l’insegnamento che si ricava da Machiavelli, un insegnamento non ancora diventato senso comune. La piena immanenza vale anche per la filosofia della prassi, che per Gramsci non può trasformarsi 26 in una metafisica del fine, il criterio della storicità va applicato anche ad essa:il fine del comunismo è anch’esso sottoposto alle verifiche empiriche della storia , non c’è nessun finalismo e garanzia, esterni al concreto farsi della storia, che ne assicuri la bontà e la giustezza. E’ anch’esso sottoposto alla prova della storia e può fallire. Affinché gli uomini accettino questo nucleo sconvolgente della rivoluzione moderna occorre una riforma intellettuale e morale, che consiste in un duplice processo: profonda introiezione del principio dell’immanenza e innalzamento delle masse a tale livello di coscienza, senza fratture tra intellettuali e popolo, senza doppia morale, una morale religiosa, affidata alle sirene della trascendenza (di Dio, della razza, della classe) per le masse ed una morale della finitezza e responsabilità per i pochi. La coscienza diffusa di questo limite intrinseco, che libera il politico da ogni teologia politica e filosofia della storia, è interpretata e sviluppata dal Moderno Principe . Il limite storico e filosofico il Machiavelli di Gramsci lo incontra nella concezione della natura umana, quel residuo di trascendenza che rimane appiccicato al pensiero tutto mondano del Fiorentino. In effetti il postulato dell’immutabilità della natura umana fa sì che si stabilisca un’analogia tra storia e natura (anch’essa metafisicamente considerata immutabile) e che i fini della politica si inscrivano in un disegno che li trascende costituito dai cicli del tempo sempre identicamente ritornante della storia. Fare come Roma, per Machiavelli è possibile perché esiste una identica natura umana che costituisce la costante nel variare dei casi. Così storia e natura umana si legano, determinando un residuo metafisico nell’impianto del suo pensiero, una dimensione trascendente, sottratta all’azione degli uomini, che limita, per Gramsci, la forza della sua filosofia della prassi. La conseguenza decisiva che Gramsci trae dalla storicizzazione della natura umana è che fini e mezzi vanno adeguati alle trasformazioni degli uomini, alle relazioni sociali ed è quindi ben possibile che i mezzi predicati da Machiavelli, per la nascita dello Stato, non debbano assolutamente Fra ncesca Izzo essere gli stessi per il comunismo, tutt’altro. Per questo egli critica la scienza politica come studio dell’eterno utile, della violenza come istanza permanente del mondo e dell’uomo. La scienza politica è invece lo studio dei “rapporti di forza”, della realtà come rapporto di forze e quindi destinata anch’ essa a cambiare. Così, se fino ad oggi, la scienza politica è consistita nello studio dei rapporti tra dominanti e dominati, tra chi governa e chi è governato, non è detto che non possa mutare questo rapporto e quindi mutare la ragion d’essere di questo sapere. E, aggiunge Gramsci , già mettersi nella prospettiva che questo rapporto possa cambiare, introduce nella realtà , nell’equilibrio dei rapporti delle forze, un elemento nuovo destinato ad influenzare il corso stesso delle cose. Gramsci e Machiavelli Riferimenti bibliografici Gramsci, A. (1965), Lettere da l ca rcere, Torino Einaudi Gramsci, A. (1975), Qua derni del ca rcere, Torino, Einaudi Paggi, L. (1984), Le strategie del potere in Gramsci , Roma, Editori Riuniti Procacci, G. (1965), Studi sulla fortuna del Ma chia velli ,Roma, Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea Telò, M. (1999), Note sul futuro dell’Occidente e la teoria delle rela zioni interna ziona li in Gra msci e il Novecento (a cura di G.Vacca), I, Roma, Carocci Vacca, G. (1999) Appunta menti con Gra msci , Carocci, Roma 27 Michela Na cci Gramsci e de Benoist Focus: Antonio Gramsci In che modo Alain de Benoist, creatore della Nouvelle Droite e politologo di fama, scrittore prolifico sospeso tra Rivoluzione conservatrice e antioccidentalismo no-global, tra pre-moderno e oltre-moderno, può essere messo in relazione con Gramsci? La famiglia ideologica alla quale appartiene nonostante i suoi funambolismi è certamente lontana, perfino antitetica a quella gramsciana. Eppure, tra fine degli anni Settanta e inizio degli anni Ottanta, de Benoist “scopre” Gramsci, e – in risposta alle difficoltà politiche del suo movimento, difficoltà e forse ambiguità presenti fin dalla nascita - lancia quello che verrà definito il “gramscismo di destra”. Che cosa scopre il francese nei Qua derni del ca rcere ? Vi trova soprattutto il concetto di egemonia. Com’è noto, Gramsci intende con egemonia un ruolo dominante all’interno della società che non coincida direttamente con il dominio di classe: questo, da solo, non basta a una classe per svolgere una funzione storica. La borghesia, infatti, ha elaborato anche una cultura, una ideologia, un progetto educativo, un carattere nazionale (o meglio: nazional-popolare): tutto questo serve a forgiare gli uomini e le classi, cioè a svolgere un ruolo completo. Già prima del carcere, Gramsci si pone il problema di una cultura che sia propria della classe operaia: senza di essa la classe operaia potrà esercitare un ruolo importante nella società, ma mai quel ruolo dirigente che solo l’elaborazione di una sua cultura può permetterle di svolgere. Nel pensiero di Gramsci, questo è l’accentuazione – tipica in lui – del momento sovrastrutturale dell’azione politica, come mostra anche l’idea di blocco storico: ((la cultura operaia infatti 28 avrebbe avuto anche una importante funzione politica poiché avrebbe proposto la classe operaia come possibile classe di governo, come classe alternativa rispetto a quella borghese)). La conquista del potere non si poneva dunque solo in termini di lotta di classe, ma anche - soprattutto come lotta di idee, di differenti visioni del mondo e di differenti culture. Gramsci sottolineava dunque l’importanza degli intellettuali: essi sono da sempre i mediatori e portano alla lotta politica quell’elemento essenziale che è il consenso dal momento che, appunto, nella società non c’è dominio bruto ma consenso all’esercizio del potere da parte di una classe. Sentiva anche la necessità di inserire organicamente gli intellettuali nella storia d’Italia creando per la prima volta il blocco storico che in Italia era mancato (rivoluzione mancata), e attribuiva questo compito al partito della classe operaia. Quando de Benoist fa la sua lettura di Gramsci che cosa lo colpisce? L’accentuazione dell’aspetto intellettuale, del ruolo e dell’importanza degli intellettuali e della cultura. La Nouvelle Droite infatti si poneva esplicitamente sul piano non politico, ma metapolitico e per essa era essenziale la cultura e la formazione di cultura. Come la sua omologa italiana, ha sempre avuto una concezione quasi mitica della cultura secondo la quale dalla cultura dipende totalmente la vera politica (che è cosa diversa dalla politica dei politici). Ed è altresì sempre stata convinta della subordinazione dell’economia (cosa inferiore) alla politica. Per la Nouvelle Droite (e poi a ruota per la Nuova Destra di Marco Tarchi) l’incontro con Gramsci si Michela Na cci traduce dunque in una maggiore consapevolezza di se stessi, di che cosa è e a che cosa può ambire il movimento che è stato creato da poco con qualche successo, molto rumore, qualche prezioso apprezzamento in Francia anche da parte dell’establishment culturale, in Italia anche da parte di qualche guru della sinistra (Vattimo, Cacciari). La Nouvelle Droite dà tanto risalto al gramscismo di destra proprio perché ne è illuminata sulla sua essenza e le sue potenzialità: suo compito non è fare politica direttamente, è anzi accentuare la distanza dalla politica, e fare piuttosto azione intellettuale a tutto campo, con libertà e curiosità, perfino con spregiudicatezza, andando addirittura a pescare nel patrimonio intellettuale-ideologico della sinistra. Non deve lavorare con i politici o con le forze sociali, ma con e attraverso e su gli intellettuali. E attraverso questo avere una importanza politica ben più grande del fare politica da politici. In fondo erano già così, ma ora lo sapevano meglio: Gramsci li rivelava a se stessi. Nella Presentazione italiana di Le idee a posto Marco Tarchi scriveva: “Ecco dunque prender corpo il tanto, e spesso distortamente, evocato ‘gramscismo’ debenoistiano.” E spiegava che cosa è, dandone al tempo stesso una interpretazione molto netta: “Inteso come una specificazione della scelta meta politica , come una proiezione di volontà e di principii nel cuore della società civile, per influenzare mentalità e costumi, per vincere pregiudizi, per saldare un consenso in profondità al progetto di rovesciamento dei valori oggi imposti dalla consuetudine e difesi dagli opinion ma kers.” Certo fa una certa impressione leggere la progettata egemonia gramsciana tradotta nei termini dell’inevitabile radicamento dell’individuo, del dare un senso antico al mondo moderno, del sovvertire schelerianamente i valori, del costruire non un blocco storico ma una civiltà. Scriveva Tarchi che non si trattava di rimettere la dialettica hegeliana sulle sue gambe: “Alla schermaglia filosofica con un autore (Hegel) e la sua scuola, qui si contrappone il progetto di rida re un senso a l mondo: inedito nelle sue forme di espressione, antico nelle radici.” È un procedimento tipico delle nuove destre fino a oggi quello di superare sempre in avanti gli autori o le correnti ideali che utilizza- Gramsci e de Benoist no: Marx criticava Hegel? Sciocchezze! Bazzecole filosofiche! Noi invece vogliamo dare senso al mondo! Peccato che ridare senso al mondo sia diventato con il passar degli anni un progetto verboso e inconsistente che si è accompagnato a carriere accademiche molto tradizionali. Scriveva ancora Tarchi: “Dalle nuove, imprevedibili intersezioni delle ideologie sfuggite alla tirannide dell’anonimato e dell’omologazione può forse nascere l’unica possibile reazione al fascino abbagliante della decadenza, che pare avere ipnotizzato i popoli d’Europa.” Esplicitando la posizione di de Benoist Tarchi mette in rilievo un elemento: il fatto che de Benoist di Gramsci abbia ripreso solo l’idea di egemonia. Il ruolo della cultura e degli intellettuali viene da de Benoist come da tutta la Nuova Destra europea isolato da tutto il resto delle sue concezioni: il ruolo organico dell’intellettuale, il blocco storico, le vie nazionali alla rivoluzione, l’umanismo, l’accento sulla prassi. E viene fatto giocare con concetti come: la decadenza dell’Occidente, la rivolta contro il mondo mercantile, la via europea allo sviluppo, l’anti-imperialismo statunitense, la critica del pensiero liberale, il rovesciamento dei valori borghesi, il differenzialismo, la concezione unitaria e identitaria delle culture, la mancanza di senso del mondo moderno, la solitudine del cittadino globale (per citare Bauman), la critica del contratto sociale e dello scambio, il rifiuto dell’homo oeconomicus e così via. Ed è chiaro che allora egemonia assume tutt’altro significato rispetto a Gramsci: non la ricerca del governo della società da parte di una concezione del mondo (oltre che di un partito e una classe), ma la creazione di una politica generata da una cultura, determinata da una classe di intellettuali liberi, voluta da volontà ferree e tempre d’acciaio in lotta con il proprio tempo, inattuali e decisive. In fondo, si esprimeva qui il sogno infantile (per citare Lenin ma anche Freud) di ogni intellettuale. Proprio quello che Gramsci, nutrito a Croce e positivisti, non poteva nemmeno concepire. Questo incontro fra de Benoist e Gramsci coincide con due fenomeni di rilievo. Il primo è la rinuncia delle Nuove Destre a esercitare una vera, effettiva azione politica: all’inizio con i campi giovanili, le riunioni, le discussioni semipubbliche, la vendita 29 n.20 / 2008 di libri, in fondo avevano avuto l’idea di formare una classe politica; ora, nei primi anni ’80, era evidente che ciò non era possibile. È il momento in cui le ambizioni politiche vengono messe nel cassetto (prime fra tutte quelle assai istituzionali e concrete di Tarchi), inaugurando quella linea che è proseguita fino a oggi. Il secondo fenomeno è la dinamica dei rapporti fra destra e sinistra non solo nel nostro paese: la crisi della concezione assiale della politica messa in rilievo dalle Nuove Destre e allo stesso modo da una parte autorevole della sinistra intellettuale ha fra i suoi esiti l’apertura del bagaglio intellettuale proprio di ogni parte alla parte opposta. Mentre de Benoist scopre Gramsci e vi si riconosce, mentre Tarchi e de Benoist valorizzano e usano Lenin e Freud, Weber e Baudrillard, Mauss e Latouche, Habermas e Althusser, Simmel e Bauman, il dono e la critica della globalizzazione, la sinistra legge avidamente Heidegger, Schmitt, Céline, Jünger, Dumézil, Eliade, perfino Evola e Guénon, scopre che il progresso è un’idea illusoria e la democrazia un inganno o il governo dei peggiori, che la modernità è il totalitarismo dei temi moderni, in uno scambio delle parti che - con motivazioni diverse - è comune alla destra e alla sinistra (e questo si diffonde dalle nuove destre alle destre e sinistre tradizionali): se a sinistra si pensa infatti di capire meglio e in modo diverso dalle teorie politiche conservatrici e reazionarie, di avere così una lettura importante della modernità perché è una lettura radicalmente critica di modernità, secolarizzazione, democrazia, a destra si ritiene di poter utilizzare autori importanti volgendoli alle proprie finalità. Del resto molti temi di quegli anni sono caratterizzati dalla trasversalità, non risultano cioè caratterizzati come di destra o di sinistra: l’anti-globalismo, il terzomondismo, l’ecologia, la critica della modernità, l’analisi severa della democrazia, l’opposizione alla scienza e alla tecnica moderne, il rifiuto del multiculturalismo e il pluralismo delle culture, il comunitarismo, l’anti-individualismo, il neo-paganesimo (di rerivazione nicciana, però sono per l’umanismo, contro la lezione di Nietzsche), la distruzione di capitalismo e liberalismo. È paradossale che de Benoist si allontani dalla politica, e con lui il movimento della Nouvelle Droite, 30 proprio subito quando viene in contatto con il pensiero di Gramsci. Ma forse questo non è poi troppo paradossale. Fino a quel momento in fondo de Benoist aveva trattato temi di destra con strumenti di destra: La Rivoluzione conservatrice, la tradizione, Nietzsche, un virulento antiamericanismo, il paganesimo. È con Les idées à l’endroit (1980), (ma contiene molti testi precedenti) che invece lo diventa meno, o lo diventa in un modo più accettabile in quegli anni e nei nostri: trasversale, sul piano della cultura, nell’intreccio fra destra e sinistra. Ma tutto questo è stato reso possibile dal passaggio dal marxismo, dall’attenzione per lo strutturale che ancora occupava tanta parte della sinistra, al “sovrastrutturale” che è divenuto via via sempre più leggero e poi immateriale. Se il muro di Berlino non fosse caduto e il comunismo crollato, con l’effetto di dissoluzione sulle convinzioni marxiste che conosciamo per averlo osservato in due decenni, tutto questo non sarebbe stato possibile. Quello avvenuto fra il 1980 e il 1989 è stato il primo spostamento di una lunga serie a catena alla fine della quale possiamo leggere uomini della destra non istituzionale (politica o metapolitica) che espongono le loro idee o che conducono programmi televisivi, che scrivono con grande risalto presso editori storicamente di sinistra, (figlie di radicali che organizzano giornate dedicate alla famiglia), politici di sinistra che si oppongono alle novità della scienza in materia di concepimento artificiale o si richiamano all’ordine naturale della società: fenomeni molto diversi ma pure svoltisi in parallelo allo sdoganamento della destra post-fascista a opera – insieme - di Mani pulite e Berlusconi (nascita di Forza Italia). Non so dire se è stato un bene o un male, ma – come è noto – quel che è importante non è ridere o piangere, ma comprendere: una cosa che destra e sinistra istituzionali hanno evitato di fare per anni e che sono state trascinate a fare loro malgrado. Credo che il futuro ci riserberà un numero sempre maggiore di temi trasversali (non mi piace il termine perché inflazionato ma non so trovarne un altro equivalente), come il clamore suscitato dal New Age ha mostrato. E credo che questo avverrà non solo su temi in fondo marginali come erano quelli, ma su temi centrali per l’Occidente e tutti Gramsci e de Benoist Michela Na cci noi: l’identità, le radici, il confronto tra culture, il posto del sacro nella civiltà, l’immagine dell’America, dell’individuo, del mercato, la cura per la Terra, l’atteggiamento verso la manipolazione tecno-scientifica degli organismi viventi. È già molto difficile spiegare ai miei figli quando guardiamo un dibattito televisivo insieme chi è di destra e chi di sinistra: chissà se io stessa ci riuscirò in futuro? Sarebbe in ogni caso importante che la politica e le istituzioni registrassero questo mutamento (che non significa che le classi sono finite, solo che sono cambiate, che non significa che non esistono più destra e sinistra, solo che destra e sinistra sono cambiate), poiché questo mutamento ha conseguenze non secondarie per la politica e le stesse istituzioni. [email protected] 31 Terenzio Ma cca belli La “grande trasformazione”: i rapporti tra Stato ed economia nei “Quaderni del Carcere”* Focus: Antonio Gramsci * Devo un ringra zia mento a R. Fa ucci, L. Michelini e G. Va cca per i preziosi suggerimenti. Una versione più breve del presente sa ggio è in corso di pubblica zione nel volume di a tti del Convegno Gra msci nel suo tempo, Ca rocci, Roma , 2008. I riferimenti a i Qua derni del ca rcere, sempre a ll’edizione critica dell’Istituto Gra msci a cura di V. Gerra ta na , Eina udi, Torino, 1975, 4 voll., sa ra nno di seguito indica ti con la lettera Q., seguita da ll’indica zione del numero di qua derno, da l numero di pa ra gra fo e da l titolo di pa ra gra fo. Il presente testo è sta too presenta to a l Convegno di studi “Antonio Gra msci nel suo tempo” tenuto a Ba ri e Turi il 13-15 dicembre 2007. 32 1. Introduzione La gra nde tra sforma zione è, come noto, il titolo di un famoso libro di Karl Polanyi, pubblicato nel 1944. In questo poderoso affresco sulla storia economica delle società occidentali, Polanyi pone sotto la lente d’ingrandimento due decisivi processi storici: da una parte quello che portò il mercato a diventare il principale meccanismo di regolazione sociale e, dall’altra, gli esiti rovinosi cui condusse questo processo. La storia del XIX secolo, secondo Polanyi, sarebbe attraversata da una sorta di “duplice movimento”, che se da una parte spingeva il mercato ad estendersi sempre più capillarmente dall’altra generava “meccanismi di difesa” della società volti ad arginare la diffusione dell’economia di mercato. Nel complesso si ebbero pertanto due “grandi trasformazioni” nelle società occidentali: la prima è quella iniziata con la rivoluzione industriale e conclusasi verso la metà dell’Ottocento quando, con la completa mercificazione delle tre merci “fittizie” (moneta, terra e lavoro), l’economia di mercato raggiunse il proprio apogeo; la seconda, avvenuta negli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale, è quella che vide svanire il sogno di una società governata esclusivamente dal mercato, culminata nella crisi del ‘29. Per Polanyi, la netta separazione tra Stato ed economia cui si arrivò nel secondo Ottocento fu pertanto un evento eccezionale al quale la società rispose producendo anticorpi che riassorbivano l’economia entro il gioco delle istituzioni. Taluni di questi anticorpi furono peraltro gli stessi che generarono il fenomeno dei fascismi (Polanyi 1974). Se abbiamo richiamato queste celebri tesi non è perché sia nostra intenzione rileggere il pensiero di Gramsci attraverso il filtro delle idee di Polanyi. Più semplicemente perché riteniamo che l’immagine della “grande trasformazione” si presti assai beni a riassumere il senso di molte riflessioni dei Qua derni dedicate ai rapporti tra Stato ed economia. Riteniamo vi siano almeno tre motivi che giustificano l’accostamento che abbiamo proposto tra Gramsci e Polanyi, nonostante si tratti di autori quasi mai accomunati nelle storie del pensiero economico, politico e sociale. Il primo motivo è che al pari della Gra nde tra sforma zione di Terenzio Ma cca belli La “grande trasformazione” Polanyi anche i Qua derni rappresentano un poderoso affresco storico che – pur nella diversità della strumentazione concettuale e nella diversità dei fenomeni messi a fuoco – descrivono il medesimo processo storico. Come ha scritto recentemente Alberto Burgio, nei Qua derni “è contenuto un gra nde libro di storia : una storia dell’Occidente borghese, o, come Gramsci scrive più semplicemente, del ‘mondo moderno’, una storia critica della modernizzazione europea” (Burgio 2002, p. 3). In secondo luogo, perché anche Gramsci individua delle cesure storiche che presentano molte analogie con quelle individuate da Polanyi. Sulla prima delle due “grandi trasformazioni”, le note di Gramsci non sono in verità molto numerose (se pure di indubbio rilievo). Ben più consistenti quelle dedicate ai mutamenti intervenuti dopo la prima guerra mondiale: anche agli occhi di Gramsci si era infatti di fronte a una netta cesura storica, che si manifestava in larga parte proprio sul terreno dei rapporti tra Stato ed economia. L’enfasi data a questi mutamenti ci ha spinto a prendere a prestito l’immagine della “grande trasformazione” che ci appare non solo evocativa ma assolutamente pertinente. Infine, c’è un ultimo elemento che a nostro parere giustifica la scelta del titolo, che tocca da vicino la biografia intellettuale dell’intellettuale sardo. Come ha recentemente osservato Luca Michelini, negli scritti pre-carcerari predomina una concezione dello Stato molto diversa da quella che troviamo nei Qua derni . Negli scritti giovanili, l’orizzonte della riflessione gramsciana rimane a lungo circoscritto entro le coordinate della distinzione “politica-economia” propria della tradizione liberale e, per certi versi, marxiana. In modo molto convincente Michelini individua quale punto focale della riflessione gramsciana la tesi della “scissione tra economia e politica” come “intima necessità della civiltà capitalistica” (Gramsci 1918, p. 21; Michelini 2008), debitrice tanto della tradizione marxista ma anche del liberismo italiano. Questa affermazione verrà non solo problematizzata nei Qua derni ma addirittura rovesciata, allorché Gramsci comincerà a riflettere sui mutamenti strutturali intervenuti nelle economie occidentali all’indomani della guerra. Naturalmente anche negli scritti giovanili non mancano segnali che lasciano presagire le idee del Gramsci “maturo”1: è innegabile tuttavia che l’analisi dei rapporti tra Stato ed economia subisca un mutamento di prospettiva tale da giustificare l’idea che la stessa biografia intellettuale di Gramsci sia attraversata da una sorta di “grande trasformazione”2. In questo scritto ci proponiamo pertanto di documentare il modo in cui Gramsci pose nei Qua derni del ca rcere il problema dei rapporti tra Stato ed economia. Nella prima parte discuteremo le tesi riguardanti la genesi dell’economia di mercato e il suo “autonomizzarsi” rispetto alla sfera politica. Lo sfondo di queste riflessioni è la metafora dello “Stato guardiano notturno” elaborata da Ferdinand Lassalle ma che Gramsci contribu” a rivitalizzare. Come avremo modo di vedere, per l’autore dei Qua derni la netta separazione tra Stato ed economia incarnata dall’immagine dello “Stato guardiano notturno” non fu affatto un approdo naturale o un processo spontaneo, quanto piuttosto una scelta non meno artificiale di quella di uno Stato interventista o protezionista. Ma fu comunque legittimo per gli economisti “postulare” quella distinzione. Affronteremo nel seguito il dibattito degli anni Trenta sui rapporti tra Stato ed economia alimentato dall’ascesa del corporativismo fascista e a cui presero parte autori come Ugo Spirito, Rodolfo Benini e Luigi Einaudi. L’autore dei Qua derni avrà modo di appuntare 1 Michelini a na lizza a d esempio con gra nde cura l’editoria le del 9 febbra io 1918, L’orga nizza zione economica e il socia lismo, qua le testo dove nel modo più esplicito emergono tema tiche destina te a dispiega rsi in modo più compiuto nei Qua derni. Nell’occa sione Gra msci sottolinea come la sepa ra zione teorica tra politica ed economia sia da fa r risa lire a d una “necessità empirica ”, “pra tica ”, quella di “scindere provvisoria mente l’unità a ttiva socia le per meglio studia rla ” (cfr. L. Michelini 2008). 2 Il discorso è na tura lmente più genera le e rigua rda non solta nto il problema dei ra pporti tra Sta to ed economia . Come sottolinea to da Angelo Rossi e Giuseppe Va cca , “a lla fine del ’30 la riflessione di Gra msci sulla storia mondia le, sulle crisi economiche, sull’Urss, sulla politica del Co-mintern, l’‘a merica nismo’, l’evoluzione del fa scismo e la situa zione del ma rxismo era ca mbia ta ra dica lmente. Il processo di ma tura zione, sviluppa tosi nel triennio precedente, era già sedimenta to nella prima stesura dei nuclei fonda menta li dei Qua derni, che rivela un vero e proprio muta mento di pa ra digma ” (Rossi e Va cca 2007, p. 9). 33 n.20 / 2008 3 (Texier 1968, p. 72). Su “Gra msci teorico delle sovra strutture” e sul ruolo centra le che l’a na lisi della società civile – intesa come momento “sovra struttura le” – riveste nel sistema gra m-scia no, si veda Bobbio (1976). 4 Ha scritto a l rigua rdo Ba da loni che il progra mma di ricerca di Gra msci non consiste “in una rimozione del ruolo dell’economico come determina nte in ultima ista nza , bens” in un nuovo modo di considera re il blocco tra struttura e sopra struttura ” (Ba da loni 1977, p. 21). 5 Si veda in proposito la prefa zione di Giorgio Lunghini a lla recente a ntologia gra mscia na di scritti economici (Gra msci 1994). Tra gli studi recenti sul pensiero economico di Gra msci, cfr. L. Ca va lla io (1997). 6 Si veda a d esempio, tra i ta nti, lo stesso Nozick, che in Ana rchia , Sta to e Utopia sottolinea come la sua teoria dello “Sta to minimo” riprenda e a pprofondisca la concezione dello “Sta to gua rdia no notturno” propria della “teoria politica cla ssica ” (cfr. Nozick 1988, p. 28). 34 con molto interesse questo dibattito, mostrando peraltro di avere ormai maturato una convinzione sui rapporti tra Stato ed economia molto diversa rispetto a quella degli scritti giovanili. Passeremo poi a presentare le idee gramsciane sulla crisi delle economie liberali e del mercato autoregolato da cui scaturirono due tipi di risposte: una sul terreno strettamente economico (il fordismo letto da Gramsci come fenomeno innovativo) e una sul terreno socio-politico (americanismo e fascismo). Proprio analizzando questi fenomeni si fa progressivamente strada nel pensiero di Gramsci l’idea di una “grande trasformazione” nei rapporti tra Stato ed economia. Nelle considerazioni conclusive accenneremo alla prospettiva del superamento dello Stato (un nuovo stato guardiano notturno) che prefigura Gramsci in alcune note dei Qua derni . Il problema dei rapporti tra Stato ed economia non è evidentemente che un capitolo del problema più generale dei rapporti tra struttura e sovrastruttura. Da questo punto di vista è noto che Gramsci sia stato tradizionalmente letto come il teorico delle sovrastrutture e “cioè il teorico della scienza politica, dei rapporti fra Stato e società civile, della lotta per l’egemonia e la conquista del potere, del momento del consenso e di quello della forza, dei rapporti fra la storia eticopolitica e la storia economica-politica, il teorico, infine, della funzione degli intellettuali e del partito politico”3. Il bisogno di superare il rigido determinismo economico che caratterizzò buona parte del pensiero marxista di fine Otto e inizio Novecento spinge in effetti Gramsci a riaprire una linea di ricerca tesa a rivalutare l’importanza del momento etico e politico nel processo evolutivo delle società. La stessa storiografia ha per lungo tempo privilegiato questa chiave di lettura del pensiero gramsciano, fino forse ad eccedere sul lato opposto. Dimenticando, cioè, che pur ridimensionandone la portata, l’intellettuale sardo non giunge mai a negare il ruolo decisivo svolto dal fattore economico e strutturale nel condi4 zionare l’evoluzione delle società umane . Non a caso si è assistito in questi ultimi anni a una proliferazione di studi dedicati alla riflessione “economica” di Gramsci, pur nella consapevolezza che non si può, in termini propri, attribuire la qualifica di “economista” all’autore dei Qua derni 5. Anche in questo lavoro proporremo una lettura dell’opera di Gramsci nella quale cercheremo di mostrare come la riflessione sullo Stato sia strettamente legata ai mutamenti avvenuti sul versante dell’economia reale (o strutturale) e la vicendevole relazione tra le due dimensioni. 2. Lo Stato “guardiano notturno” e l’autonomia dell’economia Lo Stato “guardiano notturno” è senza dubbio una delle più fortunate metafore attraverso la quale la tradizione liberal-liberista ha tradotto la propria concezione dello Stato. Anche nei dibattiti contemporanei che hanno quale sfondo l’idea dello “Stato minimo” tale immagine è frequentemente richiamata6, spesso trascurando, tuttavia, le origini e la fonte di tale metafora. Negli anni in cui Gra msci redige le note dei Qua derni l’immagine dello Stato “guardiano notturno” era probabilmente ancora più diffusa, tanto da essere evocata da Benito Mussolini, naturalmente con toni polemici, in un celebre discorso del 1929 alla prima assemblea quinquennale del Fascismo. “Per il Fascismo – osserva Mussolini – lo Stato non è il gua rdia no notturno, che Terenzio Ma cca belli La “grande trasformazione” si occupa soltanto della sicurezza personale dei cittadini; non è nemmeno un’organizzazione a fine puramente materiale, come quello di garantire un certo benessere, una relativa pacifica convivenza sociale. nel qual caso a realizzarlo, basterebbe un consiglio di amministrazione; non è nemmeno una creazione politica pura, senza aderenze con la realtà mutevole e compressa della vita dei singoli e di quella dei popoli. Lo Stato, così come il Fascismo lo concepisce e l’attua, è il fatto spirituale e morale, poiché concreta l’organizzazione politica, giuridica, economica della Nazione; e tale organizzazione è, nel suo sorgere e nel suo sviluppo, una manifestazione dello spirito7.” Sono i primi germi di quella concezione dello Stato che di li a poco alimenterà la retorica dello Stato “corporativo” destinato a diventare l’asse centrale di tutta la letteratura politica, economica e giuridica degli anni Trenta. Avremo modo di tornare sul dibattito tra corporativisti ed economisti puri sul ruolo dello Stato nell’economia, seguito con grande attenzione da Gramsci. Quanto è importante ora sottolineare è l’immagine dello Stato “guardiano notturno” evocata da Mussolini nel brano appena citato che fornirà stimoli allo stesso Gramsci per alcune annotazione dei Qua derni . Il concetto di Stato “gendarme” o “guardiano notturno” è discusso da Gramsci in modo esplicito soltanto in due paragrafi dei Qua derni (il primo dei quali oggetto di una duplice stesura); riferimenti indiretti o impliciti si possono comunque trovare anche in altre annotazioni. Nel Quaderno 5, redatto tra il 1930 e il 1931, Gramsci ricorre per la prima volta all’immagine dello Stato “gendarme o guardiano notturno” nell’ambito della rubrica denominata Nozioni enciclopediche, frequentemente utilizzata dall’intellettuale sardo per fissare le coordinate generali di concetti ritenuti particolarmente rilevanti. Osserva nel merito che “lo Stato “guardiano notturno” (veilleur de nuit) corrisponde all’italiano ‘lo Stato carabiniere’ cioè lo Stato le cui funzioni sono limitate alla sicurezza pubblica e al rispetto delle leggi, mentre lo sviluppo civile è lasciato alle forze private, della società civile”. Si tratta come si vede della classica definizione di “stato minimo” della tradizione liberale, in cui emergono due aspetti di rilievo: in primo luogo una declinazione del concetto di “società civile” che non è quella propriamente gramsciana, bensì quella più tradizionale (liberale ma anche per certi versi marxiana) basata sulla netta distinzione tra sfera economica e sfera politica; in secondo luogo l’uso del termine francese – veilleur de nuit – che, a quanto pare, è la lingua attraverso cui si è propagata la metafora dello Stato “guardiano notturno”. Questo nonostante sia stato con molta probabilità Lassalle a fare uso per la prima volta di questa espressione, in una accezione, osserva Gramsci, che voleva avere “un valore”8 ancora “più sarcastico” di quella di “Stato carabiniere” o di “Stato poliziotto” . La riflessione di Gramsci prosegue menzionando le due principali concezioni antagoniste allo Stato liberale affermatesi nell’Ottocento: quella di derivazione filosofica-hegeliana dello “Stato etico”, centrata sulla “attività educativa e morale dello Stato”, e quella “di origine economica” dello Stato interventista (o “intervenzionista”, secondo il lessico gramsciano), alimentata dalle diverse “correnti protezioniste”, le stesse che saranno destinate a confluire, sul finire dell’Ottocento e soprattutto nel primo Novecento, nei vari “nazionalismi economici”. Pur avendo matrici dottrinali diverse, “le due correnti” tendono comun- 7 Mussolini (1934, p. 26) (corsivo a ggiunto); Somma (2005 p. 526). 8 Non sia mo riusciti a individua re la fonte precisa della meta fora dello “Sta to gua rdia no not-turno”. Gerra ta na rima nda a La ssa lle (1903, p. 30). In verità sembra che La ssa lle si sia a vva lso di ta le espressione per qua lifica re in modo dispregia tivo la concezione libera le dello Sta to solo nel 1864, nella polemica intra presa con Schulze de Delizsch sul ruolo delle coopera tive (cfr., la tra duzione fra ncese del pa mphlet di La ssa lle, Monsieur Ba stia t-Schulze de Delizsch, le Julien de l’économie politque). Un cenno a questa espressione (presente a ddirittura nell’indice somma rio del volume) si trova nella storia del pensiero economico di riferimento per Gra msci, cioè Gide e Rist (1909, p. 503). (Gra msci disponeva in ca rcere della quinta edizione dell’opera , pubblica ta nel 1929). Da segna la re il fa tto che mentre nella prima stesura Gra msci poneva in termini dubita tivi l’a ttribuzione a La ssa lle di ta le espressione, nella riscrittura della nota , come vedremo, la cosa vie-ne a fferma ta in modo perentorio. 35 n.20 / 2008 9 Q. 5, §69, Nozioni enciclopediche, pp. 603-604. 10 Q. 26, §6, Lo Sta to “veilleur de nuit”, p. 2302. 36 que frequentemente a convergere, anche se, puntualizza Gramsci, “la cosa non è necessaria”. Nel quadro appena delineato è evidente che il favore degli economisti liberali vada pressoché unanimemente “per lo Stato veilleur de nuit”, mentre più complesso appare l’orientamento dei filosofi, per alcuni dei quali, anche se di estrazione liberale, sono necessarie “distinzioni molto importanti”. Ancora più complesso risulta l’orientamento del cattolicesimo, vero e proprio Giano bifronte nei confronti dello Stato: i cattolici infatti “vorrebbero lo Stato intervenzionista a loro favore” ma nel caso questo non avvenga, uno “Stato indifferente, perché se lo Stato non è favorevole, potrebbe aiutare i loro nemici”9. La nota del Quaderno 5 appena descritta viene sensibilmente rielaborata da Gramsci allorché decide di trascriverla anche nel Quaderno 26, in quella che è probabilmente una delle sue ultime annotazioni. La nota non è più collocata nella rubrica Nota zioni enciclopediche ma, a riprova del forte interesse per il tema, posta espressamente sotto la voce Lo Sta to “veilleur de nuit”. Pur seguendo una articolazione degli argomenti che ricalca fedelmente quella della stesura iniziale, la nota presenta varianti di assoluto rilievo. Gramsci sottolinea ora il fatto come l’idea dello Stato minimo (“tutela dell’ordine pubblico” e “rispetto delle leggi”) sia l’esito di un approccio “superficiale” al problema delle “funzioni dello Stato”. Il limite maggiore deriva dall’ipotesi di una netta separazione tra società civile e società politica oggetto, come noto, di un serio ripensamento da parte di Gramsci. Allorché si parla di “Stato veilleur de nuit” – puntualizza l’autore dei Qua derni – “non si insiste sul fatto che in questa forma di regime (che poi non altro che, come ipotesi limite, sulla carta) la direzione dello sviluppo storico appartiene alle forze private, alla società civile, che è anch’essa ‘Stato’, anzi è lo Stato stesso”10. Siamo come si vede nel cuore della teoria politica gramsciana fondata su una concezione “allargata” dello Stato (Buci-Glucksmann 1976, p. 65; Liguori 2006, pp. 13-29) i cui elementi costituivi sono ta nto la “società politica” qua nto la “società civile” e su cui avremo modo di tornare. Per ora è necessario focalizzare due decisivi elementi: 1) lo Stato minimo è una “ipotesi limite”, esistente solo astrattamente “sulla carta”; 2) lo Stato minimo è un “regime”, ossia esito di una decisione politica. Per quanto riguarda il discorso sulle correnti antagoniste a questa concezione dello Stato, è interessante sottolineare il fatto che Gramsci rilevi l’emergere delle prime embrionali forme di welfa re sta te che egli rubrica nella categoria del paternalismo di Stato (oltre che di “classe”). Nella trascrizione definitiva, le concezioni alternative allo “Stato guardiano notturno” diventano pertanto tre: oltre allo “Stato etico” e allo “Stato intervenzionista” si collocano i prodromi dello Stato sociale esemplificati da Bismark e Disraeli, mentre continua a essere ritenuta ambigua e in qualche modo a sé stante la concezione dei cattolici. Citando per esteso l’autore dei Qua derni , il quadro complessivo risulta pertanto così articolato: “Nella polemica (del resto superficiale) sulle funzioni dello Stato (e si intende dello Stato come organizzazione politico-giuridica in senso stretto), l’espressione di Stato veilleur de nuit corrisponde all’italiano di “Stato carabiniere” e vorrebbe significare uno Stato le cui funzioni solo limitate alla tutela dell’ordine pubblico e del rispetto delle leggi. Pare che l’espressione “veilleur de nuit” che Terenzio Ma cca belli La “grande trasformazione” dovrebbe avere un valore più sarcastico di “Stato carabiniere” o di “Stato poliziotto”, sia di Lassalle. Il suo opposto dovrebbe essere lo “Stato etico” o lo “Stato intervenzionista” in generale, ma ci sono differenze tra l’una e l’altra espressione: il concetto di Stato etico è di origine filosofica e intellettuale (propria degli intellettuali: Hegel) e in verità potrebbe congiunta con quello di “Stato - veilleur de nuit”, poiché si riferisce piuttosto all’attività, autonoma, educativa e morale dello Stato laico in contrapposto al cosmopolitismo e all’ingerenza dell’organizzazione religioso-ecclesiasistica come residuo medioevale; il concetto di “Stato intervenzionista” è di origine economica ed è connesso, da una parte, alle correnti protezionistiche o di nazionalismo economico e, dall’altra, al tentativo di far assumere a un personale determinato, di origine terriera e feudale, la “protezione” delle classi lavoratrici contro gli eccessi del capitalismo (politica di Bismarck e Disraeli). Queste diverse tendenze possono combinarsi in vario modo e di fatto si sono combinate. Naturalmente i liberali [“economisti”] sono per lo “Stato veilleur de nuit” e vorrebbero che l’iniziativa storica fosse lasciata alla società civile e alle diverse forze che vi pullulano con lo “Stato” guardiano della “lealtà del gioco” e delle leggi di esso; gli intellettuali fanno distinzioni molto importanti quando sono liberali e anche quando intervenzionisti (possono essere liberali nel campo economico e intervenzionisti in quello culturale, ecc.). I cattolici vorrebbero lo Stato intervenzionista in loro completo favore; in mancanza di ciò, o dove sono minoranza, domando lo Stato “indifferente”, perché non sostenga i loro avversari11.” Molto più complessa la seconda ricorrenza della metafora dello Stato “guardiano notturno” che troviamo nel Quaderno 6 in un paragrafo di nuovo espressamente intitolato Sta to genda rme-gua rdia no notturno. La complessità del testo deriva dal fatto che non siamo di fronte a una annotazione di carattere esclusivamente descrittivo, ma anche e soprattutto progettuale, dove vengono enucleati alcuni dei concetti cardine della teoria politica gramsciana. In questi due paragrafi emerge infatti non solo la nota questione del rapporto tra società civile e società politica e la prospettiva di una riconciliazione delle due sfere nel contesto di un nuovo modello statuale di “società regolata”, ma anche e soprattutto l’utopia di una possibile estinzione dello Stato grazie al completo dispiegarsi di una società di eguali. Lo Stato “guardiano notturno” diventa allora, paradossalmente, la cornice per un nuovo modello di organizzazione sociale che superi le aporie dello Stato “corporativo”, dove ancora permane la “confusione tra società civile e società politica”, e dove trovi pieno compimento il principio della “libertà organica”12. Su questo testo, così marcatamente orientato in senso progettuale, torneremo nella parte finale di questo scritto. La nostra attenzione è per il momento rivolta a vagliare i modi in cui Gramsci descrive lo caratteristiche dello Stato “guardiano-notturno”, partendo da un’analisi dei testi che discutono le condizioni storiche che ne hanno permesso l’ascesa. Tra queste, fondamentale, è proprio quella “scissione” tra politica ed economia che a lungo rimane l’orizzonte di riferimento dello stesso Gramsci. Luogo privilegiato per affrontare la questione sono quelle note dei Qua derni che vertono sulle condizioni “oggettive” o “strutturali” che hanno permesso la nascita della scienza economica. Seppure non sempre in maniera esplicita, anche 11 Q. 26, §6, Lo Sta to “veilleur de nuit”, pp. 2302-2303. 12 Q. 6, §88, Sta to genda rme-gua rdia no notturno, pp. 763-764. 37 n.20 / 2008 13 Q. 10, §57, Punti di medita zione sull’economia , pp. 1350-1351. 14 Q. 10, §57, Punti di medita zione sull’economia , p. 1350. 15 L’economia , come scienza , è sorta “nell’età moderna , qua ndo il diffondersi del sistema ca pita listico ha diffuso un tipo rela tiva mente omogeneo di uomo economico, cioè ha crea to le condi-zioni rea li per cui un’a stra zione scientifica diventa rela tiva mente meno a rbitra ria e generica mente va cua di qua nto fosse prima possibile” (Q. 10, §37, Punti di medita zione per lo studio dell’economia politica , pp. 12841285). 16 “I principi rica rdia ni [...] sono connessi a l sorgere della scienza economica stessa , cioè a llo sviluppo della borghesia come cla sse ‘concreta mente mondia le’ e a l forma rsi quindi di un merca to mondia le già a bba sta nza ‘denso’ di movimenti complessi” da cui “isola re e studia re delle leggi di regola rità necessa rie” (Q. 10, §8, Introduzione a llo studio della filosofia . Imma nenza specula tiva e imma nenza storicistica o rea listica , pp. 1247-1248). 38 in questi passi il problema del rapporto tra Stato ed economia emerge in modo significativo. Proponendo un approccio che di nuovo presenta notevoli affinità con lo schema polaniano basato sulla distinzione tra economia “sostanziale” ed economia “formale”, Gramsci distingue la “vita economica” dalla “scienza economica”. Il fatto che tutte le società abbiano avuto una propria specifica forma di “vita economica” non comporta che tutte possano essere studiate utilizzando gli schemi concettuali della scienza economica quale si è costituita da Smith in poi. “Non è da credere – osserva Gramsci – che essendo sempre esistita una “vita economica” debba sempre essere esistita la possibilità di una “scienza economica”, così come essendo sempre esistito un movimento degli astri è sempre esistita la ‘possibilità’ di un’astronomia, anche se gli astronomi si chiamavano astrologi13.” Solo in una forma particolare l’economia “sostanziale” è stata oggetto di una scienza. Per Gramsci, infatti, “prima dell’affermarsi della classe borghese” l’economia non si costituì come scienza, “non solo perchè mancavano gli scienziati, ma perchè mancavano certe premesse che creavano quella certa ‘regolarità’ o quel certo ‘automatismo’ il cui studio dà origine appunto alla ricerca scientifica”14. Con lo sviluppo e l’affermarsi delle relazioni mercantili, i fenomeni economici hanno assunto una dinamica propria, scorporata dalla sfera politica, e si sono pertanto create le condizioni per l’emergere di una autonoma economia “formale” (per prendere ancora a prestito la terminologia polaniana). In modo molto schematico, possiamo dire che queste condizioni sono per Gramsci sostanzialmente tre: 1) il diffondersi di un comportamento umano tipico e omogeneo sintetizzabile nella formula del cosiddetto “homo oeconomicus”15; 2) l’affermarsi di una rete di scambi su scala mondiale e il conseguente formarsi di “regolarità” e “automatismi” nelle relazioni economiche16; 3) la scissione tra società politica e società civile. Quest’ultimo è naturalmente il punto chiave del nostro discorso e anche il più complesso. Come abbiamo anticipato, Gramsci è rimasto infatti a lungo persuaso dall’idea che la “scissione tra economia e politica” sia una “intima necessità della civiltà capitalistica”. Il fatto che questa scissione venga “problematizzata” nei Qua derni , lascia aperto un interrogativo: siamo di fronte ad un radicale mutamento di prospettiva, in sostanza la presa d’atto di un’errata valutazione teorica, o invece, al riconoscimento di una trasformazione strutturale che però non incrina il precedente giudizio storico? Come cercheremo d’argomentare, sia l’uno che l’altra ipotesi sembrano avere un certo fondamento. Appare infatti innegabile che anche agli occhi di Gramsci la definitiva affermazione dell’economia di mercato abbia coinciso con il consolidarsi di una concezione dello Stato come “guardiano notturno” che altro non è che l’altra faccia della scissione tra politica ed economia. In un contesto di questo tipo, le teorie economiche liberali e lo stesso marxismo hanno legittimamente postulato l’esistenza di uno spazio economico autonomo, retto da leggi proprie e in parte indipendenti dalla struttura giuridica statuale. Si tratta, per riprendere una celebre citazione dei Qua derni , di una corretta distinzione “metodica” legittimata dal concreto svolgimento degli avvenimenti storici. Su questo si basa tutta la riflessione degli economisti classici, che appunto potevano prescindere dallo Stato, ben consci tuttavia che lo Stato è un componente essenziale del “mercato determinato”. Richiamandosi al solito Ricardo – come noto l’economista “classico” Terenzio Ma cca belli La “grande trasformazione” per eccellenza dei Qua derni – Gramsci scrive che se “si studia […] l’ipotesi “economica” pura, come Ricardo probabilmente intendeva fare, non occorre prescindere dagli “Stati” (dico apposta “Stati”) e dal monopolio “legale” della proprietà? […] Questo problema è legato allo stesso problema fondamentale della scienza economica “pura” cioè alla ricerca e alla identificazione di ciò che è il concetto e il fatto economico, indipendentemente dai concetti e fatti di spettanza delle altre scienze17.” Gramsci evidentemente allude in questo brano alla possibilità che la scienza economica si separi legittimamente dalla scienza della politica o dalla filosofia morale, separazione che effettivamente è avvenuta con Ricardo, accelerando un processo che ancora all’epoca di Smith non era affatto scontato. Il concetto di Stato, alla luce di questa svolta metodologica impressa da Ricardo, diventa per così dire un dato esogeno, un “supposto che” dal quale l’economista può prescindere (il che non significa però che “debba” dimenticarsene). Nella riscrittura del brano appena citato, Gramsci elabora ulteriormente questo concetto, aggiungendo puntualizzazioni di rilievo. “Bisognerebbe studiare bene la teoria di Ricardo e specialmente la teoria di Ricardo sullo Stato come agente economico, come la forza che tutela il diritto di proprietà, cioè il monopolio dei mezzi di produzione. é certo che lo Stato ut sic non produce la situazione economica, tuttavia si può parlare dello Stato come agente economico in quanto appunto lo Stato è sinonimo di tale situazione”18. Per esemplificare e per dare contenuto concreto alla propria riflessione, Gramsci menziona il fenomeno delle Trade-Unions e i diversi rapporti di forza esistenti a livello politico. é evidente che il “mercato determinato” di Ricardo scontava il fatto che “i salariati non potevano coalizzarsi e far valere la forza della collettività a ogni singolo individuo”, mentre i capitalisti potevano contare sulla “forza data dall’insieme di una classe organizzata nello Stato, che aveva nel Parlamento la sua Trade-Union”19. L’individuazione delle leggi che regolano il mercato del lavoro erano dunque l’esito di questa situazione creata “politicamente”, ma assunta come un dato esogeno dagli economisti. L’acutezza di Gramsci su questo punto è notevole, ed è davvero un peccato che non abbia portato fino in fondo il proprio argomento ricordando come tutta la riflessione di Ricardo fosse finalizzata all’abolizione delle “leggi dei grani”. Cos’erano queste se non una “situazione economica” creata dallo Stato, grazie al prevalere in seno al parlamento britannico di rapporti di forza ancora favorevoli alla proprietà fondiaria? é difficile pensare a Ricardo come a un teorico dello Stato: ma la sua economica politica sta tutta nell’aver mostrato comparativamente i diversi sentieri di sviluppo in presenza o meno di leggi restrittive sull’importazione di grano. Nel far questo egli assumeva come dato esterno la scelta politica di abrogare o mantenere le leggi sui grani, mostrando semplicemente le diverse “leggi di tendenza” che scaturivano dall’una o dall’altra situazione. Il suo metodo consisteva appunto nell’isolare il momento economico, ossia nella elaborazione di una teoria, come scrive Gramsci, “risultante dalla riduzione della società economica alla pura ‘economicità’ cioè al massimo di determinazione del ‘libero gioco delle forze economiche’, in cui essendo l’ipotesi quella dell’homo oeconomicus non poteva non prescindersi dalla forza data dall’insieme di una classe organizzata nello Stato”20. Da questi brani appare innegabile la legittimazione scientifica data da Gramsci 17 Q. 7, §42, Pa ra gone ellettico?, pp. 890-891. 18 Q. 10, §41, p. 1310. 19 Q. 10, § 41, pp. 1310-1311. 20 Q. 10, §41, pp. 1310-1311. 39 n.20 / 2008 21 Proprio gra zie a questa sepa ra zione Gra msci delinea nei Qua derni un’a na lisi socio-politica dello Sta to non a ffa tto a ppia ttito sull’idea di Sta to come pure riflesso della struttura economica o come “comita to d’a ffa ri” della borghesia . Sullo Sta to come “educa tore” e come strumento di inte-gra zione socia le dei ceti suba lterni, a spetto su cui qui non ci soffermia mo, cfr. Fonta na (2002, pp. 157-178) e sopra ttutto A. Burgio (2002), che nella prima pa rte del volume si sofferma sul modo in cui Gra msci descrive l’a scesa della borghesia , il nuovo modello di Sta to che essa inca rna e il nuovo a ssetto della società e dell’economia europea emerse da lle ceneri dell’ordine feuda le. 22 Q. 13, §18, Alcuni a spetti teorici e pra tici dell’“economismo”, pp. 1589-1590. La prima stesura di questo bra no si trova in Q. 4, § 38, Ra pporti tra strutture e superstrutture, p. 460,. 23 Cfr. Texier (1988, p. 80). In pa rte contra rio a questa lettura Liguori (xxxx p. 211). 24 Q. 4, §38, Ra pporti tra strutture e superstrutture, p. 460; Q. 13, § 18, Alcuni a spetti teorici e pra tici dell’“economismo”, p. 1590. Come noto per Gra msci il sinda ca lismo teorico non è che “un a spetto del liberismo economico giustifica to con a lcune a fferma zioni del ma teria lismo storico” (Q. 4, §38, Ra pporti tra strutture e superstrutture, p. 461). In termini genera li, la polemica di Gra msci è perta nto genera lmente rivolta contro quelle “posizioni che postula no, per ra gioni politiche 40 alla separazione tra politica (o Stato) ed economia21. Anche il passo più volte citato dei Qua derni nel quale, sottolineando la natura “politica” del “libero mercato”, Gramsci sembrerebbe contraddire queste affermazioni, si presta in verità a una lettura che non contrasta con quanto detto finora. Scrive l’autore dei Qua derni che “L’impostazione del movimento del libero scambio si basa su un errore teorico di cui non è difficile identificare l’origine pratica: sulla distinzione cioè tra società politica e società civile, che da distinzione metodica viene fatta diventare ed è presentata come distinzione organica. Così si afferma che l’attività economica è propria della società civile e che lo Stato non deve intervenire nella sua regolamentazione. Ma siccome nella realtà effettuale società civile e Stato si identificano, è da fissare che anche il liberismo è una “regolamentazione” di carattere statale, introdotto e mantenuto per via legislativa e coercitiva: è un fatto di volontà consapevole dei propri fini e non l’espressione spontanea automatica del fatto economico. Pertanto il liberalismo è un programma politico destinato a mutare, in quanto trionfa il personale dirigente di uno Stato e il programma economico dello Stato stesso, cioè a mutare la distribuzione del reddito nazionale”22. Molto si è discusso sul significato che avrebbe in questo brano il concetto di “società civile”, schiacciato per alcuni sull’idea propria della tradizione liberista di una “società economica” distinta dalla “società politica”23. é innegabile tuttavia che agli occhi di Gramsci la scissione tra politica ed economia aveva una sua legittimità metodologica nel momento di formazione e consolidamento del mercato capitalistico e che la stessa genesi della scienza economica sia avvenuta grazie a quella scissione. Da un certo momento la scienza economica è diventata autonoma rispetto alla scienza politica, e questo ha fatto sì che la riflessione sullo Stato venisse demandata a quest’ultimo campo del sapere. Questo non significa che gli economisti classici – e su questo Gramsci continuerà a insistere, anche nella polemica degli anni trenta su cui ci soffermeremo più avanti – ritenessero irrilevante la funzione fondamentale dello Stato nel definire le condizioni del “mercato determinato” attraverso la tutela dei diritti di proprietà. E che pertanto, mutamenti nei rapporti di forza politici avrebbero permesso mutamenti nel problema fondamentale della scienza economica, ossia “la distribuzione del reddito nazionale”. La legittimazione della separazione tra politica ed economica rimane comunque soltanto “metodica” e non “organica”, che altrimenti avrebbe significato – come nei fatti è avvenuto – una ipostatizzazione ad esempio del concetto di “libero mercato”. Questo tipo di errore è proprio secondo Gramsci non solo del liberismo, ma anche del sindacalismo teorico e del materialismo meccanicistico volgare, indirizzi come noto accomunati nella “categoria dell’economismo”24. In sostanza, descrivendo il liberalismo come una “regolamentazione statale”, non diversa dal protezionismo o da qualsiasi altra forma di intervento statale (Texier 1988, p. 80), Gramsci sottolinea come lo sviluppo dell’economa di mercato non sia stato affatto un processo spontaneo, quanto una scelta consapevole di natura politica. Questo non ha comunque impedito che la scienza economica si formasse assumendo come una dato esogeno il concetto di Stato e basasse le proprie argomentazioni sull’ipotesi astratta di una separazione tra mondo economico e mondo politico25. Questo processo – ed è qui la maggiore novità – non è Terenzio Ma cca belli La “grande trasformazione” tuttavia ritenuto irreversibile. Al contrario, vi sono molti segnali che mostrano come Gramsci maturi la convinzione che tale scissione sia da abbandonare (anche dal punto di vista “metodico”). L’interesse con cui segue il dibattito tra “corporativisti” ed economisti “puri” sul ruolo dello Stato è un primo segnale di questo mutamento di prospettiva. 3. Il ruolo dello Stato nell’economia: il dibattito degli anni trenta A partire dal 1930 il dibattito economico italiano è monopolizzato dalla sfida lanciata dai teorici del corporativismo contro la scienza economica ortodossa. Nonostante alcuni tentativi eclettici di conciliare i due approcci26, l’atteggiamento dei corporativisti è infatti generalmente di netta contrapposizione rispetto all’economia politica tradizionale (sia classica che neoclassica). Come noto, uno dei principali motivi di contrasto riguarda proprio il giudizio sul ruolo dello Stato nell’economia. Uno degli esponenti più rappresentativi dell’indirizzo corporativo è senza dubbio Ugo Spirito. Filosofo di formazione e allievo di Gentile, Spirito fu protagonista tra la fine degli anni Venti e l’inizio del decennio successivo di uno “dei più radicali e distruttivi attacchi che siano mai stati portati innanzi in Italia contro la scienza economica e i suoi cultori” (Santomassimo 1973, p. 67). Spirito era fautore di un radicale rinnovamento della scienza economica da realizzarsi abbandonando, da una parte, i principi dell’homo oeconomicus e, dall’altra, la concezione agnostica dello Stato propria della tradizione liberale27. é significativo l’interesse con cui Gramsci segue il dibattito alimentato dalle critiche di Spirito (Faucci 1990, p. 214), peraltro all’origine del suo crescente interesse per i temi economici28. Numerose annotazioni dei Qua derni vertono su Spirito e sul suo tentativo di declinare in modo affatto nuovo il concetto di Stato. é anzi probabile che proprio le provocazioni dell’allievo di Gentile abbiano giocato un ruolo rilevante nel ripensamento compiuto da Gramsci sui rapporti tra Stato ed economia. Gramsci appare attratto non solo dalla diatriba sulla legittimità della finzione dell’homo oeconomicus, ma anche e soprattutto dalla celebre polemica sul ruolo dello Stato nell’economia29. Dopo avere ferocemente attaccato le premesse individualistiche della scienza economica, la critica di Spirito si era infatti concentrata sulla netta separazione tra Stato e individuo postulata dagli economisti liberali. Ai suoi occhi, era propria questa separazione l’elemento distintivo dell’intera tradizione liberal-liberista. Osserva Spirito che “liberale […] è chi ritiene l’individuo in tutto o in parte estraneo all’organismo statale e perciò soggetto di alcune azioni economiche estranee ai fini dello Stato: liberale, in altri termini, è chiunque non giunga all’identificazione di individuo e Stato. In tale senso è chiaro che nessuno degli economisti [ortodossi] può sfuggire alla critica da me fatta” (Spirito 1930, p. 195). Il giudizio di Gramsci su queste declamazioni di Spirito è come noto di totale discredito. A essere prese di mira sono gli stessi presupposti filosofici da cui muove Spirito nel proprio tentativo di ridefinizione del concetto di Stato. In una nota del Qua derno 6, intitolata Pa ssa to e presente, Gramsci scrive infatti che: “la concezione dello Stato nello Spirito non è molto chiara e rigorosa. Talvolta (i liberisti) o per a bba gli teorici (i sinda ca listi), il dogma indiscutibile dell’a ssoluta e obiettiva a utonomia della sfera dell’economia , refra tta ria , per principio o costituzione na tura le, a qua lsia si intervento regola tore da pa rte della società politica . Su questo fronte la critica di Gra msci si scinde in due momenti: l’uno orienta to a confuta re la tesi dell’inopportunità o dell’illiceità dell’ingerenza della politica negli a ffa ri dell’economia ; l’a ltro, più in genera le, volto a contesta re la tesi che nega la possibilità (e a fferma l’inutilità ) di ogni incidenza della sovra struttura (dell’a zione soggettiva ) nei confronti della struttura economica . La polemica si sviluppa , quindi, da un la to in chia ve a nti-ca pita listica e, da ll’a ltro, in chia ve a ntimecca nicistica ” (Mura 1990, p. 79). 25 Specula re a l nostro a rgomento è la rivendica zione dell’a utonomia della “politica ”, come noto ispira ta da lla lettura di Ma cchia velli, la qua le, come sottolinea Femia , “ma nifests its own principles a nd tendencies distinct from those of economics” (Femia 1983, pp. 337 e 355). 26 Come quelli, a d esempio, di Filippo Ca rli o di Ma ssimo Fovel. 27 Sulla figura di Spirito, oltre a l la voro di Sa ntoma ssimo già cita to, cfr. La na ro (1971, pp. 57799); Perri e Pescia relli (1990, pp. 415-458). 28 Riprendo nel seguito a lcuni a spetti già discussi in T. Ma cca belli (1998). 41 n.20 / 2008 29 Su questa polemica , cfr. Fa ucci (1986, pp. 269-272); Sa ntoma ssino (1973, cit., pp. 100-101); Ca va lieri (1994, pp. 33-35). 30 Q. 6, §82 Pa ssa to e presente, p. 754. 31 “L’esclusione da lle ma terie economiche, a lmeno da l punto di vista a cca demico, sa rebbe dura ta fino a l 1928, qua ndo fu chia ma to a d a ssumere la ca ttedra di economia politica a lla Sa pienza di Roma . Le circosta nze nelle qua li era ma tura to l’a vvicenda mento la scia va no supporre che il regime volesse fa r occupa re il posto a uno studioso più vicino a lle proprie esigenze rispetto a l liberista Ricci. Nella prolusione a l corso, letta il 12 genna io 1929 e incentra ta sugli effetti della diversa dota zione di fa ttori nello sca mbio, dopo a ver brevemente fa tto cenno a lle circosta nze del suo ritorno ma sopra ttutto del suo a llonta na mento da gli studi economici, ria fferma va decisa mente, a dista nza di un trentennio, tutti i ca pisa ldi del proprio qua dro interpreta tivo” (F. Bientinesi). 32 Sta to che a ppunto, continua va Benini, è “un produttore continuo di beni, servizi e ordina -menti a venti ca ra ttere di stretta complementa rità coi beni, servizi e ordina menti dell’inizia tiva priva ta ” (Benini 1930, cit., pp. 134-135). 33 Nel fa moso sa ggio del 1901, Pa nta leoni discuteva proprio la meta fora a ttorno a cui si era a nda ta consolida ndo, nel corso dell’Ottocento, la tra dizione del socia lismo libera le: l’imma gine della corsa 42 sembra sostenga addirittura che prima che egli diventasse “la filosofia”, nessuno abbia capito nulla dello Stato e lo Stato non sia esistito o non fosse un “vero” Stato ecc. ma siccome vuol essere storicista, quando se ne ricorda, ammette che anche nel passato sia esistito lo Stato, ma che ormai tutto è cambiato o lo Stato (o il concetto dello Stato) è stato approfondito e posto su “ben altre” basi speculative che nel passato e poiché “quanto più una scienza è speculativa tanto più è pratica”, così pare che queste basi speculative debbano ipso facto diventare basi pratiche e tutta la costruzione reale dello Stato mutare perché lo Spirito ne ha mutato le basi speculative (naturalmente non lo Spirito uomo empirico, ma Ugo Spirito-Filosofia)”30. Se questi erano i fondamenti della critica di Spirito, per Gramsci era del tutto legittimo il silenzio mantenuto fino a quel momento dagli economisti. Spirito riuscì comunque ad alimentare un dibattito che entrò nel vivo con gli interventi di Rodolfo Benini e Luigi Einaudi, che accettarono di discutere le questioni poste sul tappeto dall’allievo di Gentile (Faucci 1990, pp. 214-5). Con i loro interventi essi contribuirono peraltro a delineare con più precisione i diversi fronti dottrinali. Spettava evidentemente a Einaudi la difesa d’ufficio “dei principi sommi” (Santomassimo 1973, p. 97) della scienza economica d’impronta liberale, mentre in una posizione più difficilmente collocabile si poneva Benini. Già protagonista sul finire dell’Ottocento del dibattito protezionismo-liberismo, Benini aveva poi abbandonato la teoria economica, per dedicarsi alla statistica e alla demografia. Nel 1928 rientra però tra i ranghi degli economisti, subentrando alla cattedra di Umberto Ricci. Sin dagli esordi, l’approccio dello studioso cremonese alla scienza economica si era rivelato molto distante dai canoni dell’ortodossia marginalista; il corporativismo non poteva che essere un approdo naturale per la sua economia politica31. Come lo stesso Gramsci avrà modo di sottolineare, la posizione di Benini è tuttavia abbastanza peculiare: certamente contrario al marginalismo e al liberismo, lo studioso cremonese rimane comunque non facilmente inquadrabile anche nel panorama del corporativismo. L’intervento di Benini, come egli stesso riconosce, è principalmente dovuto alla sollecitazione di Spirito affinché egli prenda posizione nel dibattito. Ma l’economista cremonese è costretto a riconoscere di non avere ancora maturato una idea compiuta sull’argomento. Accetta comunque di intervenire, riconoscendo un fondamento reale alle questioni sollevate da Spirito e condannando il silenzio fino ad ora mantenuto da molti economisti. La celebre affermazione di Benini è che l’economia era ancora una “mezza scienza” per non essere riuscita a ricomprendere nelle sue premesse, per una sorta di “ripugnanza” di32molti suoi cultori, “il concetto dello Stato, quale fattore della produzione” . E soprattutto, aggiungeva Benini, l’economia si è fermata a metà strada per aver trascurato il fatto che lo Stato è il principale regolare delle diverse forze economiche dei contraenti, l’istituzione cioè che sancisce, per usare le parole di Pantaleoni, le decisive “posizioni iniziali”33 dei soggetti economici. “Tutti veniamo al mondo con un patrimonio ereditato, – scrive Benini – che può variare da zero a qualche miliardo di nostra moneta; ci presentiamo alla carriera della vita, come ad una gara di corsa, movendo da posizioni iniziali vantaggiose o svantaggiose. La distribuzione dei corridori posti in partenza diversamente avanzati rispetto al traguardo, non è peranco entrata nelle regole “sportive” ma Terenzio Ma cca belli La “grande trasformazione” certamente fa regola nel mondo economico. Anzi, il primo capitolo da scrivere in Economia – dopo la definizione e un po’ di nomenclatura – dovrebb’essere proprio quello delle posizioni iniziali più o meno avanzate (leggasi: distribuzione più o meno equa della proprietà ) che la sorte e la legge ci assegnano al nostro nascere, perché da esse dipendono molte cose: educazione d’ambiente, modi di sentire riguardo al valore dei beni e dei servigi, professioni preferite, capacità di resistenza nei contratti, possibilità (grazie al diritto successorio e al fenomeno dell’interesse del capitale) di far vivere una discendenza “infinita” su una quantità “finita” di ricchezza. E così via. Ond’è con meraviglia che vediamo gran parte degli economisti e l’autore stesso della felice similitudine “posizioni iniziali” relegare la premesse in capitoli terminali dell’insegnamento o in separata sede; insomma fare dell’Economia teorica una costruzione senza la chiave di volta, che le è necessaria per reggersi in piedi in tutta la sua interezza” (Benini 1930, p. 137). Benini declinava in questo brano uno degli argomenti topici dell’intera tradizione del socialismo liberale, da Mill in poi caratterizzata dall’enfasi posta sulla disuguale distribuzione iniziale delle risorse economiche come condizione d’ingiustizia palese dell’economia capitalista (“ingiustizia” in senso liberale prima ancora che socialista). Nonostante i trascorsi “radicali” di inizio secolo, Benini non pare in verità avere mai tradotto in chiave “politica” il proprio giudizio sulle disuguali posizioni alimentate dall’eredità patrimoniale, come invece avevano fatto, ad esempio, autori come Eugenio Rignano (1901) all’inizio secolo o Carlo Rosselli nei primi scritti economici e negli scritti dell’esilio. Il giudizio non è comunque estemporaneo, in quanto destinato a diventare una delle architravi dell’economia politica di Benini. L’idea su cui egli continuamente insisterà è che gli economisti liberali non abbiamo mai saputo dare una adeguata collocazione al problema della disuguaglianza di condizioni iniziali dei soggetti economici, tra le fonti principali delle disuguaglianze che si riproducono in ambito capitalistico. é certamente interessante il fatto che né Spirito34 né Einaudi35 si soffermino nelle rispettive repliche su questo passaggio, colto invece da Gramsci in tutte le sue potenzialità. Nel commentare il dibattito, l’autore dei Qua derni cominciava innanzitutto sottolineando la sterilità della polemica. A pregiudicare il dialogo il fatto che gli economisti (nel caso specifico Einuadi) e Spirito “si riferiscono a cose diverse e usano linguaggi diversi”. Gli economisti, quando parlano dello Stato, pensano “all’intervento governativo nei fatti economici” da due punti di vista: in primo luogo “come regolatore ‘giuridico’ del mercato, cioè come la forza che dà al mercato determinato la forma legale, in cui tutti gli agenti economici si muovono a ‘parità di condizioni giuridiche’”; in secondo luogo “all’intervento governativo come creatore di privilegi economici, come perturbatore della concorrenza a favore di determinati gruppi”. Su un piano completamente differente si muove Spirito, il quale non ha altro punto di riferimento che la sua immagine “speculativa dello Stato, per cui l’individuo si identifica con lo Stato”36. Se questa è la fondamentale “radice del dissenso”37 è impossibile che da essa possa scaturire un dialogo costruttivo38. Gramsci appare invece attratto dalle argomentazioni di Benini. Al dialogo tra sordi tra Spirito e Einaudi è sfuggito infatti “un terzo aspetto” del problema che “equa ”, cioè delle condizioni a ffinché la concorrenza economica possa svolgersi se-condo le stesse moda lità delle competizioni sportive. Egli tra duceva il problema a vva lendosi dei concetti di “posizioni inizia li” e “posizioni termina li” (cfr. Pa nta leoni xxxx, pp. 333355). Pur ra f-figura ndo il problema negli stessi termini dei socia listi libera li, Pa nta leoni conda nna va tutta via in modo perentorio l’idea le dell’ugua glia nza di condizioni inizia li. 34 Nella propria replica Spirito si limita va a d osserva re che l’economia politica “non è ‘mezza scienza nel significa to dimensivo dei termini’, va le a dire nel senso di essersi occupa ta dell’individuo (una delle componenti) e non dello Sta to (l’a ltra componente), ma mezza proprio nel significa to deteriore di scienza fonda ta su premesse erronee, e propria mente sull’iposta si di un individuo e di uno Sta to inconcepibili”. Benini viene rimprovera to di ra giona re a ncora secondo i preconcetti della scienza economica tra diziona le e di non a vere compreso la necessità impellente di una sua ra dica le rifonda zione. Anche integra ndo il ra giona mento economico con l’ipotesi dello Sta to produttore – continua va Spirito – si rima rrebbe pur sempre a ll’interno di una concezione dua listica dell’individuo e dello Sta to. La costruzione del nuovo a ppa ra to teorico deve invece pre-supporre “l’immedesima zione a ssoluta della vita dello Sta to con quella dell’individuo”, unico “criterio” entro cui muoversi per una rea le “riforma della scienza 43 n.20 / 2008 economica ” (U. Spirito 1930, p. 148). 35 L’intervento di Eina udi a ppa re detta to da l desiderio di rispondere a Benini più che da lle provoca zioni di Spirito. Einua di infa tti dedica a mpio spa zio del proprio intervento per controba tte-re a ll’idea che tra gli economisti vi sia sta ta una “ripugna nza ” nei confronti del concetto di “Sta to produttore”. Secondo l’economista torinese, da Smith in poi “a nche i liberisti più impertinenti” si sono occupa ti delle “funzioni economiche a llo Sta to” (R. Fa ucci 1986, p. 271). L’idea di un pregiudizio a ntista ta listico degli economisti, proviene, secondo Eina udi, da lla forma in cui era no scritti molti ma nua li di storia del pensiero economico: pa rla ndo di interventisti, protezionisti, liberisti, ecc., questi storici “ha nno imma gina to di fa re una storia delle dottrine economiche ed ha nno invece scritto una storia dell’influenza che le idee filosofiche correnti e le circosta nze politiche, economiche socia li esercita no sul pensiero degli economisti” (L. Eina udi 1930, pp. 160-168). Nessuno rilievo invece da pa rte di Eina udi sulla questione principa le solleva ta da Benini, ossia sul fa tto che l’economia a bbia eluso il problema della “posizioni inizia li” dei soggetti economici. Forse memore di questa polemica , Eina udi dedi-cherà invece a mpio spa zio a l tema della disugua glia nza dei punti di pa rtenza nelle Lezioni di eco-nomia socia le, tenute negli a nni dell’esilio e pubblica te nel 1944. 36 Q. 10, §20 Punti per lo studio dell’economia , pp. 1257-1258. 44 Benini diversamente è riuscito a cogliere con precisione: è quello per cui, identificandosi lo Stato con un gruppo sociale, l’intervento statale non solo avviene nel modo accennato dall’Einaudi, o nel modo voluto dallo Spirito, ma è una condizione preliminare di ogni attività economica collettiva, è un elemento del mercato determinato, se non addirittura lo stesso mercato determinato, poiché è la stessa espressione politica-giuridica del fatto per cui una determinata merce (il lavoro) è preliminarmente deprezzata, è messa in condizioni di inferiorità competitiva, e paga per tutto il sistema determinato. Questo punto è messo in luce dal Benini, e non si tratta certo di una scoperta; ma è interessante che il Benini vi sia giunto e in che modo vi è giunto. Poiché il Benini vi è giunto partendo da principi dell’economia classica, ciò che appunto irrita l’Einaudi39. Gramsci sembra quindi apprezzare il tentativo compiuto da Benini di criticare la scienza economica dall’interno, muovendo cioè dai suoi stessi presupposti metodologici. Secondo l’autore dei Qua derni l’economista cremonese, nel sottolineare l’asimmetria dei rapporti di forza tra i soggetti economici, è riuscito a mettere opportunamente in evidenza la funzione dello Stato come “condizione preliminare di ogni attività economica collettiva”, cioè il suo ruolo decisivo nel rafforzare, ad esempio attraverso la legittimazione dei passaggi d’eredità, la riproduzione di radicali disuguaglianze nei punti di partenza degli individui. Ma soprattutto, sottolinea Gramsci, il risultato è tanto più importante tenendo conto che Benini “vi è giunto partendo dai principi dell’economia classica”. Se Spirito non è riuscito a comprendere che “l’economia classica” è la sola “storicista”, nonostante “l’apparenza delle sue astrazioni e del suo linguaggio matematico”40 a Benini va dato atto, invece, di aver compreso come anche gli strumenti e i concetti dell’economia politica classica siano in grado di assumere la funzione dello Stato all’interno del ragionamento economico, quale soggetto appunto che “interviene in ogni momento nella vita economica”. Un risultato di cui gli economisti classici erano perfettamente consci, se non altro per aver espressamente riconosciuto che nel mercato capitalistico “ogni forma di proprietà è legata allo Stato” e che i meccanismi del mercato sono costituiti da “un tessuto continuo di passaggi di proprietà”41. Probabilmente Gramsci non aveva sottomano la Ricchezza delle Na zioni , che avrebbe permesso ampi riscontri alle proprie convinzioni. Come noto, infatti, Smith scriveva che “il governo civile, in quanto viene instaurato per la sicurezza della proprietà, viene in realtà instaurato per la difesa dei ricchi contro i poveri, cioè di coloro che hanno qualche proprietà conto coloro che non ne hanno nessuna” (Smith 1976, p. 707), un’affermazione che collima perfettamente con le riflessioni dell’autore dei Qua derni . Anche agli occhi di Gramsci, in sostanza, l’intervento dello Stato non si manifesta “soltanto nella attribuzione di privilegi economici, e soprattutto non si riduce a questa struttura giuridico-legale che è il correlato dello scambio di merci e che assicura il principio di uno scambio ‘uguale’. Questa struttura giuridica è reale, ma non deve far dimenticare che lo Stato, essendo la forza organizzata di un gruppo sociale, non si contenta di garantire questa parità giuridico-formale fra coloro che scambiano, ma anche il monopolio delle condizioni oggettive della produzione (proprietà privata capitalistica). Lo scambio di merci nella società capitalistica è anche e soprattutto rapporto Terenzio Ma cca belli La “grande trasformazione” salariale capitalista. é ciò che Benini ha messo in luce nel linguaggio dell’economia politica classica” (Texier 1988, p. 19). Indubbiamente queste considerazioni rivelano una maggiore complessità rispetto alla formula della scissione tra politica ed economia postulata dal giovane Gramsci. Non ne incrinano tuttavia in modo radicale la sostanza: esse sono in qualche modo il presupposto, spesso dimenticato, della scissione tra politica ed economia realizzata dalla rivoluzione capitalista, da cui tuttavia si è potuto in larga parte prescindere in quanto la dinamica della società civile (nel senso della struttura economica) ha guadagnato una propria autonomia grazie proprio a quella cornice giuridica che ha garantito la tutela dei diritti di proprietà e una sorta di neutralità (per quanto fittizia) dello Stato. La riflessione di Gramsci appare tuttavia fare un passo ulteriore, andando nella direzione di una maggiore consapevolezza del fatto che effettivamente qualcosa è cambiato nei rapporti tra Stato ed economia. 4. La crisi delle economie liberali Il tema della “crisi” è come noto centrale nell’elaborazione teorica dei Qua derni . Di particolare rilievo ai fini del nostro discorso il fatto che la riflessione sulla crisi spinga l’autore dei Qua derni a porre su basi affatto nuove il problema dei rapporti tra Stato ed economia. Dietro la discussione tra Spirito, Einaudi e Benini sulla funzione dello Stato si cela in effetti a parere di Gramsci uno dei più profondi mutamenti che stanno attraversando le società capitalistiche occidentali. La guerra prima, e la crisi economica poi, hanno definitivamente rotto i fragili equilibri dell’economia liberale ottocentesca. La “grande trasformazione”, per riprendere la formula di Polaniy, sta ridisegnando i confini tra “politica” ed “economia”. Quanto è in gioco è la rottura dei meccanismi di autoregolazione del mercato che avevano sorretto gli equilibri economici e politici nel corso di tutto l’Ottocento. La diagnosi di Gramsci non è per questo meno radicale di quella avanzata dallo studioso ungherese: la civiltà del diciannovesimo secolo è di fronte a una “crisi” che affonda le sue radici nell’allentarsi della forza del mercato autoregolato come chiave di volta del sistema istituzionale (Polanyi 1974). Il primo aspetto da mettere in evidenza, per entrare nel vivo della riflessione gramsciana, è il giudizio sulla radicalità del cambiamento in atto. Siamo cioè di fronte a una nuova fase nella storia delle società industriali dovuta al coagularsi di una serie di problemi che risalgono al secolo precedente ma che il primo conflitto mondiale contribuisce ad amplificare: “[...] la guerra del 1914-1918 rappresenta una frattura storica, nel senso che tutta una serie di questioni, che molecolarmente si accumulavano prima del 1914, hanno fatto mucchio, modificando la struttura generale del processo precedente: basti pensare all’importanza assunta dal fenomeno sindacale, termine generale in cui si assommano diversi problemi e processi di sviluppo di diversa importanza e significato (parlamentarismo, organizzazione industriale, democrazia, liberismo), ma anche obiettivamente riflette il fatto che una nuova forza sociale si è costituita, ha un peso non più trascurabile, ecc.”42. Dal punto di vista politico e sociale, i motivi della crisi rimandano essenzialmente all’esaurirsi della funzione propulsiva della democrazia borghese (o liberale). 37 Q. 6, §82 Pa ssa to e presente, p. 753. 38 Un’osserva zione che coglie con precisione lo sta to d’a nimo dello stesso Eina udi, se è vero che poco tempo dopo scriverà a Benedetto Croce di essersi pentito di a ver pa rtecipa to a una pole-mica che non poteva trova re un comune terreno di confronto e di dia logo (Fa ucci 1986, p. 272). 39 Q. 10, §20 Punti per lo studio dell’economia , p. 1258. 40 Q. 8, §216, Noterelle di economia . Ugo Spirito e C., p. 1077. 41 42 Q. 6, §10 Pa ssa to e presente, p. 692. Q. 15, §59, Risorgimento ita lia no, p. 1824. 45 n.20 / 2008 43 Come noto Gra msci a vvia nei Qua derni una riela bora zione del lessico politico proprio a lla luce delle tra sforma zioni struttura li a vvenute sul terreno dell’economia . Come sottolinea Burgio, “la porta ta dei muta menti del qua dro socia le e politico prodotti da lla modernizza zione è ta le da ri-chiedere un ra dica le ripensa mento della strumenta zione a na litica tra diziona le” (Burgio 2002, p. 34). 44 M. Telò, Gra msci e il nuovo ca pita lismo, “Critica ma rxista ”, n. 6, 1987, pp. 82-83. 46 La lettura gramsciana in chiave progressiva dello Stato emerso dopo la rivoluzione industriale è stata sottolineata da Alberto Bugio, il quale ha tuttavia mostrato come agli occhi di Gramsci questo stesso “Stato” sia entrano successivamente in una fase involutiva. Tale dinamica regressiva ha assunto principalmente la forma di una “chiusura castale”, una delle principali cause della “crisi organica” delineata da Gramsci (Burgio 2002, pp. 136-7). Ciò si è tradotto in una miscela esplosiva con lo scoppio della grande guerra. Dal punto di vista economico, invece, la diagnosi di Gramsci fa leva essenzialmente sulla dinamica del saggio di profitto e sulle trasformazioni organizzative del capitalismo avanzato, aspetti questi che discuteremo più in dettaglio nel prossimo paragrafo. L’aspetto che ora vorremmo sottolineare è l’immagine generale della crisi che Gramsci ci trasmette, che appare essere comune ad autori molto diversi tra loro: non solo Karl Polanyi, ma ad esempio Oswald Spengler, o il teorico dei cicli economici Kondrat’ev o ancora “le riflessioni di Trockij sulla dinamica delle rivoluzioni europee”. “Non è un caso se proprio alla fine della Prima guerra mondiale vede la luce una serie di lavori che annunciano l’epilogo della civiltà occidentale, analizzano la sincronia tra un’‘onda lunga’ dell’economia capitalista e la guerra, o annunciano un nuovo ciclo di rivoluzioni” (Traverso 2007, p. 45). Gramsci abbandonerà presto la visione “catastrofista” di queste dinamiche, elaborando un nuovo apparato concettuale attraverso il quale leggere le risposte messe in campo dalle società occidentali per far fronte a questi problemi (naturalmente alla luce del fallimento della rivoluzione socialista)43. Rimane comunque il fatto che anche agli occhi di Gramsci nella prima guerra mondiale si “condensino” una serie di mutamenti dirompenti “le cui premesse si sono accumulate, nella lunga durata, nel corso del secolo precedente” (Traverso 2007, p. 44). Come è stato osservato, nei Qua derni il fenomeno delle “crisi economiche” viene in effetti ricompresso “nel concetto più generale di ‘crisi storiche’” (Rossi e Vacca 2007, p. 132). Pur non sottovalutando la depressione scoppiata col grande crollo del 1929, egli ritiene che questa sia una manifestazione aggravata di una fase critica delle società capitalistiche già evidente, nei suoi tratti salienti, con la guerra mondiale e il primo dopoguerra44. La crisi del 1929 non è pertanto interpretabile nell’ambito delle tradizionali concezioni cicliche della dinamica capitalistica, cioè come congiuntura negativa superabile lasciando operare le stesse leggi del mercato. Gli avvenimenti degli anni trenta sono la testimonianza di una trasformazione ben più radicale, un processo irreversibile di cui è riduttivo porre l’inizio nel “crack” del 1929. In una nota del 1933, discutendo appunto le interpretazioni della crisi, Gramsci pone espressamente il quesito “Quando è cominciata la crisi?”: “Si può dire che della crisi come tale non vi è data d’inizio, ma solo di alcune “manifestazioni” più clamorose che vengono identificate con la crisi, erroneamente e tendenziosamente. L’autunno del 1929 col crack della borsa di New York è per alcuni l’inizio della crisi e si capisce per quelli che nell’americanismo vogliono trovare l’origine e la causa della crisi. Ma gli eventi dell’autunno 1929 in America sono appunto una delle clamorose manifestazioni dello svolgimento critico, nient’altro. Tutto il dopoguerra è in crisi, con tentativi di ovviarla, che volta a volta hanno fortuna in questo o quel paese, nient’altro” (Q. 15, 95, Passato e presente. La crisi, p. 1755- 1756). Gli anni tra le due guerre sono quindi per Gramsci un periodo di crisi di lunga Terenzio Ma cca belli La “grande trasformazione” durata. Ed è questo il motivo per cui egli ricorre alla categoria di “crisi organica” (o storica) criticando in modo severo i teorici della “crisi congiunturale”. La depressione degli anni trenta non è unicamente dovuta alla crisi economica, per quanto grave, ma rimanda a una dinamica “ben più antica, duratura e strutturale rispetto ai caratteri congiunturali della crisi del 1929” (Baratta 1987, p. 27). Proprio per questi motivi, l’anacronismo della scienza economica ortodossa si manifesta in tutta la sua gravità. A parere di Gramsci quasi tutti gli economisti di estrazione liberale hanno sottovalutato la radicalità del cambiamento in atto. A essere prese di mira sono soprattutto le diagnosi di Einaudi45, il quale non è riuscito a “cogliere i fattori di mutamento del ‘mercato determinato’”, ed è arrivato a confondere “i parametri con le variabili in movimento. Di qui l’erroneità delle sue diagnosi della crisi (le sue riflessioni sul tema ‘suonano come arguzie da rammollito’) e l’insufficienza delle terapie da lui caldeggiate”: “Einaudi ristampa brani di economisti di un secolo fa e non si accorge che il “mercato” è cambiato, che i “supposto che” non sono più quelli. La produzione internazionale si è sviluppata su tale scala e il mercato è talmente divenuto complesso, che certi ragionamenti appaiono infantili […] Einaudi non tiene conto che sempre più la vita economica si è venuta incardinando su una serie di produzioni di grande massa e queste sono in crisi: controllare questa crisi è impossibile appunto per la sua ampiezza e profondità, giunta a tale misura che la quantità diviene qualità, cioè crisi orga nica e non più di congiuntura . Einaudi fa ragionamenti appropriati per le crisi di congiuntura, perché vuol negare che esista una crisi organica, ma questa è “politica immediata”, non analisi scientifica, è “volontà di credere”, “medicina per le anime” e ancora esercitata in modo puerile e comico”46. Decisivo dunque il concetto che attraversa l’intera riflessione economica di Gramsci, ossia il concetto di “mercato determinato”. E il mercato determinato non è più quello prevalentemente concorrenziale del XIX secolo ma è diventato quello oligopolistico e su grande scala della seconda rivoluzione industriale, dove la chandleriana “mano visibile” ha sostituito la smithiana “mano invisibile” (Chandler 1977); inoltre lo Stato non è più il “guardiano notturno” che vigila solo per la tutela dei diritti di proprietà, ma è diventato un elemento che condiziona fortemente lo svolgimento stesso dell’economia. 45 Cfr. Fa ucci (1986, p. 278). Ricordia mo che per Eina udi la crisi na sce da i cicli economici, che possono essere di lungo periodo (dovuti essenzia lmente a fa ttori moneta ri) o di breve periodo (dovuti a gli errori previsiona li degli a genti economici). Questi ultimi si risolvono la scia ndo libero sfogo a lle forze di merca to, ed è a ppunto questa la ricetta riba dita da Eina udi per la crisi degli a nni trenta (Fa ucci 1986, pp. 251-252). 46 Q. 8, §216 Noterelle di economia . Ugo Spirito e C, pp. 1077-1078. 5. La risposta economica alla crisi: il “fordismo” come innovazione di processo Nel quadro di questo giudizio storico sulla crisi che attraversa le economie di tutti i paesi industriali, Gramsci avvia la riflessione sul fordismo e sul taylorismo, intesi come modelli di razionalizzazione dei metodi di lavoro il cui obiettivo è appunto quello di superare la fase critica sopra delineata47. Ed è di rilievo l’abbozzo di analisi economica che Gramsci sviluppa nei Qua derni per spiegare il fenomeno. Quale che sia il significato che si vuole dare al termine economia , non si può negare che le note del celebre Qua derno 22, intitolato America nismo e fordismo, costituiscono una prova esemplare dell’importanza attribuita da Gramsci allo studio dei fatti economici, nonché della loro rilevanza come momenti con- 47 Riprendo qui a lcuni punti presenti in M. Guidi, T. Ma cca belli, 1999. 47 n.20 / 2008 48 49 (Dubla 1989, p. 71.) Q. 15, §5, Pa ssa to e presente. La crisi, p. 1756. 48 dizionanti la vita associata e civile. Come è noto, al centro delle riflessioni di America nismo e fordismo troviamo il tentativo di interpretare i processi di riorganizzazione del lavoro in atto nelle società industriali più avanzate (“fordismo”) nell’ottica delle trasformazioni sociali ed umane imposte dalla razionalizzazione del mondo industriale (“americanismo”)48. Gramsci prende in esame il fenomeno nelle sue più diverse manifestazioni, partendo dai problemi interni alla fabbrica, discutendo le ripercussioni sociali, sottolineando i mutamenti istituzionali (in particolare sul piano dei rapporti tra politica ed economia), per arrivare infine a interrogarsi sul nuovo ruolo egemonico a livello internazionale degli Stati Uniti. Sul piano aziendale l’impronta del fordismo è data dalla crescente meccanizzazione del processo produttivo e dalla conseguente organizzazione scientifica del lavoro (quella ad esempio realizzata con il sistema “Taylor”, una delle prime soluzioni scientifiche espressamente finalizzate alla razionalizzazione produttiva). Dirette conseguenze di tali soluzioni organizzative sono il rigido modello piramidale e gerarchico imposto dalla nuova divisione del lavoro nonché il crescente distacco dell’operaio dalla produzione, fenomeno quest’ultimo dovuto a una esasperata parcellizzazione delle operazioni che annulla qualsiasi possibilità di controllo del lavoratore. A fronte della rigida disciplina cui l’operaio va sempre più soggetto, si pone però il fenomeno degli “alti salari” e quindi la possibilità di un elevamento del tenore di vita per alcune frange di lavoratori. Tali mutamenti hanno poi decisive ripercussioni anche fuori dalla fabbrica, arrivando a toccare anche gli ambiti più privati della vita degli individui (ad esempio la sessualità). Il processo di razionalizzazione produttiva investe quindi l’ambito dei rapporti tra economia e politica, che derivano dal nuovo ruolo assunto dallo Stato come organismo di regolazione e di intervento nell’economia e nella società. Questi, in estrema sintesi, i principali elementi di un processo di trasformazione che, sebbene destinato a propagarsi in tutta Europa, ha come proprio baricentro, nei primi decenni del Novecento, la società e l’economia americana. Come anticipato, Gramsci legge il fenomeno del fordismo alla luce della crisi organica che ha investito le società liberali, cercando innanzitutto di ricondurre le manifestazioni di tale crisi alle sue cause economiche, e non solo alle sue manifestazioni sovrastrutturali e ideologiche. Ritiene infatti fondamentali “questi tre punti: 1) che la crisi è un processo complicato; 2) che si inizia almeno con la guerra, se pure questa non ne è la prima manifestazione; 3) che la crisi ha origini interne, nei modo di produzione e quindi di scambio, e non in fatti politici e giuridici, paiono i tre punti da chiarire con esattezza”49. Gramsci non rinuncia a interrogarsi sulle “origini interne” della crisi, guardando cioè più da vicino alle cause di natura economica che hanno portato alla esigenza di un radicale mutamento nei metodi e nell’organizzazione della produzione. La questione è affrontata ricorrendo a tipiche categorie marxiane, in particolare alle dinamiche sottostanti la legge tendenziale della caduta del saggio di profitto, abbozzando però anche una spiegazione delle risposte alla crisi che chiama in causa le dinamiche innovative e dello sviluppo rese celebri da Schumpeter. L’idea fondamentale è che il fordismo sia una strategia per uscire dalla crisi; crisi, a sua volta, che è una diretta conseguenza dei meccanismi di accumulazione. I processi di razionalizzazione non sono così che un mezzo per incidere sul plu- Terenzio Ma cca belli La “grande trasformazione” svalore relativo, secondo le modalità esposte da Marx nel libro III del Ca pita le: “Tutta l’attività industriale di Henry Ford si può studiare da questo punto di vista: una lotta continua, incessante per sfuggire alla legge della caduta del saggio di profitto, mantenendo una posizione di superiorità sui concorrenti. Il Ford è dovuto uscire dal compromesso strettamente industriale della produzione per organizzare anche i trasporti e la distribuzione della merce, determinando così una distribuzione della massa del plusvalore più favorevole all’industriale produttore”50. L’analisi del fenomeno americano viene così agganciata ai cardini economici del sistema teorico di Marx, al nucleo centrale della marxiana critica dell’economia politica51. Lo sviluppo dell’organizzazione scientifica del lavoro, nelle sue varie forme di fordismo e taylorismo, viene infatti analizzato come tentativo attuato dalle classi industriali di superare un’incombente crisi di redditività, da cui l’esigenza appunto di cercare soluzioni innovative sul fronte organizzativo. “La legge tendenziale della caduta del saggio del profitto – osserva Gramsci – sarebbe quindi la causa del progresso dei metodi di lavoro e di produzione e di modificazione del tipo tradizionale dell’operaio”52, essendo queste ultime null’altro che manifestazioni delle controtendenze sottostanti alla stessa dinamica del saggio di profitto. Le considerazioni di Gramsci si pongono tra l’altro l’obiettivo di intervenire nella controversa questione della validità scientifica della legge marxiana della caduta del saggio di profitto e delle crisi che da questa sarebbero dovute scaturire. L’interpretazione corrente assegnava alla legge elaborata da Marx un rigido determinismo, tanto che da essa sarebbe dovuto scaturire un imminente e inevitabile crollo del sistema capitalistico. Tale interpretazione era stata fatta propria sia dagli autori marxisti che da avversari del marxismo, che appunto adducevano il mancato crollo del capitalismo a prova lampante della falsità della legge. Gramsci tende invece a ridimensionare il determinismo associato alla legge della caduta del saggio di profitto, sottolineando il suo “aspetto contraddittorio” rispetto a “un’altra legge, quella della produzione del plusvalore relativo”. In altri termini, l’introduzione di nuovi processi lavorativi più razionali contribuisce alla formazione di quello che Marx chiama il “plusvalore relativo”, mettendo in moto le cosiddette cause controperanti alla caduta del saggio profitto. La crisi finale del capitalismo avrebbe così potuto verificarsi solo se “la caduta del saggio del profitto” avesse prevalso sulla produzione di plusvalore relativo53, una tendenza, però, che proprio l’avvento del fordismo tendeva a rovesciare. Su questo terreno nascono le famose critiche di Gramsci a Benedetto Croce, colpevole di avere contribuito a dare un immagine distorta della legge54. L’errore del filosofo napoletano nascerebbe a parere di Gramsci proprio dal non avere inteso il carattere contraddittorio e condizionale della legge e dall’aver dedotto la prova della sua falsità dagli argomenti utilizzati dallo stesso Marx nel primo libro del Ca pita le55. La contraddizione è dovuta al fatto che “mentre da un lato il progresso tecnico permette una dilatazione del plusvalore, dall’altro determina, per il cangiamento che introduce nella composizione del capitale, la caduta tendenziale del saggio di profitto”. L’idea presentata da Marx nel terzo libro, deve essere pertanto interpretata partendo dal problema “impostato nel I libro della Critica dell’economia politica , la dove si parla del plusvalore relativo e del pro- 50 Q, 10, §36, Punti di riferimento per un sa ggio su Croce, pp. 1281-1282. 51 “Ta ylorismo e fordismo ra ppresenta no a gli occhi di Gra msci la stra tegia più orga nica e ‘scientifica ’ di intensifica zione dei ritmi produttivi, la più sistema tica risposta ‘soggettiva ’ evoca ta da i mecca nismi ‘oggettivi’ da ll’a ccumula zione del ca pita le” (Ia cchini 1987, p. 105). 52 Q, 10, §41, p. 1313. 53 Q. 10, §33, Punti di riferimento per un sa ggio su Croce, p. 1279. Sull’interpreta zione gra mscia na della legge della ca duta del sa ggio di profitto si veda no le osserva zioni di Piero Sra ffa , secondo cui l’a utore dei Qua derni, essendo costretto a cita re a memoria le opere di Ma rx, sa rebbe incorso in a lcuni errori (cfr. Ba da loni 1992, pp. 44-46). Il problema degli eventua li errori interpreta tivi di Gra msci non è rileva nte a i fini della presente ricostruzione, che si propone sola mente di mostra re lo stretto lega me istituito nei Qua derni tra la dina mica del profitto e l’a vvento del fordismo. 54 Si veda in proposito il sa ggio di Croce del 1899 da l titolo Una obiezione a lla legge ma rxistica della ca duta del sa ggio di profitto, ora in Croce (1978). 55 “Il Croce presenta come obbiezione a lla teoria esposta nel III volume quella pa rte di tra tta zione che è contenuta nel I volume, cioè espone come obbiezione a lla legge tendenzia le della ca duta del sa ggio del profitto la dimostra zione dell’esistenza di un plusva lore rela tivo, senza però 49 n.20 / 2008 ma i a ccenna re una sola volta a l volume I, come se l’obbiezione fosse sca turita da l suo cervello, o a ddirittura fosse un porta to del buon senso (tutta via occorre rivedere i testi della Critica dell’Economia politica prima di presenta re questa critica a ll’obbiezione del Croce, ca utela che d’a ltronde si rende necessa ria per tutte queste note, che sono sta te scritte in gra ndissima pa rte fonda ndosi sulla memoria ). In ogni ca so è da fissa re che la quistione della legge tendenzia le del sa g-gio del profitto non può essere studia ta sola mente sull’esposizione da ta da l III volume; questa tra tta zione è l’a spetto contra dditorio della tra tta zione esposta nel I volume, da cui non può essere sta cca ta ” (Q. 10, §33, Punti di riferimento per un sa ggio su Croce, pp. 12781279). 56 Q. 10, §33, Punti di riferimento per un sa ggio su Croce, p. 1278. 57 Q. 10, §41, p. 1312. 58 Q. 15, §26, Noterelle di economia politica , p. 17821783). 59 50 Q. 10, §41, p. 1312. gresso tecnico come causa appunto di plusvalore relativo”56. Non è qui il caso di dilungarsi ulteriormente sulla interpretazione gramsciana della legge tendenziale della caduta del profitto, se non per sottolineare lo stretto legame posto nei Qua derni con il fenomeno del “fordismo”. L’affermarsi del nuovo modello organizzativo non è infatti a parere di Gramsci che una delle dinamiche che meglio chiariscono la possibilità di sfuggire alla diminuzione del profitto per mezzo di innovazioni che incidono sul plusvalore relativo, tanto che la legge tendenziale del profitto “dovrebbe essere studiata sulla base del taylorismo e del fordismo”. Questi sono infatti “due metodi di produzione e di lavoro” che nascono proprio dall’esigenza di superare “la legge tendenziale, eludendola col moltiplicare le variabili” che possono frenare “l’aumento progressivo del capitale costante”: Le variabili sono queste (tra le più importanti, ma dai libri del Ford si potrebbe costruire un registro completo e molto interessante): 1) le macchine continuamente introdotte sono più perfette e raffinate; 2) i metalli più resistenti e di durata maggiore; 3) si crea un tipo nuovo di operaio monopolizzato con gli alti salari; 4) diminuzione dello scarto del materiale di fabbricazione; 4) utilizzazione sempre più vasta di sempre più numerosi sottoprodotti, cioè risparmio di scarti che prima erano necessari e che è stato reso possibile dalla grande ampiezza dell’impresa; 6) utilizzazione dello scarto di energie caloriche: per esempio il calore degli alti forni che prima si disperdeva nell’atmosfera viene immesso in tubatura e riscalda gli ambienti d’abitazione, ecc.57. Il riferimento da parte di Gramsci al “monopolio” delle imprese che attuano con successo il modello organizzativo fordista si presta a ulteriori considerazioni. La descrizione che troviamo nei Qua derni non solo infatti ricorre, come abbiamo illustrato, alle categorie marxiane, ma presenta per certi versi anche alcune analogie con la teoria schumpeteriana dell’innovazione. L’applicazione dei metodi organizzativi di Ford si può in effetti interpretare come un decisivo salto qualitativo nel processo di sviluppo economico dovuto all’introduzione di una innovazione, in questo caso di una fondamentale innovazione di processo. é emblematica a questo proposito la critica gramsciana condotta nei confronti di Einaudi, il quale riteneva come uniche innovazioni quelle di prodotto. Tutto il processo di razionalizzazione – scrive Gramsci – non è che un processo di “inventività”, di applicazioni di nuovi ritrovati tecnici e organizzativi. Pare che l’Einaudi intenda per invenzioni solo quelle che portano all’introduzione di nuovi tipi di merci, ma anche da questo punto di vista forse l’affermazione non è esatta. In realtà però le invenzioni essenziali sono quelle che determinano una diminuzione dei costi, quindi allargano i mercati di consumo, unificano sempre più vaste masse umane ecc.; da questo punto di vista quale periodo è stato più “inventivo” di quello della razionalizzazione?58. Il fordismo è pertanto a parere di Gramsci una innovazione di processo a tutti gli effetti che segue le normali leggi dello sviluppo economico. I produttori godono inizialmente di un vantaggio competitivo che li porta a trovarsi in una situazione assimilabile al monopolio, posizione che si rafforza nel momento in cui l’innovazione organizzativa permette di passare da “un periodo di costi crescenti (cioè di caduta del saggio di profitto) a un periodo di costi decrescenti”59. Una delle componente decisive di tale monopolio è costituita dai cosiddetti “alti salari” che Terenzio Ma cca belli La “grande trasformazione” le imprese “taylorizzate” devono pagare, “se vogliono formare una maestranza selezionata e se vogliono contendere ai concorrenti gli operai più predisposti, dal punto di vista psicotecnico, alle nuove forme di produzione e di lavoro”60. Le industrie a cui si devono “l’iniziativa dei nuovi metodi tayloristici” godono pertanto di “profitti di monopolio” e conseguenti “salari di monopolio”61. Come ogni innovazione, anche il modello fordista è però soggetto alle leggi della concorrenza e dello sviluppo economico. Alla rottura prodotta dall’imprenditore innovativo segue la fase imitativa e la diffusione su larga scala della stessa innovazione. Se pertanto “l’industria americana ad altri salari” può sfruttare inizialmente “un monopolio dato dall’avere l’iniziativa dei nuovi metodi”, non può impedire l’emulazione dei concorrenti. Il monopolio sarà così “necessariamente prima limitato e poi distrutto dalla diffusione dei nuovi metodi sia nell’interno degli S.U. sia all’esterno (cfr. il fenomeno giapponese dei bassi prezzi delle merci) e coi vasti profitti spariranno gli alti salari”62. Con questa descrizione dei meccanismi concorrenziali che stanno alla base tanto della nascita del fordismo, in quanto fondamentale innovazione di processo, che della sua successiva diffusione e propagazione, per effetto delle leggi dello sviluppo, siamo entrati nel cuore del celebre Qua derno 22, su cui dobbiamo ora soffermarci per discutere le ripercussioni a livello di rapporti tra Stato ed economia. 60 61 62 Q. 10, §41, p. 1312. Q. 4, §52, America nismo e fordismo, p. 493. Q. 22, §13, Gli a lti sa la ri, p. 2172. 6. Le risposte politiche alla crisi: l’americanismo, il fascismo e il nuovo ruolo dello Stato L’enfasi che abbiamo posto sull’analisi strutturale dei Qua derni non deve fare dimenticare che l’interesse di Gramsci va bene al di là dei fattori puramente economici sottostanti l’avvento del fordismo. La riorganizzazione dei metodi di lavoro non può che investire direttamente la società nel suo complesso: da un lato attraverso la formazione di una nuova coscienza sociale nella classe lavoratrice; dall’altro attraverso la creazione di un nuovo assetto istituzionale delle società industriali più avanzate. Egli dedica per questo tutta la propria attenzione al mutamento culturale provocato dalla ristrutturazione del processo di lavoro, in quanto persuaso che nessuna crisi è risolutiva sul solo terreno economico (Tosel 1987, p. 238). Gramsci giunge perciò a interrogarsi su quanto i cambiamenti delle struttura economica (i nuovi tipi di produzione sviluppati dal fordismo) abbiano inciso sulla sovrastruttura, cioè sulla dimensione storico-istituzionale e sulle forme della vita sociale. Il presupposto da cui muove è che “i nuovi metodi di lavoro sono indissolubili da un determinato modo di vivere, di pensare, di sentire la vita: non si possono ottenere successi in un campo senza ottenere risultati tangibili nell’altro”63. La questione si traduce pertanto in una sorta di giudizio critico sul senso delle trasformazioni operate dal fordismo, al fine di valutare se questo possa essere giudicato un progresso o una involuzione delle società industriali. Il punto di partenza non può che essere la prima stesura del paragrafo 72 del Quaderno 9 dove Gramsci si interroga sulla possibilità che gli alti salari compensino i gravi sacrifici imposti alla classe lavoratrice, nei termini del maggiore e più gravoso “consumo di forze” associato ai nuovi modelli organizzativi: il problema è “se il tipo di industria e di organizzazione della produzione proprio del Ford 63 Q. 22, §11, Razionalizzazione della produzione e del lavoro, p. 2164. Ha scritto al riguardo Catone che il nesso strettissimo istituito da Grasmci tra il “modo di vivere, pensare, sentire la vita” e la struttura dell’economia si traduce in “una teoria della complessità del modo di produzione che, poggiando sulla fondamentalità del modo materiale di produrre e dei rapporti di produzione (dunque del modo di produzione in senso propriamente marxiano)”, arriva ad “abbozzare un’analisi spietatamente, freddamente, materialistica – nel senso del materialismo marxiano – del ‘modo di vivere, pensare, sentire la vita’ indotto dall’introduzione del fordismo” (Catone 1987, pp. 57-58). 51 n.20 / 2008 64 Q. 9, p. 1143. 65 Q. 22, pp. 2173-2174. Notevole a ttenzione a lla doppia stesura di questo bra no si trova in Ma na corda (1987, pp. 177-180). 66 Cfr. in proposito Burgio (2002, p. 212): “Gra msci non ha remore nel porre in rilievo quelle che gli a ppa iono ca ra tteristiche progressive del ‘rivolgimento’ economico-socia le in corso negli Sta ti Uniti e nel formula re, in ba se a d esse, giudizi a nche decisa mente positivi”. 67 L’America, osserva Gramsci, possiede una “composizione demografica razionale”, nel senso che “non esistono classi numerose senza una funzione essenziale nel mondo produttivo, cioè classi assolutamente parassitarie. La ‘tradizione’, la ‘civiltà’ europea è invece proprio caratterizzata dall’esistenza di classi simili, create dalla ‘ricchezza’ e ‘complessità’ della storia passata che ha lasciato un mucchio di sedimentazioni passive attraverso i fenomeni di saturazione e fossilizzazione del personale statale e degli intellettuali, del clero e della proprietà terriera, del commercio di rapina e dell’esercito prima professionale poi di leva, ma professionale per l’ufficialità. Si può anzi dire che quanto più è vetusta è la storia di un paese, e tanto più numerose e gravose sono queste sedimentazioni di masse fannullone e inutili, che vivono del ‘patrimonio’ degli ‘avi’, di questi pensionati della storia economica” (Q. 22, §2, Razionalizzazione della composizione demografica, p. 2141). 52 sia ‘razionale’, possa e debba cioè generalizzarsi, o se invece si tratta di un fenomeno morboso da combattere con la forza sindacale e con la legislazione”64. Così formulata in prima stesura nel 1932, la domanda non è seguita nell’occasione da una esplicita presa di posizione da parte di Gramsci. Bisognerà attendere il 1934, quando viene redatto il Qua derno 22 su America nismo e Fordismo, perché il quesito, nell’essere riproposto in forma immutata, venga questa volta fatto seguire da una risposta molto emblematica: “Pare di poter rispondere che il metodo Ford è “razionale”, cioè deve generalizzarsi, ma che perciò sia necessario un processo lungo, in cui avvenga un mutamento delle condizioni sociali e un mutamento dei consumi e delle abitudini individuali, ciò che non può avvenire con la sola “coercizione”, ma solo con un contemperamento della coazione (autodisciplina) e della persuasione, sotto forma anche di alti salari, cioè di possibilità di miglior tenore di vita, o forse, più esattamente, di possibilità di realizzare il tenore di vita adeguato ai nuovi modi di produzione e di lavoro, che domandano un particolare dispendio di energie muscolari e nervose”65. Queste parole dischiudono al lettore dei Qua derni la sostanziale accettazione e la conseguente valutazione “positiva” del fordismo da parte di Gramsci66. Egli è naturalmente perfettamente consapevole dello spazio sempre più vasto che il lavoro alienato viene in tal modo a ricoprire, ma non per questo decide di combattere sul piano culturale l’affermazione del nuovo modello organizzativo. Come ha osservato Battini, non sono mai in discussione nei Qua derni il taylorismo e l’automazione, “ma solamente i rapporti sociali che ne bloccano un uso controllato e socialmente ragionevole” (Battini 1988, p. 195). Non bisogna evidentemente dimenticare che il giudizio positivo di Gramsci non va disgiunto dall’orizzonte politico di riferimento, che è ovviamente la trasformazione in senso socialista dell’economia. In effetti, come sottolinea Baratta, “la risposta positiva alla domanda del Qua derno 9, che coinvolge l’integrità e la psicofisica degli operai, implica uno sguardo rivolto oltre lo sviluppo del capitalismo” (Baratta 1987, p. 26). Tuttavia le argomentazioni gramsciane affrontano il problema anche indipendentemente dalla concreta possibilità che tale transizione si possa compiere in tempi brevi, e mantengono comunque una valutazione positiva del fenomeno apparentemente anche in un orizzonte capitalistico. In modo schematico, possiamo individuare tre argomenti decisivi che sorreggono il giudizio “positivo” di Gramsci sul fordismo. Il primo concerne la fenomenologia sociale entro cui ha trovato affermazione il fordismo, che secondo la terminologia in voga nei primi decenni del Novecento veniva appunto denominato “americanismo”. Questo termine veniva usato in senso dispregiativo, soprattutto da parte di quei ceti che ancora si opponevano alla piena affermazione della società industriale. L’America – l’americanismo – è appunto l’espressione di un paese che sebbene non abbia il vantaggio di una millenaria tradizione culturale alle spalle non ha nemmeno, tuttavia, lo svantaggio che questa stessa tradizione ha creato: residui feudali, ceti improduttivi, forte apparato ecclesiastico, ecc. L’affermazione del fordismo è quindi un momento risolutivo, ritiene Gramsci, per modernizzare la cosiddetta “composizione demografica della società” europea, nella direzione di una definitiva affermazione delle componenti “produttivistiche”67. I ceti eredi delle tradizioni della vecchia Europa, Terenzio Ma cca belli La “grande trasformazione” nel momento in cui denigravano la nuova fase industriale di inizio secolo bollandola appunto con l’epiteto di “americanismo”, stavano in verità recitando il loro canto del cigno. Ma era pur sempre una presenza ancora ingombrante quella dei ceti tradizionali, che ostacolavano in qualche modo una completa modernizzazione sociale e produttiva. é esattamente su questo terreno che si misura il vantaggio dell’America, la cui struttura sociale si prestava più facilmente ad assimilare le trasformazioni associate al fordismo68. Il secondo elemento che sostiene il giudizio positivo del fordismo è uno dei più controversi, in quanto legato al problema del “nuovo tipo umano”, alla “disciplina” e all’immagine del “gorilla ammaestrato” dietro i quali Gramsci legge tendenze “progressive” nei metodo di razionalizzazione del lavoro di fabbrica. Si tratta come noto di una complessa linea di ricerca su cui convergono diversi piani della riflessione di Gramsci, da quello pedagogico (Manacorda 1987; Ricuperati 1997) a quello scientifico e tecnologico (Lefons 1978, p. 125), a testimonianza della predilezione di un approccio metodologico teso a fare interagire i piani dell’“economia”, della “politica” e della “cultura”. Vi accenniamo qui soltanto brevemente, per ricordare che il momento più delicato e critico è quello della “disciplina”, dello sforzo che bisogna compiere per acquisire una piena padronanza e capacità di eseguire dei gesto meccanico. Superata queste fase difficile e impegnativa, Gramsci non sembra però avere dubbi sulle possibilità di liberazione che essa dischiude. Rimane comunque aperto il problema fondamentale: possiede il modello fordista le stesse prerogative positive nel momento in cui si allontana la prospettiva della transizione socialista? La “persuasione” e “l’autodisciplina” che proviene dal basso può svolgere un ruolo anche nell’ambito di un’organizzazione capitalistica del lavoro? Sono domande a cui pare difficile rispondere e che, non a caso, hanno provocato notevoli divergenze tra gli interpreti di Gramsci. Se da una parte si è accettato in toto e in modo acritico la prospettiva gramsciana sulle valenze progressive del fordismo, dall’altro non sono mancate feroci critiche indirizzate all’autore dei Qua derni 69. Il terzo motivo per cui Gramsci guarda “positivamente” all’americanismo e al fordismo è quello che più direttamente riguarda il nostro discorso, in quanto verte sull’emergere del nuovo quadro istituzionale entro cui si vanno ridefinendo i rapporti tra Stato e mercato. Nella fase precedente la grande crisi mondiale, la razionalizzazione americana è ancora caratterizzata dall’assenza dell’iniziativa statale ed è ancora governata dallo “spontaneismo” delle forze economiche. Il tipo di tipo di Stato in cui prende corpo l’Americanismo è in effetti lo “Stato liberale”. é tuttavia questa stessa cornice istituzionale, così favorevole alla concorrenza e al libero mercato, che genera spontaneamente il fenomeno delle concentrazioni industriali e quindi dei monopoli. “Lo Stato è lo Stato liberale, non nel senso del liberismo doganale, ma nel senso più essenziale della libera iniziativa e dell’individualismo economico, giunto con mezzi spontanei, per lo stesso sviluppo storico, al regime dei monopoli”70. Tale situazione viene però considerata da Gramsci come provvisoria, tipica della fase precedente il 1929. Egli prefigura infatti, “anche per la società americana, un periodo successivo di iniziativa dello Stato al livello della società civile”, altrimenti incapace di recepire e di adattarsi alle nuove esigenze dell’americanismo. “La razionalizzazione della vita sociale e morale e dell’istintualità delle masse non può 68 Cfr. Q. 22, §2, Ra ziona lizza zione della composizione demogra fica , pp. 2142-2147. 69 Si ricorda no qui a lcuni tra i giudizi più severi su Gra msci, a comincia re da Asor Rosa , secondo cui i giudizio positivi che si leggono nei Qua derni sull’a merica nismo na scono da “un a tta rda mento di Gra msci sulle posizioni teoriche che furono proprie della terza Interna ziona le, e che lo porta rono a perseguire l’etica della produttività e della dignità del la voro”; di Alfredo Sa lsa no, che rimprovera l’intellettua le sa rdo di a vere eluso il problema fonda menta le a cui il fordismo a priva le porte, cioè la modernizza zione ca pita listica di sta mpo ma na geria le e l’a fferma zione di un “corpora tivismo tecnocra tico” (tra scura to nei Qua derni privilegia ndo, a nche nelle note di America nismo e fordismo, il tema del “corpora tivismo di Sta to” (cfr. Sa lsa no 1988); o a ncora di Pino Ferra ris, secondo cui Gra msci, oltre a non a vere sa puto chia rire il ra pporto tra a liena zione opera ia e orga -nizza zione ca pita listica del la voro non a vrebbe neppure «colto il nesso produzione sta nda rdizza ta – a lti sa la ri – consumismo di ma ssa » e la “porta ta storica » dei «processi di burocra tizza zione» insiti nella «gra nde impresa ta ylorizza ta ” (cfr. Ferra rsi 1987, pp. 226-227). 70 Q. 1, §135, America nismo, p. 125. 53 n.20 / 2008 71 “Ed ecco la lotta contro l’alcool, l’agente più pericoloso di distruzione delle forze di lavoro, che diventa funzione di Stato. é possibile che anche altre lotte ‘puritane’ divengano funzione di Stato, se l’iniziativa privata degli industriali si dimostra insufficiente o si scatena una crisi di moralità troppo profonda ed estesa nelle masse lavoratrici, ciò che potrebbe avvenire in conseguenza di una crisi lunga ed estesa di disoccupazione. Quistione legata a quella dell’alcool è l’altra sessuale: l’abuso e l’irregolarità delle funzioni sessuali è, dopo l’alcoolismo, il nemico più pericoloso delle energie nervose ed è osservazione comune che il lavoro ‘ossessionante’ provoco depravazione alcoolica e sessuale. I tentativi fatti dal Ford di intervenire con un corpo di ispettori, nella vita privata dei suoi dipendenti e controllare come spendevano i loro salari e come vivevano, è un indizio di queste tendenze ancora ‘private’ o latenti, che possono diventare a un certo punto, ideologia statale, innestandosi nel puritanesimo tradizionale presentandosi cioè come un riconoscimento della morale dei pionieri, del ‘vero’ americanismo, ecc.” (Q. 22, pp. 2166-2167). 72 Q. 22, §1, p. 2139. Negli a nni trenta , il termine “economia progra mma tica ” è a mpia mente usa to in Ita lia , oltre che da Ugo Spirito, a cui Gra msci, come a bbia mo visto nel pa ra gra fo prece-dente, dedica numerose note dei Qua derni, a nche da l gruppo che ruota a ttorno a Botta i e a lla Scuola di studi corpora tivi di Pisa . 54 essere affidata alla sola iniziativa dei gruppi industriali, ma impone la formazione di una ideologia statale di tipo nuovo adeguata alle necessità imposte dal nuovo industrialismo” (Battini 1977, vol. II, p. 321). In questi termini vanno intese le “iniziative ‘puritane’” ad opera dello Stato, che hanno “il fine di conservare, fuori dal lavoro, un certo equilibrio psico-fisico che impedisca il collasso fisiologico del lavoratore, spremuto dal nuovo metodo di produzione”71. Il problema sottolineato da Gramci è dunque l’organizzazione dello Stato e l’ampliamento delle sue funzioni. Nel quadro di una nuova struttura economica, di cui lo Stato è parte integrante, il compito essenziale che questi deve realizzare consiste nell’adeguare il più rapidamente possibile le norme etiche alla esigenze della produzione. Ma l’espansione dei limiti dello Stato non riguarda solamente l’adeguamento del “modo di vita” alla razionalizzazione del processo produttivo. Nelle note di America nismo e fordismo Gramsci avvia un’analisi della nuova fase di sviluppo dell’economia statunitense e, più in generale, delle economie capitalistiche dell’occidente, caratterizzate dall’ampliamento dell’intervento statale a sostegno delle dinamiche di mercato e per il controllo delle dinamiche sociali. Siamo cioè in presenza per Gramsci di un mutamento profondo nel rapporto tra politica ed economia, dovuto all’infrangersi della tradizionale separazione delle sfere di competenza rispettivamente dello Stato e del mercato. “Tutta la riflessione su America nismo e fordismo, nelle sue varie stratificazioni, converge intorno a un punto centrale, che è nell’innervarsi sempre più stretto dello Stato nella formazione sociale capitalistica e nell’ampliarsi delle sue basi politiche di massa in parallelo al crescere delle strutture organizzative del capitale finanziario” (De Giovanni 1977, vol. I, pp. 230-1). I mutamenti legati alla nascita del fordismo si vanno dunque strettamente intrecciando con lo sviluppo delle politiche economiche statali, segni inequivocabili di una “grande trasformazione” orientata dalla necessità di pervenire a una economia di tipo programmatico: “Si può genericamente dire che l’americanismo e il fordismo risultano dalla necessità immanente di giungere all’organizzazione di un economia programmatica e che i vari problemi esaminati dovrebbero essere gli anelli della catena che segnano il passaggio appunto dal vecchio individualismo economico all’economia programmatica”72. La diffusione della politica anche nei meandri dell’economia, che Gramsci guarda come tratto tipico della società europea e americana a partire dagli avvenimenti che seguono la grande guerra, è perciò l’elemento caratteristico di una nuova situazione storica, entro la quale l’economia deve essere, almeno in parte, diretta (Badaloni 1981, vol. III, t. 2, p. 338). Inserite nel quadro dei radicali mutamenti avvenuti nelle società occidentali le provocazioni di Spirito possono allora nascondere esigenze reali. Nella ultima replica a Benini ed Einaudi l’allievo di Gentile aveva infatti affermato che “il primo quesito a cui rispondere deve formularsi propriamente così: – qual era il concetto, e quindi la realtà, dello Stato quando si compì la sistemazione classica della scienza economica e quale trasformazione esso ha subito durante il secolo XX? Non rispondere a tale quesito, o ignorare la sua imprescindibilità, significa rendere inutile e assurda ogni soluzione dei problemi relativi all’azione dello Stato: ma, intanto, rispondervi significa trascendere la presunta economia pura e affacciarci in quel più grande campo della storia, dal quale l’Einaudi pretende ritrarsi” (Spirito 1930, p. 173). Terenzio Ma cca belli La “grande trasformazione” Se le declamazioni sull’identità tra individuo e Stato sono severamente criticate da Gramsci, l’interrogativo sulle trasformazioni subite dal concetto di Stato “durante il secolo XX” viene preso molto seriamente. Le questioni sollevate da Spirito assumono allora una valenza diversa se lette alla luce degli effettivi mutamenti in atto nelle economie industriali, ed è per questo che le farraginose elucubrazioni di Spirito sono giudicato pur sempre il “segno dei tempi”, espressione di condizioni storiche “in via di sviluppo”. E se di fronte a questi mutamenti Spirito “annega la realtà economica in un diluvio di parole e di astrazioni”, Einaudi e in generale gli economisti liberali non sanno contrapporre altro che un’immagine fossilizzata dell’economia politica. Per Gramsci la struttura economica ha assunto una fenomenologia decisamente più complessa, in quanto lo Stato è diventato un elemento importante e non più trascurabile nella sfera economica73. Ecco allora che Gramsci arriva a porre la questione tanto caldeggiata da Spirito: “Può lo Stato disinteressarsi dell’organizzazione della produzione e dello scambio? Lasciarla, come prima, all’iniziativa della concorrenza e all’iniziativa privata?”74. Vi è nei fatti una crescente intersezione tra le attività dello Stato e la dinamica dell’economia che pone ormai in termini nuovi il problema, anche sul piano teorico. Riferendosi probabilmente proprio alla relazione di Spirito al convegno di Ferrara, Gramsci osserva che la “nazionalizzazione delle perdite e dei deficit industriali” – dovuta al fenomeno dei salvataggi delle grandi imprese in difficoltà – è un chiaro segno dei mutati rapporti tra Stato ed economia. “Da questo complesso di esigenze, non sempre confessate, nasce la giustificazione storica delle così dette tendenze corporative, che si manifestano prevalentemente come esaltazione dello Stato e come diffidenza e avversione alle forme tradizionali del capitalismo”. Gramsci sottolinea al riguardo alcuni degli “elementi più organici ed essenziali” che “conducono all’intervento statale, o lo giustificano teoricamente: l’aggravarsi dei regimi doganali e delle tendenze autarchiche, i premi, il dumping, i salvataggi delle grandi imprese in via di fallimento o pericolanti” (appunto la “nazionalizzazione delle perdite e dei deficit industriali” discussi da Spirito)75. Sono appunto questi motivi che spingono Gramsci non certo ad avallare ma in qualche modo a legittimare le istanze di rinnovamento del sapere economico propugnate da Spirito e dal suo sodale Arnaldo Volpicelli. La formula “economia secondo un piano” propugnata dai sostenitori dell’indirizzo corporativo è ancora velleitaria, ancorata com’è ad un linguaggio “puramente verbale” e privo di riscontro sul terreno reale; ma è comunque giudicata come “espressione ancora ‘utopistica’ di condizioni in via di sviluppo”76, che riflette una trasformazione della struttura economica di cui Spirito e Volpicelli hanno compreso la portata più di molti economisti puri. In questo contesto prende corpo l’idea che il fascismo sia stato anche una delle risposte alla crisi del mercato autoregolato77. Se il “fordismo” era stato essenzialmente una risposta economica – pur con tutte le conseguenze che abbiamo discusso anche a livello sovrastrutturale – il fascismo era stata una risposta politica, che tuttavia sotto la pressione dei mutamenti strutturali stava incidendo, o per lo meno cercava di incidere, anche sull’organizzazione dell’economia. Americanismo e fordismo, da un lato, e fascismo, dall’altro, diventano pertanto agli occhi di Gramsci due modelli idealtipici – appartenenti al genere delle “rivo- 73 Questi a spetti sono a d esempio colti da Gra msci in una riflessione sul ruolo a ssunto da llo Sta to – negli a nni della gra nde crisi – come punto di concentra zione del rispa rmio delle ma sse: “Si può dire che la ma ssa dei rispa rmia tori vuole rompere ogni lega me diretto con l’insieme del sistema ca pita listico priva to, ma non rifiuta la sua fiducia a llo Sta to: vuole pa rtecipa re a lla a ttività eco-nomica , ma a ttra verso lo Sta to, che ga ra ntisca un interesse modico ma sicuro. Lo Sta to viene così a d essere investito di una funzione di prim’ordine nel sistema ca pita listico, come a zienda (holding sta ta le) che concentra il rispa rmio da porre a disposizione dell’industria e della a ttività priva ta , come investitore a medio e a lungo termine” (Q. 22, §14 Azioni, obbliga zioni, titoli di Sta to, pp. 2175-2176). 74 Q. 22, §14 Azioni, obbliga zioni, titoli di Sta to, p. 2176. 75 Q. 22, §14 Azioni, obbliga zioni, titoli di Sta to, pp. 2176-2177. 76 Q. 8, §216 Noterelle di economia . Ugo Spirito e C, p. 1077. 77 I limiti della soluzione corpora tivo sono comunque per Gra msci del tutto pa lesi. Fa r pa ssa re l’orga nizza zione corpora tiva come un supera mento del ca pita lismo significa dimentica re che “tra la struttura economica e lo Sta to con la sua legisla zione e la sua coercizione sta la società civi-le, e questa deve essere ra dica lmente tra sforma ta in concreto e non solo sulla ca rta della 55 n.20 / 2008 legge e dei libri degli scienzia ti”. Se quindi è vero che “lo Sta to è lo strumento per a degua re la società civile a lla struttura economia ” è comunque necessa rio che “lo Sta to ‘voglia ’ fa r ciò, che cioè a gui-da re lo Sta to sia no i ra ppresenta nti del muta mento a vvenuto nella struttura economica ” (Q. 10, §15, Noterelle di economia , pp. 1253-1254). Il corpora tivismo non ha a ffa tto a nnulla to l’orga nizza zione ca pita listica della produzione, che continua a d essere sorretta da lla logica del pro-fitto e dell’a ccumula zione (Cfr. Rossi e Va cca 2007, pp. 135-143). 78 Q. 1, §135, America nismo, p. 124. Nella nota , intitola ta America nismo, Gra msci discute il libro di Fovel Economia e corpora tivismo e la recensione fa tta ne da Pa gni (cfr. Voza xxxx, p. 201). 79 Come ha sottolinea to Pa squa le Voza , a ttra verso il concetto di “rivoluzione pa ssiva ” Gra m-sci intende ca ra tterizza te la “nuova morfologia ” dei processi economici, politici e socia li successi-vi a l primo conflitto mondia le e a “quella che si può considera re l’ultima guerra di movimento, va -le a dire la Rivoluzione d’ottobre” (Voza xxxx, pp. 202-203). 80 Cfr. Q. 1, §150, La concezione dello Sta to secondo la produttività [funzione] delle cla ssi socia li, pp. 132133: “Si può dire questo: essendo lo Sta to la cornice concreta di un mondo produt-tivo, ed essendo gli intellettua li l’elemento socia le che si identifica meglio col persona le governa -tivo, è proprio della 56 luzioni passive” – che preludono le trasformazioni verso forme di “economia programmatica”. Come noto, il giudizio sul fascismo come “rivoluzione passiva” è l’esito di un travagliato processo intellettuale. Nelle prime note dei Qua derni Gramsci descriveva ancora il fascismo (e il corporativismo) come fenomeni che hanno “avuto origine di polizia economica, non di rivoluzione economica”78, aggiungendo tuttavia, quasi a prefigurare il giudizio più maturo cui perverrà poco tempo dopo, che “gli uomini senza volerlo [ubbidiscono] agli imperativi della storia”: il “rivolgimento” fascista si iscriveva in questo senso entro la cornice dell’americanismo. Solo però nel Qua derno 22 il fascismo “si configura stabilmente” agli occhi di Gramsci “come rivoluzione passiva”. “Non sarebbe il fascismo la forma di “rivoluzione passiva” propria del secolo XX come il liberismo lo è stato del secolo IX? […] Si potrebbe così concepire: la rivoluzione passiva si verificherebbe nel fatto di trasformare la struttura economica “riformisticamente” da individualistica a economia secondo un piano (economia diretta)”79. La crisi dell’economia liberale ha partorito il fascismo, una delle forme in cui la società ha reagito al predominio ottocentesco del mercato. La trasformazione dello Stato si inserisca dunque in un discorso molto articolato e complesso che ruota attorno alla crisi dell’economia liberale, al fallimento delle rivoluzione in Occidente, ai fenomeni dell’americanismo e del fordismo, alla genesi del fascismo e infine alle rappresentazioni dottrinali dello Stato da parte degli intellettuali80. Questi fenomeni racchiudono il senso della “grande trasformazione” individuata da Gramsci. La posta in gioco è il collasso, supposto definitivo, della decantata autonomia delle leggi economiche. Il fordismo, frutto degli stessi automatismi del mercato, apre in verità le porte a una rivincita del momento “politico” che, dopo essersi ritratto nel corso dell’Ottocento per lasciare libero sfogo alle leggi di mercato, riacquista una decisiva priorità funzionale, anche nella sfera dell’organizzazione economica. Vi sono dunque tutti gli elementi per completare il quadro sul complessivo mutamento intervenuto nella concezione dello Stato. Come sottolineato dalla storiografia, questo mutamento è avvenuto sotto il segno di un progressivo “allargamento” semantico. La prima fonte di questo allargamento è di tipo “culturale” e discende dalla nozione di “intellettuali” che costruisce uno dei punti cardine della riflessione gramsciana. Angelo Rossi e Giuseppe Vacca hanno recentemente attirato l’attenzione su una lettera a Tania nel quale Gramsci, nel ribadire il proprio interesse per una storia degli intellettuali italiani, sottolineava come a questo fosse associata l’esigenza di “approfondire il concetto di Stato”. E di conseguenza, mano a mano che il concetto sempre più ampio di intellettuali prendeva corpo, anche il corrispondente concetto di Stato risultava “allargato”81. La seconda fonte dell’allargamento semantico che abbiamo discusso in queste pagine nasce invece sul terreno economico, in particolare dai mutamenti avvenuti sul terreno delle relazioni tra politica ed economia. 5. Considerazioni conclusive: oltre lo Stato? Nell’excursus proposto in queste pagine si è cercato di mostrare la crescente complessità con cui l’autore dei Qua derni ha affrontato il problema dei rappor- Terenzio Ma cca belli La “grande trasformazione” ti tra Stato ed economia. Partito dall’idea della necessaria “scissione” tra momento economico e momento politico Gramsci è giunto a una revisione quasi totale di questo approccio. Gramsci ha innanzitutto proceduto a rielaborare il concetto di Stato, attraverso quel metodo dell’allargamento semantico ampiamente sottolineato dalla critica gramsciana. A ciò si deve tuttavia aggiungere che lo stesso concetto di “economia” – e il suo correlato di “società civile” – hanno subito lo stesso trattamento. L’esito di tutto questo è che Gramsci – anche se non lo dice esplicitamente – mette in seria discussione quella specializzazione disciplinare avvenuta nella scienze sociali che ha condotto alla netta separazione dei piani dell’economia, della società e della politica. Una specializzazione che, in nuce negli economisti classici, aveva una sua legittimazione, venuta meno a seguito delle trasformazioni strutturali avvenute nei primi decenni del Novecento. Che questa non sia astratta elucubrazione “metodologica” è provato dal concreto procedere di Gramsci nell’analisti del “fordismo”, dove ha attuato un metodo d’indagine volto a mettere in rilievo la forte interdipendenza tra fenomeni economici, sociali e politici. E anche nell’analisi del fascismo Gramsci ha posto le basi di un approccio teorico in cui vengono ridisegnati i rapporti tra politica ed economia, che diventano parte di un “tutto” culturale (Adamson 1980, p. 630). L’interrogativo sul piano delle ripercussioni politiche (nel senso degli obiettivi politici) esula dai compiti che ci siamo prefissi. Un cenno conclusivo è comunque doveroso, se non altro per il fatto che qualsiasi discussione su Gramsci e lo Stato, ancorché da un visuale di storia del pensiero economico, non può prescindere dal ricordare che la riflessione gramsciana si situa nella tradizione marxista che prefigura l’estinzione dello Stato quale orizzonte ultimo dell’azione politica. Ed è doveroso richiamare questo aspetto perché ritorna in questo contesto l’immagine dello Stato da cui siamo partiti, ossia quella dello “Stato guardiano notturno”. Da questo punto di vista, il punto chiave è quella concezione “allargata” dello Stato cui abbiamo accennato nel quale “entrano elementi che sono da riportare alla nozione di società civile (nel senso, si potrebbe dire, che Stato = società politica + società civile, cioè egemonia corazzata di coercizione)”. Il cuore del discorso verte sulla possibilità di superare il momento della coercizione, cosa che a parere di Gramsci potrà realizzarsi solo nel momento in cui si andranno affermando “elementi sempre più cospicui di società regolata (o Stato etico o società civile)”. L’autodisciplina dovrebbe allora sostituire la coercizione, secondo modalità che non sembrano affatto semplici. Ma il punto che vorremmo sottolineare è appunto il paradosso di uno “Stato senza Stato” per descrive il quale Gramsci non può fare a meno di ricorrere all’immagine dello “Stato gendarmeguardiano notturno” che, dal punto di vista dottrinario, si carica di motivi progettuali che gli sono del tutto estranei. L’orizzonte dello Stato guardiano-notturnio che invera l’ideale socialista della “libertà organica” è paradossale non solo se visto nell’ottica della tradizione liberale, ma anche pensando all’inventore di tale espressione, cioè Lassalle, secondo Gramsci “uno statalista dogmatico e non dialettico”. Ma agli occhi di Gramsci è questa la sola concezione dello Stato in grado di superare “le estreme fasi ‘corporative-economiche’”: “Nella dottrina dello Stato > società regolata, da una fase in cui Stato sarà uguale Governo, e Stato si identificherà con società civile, si dovrà passare a una fase funzione degli intellettua li porre lo Sta to come un a ssoluto: così è concepita come a ssoluta la loro funzione storica , è ra ziona lizza ta la loro esistenza ”. 81 “Io estendo molto la nozione di intellettuale e non mi limito alla nozione corrente che si riferisce ai grandi intellettuali. Questo studio porta anche a certe determinazioni del concetto di Stato che di solito è inteso come società politica (o dittatura o apparato coercitivo per conformare la massa popolare secondo il tipo di produzione o l’economia di un momento dato) e non come equilibrio della società politica con la società civile (o egemonia d’un gruppo sociale sull’intera società nazionale esercitata attraverso le organizzazioni cosiddette private, come la chiesa, i sindacati, le scuole, ecc.) e appunto nella società civile operano gli intellettuali” (cit. Rossi e Vacca 2007, p. 47) 57 n.20 / 2008 82 Q. 6, §88, Sta to genda rme - gua rdia no notturno, pp. 763-764. 83 Sul concetto di egua glia nza in Gra msci, in verità non a lieno da difficoltà interpreta tive, si veda Revelli (1988). 84 Sulle ma trici a ristoteliche della concezione gra mscia na dello Sta to e della “società regola ta ”, cfr. Fontana (2002, pp. 157-178). 85 é da nota re […] la confusione tra il concetto di Sta to-cla sse e il concetto di società regola ta . […] Finché esiste lo Sta to-cla sse non può esistere la società regola ta , a ltro che per meta fora , cioè solo nel senso che a nche lo Sta tocla sse è una società regola ta . Gli utopisti, in qua nto esprimeva no una critica della società esistente a l loro tempo, comprendeva no benissimo che lo Sta tocla sse non poteva essere la società regola ta , ta nto è vero che nei tipi di società ra ppresenta ti da lle diverse utopie, s’introduce l’ugua glia nza economica come ba se necessa ria della riforma progetta ta : ora in questo gli utopisti non era no utopisti, ma concreti scienzia ti della politica e critici congruenti. Il ca ra ttere utopistico di a lcuni di essi era da to da l fa tto che riteneva no si potesse introdurre l’ugua glia nza economica con leggi a rbitra rie, con un a tto di volontà , ecc. Rima ne però esa tta mente il concetto […] che non può esistere ugua glia nza politica completa e perfetta senza ugua glia nza economica (Q. 6, §12 Sta to e società regola ta , p. 693). 58 di Stato-guardiano notturno, cioè di una organizzazione coercitiva che tutelerà lo sviluppo degli elementi di società regolata in continuo incremento, e pertanto riducente gradatamente i suoi interventi autoritari e coattivi. Né ciò può far pensare a un nuovo “liberalismo”, sebbene sia per essere l’inizio di un’era di libertà organica82. La dimensione “utopica” che caratterizza questa prospettiva politica è ben presente a Gramsci, come egli stesso tiene a sottolineare: il superamento del momento coercitivo richiede l’avverarsi di una condizione che tutti gli scienziati politici hanno sempre assunto come ipotesi del loro ragionamento, senza la quale non sarebbe concepibile la teoria dello “stato senza Stato”. Ma nel fare ciò non si discostavano dalla “pura scienza” – ossia dalla “pura utopia” – basandosi “sul presupposto che tutti gli uomini sono realmente uguali e quindi ugualmente ragionevoli e uguali, cioè passibili di accettare la legge spontaneamente, liberamente e non per coercizione, come imposta da altra classe, come cosa esterna alla coscienza”. Ma la condizione della libertà “organica” è da realizzarsi anche e soprattutto sul terreno economico, attuando una maggiore uguaglianza materiale tra gli individui. Questa idea viene sottolineata anche nelle critiche all’idee di Spirito sulla “società regolata”, che rimane puro “verbalismo” se non accompagnata da una radicale mutamento nei rapporti economici e sociali. Il superamento della coercizione e l’avvento dell’autodisciplina necessitano dunque una maggiore egua glia nza economica. Solo in questo modo è possibile dare contenuto anche all’eguaglianza politica, altrimenti destinata a rimanere un vuoto principio formale83. La “società regolata” di Gramsci84 e l’estinzione dello Stato potrà dunque avverarsi solo nel momento in cui si infrangeranno i legami gerarchici tra le classi85. Riferimenti bibliografici W. L. Adamson, Gra msci’s Interpreta tion of Fa scism, “Journal of the History of Ideas”, vol. 41, n. 4, Oct., 1980 N. Badaloni, Libertà individua le e uomo collettivo in Gra msci , in Ferri (1977) N. Badaloni, Gra msci: la filosofia della pra ssi come previsione, in Storia del ma rxismo, Einaudi, Torino, 1981, vol. III, t. 2, N. Badaloni, Due ma noscritti inediti di Sra ffa su Gra msci , “Critica Marxista”, n. 6, 1992 G. Baratta, A. Catone (a cura di), Modern Times. Gra msci e la critica dell’a merica nismo, Diffusioni, Milano, 1987. M. Battini, L’“a lbergo occidenta le”. Le note sulla civiltà industria le, in F. Sbarberi (a cura di), Teoria politica e società industria le. Ripensa re Gra msci , Boringhieri, Torino, 1988 M. 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I mutui sono stati trasformati in titoli finanziari mediante la cartolarizzazione. Con questa trasformazione, i costi sostenuti dai mutuatari alimentano flussi di cassa che remunerano i detentori dei titoli e gli intermediari finanziari che li hanno creati e che li gestiscono. Quando una parte consistente di mutuatari si è trovata nella condizione di non poter rimborsare i prestiti, i flussi di cassa si sono inariditi ed i titoli hanno perso valore. Per la posizione che avevano sul mercato finanziario, il loro crollo ha provocato effetti domino. Il mondo della finanza è stato investito da una generale crisi di fiducia, che ha inceppato i rapporti tra gli istituti finanziari e provocato perdite ingenti. Un’ampia pubblicistica si è occupata e si occupa delle insolvenze dei mutuatari e delle espropriazioni delle case. Mette in evidenza che i sottoscrittori dei mutui sono stati vittime di mediatori e di agenzie che ricorrevano a pratiche comunemente definite predatorie, ingannando i clienti con offerte apparentemente convenienti. A queste pratiche fa risalire sia gli alti costi dei mutui subprime, sia l’elevato livello di insolvenze. Una parte della pubblicistica riconosce anche che le pratiche predatorie si sono generalizzate per la facilità con cui i mutui subprime sono stati acquistati da chi aveva interesse a trasformarli in titoli. In questo lavoro affronto un problema che è stato trascurato. La trasformazione dei mutui in titoli ha contribuito a far lievitare i costi adossati ai mutuatari. Sono serviti a remunerare gli intermediari finanziari intervenuti nel processo di cartolarizzazione; a coprire i rischi di insolvenza ai livelli che le agenzie di rating ritenevano adeguati; e, soprattutto, a rendere più appetibili i titoli rispetto ad altri trattati sul mercato finanziario. Per analizzare questo aspetto della crisi dei subprime, nei primi paragrafi del lavoro mi soffermo sul sistema di a pa rtheid finanziaria, che assoggetta i consumatori americani con una incerta credit history a condizioni di credito gravose; accenno alla situazione di milioni di famiglie costrette a subire l’espropriazione delle case; descrivo le pratiche predatorie che le hanno indotte a sottoscrivere i mutui. Nei paragrafi successivi esamino gli strumenti finanziari messi in atto dalle grandi banche di Wall Street per realizzare utili basati sui flussi di cassa dei mutui; 61 infine metto in evidenza come siano stati imposti ai mutuatari costi crescenti al fine di rendere i titoli più attrattivi per investitori e speculatori. Nelle conclusioni faccio riferimento all’interpretazione di alcuni economisti che, sulla scorta del pensiero di Minsky, guardano alla crisi del circuito finanziario dei subprime come ad un ponzi scheme, che, per eccesso di speculazione, finisce col svalorizzare il capitale finanziario. Rilevo che questa, come altre interpretazioni tutte interne alla logica della finanza, trascura il problema del rapporto tra il capitale e l’economia reale. Avanzo la tesi che quello dei mutui subprime è da considerare un caso paradigmatico del modo in cui, secondo la tesi di Harvey e Arrighi, il capitale finanziario realizza l’accumulazione attraverso la spoliazione di ricchezza sociale. L’ a pa r theid finanziario 1 T.L. O'Brien, “Lowering the Credit Fence; Big Pla yers Are Jumping Into Risky Loa n Business”, New York Times (NYT), December 13, 1997. 62 “Nel nostro paese abbiamo una fina ncia l a pa rtheid“, dice William Brennan, avvocato specializzato in abusi sui mutui, riferendosi ai mutuatari subprime. “E’ gente di basso reddito, spesso minoranze etniche oberate da iniqui tassi di interesse”1. Al mercato dei subprime è costretto chi ha una ba d credit history, una storia che viene espressa sinteticamente da un FICO credit score. Il punteggio deriva dalla valutazione di dati che compaiono sulla scheda personale di ogni consumatore americano, e sono riferiti alla loro situazione debitoria. Tre grandi organizzazioni - Transunion, Experian, ed Equifax - raccolgono da molteplici fonti (depositi bancari, istituti che gestiscono carte di credito, assicurazioni, enti che erogano servizi) le informazioni sui redditi, sui debiti, sui pagamenti; stilano con frequenza mensile rapporti individuali; e, mediante modelli matematici messi a punto da una società specializzata, assegnano ad ogni consumatore un punteggio, appunto il FICO score. Per la sua determinazione, le informazioni vengono pesate. Su un valore massimo di 900 scores la puntualità nei pagamenti pesa fino al 35 per cento, il rispetto dei limiti di credito fino al 30 per cento, l’ampiezza temporale della storia dei crediti fino al 15 per cento, la quantità di canali di credito e i tipi di credito ciascuno fino al 10 per cento. Il FICO score definisce il rischio di credito di ciascun consumatore, ed in base ad esso vengono definite le condizioni a lui applicate per qualsiasi finanziamento, dall’acquisto di un’automobile, al prestito personale, al mutuo sulla casa. Ciascuno ha diritto di conoscere il proprio indice rivolgendosi alle organizzazioni che lo produce; in realtà pochi lo sanno o lo fanno. Se il punteggio varia tra 900 e 700, al consumatore che ha bisogno di credito vengono applicate condizioni “prime” o “A”; nel caso del mutuo immobiliare, un buon tasso fisso, sempre che disponga di una adeguata copertura ipotecaria e di un appropriato rapporto tra reddito e rata di mutuo. Le condizioni si fanno via via più gravose quando il punteggio si abbassa; con meno di 640-620 gli vengono attribuite condizioni “subprime” o “B”. Se ha avuto difficoltà a rispettare le scadenze nei rimborsi, o ha dovuto ricorrere a una pluralità di prestiti per farvi fronte, ne paga dunque le conseguenze, indipendentemente dalle cause all’origine di questi comportamenti, il più delle volte eventi inattesi e non voluti. Il consumatore che non ha un conto in banca finisce, in quanto privo di una credit history, in una sottospecie dei subprime, l’Alternative-A, correntemente Alt-A. Giorda no Sivini I mutui subprime e le attività predatorie I mutui per l’acquisto e la ristrutturazione della casa sono deducibili dalle tasse, ma quelli immobiliari subprime sono serviti a questo scopo solo in piccola parte. “Molte famiglie di medio e basso reddito hanno pensato che indebitarsi con le proprie case è una maniera sensata per riempire i buchi dei bilanci familiari, e, in maniera senza precedenti, sono ricorse ad ipotecarle per avere soldi o rifinanziare debiti”2. La spinta ai consumi attraverso l’indebitamento è una costante dell’economia statunitense, e l’indebitamento coperto dal mutuo sulla casa era anche in passato abbastanza diffuso3. Una campagna pubblicitaria, via tv e ma il spam, ha sollecitato ad accendere mutui ipotecari per far fronte a consumi, investimenti e debiti da carte di credito, nonostante fosse evidente che “con un debito derivante dall’utilizzazione della credit card si può arrivare al fallimento, mentre con il mutuo immobiliare si può perdere la casa, proprio come spesso accade”4. 2 E. Schloemer, W. Li, K. Ernst, K. Keest, Losing Ground: Foreclosures in the Subprime Ma rket a nd Their Cost to Homeowners, Center for Responsible Lending, December 2006. 3 P. Jorion, “Misère de l’Eta t-Providence a ux Eta ts-Unis: l’exemple de la politique a mérica ine du logement“, L’Homme et la société, 163-164, 2007. “Il sogno a mer ica no pignor a to” 5 Nel 2007 sono state registrate 2,2 milioni di azioni legali contro proprietari di case che non avevano fatto fronte ai debiti contratti con mutui immobiliari. Nel 2006 le azioni erano state 1,3 milioni, nell’anno precedente 0,9; nel 2004 0,7; nel 1993 solo 0,4. Questi dati non si riferiscono ad azioni direttamente finalizzate all’espropriazione di case, bensì a notifiche di insolvenze, pignoramenti, aste e cessioni ai creditori; più azioni, dunque, che possono riguardare uno stesso mutuo. I mutuatari colpiti sono stati 1,3 milioni nel 2007, con un aumento del 75 per cento rispetto all’anno precedente; negli ultimi due anni, dunque, più di 2,2 milioni; altri due milioni – secondo recenti stime - non si troveranno in stato di insolvenza nel 2008 e 2009, sui tre milioni e mezzo che si stanno dibattendo in debiti superiori al valore della casa6. Questi dati si riferiscono a tutti i mutui immobiliari, ma un peso determinante nella diffusione delle procedure legate all’insolvenza l’hanno i mutui subprime, accordati a persone in condizioni economiche precarie, che spesso già stavano subendo le conseguenze di crisi localizzate. Una analisi, peraltro riferita agli anni precedenti alla crisi, dal 1999 al 2005, mette in evidenza che, tra le cause di insolvenza, la principale (41,5 per cento) è riconducibile alla contrazione del reddito familiare dovuta alla perdita di un posto di lavoro; pesano poi (38,4 per cento) altri eventi inattesi: dalla rottura delle relazioni familiari, alle malattie, ai decessi7. Le conseguenze dell’espropriazione della casa sono drammatiche. “La perdita non riguarda solo il posto in cui si vive e, con esso, di una parte significativa della propria ricchezza; riduce anche le capacità di contrarre nuovi prestiti e impedisce l’acquisto e persino l’affitto di una nuova abitazione”8. La crisi si manifesta in forme più acute nelle aree in cui le minoranze nere ed ispaniche hanno maggior peso, e in genere nei quartieri popolari, ma si sta estendendo anche al ceto medio. Tra le aree metropolitane è in testa, per numero di azioni legali, Detroit. Dal 2001 al 2006 aveva perso oltre 130 mila posti di lavoro, e nel 2007 cinque famiglie su cento sono state coinvolte nei pignoramenti, altre tre nel 20069. Quando le famiglie espropriate sono costrette ad abbandonare le case, queste, sempre più spesso invendute, rimangono abbandonate, e tutto il quartiere si deteriora. A Cleveland dove sono state cacciate 14 mila famiglie, molti edifici non 4 M. Moss, “Era se Debt Now. (Lose Your House La ter.)”, NYT, October 10, 2004. 5 F. Fessenden, “The America n Drea m Foreclosed”, NYT, 14 ottobre 2007. 6 Volunta ry Loa n Modifica tion, Center for Responsible Lending, Ja nua ry 30, 2008. 7 Sta tement of J. M. Robbins, Cha irma n of the Mortga ge Ba nkers Associa tion, before the US House Committee on Fina ncia l Services, on “Subprime Preda tory Lending”, Ma rch 27, 2007. 8 9 Sheltering Neighborhoods from the Subprime Foreclosure Storm, Joint Economic Committee Specia l Report, 2007. Rea ltyTra c Yea r-End 2007, Metropolita n Foreclosure Ma rket Report, Februa ry 13, 2008. 63 n.20 / 2008 10 C. Ma a g, “Clevela nd Sues 21 Lenders Over Subprime Mortga ges”, NYT, Ja nua ry 12, 2008. 11 Testimony of M. D. Ca lhoun, Center for Responsible Lending, before the US House Committee on Fina ncia l Services, on “Subprime Preda tory Lending”, Ma rch 27,2007: 12 I. Ackelsberg, Esquire, Written Sta tement before the U.S. Sena te Committee on Ba nking, Housing a nd Urba n Affa irs, on “Mortga ge Ma rket Turmoil: Ca uses a nd Consequences”, Ma rch 21, 2007 64 più occupati sono stati demoliti per prevenire il diffondersi di atti vandalici e di incendi dolosi10. I costi gravano su chi resta; e se, le tasse sulla proprietà immobiliare non aumentano in proporzione alle spese di intervento, diminuiscono i servizi pubblici, cresce l’insicurezza, cala il valore degli immobili; chi se ne vorrebbe andare non riesce a venderli. I servizi commerciali si contraggono, e si moltiplicano altri tipi di insolvenze, in particolare relative all’uso delle carte di credito. I sindaci di Cleveland e di Baltimora sono stati i primi a reagire, chiamando in causa, sul piano giudiziario, chi ritenevano all’origine della situazione. Cleveland ha denunciato ventuno grandi finanziarie per le responsabilità che avrebbero avuto nella concessione di prestiti ipotecari a condizioni esose; Baltimora si è limitata ad agire contro un istituto locale accusato di pratiche predatorie. Iniziative di questo tipo si stanno diffondendo, e crescono anche le cla ss a ctions (116 nel 2006 e 166 nel 2007) di mutuatari contro società che hanno operato nel mercato primario, anche se, a seguito della crisi, molte sono già fallite. L’alto tasso di espropriazioni non è il prezzo pagato per consentire a strati sociali meno abbienti di accedere alla proprietà della casa, come voleva la retorica della ownership society di Bush. Il numero di case espropriate è infatti più alto di quelle acquistate. Il calcolo, non contestato, è stato fatto alla fine del 2006 dal Center for Subprime Lending, una organizzazione nata per la tutela dei mutuatari; e da allora la situazione è peggiorata. Tra il 1998 e il 2006 circa 1,4 milioni di mutuatari subprime avevano acquistato per la prima volta una casa, ma nello stesso periodo altre 2,4 milioni l’avevano persa od erano in procinto di perderla11. Le pr a tiche pr eda tor ie “I mutui subprime si sono propagati come una corsa all’oro, dove l’oro era la ricchezza investita nella proprietà della casa. Una corsa determinata dal collasso delle regole di sottoscrizione dei mutui. Per essere chiari, queste regole sono state travolte dalla caccia al profitto ad ogni costo”12. Negli anni ‘90 il valore complessivo dei mutui negli Stati Uniti si aggirava sui mille miliardi di dollari; si è moltiplicato per quattro tra il 2001 e il 2003; poi si è assestato attorno a 3 mila miliardi. I mutui subprime sono progressivamente cresciuti. Erano, in valore sul totale dei mutui immobiliari, il 5 per cento nel 1994, 9 nel 1996, 13 nel 1999; hanno superato il 20 per cento nel 2006; in quantità intorno al milione all’anno fino al 2002, un milione e mezzo nel 2003, due milioni e duecento mila nel 2004, tre milioni e 300 mila nei due anni successivi. Quelli finalizzati al primo acquisto di una casa sono cresciuti percentualmente dall’8 all’11 del totale dei subprime negli ultimi cinque anni; gli altri sono serviti per rifinanziare debiti preesistenti, ristrutturare, sostenere consumi e costi imprevisti. Il rifinanziamento di mutui già coperti da ipoteca era stato possibile tra il 2001 e il 2005, quando, per il valore delle case sempre crescente, l’accresciuto valore dell’immobile garantiva il nuovo prestito. Quando nel 2006 la tendenza del mercato immobiliare si è invertita, il rifinanziamento ha cessato di essere una opzione. Con l’aumento dei tassi di interesse deciso dalla Federal Reserve nel 2004 la sottoscrizione di mutui a tasso fisso è andata rallentando. Mediatori e agenzie di cre- Giorda no Sivini I mutui subprime e le attività predatorie dito sono stati allora spinti ad impegnarsi sempre più sul ‘mercato emergente’ dei subprime, adattando la propria offerta alle condizioni di gente economicamente in difficoltà, rendendola così semplice da attrarre anche persone che avrebbero potuto aspirare a mutui a tasso fisso13. Sono stati aggirati i vincoli posti a garanzia della capacità di rimborso dei mutuatari. Nelle richieste di mutuo non c’è stato più bisogno di documentare il reddito. Questi ‘sta ted income’ loa ns, definiti anche ‘lia rs loa ns’, riguardavano nel 2006 più del 50 per cento dei mutui subprime. C’erano persino i ‘nina ’ loa ns, una abbreviazione per ‘no income, no a ssets‘, che prescindevano dall’indicazione del valore dell’immobile. Oltre diecimila periti che avrebbero dovuto attestarlo hanno sottoscritto una petizione diretta alle autorità federali di controllo per denunciare di essere stati sottoposti a minacce quando avevano rifiutato di gonfiare i valori degli immobili ai livelli richiesti dalle agenzie di credito. Rimossi i vincoli relativi al reddito e al valore della proprietà immobiliare, coloro che aspiravano al mutuo venivano convinti con proposte di pagamenti facilitati e promesse di futuri rifinanziamenti a condizioni migliori. Il sistema più diffuso - il 91 per cento dei casi nel 2006 - è stato quello dei mutui a tasso variabile (ARMs, Adjusta ble Ra te Mortga ges), tre quarti dei quali hybrids in quanto le prime due (2/28 ARMs) o tre annualità (3/27 ARMs) erano a tasso fisso; nelle annualità successive scattava il tasso di interesse variabile. I Pa y Option ARM loa ns prevedevano rate inferiori al rimborso degli interessi, e producevano un progressivo aumento del debito. Con i mutui ba lloon si pagavano solo gli interessi, mentre alla chiusura il mutuatario doveva rimborsare l’intero debito principale - il ba lloon , appunto - o, in alternativa, accendere un nuovo mutuo o farsi espropriare l’abitazione. Spesso veniva contrattualmente limitata la possibilità di ricorso dei mutuatari all’autorità giudiziaria; erano imposte condizioni onerose per i ritardi nei pagamenti, e penalità per l’estinzione anticipata del mutuo, rendendo quindi più costoso il rifinanziamento prima della scadenza. Le tasse e i costi di assicurazione non venivano inclusi nei contratti e fatti pagare a parte dopo la sottoscrizione. I mediatori erano stati estremamente attivi nell’approfittare dell’ampio ventaglio di soluzioni che potevano offrire. “Passavano di casa in casa. Bussavano. Lasciavano lettere nelle cassette postali, chiamavano al telefono… Erano dappertutto”14. In parte erano operatori indipendenti, in parte rappresentanti di agenzie di credito, banche e assicurazioni locali, aumentate da 30 a 53 mila tra il 2000 e il 2004. Questa rete diffusa faceva capo ad un numero ristretto di società che operavano all’ingrosso, dando indicazioni sulle condizioni generali minime di sottoscrizione. Quasi i quattro quinti dei mutui subprime sono passati da questi grossisti. Nessuno era soggetto a controlli pubblici. Lou Barnes, proprietario di una piccola banca nel Colorado, che da decenni si occupava di mutui, ricorda che dalla metà degli anni ’90 per chiudere un contratto non si chiedeva più di documentare il reddito, ma si stava attenti a non dare crediti superiori al 70 per cento del valore dell’immobile. Poi i grossisti hanno fatto pressione per moltiplicare i mutui. “Un giorno è arrivata una mail che diceva: compriamo mutui senza documentazione al 95 per cento del rapporto tra prestito e valore dell’immobile, una cosa che non avevo mai visto. Non passò molto tempo e la mail disse cento per cento”15. 13 Sul fenomeno dei mutui subprime sottoscritti da persone con buone credit histories cfr. R. Brooks, R. Simon, “As Housing Boomed, Industry Pushed Loa ns to a Broa der Ma rket”, Wa ll Street Journa l, December 5, 2007. 14 N. D. Schwa rtz,”Ca n the Mortga ge Crisis Swa llow a Town?”, NYT, September 2, 2007. 15 D. Schechter, “Subprime or Subcrime? Time to investiga te a nd Prosecute”, www.zma g.org. 65 n.20 / 2008 16 W. Apga r, A. Bendimera d, R. S. Essene, Mortga ge Ma rket Cha nnels a nd Fa ir Lending: An Ana lysis of HMDA Da ta , Joint Center for Housing Studies, Ha rva rd University, April 25, 2007. 17 R. Brooks, R. Simon, cit. 18 Testimony before the U.S. Sena te Committee on Ba nking, Housing a nd Urba n Affa irs, on “Preserving the America n Drea m: Preda tory Lending Pra ctices a nd Home Foreclosures”, Februa ry 7, 2007. 19 66 F. Fessenden, cit. I mediatori che facevano sottoscrivere mutui più onerosi del necessario venivano premiati. “Gli interessi dei finanziatori e degli agenti erano allineati, nel senso che entrambi potevano beneficiare finanziariamente del collocamento di prestiti fatti a condizioni più elevate di quelle suggerite nei prontuari”16. In media su un subprime il mediatore riceveva una commissione pari al 1,88 per cento del valore del mutuo, contro l’1,48 di quella per un mutuo normale. Una delle imprese più attive, la Century Financial Corporation, garantiva ai mediatori un premio pari al 2 per cento del valore del mutuo se gli interessi applicati ai mutuatari erano dell’1,25 per cento più alti della norma17. Nella prospettiva della cartolarizzazione, mutui a costi elevati rendevano di più quando venivano venduti sul mercato secondario. “Preserving the American Dream” è il titolo della sessione della commissione del Senato in cui sono state raccolte alcune testimonianze di gente travolta da pratiche predatorie. Tra queste, Delores King18. “Abito nel South Side di Chicago, in una casa che possiedo da 36 anni. Ero impiegata amministrativa; ho lavorato per 23 anni nella Chicago School of Optometry. Sfortunatamente nel 2004 sono stata vittima di una truffa che mi è costata tre mila dollari. Per farvi fronte ho deciso di rifinanziare il mio mutuo (...). Nel febbraio 2005 ho ricevuto un messaggio telefonico da un certo Chad, un mediatore che lavorava per conto della Advantage Mortgage Consulting. Mi disse che me ne avrebbe procurato rapidamente uno; un buon mutuo adatto alla mia situazione. (...) Mi ha portato a casa il contratto e mi ha fatto firmare pagine e pagine di documenti. Mi ha fatto fretta, senza spiegarmi niente. Non mi ha detto che era un mutuo strano, non usuale. Non mi ha neppure lasciato le copie che avevo firmato; più tardi ho dovuto richiederle alla società per cui lavorava. Quando avevo accettato il mutuo, Chad mi aveva detto che era a tasso variabile, che l’interesse iniziale era solo dell’1,45 per cento; che la rata regolare sarebbe stata intorno al 6 per cento, e il pagamento mensile intorno a 800 dollari (...). Credevo che l’ammontare da pagare sarebbe aumentato un poco alla volta; non avevo idea che sarebbe esploso, come è successo, dopo soli soli due anni (...). All’inizio pagavo 832 dollari al mese, comprese le tasse e l’assicurazione. Ora 1.488 dollari. E’ più del mio intero reddito mensile. Per farvi fronte mi sono fatta aiutare da familiari e amici, ma adesso mi è impossibile continuare. Il mese scorso ho versato solo 1.200 dollari. Finirò sulla strada se qualche cosa non cambia, e presto”. Jacqueline Cila di Lond Island, divorziata, con un figlio di sette anni, ha raccontato al New York Times una storia analoga, e sulla stampa se ne sono lette tante di simili. Aveva, come al solito, spedito due mila dollari per la rata di mutuo, ma all’indomani aveva ricevuto un avviso che l’informava che era inadempiente: avrebbe dovuto pagare 2.798 dollari, perchè il tasso era aumentato. Al mutuo era ricorsa per rifinanziare uno acceso nel 1997. “Lo feci tramite l’amico di un amico, e non portai con me un avvocato. Chiesi: ‘E’ un mutuo a tasso fisso?’ Mi risposero ‘Si’. Non avevo capito che era fisso solo per due anni”19. La casistica relativa alle condizioni contrattuali è molto ricca, riferita al comportamento dei mediatori, che hanno guadagnato sui contratti in maniera più che proporzionale al loro valore, approfittando - liberi da rischi - dello stato di bisogno dei mutuatari e dell’incapacità di capire che cosa sottoscrivevano. “Prima che concludessimo il contratto - ha riferito la signora Amy Womble alla commis- Giorda no Sivini I mutui subprime e le attività predatorie sione del Senato - il mediatore era stato molto gentile, ed era sembrato veramente attento ad aiutarmi. Una volta firmato, è sparito. Per cinque mesi non ha neppure risposto alle mie telefonate, e non mi ha mai fornito l’aiuto promesso per farmi abbassare la rata mensile che dovevo pagare”20. La proliferazione di pratiche predatorie era stata segnalata molto prima che esplodesse la crisi. L’aumento dei casi di insolvenza e dei pignoramenti aveva suscitato già nei primi anni del 2000 un movimento in difesa delle categorie più deboli, anziani, donne, ispanici e afroamericani. Alan Greenspan, governatore della Federal Reserve, era stato messo sull’avviso per le conseguenze che stavano producendo i mutui subprime, ma si era corazzato dietro il principio del libero mercato21. L’Office of the Controller of the Currency, competente per le attività degli istituti bancari operanti a livello federale, aveva impedito che fossero perseguite le loro filiali locali negli Stati che avevano adottato leggi contro le pratiche predatorie. Al procuratore generale di New York che considerava “abominevole” questa insensibilità verso persone vulnerabili, il Controller aveva risposto che le leggi avrebbero avuto ripercussioni negative sul mercato secondario22. Nel 2001 erano state avanzate proposte per aumentare i controlli sulla concessione dei mutui, ma si erano scontrate con il fatto che il Governo e la Federal Reserve erano determinati ad evitare ostacoli ad ‘innovazioni finanziarie’ che, estendendo la proprietà della casa, avrebbero contribuito a realizzare la ownership society predicata dal Presidente Bush. Per la diffusione dei mutui 2/28 e 3/27 ARMs si era impegnato lo stesso Alan Greenspan. In un discorso alla National Credit Union Administration aveva sostenuto che i consumatori americani traevano benefici dall’offerta di prodotti alternativi ai tradizionali mutui a tasso fisso. Lo aveva fatto nel febbraio 2004, poco prima di portare i tassi di interesse, in successione, dall’1 al 5,25 per cento23. Da un punto di vista opposto, nel marzo 2002, in un’intervista al New York Times che si stava occupando delle pratiche predatorie, la direttrice di un’organizzazione non profit aveva chiarito: “Sul terreno non c’è solo un mediatore o un prestatore canaglia. C’è molto di più, incorporato in tutto l’apparato finanziario (…). Le banche di investimento e di assicurazione di Wall Street hanno trovato la strada per trar profitto da questo segmento di mercato (...). Senza il mercato secondario, senza la cartolarizzazione, non si avrebbe questa proliferazione di attività predatorie”24. I ma ghi della fina nza e lo tsuna mi In cima alla piramide dei mediatori, delle agenzie di credito e dei grossisti stanno 25 grandi istituzioni bancarie che nel 2005 avevano raccolto l’85 per cento dei 3,1 milioni di dollari di mutui. Il resto era stato trattato da poche altre società che si occupavano a livello nazionale solo o prevalentemente del credito immobiliare. A questo capitale finanziario concentrato interessava che si facessero mutui, indipendentemente dalle condizioni contrattuali. “Predisponendo i mutui per venderli rapidamente non si prestava attenzione al fatto che venissero rimborsati. I maghi della finanza rendevano facile il trasferimento dei rischi”25. Con la cartolarizzazione, mutui provenienti da molte fonti venivano assemblati per dar luogo a titoli che venivano venduti agli investitori. Ciascun titolo era giu- 20 Testimony of Ms. Amy Womble, Consumer from Pittsboro, North Ca rolina , before the U.S. Sena te Committee on Ba nking, Housing a nd Urba n Affa irs, on “Preserving the America n Drea m: Preda tory Lending Pra ctices a nd Home Foreclosures”, Februa ry 7, 2007. 21 P. Krugma n, "A Ca ta strophe Foretold", NYT, October 26, 2007. 22 D. Hevesi, “Residentia l Rea l Esta te; Loser US Lending Rules Are Protested”, NYT, April 2, 2004. 23 Il rilievo sul comporta mento di Greenspa n è sta to fa tto da l sena tore C. J. Dodd, Cha irma n, nell’intervento introduttivo a l U.S. Sena te Committee on Ba nking, Housing a nd Urba n Affa irs on “Mortga ge Ma rket Turmoil: Ca uses a nd Consequences”, Ma rch 21, 2007. 24 D. Hevesi, “A Wilder Loa n Pool Dra ws More Sha rks”, NYT, Ma rch 24, 2002. 25 F. Norris, “A Ba d Loa n by Any Other Na me”, NYT, November 23, 2007. 67 n.20 / 2008 26 D. Berenba um, Executive Vice President of the Na tiona l Community Reinvestment Coa lition, Testimony before the Sena te Sub-Committee on Housing, Tra nsporta tion a nd Community Development, on “Ending Mortga ge Abuse: Sa fegua rding Homebuyers”, June 26, 2007. 27 In origine Fa nni Ma e e Freddie Ma c era no solo nomignoli con cui la gente pronuncia va gli a cronimi delle due società - rispettiva mente FNMA (Federa l Na tiona l Mortga ge Associa tion) e FHLMC (Federa l Home Loa n Mortga ge Corpora tion) ma divennero ta nto popola ri che furono a dotta ti ufficia lmente. 68 ridicamente separato dagli altri, e, a sua volta, separato dall’insieme dei mutui di cui era costituito. Non era vincolato ad essi se non per il flusso di cassa che da essi derivava. “Nessuno è responsabile quando lo tsunami colpisce i mutuatari”26, era la prospettiva in cui operava il capitale finanziario. Tra il 2001 e il 2006 la quantità cartolarizzata aumentò dal 50 all’80 per cento del totale dei mutui subprime, e il valore dei titoli subprime passò da 95 a 483 miliardi di dollari, cioè dal 43 al 71 per cento del totale dei titoli basati su questi mutui. La cartolarizzazione dei mutui immobiliari era stata inventata negli Stati Uniti nel 1977. Nel 1985 era stata estesa ai prestiti per l’acquisto di automobili, nel 1986 a quelli coperti dalle carte di credito, poi ad altre attività. Il primo a realizzare la cartolarizzazione era stato Freddie Mac, insieme con la Bank of America e con Salomon Brother, per liberarsi degli immobilizzi derivanti da mutui acquistati che, in mancanza di uno sbocco, era obbligata a detenere in portafoglio. Questa era la funzione per cui la società era stata creata nel 1970 da una costola di Fannie Mae, che, con lo stesso obiettivo, era stata costituita nel 1939 come agenzia governativa. Entrambe dovevano acquistare mutui immobiliari da coloro che erogavano i crediti, per liberarli dall’esposizione finanziaria, fornendo la liquidità necessaria per espandere l’attività. Fannie Mae e Freddie Mac, in concorrenza tra loro, sono - una dal 1968, l’altra dalla fondazione nel 1970 - società per azioni quotate in borsa. Per la funzione pubblica di sostenere la diffusione della proprietà immobiliare vengono tuttora considerate Government-Sponsored Enterprises; nei loro consigli di amministrazione siedono persone nominate direttamente dal Presidente degli Stati Uniti27. Entrambe - dovendo, per i mutui che si accollavano, ottenere la garanzia di una agenzia federale - hanno per lungo tempo dettato le condizioni della loro erogazione. Dovevano essere conforming mortga ges, per mutuatari che davano garanzie oggettive di solvibilità e che sottoponevano ad ipoteca immobili di valore sensibilmente inferiore al prestito erogato, stipulando in certi casi assicurazioni accessorie. Fannie Mae e Freddie Mac fino agli anni ’90 avevano in portafoglio quasi la metà del totale dei mutui. Banche ed istituti finanziari che operavano in concorrenza adottavano standard contrattuali non dissimili. Prima della cartolarizzazione, gli utili derivavano, per tutti, dall’oculata gestione dei flussi di cassa derivanti dai mutui acquistati sul mercato primario e detenuti in portafoglio. Dal sistema “origina te a nd hold” - finanziare e tenere in portafoglio - si era passati per i mutui ‘conformi’, la grande maggioranza, al sistema “origina te a nd sell”finanziare e vendere sul mercato secondario, per lo più a Fannie Mae e a Freddie Mac. Con l’avvento della cartolarizzazione si è andato generalizzando il sistema “origina te to distribute”, allungando i passaggi sul mercato secondario. Questo sistema si è diffuso dopo il 1999 quando una legge statunitense ha consentito alle banche di deposito di competere con altri istituti finanziari già liberi da controlli, ricorrendo anche ad operazioni fuori bilancio attraverso proprie collegate. Nel processo di cartolarizzazione dei mutui intervengono in sequenza diversi operatori, nel mercato primario e in quello secondario, ciascuno dei quali trae ricavi dalla funzione che svolge. La sequenza inizia sul mercato primario con il mediatore, il broker , che materialmente interagisce con il mutuatario nella definizione del prestito coperto da garanzie ipotecarie. Il più delle volte lavora per Giorda no Sivini I mutui subprime e le attività predatorie una banca o una agenzia finanziaria locale. Questa, definita origina tor, eroga il denaro al mutuatario, e registra il proprio diritto - garantito da ipoteca - a riaverlo con gli interessi, secondo le condizioni contrattuali. Cede poi il mutuo all’eventuale grossista, e questo ad un a ggrega tor che opera sul mercato secondario e che lo assembla insieme a tanti altri di diversa provenienza. L’a ggrega tor è una società o un consorzio, il più delle volte legato ad una delle grandi istituzioni finanziarie di Wall Street, costituito per gestire queste attività fuori bilancio al riparo di responsabilità giuridiche28, e che per questo viene definito specia l purpose vehicle o entity. Con l’assemblaggio i mutui sono raccolti in pacchetti, pools, corrispondenti a titoli RMBS (Residentia l Mortga ge Ba cked Securities). Ciascun pool è suddiviso gerachicamente in più strips o tra nches, tecnicamente denominate senior , mezza nine ed equity. I flussi di cassa generati dai mutui remunerano i titoli secondo un ordine di priorità che va dalle tra nches senior - quelle con rischi più bassi - via via a quelle subordinate, così che le eventuali insolvenze dei mutuatari si riflettono in ordine inverso a partire dalle ultime, più rischiose. Ultimo elemento della catena di operatori nel sistema di cartolarizzazione è il ma ster servicer , solitamente delegato dall’a ggrega tor alla raccolta delle rate di mutuo e alle procedure di esecuzione in caso di insolvenze, nonchè alla distribuzione dei flussi di cassa ai detentori dei titoli. E’ una attività che le economie di scala rende altamente concentrata, anche se, tenendo conto della distribuzione geografica dei mutui, viene subappaltata a diversi servicers, non di rado contrattualmente obbligati a detenere titoli ad alto rischio “per indurli ad essere aggressivi nella raccolta dei pagamenti”29. Valutati in rapporto alla loro efficacia, vengono spesso cambiati, così che i mutuatari, nel corso della gestione dei mutui, restano sovente senza referenti stabili. I servicers, d’altra parte, devono seguire le procedure incluse nella documentazione della cartolarizzazione, che di solito limitano la possibilità di modificare i termini del contratto di mutuo. “Molti servicers non vogliono discutere di modificarli prima che siano passati almeno tre mesi dall’insolvenza, quando ormai tanti mutuatari sono in gravi difficoltà finanziarie; per di più non vogliono o non possono fare cambiamenti”30. Nell’assemblaggio dei mutui gli a ggrega tors lavorano con una agenzia di rating, che determina le condizioni per assegnare ai titoli quella valutazione di basso rischio che per legge devono avere per essere detenuti in portafoglio da alcune categorie di investitori istituzionali come i fondi pensione. Moody’s, Standard & Poor’s, e Fitch sono le agenzie di rating che dominano anche il mercato delle cartolarizzazioni anche se la loro funzione originaria riguarda la valutazione dei rischi di impresa31. I loro introiti dipendono dalla quantità di operazioni di cartolarizzazione a cui partecipano, in quanto è l’a ggrega tor che le sceglie e le paga. Considerando che per queste attività ricevevano “commissioni circa il doppio di quelle ottenute per valutare i titoli delle imprese”32, le agenzie di rating avevano interesse a concentrarsi “eccessivamente” sulla quantità - piuttosto che sulla qualità - di mutui cartolarizzati33, giungendo persino a cercare di ostacolare l’approvazione di leggi statali contro le pratiche predatorie, minacciando di non operare più in quegli stati che le avessero adottate34. Sulla valutazione dei livelli di rischio influisce l’esistenza di strumenti cuscinetto, che hanno la funzione di proteggere le tra nches senior dai rischi. Lo strumento 28 K. C. Engel, P. A. McCoy, “Turning a Blind Eye: Wa ll Street Fina nce of Preda tory Lending”, Fordha m La w Review, vol. 75, 2007, p. 127 29 C. L. Peterson, Associa te Professor of La w, University of Florida , Written Testimony before the U.S. Sena te Subcommittee on Securities, Insura nce, a nd Investment on “Subprime Mortga ge Ma rket Turmoil: Exa mining the Role of Securitiza tion”, April 17, 2007. 30 V. Ba ja j, “For Some Subprime Borrowers, Few Good Choices”, NYT, Ma rch 22, 2007. 31 Sulla problema tica delle va luta zioni cfr. J. C. Coffee Jr., “The Role a nd Impa ct of Credit Ra ting Agencies on the Subprime Credit Ma rkets”, before the Sena te Ba nking Committee, September 26, 2007. 32 L. Ra nda ll Wra y, Lessons from the Subprime Meltdown, Levy Economics Institute, Working Pa per no. 522, 2007. 33 K. Eggert, Professor of Law, before the Subcommittee on Securities, Insurance, and Investments on “Subprime Mortgage Market Turmoil: Examining the Role of Securitiza tion”, April 17, 2007. Le a utorità giudizia rie di Connecticut, New York e Ohio sta nno inda ga ndo se le tre a genzie si sia no impegna te in pra tiche a nticompetitive e se i ra tings sia no sta ti influenza ti da lle società che li richiedeva no: cfr. L. Browning, “Connecticut Investiga tes Ma jor DebtRa ting Agencies”, NYT, October 27, 2007. 34 K. Eggert, cit. 69 n.20 / 2008 35 J. Kregel, Minsky’s Cushions of Sa fety: Systemic Risk a nd the Crisis in the U.S. Subprime Mortga ge Ma rkets, Public Policy Brief Series, Levy Economics Institute, 2008, p. 11. più importante è costituito dalla stessa suddivisione del pool in tra nches, in quanto quelle subordinate proteggono le senior. L’agenzia di rating agisce su questa suddivisione. Altri strumenti, su cui essa può esercitare il controllo, sono l’overcolla tera liza tion , quando nel pool viene compresa una quantità aggiuntiva di mutui per supplire ai flussi di cassa di quelli eventualmente insolventi; il credit enha ncement che fa intervenire garanzie di tipo assicurativo; l’excess sprea d, dato dalla differenza tra l’ammontare dell’interesse pagato sui mutui e l’ammontare dell’interesse trasferito ai detentori di titoli, trattenuta per compensare le eventuali insolvenze. Alla protezione dal rischio ha concorso anche, in termini generali, l’andamento positivo del mercato delle abitazioni e la continua crescita del loro valore fino al 2004. Gli investitori potevano alimentare il flusso di cassa dei titoli contando sia sul rifinanziamento dei debiti, sia sul recupero dei crediti mediante l’espropriazione e la vendita degli immobili dei mutuatari insolventi. Il sistema “origina te to distribute” ha frammentato il rapporto di credito, che un tempo si svolgeva tra due parti - il creditore e il debitore, o tre - quando interveniva anche un acquirente esterno come Freddie Mae o Fannie Mac. Le banche che erogavano i mutui e li tenevano nel portafoglio erano interessate a monitorare i debitori e ad evitare le insolvenze. Con la cartolarizzazione, il monitoraggio si è spostato dalla banca alle agenzie di rating, dal singolo mutuo ai pools di mutui, dalla solvibilità dei mutuatari al rischio degli investitori. In questa situazione le banche che erogano i mutui “non hanno alcun interesse per la valutazione del rischio di credito, dal momento che gli interessi e il debito principale vanno rimborsati agli acquirenti finali dei titoli”35. Sono questi, del resto, che reggono il circuito complessivo dei mutui dal momento che a fronte dei titoli che acquistano forniscono soldi che arrivano agli origina tors che fanno nuovi mutui. Nei passaggi intermedi dai detentori dei titoli ai mutuatari e viceversa tutti gli operatori vivono di commissioni, rapportate alle funzioni che svolgono - dai mediatori, alle agenzie locali che erogano i crediti, alle società cui i grandi istituti finanziari demandano le funzioni di assemblaggio dei mutui, ai servicers. Il “pr ezzo a ppr opr ia to” 36 V. Ba ja j, R. Nixon, “Subprime Loa ns Going From Boon to Housing Ba ne”, NYT, December 6, 2006. 37 J. C. Duga n, Comptroller of the Currency, Testimony before the Committee on Fina ncia l Services of the US House of Representa tives, on “Recent Events in the Credit a nd Mortga ge Ma rkets” September 5, 2007. 70 “I titoli subprime erano particolarmente appetiti, perchè gli alti interessi che i mutuatari pagavano li rendevano più remunerativi dei prime, pur tenendo conto dei maggiori rischi”36. In una situazione di grande liquidità, la loro emissione consentiva di rastrellare sempre nuovi fondi per accendere nuovi mutui. Il circuito era alimentato da investitori istituzionali e da hedge funds, interessati rispettivamente soprattutto alle tra nches estreme dei pools. L’attività era orchestrata dalle grandi banche di Wall Street, impegnate anche ad erogare prestiti agli investitori, e ad investire esse stesse in questi titoli per utilizzarli come attività sottostanti altri strumenti finanziari. In particolare ne avevano fatto ampio uso per mobilitare su scala internazionale nuovi capitali emettendo carta commerciale garantita dai titoli RMBS (a sset-ba cked commercia l pa per )37. Carta commerciale è una lettera con cui l’emittente riconosce il debito contratto con un investitore. Per il primo è uno strumento per finanziarsi, per il secondo per gestire la propria liquidità con un buon rendimento di breve periodo che Giorda no Sivini I mutui subprime e le attività predatorie l’emittente gli assicura38. Le grandi banche avevano costituito società, tecnicamente definite structured investment vehicles, per gestire fuori bilancio anche queste operazioni. Guadagnavano dalla differenza tra il tasso a breve del denaro preso a prestito contro a sset-ba cked commercia l pa per e il tasso a lungo più alto dei titoli39, e investivano il guadagno in nuovi titoli RMBS utilizzati per l’emissione di altra carta commerciale. I circuiti di produzione di titoli cartolarizzati e di carta commerciale sono entrati in crisi quando la rovina di milioni di mutuatari ha alterato gli attesi flussi di cassa dei titoli, facendo saltare i cuscinetti che li proteggevano dalle insolvenze. Il sistema “ha funzionato bene finchè i titoli erano considerati sicuri e liquidi, il che assicurava che anche la carta commerciale e gli altri titoli emessi per finanziare i loro acquisti erano sicuri e liquidi”40. Poi c’è stato il crollo, che con un effetto domino ha investito altri titoli e più in generale i rapporti fiduciari tra i principali operatori finanziari. La crisi dei subprime si è imposta all’attenzione dei media e della politica non per i disastri sociali che il sistema stava già da tempo producendo, ma per la constatazione che erano venute meno le capacità di previsione e di tolleranza dei rischi. Prima di allora il capitale finanziario si era garantito utili ingenti con gli esorbitanti costi fatti gravare sui mutuatari. Chi erogava i prestiti “era incentivato a caricare tassi di interesse più alti, e oneri nel caso di rimborsi anticipati, perché queste condizioni generavano prezzi maggiori quando i mutui venivano venduti”41. E gli investitori in titoli subprime, che beneficiavano dei flussi di cassa dei mutui, “facevano pressioni per imporre costi più alti ai mutuatari”42. “Anche prima della crisi dei subprime la cartolarizzazione aveva consentito che si verificassero insolvenze e pignoramenti, che molti consideravano eccessivi e pericolosi. Però, dal momento che coloro che assemblavano i mutui erano stati capaci di valutare e distribuire questi rischi, e la domanda aveva fatto aumentare i tassi di interesse in maniera da giustificarli, le insolvenze ed i pignoramenti erano stati accettati, anno dopo anno, senza che la reputazione e le finanze delle banche venissero danneggiate”43. Oltretutto, le azioni legali contro brockers e origina tors tentate dai mutuatari, non interrompevano le procedure di pignoramento e di espropriazione avviate da chi aveva acquistato e deteneva i titoli in buona fede44. La generalizzazione delle pratiche predatorie aveva fatto lievitare i tassi di interesse applicati ai mutui, perchè le agenzie di rating avevano preteso una migliore protezione degli investitori45. Ciononostante, circa la metà dei punti percentuali in più imposti ai mutuatari subprime rispetto ai tassi di interesse dei mutui conformi non era giustificato dal maggior rischio46. Su un campione di mutui subprime 2/28, i tassi di interesse per i primi due anni erano quasi eguali a quelli dei mutui a tasso fisso, al quarto anno il divario era prossimo ai 4 punti percentuali47. Le penalità per il rimborso anticipato del debito erano applicate al 70 per cento dei mutui subprime contro il 2 per cento dei mutui conformi48. Nel sistema di a pa rtheid finanziario, le persone già in difficoltà, segnate dallo stigma del credit score basso, dovevano dunque sopportare oneri crescenti al fine di aumentare la redditività dei titoli cartolarizzati. Gli interessi che i mutuatari pagavano coprivano i costi dei cuscinetti, remuneravano gli intermediari, davano ai titoli una redditività appetibile, e, alla carta commerciale garantita dai 38 La ca rta commercia le ha una dura ta ma ssima di 270 giorni ed è rinnovabile. 39 G. Morenson, J. Anderson, “Subprime Problems Sprea d Into Commercia l Loa ns”, NYT, August 15, 2007. 40 L. R. Wra y, cit., p.13. 41 K. C. Engel, P. A. McCoy, cit, , p. 122. 42 43 Ivi. K. Eggert, cit. 44 Assignee Lia bility, Center for Responsible Lending, November 2, 2007. 45 K. C. Engel, P. A. McCoy, cit, , p. 119. 46 Ivi. 47 S. C. Ba ir, Cha irma n of Federa l Deposit Insura nce Co., on "Subprime a nd Preda tory Lending", before the Subcommittee on Fina ncia l Institutions a nd Consumer Credit, US House of Representa tives, Ma rch 27, 2007. 48 J. Hightower, “Subprime Loa ns = Primetime for Va mpire Lenders”, www.zma g.org. 71 n.20 / 2008 49 Cita to da C. Bloice, “We’re a n ‘Emerging Ma rket’ in Big Trouble”, www.zma g.org. 50 Cfr. H. Minsky, Potrebbe ripetersi? Insta bilità e fina nza dopo la crisi del ’29, Torino Eina udi, 1984 51 La posizione di Minsky è sintetizza ta in P. Ma Culley, “The Pla nkton Theory Meets Minsky”, Pimco Bonds, Ma rch 2007, www.Pimco.com. 52 J. Kregel, cit., p.14; L. R. Wra y, cit., pp. 23-25. 53 Cfr. M. Zuckoff, Ponzi’s Scheme: The True History of a Fina ncia l Legend, New York, Ra ndom House, 2005. 54 D. Ha rvey, La guerra perpetua . Ana lisi del nuovo imperia lismo, Il Sa ggia tore, 2006. 55 G. Arrighi, Hegemony Unra velling, 1 e 2, New Left Review, nn. 32 e 33, 2005. 72 titoli una straordinaria capacità di circolazione. “Un tempo ai richiedenti marginali era semplicemente negato il credito, mentre ora chi lo eroga può giudicare in maniera efficiente il rischio, e dargli un prezzo appropriato”, aveva rilevato con soddisfazione Alan Greenspan nella primavera del 2005. Col termine “prezzo appropriato” si riferiva a questi costi imposti ai mutuatari. “Questo miglioramento - aveva infatti aggiunto - ha portato alla rapida crescita dei mutui immobiliari subprime”49. ‘P onzifica tion’ e ‘dispossession’ Quando il circuito della cartolarizzazione si è bloccato, e la crisi dei subprime è sprofondata nella catastrofe finanziaria, nel mondo dell’economia e della finanza sono state riconsiderate le tesi di Hyman Minsky, secondo il quale nei periodi di stabilità e di liquidità l’economia diventa fragile a causa di attività speculative che, in mancanza di regolamentazioni, arrivano a livelli incontenibili50. Gli operatori prendono a prestito più di quanto possono restituire e alimentano bolle che scoppiano quando, nell’impossibilità di indebitarsi ulteriormente, sono costretti a passare da comportamenti speculativi a comportamenti “ponzi”, liquidando le proprie attività51. Le grandi crisi finanziarie hanno quindi, secondo Minsky, cause endogene, dovute alla generalizzazione dei processi di ponzifica tion . Il sistema dei subprime viene considerato un “ponzi scheme”, prodotto dalla frenesia speculativa delle banche di Wall Street, che le ha indotte a sottovalutare le capacità dei cuscinetti posti a copertura dei rischi legati ai titoli cartolarizzati. I cuscinetti hanno funzionato finchè l’aumento dei prezzi delle case è stato sostenuto dalla domanda di nuovi mutui, e finchè la moltiplicazione dei mutui e il loro rifinanziamento ha supplito alle difficoltà di quei mutuatari che non riuscivano a far fronte ai debiti52. Sarebbe stato possibile neutralizzare i processi dell’economia reale con un diverso approccio al problema dei rischi finanziari? Non pochi osservatori, soprattutto quelli che attribuiscono alle agenzie di rating le principali responsabilità, sembrano dare una risposta positiva, ma la danno eludendo i problemi sociali connessi con l’attività speculativa. Il richiamo di Minsky a quel grande truffatore che è stato Charles Ponzi è metaforico. Ponzi è entrato nella storia per aver pagato elevati interessi sui depositi con i soldi derivanti da sempre nuovi depositi di gente attratta da alti interessi; più volte perseguito e condannato per vicende di questo tipo, è morto in povertà53. Quel che conta per Minsky è che, in un’economia non regolata, la voracità della speculazione porta il capitale finanziario alla rovina. Il suo campo di interesse riguarda la finanza, e si ferma ad essa. I truffati da Ponzi, e la gente indebitata con i mutui subprime restano fuori. Le attività sottostanti ai titoli finanziari hanno però la concretezza dei mutui e dei mutuatari. Si constata allora che il sistema speculativo si blocca per l’impossibilità del capitale finanziario di speculare indefinitamente drenando ricchezza sociale. I redditi stremati dagli interessi imposti da Wall Street cessano di alimentare, ai livelli attesi, il flusso di cassa dei titoli cartolarizzati, e il crollo del mercato immobiliare porta alla distruzione della ricchezza congelata nelle ipoteche. Con Harvey54 e Arrighi55 si guarda, diversamente da Minsky, al rapporto tra eco- Giorda no Sivini I mutui subprime e le attività predatorie nomia materiale e capitale finanziario. La ricerca di condizioni di profittabilità lo porta storicamente a fissarsi laddove trova adeguate condizioni produttive, immediate o differite nel tempo, oppure ad appropriarsi di risorse materiali mediante processi di spoliazione di beni collettivi, proprietà pubbliche, capitali nazionali. Accumulazione per spoliazione (a ccumula tion by dispossession ), scrive Harvey, “è liberare un insieme di risorse (inclusa la forza lavoro) a costi molto bassi o nulli, così che il surplus di capitale possa impadronirsene e utilizzarlo immediatamente a fini di profitto”56. Dispossession è stato tradotto dall’inglese con espropriazione57. Harvey e Arrighi guardando ai processi di dispossession non si curano di fare una distinzione tra i contesti in cui sono prodotti, legittimando l’utilizzazione generica del termine italiano espropriazione58. Per interpretare il fenomeno dei subprime è invece necessario qualificare la dispossession rispetto al modo specifico con cui il capitale finanziario entra in rapporto con l’economia reale. Nell’accumulazione originaria, si impone come denaro, nella forma di merci che disgregano le relazioni produttive precapitalistiche. E’ la situazione classica di una espropriazione delle condizioni di esistenza che crea proletarizzazione, per valorizzare produttivamente il capitale e produrre nuova ricchezza sociale. Nella situazione attuale l’accumulazione originaria è, però, marginale. Il capitale finanziario si impone invece come denaro che, con la mediazione di strumenti finanziari, si appropria di ricchezza sociale. Non agisce in vista di una valorizzazione produttiva delle risorse appropriate, ma per un aumento del suo proprio valore. Con gli eccessi speculativi, come rileva Minsky, si autodistrugge. Dispossession qualifica quindi le pratiche predatorie del capitale finanziario finalizzate alla spoliazione - non all’espropriazione - delle risorse che qualificano le attuali condizioni di esistenza, procurando crescente povertà. “Per il capitale in cerca di flussi di reddito stabile - osserva Chesnais59 - non ci sono investimenti migliori delle industrie di servizio pubbliche privatizzate perchè le famiglie si sono abituate al gas, all’elettricità ecc. Sono fonti di profitti regolari e sicuri, tanto più che lo stato vi ha fatto importanti investimenti. Analogamente, con la privatizzazione delle pensioni somme molto elevate non sono più sottratte ai mercati finanziari”. Sono esempi, tra i tanti, di modalità di accumulazione per spoliazione. Questo lavoro sui subprime vuole essere un contributo puntuale in questa prospettiva interpretativa. 56 Cit., p. 178. 57 “Accumula zione per espropria zione” è il titolo di un pa ra gra fo del libro di Ha rvey, cit., p. 122. 58 D. Ha rvey, cit., pp. 1789; G. Arrighi, I, cit., p. 44. 59 F. Chesna is, La fina nce mondia lisée, Pa ris, La Découverte, 2004, pp. 44-5. * Professore ordinario di Sociologia politica, Facoltà di Economia, Università della Calabria ([email protected]) 73 Fra nco de Leona rdis Profili economici e professione: un percorso à rebours1 Il Faro Alla memoria del dott. Lorenzo Cuneo P r emessa Testo della rela zione tenuta nel corso del convegno presso la Società di Letture e Conversa zioni Scientifiche sul tema "Vilfredo Pareto -Genova lo ricorda" Genova , pa la zzo Duca le 27/28 novembre 2006. 1 J.K. Huysma ns, a utore di A rebours tra dotto in ita lia no da llo scrittore ligure Ca millo Sba rba ro, col titolo emblema tico Controcorrente. 2 Gli a ntecedenti delle Fa coltà di Economia sono da ritrova rsi nella Scuola Superiore di Commercio, la prima delle qua li in Europa sorse a d Anversa nel 1852 con una orga nizza zione dida ttica ed un progra mma di studi che univa la ba se teorica con elementi di a pplica zione pra tica . Un secondo modello sorge a Venezia nel 1877 con ca ra tteristiche più scientifiche. Nel 1881 a Fila delfia (Università della Pennsylva nia ) viene fonda ta la più a ntica fa coltà commercia le a merica na , la Whorton School of Fina nce a nd Commerce; a d essa seguono a ltre 74 I miei primi anni di formazione universitaria alla Facoltà di Economia e Commercio a Genova2 (ora di Economia), fra il finire degli anni 50 e l’inizio degli anni 60 furono fortemente improntati dalla divulgazione e, quindi, dallo studio di testi di Economia Politica, Statistica e Matematica, discipline convergenti e sistemiche per comprendere quella magmatica realtà che i fatti e gli atti economici ci ripropongono in ogni istante della nostra vita. La teoria economica si limita all’analisi dei fatti economici, al comportamento individuale edonistico e si sviluppa indagando sul mondo delle ideologie , dei valori e delle passioni3. Nell'apparente inconciliabile difformità fra tendenza al perfezionamento teoretico della scienza economica e il sapere istintivo degli operatori economici sta proprio la funzione professionale. L’esperienza diretta degli affari in cui convergono i desideri degli individui per perseguire l'interesse di massimizzare le proprie utilità, di agire razionalmente calcolando i rapporti costi benefici, è il fondamento per la conoscenza del mercato, il quale altro non è che un insieme di forze meccaniche e la scienza economica studia il bilanciamento di queste come le leve nel caso della meccanica. Gli aspetti reali del mercato sono il riferimento a cui le astratte forme in cui si articolano le mutevoli leggi economiche e sono al contempo il campo di osservazione dei comportamenti degli individui. L’impostazione professionale in definitiva non può fare a meno di criteri di astrazione utili alla selezione dei fatti. E questo è il mondo vissuto concretamente nelle diverse prassi professionali. Percorso a rébours per verificare e constatare quale rilievo hanno avuto nella formazione gli studi delle dottrine economiche. Chi nella realtà professionale non si è confrontato con i mercati, i prezzi, le aziende, la finanza, le imposte? Chi non ha, con indipendenza di giudizio e spirito di verità analizzato e proposto soluzioni che tenessero conto della caratterialità, delle debolezze o certezze dei soggetti clienti? Mi ricordo di un imprenditore che volle costituire un negozio per introdurre la moda di certi abbigliamenti maschili in una località turistica che oggettivamente si presentava avulsa da questa propensione particolare ai consumi di quei capi di abbigliamento. Ebbene, passato il tempo di start–up, questa attività divenne il fulcro che valorizzò un’intera località. Il cliente, aggiungo, fu Fra nco de Leona rdis Profili economici e professione: un percorso à rebours compreso dal professionista, pur enunciando perplessità, vincoli e rischi. Per questa ragione ho accettato di dare un contributo a questo convegno sul Pareto. Articolerei l'intervento ripercorrendo studi economici e adattandoli alla particolare “forma mentis” di un professionista al fine di contribuire ad una migliore comprensione dei gradi di utilità che questa scienza ci può offrire e in oggi troppo lesionata dalle attuali prassi legislative. Dopo alcuni richiami alla genealogia di Vilfredo Pareto ed una sintesi del Pareto all'inizio della sua attività quale economista di impresa, ripercorrerò in breve alcuni concetti che lo contraddistinguono quale economista e sociologo. Quale economista mi è sembrato altresì opportuno riprendere gli insegnamenti di due autori Adamo Smith e Luigi Einaudi, distanti nel tempo ma di viva attualità per i temi che possono riproporsi oggi, come quello del lavoro; quale sociologo si è accennato al tema delle scienze cognitive, neuroscienze applicate al comportamento economico. La parte finale dell'intervento è dedicata all'economia finanziaria, richiamando la Scuola di Scienza delle Finanze ed i contributi principali dati allo sviluppo della finanza pubblica in Italia verificando nell'attualità l'assenza di linee guida che armonizzino i cicli economici e sviluppi normativi. Pareto non ebbe da Genova, a partire dagli anni 70, quella continuità di studi che altrove in sede internazionale gli fu riconosciuta. Nel 1973 a Roma, all’Accademia Nazionale dei Lincei si tenne un convegno internazionale al cui parteciparono studiosi di tutto il mondo. Ancor prima nel lontano 1960 fu tenuta la Celebrazione Franco – italiana di Vilfredo Pareto (a Parigi il 30 settembre 1960) promossa e sostenuta dall’allora ordinario della cattedra di Economia all’Università di Genova Prof. Eraldo Fossati, tenace cultore della scienza economica con particolarissimo riguardo al Vilfredo Pareto nel nome del quale fondò il Laboratorio di Economia che la tradizione non riuscì a mantenere4. La genea logia e a lcune a nnota zioni dei fa milia r i. La sua discendenza risale come gruppo familiare Pareto ad un certo Antonio registrato in un atto notarile del 1267. Nel 1307 Ba rtolomeo e Angelo vennero sepolti nella cattedrale di S. Lorenzo. Ai Pareto appartenne Gio Benedetto contadino della Valpolcevera che il 29 agosto 1490 asserì di aver assistito all’apparizione della Madonna sul monte Figogna. Nel 1727 Gio Lorenzo Ba rtolomeo originario della Fontanabuona, ricco commerciante di grani ottenne l’iscrizione nel Libro d’Oro della nobiltà genovese col titolo trasmissibile di marchese. Uno dei suoi nipoti Lorenzo Antonio (17371802) sposò Angela Balbi e dalla loro unione nacquero sei figli: - Il primogenito Gio Benedetto (1768-1831) nonno paterno di Vilfredo, fu elevato da Napoleone alla baronia imperiale nel 1811. Ebbe due figli, Domenico e Raffaele. Domenico Pareto (1804-1898) zio di Vilfredo fu diplomatico per molti anni presso l’ambasciata di Russia. Raffaele Pareto (1812-1882) padre di Vilfredo, sposò Marie Méténier ( 1813-1889 ) ed ebbe tre figli, Aurelia, Cristina e Vilfredo che nacque a Parigi il 15 luglio 1848. Raffaele si trasferì a Genova nel 1852 e fu incaricato dell’insegnamento del francese nella Regia Scuola di Marina, fino al 1859 anno in cui venne nominato docente di agricoltura e contabilità nell’Istituto Tecnico Leardi di Casale Monferrato. Nel 1861 Francesco de Sanctis, (ministro dell’educazione pubblica dell’ultimo Gabinetto Cavour) gli conferì la laurea ad honorem in inge- istituzioni simili: nel 1898 a Berkeley e a Chica go; tra il 1900 e il 1905 nelle Università dell’ Illinois, del Vermont e del Wisconsin; corsi specia li di commercio vengono successiva mente istituiti a New York. A pa rtire da l fine ‘800 primi ‘900 in tutta Europa si forma no presso le università Scuole Superiori di Commercio. A Ba ri da l 1882 è a ttiva una Scuola di Commercio con Ba nco Modello e diviene Scuola Superiore di Commercio nel 1886. La Scuola Superiore d’Applica zione di Studi Commercia li di Genova viene fonda ta con R.D. 22 ma ggio 1884 e inizia i propri corsi il 29 novembre 1886. Un modello più complesso e più evoluto sorge a Mila no nel 1902: l’istituto Superiore Commercia le Luigi Bocconi che ottiene da l Ministero nel 1906 il diritto di concedere la la urea e il titolo di dottore in Scienze Economiche e Commerciali; (Luigi Bocconi deceduto nel 1896 nella battaglia di Adua, figlio di Ferdinando Bocconi, (1836-1908), venditore ambulante di tessuti, poi titolare di un piccolo negozio in via s. Redegonda a Milano e nel 1889 inaugurò, insieme al fratello Luigi, il primo grande magazzino italiano denominato prima Magazzini Bocconi in seguito Alle città di Italia divenendo infine la Rinascente). Gli Istituti Superiori di Commercio sono i centri di formazione di una composita classe dirigente economica-tecnica con l’apporto di un corpo docente specialistico. Tra i fondatori delle tre più antiche scuole italiane rammentiamo i Direttori Francesco Ferrara (1810-1900) a Venezia, (la prima scuola 75 n.20 / 2008 del genere in Ita lia fonda ta con R.D. 6/08/1868 ) Ma ffeo Pa nta leoni (1857 1924) a Ba ri e Ja copo Virgilio (1834-1891) a Genova . A Genova la Scuola Superiore diviene nel 1913 Istituto Superiore di Scienze Economiche e Commercia li e si tra sforma in Fa coltà di Economia e Commercio dell’Università degli Studi di Genova nel 1936. (Cfr. Da lla Scuola Superiore di Commercio a lla Fa coltà di Economia , a cura di Pa ola Ma ssa Piergiova nni, Genova , 1992, pp 15-23). 3 Autori va ri, Vilfredo Pa reto (1848- 1923). L’uomo e lo scienzia to, a cura di Ga vino Ma nca , Mila no, Libri Schewiller, 2002, p.14. 4 Celebra zione Fra nco-ita lia na di Vilfredo Pa reto ( Pa rigi 30 – 091960) , Mila no, Giuffrè Editore, 1960. 5 In Memorie dell’ Acca demia di Scienze, lettere ed Arti di Genova , Genova , 1814, III, pp.225-244. 6 L’8 genna io 1873 tiene a Genova una conferenza sul sistema elettora le proporziona le e la città lo rivedrà a lla Società di Letture e conversa zioni scientifiche di Genova per un Discorso sul risca tto delle ferrovie in L’Economista , 14 febbra io 1876, pp 165-167 e p.169; 20 febbra io 1876 pp. 201-203. Nel ma rzo del 1898 Vilfredo Pa reto è di nuovo a Genova per riscuotere una grossa eredità dello zio Domenico. 76 gneria quale riconoscimento del valore scientifico delle sue pubblicazioni e dei lavori di idraulica realizzati soprattutto in Francia. Nel 1862 si trasferì a Torino e il ministro Gioacchino Napoleone Pepoli lo nominò Reggente di Divisione nella sezione delle bonifiche ed irrigazione del Ministero dell’Agricoltura Industria e Commercio. Nel 1864 si trasferì a Firenze ove diresse la rivista “Giornale dell’Ingegnere, Architetto e Agronomo” e nel 1877 a Roma dove concluse la sua carriera col grado di Ispettore di prima classe del Corpo Reale del Genio Civile. - Giovanni Agostino Placido Vincenzo Maria (1773-1829) studioso di matematica ed economista, intellettuale a favore dei rivoluzionari francesi fece parte fino al 1802 della Commissione di Governo della Repubblica Ligure presieduta dal consigliere di stato, generale Giovanni Francesco Déjan con funzioni di amministratore delle pubbliche finanze redigendo relazioni ufficiali in difesa degli interessi genovesi e inviate ai ministri centrali di Parigi; secondo il Girolamo Serra se queste relazioni fossero raccolte in volume costituirebbero un trattato di finanza applicata. Alla caduta di Napoleone, su designazione dei genovesi iniziò una strenue lotta per l’autonomia ma inutilmente in quanto in sede internazionale venne stabilito il definitivo rientro negli Stati Sardi. Lasciò diverse memorie e le “Considerazioni sulle cagioni della ricchezza dei genovesi nel XII, XIII, XIV secolo”5. - Lorenzo Pa reto (1800-1865) geologo prese parte alla vita politica sollevando nel 1847 il popolo genovese per far decidere Carlo Alberto alle riforme. La sua vita battagliera si può compendiare in un documento rivelatore e precisamente il discorso che pronunciò al Parlamento italiano il 15 gennaio 1862 constatando l’abuso dei decreti legge: “si dirà che lo Stato non è più il dispotismo di uno solo, ma ch’è il dispotismo ministeriale tinto di una logora vernice di parlamentarismo e guai, ripeto,se questa idea si ingenera nel paese!”. - Gli altri figli furono Ma ria Teresa ( nata nel 1785), Luigi Nicolò ( nato ne 1784) e Teresa Bia nca Ca milla ( nata nel 1787). Lo zio di Vilfredo Pareto, Da ma so, (1801-1862) letterato e studioso di letteratura inglese fu amico di Mazzini e patì con altri patrioti il carcere. Ga eta no Pa reto( 1803-1894), cugino di Vilfredo fu grande viaggiatore e partecipò alle cinque giornate di Milano. - Ernesto Pa reto (1818- 1893) rivoluzionario mazziniano, ospitò il grande patriota. La moglie inglese Costanza Fitzgerald Wright fu anch’essa una pericolosa rivoluzionaria. P a r eto, economista d’impr esa . Una prima osservazione può riguardare Vilfredo Pareto quale economista di impresa per circa venti anni; egli appartiene a quella élite degli ingegneri matematici fulcro dell’incipiente processo di industrializzazione. Nel 1861 è assunto come ingegnere alla Società Anonima delle Stra de Ferra te. Entra nel novembre del 18736 nella Società per l’Industria del Ferro, settore (insieme a quello dell’acciaio) che soffriva di arretratezza rispetto ad un più esteso mercato internazionale. Per Pareto furono anni di sacrificio in un contesto pionieristico della nascente industrializzazione; un esempio significativo è costituito dalle doglianze dei produttori sulla mancanza del carbone necessario al processo di trasformazione. “Se non ci è, andate a prenderlo dove si trova” profetiche parole del Pareto che anticipavano i processi di integrazione verticale delle aziende mani- Fra nco de Leona rdis Profili economici e professione: un percorso à rebours fatturiere del tipo, realizzati nel settore siderurgico dal progetto dell’ing. Oscar Sinigaglia7 (1877-1963) che prevedeva la realizzazione di stabilimenti siderurgici sul mare in quanto ricettivi di carbone e minerali provenienti dall’estero. Il trasporto marittimo veniva così integrato al processo produttivo: le cosiddette flotte industriali. Quel progetto iniziale della Società per l’Industria del Ferro fu un concreto esempio di business- plan che richiedeva una adeguata immissione di capitali e quindi una valutazione fra costi di impianto e di gestione attesi con fonti di finanziamento costituiti da capitali di rischio. Purtroppo quel progetto iniziale non trovò riscontro e il Pareto cercò di dare concreti indirizzi per una prospettiva industriale. Nel dicembre 1878 viene nominato Direttore Generale8 in una situazione precaria sia finanziaria che economica. Il possibile risanamento passò attraverso la Banca Generale che partecipò alla costituzione della Società delle Ferriere Ita lia ne, dando inizio nel 1880 ad un nuovo ciclo per l’industria siderurgica in Valdarno. Pareto restò fino al 28 maggio 1890 e venne “esonerato” dall’incarico. La conclusione di questo periodo si può definire non certamente adeguata ai sacrifici profusi9. Per Pareto la lunga esperienza aziendale, con ragionevole certezza, fu la fonte alla quale attinse quei materiali grezzi che levigò per pervenire all’elaborazione delle analisi economiche successive che lo portarono alla teorizzazione economica dell’equilibrio, dell’ottimo paretiano e della distribuzione dei redditi. P a r eto, economista e sociologo. Una lettura di Vilfredo Pareto, nel contesto della intera dottrina economica, rivela che è irrazionale la ricerca di leggi economiche assolute e invita ad esaminare invece il comportamento sociale in cui i singoli individui non soggiacciono a schemi preordinati né a strumenti di costrizione totalitaria sotto false apparenze di una inesistente eguaglianza sotto questi profili. L’inizio del Cours d’économie politique pubblicato presso l’editore F. Rouge in due volumi a Losanna nel 1896 - 1897 e tradotto da Renzo Fubini nel 1942 per l’edizione Einaudi è al proposito significativo: “la scienza di cui intraprendiamo lo studio è una scienza naturale come la psicologia, la fisiologia, la chimica ecc..Come tale non ha da darci precetti”. I due tomi si compongono di due parti: la prima “ Principes d’économie politique pure”, la seconda “Economie politique appliquée”, quest’ultima si suddivide a sua volta in tre libri, il primo dedicato ai capitali (personali , mobiliari, immobiliari), il secondo al funzionamento dell’organismo economico (produzione, commercio, crisi economiche), il terzo è sulla ripartizione e il consumo delle ricchezze. Pareto, pur divergendo dal Walras nella formulazione di idee sociali, il primo convinto liberale e successivamente scettico di ogni dottrina sociale, il secondo propugnatore di riforme sociali, furono entrambi i fondatori della teoria dell’equilibrio economico generale. Pareto definisce questi sistemi “reali” i quali deviano rispetto alle matrici originali. Tra le matrici originali e i sistemi reali si manifestano quelle azioni non logiche (verità soggettive) che differiscono secondo intensità di azione dalle verità oggettive. E’ per questa via che Vilfredo Pareto impegna le sue forze nel Tra tta to di sociologia genera le. In esso vi è l’analisi del contrasto fra la scienza logico-spe- 7 Osca r Siniga glia , Alcune note sulla siderurgia ita lia na , Roma , Tipogra fia del Sena to, 1946. Sulla figura di Osca r Siniga glia cfr. Osca r Siniga glia , Sta bilimento tipogra fico Iulia , Roma 1962. 8 Ilva Altiforni e a ccia ierie d’Ita lia 1897-1947, Berga mo, I.I.A.G.,1948, p. 271. La Società “Ilva Alti forni” e “Accia ierie d’Ita lia ” , denomina zione a ssunta nel 1918 deriva va da ll’a ssorbimento di un gruppo di società cui a ppa rteneva no i ma ggiori sta bilimenti siderurgici ita lia ni e precisa mente le Società a nonime “Ferriere Ita lia ne”, fonda ta a Roma nel 1880, “Ligure meta llurgica ”, fonda ta a Genova nel 1890, “Elba di Miniere e di Alti forni” fonda ta a Genova nel 1899, “Siderurgica di Sa vona ” fonda ta a Mila no nel 1900 e infine l’ “Ilva ” fonda ta a Genova nel 1905. 9 Autori va ri, Vilfredo Pa reto (1848- 1923). L’uomo e lo scienzia to, a cura di Ga vino Ma nca , Mila no, Libri Schewiller, 2002. 77 n.20 / 2008 10 Cfr. Vilfredo Pa reto, Crona che ita lia ne, a cura di Ca rlo Monga rdini, Brescia , Morcellia na , 1965, pp.32-33. Ra ccolta di a rticoli pubblica ti da l Pa reto sul Giorna le degli economisti da l 1891 e da l 1893 a l 1897. 78 rimentale e l’operare, la distinzione fra il valore sperimentale di una concezione e la sua utilità sociale, la distinzione fra la massima utilità di una collettività e per una collettività. Giustapposizione fra azione logica e non logica. Le azioni logiche sono le azioni in cui esiste un legame tra mezzi impiegati e scopo fissato; tale relazione non esiste nelle azioni non logiche. Pareto definisce “residui” gli schemi che permettono di esprimere gli atti come parte costante di una azione mentre sono “derivati” le sue parti variabili. I residui non esistono nella realtà oggettiva ma hanno una esistenza soggettiva legati agli individui che le generano. L’idea che l’equilibrio concorrenziale determini uno stato ottimale per l’economia è assimilabile all’immagine di A. Smith della “mano invisibile”. L’ottimo economico attiene a proprietà di efficienza allocativa e non riguarda la distribuzione della ricchezza fra gli individui. Pareto distingue fra “massimo di ofemilità per la collettività” (nozione economica di ottimalità paretiana) e “massimo di utilità della collettività” che Pareto attribuisce alla sociologia. Pareto per questa via dette origine allo studio sulla distribuzione dei redditi che in buona sostanza evidenzia come, su base statistica, i redditi percepiti dai ricchi risultano più elevati di quanto accadrebbe se il reddito fosse distribuito secondo la normalità gaussiana. Non è forse di questi giorni la asserita disparità esistente fra la curva dei redditi reali con quella dei redditi fiscali?. Pareto parla di eterogeneità sociale per cui la distribuzione è riferibile a gruppi di individui secondo la casualità, determinando una eterogeneità della distribuzione, senza tuttavia specificare la ratio della diversa qualità reddituale dei gruppi di individui. In definitiva Pareto era insoddisfatto della teoria economica, non per mancanze delle sue teorie, ma per la natura della stessa economia, scienza evolutiva che suggeriva approfondimenti sociologici. Il percorso dall’economia alla sociologia origina dalla distinzione fra azioni logiche e azioni non logiche e nella convinzione che, per il più degli uomini, la seconda categoria è di gran lunga maggiore della prima: “gli uomini, in genere, compiono azioni non logiche e credono e vogliono far credere che sono azioni logiche”. Samuelson ha osservato molto acutamente che la sociologia si muove nella “penombra delle utilità”. Si è così sviluppato, in sintesi, il passaggio dalla teoria pura dell’equilibrio economico alla teoria dinamica dell’equilibrio sociale. L’insegnamento di economia politica a Losanna, succedendo alla cattedra del Walras, a partire dal luglio 1893, rappresenta per il Pareto il suo convincimento che l’Italia non poteva ospitare l’espressione del proprio pensiero libero e spregiudicato. Così scrive all’amico Placci il 28 maggio 189410: “Puoi tu , vivendo come fai , scrivere senza riguardi e chiamare pane il pane?. Questo non lo so. Per me ho eletto di vivere a Losanna appunto per non avere nessun vincolo, fuorchè quello strettissimo di cercare con ogni cura il vero. Anche in Italia scrivevo assai liberamente, ma pure alcune volte mi accadde di tacere qualche verità, cedendo a considerazioni di un falso amore patrio”. Pareto fu un instancabile sostenitore della libertà economica ed espresse continuamente il suo pensiero negli articoli che scrisse in diversi giornali del tempo, in primo luogo, sul Giorna le degli economisti . Altri economisti perseguirono il concetto di un'economia libera; in questo breve intervento mi riferirò ad Adamo Smith e Luigi Einaudi, i quali in diversi periodi storici e in diverse forme affermavano la natura libera dell'economia. Fra nco de Leona rdis Profili economici e professione: un percorso à rebours Liber tà economica – Ada mo Smith – Vilfr edo P a r eto – Luigi Eina udi. Il significato delle teorie liberiste di Adamo Smith (1723-1790) ha subito mutamenti per due ragioni: la prima è l'avvenuto intervento nei mercati del potere dei managers che tradizionalmente hanno il ruolo di programmare, costruire il mercato e di minimizzarne i rischi. L’attribuzione dell’autonomia per i managers costituisce il presupposto per lo stimolo al rischio e ciò porta l’impresa ad un percorso innovativo. La seconda è il rapporto tra pubblico e privato. Il pensiero di Smith tende ad affermare che Stato e mercato si escludono reciprocamente; la storia delle società capitalistiche moderne è improntata a due fenomeni contrapposti: la pubblicizzazione del privato e la privatizzazione del pubblico. Per Smith il mercato è il meccanismo spontaneo di formazione delle ricchezze nel quale le situazioni non hanno ruoli, per il capitalismo moderno il problema è trasformare il mercato in una istituzione trasparente11. La filosofia di Adamo Smith, come si riceve dai suoi due testi, La teoria dei sentimenti mora li(1759) e L’inda gine sulla na tura e ca usa della ricchezza delle nazioni (1776) risale agli stoici e agli epicurei rafforzata dalle teorie di Bacone(1561- 1626), Hobbes(1588-1679), Locke (1632-1704) e dei Fisiocratici. L’essenza delle sue teorie si compendia sulla superiorità di ciò che è spontaneo sopra la legge fatta dall’uomo12; quello che in Pareto viene definito comportamento costante in quanto derivato dalla natura: ciò che è variabile è una testimonianza delle diversità. Scopo principale dell’analisi di Smith era quella di dimostrare che il lavoro è il vero creatore del valore, che la divisione del lavoro è il mezzo che può rendere il lavoro stesso più produttivo (e quindi capace di creare maggior valore) e il mercato il mezzo per rendere possibile la divisione del lavoro e determinarne la portata. 11 Piero Ba ira ti, Il ca pita lismo fa i conti con Smith, in Il Sole 24 ore del 17-07-1990. 12 Giova nni Ma la godi, La beneficenza della na tura cura i ma li dell’istituzione, in Il Sole 24 ore del 17-7-1990. Sulla pr eca r ietà del la vor o. Recenti articoli su quotidiani riportano che nella società italiana esiste troppa precarietà del lavoro. Il problema a mio avviso va analizzato sotto diversi aspetti. Non si può ignorare che in Italia i livelli di offerta di lavoro sono superiori alla domanda di investimenti. Sotto questo profilo la storia economica anche recente ci può dare utili indicazioni nel senso che ad investimenti durevoli corrisponde una minore precarietà del lavoro nel senso di una più stabile occupazione presso la stessa azienda. Oggi i processi produttivi sono “volatili”, sia per effetto della globalizzazione dei mercati sia per l'introduzione delle tecnologie dell'informazione e del trattamento delle informazioni. Ne consegue che l'offerta di lavoro deve poter seguire le linee di questa economia che definirei “sottile”. In tempi recenti il premio Nobel13 (1992) dell'economia Gary S. Becker, nato nel 1930, indica nel valore dell'uomo e quindi nel “ capitale umano” una possibile via di soluzione. L'istruzione e la formazione sono i più importanti investimenti nel capitale umano. E' dimostrato statisticamente che i redditi delle persone più istruite sono mediamente quasi sempre superiori considerando altresì i costi per l'istruzione. La correlazione è stata osservata in Paesi con culture e sistemi economici diversi14. Le tesi di Becker e della Scuola di Chicago (che vede nel mercato lo strumento 13 La motiva zione del conferimento del premio è sta ta "For ha ving extended the doma in of microeconomic a na lysis to a wide ra nge of huma n beha viour a nd intera ction, including nonma rket beha viour". 14 Ga ry Becker,La urea to in profitto, in Sole 24 ore del 9-12-2001 (inserto della domenica p. 1). 79 n.20 / 2008 15 G. Borga tta , La fina nza di guerra e del dopoguerra , Alessa ndria , Sta bilimento Tipo Litogra fico Succ.Ga zzotti & C., 1949, p. 125. 16 La motiva zione del conferimento del premio è sta ta "For ha ving renewed resea rch in economic history by a pplying economic theory a nd qua ntita tive methods in order to expla in economic a nd institutiona l cha nge". 17 D.North, Una nuova economia di guerra , in Sole 24 ore, del 10 ottobre 2001. 18 Sull'opera , la vita e il pensiero di F. Ferra ra cfr. Ricca rdo Fa ucci, L'economista scomodo. Vita e opere di Fra ncesco Ferra ra , Pa lermo, Sellerio, 1995. 80 per risolvere la maggior parte dei problemi economici) erano già state intuite dal Pareto che considerava il momento economico coesistere con le altre azioni dell'uomo. In occasione dei 100 anni di fondazione della Facoltà di Economia della Sapienza di Roma, il Governatore della Banca d'Italia Mario Draghi, nato nel 1947, afferma nella sua “lectio magistralis”del 9/11/2006 che “l'istruzione è il fattore più importante per la crescita” ed ancora “l'istruzione è una medicina potente per avere maggiore partecipazione al mercato del lavoro, maggiore produttività, maggiore competitività. A parità di ogni altra circostanza, nel nostro Paese la probabilità di partecipare al mercato del lavoro aumenta del 2,4% per ogni anno di scuola frequentato (3,2% nelle regioni meridionali)”. Occorre attuare forme di “finanziamento diretto agli studenti meritevoli e alle loro famiglie”. Il riconoscimento del merito non è garanzia di equità ma, senza, la società è sicuramente più iniqua. Certo, dopo l'11 settembre 2001 si sono modificate molte strategie e comportamenti in campo economico e gli stessi economisti affermano non avere parametri di riferimento. Le economie occidentali dovranno considerare le variabili guerra e terrorismo. Già il Borgatta, allievo di Einaudi, esponeva che: “la finanza della guerra totale offre un modello più di ogni altro completo e fecondo di indagini analitiche dei fenomeni della finanza straordinaria”15. Pochi giorni dopo l'attentato dell'11 settembre 2001, l'economista premio Nobel North16, nato nel 1920, in un'intervista di Mario Platero17 affermava che perdendo alcune delle nostre libertà ci saranno anche delle conseguenze economiche sul piano dell'efficienza o per un utilizzo ottimale delle risorse e così via. Il nuovo modello da cui assumere qualche indicazione deve includere sia variabili politiche che economiche e l'interazione fra mercato, ruolo dello Stato e della politica. Ritornando ad Adamo Smith, l'altro suo concetto, legato pur sempre al lavoro, fu quello di considerare la ricchezza come un flusso invece che come un patrimonio inerte. A. Smith fornì una pesante critica delle assurdità a cui portava la severa regolamentazione dell’attività economica sotto il sistema mercantilistico. Siamo nel 1776, anno della dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America, momento culminante e fondante per la definitiva condanna del sistema coloniale dannoso sia alla madre patria che alle colonie. Smith credeva in ciò che è naturale contro ciò che è obbligatorio. Nella Theory of mora l sentiments aveva già trattato dell’azione umana provocata dal “amore del proprio vicino, il desiderio di essere liberi, il sentimento del possesso, l’abitudine al lavoro e la disponibilità agli scambi”. “Evitate ogni interferenza col libero gioco di queste forze ed ogni individuo sarà condotto da una mano invisibile a favorire un obiettivo che non rientrava nelle sue intenzioni”. Il Pareto conferma che l’uomo lasciato libero troverà i mezzi per proteggere in maniera più o meno armoniosa i propri interessi e quegli degli altri. Non è casuale la sua partecipazione, a Firenze, nel 1874 alla fondazione, con professori, uomini d’affari e politici libero scambisti, della Società Ada mo Smith. Dal 1868 esisteva la Società di Economia Politica sui modelli francese e belga. Presidente era Giovanni Arrivabene (1787-1881) , carbonaro del 1821, successivamente economista a Bruxelles. Ricopriranno ruoli primari Ferrara (1810-1900), Minghetti (1818-1886) e Scialoja (1856-1933). Francesco Ferrara18, non condivise in allora l'introduzione dell' insegnamento dell'economia negli istituti tecnici in Fra nco de Leona rdis Profili economici e professione: un percorso à rebours quanto la teoria economica è per sua natura complessa e controversa. Nel 1874 promosse la costituzione della Società Ada mo Smith. La dissociazione del Ferrara dalla Società di Economia Politica è palese: il 31/03/1871 in una lettera che Ferrara scrisse a Jacopo Virgilio (1834-1891) si legge “trovo nel fatto che non abbiano invitato lei al banchetto degli economisti perché ella è economista e quella (leggi Società di Economia Politica ) è ormai divenuta una società di faccendieri politici”. Il 25 agosto 1874 scriveva ancora a Jacopo Virgilio allegando una copia dello statuto della Società Adamo Smith che annoverò la maggioranza dei professori di economia. Sull'importanza della corrispondenza fra F.Ferrara e J. Virgilio nel processo di formazione dell'insegnamento economico si auspica la pubblicazione. Sono gli anni della rivoluzione marginalista in cui i padri Leon Walras (1834-1910) e Stanley Jevons (1835-1882) ebbero a Genova in Gerolamo Boccardo (1829-1804) un valido presentatore e in opposizione alle tesi del Ferrara. Questo genovese rappresentante delle correnti eclettiche fu geografo, geologo, antropologo e sociologo19. Smith affermava: “non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del panettiere che dobbiamo aspettarci il nostro pranzo ma dal loro amore per il proprio interesse”. Nonostante la fiducia nel mercato Smith era ben conscio che “ i proprietari terrieri amano mietere dove hanno seminato” e non escludeva l’esistenza delle imprese pubbliche ( fornitura pubblica di infrastrutture, politica monetaria del Governo, regolamentazione della tassazione come mezzo non solo per rastrellare denaro ma anche per controllare certe attività e per tenere sotto controllo gli obiettivi a lungo termine fuori dall’interesse del singolo limitato nel tempo. La lezione durevole di A.Smith secondo Lord Roll of Ipsden nella conferenza “ Wea lth of Na tions 1990 ”, tenutesi ad Edimburgo nell’estate del 1990 per celebrarne il bicentenario della morte20 è così compendiata: 1) la scienza economica è una disciplina che anche i non specialisti devono poter comprendere. Il rinchiudersi così frequente ai giorni nostri in una specializzazione sempre più ristretta espressa in complicate formule matematiche è sicuramente inferiore alla vasta analisi contenuta nella Wea lth of Na tions, con i suoi intimi legami, con filosofia, morale, diritto, retorica. Un ritorno a questa concezione della politica economica come parte di una cultura molto più vasta è necessario da molto tempo. 2) E’ necessario attenersi alla virtù della libertà politica come fondamento di ogni libertà, alla negazione dei privilegi accordati ad interessi particolari, al saggio uso dei meccanismi di mercato per la allocazione delle risorse. Tutto questo deve essere fatto nell’ambito della conservazione dei valori e nel raggiungimento di obiettivi che attraverso il processo democratico possano essere accettati da tutte le società. Dobbiamo riconoscere che affermare e conservare questi valori obbliga spesso ad eludere le forze di mercato o a modificare in qualche misura i risultati della loro libera azione. A partire dal 1880 Pareto in particolare difende con numerosi scritti la libertà di commercio contro l’attività dello Stato nelle attività economiche; evidenzia che il miglioramento di vita della classe operaia passa attraverso l’aumento della produzione. E’ antiprotezionista e avversa le sovvenzioni statali alle industrie, lo Stato burocrate e accentratore. Più tardi Luigi Einaudi (1874-1961), in un testo ormai introvabile, ha svolto dei saggi bibliografici e storici su economisti e dottrine economiche e notevole spa- 19 Cfr. Atti del convegno 17-18 settembre 2004 “Gerola mo Bocca rdo (1829-1904) tra scienza economica e società civile”, Genova , 2004. 20 In Economia il testo sa cro è il suo, Estra tto della rela zione di Lord Roll of Ipsden, in Il Sole 24 ore del 17-07-1990 p. 5. 81 n.20 / 2008 21 Luigi Eina udi, Sa ggi bibliogra fici e storici intorno a lle dottrine economiche, Roma , Edizione di Storia e Lettera tura , 1953, pp.71-115. 22 Qua ndo Eina udi critica va le trincee del merca to, in Il Sole 24 ore, mercoledì 18 ottobre 2006, p.11. 23 Gli scritti sono sta ti ra ccolti da lla pa ziente ricerca di Roberto Ma rchiona tti, From our ita lia n correspondent, Luigi Eina udi’s a rticles in the Economist, 1908,-1946, voll. 2, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 2000. Gli a rticoli a ppa rsi sull’Economist ra ppresenta no l'integra zione idea le degli otto volumi delle Crona che economiche e politiche di un trentennio ( 1893-1925), Torino, Giulio Eina udi Editore,1964. 24 Sidney Homer,- Richa rd Sylla , Storia dei ta ssi d’interesse, presenta zione di PierLuigi Ciocca , Ca riplo, La terza , 1995, p. XII. 82 zio è stato attribuito ad Adamo Smith quale bibliofilo al fine di desumerne il più completamente possibile il pensiero21. Proprio recentemente le teorie liberiste di Luigi Einaudi, sia negli aspetti intuitivi che applicativi, sono state ricordate a Londra dal Governatore della Banca d’Italia22. Infatti, Luigi Einaudi fu per tre decenni corrispondente del “Economist” dall’Italia23. Il Governatore ricorda che Luigi Einaudi “vedeva con favore qualunque provvedimento, regola o istituzione che fosse volta a promuovere la creatività umana; ma qualsiasi istituto giuridico, o d’altra natura che rischiasse di bloccare deliberatamente o meno l’evoluzione della società imbrigliando l’iniziativa umana, era per lui occasione per le sue analisi accurate e pignole; sostenne e difese l’idea di un sistema giuridico basato su poche, semplici leggi e la loro rigida applicazione”. Particolare attenzione fu sempre data dall'Einaudi agli studi finanziari e in particolare monetari. I tentativi della dottrina economica moderna di “spiegare” l’interesse e di comprenderne gli effetti sono innumerevoli. I contributi possono essere ricondotti alla “Teoria reale” e alla “Teoria monetaria”. Secondo la “Teoria reale” il tasso di interesse reale è fissato dal calcolo degli individui che comparano il sacrificio reale dell’astenersi dal consumare oggi (risparmio) col beneficio atteso di consumare di più e meglio domani (investimento). Manipolare il prezzo naturale del tasso d’interesse attraverso la politica monetaria è inopportuno e produce distorsioni al limite inflazionistico o deflattivo. Secondo la “Teoria monetaria” l’interesse è determinato dalle forze che agitano i mercati della moneta, del credito, delle valute e della finanza. La “Teoria reale” è suscettibile di verifica sul piano statistico econometrico invece la “Teoria monetaria” non è suscettibile di immediata verifica econometrica. Gli effetti del tasso di interesse nel modello econometrico proposto dalla Banca d'Italia rivelano che un tasso d’interesse più elevato di un decimo (11% invece di 10%) implica dopo un anno più bassi livelli delle variabili reali, come gli investimenti in macchine, (- 4,5%), la produzione complessiva (-0,6%), l’occupazione (-0, 2%) e delle variabili monetarie come i prezzi al consumo (- 0, 1% ) e i salari nominali (-0, 2%)24. La razionalità che è posta alla base delle scelte degli speculatori dei mercati della moneta e della finanza è più complessa: vi è qui un misto di calcoli e convenzioni da cui le decisioni scaturiscono, per cui vi sono oggettive difficoltà di quantificazioni. Le difficoltà connesse alla valutazione delle cosiddette “attese dei mercati valutari” riportano all'analisi dell'homo oeconomicus e alla sua irrealtà. Si è avuta la conferma dalle teorie sociologiche come recentemente dalla psicologia e dagli studi sul cervello aprendo gli orizzonti agli studi di neuro economia. Se la nostra mente fosse governata esclusivamente da processi di tipo riflessivo e deliberato e il nostro cervello costituito dalla sola corteccia pre-frontale dove hanno sede le attività cognitive superiori, allora l’economia tradizionale sarebbe una buona teoria delle nostre scelte reali. La realtà ci impone di considerare che la nostra economia emotiva è molto più ricca, estrosa e bizzarra, quello che il Pareto definiva azioni - non logiche. Gli errori (e qui sarebbero interessanti le definizioni stesse di errori) che gli individui commettono sono la regola e non l'eccezione. Le illusioni cognitive sono indotte da processi automatici e spontanei attraverso i quali decodifichiamo la realtà in maniera rapida e intuitiva ma anche approssimativa e fuorviante. Di fronte ad uno stesso problema può così accadere che si prendano decisioni Fra nco de Leona rdis Profili economici e professione: un percorso à rebours diametralmente opposte a seconda di come ce lo rappresentiamo o di come, magari strumentalmente, ci viene presentato. L'incertezza è la costante in cui vengono prese istante per istante le decisioni, ma non sempre queste sono le più razionali. La nostra percezione sensoriale del rischio è volubile e noi intendiamo dati, proporzioni, percentuali e statistiche in un modo che è influenzabile. L'inadeguatezza della teoria economica che fa dipendere ogni decisione dal perseguimento della massima utilità per chi le prende rivela che in realtà le nostre scelte necessitano analisi e interventi per una diversa interpretazione da parte di psicologi cognitivi, neuroscienziati ed economisti sperimentali. La stupidità esiste e gli errori che si compiono sono ricorrenti e prevedibili. Appartengono ad una logica diversa da quella matematica ma non per questo meno sistematici. Gli studi sulla neurobiologia della razionalità attraverso idonee sperimentazioni ci permettono di verificare l'attività cerebrale e di conseguenza ci suggeriscono che i nostri processi decisionali sono la risultante di una continua negoziazione tra processi automatici e processi controllati; per rendere l'idea, tra ragione e sentimento25. Lo studio delle scienze cognitive e di processi decisionali e di giudizio nelle incertezze è oggetto delle ricerche di Daniel Kahneman26, recentemente a Genova al Festival della Scienza, (nato nel 1934 e recente premio Nobel per l'economia). Economia fina nzia r ia La Scienza delle Finanze, o meglio, l’economia finanziaria è la disciplina che studia l’attività economica che si svolge nell’ambito degli assetti coercitivi in contrapposto con l’Economia Politica che si occupa, invece, dell’attività economica che si svolge nell’ambito di quella contrattuale. Così Cesare Cosciani (1908-1985) definiva la Scienza delle Finanze27. L'economia politica è più semplicemente la scienza degli affari28. Il contributo alla teoria della finanza pubblica fu dato da diversi economisti italiani guidati non da finalità predeterminate o principi immutabili, ma uniti nella tematica affrontata e negli strumenti utilizzati. L’intervento pubblico nell’economia è stato da sempre analizzato a partire proprio da Adamo Smith e si compendia nel livello di produzione di servizi da parte dello Stato per soddisfare bisogni pubblici. La domanda che si sono posti i ricercatori e che è sempre di attualità è quella di capire come mai i cittadini, a differenza di come agiscono per il soddisfacimento di altri loro bisogni, dimostrano rigidità nel pagare tali servizi e pertanto si prefigura la necessità coercitiva del prelievo fiscale. E qui si innesta l’ulteriore domanda: qual è il livello di equità e neutralità affinché le imposte incidano in maniera conforme a diversi livelli di ricchezza e cioè non possano alterare la distribuzione del reddito e l’allocazione delle risorse? Le domande esigono riflessioni sulla natura dello Stato e sulla sua attività finanziaria e cioè a quali limiti e a quali condizioni possa esercitare l’attività del prelievo dei tributi29. Le nozioni sull'a ttività fina nzia ria dello Sta to e sulle connessioni tra finanza pubblica e scienza economica, i rapporti tra analisi astratta e approssimazioni al concreto sono il campo di osservazione non solo dello studioso ma coinvolge il giudizio sulla esperimentazione della prassi professionale colta nell'istante per la formulazione di un giudizio di valore tra variabili finanziarie connesse al prelievo dei tributi e le altre variabili soggettive e d'impresa . 25 Cfr. l'a rticolo di Ma tteo Motterini,Cha rlie Brown decide così, in il Sole 24 ore del 16 ottobre 2006, p.36. 26 La motiva zione del conferimento del premio è sta ta “"For ha ving integra ted insights from psychologica l resea rch into economic science, especia lly concerning huma n judgment a nd decision-ma king under uncerta inty” 27 Cesa re Coscia ni, Istituzione di Scienza delle Fina nze, Torino, Utet, 1961, prefa zione. 28 “La scienza dell’economia politica come la conoscia mo in Inghilterra può essere definita come la scienza degli a ffa ri (The science of business) nella forma che gli a ffa ri ha nno nelle gra ndi comunità produttive e commercia li”. Cfr. Wa lter Ba gehot, Economic Studies, in Collected works, a cura di N. St. John Steva s, The Economist, Londra 1978. L’Economist fu fonda to da Ja mes Wilson nel 1843 e a ll’inizio fu un foglio rigida mente dottrina rio e fu lo strumento del la issez- fa ire nell’Inghilterra della metà 800. L’Economist a vversò con la ma ssima intra nsigenza (dura nte la direzione proprietà Wilson) tutti i tenta tivi di riforma socia le nei qua li sono sta ti individua ti i prodromi ottocenteschi del “Welfa re Sta te”. Per Wilson il libero sca mbio non era una dottrina economica ma una forma di religione che si esprimeva nell’ordine na tura le che gli uomini, a ttra verso le istituzioni da loro fonda te, non doveva no a ltera re; a sseriva di a vere fiducia inta cca bile nell’opera di Ada mo Smith. 83 n.20 / 2008 La direzione editoria le del foglio pa ssò nel 1861( dopo la morte di Wilson nel 1860) a Wa lter Ba gehot (sposò Eliza , una delle figlie di Wilson) che ma ntenne fino a l 1877. Ba gehot, interprete del clima genera le della City, non ebbe spunti ideologici forti, bensì pra tica va le virtù del compromesso. Sua fu l’opera Lomba rd street, testo di indubbio fa scino che Luigi Eina udi curò per la versione in qua rta serie della Biblioteca dell’Economista dell’Unione Tipogra fico Editrice Torinese (cfr. Wa lter Ba gehot, Lomba rd street, il merca to moneta rio inglese, tra duzione di Luigi Eina udi, sa ggio introduttivo di Giuseppe Berta , Torino 1986). 29 Un contributo qua le sa ggio storico sulla scuola ita lia na di economia pubblica è sta to a ffronta to da Nicolò Bella nca , La teoria della Fina nza pubblica in Ita lia , 1883-1946, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 1993. 30 Nicolò Bella nca , op. cit., con riferimenti a lle opere di A. De Viti de Ma rco, M. Pa nta leoni , pp. 29- 30. 31 Cfr. L. Eina udi Di a lcuni connota ti dello Sta to elenca ti da i tra tta tisti fina nzia ri, in Rivista di diritto fina nzia rio e scienza delle fina nze, dicembre 1942, pa g. 48. 32 Cfr. N. Bella nca , op. cit. , p. 51. 84 Nella ricerca finanziaria lo Stato si presenta sia come un soggetto economico (interventi propriamente caratteristici del debito pubblico, delle partecipazioni finanziarie in settori denominati “di pubblico interesse”, che come soggetto avente come attività propria quella intrinsecamente riferita alla teoria delle imposte. Secondo una classificazione sulla natura dello Stato ricondotta a Nicolò Bellanca30, lo Stato finanziario è riconducibile allo: - Stato parassita quando è la conseguenza di gruppi di individui che “si impadroniscono della forza coercitiva e la utilizzano in difesa dei loro propri particolari interessi che gabellano (con l'aiuto degli economisti e dei giuristi) come fini dello Stato e interessi della collettività”; - Stato tutore allorquando non si suppone più che “gli individui si muovano in conformità dei loro gusti, tali che ognuno sia più illuminato del compagno circa i gusti propri; - Stato scambista di derivazione della teoria economica. Qui lo Stato è “ paragonabile ad un privato come subietto di diritto e come subietto agente economico”; - Stato organicista o corporativo nel quale è assente la lotta tra gli individui in quanto i singoli sono identificati nell'ente collettivo. La ridefinizione dello Stato secondo Mauro Fasiani (1900-1950) è articolata, riformulando il processo finanziario in termini di azioni non logiche o meglio sulla prevalenza delle azioni non logiche su quelle logiche secondo la teoria del Pareto. Qualora le decisioni finanziarie delle classi elette mirino al proprio esclusivo interesse di gruppo si ottiene il massimo di utilità per l'élite e si perviene allo Stato monopolistico in cui si massimizza il dominio politico. Se la classe dirigente esercita il potere finanziario nell'interesse particolare di ciascun cittadino si perviene alla forma di Stato cooperativo con un massimo di utilità per l'intera collettività. Se la classe dirigente esercita il potere finanziario nell'interesse della collettività considerata unitariamente si raggiunge il massimo di utilità della collettività a cui corrisponde la forma di Stato tutorio. Nella realtà i tre casi limite sono intrecciati. Il punto di riferimento dell'attività finanziaria dello Stato è la soddisfazione di taluni tipi di bisogni . Secondo il Fasiani sono pubblici i bisogni a cui lo Stato provvede con l'attività finanziaria. La difficoltà nella classificazione dei bisogni pubblici ha portato Luigi Einaudi ad affermare “in un tempo in cui tutto muta e nessuno sa quali siano i servigi pubblici e a chi spettino e se spettino a qualche ordine di Stato o a nessuno di essi”31. La Scienza delle finanze considera l'a tto fina nzia rio come la risultante di un'attività sia politica che economica. I concetti elaborati furono attinti da una traslazione delle elaborazioni di analisi economiche quali “ rendita del consumatore, razionalità delle scelte, coercizione, edonismo, individualismo sociologico, illusione finanziaria, azione non logica, élite, bisogni consolidati ecc.”. La finanza pubblica consiste nel provvedere i mezzi per il conseguimento degli scopi della vita collettiva. Qui si appalesa necessaria la distinzione fra collettivismo e individualismo. La scuola austriaca (Carl Menger 1840-1921, Emil Sax 1845-1927) fece una acuta osservazione sulla definizione di Collettivismo, per cui l'individuo agisce “solo come membro del gruppo e in rapporto ad esso” e di Individualismo in cui prevale la tendenza dell'uomo a foggiare la sua condotta “come emanazione della sua personalità e della sua autonomia”. Queste due forze “agiscono contemporaneamente in tutti gli uomini” e sono “ insite nella natura umana”32. Fra nco de Leona rdis Profili economici e professione: un percorso à rebours Carlo Angelo Conigliani (1868-1901) non condivise la distinzione tra egoismo individuale o individualismo e egoismo di specie o collettivismo quali forze psicologiche distinte. Il collettivismo per Conigliani rigetta il concetto edonistico che è il principio unitario della scienza economica per sostituirlo con un concetto dualistico egoismo individuale/egoismo di specie. Il Conigliani intravede negli “ interessi di classe” non una forma di collettivismo ma “egoismi individuali propri e comuni a tutti gli individui componenti la classe”, ne consegue che il bisogno pubblico è in corrispondenza con moventi individuali. In termini paretiani, nell'esercizio dell'attività finanziaria i governanti tendono a massimizzare l'ofemilità per la collettività tenendo conto più di vincoli riguardanti il consenso politico dei governati che non la minimizzazione dei propri costi marginali33. Se al rapporto fra governanti e governati si applica il principio del minimo mezzo con la legge dell'egemonia ne consegue che sono i governati a graduare i cosiddetti bisogni pubblici e il sistema delle imposte assume natura politica; il Conigliani definisce l'imposta come “un atto economico di coazione politica”, mentre per l'Einaudi “l'imposta è quella quota che si dà allo Stato in relazione ai servizi reali o immaginari che esso presta”. Il potere fiscale, sostiene sempre il Conigliani, “è un fenomeno di psicologia collettiva”. Esso ha dei costi politici costituiti dal grado di consenso. Se si forma il convincimento che potere fiscale sia eccessivo rispetto alle economie individuali si ha una diminuzione dell'assoggezione morale dei cittadini34. Basti considerare attualmente la posizione dei governanti che utilizzano il processo mediatico per creare consensi sulla politica fiscale (dicono i governanti: se c'è qualcosa di errato negli attuali provvedimenti legislativi per l'esercizio finanziario del 2007 ciò è dovuto ad un'errata comunicazione mediatica). La comunicazione mediatica viene usata per creare diversivi alle reali necessità di risolvere i problemi attinenti più in generale l'economia italiana. Deviazione mediatica per attivare consensi e convincimenti utili alla classe dominante politica. Amilcare Puviani35 si pone su una posizione diversa dal Conigliani in quanto il primo afferma che il pagamento delle imposte è frutto di una scelta volontaria e i contribuenti sono in destinatari di illusione finanziaria; il secondo afferma che le imposte sono pagate o per interesse politico o per forze egemonica dell'ideologia del consenso. Un sistema tributa rio richiede alcuni requisiti: a) l'equità nella ripartizione dei tributi per cui si assume il concetto del sacrificio uguale proporzionale per cui l'imposta deve incidere su ciascun contribuente per un sacrificio di utilità proporzionale all'utilità totale che ottiene dal suo reddito. Se l'utilità marginale fosse costante il principio implicherebbe un'imposta proporzionale conseguendone che l'imposta progressiva suppone un'inclinazione decrescente della curva dell'utilità marginale; b) la neutralità ossia la minimizzazione degli effetti distorsivi sull'allocazione privata delle risorse. I governanti il più delle volte hanno come obiettivo la non neutralità in quanto reputano non accettabili alcune scelte individuali; c) l'efficacia macroeconomica quale contributo della politica tributaria alla stabilizzazione dell'economia; l'azione ha natura prevalentemente politica con il fine ultimo di creare benessere sociale e quindi non solo economico. E qui le risorse dell'Erario non sono costituite dalle sole imposte ma altresì dallo sviluppo del debito pubblico. Lo Stato può sostituire a prelievi tributari obbligatori un 33 Cfr. N. Bella nca , op. cit. , pp. 180-185. 34 Cfr. N. Bella nca , op. cit., pp 196-198. 35 Per comprendere il problema fina nzia rio dello Sta to che si a rticola va in imposte contorte , intrica te norme, procedure a mministra tive, Amilca re Puvia ni (1854-1907) nel 1897 ela borò un criterio interpreta tivo ba sa to sul concetto di “illusione fina nzia ria ” ossia la ra ppresenta zione erronea che il soggetto è indotto a forma rsi sui fa tti fina nzia ri. Per effetto dell’illusione, la qua ntità , la qua lità ca use ed effetti delle spese e delle entra te pa iono a l contribuente diversi da quel che effettiva mente sono. E’ il collega mento tra oggettiva determina zione del tributo col “sentimento del contribuente”. Cfr. Amilca re Puvia ni, Teoria dell'illusione fina nzia ria , a cura di Fra nco Volpi, Mila no, Isedi, 1973, p.27. 85 n.20 / 2008 36 Cfr. N. Bella nca , op. cit., pp. 208-213. 37 Cfr.N. Bella nca , op cit., p. 64. 38 Al rigua rdo per i ra pporti tra fina nza pubblica e mora le cfr lo studio di Amedeo Fossa ti, Mora ls a nd public economics,. The ca se for justice a nd equa lity, in Studi economici n. 83, 2004/2. 39 Cfr. N. Bella nca , op. cit., pp. 126-128. 40 Ma uro Fasiani, Principi di Scienza delle fina nze, Torino, Gia ppichelli editore, 1941. 86 mezzo non coercitivo di finanziamento, il quale in competizione con il debito privato dipende dall'entità e dai caratteri dell'offerta del risparmio. Sul lato delle spese, distinguendole tra spese produttive (destinate ad accrescere il reddito nazionale), spese redistributive (che trasferiscono le risorse da un individuo ad un altro), spesa – prezzo (lo Stato paga il corrispettivo di una prestazione) e spese sussidio (mero onere), esse conservano la natura economica dell'intervento36. Il problema dell'equilibrio finanziario, quale punto di ottimo collettivo, trova la regola nel rendere uguali le utilità marginali ponderate dei beni privati e pubblici. La ripartizione del costo dei servizi pubblici avverrebbe in modo da mantenere in equilibrio i bilanci edonistici di tutti i contribuenti mentre la quantità complessiva dei servizi pubblici sarebbe sancita dalla regola del pareggio statale37. La natura del processo logico che porta alla legge di bilancio (oggi legge finanziaria) altro non è che percorso di formazione della valutazione collettiva nella finanza pubblica. Il Pantaleoni (1857-1924) indica una serie di enunciati a cui i singoli ministeri si attengono per predisporre le voci di bilancio. Il Puviani nell'opera sulla teoria delle illusioni nelle entrate pubbliche stigmatizza i rapporti tra finanza pubblica e morale38. Secondo il Pantaleoni l'equità vorrebbe che ciascun cittadino versasse al fisco in quella proporzione del suo reddito nella quale consuma i beni pubblici. In questo caso le imposte sarebbero dei prezzi economici. Di qui la diversificazione dei concetti di capacità 1) di consumo ( prestazioni pubbliche richieste da chi non può sostenere le spese) 2) di domanda (corrispondente a effettività e solvibilità) 3) contributiva ( l'onere dei beni pubblici ricade maggiormente su chi può pagare per essi). Con quest'ottica di riferimento la tassa assume il vero carattere di prezzo, l'imposta no39. Nella formulazione della capacità contributiva (direi più correttamente capacità di sostenibilità ) la teoria elaborata dalle scienze delle finanze riporta alcuni concetti riferibili agli attuali sistemi tributari: 1) discriminazione quantitativa ( esenzione dei redditi minimi, il sacrificio tributario e l'uguaglianza dei sacrifici, classificazione delle imposte proporzionali, progressive, regressive, rapporti sacrifici uguali ad imposte eguali); 2) discriminazione qualitativa connessa alla diversa origine dei redditi (redditi di capitale, di lavoro e misti e al loro trattamento fiscale); 3) ripartizione delle imposte (dirette e indirette ed accertamento delle medesime); 4) determinazione dei redditi imponibili40 In Italia si è assistito negli ultimi venti anni ad una legislazione fiscale che mal si adatta alla realtà e all’evoluzione dell’economia nell'ambito degli assetti istituzionali del paese. Nel Testo Unico delle Imposte dirette sulla base della delega contenuta nell’art. 63 della L. n.1 del 5 gennaio 1956, in linea generale coesistevano l’imposta dominicale sui terreni, sul reddito agrario e sul reddito dei fabbricati, con l’imposta sui redditi di ricchezza mobile, la quale si suddivideva in categoria A per i redditi di capitale, categoria B (redditi alla cui produzione concorrevano insieme il capitale e il lavoro, come quelli derivati dall’esercizio di imprese commerciali ovvero da attività commerciali o da operazioni speculative anche isolate), categoria C1, redditi di lavoro autonomo delle persone fisiche (prodotti nell’esercizio di arti, Fra nco de Leona rdis Profili economici e professione: un percorso à rebours professioni e di imprese organizzate prevalentemente con il lavoro proprio del contribuente e dei componenti della famiglia), categoria C2, redditi di lavoro subordinato e assimilati. Alle singole categorie reddituali si applicavano aliquote differenziate e progressive per classi di reddito ed inoltre al livello di reddito complessivo netto delle persone fisiche oltre, in allora, la soglia di Lire 720.000 veniva applicata l’imposta complementare progressiva. Ai soggetti tassabili in base al bilancio veniva applicata l’imposta sulle società commisurata ad una aliquota proporzionale sulla base del reddito e del patrimonio41. Negli scambi l’imposizione si concretizzava con l’applicazione dell’IGE (Imposta Generale sull’Entrata42) istituita nel 1940 in sostituzione della vecchia imposta sugli scambi. Fu proprio il ministro Vanoni ad introdurre l’obbligo della dichiarazione unica annuale. L’assetto dei tributi come delineato dall’economista Ezio Vanoni fu modificato con la riforma contenuta nella delega legislativa di cui alla L. n. 825 del 9 ottobre 1971 che si propose un autentico rinnovamento del sistema fiscale, nell’intento di definire con assoluta certezza l’area contributiva nazionale e gli indici di capacità contributiva dei singoli soggetti nonché di introdurre nuovi principi generali di accertamento, sanzioni e contenzioso. L’obiettivo era quello di determinare: basi imponibili certe, costituite dalle analitiche fonti di reddito alle quali applicare una tassazione unica ad aliquote progressive; effettiva capacità contributiva del soggetto corrispondente ad un equo carico fiscale. Alla riforma fu altresì demandata la sostituzione dell’Ige e delle imposte di consumo con l’Iva a partire dal 1/1/1973. Nella riforma generale del 1971 fu dedicata scarsa attenzione alla finanza locale poiché il legislatore delegante provvide alla soppressione dei tributi locali sostituendoli con trasferimenti finanziari a carico dello Stato e contributi commisurati agli importi dei tributi eliminati. In breve con la riforma si preferì la centralizzazione della materia tributaria e finanziaria che provocò distorsione nella domanda di risorse finanziarie locali con conseguente alterazione dei bilanci degli enti locali, aggravata dalla entrata in funzione delle Regioni, a partire dall’anno 1970. Successivamente, a parte sporadici interventi, la legislazione tributaria è sempre stata affidata a decreti legge o a provvedimenti contenuti principalmente nelle leggi finanziarie annuali. Ne consegue che allo stato attuale la normativa tributaria ha assunto tali complessità e prodotto macroscopiche inefficienze da compromettere il sistema economico arrecando gradi crescenti di incertezza e di instabilità. Al miglioramento delle analisi econometriche. utilizzando sofisticati metodi statistici come la “cluster analysis” per cui vengono individuati modelli organizzativi caratterizzanti i diversi settori dell’economia, non corrisponde una reale certezza legislativa che compendi i mutati e i mutevoli aspetti che gli stessi strumenti matematici ci evidenziano. Lo Stato e gli Enti locali devono ridefinire il loro grado di intervento nell’economia individuando quei settori strutturali che diversamente non possano essere affidati alla privata iniziativa e conseguentemente riorganizzare con una riforma di largo respiro l’assetto dell’imposizione per cui il cittadino o l’impresa acquisisca la consapevolezza di una corretta loro contribuzione per il soddisfacimento di bisogni corrispondenti a servizi pubblici resi. La mancanza di coordinamento, o meglio, di attuazione di una politica fiscale adeguata alle reali necessità del bilancio dello Stato ha portato ad attuare negli ultimi trentatrè anni provvedimenti chiamati “di condono”che hanno assunto o 41 Filiberto De Angelis, Giuseppe Potenza , Angelo Testa , Testo unico sulle imposte dirette, Mila no, Giuffrè Editore, 1960. 42 Ga eta no Sta mma ti, L’Imposta Genera le sull’ Entra ta , Torino, Utet, 1956. 87 n.20 / 2008 aspetti generali come nel 1973, nel 1982, nel 1992, nel 2002 e 2003 o specifici su diverse tipologie di imposte e di adempimenti. Sul versante contributivo previdenziale i provvedimenti di condoni generali sono stati emanati nel 1983, nel 1988, nel 1990, nel 1991, nel 1994, nel 1996 e nel 1997. Nell'attuale situazione politica in cui è stata approvata la legge del bilancio dello Stato per l'anno 2007 ricollegata ai noti provvedimenti estivi, conosciuti come Legge Bersani, non si può essere che fortemente critici in quanto sono proprio le professioni economiche a ricevere l'impatto conseguente una mera burocratizzazione degli adempimenti e che sull'economia reale graveranno lo svolgimento operativo delle attività economiche e professionali con aggravio di costi senza alcun beneficio. Un esempio di distorsione nelle informazioni riguardanti la distribuzione dei redditi (delle persone fisiche) e la loro destinazione è rappresentato dalla mancata segmentazione nella dichiarazione annuale dei redditi finanziariamente percepiti e dei costi sostenuti in termini di imposte pagate e contribuzione previdenziale, assistenziale e antinfortunistica. Fra i costi per imposte pagate occorrerebbe altresì evidenziare, oltre l'Ire, l'Irap per i professionisti, l'eventuale incidenza dell'Iva e le addizionali, l'Ici, altresì diversi tipi di tasse e di diritti come la Tia, i diritti camerali, le tasse di pubblicità, l'imposta su bollo, la tassa di possesso ecc. Si perverrebbe così ad avere in un processo di reale trasparenza finanziaria alla conoscenza del proprio reddito spendibile e la quota di esso destinata alla contribuzione dei servizi pubblici dello Stato e degli Enti locali. Un'altra distorsione dell'attuale sistema impositivo è la tendenza a voler attuare l'imposizione con velocità crescenti di acquisizione finanziaria delle entrate non considerando, in special modo per le imprese, la diversa velocità di formazione del reddito. In breve, la differenziazione tra ciclo finanziario dell'imposta e ciclo economico di produzione è concausa di fasce di evasione ed elusione indotte dal sistema dovute, si ripete, ad una mancata correlazione dei cicli finanziari a quelli economici delle imprese. Gli attuali provvedimenti previsti per combattere l'evasione non si muovono dall'approfondimento della conoscenza delle cause che inducono il sistema ad avere queste ampie fasce d'evasione. Non può risolvere certamente i problemi l'inserimento in dichiarazione fiscale di una gran massa di dati relativi al contribuente e sue parti correlate o corrispondenti che snaturano taluni istituti tipici che ho richiamato nella presente relazione e che riguardano in buona sostanza l'effettività del reddito da tassare. Per le imprese, tre brevi considerazioni riguardanti la formazione dei redditi imponibili: la prima riguarda le aliquote economiche o tecniche degli ammortamenti le quali dovrebbero essere determinate o riviste annualmente con un provvedimento unitario e chiaro, in secondo luogo i piani di ammortamento dovrebbero essere impostati secondo metodi finanziari che includano nel costo sostenuto di un bene ammortizzabile altresì gli interessi passivi che derivano figuratamente dall'impiego normale dei capitali propri di rischio. Inoltre, per una corretta definizione degli investimenti in beni ammortizzabili nel lungo periodo occorre considerare l'eventuale costo di sostituzione sulla base di coefficienti medi di svalutazione monetaria. Da ultimo, considerare in quote di esenzione fiscale le parti del reddito reinvestite in beni durevoli tenendo conto dell'applicazione della forza lavoro. Ho terminato il mio percorso à rebours e posso concretamente affermare che gli strumenti avuti nella formazione universitaria quali l'insegnamento in particolare 88 Fra nco de Leona rdis Profili economici e professione: un percorso à rebours dell'economia e di scienza delle finanze nonché di statistica, di politica economica e di diritto tributario permangono tuttora nell'indirizzo e nella prassi professionale. Anzi, la pratica professionale necessita di un processo continuo di osmosi con l'insegnamento nelle Università di Economia. Senza tali strumenti non sarebbe possibile lo svolgimento e la risoluzione dei casi che la professione ti impone e al contempo tale consapevolezza contribuisce all'assunzione di quella funzione critica e libera da pregiudizi che tanto caratterizzò l'opera di Vilfredo Pareto. Bibliogr a fia Memorie dell’ Accademia di Scienze, lettere ed Arti di Genova, III, Genova, 1814. Autori vari, Vilfredo Pa reto (1848- 1923). 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Matteo Motterini,Charlie Brown decide così, in il Sole 24 ore del 16 ottobre 2006, p.36. Amedeo Fossati, Mora ls a nd public economic. The ca se for justice a nd equa lity, in Studi economici n. 83, 2004/2. Ringr a zia menti Si ringrazia il Comune di Céligny per aver provveduto al reperimento della fotografia della tomba di Vilfredo Pareto. 90 Ma ria rosa Da lla Costa Pescatori e donne per la sovranità alimentare* Il Faro Da l Ker a la ... Il movimento internazionale dei pescatori ha le sue origini nello stato del Kerala nel Sud dell’India negli anni ’70 del Novecento. Nel 1979 si formalizza la Kera la indipendent fishworkers’ federa tion , probabilmente il più grande sindacato del Kerala non affiliato ad alcun partito politico. Va ricordato comunque che questo stato fin dal 1957 aveva sempre avuto al governo una coalizione di sinistra o guidata da un partito di sinistra che aveva portato avanti uno sviluppo corredato da un buon sistema di welfare. Per cui la povertà che caratterizzava tante regioni dell’India qui era stata debellata e così pure l’analfabetismo. Il 100% della popolazione risultava alfabetizzata. Tale eredità era talmente forte che avrebbe condizionato anche il governo non di sinistra che sarebbe succeduto nei primi anni del nuovo millennio1. Quali erano le cause che avevano portato i pescatori ad organizzarsi? Era l’aver constatato e subito, così come era successo ai contadini con la Rivoluzione verde, le false promesse di uno sviluppo industriale della pesca che qui era segnato fondamentalmente dall’arrivo di grandi pescherecci con reti a strascico che rovinavano i fondali, nonché dalle cosiddette Rivoluzioni blu nell’allevamento del pesce che, mentre promettevano di aumentare l’offerta di cibo, distruggevano in realtà più risorse di quelle che producevano. Lo scenario già visto in agricoltura si dischiudeva sulle onde del mare o nelle vasche degli allevamenti blu. La vantata maggior produttività nascondeva costi economici, sociali, ambientali che la svuotavano di significato. Anzi la connotavano negativamente poiché riduceva l’offerta dell’alimento pesce, distruggeva l’ecosistema, distruggeva occupazione e possibilità di vita. Da qui un iniziare ad organizzarsi per contrastare questi balzi tecnologici nel settore ittico puntando invece a salvaguardare metodologie tradizionali e sostenibili di pesca e di allevamento, a chiedere politiche che valorizzassero il mestiere di pescatore e lo corredassero dei necessari diritti e garanzie. Ma soprattutto l’aver constatato le massicce distruzioni di risorse, l’espulsione di popolazioni, le profonde iniquità e impossibilità di sussistenza derivanti da questi più avanzati livelli di sviluppo, avrebbe unito i pescatori del Kerala e di molte altre regioni dell’India e del mondo nella causa comune di una sovra nità a limenta re fonda ta sul diritto per le comunità di pescatori ad a ccedere a lle loro zone di pesca e fonti d’a cqua , potendole gesti- * Rela zione tenuta a l convegno interna ziona le “Globa liza ciòn y desa rrollo desigua l. El desa fio politico de los movimientos suba lternos”, Universida d Complutense, Foro Complutense, Universida d Noma da , Ma drid, 25-29 giugno 2007. 1 Fonda menta le in merito l’a rticolo di G. Ma dhusooda na n (2003) “Il modello Kera la a lla prova dell’a mbienta lismo”, in CNS Ecologia Politica , n.34, a gosto-dicembre 2003, Anno XIII, fa scicolo 55-56. L’a ttua le governo è nuova mente di sinistra . 91 n.20 / 2008 2 Da l discorso tenuto a Oslo il 15 giugno del 1999 in occa sione del conferimento del premio della Fonda zione Sophia . La tra duzione ita lia na è riporta ta in Da lla Costa (2005b, pp. 82-83). 92 3 (Da lla Costa 2005b, p. 96). 4 (Shiva 2001, p.48). 5 (Shiva 2001, p. 49). 6 (Ra pporto SOFIA 2002) re, potendo esercitare il loro mestiere in un ra pporto orga nico con il mantenimento di quell’ecosistema che racchiudeva le loro risorse di lavoro e di vita. Emergeva subito che difesa del lavoro non era solo difesa di un’a nonima possibilità di occupa zione, era difesa di un sistema di vita , di un contesto di rela zioni con la na tura e con gli uma ni che non si voleva abbandonare e da cui non si accettava di essere espulsi. Diceva Thomas Kocherry leader storico del movimento dei pescatori: “Per noi la pesca è un modo di vivere, non una mera fonte di reddito. Il mare è la nostra madre”2. Ma r i vuoti Il primo evento che giunge a minare la parca vita delle comunità costiere del Kerala è la gra nde pesca mecca nizza ta con reti a stra scico che giunge nell’oceano indiano già negli a nni ’60 del secolo appena trascorso. I pescatori locali che conducono la piccola pesca, mestiere fondamentale per le comunità costiere, ne constatano subito il danno nella diminuzione del loro pescato. Teniamo presente che il 60% del miliardo di abitanti dell’India vive lungo le sue coste. Le catture dei pescatori locali costituiscono circa il 30% del pescato complessivo nazionale che ammonta a 3 milioni di tonnellate l’anno, ma loro rappresentano tra l’80% e il 90% dei 10 milioni di lavoratori ittici di questo paese3 e dipendono dal mare per la loro sussistenza. Mentre fino alla fine degli anni ’50 il tasso di crescita del pescato nei mari dell’Asia meridionale era cresciuto del 5% all’anno senza nuove tecnologie di cattura tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 in India il tasso scende al 2%4. Nel mondo la grande pesca meccanizzata è contraddistinta da grandi sprechi. Si calcola che lo scarto, cioè il pesce che viene ributtato in mare morto o morente perché non rientra nelle specie selezionate per il mercato sia circa un terzo (cioè 27 milioni di tonnellate) del pescato complessivo. Ma quando si tratta di pescare gamberi o gamberoni, pesca che avviene con la sciabica, speciale rete a strascico per fondali bassi che ne vengono devastati, lo scarto può arrivare a 16 milioni di tonnellate all’anno, in certe zone a 15 tonnellate per una tonnellata di gamberi pescati. Significativamente, nelle principali aree di pesca dei gamberi in India, il pescato annuo di questo crostaceo è passato da 45.477 tonnellate nel 1973 a 14.582 nel 1979 e, fatto ancor più significativo, si esportano gamberi sempre più giovani, il che è indice di sovrapesca5. A livello globale secondo il rapporto della Fao Sofia 2002 il 47 % circa dei principali stock o gruppi di pesce sono completamente sfruttati e di conseguenza non offrono molte speranze di nuove espansioni, il 18% è già supersfruttato, in continua diminuzione e senza prospettive di espansione, il 10% sta per esaurirsi. Quindi solo il 25 % non è soggetto a cattura irrazionale.6 Anche nel settore della pesca, come in agricoltura, il rapporto Nord Sud ci mostra una costruzione di abbondanza che da un lato è falsa per il Nord stesso dall’altro è causa di una miseria sempre più larga per il Sud cui sottrae risorse fondamentali per l’alimentazione. Secondo quanto denunciato da Thomas Kocherry “Molti governi soprattutto del Nord sovvenzionano una pesca insostenibile. Secondo dati della Fao ogni anno i governi pagano complessivamente 116 miliardi di dollari Usa per catturare l’equivalente in pesce di 70 miliardi di dollari. Nazioni sviluppate che hanno sovrasfruttato le loro acque, sono entrate nelle Ma ria rosa Da lla Costa Pescatori e donne per la sovranità alimentare. acque di paesi in via di sviluppo. L’Unione europea ha circa il 40% in più del necessario di imbarcazioni per catturare pesce su base sostenibile. Le grandi flottiglie da pesca industriali hanno rapinato tutti gli oceani. Sono diventate una minaccia per i 100 milioni di pescatori e hanno connessioni organiche con la monocoltura costiera dei gamberetti”7. La cattura globale di pesce per “l’avanzamento” delle tecniche di pesca e per la possibilità di lavorare e congelare il pesce sui grandi pescherecci industriali è passata dai 20 milioni di tonnellate circa degli anni ‘50 del Novecento ai 94,8 milioni di tonnellate dell’anno 2000. Ma proprio tale dimensione di cattura con le modalità che la caratterizzano ha significato che lo sfruttamento del patrimonio ittico ha superato la capacità riproduttiva degli stock. In alcuni casi li ha semplicemente annientati. Davanti ai banchi di Terranova, luogo della pesca al merluzzo sin dal Cinquecento, il mare è stato svuotato del prezioso pesce ed è rimasto vuoto. Neppure il divieto di pesca del governo canadese nel 1992 è riuscito a mutare la situazione, attualmente invariata. Con la scomparsa del pesce sono scomparsi 80.000 posti di lavoro nel settore ittico per uomini e donne. Anche il settore del “migliora mento tecnologico”, in continuo sviluppo soprattutto grazie alle sovvenzioni statali, contribuisce ad aumentare la pressione sul mare. Queste sovvenzioni che dovrebbero creare posti di lavoro nelle zone costiere povere favorendo lo sviluppo dell’attività di pesca, il più delle volte sono invece impiegate in nuova tecnologia che incrementa l’overfishing. Secondo la Banca mondiale tali sussidi ammonterebbero a un totale di 20 milia rdi di dolla ri l’anno8. Le flotte europee sono di casa nei mari africani con conseguenze spesso devastanti per le popolazioni del luogo. Gli accordi in tal senso tra Unione europea e paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico sono numerosi. Significativo quello tra Ue e Mauritania del 1° agosto del 2001 che prevede l’accesso alle acque con una contropartita finanziaria di 430 milioni di euro. Dopo anni di pesca i timori per le popolazioni locali sono molteplici9. L’Africa occidenta le come conseguenza di anni di pesca europea ha perso la metà degli stock di pesce da fonda le, una categoria che comprende le specie più pregia te dal punto di vista commerciale. A Dakar in Senegal Daniel Pauly, un’autorità per gli studi sullo sfruttamento globale delle risorse ittiche, dichiarava alla conferenza organizzata dal Wwf international nel 2002: “A causa dello sfruttamento non sostenibile delle risorse ittiche da parte delle flotte straniere gli ecosistemi dell’Africa occidenta le si sono impoveriti qua nto quelli del Nord Atla ntico, ma le conseguenze sullo sviluppo e sulla sicurezza alimentare sono gravissime, ben peggiori di quelle che si possono verificare in Europa o in Nord America”10. La cattura eccessiva dei pescherecci dei paesi ricchi impoverisce le acque del Sud. Klaus Toepfer, direttore esecutivo dell’Unep (United nations environmental programme, Programma delle nazioni unite per l’ambiente), sottolinea: “In molte parti del mondo gli stock di pesce sono in sofferenza da quando un numero eccessivo di pescherecci, che gode di molti sussidi fina nzia ri , sta riducendo drasticamente il numero di pesci. Alcuni paesi in via di sviluppo che hanno buone riserve ittiche hanno stipulato accordi di pesca con paesi stranieri nella speranza di aumentare l’afflusso di valuta con cui pagare i loro debiti e stimolare la crescita economica. Ma le nostre ricerche indicano che se non vengono attivati dei rigorosi meccanismi di salvaguardia questo può rivelarsi un errore pericoloso”11. E’ chiaro. Si ripropone la spira le di 7 (Kocherry 1999) Kocherry (senza da ta ) 8 (Ca rbone 2002). 9 (AA.VV. 2002a ). 10 11 (AA.VV. 2002) (Ca rlini 2002) 93 n.20 / 2008 12 (AA.VV. 1998) 13 (Shiva 2001, p. 46) uno sviluppo estroverso, in nome del pagamento del debito, che produrrà altro debito, con immediate e future conseguenze molto pesanti sulla popolazione a cominciare dalla riduzione dei livelli di autosufficienza alimentare. Mentre il pesce e il denaro andranno verso i paesi avanzati. Lungo le coste in molti paesi il pesce a veva ra ppresenta to l’a pporto di proteine più sicuro e meno ca ro rispetto a lla ca rne. Secondo i dati della Fao, il pesce, i molluschi e i crostacei rappresentano il 29 per cento delle proteine animali consumate in Asia, il 19 per cento in Africa e l’8 per cento in America latina12. Oltre 200 milioni di persone nei Pvs dipendono da questo prezioso alimento per la loro sopravvivenza13. Ma, quando il pesce entra nel mercato globale, a livello locale comincia a scarseggiare e a rincarare. Va sche str a r ipa nti 14 Così ritiene a nche l’economista Rosa mond Na ylor della Sta nford University secondo qua nto riferisce F. Unga ro (2002) 94 L’a ltro grande evento che ha indotto pescatori e comunità costiere ad organizzarsi in India, per collegarsi quindi coi pescatori di altri paesi del Sud e del Nord del mondo, è stato l’avvento della cosiddetta prima Rivoluzione blu . Cioè l’acquicoltura industriale, anzitutto di gamberetti. Questo allevamento si è installato in molti paesi tropicali, non solo in India, e, nonostante i suoi consumatori si trovino prevalentemente nei paesi avanzati, si situa di regola nei Pvs per il grande impatto ambientale che ha. E’ detto industria “mordi e fuggi” perché, proprio la devastazione dell’ecosistema che provoca, fa sì che spesso debba lasciare quel luogo dopo averlo sfruttato, o debba lasciarlo a causa dello scoppiare di epidemie che colpiscono l’allevamento, o a causa della mutevolezza della richiesta di mercato. Come la Rivoluzione verde anche la Rivoluzione blu si presentò con un intento umanitario, questa volta coniugato ad uno ecologico: combattere la scarsità dell’offerta globale di cibo, fornendo, col pesce allevato, proteine alle popolazioni povere, e ridurre la pressione sul mare. I motivi addotti erano evidentemente falsi poiché il prodotto, un cibo assolutamente voluttuario, non era destinato ai poveri bensì a una clientela abbiente dei paesi avanzati; la pressione sul mare non sarebbe stata ridotta bensì aumentata in quanto il cibo ittico necessario per l’allevamento dei gamberetti avrebbe dovuto essere prodotto con pesce pescato in mare dai grandi pescherecci con reti a strascico, e si sarebbero distrutte più risorse di quelle che si sarebbero prodotte con l’allevamento. Si reputa infatti che l’allevamento industriale di pesce necessiti in genere di catturare per il cibo ittico il doppio in peso di quello che si produce14. Ma per alcune specie il rapporto è più alto. Per produrre 3 chili di salmone con l’acquicoltura sono necessari 2,7 chili di mangime ittico per produrre i quali sono necessari 15 chili di pesce. Il che rappresenta un enorme spreco. In generale sono necessarie da 4 a 6 tonnellate di cibo ittico per ettaro. Ma dobbiamo computare anche il pesce distrutto attraverso la devastazione operata nei fondali sui pesci giovani e le uova per l’impiego delle reti a strascico nel catturare il pesce necessario alla produzione del cibo ittico. Circa un terzo del pesca to complessivo, e cioè 30 milioni di tonnella te, non sono destina te a ll’a limenta zione uma na bensì a nutrire a nima li tra cui lo stesso pesce di a lleva mento. Ma oltre a questi costi nascosti l’acquicoltura industriale ne racchiude altri. L’impianto consta in genere di grandi vasche di 2 metri di profondità per un etta- Ma ria rosa Da lla Costa Pescatori e donne per la sovranità alimentare. ro di superficie. La loro installazione comporta la distruzione delle foreste di ma ngrovie che caratterizzano le coste dei paesi tropicali. Queste foreste hanno varie ed importantissime funzioni. Tutelano la costa dall’erosione del terreno, la difendono dagli uragani o da altre catastrofi naturali, costituiscono una preziosa nursery per specie di pesci che nelle loro acque tranquille riescono ad affrontare l’iniziale periodo di vita prima di avventurarsi in mare, contribuendo con ciò a salvaguardare la riserva ittica per i pescatori. I gamberetti devono essere allevati in una combina zione di a cqua sa la ta e a cqua dolce che deve essere continuamente regolata ma le movimentazioni meccaniche e la crescita stessa dei gamberi fanno sì che l’acqua si riversi nel territorio circostante sa linizza ndolo e sa linizza ndo a nche le falde di acqua dolce dove il prelievo è stato eccessivo. Ma con l’a cqua si riversano gli antibiotici, gli escrementi dei gamberi, il grande residuo del cibo ittico di cui solo il 17% costituisce biomassa che viene utilizzata dai gamberetti stessi. Anche sotto questo aspetto uno spreco totale. Con l’acqua inoltre si riversano i detergenti quando si fanno le operazioni di pulizia. La compromissione del territorio, la sua salinizzazione e inquinamento chimico, rendono impossibile la prosecuzione dell’agricoltura e arrivano a compromettere la stessa pesca in mare poiché la prima fascia viene inquinata e i pesci tendono a migrare più al largo aumentando la distanza che i pescatori devono affrontare per il loro lavoro. Frequenti sono inoltre le morie di pesci. Molte popolazioni devono la scia re il territorio sa linizza to e inquina to, ove anche gli animali muoiono, in cerca di improbabili reinsediamenti rurali visto che le terre da coltivare disponibili sono sempre meno. Questi allevamenti si sono insediati in Ecuador, Bangladesh, Brasile, Cina, Filippine, Honduras, Indonesia, Messico, Sri Lanka, Thainlandia e Viet Nam oltre che in India. Hanno visto lotte e scontri sanguinosi, numerosissimi momenti di protesta. In 11 paesi sono stati denunciati omicidi legati all’industria di gamberi. In India questa industria ha attaccato i 7000 chilometri di coste di questo paese. Ma gli espulsi a causa di queste installazioni quasi mai hanno territori dove ripristinare le loro economie. L’alternativa sono la miseria, il degrado e la fame negli slums delle grandi città. L’occupa zione creata da questi allevamenti è minima se confrontata all’occupazione che distrugge. In Ecuador, ad esempio, un etta ro di foresta di mangrovie riesce a garantire cibo e sussistenza a dieci fa miglie mentre un’industria di gamberetti di ben 110 etta ri dà lavoro solamente a 6 persone. Negli allevamenti lavorano spesso donne e ba mbini , dalle otto alle dieci ore al giorno in condizioni igienico sa nita rie disa strose, per cui sono soggetti a frequenti patologie soprattutto dissenteria e malattie della pelle. Si riferiscono anche casi di stupro sulle lavoratrici. Anche le ore lega te a lle incombenze del la voro domestico nel territorio circostante a umenta no. Bisognerà andare più lontanto per cercare legna da ardere e acqua potabile15. La lavorazione stessa dei gamberetti in alcune aree ci presenta scenari infernali. Come nella Ma cha r Colony nella fisheries area a Karachi in Pakistan. Qui la lavorazione di questi crostacei è basata sullo sfruttamento intensivo dei bambini. Accovacciati in lunghe file sul pavimento bagnato e maleodorante, sgusciano montagne di gamberetti per dodici ore al giorno sotto il controllo assillante dei sorveglianti. La paga è in base al numero di cestini di pesce lavorato riempiti. Chi in un giorno arriva a prepararne 15 chili può avere due dollari. Per la posizione in cui 15 Per le informa zioni complessive di cui subito sopra vedi Shiva (2002, p. 51 e segg.); Da lla Costa e Chilese (2005, p. 69); Sha na ha n (2003) 95 n.20 / 2008 16 (Da lla Costa e Chilese 2005, p. 69). 17 (Brown senza da ta ) devono lavorare e per dover tenere le mani in acqua salata con il ghiaccio mischiato ai gamberetti questi piccoli sono votati all’artrite alle dita e a danni alla schiena16. La Banca mondiale ha sostenuto l’acquicoltura industriale fin dagli anni ’70 ed oggi è il settore a limenta re a più a lta crescita 17. Ma la costruzione delle vasche, delle strade per trasportare il prodotto, delle infra strutture per la refrigerazione e altro saranno in gran parte a ca rico dello sta to ospita nte che così si indebiterà ulteriormente nega ndo invece, come già abbiamo visto in agricoltura, il sostegno ai pescatori locali, ad esempio per il carburante, e i servizi primari per la popolazione. Nel 1991, dentro il nuovo quadro neoliberista che venne imposto all’India, il governo costituì la Mped /(Marine products export development authority, Agenzia per lo sviluppo delle esportazioni dei prodotti ittici) per sostenere ancora di più l’acquicoltura. Infatti l’Agenzia ha fornito assistenza tecnica e sussidi significativi a tale settore nel paese. Nello stesso anno il governo autorizzava la pesca d’alto mare. Fr a nkenstein fish 18 (Shiva 2002, pp. 60-61). Ma una seconda Rivoluzione sarebbe giunta a minacciare il mondo blu , la modifica zione genetica del pesce. A volte si sarebbe proposta ancora con intenti umanitari: evitare l’uso di antibiotici modificando geneticamente il pesce per renderlo più resistente alle malattie. Altre volte la ragione sarebbe stata dichiaratamente commerciale. Particolarmente puntato il salmone atlantico: farlo crescere più in fretta, 12-18 mesi al posto dei naturali 3 anni, e renderlo più resistente al freddo. Ma l’ingeneria genetica che pretenderebbe aumentare l’offerta di pesce rischia di distruggerla. Il pesce che deve crescere più in fretta può richiedere più cibo, quello più resistente può distruggere le specie selvatiche. Le specie transgeniche di allevamento possono fuoriuscire, come spesso succede, dalle zone di allevamento e incrociarsi con le altre specie con esiti imprevedibili sulle stesse e sull’ecosistema. Comunque quando la natura viene forzata da un lato viene indebolita dall’altro. Esiti del cosiddetto effetto Frankenstein sono stati ad esempio quelli derivati dall’introduzione, fra il 1968 e il 1975, del gambero opossum in diversi laghi a Nord del lago Flat Head nel Montana per accrescere le risorse alimentari del salmone Kakonee. A mano a mano i gamberi divorarono tutto lo zooplancton che costituiva una fonte alimentare importante per il salmone e la pesca di questo pesce precipitò. Prima del 1985 il raccolto annuale del salmone era pari a 100.000 unità, nel 1987 era sceso a 600 unità18. Altr a economia Ma l’a lterna tiva per allevare pesce in modo sensato ed effettivamente produttivo esisteva già da 500 a nni . E’ dal ‘500 infatti che l’India ha sistemi tradizionali e sostenibili di acquicoltura che l’avevano resa il primo produttore mondiale di gamberi. Tali sistemi, con modestissimo impatto ambientale, si coniugavano e si alternavano con l’agricoltura ove questa era praticabile. Erano sistemi integrati di acquicoltura e agricoltura. Tra i più conosciuti, il sistema bheri costituito da va sche di dimensioni va ria bili , adottato in zone paludose e melmose, ad esempio nel Bengala occidentale. Se è stagionale, si alleva pesce da novembre a dicembre, in altri mesi il riso. Se è perenne, in quanto per l’alta salinità del ter- 96 Ma ria rosa Da lla Costa Pescatori e donne per la sovranità alimentare. reno non può crescere il riso, si allevano gamberi e pesce tutto l’anno. In altre zone come l’Orissa vicino agli estuari, alle spiagge e attorno ai laghi si usa il sistema gheri . Si tratta di grandi stagni ove si fanno arrivare i pesci e i gamberi con le maree e saranno le maree stesse a nutrirli mentre un sistema di piccole barriere di bambù evita che fuoriescano in mare quando la marea si ritira. Grazie ad un sistema di chiuse vengono poi catturati con le reti o con le mani. Ma soprattutto questo sistema si a lterna con la coltivazione del gra no e con la coltivazione del riso. Anzi quando questo viene tagliato una parte della spiga viene lasciata nel terreno proprio per costituire cibo per il pesce. Altro sistema è il tha ppa l che indica durante l’alta marea la ricerca con le mani dei gamberi, ostriche e altro pesce che è stato spinto verso la spiaggia. Spesso la ricerca è aiutata dall’immersione in acqua di una stuoia fatta con erba secca e piante di balsmo intrecciate con chicci di riso che attraggono il pesce. Una volta catturato viene messo in recipienti con acqua salata. Sono immagini che nel contempo danno l’idea dell’estrema semplicità ma anche produttività dei metodi usati, della loro sostenibilità sotto tutti gli a spetti e della ricchezza dell’offerta del mare. Tali sistemi avevano fornito di che vivere alle popolazioni costiere per secoli19. Quella ricchezza è però quello che le metodologie della grande pesca industriale e dell’allevamento industriale hanno pregiudicato e stanno pregiudicando sempre più. 19 (Shiva 2002, pp. 58-60). Autor ga nizza r si E’ di fronte alla massiva distruzione di risorse attuata dalla grande pesca meccanizzata e dall’acquicoltura industriale, e alla conseguente impossibilità di sussistenza ed espulsione di popolazioni che il movimento dei pescatori organizza una serie di lotte e cresce puntando a collegare i pescatori di tutta l’India. Nel 1982 vi fu una scissione ma il nome e larghissima parte degli aderenti al sindacato rimasero con Kocherry e ottennero dal governo la sospensione della pesca a stra scico lungo le coste del Kera la dura nte il periodo monsonico della riproduzione, da giugno a settembre. Più tardi questo movimento raggiunse effettivamente una dimensione nazionale e assunse il nome di Na tiona l fishworkers forum (Nff). Si propose quindi di costruire una rete mondiale. Organizzando incontri e collegamenti con pescatori in lotta in altri paesi del mondo, tanto per menzionarne alcuni, con pescatori del Madagascar, del Senegal, delle province canadesi di Nuova Scozia e di Terranova, nel 1997, dopo aver lanciato 4 grandi scioperi a livello nazionale che iniziano nel ’91 e sono sostenuti da forme molto dure di lotta delle comunità costiere, con la conferenza di Nuova Delhi si costituiva come World forum of fish ha rvesters a nd fish workers. Ma sarebbe decollato a livello veramente planetario con la conferenza di Loctudy, un paesino della Bretagna in Francia nel 2000. Il movimento si dà uno sta tuto, una struttura orga nizza tiva , si ripropone di costruire a livello loca le a lterna tive a l ca pita lismo attuando modelli di produzione e sociali che rispondano ai reali problemi delle comunità locali, che favoriscano la decentralizzazione e l’autonomia, che siano sostenibili per il mare e per quelli che ci vivono. Decide che il 21 novembre, data eletta a giornata internazionale della pesca nella conferenza di Nuova Delhi del 1997, i forum continentali si impegneranno nell’organizzazione di manifestazioni e scioperi per sensibilizzare tutti alle problematiche portate avanti dal movimento dei pescatori. L’anno seguente, nel novembre 2001, il movimento decre- 97 n.20 / 2008 20 (Da lla Costa e Chilese 2005, pa g. 80). Nel testo è complessiva mente tra tteggia to e a na lizza to il percorso del movimento dei pesca tori. 98 ta infatti uno sciopero globa le che coinvolge tutto il mondo della pesca e si oppone alla depredazione dei mari. Ma a Loctudy un’altra scissione avrebbe visto Kocherry alla guida di una nuova formazione, il World forum of fisher peoples cui avrebbero aderito i delegati asiatici e la maggioranza di quelli africani mentre il resto del movimento coordinato dal canadese François Poulin manteneva il nome originario. L’anno precedente il movimento dei pescatori era giunto con la Carovana del ’99 nei paesi europei ed era stato una componente molto importante nella manifestazione di Seattle. Nel ’99 aveva fatto conoscere ai cittadini dei vari paesi europei la sua lotta contro i motopescherecci con reti giga nti in joint venture con multinazionali straniere che mettevano a repentaglio la vita dei pescatori e rovinavano il terreno di pesca. Aveva fatto conoscere la sua lotta contro la gra nde pesca che distrugge la biodiversità biologica lungo la costa e al largo. Aveva fatto conoscere ancora le lotte contro l’a cquicoltura industria le portatrice di un impatto devastante e la violenza della repressione che dovevano subire le popolazioni in lotta. Aveva dichiarato la sua volontà di costruire alternative locali su base sostenibile che rispondessero anzitutto ai bisogni delle popolazioni costiere. Nel 2004 a l World socia l forum di Mumba y sceglie, come molti altri movimenti, di non partecipare ma di costruire una presenza altra, mentre decide come forma di protesta contro l’invasione dei motopescherecci con reti a strascico di bloccare la stazione ferroviaria e portare avanti altre forme di lotta. Va ancora ricordato che il movimento dei pescatori con altre componenti dei movimenti indiani aveva ottenuto nel 1996 la sentenza della Corte Suprema che ordinava la rimozione entro il 31 marzo 1997 di tutti gli impianti di acquicoltura, all’infuori di quelli tradizionali e tradizionali migliorati, da tutte le coste indiane soggette a regolamentazione fino a una distanza dal mare di 500 metri e nei mille metri vicini ai laghi Chilika e Pullicat, zona umida di rilevanza internazionale. Il verdetto della Corte non fu ma i osserva to da l governo che anzi varò l’Acqua colture a uthority bill per legittimare l’allevameno dei gamberetti in tali aree e trasferendo la competenza in merito al Ministero dell’agricoltura mentre si stava e si sta ancora chiedendo di dare attuazione al Ma rine fishing regula tion a ct del 1978 che era orientato a tutelare tre aspetti fondamentali del mondo della pesca: la vita e l’economia dei pescatori tradizionali, la conservazione delle risorse ittiche, l’osservanza della legge e dell’ordine in mare. Come dicevamo i gra ndi scioperi na ziona li degli a nni ’90 erano stati sostenuti da lotte durissime delle comunità costiere che si erano concretizzate in scioperi della fame, sit-in, marce, blocchi delle autostrade, delle reti ferroviarie, degli areoporti, occupazione degli uffici governativi, dei porti20. Dopo tali eventi si era formato il Comita to Mura ri con la partecipazione di 16 parlamentari, di tutti i ministri organicamente collegati al settore per le acque marine e le acque interne e di sei rappresentanti delle parti interessate. Ma le 24 raccomandazioni che ne scaturirono, molto importanti, ufficialmente accettate dal governo, non vennero mai osservate. Le lotte contro gli impianti industriali di acquicoltura o contro la grande pesca si scontrano invece sempre con una dura repressione. Il 2004 segna un’altra significativa tappa per il movimento dei pescatori che prende contatto con l’Ilo (Interna tiona l la bour office) per arrivare a statuire assieme a tale ente, per la prima volta, delle regole riguardo al la voro informa le della pesca . A partire dall’avere contratti scritti e la lista delle persone a bordo, dalla necessità di avere documenti di identità e diritti riguardo al rimpatrio e al reclu- Ma ria rosa Da lla Costa Pescatori e donne per la sovranità alimentare. tamento, dalla nessità di avere leggi e regolamenti riguardo alla sistemazione a bordo, al cibo, all’acqua potabile, dall’avere una normativa che assicuri le cure mediche di primo soccorso e la dotazione di un kit di salvataggio in buono stato. Si vuole avere una tutela previdenziale anzitutto come pensione, che si richiede dai 60 anni, e coperture assicurative tanto più necessarie visti i rischi del lavoro. Si vuole avere una normativa che stabilisca un’età minima per il lavoro a bordo, un minimo di ore di riposo in relazione alle ore di lavoro, si sottolinea la necessità di assicurare l’istruzione dei ragazzi anche proponendo degli orari flessibili poiché posticipare di anni il lavoro sulle imbarcazioni espone maggiormente al rischio di soffrire il mal di mare e di non acquisire la necessaria confidenza con l’ambiente marino. Altrettanto si richiede di stabilire un minimo salariale per chi riceve una paga avendo particolare attenzione al lavoro migrante e dei tribali21. Con il documento Towa rd a Fisheries policy in India 22 si avanzano una serie di altre richieste concernenti le condizioni di vita dei pescatori mentre si auspica la messa a punto di una politica della pesca che tenga conto delle fondamentali esigenze della popolazioni costiere e del loro rapporto organico con le risorse alieutiche. Quindi si avanzano, in particolare nei confronti degli stati interessati dalle attività di pesca, richieste che riguardano le condizioni di vita del villa ggio, dalla drammatica necessità di spazio per costruire abitazioni, all’assicurare la possibilità di cibo (fortemente pregiudicata, ricordiamo, dall’acquicoltura industriale e dalla grande pesca), all’assicurare i fondamentali servizi come istruzione, sanità, acqua potabile, e tutte le infrastrutture di cui un villlaggio necessita. Altre richeste ancora riguardano le sovvenzioni per il combustibile necessario alle imbarcazioni, e forme di assicurazione e credito che garantirebbero maggior sicurezza (oltre naturalmente alla pensione di cui abbiamo già detto). Ma proprio il dettato neoliberista nega il sovvenzionamento alla piccola pesca mentre incoraggia i grandi sovvenzionamenti alla grande pesca. Si ribadisce la necessità di continua re la lotta per avere una regolamentazione della pesca a partire dall’attuazione del Marine fishing regulation act opponendosi alla tendenza espressa dal governo di intensificare invece la capacità produttiva di pesca. Le donne e il ma r e Il ruolo delle donne nel settore ittico è stato a lungo ignora to e sottostima to. In realtà il loro lavoro, che si concentra nell’attività di preparazione (ad esempio tagliare in filetti) e vendita del pesce, genera quel guadagno che a sua volta permette ai mariti di pagare un equipaggio e di andare a pescare e nel contempo permette di sostenere le spese per la famiglia e per la comunità23. Pregiudicate anch’esse nei loro mestieri dall’arrivo della grande pesca si sono organizzate in cooperative adottando forme di risparmio e credito che gli permettessero di affrontare meglio l’attività di mercato. D’altronde l’organizzarsi in cooperative è stata la forma di organizzazione fortemente sostenuta dal movimento dei pescatori. Fondamentale è stato il loro ruolo nelle lotte. Per cui anche nelle strutture organizzative che, a tutti i livelli, il movimento internazionale dei pescatori si è dato, si è stabilita l’assoluta paritarietà di rappresentanza fra uomini e donne. In questa planetaria battaglia, di mare e di terra, che vede le ragioni del profitto distruggere la ragioni della vita, la voce e l’azione delle donne accanto a quella 21 (AA.VV. 2004) 22 (AA.VV. 2004a ). Va l la pena di ricorda re, per a vere più chia ro il qua dro dei soggetti interessa ti a ta li rivendica zioni, che secondo lo sta tuto del Wffp i pesca tori che ha nno diritto di divenire membri a ttivi del Forum sono tutte le persone che pra tica no diretta mente la pesca e nei diversi pa esi a ppa rtengono a lle seguenti ca tegorie: ==> Persone che pra tica no la pesca di sussistenza ; ==> Pesca tori a rtigia ni; ==> Comunità a utoctone o a borigene che pra tica no la pesca ; ==> Pesca tori costieri e continenta li tra diziona li; ==> Pesca tori a utonomi che pra tica no la piccola pesca ; ==> Membri d’equipa ggio; Inoltre: i membri d’equipa ggio che a ppa rtengono a gruppi non nomina ti precedentemente, ma che a ttua lmente fa nno pa rte delle orga nizza zioni definite a l sottopa ra gra fo a ) dell’a rticolo 2 e cioè le orga nizza zioni che condividono gli obiettivi dell’a rticolo 1 dello sta tuto; le orga nizza zioni popola ri ra dica te nelle comunità di pesca tori o che riuniscono donne impegna te nella difesa della pesca ; i la vora tori del settore ittico la cui a ttività consiste nella tra sforma zione, vendita (a d eccezione dei commercia nti) e tra sporto del pesce. Per il complesso di queste rivendica zioni vedi M. Da lla Costa , M. Chilese, op. cit., pa g. 97 e segg. Lo sta tuto nella sua integrità è riporta to tra gli a llega ti nello stesso testo. 99 n.20 / 2008 23 In Ca na da , negli Sta ti Uniti, in Gia ppone e in Norvegia , dove la crisi ha costretto i pesca tori a ridurre l’equipa ggio, le mogli ha nno dovuto integra rlo e la vora re sulle imba rca zioni (AA.VV. 1998). degli uomini è imprescindibile. Non a caso si è scritto più volte nei documenti che segnano le tappe organizzative di questo movimento che d’ora innanzi si abbandonerà qualunque discriminazione nei loro confronti. Nello statuto stilato a Loctudy al punto 3 dell’a rticolo 1 che definisce gli obiettivi del World forum of fisher peoples viene enunciato l’obiettivo di riconoscere, sostenere e migliorare il ruolo della donna nella vita economica, politica e culturale delle comunità di pescatori”. E questo impegno corrisponde pienamente all’impegno assunto anche dalle organizzazioni contadine. Significativamente alla conferenza di Nyeleni (Mali, febbraio 2007) a cui le reti dei pescatori hanno partecipato assieme a quelle degli agricoltori, dei pastori e di altre figure del mondo rurale, i lavori sono stati preceduti da una giorna ta di discussione a l femminile, un Forum delle donne. Sovr a nità a limenta r e e vita Complessivamente il movimento interna ziona le dei pesca tori che abbiamo considerato nel suo filone india no in quanto motore propulsore di un coordinamento fra pescatori con esigenze analoghe nel Sud e nel Nord del mondo, rappresenta un a ltro fonda menta le a nello di quella rete che si propone la sovra nità a limenta re assumendo che le fondamentali fonti della vita, come la terra e il ma re, costituiscono beni comuni e come tali vanno gestiti. Per cui ne rivendica il diritto di accesso e gestione da parte di quelle comunità che producono il cibo, in questo caso i pescatori, e lo producono con quelle modalità sostenibili sotto ogni aspetto che ne permettono la rinnova bilità . Si tratta della rinnovabilità del pa trimonio ittico, ma non solo. La concezione del mestiere di pescatore infatti è inscritta in un ra pporto orga nico con l’ecosistema di cui si vuole mantenere la poliedricità di offerta (ambiente, clima, culture, altri beni che il mare e il territorio costiero racchiudono). Come il contadino, secondo la concezione dell’agricoltura contadina o della contadinità responsabile, è legato non solo alla terra per ricavarne un prodotto ma al territorio, così il pescatore, nella concezione della pesca portata avanti da questo movimento, è legato non solo al mare per catturare o allevare pesce ma a quel contesto di risorse che danno possibilità a un sistema di vita e che deve contribuire a salvaguardare. E’questo sistema di vita e di riproduzione di vita infatti che si vuol mantenere, su cui si costruisce il diritto di resistenza , di contro a quelle politiche di espulsione che il neoliberismo, ma anche il produttivismo industriale, promuovono sempre più concependo il mondo solo come grande mercato da esportazione. Anche qui, come abbiamo già visto in agricoltura, accettare queste politiche vorrebbe dire per i piccoli pescatori e le comunità costiere che vivono della pesca accettare la loro espulsione, la loro estinzione. Per l’umanità nel suo complesso accettare una dipendenza sempre più forte dal denaro per l’acquisto di un prodotto ittico sempre più caro se viene dal mare, oppure meno caro e più inquinato se viene dall’ allevamento. Di contro alla sistema tica guerra a lle economie di sussistenza , e a i criteri di sostenibilità di cui sono portatrici, il movimento internazionale dei pescatori vuole ma ntenere metodi di produzione che hanno concesso di vivere per millenni permettendo nel contempo di salvaguardare la rea le offerta di a bbonda nza che le risorse naturali e gli ecosistemi racchiudono. 100 Ma ria rosa Da lla Costa Pescatori e donne per la sovranità alimentare. Altrettanto vuole mantenere il suo sa pere. E’significativo che in luoghi del Nord come la Nuova Scozia, 150 pescatori della Baia di Fundy si siano uniti per autogestire la loro pesca. Anziché ottenere un’assegnazione individuale di quote di pesca dal governo federale hanno costituito il Fundy fixed gear council per autogestire le loro quote complessive24 riconoscendo che di fronte a risorse limitate un approccio comunitario sarebbe stato la miglior soluzione per amministrarle bene. Oppure nelle Filippine l’associazione Agri-Aqua che vede assieme agricoltori e pescatori si è proposta la ricostruzione delle foreste di mangrovie ben sapendo che senza quell’ecosistema non si può pensare di riavviare quell’economia e quei mestieri25. In ogni articolazione del discorso emerge la dimensione della solida rietà , della eticità , della responsa bilità , del senso del limite. Di contro alla smisura ta pesca che svuota il ma re negando il diritto di occupazione e vita a sempre più pescatori, e di contro agli insensa ti giochi fina nzia ri che la sostengono, questo movimento difende la sensata e misurata pesca tradizionale che tiene conto anzitutto dei bisogni delle comunità costiere ma in un rapporto di solidarietà con tutti i pescatori del mondo di cui vuole rafforzare il diritto di continuare a lavorare e a vivere. Ed altrettanto in un rapporto di solidarietà con il diritto al cibo, cibo sano e abbondante, di tutte le comunità del mondo. I pescatori del Wold forum of fisher peoples infatti a Loctudy adottano il loro statuto: “...affermando che l’Oceano è sorgente di vita, determinati ad assicurare l’inesauribilità della pesca e delle risorse marine per le genti di oggi e le generazioni future...”26. Il movimento quindi porta avanti la sua a zione per la sovra nità a limenta re a partire dalla ricostituzione di livelli di a utosufficienza basati su un rapporto organico tra mestieri e risorse dell’ecosistema. Crede che la prima sicurezza alimentare derivi dal ripristino di questi modelli di produzione e di vita. Nega che la sicurezza alimentare risieda nella disponibilità di valuta pregiata sufficiente per “comperare” la sicurezza alimentare sui mercati internazionali ove i piccoli produttori del Sud non decidono il prezzo né delle esportazioni né delle importazioni. E ove dovremmo acquistare sempre più pesce inquinato di allevamento. Nega che la sicurezza alimentare possa derivare dalla graziosa concessione degli aiuti, da sempre strumento in mano ai governi più forti per condizionare i governi più deboli. Crede che la sicurezza alimentare derivi dalla sovranità alimentare. Decide che le fonti e i cicli di riproduzione spontanea della vita non sono mercificabili e anzi costituiscono il grande bene comune da cui partire per ripristinare economie che permettano di avere un qualche controllo sulle condizioni della propria vita. 24 25 (AA.VV. 1998). In Ita lia a Monterosso in Liguria , c’è a ncora qua lcuno che tiene viva l’a rte notturna della pesca delle a cciughe, u pa n du ma “il pa ne del ma re” come le chia ma no gli a nzia ni del luogo. Trent’a nni fa la pesca era l’a ttività principa le del posto. Oggi, invece, rima ngono sola mente due ba rche che pesca no con la la mpa ra , torna ndo a riva a lle 4 o a lle 5 del ma ttino. Le difficoltà non ma nca no e a nche in questa loca lità si cerca di ottenere un ma rchio che riconosca la qua lità delle a cciughe, permettendo la sa la gione in loco e a ssicura ndo così un futuro a ll’orma i esigua comunità di pesca tori. (Chilese 2005, p. 59). A Ca mogli, vicino a Genova , una coopera tiva di pesca tori usa una rete costruita diretta mente da loro in fibra di cocco che a lla fine dell’a nno viene la scia ta a l ma re come cibo per i pesci, evita ndo così di a nda re a costituire a ltro rifiuto. 26 Riferimenti bibliografici e sitografici (AA.VV. 1998) Da l prea mbolo dello sta tuto, in Da lla Costa e Chilese (2005, p. 111). AA.VV. (1998), Development a nd pea ce a nd the fisheries, in: www.devp.org/testA/issues/fisheries.htm AA.VV. (2002), Rischia no il colla sso gli stock ittici dell’Africa occidenta le, 26 giugno, in: www.wwf.it/news2862002_4229.asp AA.VV. (2002a), Accord de pêche Ue-Mauritanie (2002) “Le Courrier Acp-UE”, n° 191. AA.VV. 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Gli eventi degli ultimi anni – e degli ultimi mesi – hanno fatto sì che la regione balcanica venga considerata come il campo di battaglia dove si scontrano identità opposte e ben definite, anche se a volte dai confini artificialmente rigidi. Questo lavoro si propone di aprire una finestra su un fenomeno sociologico e politico della storia dei Balcani caratterizzato da una tendenza opposta, che vede invece un’identità dai contorni sfocati, volutamente negata o mimetizzata anziché portata con orgoglio o addirittura imposta. I materiali documentali originali su cui si basa l’articolo sono tratti per lo più dall’Archivio Storico della Congregazione per Evangelizzazione dei Popoli e riguardano la diocesi di Skopje nella seconda metà del XVIII secolo. Si tratta principalmente delle relazioni inviate dal clero cattolico della zona durante l’arcivescovato di Matija Mazarek – un prelato che fu a capo della diocesi per un periodo di tempo straordinariamente lungo (1758-1808) – alla Congrega tio de propa ga nda fide, un’istituzione creata dal Vaticano nel 1622 con il compito di sostenere l’attività evangelica nel mondo. Occorre innanzitutto identificare il territorio a cui si riferiscono le osservazioni dell’arcivescovo e dei suoi parroci. Ai tempi di Mazarek la diocesi di Skopje consisteva di otto parrocchie: da sud-est verso nord-ovest Skopje, unita a Kratovo (chiamate nei documenti “Scopia” e “Cratovo”); Skopska Crna Gora (“Montenegro” o “Zarnagora”), costituita dai quattro villaggi di Letnica, Sasare, Vrnez e Vrnavokolo; Janjevo (“Jagnevo”), luogo di residenza dell’arcivescovo; Prizren (“Prizreno”); Zur (“Sumbi”); Zogaj (“Sogagni”); Djakovica (“Giacova”); Peć (“Pecchia”). . Ad esse si aggiunse una nona parrocchia, quella di Rogovo, nel 1763. Si tratta, insomma, di una fascia di territorio che copre gran parte dell’odierno stato indipendente del Kosovo, delimitata a est dalla linea JanjevoSkopska Crna Gora, a ovest da Rogovo (nell’attuale Montenegro) e da Zogaj (nell’attuale Albania), a nord dalla linea Peć-Priština e a sud dal triangolo formato da Zur, Skopje e Skopska Crna Gora 1.Chi sono i criptocristiani? Cenni storici sulla loro esistenza nella regione Nella relazione della sua prima visita generale della diocesi, nel gennaio 1760, Mazarek riporta un episodio significativo, un esempio dei molti casi simili che gli capiteranno nel corso del suo arcivescovato: “Nella medesima città [Djakovica], nell’atto, 105 n.20 / 2008 che cresimavo li ragazzi, si accostò, e si inginocchiò un giovane albanese di 18 anni per esser cresimato, ma tenendo la Fede occultam.te, ricercai da lui la protesta in presenza di tutto il popolo, e rispondendo di non potersi astenere dall’esercizio di quelli atti vietati dalla Bolla di Felice Mem. Benedetto XIV, rissolutam.te lo scacciai d’avanti, e l’esclusi dal Sacramento della confirmazione, il quale proruppe in dirottissimo pianto, ma non ardj dalli Turchi fare la protesta. Di questa sorte di gente, che sono occulti, e che non confessano la Fede palesam.te, ne li dà l’animo di osservare le condizioni intimate nella constituzione di Benedetto XIV, già abbastanza hanno palesato li miei prudenti antecessori all’E.E.V.V. Nulladimeno per sgravare la mia conscienza, ancor io voglio dimostrare alla pietosa Madre l’infelicissimo stato di tale gente; e come per esser abbandonati da noi missionarj, assolutam.te abbracciano il Mahometismo, e questi tali ci portano un’incredibile odio, aversione, et esecrazione, e la più grande persecuzione da essi patiamo, che dalli veri, et antichi Turchi” (SOCG 792.145v-146r). Questo ragazzo albanese è un rappresentante di una classe di credenti che fu per secoli il tormento della Chiesa cattolica e in seguito fu l’oggetto d’esame di molti studiosi: i criptocristiani. Noti in area albanese con il nome di la ra ma në (“screziati”) e chiamati quasi sempre nei documenti vaticani “cristiani occulti”, costoro mostravano tutti o quasi tutti i comportamenti tipici dei musulmani (frequentavano la moschea, facevano circoncidere i figli, mangiavano carne di venerdì, ecc.), ma in privato si attenevano alla religione cristiana. Questa dicotomia tra la religione “pubblica”, quella musulmana, e un’altra religione che veniva osservata unicamente in privato non era un comportamento esclusivo dei cattolici sudditi dell’impero ottomano, ma riguardò anche gli ortodossi; né fu un fenomeno che interessò solo i cristiani: esisteva anche una comunità ebraica nell’area di Buchara e in Turkestan i cui membri professavano l’Islam solo esteriormente (Babachanov 1951, pp. 162-165), mentre è nota la presenza in Turchia almeno fino al 1950 di un gruppo di ebrei dönme (convertiti), in apparenza fedeli all’Islam, ma in privato ancora legati alla setta ebraica di Sabbatai Zevi (Didier 1981, p. 120). Non si simulava solo l’appartenenza 106 all’Islam: si ha prova anche di un caso in cui i cattolici ottomani non fingevano di essere musulmani, bensì si facevano passare per un’altra tipologia di cristiani vista con minor sospetto dalle autorità ottomane. Nel 1769 si scriveva a Roma dalla Terra Santa che in quei luoghi i cattolici armeni, i grecoortodossi e i siro-ortodossi fingevano in pubblico di essere maroniti e frequentavano perfino le funzioni religiose di quella setta (Acta 139.333r-333v). Il fenomeno della dissimulazione religiosa non è certo estraneo nemmeno alla tradizione storica occidentale. La conversione soltanto esteriore al cristianesimo degli ebrei spagnoli e la finta fede cattolica dei protestanti tedeschi del XVI secolo sono episodi che hanno moltissimo in comune con il criptocristianesimo praticato sotto il dominio turco. Nelle terre sottomesse alla potenza ottomana il primo episodio documentato di questa “tecnica” sociale di autodifesa risale al 1330, all’invasione ottomana di Nicea. Ne è una prova la richiesta fatta dagli abitanti di quel luogo otto anni più tardi al patriarca di Costantinopoli: i niceani pregavano di essere riammessi all’ortodossia, anche se non formalmente, spiegando di essersi convertiti in massa per paura nel primo periodo successivo all’invasione turca, ma di essere rimasti sempre intimamente cristiani. La risposta del patriarca dice molto sull’atteggiamento differente delle autorità cattoliche e ortodosse riguardo alla questione del criptocristianesimo. In questo caso il capo della Chiesa orientale replicò che una conversione pubblica sarebbe stata auspicabile, ma che un ritorno al Cristianesimo solo nella sfera privata era comunque accettato e senz’altro preferibile all’islamizzazione completa (Skendi 1967, pp. 228-229). La prima reazione a questo problema da parte della Congregazione per la Propagazione della Fede è invece documentata nel 1628, quando i primi rapporti dalle missioni in terra ottomana cominciarono a giungere a Roma. La risposta delle autorità vaticane consistette in una severa proibizione a negare la fede cattolica, anche se ciò poteva costare la vita (Acta 1628.166r). Fin da subito la questione del criptocristianesimo si propose con particolare evidenza nelle regioni a popolazione albanese. Il Vaticano era a conoscenza della situazione delicata in quest’area perlomeno dal 1612, Luca Ma iocchi anno in cui all’arcivescovo di Bar venne impartito l’ordine di non concedere più i sacramenti ai cristiani convertiti che li richiedevano (SOCG Grecia.2.401r), anche se ci sono fondati sospetti che il clero locale cattolico fosse a conoscenza della prassi criptocristiana già dalla seconda metà del XVI secolo (Zefi 2006, p. 138). Le condizioni divennero critiche un decennio dopo la ritirata austriaca del 1690. Nel marzo 1702 l’arcivescovo di Bar Vicko Zmajević scrisse a Roma che dopo la guerra con l’impero austroungarico la Porta si era resa conto della pericolosità di avere così tanti cristiani in una delicata zona di frontiera e aveva inviato emissari nelle terre albanesi con il preciso compito di convertire i cattolici all’Islam. Non si trattava però di un processo di conversione violenta, dal momento che lo stesso arcivescovo precisò che i cattolici della zona avevano anche altre opzioni oltre all’islamizzazione: potevano emigrare in un’altra parte dell’impero ottomano, oppure sottoporsi al pagamento annuo di “uno zechino per testa” (la normale tassa pro capite sui non musulmani). Il risultato immediato, scriveva Zmajević, era stato che molti cattolici albanesi della sua diocesi avevano attraversato il confine e si erano stabiliti in territorio veneziano, mentre circa 500 si erano convertiti (Bartl 1975-1979 I, p. 37). Le conseguenze di questa politica aumentarono in maniera esponenziale nei mesi successivi, con un ritmo di conversioni davvero impressionante, se consideriamo esatti i dati forniti dall’arcivescovo: secondo una lettera dell’aprile 1702 il numero dei convertiti era già salito a 1.000, in un’altra del primo luglio dello stesso anno si parlava di 1.500 apostasie e appena tre giorni dopo, il 4 luglio, di circa 2.000 (Bartl 1975-1979 I, pp. 38-45). Il numero di islamizzati pare così essersi quadruplicato nel giro di soli quattro mesi. Anche a non voler credere alla precisione delle cifre di Zmajević, rimane il fatto che l’ordine da Istanbul aveva avuto un effetto dirompente per la Chiesa cattolica. Fu proprio Vicko Zmajević, che evidentemente si rendeva conto in prima persona della gravità del problema, il primo a decidersi a intraprendere un’azione più decisa nei riguardi dei “cristiani occulti”. Dopo che il suo parente e predecessore Andrija Zmajević aveva emanato un decreto che condannava i criptocristiani (Malcom 1999, p. 167) Criptocristianesimo in Kosovo nel XVIII secolo – evidentemente senza troppo successo –, egli decise che il problema andava risolto una volta per tutte. Spedì una lettera circolare a tutto il clero di “Servia, Macedonia e Albania”, annunciando un concilio generale per “proteggere e rafforzare la Fede in Albania, cancellare i vizi nocivi ed estirpare le cattive abitudini” (Gashi 1994, p. 53). Il concilio si tenne nel 1703 ed è oggi noto come “Primo Concilio Albanese”. Condannava aspramente ogni manifestazione nascosta della fede cattolica senza una dichiarazione pubblica e intendeva inoltre porre fine alla diffusissima pratica di conferire i sacramenti anche a coloro che non si professavano apertamente cristiani (Gashi 1994, pp. 53-54; Frazee 1983, p. 168; Skendi 1967, p. 237; Stadtmüller 1956, pp. 68-91). Nonostante il suo carattere solenne, il Concilio non sembra aver avuto un effetto immediato né in Albania né nella diocesi di Skopje. Un ventennio più tardi lo stesso Zmajević compì una visita delle diocesi sotto il dominio ottomano e constatò con disappunto che i criptocristiani venivano quasi sempre ancora ammessi ai sacramenti. Inoltre il numero dei “cristiani occulti” era aumentato di molto per effetto della guerra turco-veneziana del 1715-1718 e del conseguente inasprimento dell’atteggiamento ottomano nei confronti dei cristiani (Bartl 1975-1979 I, p. 117). Nel 1726 si comunicava nuovamente dall’Albania che il decreto con il quale si proibiva ai cattolici albanesi di fingersi musulmani davanti ai “turchi” era di difficile esecuzione e si chiedevano istruzioni differenti (Acta 96.56r). La relazione trasmessa a Roma nel 1743 dal nuovo arcivescovo di Skopje, Nikolović dipinse un quadro della situazione nella sua missione che suscitò grande allarme all’interno della Sacra Congregazione. L’arcivescovo comincia con il dire che all’interno del suo gregge di fedeli è opportuno operare una fondamentale distinzione tra credenti “occulti” e credenti “palesi”. Sembra anche alludere a un diverso grado di occultamento della fede all’interno della comunità stessa dei criptocristiani, dal momento che dapprima afferma che l’adesione alla fede cattolica viene mantenuta nell’assoluta segretezza (“professano interiormente la Fede Cristiana, ma tanto nascostamente, che talvolta il Padre non si palesa ai Figli, ne i Figli al Padre, e nell’esterno si mostrano, e si fanno crede- 107 n.20 / 2008 re per Turchi”) (SC Servia I.317r), mentre solo poche righe dopo parla di una fedeltà al cristianesimo pochissimo dissimulata, perlomeno tra le mura domestiche (“nelle loro case professano la Fede Cristiana, battezzano i loro Figli, ai quali continuamente inculcano la costanza in simil Fede di Cristo”). La negazione pubblica della fede non era l’unico aspetto di una situazione drammatica dal punto di visto dell’ortodossia dottrinale: ai criptocristiani venivano inoltre regolarmente somministrati i sacramenti (SC Servia I.317v), i cadaveri dei cattolici venivano lavati come nella tradizione musulmana (SC Servia I.321v), le coppie cattoliche si sposavano davanti al cad” prima che davanti al prete (ciò per dare maggiore validità al contratto ed evitare che le mogli venissero rapite) (SC Servia I.319v), i matrimoni misti tra donne cattoliche e uomini musulmani erano all’ordine del giorno (ve ne erano anche tra uomini cattolici e donne musulmane, nonostante fossero proibiti dalla legge). Proprio la situazione delle donne era la più delicata. A detta di Nikolović-Kazazi, esse venivano concesse ai musulmani per la paura dei padri di essere riconosciuti come cristiani, oppure per legami di amicizia o di interesse, oppure venivano semplicemente prese con la forza (SC Servia I.318v). I casi di rapimento erano allora sorprendentemente frequenti: nella parrocchia della Skopska Crna Gora, ad esempio, tra la seconda metà degli anni Settanta e la prima metà degli anni Ottanta del XVIII secolo i musulmani albanesi gestivano con una certa regolarità una sorta di “racket” dei matrimoni, in base al quale, se un padre cattolico voleva dare in sposa la figlia, doveva pagare perché questa non fosse rapita e data in sposa a chi decidevano i suoi rapitori, di solito a musulmani (SOCG 847.604r; 859.465r-465v; 872.144v-146r). Il visitatore apostolico Pjetër Mazreku nella prima metà del XVII secolo scrisse che i matrimoni misti tra membri di religioni differenti erano proibiti e che il prete che avesse celebrato un’unione di questo genere sarebbe stato punito dalla legge ottomana (“Sarebbe di mala maniera castigato quel Prete, ch’hauesse ardire d’assistere à un contratto matrimoniale fra Turco et Christiana; poiché quando un Turco volesse pigliar una Cristiana per forza ò per consenso di lei, meritaria pena capitale per legge Turchesca, si 108 servisse in tal caso di Prete catolico”) (Draganović 1938, p. 14), ma, se pure una legge così ci fosse mai stata, i documenti in esame dimostrano che essa era assai poco rispettata. Sebbene queste donne quasi sempre non si convertissero all’Islam dopo il matrimonio, non assumessero un nome musulmano e conservassero tutte le abitudini anche esteriori del cattolicesimo (messe, digiuni, confessioni, ecc.), esse venivano comunque considerate dalle autorità ecclesiastiche come viventi in stato di concubinato, dal momento che il loro matrimonio non aveva alcun valore agli occhi della Chiesa cattolica. La questione era stata già esaminata dal sinodo di Shkodër del 1678 e queste unioni erano già state dichiarate proibite (Zefi 2006, p. 153). Nikolović-Kazazi mostra tuttavia una notevole comprensione per la situazione difficile di queste credenti, le quali facevano il possibile per rimanere cristiane, ma trovavano spesso l’ostacolo maggiore proprio nella Chiesa alla quale si rivolgevano. Il clero della diocesi di Skopje, che comprendeva la situazione difficile di molte delle proprie fedeli, aveva deciso autonomamente nel 1728 di riammettere ai sacramenti le mogli cattoliche dei musulmani, come spiega l’arcivescovo: “A tali donne i Missionari non amministrarono i Sagramenti sino all’anno 1728, perche le giudicavano come in Stato di Concubinato: ma molte di queste dopo avere aspettato molti anni, vedendosi escluse dalla Chiesa, per disperazione rinegavano la Fede” (SC Servia I.318v). Nikolović-Kazazi era ben cosciente della reazione negativa che questo “lassismo” avrebbe provocato a Roma, tuttavia si spinse perfino a proporre alla Congregazione di emanare un decreto che permettesse di amministrare i sacramenti a queste donne, il che andava apertamente contro le reiterate indicazioni del Vaticano. Motivò la sua proposta facendo notare che questi legami matrimoniali interreligiosi non erano equivalenti al concubinato, dal momento che erano stipulati con dei contratti civili di matrimonio, per quanto appartenenti a un sistema legislativo basato in gran parte sulla dottrina coranica (SC Servia I.319r). In caso contrario, affermava, il pericolo immediato era di perdere moltissime buone cattoliche che si vedevano abbandonate dal clero. Il Vaticano non si mostrò mai molto incline a queste concessioni, Luca Ma iocchi neanche quando l’arcivescovo illustrò i casi di donne per le quali il marito cattolico aveva acconsentito a sposarsi secondo il rito cattolico, in modo da non far perdere alla propria moglie la possibilità di ricevere i sacramenti. Anche questa volta la risposta da Roma fu no: la donna era comunque ritenuta indegna, in quanto compiva atti di fornicazione con un “turco” (SC Servia I.446v). Più in generale, il pericolo di allontanarsi gradualmente dalla fede era corso anche dalle migliaia di criptocristiani presenti nella diocesi. Nella sua relazione Nikolović-Kazazi cerca dapprima di difendere l’operato dei suoi parroci (tra i cui quali figura già anche Mazarek) nei loro confronti, trincerandosi dietro a una presunta vaghezza dei regolamenti. In seguito, pur con molto tatto, suggerisce velatamente di permettere ai preti locali di continuare a seguire una linea morbida con i “cristiani occulti”, in modo da tenerli – per quanto solo a metà – nel campo cattolico e non lasciarli scivolare inevitabilmente verso la piena islamizzazione: “L’Esponente pertanto senza entrare a discutere, se le d.te canoniche disposizioni [riguardanti i criptocristiani] siano chiare, o ambigue, rappresentando lo Stato, e la prattica di quei Cristiani, e dei Sagri Ministri, poneva in considerazione, che non essendovi modo di ritrarre i detti Cristiani dall’indicato loro vivere, qualora gli si negassero i Sagramenti, e gli si dicessero di nulla giovargli tal professione di Fede, e gli si negasse l’applicazione delle Messe per l’anime dei loro Defonti, disperati si sarebbero affatto separati con le loro famiglie di generazione in generazione dalla Fede Cattolica; onde in tale stato di cose chiedeva alla Santità Vostra un’ordine chiaro, e chiarissimo di non ammettere tali Cristiani alla participazione de SS. Sagramenti; poiché non emanando tal’ordine positivo, non permetterebbero i Sagri Operarj, che tante migliaia d’Anime si allontanassero affatto dalla S. Fede, e le ammetterebbero ai SS. Sagramenti, come fin’a quel tempo avevano fatto” (SC Servia I.317v-318r). Un simile atteggiamento comprensivo, di parziale giustificazione dei criptocristiani, si era registrato negli anni immediatamente successivi al Concilio Albanese anche da parte di vari vescovi presenti in zone abitate da albanesi. Ad essi, però, il Santo Uffizio mandò due istruzioni, nel 1724 e nel 1730, sostenendo che i Criptocristianesimo in Kosovo nel XVIII secolo “cristiani occulti” non erano in alcun modo giustificabili, dal momento che le tasse imposte dagli ottomani non erano poi così alte e che era noto che la Porta garantiva una certa libertà religiosa. Nel caso la pressione fiscale si rivelasse insostenibile, il consiglio del Santo Uffizio era di emigrare (Vienna 57.111r-118r; Zefi 2006, 166-169). La descrizione di Nikolović-Kazazi delle ripetute irregolarità dottrinali commesse nella diocesi di Skopje giunse fino a papa Benedetto XIV, il quale reagì immediatamente emanando il 2 febbraio 1744 una lettera apostolica dal titolo Inter omnigena s ca la mita tes (è la “Bolla di Felice Mem. Benedetto XIV” citata da Mazarek). La lettera ribadiva in pratica le disposizioni del Concilio Albanese, mettendo l’accento sull’interdizione dei sacramenti per le donne sposate con musulmani, anche nel caso in cui avessero mantenuta intatta la fede cattolica e fossero state riconosciute come mogli legittime dallo Stato ottomano. Si ripeteva inoltre la proibizione del battesimo per i figli di matrimoni interreligiosi, a meno che non fosse assicurato che i bambini avrebbero ricevuto un’educazione cristiana (SC Servia I.362r-365r). Il richiamo all’ordine da parte del Papa non poté venire ignorato dal clero di “Servia”: già in una relazione del 1749 Nikolović-Kazazi dichiara che tutti i criptocristiani sono stati privati dei sacramenti “con eterna lor disperazione”, anche se, a dire la verità, non dice che provvedimenti siano stati presi per le altre irregolarità descritte nel rapporto del 1743 (SOCG 741.43r). Ciononostante, le stesse indicazioni contro i “cristiani occulti” dovettero essere ripetute nel 1754, nell’enciclica Quod provincia le, specificando che era assolutamente proibito abbandonare il proprio nome di battesimo per assumerne uno di origine araba, dunque musulmano (Acta 133.319v-320r). Gli ordini da Roma erano senz’altro chiari, ma nel caso della diocesi di Skopje caddero nel vuoto, dal momento che fino all’avvento di Mazarek non ci fu nessun arcivescovo in grado di imporne l’applicazione. La persona che ai tempi della pubblicazione della Quod provincia le avrebbe dovuto assumersi quel compito era il predecessore di Mazarek, Toma Tomičić, il quale però non esercitò mai veramente la propria autorità nella diocesi. 109 n.20 / 2008 2.Mazarek e i “cristiani occulti” Così, al momento del suo insediamento il giovane arcivescovo Mazarek aveva l’onere di rimediare a una situazione sfuggita al controllo delle autorità religiose da più di un decennio. Non a caso la relazione della sua prima visita diocesana contiene ampi passaggi incentrati sul problema dei criptocristiani. In uno di questi brani egli cerca di dare una spiegazione puramente economica e sociologica del fenomeno: “Il Regno di Servia per esser un Paese fertilissimo, et abbondantissimo di frumenti, armenti, e di ogni altra cosa, perciò continuamente vengono molte familie cattoliche dalle montagne di Albania, li quali per esser di natura calida, iraconda, e superba, facilissimi alli omicidj, non sofrono di esser calpestati dalli Turchi, come ci insegna il Santo Evangelio, non umiliandosi al tributo ottomano, sempre di giorno, e di notte vanno armati, per un minimo affronto di parole, e di fatti si amazzano, perciò subito venuti disgraziati nella nostra Servia muttano li nomi, del resto desiderando di voler mantenere con il cuore la Fede di Cristo, e quanto sia possibile astenersi dalli esercizj turcheschi. Ma li astuti turchi di Servia accorgendosi della loro astuzia, et insieme superbia, subito li mandano il loro Hocia sforzandoli à circoncidersi, à biasimar la S. Fede, alzando il dito, li sforzano di venire ogni venerdì nelle loro Moschee ad esercitare quelli loro esercrandi Riti: La onde facendosi li uomini turchi, per timore, vergogna, e superbia, uno dall’altro pervertono anche lo loro mogli, e figlj, eccettuatene alcune buone vechierelle, le quali in nisun conto vogliono abbandonar la S. Fede” (SOCG 792.146r). Dunque Mazarek sembra inquadrare con precisione chi sono i suoi fedeli che più spesso cadono nella tentazione del criptocristianesimo: gli albanesi che dalle zone montuose dell’Albania settentrionale (Malësi) scendono nelle pianure del Kosovo. Attenendosi all’analisi fornita dall’arcivescovo, il loro processo di islamizzazione può brevemente essere riassunto nei seguenti punti: 1- I nuovi arrivati si rifiutano di pagare la cizye (la tassa sui non-musulmani) a causa, dice Mazarek, della loro natura arrogante. 2- Inizialmente si convertono solo esteriormente 110 all’Islam tramite l’escamotage del criptocristianesimo (“subito venuti disgraziati nella nostra Servia muttano li nomi, del resto desiderando di voler mantenere con il cuore la Fede di Cristo, e quanto sia possibile astenersi dalli esercizj turcheschi”). 3- Dopo qualche tempo i religiosi musulmani li costringono a convertirsi completamente. 4- Una volta convertiti, gli uomini tentano di islamizzare le proprie mogli e i propri figli. 2.1.La questione fisca le Il primo punto introduce un problema fondamentale: la cizye, ovvero l’imposta sui cittadini maschi non musulmani (zimmi ). Nel sistema ottomano ogni suddito di religione non islamica era tenuto al pagamento di una somma forfettaria che nel corso dei secoli andò lievitando a volte in maniera molto brusca. Secondo studi recenti, al momento della conquista turca dei Balcani questa tassa si presentò semplicemente come un prolungamento dell’imposta sul ricavato del contadino, la quale era applicata sul territorio già da lungo tempo. All’inizio della dominazione ottomana la cifra annua restò ferma sulla singola moneta d’oro pro capite, nonostante secondo la legge shariatica gli amministratori musulmani avessero il diritto di esigere fino a quattro monete d’oro (Minkov 2004, p. 33). Sebbene il sistema legislativo ottomano fosse ben lungi dall’essere un modello di tolleranza verso i cristiani, la concezione della cizye non era quella di un onere fiscale aggiuntivo per cittadini “inferiori”, ma essa veniva piuttosto vista come una tassa che compensava il servizio militare che i rea ya cristiani, a differenza di quelli musulmani, non erano tenuti a prestare (Jelavich 1983 I, p. 60). Tuttavia, all’epoca di Mazarek la cizye era aumentata esponenzialmente, tanto da diventare spesso un fardello insostenibile per i contadini cristiani. é dunque logico supporre che il desiderio di liberarsi di questa tassa spingesse molti a convertirsi all’Islam. Secondo alcuni studiosi l’aumento della cizye era uno strumento della politica di conversione messa in atto dalla Porta (Jelavich 1983 I, p. 81), mentre secondo altri la crescita di questa imposta era dovuta semplicemente al bisogno immediato di denaro della macchina statale e all’inflazione (Minkov 2004, pp. 95-96): lo Stato ottomano, infatti, non aveva nessun interesse a far Luca Ma iocchi convertire i propri sudditi cristiani, dato che si sarebbe così privato di una fetta importante delle proprie entrate in bilancio (nel 1527, cioè in un’epoca in cui la cizye era piuttosto ridotta, questa tassa forniva il 42% delle entrate della parte europea dell’impero) (Castellan 1999, p. 143). Una prova dello scontento dei governatori ottomani di fronte alle conversioni all’Islam viene proprio dal Kosovo: nel 1706 da Istanbul vennero inviati firmani ai pascià di Scutari, Dukagjin e Prizren, con l’ordine di riscuotere la cizye dai cittadini cristiani; poco dopo gli abitanti di Djakovica protestarono perché il governatore di Prizren li minacciava dichiarando che era inutile che si convertissero all’Islam per evitare di pagare le tasse, perché la cizye sarebbe stata richiesta anche ai nuovi musulmani (Tričković 1989, p. 145). Dunque, perlomeno in quella regione, le autorità scoraggiavano l’islamizzazione per motivi finanziari ed erano ben coscienti del fatto che molto spesso ci si faceva musulmani soltanto per motivi economici e non certo per intima convinzione. Già all’inizio del XVII secolo il governatore di Dhurrës aveva reagito duramente a queste conversioni “interessate”, addirittura raddoppiando le tasse a un villaggio che si era convertito in blocco per non pagare (Rački 1888, p. 106). é evidente che le autorità non premevano per la conversione all’Islam, e questo, più che per una filosofia politica di tolleranza, per una mera questione di contabilità. Ad ogni modo, la situazione nel XVIII era profondamente cambiata: la frammentazione e il decentramento del potere ottomano avevano un effetto anche sulla tassazione. Il carico fiscale a cui era sottoposto un contadino cristiano ai tempi dell’arcivescovo Mazarek (escluse le tasse straordinarie che ormai nel XVIII secolo erano diventate la norma) (İnalçık 1985, pp. 313-318) era diviso sostanzialmente in due: una parte al padrone della terra, o meglio a colui il quale aveva il diritto alla riscossione delle tasse su di essa, che quasi sempre si identificava con il signore locale, e una parte direttamente all’erario statale (Pulaha 1988, p. 459). Di quest’ultima quota faceva parte la cizye. Ne risulta che i maggiorenti locali non avevano interesse a fare sì che i cristiani pagatori di cizye restassero fedeli alla loro religione, dal momento che ad essi non veniva in tasca un soldo Criptocristianesimo in Kosovo nel XVIII secolo (McGowan 1981, p. 68). Sebbene i documenti in nostro possesso non presentino prove sufficienti per affermare che la mancanza di questo freno inibitore abbia dato luogo a una sistematica campagna di islamizzazione forzata da parte delle autorità territoriali, ciò non toglie che chi si occupava di riscuotere le tasse non si preoccupasse minimamente di alleggerire la pressione sui cristiani per non perdere gli introiti della tassa sugli zimmi . Dunque il desiderio di sottrarsi alla cizye rimane come motore principale dell’ondata di conversioni che decimò la popolazione cattolica del Kosovo a partire dalla fine del XVI secolo. Ovviamente questo fenomeno non interessò esclusivamente il Kosovo, ma è innegabile che fu particolarmente intenso nei territori abitati da albanesi. A questo punto sorgono alcuni interrogativi: se la pressione fiscale era identica per tutti i non musulmani in tutta la regione, perché i cattolici erano più propensi alla conversione rispetto agli ortodossi? E per quale ragione i “vecchi” cattolici della diocesi accettavano di pagare la cizye pur di mantenere la propria fede, mentre gli immigrati dal Malësi tendenzialmente si rifiutavano? é stato fatto notare che gli ortodossi erano sottoposti a un carico fiscale ancora maggiore rispetto ai cattolici, dal momento che, oltre alle tasse dovute allo Stato ottomano, dovevano pagare anche le imposte richieste dalle proprie autorità ecclesiastiche (Minkov 2004, p. 95). In teoria, dunque, sarebbero dovuti essere loro i primi a farsi musulmani. Il ragionamento in termini economici è corretto, ma dalle testimonianze dei sacerdoti cattolici della diocesi di Skopje sembra emergere una presenza incontestabilmente maggiore del clero ortodosso in Kosovo, il che può aver significato per i fedeli ortodossi un maggior “ancoraggio” alla propria fede che può averli aiutati a resistere e a non convertirsi. La forte presenza sul territorio dei preti e dei vescovi ortodossi, inoltre, doveva garantire non solo una migliore assistenza spirituale per i fedeli, ma anche un peso e una protezione politica maggiori, tanto più che il millet ortodosso, a differenza di quello cattolico, era ufficialmente riconosciuto dalla Porta e dunque i suoi appartenenti godevano di una posizione giuridica meglio definita di quella dei cattolici. In definitiva, non è errato supporre che perlomeno in Kosovo, dove la pre- 111 n.20 / 2008 senza del clero cattolico era molto poco ramificata, gli ortodossi si trovassero in una posizione meno esposta ai soprusi e alle tasse irregolari, o perlomeno avessero l’appoggio di una comunità più ampia. Questi fattori sociologici e politici possono aver controbilanciato il maggior carico fiscale che dovevano sostenere e dunque possono aver contribuito a ridurre il numero di conversioni dall’ortodossia all’Islam. Che gli ortodossi fossero meno propensi ad abbracciare l’Islam era un fatto noto alla Congregazione, la quale scriveva a Mazarek dicendo che i cattolici avrebbero dovuto essere ancora più saldi nella fede degli “scismatici”, i quali, a detta dei cardinali romani, non si convertivano mai (Urošević 1934, p. 166). Per quanto riguarda l’evidente differenza che emerge dai rapporti di Mazarek tra cattolici “di vecchia data” saldi nella fede e immigrati dalle diocesi albanesi che si convertivano immediatamente, partiremo dalla spiegazione data dallo stesso arcivescovo in relazione all’episodio del ragazzo criptocristiano presentato all’inizio dell’articolo: “Il motivo perche si fanno così facilm.te li detti albanesi turchi proviene, come dissi, dalla loro perversa, e superba natura, e non, perche non siano bene instruiti nella S. Fede, essendo bene imbevuti nella Fede Cristiana” (SOCG 792.145v). L’individuare la causa dell’islamizzazione nel carattere e nel comportamento collettivo di un popolo sembra però decisamente in contrasto con una motivazione economica piuttosto evidente: nel caso degli immigrati dal Malësi la volontà di evitare le tasse era senz’altro accresciuta dal fatto che gli abitanti di quella regione montuosa erano abituati fin dai primi tempi della conquista turca a subire una pressione fiscale davvero lieve, ed è quindi logico supporre che la cizye o qualsiasi altra imposta venisse loro richiesta sulla nuova terra dovesse apparire ai loro occhi come un intollerabile sopruso (Pulaha 1988, p. 507). Eppure l’analisi di Mazarek, il quale altrove pur non trascura il lato economico, ha il merito di presentare anche l’aspetto psico-sociologico della questione delle conversioni “facili” degli albanesi. Anche gli slavi cattolici erano oppressi dalla pressione fiscale, tuttavia essi furono molto meno propensi alla conversione. Questa differente “resistenza” religiosa dei due gruppi etnici è innegabile. In effetti il cattolicesimo 112 in tutta l’Albania subì molto presto un brusco crollo in seguito alla conquista ottomana, con un numero di conversioni paragonabile solo a quello della Bosnia, e tutto ciò nonostante la comunità cattolica albanese fosse in posizione migliore di altre per resistere, dati i suoi continui rapporti con Ragusa, Venezia, Roma e Napoli (Zefi 2006, p. 96). Presentiamo qui solo alcuni dati che forniscono un’idea dell’avanzata eccezionalmente rapida della religione musulmana nelle terre albanesi. In queste zone il tasso di conversione all’Islam ebbe un incremento davvero impressionante nel corso dei secoli: secondo i dati del Vaticano tra il XVI e il XVII secolo la percentuale degli albanesi islamizzati non superava ancora il 30% (Zefi 2006, p. 69); nel 1610 l’arcivescovo Marino Bizzi sostanzialmente confermò questo dato, riferendo che gli albanesi cristiani erano dieci volte di più di quelli musulmani (Rački 1888, p. 139). Il punto di svolta, il momento decisivo fu la guerra turco-veneziana del 1645-1669, contemporaneamente alla quale si verificarono persecuzioni ai danni degli albanesi cattolici tali da fare scendere il loro numero totale da 350.000 a 50.000 (Zefi 2006, p. 73). Alcuni vedono la spiegazione di questo crollo e della poca resistenza all’islamizzazione nell’insufficiente presenza del clero cattolico sul territorio: la mancanza di preti che agissero a sostegno dei fedeli avrebbe allentato i legami tra la popolazione e la fede cattolica, rendendo così più facile il passaggio all’Islam (Zefi 2006, p. 100; Malcom 1999, p. 147). Un’analisi differente, invece, viene proposta da Skender Rizaj, il quale spiega il gran numero di conversioni in termini di “carattere popolare”: gli albanesi sono stati da sempre molto più attaccati alla loro identità etnica (o addirittura nazionale) che a quella religiosa; di conseguenza per loro “essere albanesi” riveste molta più importanza rispetto a “essere cattolici” (Rizaj 1985, pp. 129130). Tanto più che gli albanesi, a differenza, ad esempio, dei serbi, non hanno mai avuto una chiesa nazionale che potesse fungere da polo identitario (Elsie 2004, p. 81). Dunque il cambio di fede non ha implicato per essi un senso di perdita di identità, il che ha agevolato l’islamizzazione e l’ha resa assai meno scioccante che per gli slavi ortodossi (e anche, evidentemente, per gli slavi cattolici). C’è da aggiungere che la forte struttura a clan Luca Ma iocchi degli albanesi può avere giocato un ruolo di coesione e di identificazione più significativo del sentimento di unità nazionale leggermente anacronistico a cui fa riferimento Rizaj. Nel corso dell’Ottocento, infatti, di fronte al crescere delle entità nazionali serba e greca, crebbero di forza anche i legami tra le tribù albanesi di religioni differenti e scemarono i conflitti legati alla diversità delle fedi (Koliqi 1972, pp. 158-160). Questa interpretazione trova eco nella testimonianza della viaggiatrice inglese Georgine Muir Mackenzie, la quale, passando per il Kosovo all’inizio degli anni ’60 del XIX secolo, riporta l’episodio di un musulmano albanese che intercede per un connazionale cattolico; ella sostiene che sia un fatto noto in quei luoghi che un albanese si schiera sempre dalla parte di un altro albanese, che abbia o meno la sua stessa religione (Muir Mackenzie 1877 II, p. 85). In generale, la fede pare essere un elemento di importanza minore per gli albanesi che per i loro vicini slavi, anche se alcuni attriti tra vari gruppi religiosi albanesi persistono tuttora e sembrano smentire parzialmente questa affermazione (Duijings 2000, pp. 158-164). La freddezza degli albanesi verso la religione è confermata dai documenti vaticani dell’epoca, in particolare per quanto riguarda proprio gli abitanti del Malësi. L’arcivescovo di Shkodër nel 1784 scriveva: “Generalmente il Clero, ed i Cattolici sono edificanti, e fervorosi prescindendo dai Montagnoli [abitanti del Malësi] assai indifferenti agli Atti di Religione” (Acta 156.190r). Nel caso del Kosovo degli anni di Mazarek, l’ipotesi della scarsità di sacerdoti albanesi come giustificazione per l’islamizzazione rapida degli immigrati dal Malësi regge poco: praticamente tutti i preti presenti nella diocesi di Skopje erano albanesi, eccezion fatta per l’arcivescovo stesso e per suo fratello Josip, dei quali sappiamo con certezza che erano di lingua madre slava. Né si può addurre una carenza di insegnamento dottrinale già nelle zone di provenienza, dal momento che l’Albania settentrionale era relativamente ben fornita di clero cattolico e Mazarek specifica esplicitamente che i nuovi arrivati già avevano ricevuto un’adeguata assistenza spirituale (“non, perche non siano bene instruiti nella S. Fede, essendo bene imbevuti nella Fede Cristiana”). Restano dunque la motivazione econo- Criptocristianesimo in Kosovo nel XVIII secolo mica (il rifiuto di pagare le tasse sui non musulmani) e quella psicologica (il poco attaccamento alla religione). Ebbene, a giudizio dell’arcivescovo questi due fattori insieme erano le cause fondamentali delle conversioni degli immigrati albanesi in Kosovo, uno visto come la conseguenza dell’altro (“per esser di natura calida, iraconda, e superba [...] non sofrono di esser calpestati dalli Turchi, come ci insegna il Santo Evangelio, non umiliandosi al tributo ottomano”). 2.2.Da “pa lesi” a “occulti” Per capire le dinamiche del passaggio dal cristianesimo al criptocristianesimo va fatta una distinzione tra i concetti di “criptocristianesimo autentico” e “conversione incompleta”. Il primo termine implica il mantenimento di una separazione netta tra Islam e religione cristiana (nella fattispecie, cattolica): chi si converte è perfettamente conscio di stare semplicemente fingendo di essere musulmano, mentre in privato mantiene la sua fede originaria al riparo da ogni influenza o contaminazione dottrinale; c’è la consapevolezza di stare mettendo in atto un semplice espediente che non andrà ad intaccare le convinzioni più profonde. “Conversione incompleta”, invece, significa un passaggio da un’idea spuria e confusa di cristianesimo a una forma ugualmente inesatta di Islam, senza che avvenga alcun cambiamento sostanziale nelle credenze religiose individuali: il processo di conversione non si completa e il soggetto rimane “a metà strada” tra una religione e l’altra, accettando pratiche e credenze di entrambe e spesso confondendole e mescolandole. Questo processo è ben descritto da P.F. Sugar, il quale, parlando della penetrazione della religione del conquistatore nei Balcani ottomani, scrive: “Ciò che ne emerse fu una curiosa varietà di ‘Islam folclorico’ europeo, o piuttosto balcanico, che includeva icone, il battesimo come prevenzione delle malattie mentali e molte altre caratteristiche sostanzialmente non musulmane. Non era difficile per i cristiani che avevano una fede superstiziosa e folclorica passare a una versione folclorica dell’Islam simile ma più sicura” (Sugar 1977, pp. 53-54). Più sicura, naturalmente, perché garantiva un migliore status sociale ed economico. Insomma, perché non convertirsi a una religione che sottrae al pagamento di una 113 n.20 / 2008 tassa, se ciò non implica alcun mutamento significativo delle intime credenze religiose? Una situazione parallela che esemplifica questi due diversi modi di seguire contemporaneamente due fedi è quella dei ma rra nos spagnoli. Anche nella Spagna che veniva gradualmente riconquistata agli arabi molti appartenenti a una comunità religiosa minoritaria, quella ebraica, dissimulavano la propria religione fingendosi convertiti al cristianesimo per ottenere un avanzamento sociale. Nel loro caso si è operata una distinzione teorica tra “biconfessionalismo transitorio” e “biconfessionalismo stabile”. Il primo nasce da uno stato confusionale che colpisce le classi più deboli; la separazione tra la sfera interiore e quella esteriore viene meno, il cristianesimo da osservare in pubblico e l’ebraismo privato si confondono e il risultato è spesso la conversione totale, o quasi, al cristianesimo per motivi di opportunità, pur senza avere piena coscienza del processo – è in sostanza una situazione simile alla conversione imperfetta. Nel biconfessionalismo stabile, invece, le due fedi rimangono distinte all’interno dei loro ambiti, senza che ciò rappresenti l’anticamera della conversione interiore – in campo cristiano si potrebbe parlare in questo caso di criptocristianesimo autentico (Didier 1981, pp. 81-82). é chiaro che per essere un vero criptocristiano che rifiuta interiormente la religione che professa esteriormente bisogna avere una forte base dottrinale e filosofica. Nell’Occidente della Riforma questa pratica ebbe una sua formulazione teorica nel nicodemismo predicato in Germania da Brunfels, secondo l’idea che Dio legge in ogni caso nell’animo umano e dunque è lecito dissimulare e fingere di abbracciare un’altra religione quando non c’è più speranza, perché Dio saprà distinguere la fede che ognuno porta nel cuore (Ginzburg 1970, p. 68). I casi descritti da Mazarek sembrano a volte indicare una via di mezzo tra criptocristianesimo autentico e conversione imperfetta, un cambiamento di religione che assume significati diversi con l’andare del tempo: mentre le parole dell’arcivescovo del 1760 sulla volontà degli immigrati albanesi di mantenersi cristiani fanno pensare a un caso di criptocristianesimo autentico (si convertono “desiderando di voler mantenere con il cuore la Fede di Cristo, e quanto sia possibile astenersi dalli esercizj 114 turcheschi”), dall’altra parte i suoi rapporti successivi riguardanti questi nuovi islamizzati puntano decisamente verso la conversione incompleta. Dunque, almeno inizialmente, la dissimulazione della fede appare come pienamente consapevole, con l’Islam e il cristianesimo che rimangono ben distinti all’interno delle rispettive aree “di competenza”: la vita pubblica per l’Islam e quella privata per la religione cristiana. Per quanto Mazarek dichiarasse che i nuovi arrivati dall’Albania avevano inizialmente una fede cattolica incontaminata, formata secondo i dettami della Chiesa – dunque non una “variante folclorica” disordinata e superstiziosa – è certo che, una volta convertitisi all’Islam, la loro pratica della religione musulmana era molto simile a quella poco ortodossa descritta da Sugar come “Islam folclorico”, con una commistione piuttosto caotica di elementi religiosi eterogenei. A proposito dei musulmani albanesi è stato detto che essi non rientravano perfettamente nell’idea di conversione incompleta, ma costituivano piuttosto una classe particolare, quella degli “opportunisti”, i quali non credono veramente in nessuno degli insegnamenti fondamentali né del cristianesimo né della religione musulmana, ma piuttosto tendono ad accettare solo alcuni elementi superficiali di entrambe le fedi, scelti a seconda delle necessità immediate, sotto forma di superstizione. Sarebbe così scorretto parlare in questo caso di conversione incompleta, dal momento che l’islamizzazione appare piuttosto come il risultato di un atteggiamento di sostanziale indifferenza, o come conseguenza del semplice desiderio di prendere il meglio da entrambe le fedi, senza sceglierne veramente una (Dawkins 1933, p. 270). La stessa opinione sulla spiritualità della popolazione albanese era condivisa dalla Muir Mackenzie, la quale notava che la fede islamica degli albanesi convertiti era frutto unicamente di interesse materiale, non aveva un vero fondamento dottrinale e non costituiva un ostacolo insormontabile per un eventuale ritorno al cristianesimo. La Mackenzie definiva il credo degli albanesi “nessun credo a parte l’interesse personale”, un’idea che solo per questioni di convenienza veniva chiamata “Islam” (Muir Mackenzie 1877 I, p. 226; II, p. 87). Anche il barone de Boislecomte, che nel 1834 visitò l’alta Albania e stese su di essa un lungo rapporto per il Luca Ma iocchi governo francese, notò che il passaggio all’Islam in quelle terre era tutt’altro che sincero e che aveva come motore principale l’interesse. Ad ogni modo, aggiungeva, la religione musulmana che veniva lì praticata era priva del carattere inclusivo e dominante che aveva in altre parti dell’impero ottomano (Turquie, pp. 187r-187v). Sostanzialmente dello stesso parere era anche l’arcivescovo Mazarek, il quale scrisse in una lettera che i suoi diocesani albanesi non erano né cristiani, né musulmani, ma usavano le convinzioni religiose ora di una fede, ora dell’altra, a seconda di come tornava loro comodo (SC Servia III.156v). Queste divisioni tra le diverse classi di criptocristiani (autentici, convertiti imperfetti, opportunisti) non sono solo distinzioni storiografiche scritte da studiosi vissuti secoli dopo gli anni in cui questi problemi si presentavano. Ritroviamo più o meno gli stessi distinguo anche nei documenti del periodo in esame. La prima relazione di Mazarek non doveva avere lasciato le autorità vaticane troppo tranquille, dal momento che nel 1762 giunse a Roma il vicario dell’arcivescovo, Gjon Logoreci, presentando alle autorità due rapporti che avevano come oggetto proprio i criptocristiani e la commistione religiosa con le altre fedi, in risposta a una precisa richiesta della Congregazione. In uno di questi rapporti Logoreci specifica che nella sua diocesi esistono tre tipi differenti di “cristiani occulti”, termine con cui egli identifica tutti coloro che assumono un nome musulmano: a) battezzati, ma che osservano i riti islamici. b) battezzati, che non osservano i riti islamici né quelli cristiani. I musulmani sanno perfettamente che non appartengono alla loro comunità e li chiamano ka ur , “infedeli” (Logoreci traduce con “cristiani”). c) persone che di musulmano hanno solo il nome, mentre professano apertamente la fede cristiana, osservandone coscienziosamente i riti. Costoro sono riconosciuti come cristiani da tutti i musulmani, comprese le autorità (SOCG 798.413r-414r). Gli appartenenti al primo gruppo potrebbero essere sinceramente convertiti all’Islam, ma potrebbero anche essere criptocristiani autentici che limitano l’osservanza della religione cattolica al privato e pubblicamente si attengono scrupolosamente ai riti musulmani. Coloro che fanno parte del secon- Criptocristianesimo in Kosovo nel XVIII secolo do gruppo, invece, sembrano essere sostanzialmente areligiosi, dal momento che non abbracciano formalmente nessuna delle due fedi; tanto è vero che la comunità musulmana continua a considerarli come cristiani. Tuttavia, il fatto che questi individui adottino un nome musulmano e allo stesso tempo si considerino cristiani pur senza rispettare i riti religiosi fa pensare a una certa noncuranza per le questioni di fede, il che ricorda allo stesso tempo le tesi dell’opportunismo e della conversione imperfetta. Logoreci confessa che a queste persone sono sempre stati dati regolarmente i sacramenti nella diocesi di Skopje, e spiega che ciò è stato fatto perché tutti costoro giurerebbero davanti alla giustizia turca di essere cristiani, se venisse loro posta una domanda esplicita. Questa previsione del vicario lascia perplessi: non si vede, infatti, quale sarebbe il senso dell’assumere un nome musulmano per ragioni di opportunità, se poi ci si confessasse cristiani di fronte alle autorità, esponendosi così alla pressione fiscale e agli altri svantaggi derivanti dall’essere un zimmi , senza considerare le pene derivanti dal fatto di figurare come apostati dall’Islam. Una possibile spiegazione di questa strana affermazione è che Logoreci cerchi in questo modo di giustificare la pratica espressamente proibita dalla Sacra Congregazione di concedere i sacramenti ai criptocristiani. Eppure, non è nemmeno da escludere che l’identità religiosa di molti diocesani fosse così labile da mutare molto facilmente a seconda delle influenze esterne, e che dunque alcuni “cristiani occulti” potessero tornare ad essere “cristiani palesi” in circostanze particolari. Mazarek presenta tre esempi di gruppi di famiglie di criptocristiani che egli riesce a convincere a tornare a professare apertamente il cristianesimo – o almeno riesce a strappare da essi una promessa in questo senso. In un caso, vicino a Zogaj, l’arcivescovo fa leva sull’interruzione dei sacramenti – il che sottintende che essi erano stati fino ad allora concessi regolarmente dal parroco locale (SOCG 859.461r) – per fare ritornare la popolazione alla professione pubblica del cattolicesimo, mentre negli altri due casi (ancora vicino a Zogaj e nei pressi di Djakovica) l’opera di convincimento avviene in condizioni ancora più difficili, nei confronti di gruppi di persone che da decenni si erano formalmente allontanate dal cattolicesimo: 115 n.20 / 2008 “Qui voglio dimostrare alla Sacra Cong.ne qualm.te in questa parochia [Zogaj] cinque case di grosse famiglie, cattolici occulti, alli quali da ottanta anni in quà mai sono stati amministrati li S.S. Sacramenti, perche professavano palesamente l’ottomanismo, ora in questi due giorni tanto io, quanto il mio Vicario con amonizioni, con prediche, e con benedizioni, e con minacie per l’altra vita, li abbiamo ridotti, e capacitati, che senza mantenere palese la S. Fede, tutti si dannavano, onde per misericordia di Dio si animarono, e convertirono tutti quanti uomini, e donne, e vecchi con barba bianca, e mi promisero con pianto, e giuramento di mantenere in avenire la Santa Fede palese avanti Governatori, e Giudici turchi etiam cum proprj sanguinis efusione: Et io con allegrezza, e tenerezza li abbracciai, e li promisi, che se il Governatore li angariarà con gran estorsione di dennari, perche mantengono palese la S. Fede di Cristo, di aiutarli con dennaro, e con robba: se poi il Governatore li taglierà in odium fidei, mi dissero tutti li cattolici, felici noi se averemo tal fortuna di essere martiri, e patire ogni tormento per Gesu Christo!” (SOCG 872.139r-139v. L’episodio di Djakovica, al quale viene dato molto meno spazio, si trova in SOCG 895.96v). Come si vede, l’affermazione di Logoreci, secondo la quale anche i criptocattolici più “insospettabili” potevano tornare a dichiararsi pubblicamente cattolici, non è poi così assurda. Per quanto riguarda i membri della terza classe di “cristiani occulti” (cattolici confessi, ma con nome musulmano), il vicario specifica subito che si tratta principalmente di donne con parenti musulmani, a cui il nome di origine araba è stato imposto fin da piccole. Le autorità sanno perfettamente che esse di musulmano hanno solo il nome, ma, essendo donne, la loro identità religiosa rimane un fatto privato di scarsissima rilevanza per lo Stato. Non sono però solo le donne a trovarsi nella situazione paradossale di osservare strettamente il cattolicesimo pur portando un nome musulmano che in teoria le allontana inesorabilmente dalla loro religione: in una relazione del 1787 l’arcivescovo di Sapë, nel nord dell’Albania, afferma che nella sua diocesi esistono molti uomini con nomi di origine araba che si dichiarano però apertamente cattolici e osservano rigorosamente tutti i precetti religiosi dettati dalla Chiesa. I motivi per cui non decidono di farsi 116 chiamare in un altro modo, aggiunge, sono banalmente pratici: sono da sempre conosciuti da tutti – musulmani e non – con quel nome e sarebbe oltremodo scomodo cambiarlo (Acta 157.12r-12v). Oltre a questi tre gruppi di criptocristiani Logoreci presenta un caso interessante di dissimulazione religiosa talmente superficiale da poter essere definita “temporanea”: riferisce che alcuni mercanti cattolici palesi, i quali pagano regolarmente la cizye, quando si devono recare a vendere i propri prodotti nelle piazze adottano nomi musulmani unicamente per il periodo lavorativo. Il motivo è “la tirannia e l’avaria del popolo” (SOCG 798.414r). Non è ben chiaro il significato di quest’ultima frase, ma pare di capire che il problema di questi mercanti non fossero i rapporti con le autorità ottomane, bensì quelli con i loro clienti musulmani, i quali evidentemente compravano più volentieri dai loro correligionari (o presunti tali) che dai cristiani. Il cambio di religione avviene in questo caso per motivi “professionali” e non ha assolutamente alcuna implicazione dottrinale. Del resto, la necessità della finzione davanti alla maggioranza musulmana interessa perfino gli stessi preti della diocesi di Skopje, i quali quando viaggiano si vestono in modo da spacciarsi per “Turchi, e Bravi del Bassà, portando due, ò trè pistole, schioppo, e lunga spada, senza le quali insegne verrebbero spogliati, ed anche privati di vita dalla più vile Canaglia” (SOCG 798.414v). Questo camuffamento, o perlomeno questa cura nel non farsi riconoscere come sacerdoti, si ritrova anche spessissimo nelle relazioni delle visite diocesane di Mazarek, il quale teme costantemente di essere riconosciuto dai signori turchi e di essere da loro sottoposto ad estorsioni di denaro. 2.3.Da “occulti” a “ver i tur chi” Il terzo punto della tesi di Mazarek, quello secondo cui il clero musulmano costringeva i criptocristiani albanesi a convertirsi completamente (“Ma li astuti turchi di Servia accorgendosi della loro astuzia, et insieme superbia, subito li mandano il loro Hocia sforzandoli à circoncidersi, à biasimar la S. Fede, alzando il dito, li sforzano di venire ogni venerdì nelle loro Moschee ad esercitare quelli loro esercrandi Riti”), trova qualche riscontro nei successivi rapporti dalla “Servia”. Logoreci accenna Luca Ma iocchi nel 1760 e nel 1762 a una pratica di convincimento messa in atto dai capi della comunità religiosa islamica nei confronti dei criptocristiani (SC Servia I.595v; SOCG 798.414r). L’attività delle autorità religiose islamiche, come afferma l’arcivescovo, è rivolta a coloro che si sono già formalmente convertiti, mentre sembra che l’opera di proselitismo non tocchi o quasi cattolici confessi. Sembra anzi che le relazioni degli hoca siano migliori con i non musulmani che con i nuovi islamizzati: “L’Hoccia padrone di questo contado [Janoš, nei pressi di Djakovica], assai più ama, e si fida di questi buoni cattolici, perche li vede in ogni cosa sinceri, e fedelissimi come Iddio ci comanda, e dell’altre case Turche, che qui sono molte, non li ama, ne si fida affatto, perche in ogni cosa li trova ingannatori, e falsari, conforme è stato il loro maledetto Legislatore, Mohametto” (SOCG 895.97r). Nella storia sono rari i casi in cui i governatori dell’impero ottomano costrinsero i zimmi a convertirsi all’Islam, e ciò sia – come abbiamo visto – per questioni fiscali (per non privarsi di una fonte di ingenti entrate), sia perché la conversione forzata è estranea alla dottrina musulmana, sia perché un’islamizzazione violenta della popolazione sottomessa avrebbe potuto causare un’instabilità insostenibile per un impero così vasto (McCarthy 2005, p. 125). Se pure in particolari contingenze vi furono tentativi di conversioni di massa dei cristiani, non risulta che essi siano mai partiti dal basso, dai capi religiosi locali, ma sembra più probabile che siano stati ordinati e diretti dall’alto, dalle autorità statali, per calcolo politico. Le parole di Mazarek sembrano voler alludere, più che a una conversione vera a propria, a una spinta nei confronti dei “cristiani occulti” per il perfezionamento nelle pratiche islamiche esteriori; ma l’affermazione dell’arcivescovo, secondo cui queste pressioni da parte della comunità musulmana portavano alla fine i criptocristiani a diventare dei veri e propri musulmani toutcourt, è abbondantemente contraddetta dalle sue stesse relazioni successive, che descrivono più volte le diffusissime irregolarità e le abitudini sincretiche nella pratica quotidiana dell’Islam in Kosovo. Dai documenti esaminati appare molto più verosimile che i nuovi convertiti completassero la loro islamizzazione cominciando dopo qualche tempo a considerarsi musulmani Criptocristianesimo in Kosovo nel XVIII secolo anziché cristiani, semplicemente per una questione di abitudine e a causa dei legami allentati con il clero cattolico, senza che realmente cambiasse alcunché di fondamentale nelle loro credenze e nelle loro abitudini religiose. Lo stesso Mazarek ipotizza che il completamento della conversione all’Islam sia piuttosto il risultato dell’abitudine e di un processo lento e graduale, dal momento che all’interno della stessa relazione del 1760 poche pagine più avanti si legge: “Non avendo perche visitarli li missionarj, si raffredano, e si vanno disgraziati imbevendo nelle favole, e bugie della setta mahomettana scordandosi della S. Fede” (SOCG 792.147v). 2.4.Le divisioni r eligiose fa milia r i e la sepa r a zione donne-uomini Chi invece giocava un ruolo primario nella diffusione dell’Islam, più che gli hoca , erano proprio i suoi adepti meno entusiasti e più recenti, ossia i criptocristiani stessi. é contro di loro che Mazarek punta l’indice nel quarto punto della sua tesi sulla progressiva islamizzazione dei cattolici (“La onde facendosi li uomini turchi, per timore, vergogna, e superbia, uno dall’altro pervertono anche le loro mogli, e figlj”). Si tratta di un processo di proselitismo che avviene all’interno delle famiglie, per motivi che spesso hanno poco a che fare con le convinzioni religiose, e spesso crea delle profonde spaccature in seno allo stesso nucleo familiare. Vi sono parecchi esempi di questo tipo di “scisma” familiare, soprattutto nei casi in cui il marito si converte all’Islam per questioni fiscali, mentre la moglie rimane cattolica e continua ad educare i propri figli secondo i dettami della sua fede. Come già era accaduto a Nikolović-Kazazi, anche a Mazarek si presenta il problema delle cattoliche sposate con musulmani. é principalmente a causa di queste donne esposte al proselitismo islamico dei mariti e dei familiari che il clero della diocesi di Skopje continua a tenere informata la Sacra Congregazione sulla questione dei criptocristiani, nonostante questo problema fosse già stato formalmente risolto dalla lettera apostolica del 1744, dove si escludevano i “cristiani occulti” dalla partecipazione alla vita religiosa cattolica. Le donne cui Mazarek e i suoi parroci vanno a fare visita si trovano intrappolate tra la riprovazione dei mariti 117 n.20 / 2008 convertiti, che vorrebbero musulmane anch’esse, e il distacco della Chiesa cattolica, che le considera mogli illegittime di infedeli. Eppure esse rappresentano spesso l’ultimo baluardo del cristianesimo in un mare musulmano in continua espansione. Va notato che il fatto che la popolazione femminile fosse molto più restia di quella maschile ad abbandonare la fede cattolica non è una caratteristica esclusivamente kosovara, bensì un fenomeno diffuso ovunque vi fosse la presenza di criptocristiani sotto il dominio ottomano (Skendi 1967, p. 236). La frattura religiosa all’interno della famiglia segue quasi sempre la linea maschio-femmina, con il marito e i figli che si convertono all’Islam, mentre la moglie e le figlie rimangono cristiane. é una situazione ammessa anche dalla legge islamica nella versione ottomana, secondo la quale i matrimoni misti tra musulmani e “infedeli” sono ammessi (solo in caso la moglie sia cristiana, non viceversa), e i figli maschi della coppia devono obbligatoriamente essere cresciuti come musulmani, mentre la religione delle figlie è lasciata alla loro scelta personale (Minkov 2004, p. 89). Anche de Boislecomte, scrivendo delle peculiarità dell’Islam nell’Albania settentrionale, narra di simili esempi di nuclei familiari divisi dalla religione (Turquie, pp. 187v-188r). Questo fenomeno non deve aver conosciuto interruzioni in Kosovo fino al Novecento, dal momento che almeno fino agli anni Cinquanta si ha notizia di famiglie i cui membri professano religioni differenti (Duijings 2000, p. 13, nota 13). Dai documenti vaticani del XVIII secolo risulta che erano frequentissimi i casi in cui il marito o addirittura anche i figli maschi premevano per l’islamizzazione completa di tutta la famiglia (SC Servia I.595v; SOCG 815.220r; SC Servia II.339r; Zefi 2006 134-135). Le ragioni di un conflitto tanto sorprendente tra gli abitanti di una stessa casa sono da ricercare, più che in un sincero fervore religioso, nel desiderio dei criptocristiani o anche dei nuovi musulmani “sinceri” di apparire il più possibile credibili o impeccabili davanti alla loro nuova comunità religiosa. Avendo in mente questo obiettivo, di certo una moglie cristiana non aiutava. Questi delicati rapporti familiari e queste considerazioni sociologiche, di immagine, furono intuite anche dagli stessi organi ecclesiastici cattolici, tanto è 118 vero che nel secondo paragrafo della già citata Enciclica Quod provincia le si nota che le conversioni all’Islam avvengono non solo per non pagare le tasse sui cristiani, ma anche, in alcuni casi, affinché i parenti già islamizzati non possano essere sospettati di apostasia dalla religione coranica e quindi puniti dalle autorità giudiziarie ottomane (“ut tam ipsi, quam eorum Parentes a mahumetana secta apostatasse minime credantur, nec poenis in se inflictis multarentur”) (Acta 133.320r). A volte il conflitto tra chi si convertiva e chi rimaneva cristiano andava al di là del nucleo familiare e più o meno con le stesse motivazioni si estendeva a un’intera comunità. é il caso del villaggio di Brasaljce, un piccolo centro nei pressi di Janjevo abitato nel 1777 da quindici famiglie islamizzate e una cristiana. Mazarek si sofferma a lodare la condotta irreprensibile di questo piccolo manipolo di fedeli, soprattutto in considerazione del fatto che le quindici “case turche” premono per la loro conversione all’Islam (SOCG 847.609v). Qui possono entrare in gioco sia la sincera volontà di proselitismo dei nuovi musulmani, sia il timore di essere presi di mira dal fisco ottomano. Secondo la legge ottomana, la quale a sua volta riprendeva il Nomos Georgikos bizantino del VII secolo, ogni villaggio, in particolare uno di modeste dimensioni come Brasaljce, era considerato come una sola unità fiscale (a va rız ha ne) sia per quanto riguardava le imposte ordinarie (Castellan 1999, p. 150; İnalçık 1985, p. 134), sia – soprattutto a partire da dopo il XVI secolo – nel caso delle frequentissime tasse straordinarie (İnalçık 1993, p. 152). é dunque probabile che gli abitanti criptocristiani/musulmani di Brasaljce temessero di essere considerati come appartenenti a un villaggio cristiano a causa di quell’unica famiglia cattolica, il che poteva significare imposte più pesanti e una minore tutela di fronte all’ingordigia degli esattori. Secondo la Muir Mackenzie, invece, la ragione per cui i nuovi islamizzati si adoperavano per la conversione dei loro vicini era un’altra: “Una volta che alcune famiglie di un villaggio divengono maomettane, non smettono di tormentare gli altri fino a quando non li costringono a seguire il loro esempio, perché apparentemente niente dà più noia a un rinnegato di una costanza maggiore della sua” (Muir Mackenzie 1877 I, pp. 218-219). Le donne poteva- Luca Ma iocchi no essere per una famiglia di criptocristiani o di neoconvertiti ciò che la casa cattolica di Brasaljce era per il resto del villaggio: un danno per l’interazione sociale con l’esterno, un potenziale pericolo o addirittura un motivo di vergogna. Tuttavia, va aggiunto che così non era in tutti i casi, anzi: più spesso chi si convertiva – solo formalmente o meno – all’Islam lasciava che la moglie professasse la fede che preferiva. Già agli inizi del XVIII secolo questo portò a un progressivo approfondirsi del solco tra uomini criptocristiani/musulmani e donne cattoliche, cosa che per una pura questione statistica aumentava la probabilità di matrimoni misti interreligiosi. Nel 1724 Petar Karadžić, uno dei predecessori di Mazarek, chiese alla Sacra Congregazione il permesso di concedere i sacramenti alle donne albanesi che avevano sposato dei “rinnegati”, sottolineando che vi erano state costrette appunto dalla scarsità di uomini cattolici (Acta 94.242r). Nel corso del secolo divenne sempre più drammaticamente chiaro che la comunità cattolica nelle terre popolate dagli albanesi andava sempre più configurandosi come una comunità a grande maggioranza femminile. Oltre a questo squilibrio, la sopravvivenza della religione cattolica nella regione veniva resa ancora più complicata dalla Inter omnigena s del 1744 che, come già detto, allontanava dalla vita religiosa cattolica le fedeli sposate con dei musulmani convertiti, simulatori o sinceri che fossero. Era inevitabile che il punto di vista intransigente del Vaticano si scontrasse con i tentativi di accomodamento del clero locale, il quale vedeva il proprio gregge assottigliarsi in maniera allarmante. Nel 1754 l’arcivescovo di Bar si trovò addirittura costretto a implorare la Congregazione di concedergli di confessare le mogli dei “cristiani occulti”, poiché ormai quasi tutto il sostentamento economico dei suoi preti derivava dalle offerte di costoro (SOCG 124.110r112r). Si legge poi una certa frustrazione nelle parole della prima relazione di Mazarek, quando l’arcivescovo lascia intendere che le disposizioni della Inter omnigena s fanno più male che bene alla causa cattolica e afferma che perciò a volte egli le trasgredisce. Si riferisce in particolare alle donne riconvertite dal clero locale dall’Islam al cristianesimo, le quali si trovano per le nuove direttive del Vaticano a non poter essere ammesse né a una Criptocristianesimo in Kosovo nel XVIII secolo comunità religiosa, né all’altra: “é da compiangersi al sommo l’infelice stato delle donne in gran numero state convertite dal mahometismo alla Fede di Cristo per lo passato, e battezzate occultam.te; et hora poveracie da noi abbandonate, le quali prorompendo in sanguinose lacrime, e disperate ci maledicono continuam.te, dicendo come ci ingannassimo noi misere abbandonare la setta di Mahometto, quando poi siamo adesso scacciate dalli missionarj di Cristo, e con altre molte lamentazioni, le quali tanto ci infastidiscono e dispiacciono, che molte volte tralasciamo, e sfugiamo di visitare quelle, che palesam.te mantengono la Fede; attesoche appenna ci mettiamo à confessare una, che è cattolica publicam.te, molte altre corrono, e si mettono d’avanti inginocchioni à confessarsi, che sono occulte, e tanto ci molestano, pregano, adducono scuse, commovendoci à compassione, li amministriamo li sacramenti, battezando li loro figli, et alle volte confessandole con nostro grandissimo scrupolo” (SOCG 792.147v). Abbiamo già accennato al fatto che le donne fossero esenti dalla cizye, il che toglieva uno dei principali motivi alla conversione, ma vanno considerati anche altri fattori che hanno contribuito a fare di esse il baluardo del cattolicesimo nell’area. Ad esempio, le donne erano molto meno esposte degli uomini al contatto con la vita sociale della comunità, specialmente le albanesi, per le quali la legge tradizionale, il Canone di Lek Dukagjin, prescriveva rapporti molto limitati con il mondo al di fuori della famiglia (Malcom 1999, p. 49). é dunque possibile che intere zone di una parrocchia – specialmente le aree rurali – siano state investite in pieno dall’ondata di islamizzazione, la quale ha però lasciato una comunità cattolica a volte consistente e totalmente femminile. Nella parrocchia di Janjevo, ad esempio, quella in cui risiedeva lo stesso arcivescovo Mazarek, nel 1763 il parroco Pal Zogaj comunicò che, al di fuori della città e a parte l’eccezione di Brasaljce, nell’intera parrocchia non era rimasto un solo cattolico uomo, ma unicamente donne (SC Servia II.35v). Pochi anni prima, nel 1760, si riferiva che la popolazione cattolica nei dintorni di Janjevo ascendeva a circa 230 donne (SOCG 792.151r), il che, tolte la cinquantina di anime – sia uomini che donne - di Brasaljce, indica uno “zoccolo” cattolico esclusivamente femmi- 119 n.20 / 2008 nile piuttosto significativo. Nelle campagne intorno a Peć rimane sostanzialmente inalterato dal 1760 al 1772 un gruppo di donne credenti intorno alle duecento unità, delle quali nel 1779 si parla come di “alcune vecchie” (SOCG 792.144r; SC Servia II.166v, 340r). Il caso di Rogovo, invece, dimostra come fosse sistematica la distinzione all’interno delle famiglie tra chi si convertiva e chi continuava a professare il cristianesimo: nel 1767 si riferisce che nel villaggio vivono 9 famiglie di cattolici confessi e 80 case di “cristiani occulti”, all’interno delle quali i capifamiglia si sono convertiti all’Islam, mentre le mogli e i figli (maschi e femmine) sono rimasti apertamente cattolici (SC Servia II.81v); l’anno dopo si scrive che la popolazione cattolica totale è di circa 300 persone, ma si ribadisce che i padroni di casa sono quasi tutti convertiti (SC Servia II.127v). La frattura tra i sessi si verificava solamente con la maggiore età, ma spesso in maniera quasi automatica. Se è vero che nella maggioranza dei casi l’islamizzazione del capofamiglia bastava a fare in modo che l’intera casa venisse considerata musulmana ai fini fiscali, d’altra parte le guerre con l’Austria e il costante bisogno di denaro dell’impero ottomano avevano portato a un sostanziale cambiamento anche nella riscossione delle imposte. Fino alla fine del XVII secolo la Porta aveva prelevato le tasse secondo il sistema già noto della singola casa o addirittura del gruppo di case come unità fiscale; le tasse venivano dunque calcolate sulla base della fede del contribuente (il padrone di casa), il che lasciava a tutti gli altri una certa libertà religiosa. A partire dal 1691, invece, Istanbul si era trovata nella necessità di raccogliere in fretta ingenti fondi per fronteggiare la Lega Santa ed aveva così deciso di passare al metodo shariatico di riscossione della cizye, il quale prevedeva che la responsabilità fiscale fosse individuale e ricadesse su ogni maschio adulto, capofamiglia o meno (McGowan 1981, p. 81). In questo modo si accelerava la conversione degli uomini cattolici, i quali a seconda del periodo e del bisogno venivano considerati maggiorenni ad età diverse e dovevano quindi convertirsi all’Islam per evitare di pagare la cizye. All’epoca della prima visita diocesana di Mazarek (1760) l’età limite sembra essere quindici anni, anche se l’arcivescovo non fa accenno alla questione delle tasse, 120 ma parla solamente di atti religiosi tipici dell’Islam che prima di questa età non possono essere compiuti. Probabilmente il riferimento è alla ša ha da h, la professione di fede musulmana. Mazarek scrive che in caso di morte di ragazzi al di sotto di questa età, benché portino un nome musulmano, non sussiste nemmeno l’obbligo della sepoltura secondo il rito islamico (SOCG 792.149v). Va sottolineato che le divisioni religiose in famiglia non avvenivano sempre in maniera pacificamente meccanica: in un rapporto del 1769 si legge che una donna cattolica giunge addirittura a uccidere il proprio figlio maschio appena nato, una volta che il marito si converte all’Islam (SC Servia II.153r). Inoltre, non in ogni caso gli uomini erano propensi a cambiare religione a seconda della convenienza, ma si trovavano a volte combattuti tra pulsioni differenti e in mezzo a conflitti familiari laceranti, come dimostra il caso di questa famiglia immigrata dal Malësi presumibilmente tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta del XVIII secolo: “Anni sono essendo venuto un montagnolo da Pulati subito mutò nome e come mutò così anche si perdè morendo in disgrazia di Dio. Li di lui figli, e figlie procurassimo di tenere nella S. Fede tanto esso vivente, quanto dopo la di lui morte: così infatti successo, e fuor di trè che ancora sono vivi, gl’altri morirono cattolici; quando in questi giovani il maggiore d’essi quasi pazzo ed assai volubile in ogni affare perche non trovò donna Cattolica per marito ed essendo villano, e volubile, disperato senza mia saputa, ed inaspettatam.te rinegò pubblicam.te con mio sommo dispiacere e delli due minori Fratelli, quali sono veri Cattolici e promettono d’essere, e di stare saldi avendo un particolare odio al rinegato, da cui si sono subito divisi, quantunque fosse protetto il rinegato dell’Ottomani” (SC Servia II.300v). Va infine segnalato il caso curioso, esemplificativo di una particolare confusione religiosa, di una coppia mista (marito criptocristiano/musulmano e moglie cattolica) discesa nel 1792 a Djakovica dal Malësi: l’uomo acconsente a sposarsi in segreto secondo il rito cattolico, ma è poi contrario al battesimo del figlio, che viene quindi portato di nascosto dalla madre a ricevere il sacramento per mano del parroco (SC Servia III.151r). Luca Ma iocchi 3.La “scomparsa” dei criptocristiani A partire dalla relazione di Mazarek del 1760 e da quella di Logoreci di due anni dopo il rapporto tra clero cattolico e criptocristiani si fece ancora più complicato. Se da una parte il Vaticano, come abbiamo visto, manteneva una linea chiara e rigidamente stabilita, volta ad escludere i “cristiani occulti”, i preti cattolici del luogo dovevano usare una certa diplomazia nei confronti di una speciale classe di credenti che si andava sempre di più ingrandendo e che era difficile ignorare. Il dilemma che dovevano fronteggiare i sacerdoti della diocesi di Skopje è ben riassunto da Mazarek quando scrive, a proposito della sua prima visita generale, poche righe dopo aver presentato il caso del giovane albanese che abbiamo riportato all’inizio di questo capitolo: “Se non li [ai criptocristiani] aministriamo li sacramenti si disperano affatto, e si adirano contro di noi, e si perdono infinite anime. Se poi li lusinghiamo, amministrandoli li sacramenti incorriamo nella scommunica dal sommo Pontefice: Io appogiato sopra la Bolla di Benedetto XIV hò proibito, che in nisun conto, e per niente tale gente siano compatita, e consolati con li sacramenti, ma che vadano pur tutti, giache così vogliono, in perdizione, et in mal hora, e che noi missionarj compiangendo dolorosam.te la loro perdita, soffriamo da essi gran persecuzioni, lamenti, e pianti, non potendo rimediarli, essendo così l’ordine di Gesu Cristo, e del suo vicario” (SOCG 792.147r). Si trattava, insomma, di una coperta troppo corta: da una parte i preti rischiavano di attirarsi le ire dei criptocristiani e di perdere moltissime di queste anime in bilico tra cristianesimo e Islam; dall’altra non potevano amministrare loro i Sacramenti senza contravvenire alle disposizioni della Chiesa. Le nuove notizie dalla diocesi di Skopje causarono un ulteriore giro di vite nei confronti del criptocristianesimo, creando altre difficoltà ai preti cattolici e suscitando ostilità nei loro confronti. Nella sua successiva visita della diocesi, nel 1764, l’arcivescovo passò per il villaggio di Lapušnik, non lontano da Janjevo, dove dovette affrontare le richieste di sacramenti da parte dei “cristiani occulti” locali, i quali avevano nomi musulmani, ma non osservavano affatto i riti islamici ed erano noti a tutti come Criptocristianesimo in Kosovo nel XVIII secolo cristiani (SOCG 815.214v). Le loro pretese furono respinte, ma il problema si ripresentò nei moltissimi villaggi intorno a Prizren, dove la maggioranza della popolazione si riteneva ancora cattolica, pur avendo adottato da tempo nomi di origine araba. In questo caso Mazarek evitò addirittura di visitare quei luoghi, sicuro che avrebbe ricevuto le medesime richieste e che avrebbe di nuovo dovuto per forza di cose opporre un analogo rifiuto, poiché l’accontentare quelle persone sarebbe stato solamente, come egli si espresse, uno spreco di olio santo, date le proibizioni sempre più esplicite della Sacra Congregazione (SOCG 815.217v). Di nuovo venne portata all’attenzione del Vaticano la questione delle donne cattoliche sposate a uomini musulmani o criptocristiani, insistendo sul loro stoicismo e perseveranza nel conservare la fede nonostante le pressioni dei familiari maschi (SOCG 815.220r). é da notare che questa volta, contrariamente a quanto stabilivano i precedenti decreti a proposito di queste credenti, le autorità ecclesiastiche mostrarono una certa dose di comprensione per la loro difficile situazione. Nelle risoluzioni relative alla seconda visita di Mazarek, che fu esaminata dalla Congregazione nel 1766, si legge un ordine piuttosto curioso: d’ora in avanti si potranno concedere i sacramenti a queste fedeli, a patto che sia l’arcivescovo stesso ad amministrarli di nascosto, in modo che i parrochi continuino a credere del tutto valide le indicazione del Concilio Albanese e della Inter Omnigena s (Acta 136.236r). Nonostante questo parziale “ammorbidimento”, i rapporti tra clero cattolico e criptocristiani rimasero tesi, tanto che qualche anno più tardi Ndre Krasniq, parroco di Djakovica, scrisse di essere stato addirittura minacciato di morte dai suoi parrocchiani “occulti” per essersi rifiutato di battezzare i loro figli, ai quali erano già stati attribuiti nomi musulmani (SC Servia II.149v). Nel 1773 Logoreci affermò di essere solito concedere i sacramenti ai criptocristiani di Plava, contravvenendo apertamente agli ordini della Sacra Congregazione (SC Servia II.216r), e il 31 gennaio 1774 il Vaticano si ritrovò a dover emanare un nuovo decreto che per l’ennesima volta condannava coloro che si fingevano musulmani pur ritenendosi cattolici (Gashi 1994, p. 57). Da allora in poi le tracce del contrasto tra il clero 121 n.20 / 2008 locale e i criptocristiani sembrano scomparire. Ovviamente la ragione non è la scomparsa del problema: non tutti coloro che avevano credenze religiose a metà tra l’Islam e il cattolicesimo si decidevano per una delle due fedi, ma fu piuttosto la Chiesa che operò un taglio netto, escludendo gli indecisi e classificandoli come “infedeli” alla pari dei musulmani in tutto e per tutto. A proposito dell’islamizzazione del Kosovo nel Settecento, Radmila Tričković scrive che il clero cattolico sopportava “pazientemente” che i suoi fedeli albanesi si facessero musulmani (Tričković 1989, p. 145). Ciò non è vero, poiché abbiamo visto come il Vaticano diede più volte battaglia a chi anche solo si avvicinava all’Islam. é in quest’ottica che va interpretata la severità nell’escludere i criptocristiani dalla vita religiosa: questo atteggiamento intransigente doveva nelle intenzioni di Roma essere una minaccia per coloro che non volevano professarsi pubblicamente cristiani; lo scopo di una tale politica era di riportare i “cristiani occulti” sulla retta via e spingerli ad abbandonare quelle loro pratiche dottrinalmente assai poco corrette. Non si voleva ridurre la comunità cattolica dell’area a un piccolo gruppo di puri votati al martirio, ma semplicemente richiamare all’ordine coloro che peccavano in maniera così vistosa agli occhi delle autorità ecclesiastiche, le quali probabilmente, dal loro osservatorio romano, faticavano a rendersi conto delle difficoltà che si presentavano a un cristiano che viveva in una formazione statale islamica. D’altra parte, è innegabile che in termini pratici questa chiusura formale sortì un effetto non desiderato, tagliando i ponti tra una larga fetta di popolazione e la sua fede originaria. Un altro viaggiatore inglese, William Hobhouse, il quale attraversò il nord dell’Albania alla fine del primo decennio dell’Ottocento, osservò che in quelle zone c’era tra la popolazione un crescente sentimento anticlericale dovuto proprio all’insistenza dei preti nel fare osservare troppo rigidamente i dettami della Chiesa (Frazee 1983, p. 239). Anche se è errato dire che il Vaticano non fece nulla per contrastare le conversioni all’Islam nella regione, di certo il tipo di opposizione che esercitò finì involontariamente per favorire il processo di islamizzazione. Vista in questa luce, l’affermazione di Tričković sembra addirittura troppo clemente 122 nei confronti delle autorità vaticane, che non giocarono un ruolo passivo, ma addirittura uno attivo in negativo, dando impulso alle conversioni dei criptocristiani. Tuttavia, sarebbe esagerato affermare che una linea più tollerante seguita dal Vaticano avrebbe potuto tenere i criptocristiani eternamente “sospesi” tra adesione esteriore all’Islam e osservanza interiore del cattolicesimo, non tanto perché l’occultamento della fede fosse particolarmente difficile da mantenere, quanto perché le pratiche cristiane osservate in questa forma con il tempo venivano inevitabilmente a contaminarsi con elementi religiosi islamici. Dunque, già a partire dai primi anni dell’arcivescovato di Mazarek, i “cristiani occulti” non esistono più per la Chiesa, bensì sono considerati come “infedeli” uguali agli altri, da trattare come tali. Con ciò, ovviamente, non si eliminava il problema sull’atteggiamento da tenere nei confronti di queste persone, le quali continuavano a insistere presso i loro vecchi sacerdoti cattolici per ricevere servizi spirituali. Va considerato, oltretutto, che l’arrivo di nuova popolazione cattolica dalle diocesi albanesi continuava a mantenere la questione attuale, dal momento che all’immigrazione seguiva spessissimo e in tempi brevi la conversione formale all’Islam, ma quasi sempre i nuovi arrivati desideravano continuare ad essere trattati dal clero cattolico come fedeli cristiani. Nel 1793, in corrispondenza di una consistente ondata di immigrazione dall’Albania settentrionale, Mazarek chiese di nuovo (invano) il permesso di poter amministrare i sacramenti ai criptocristiani (SC Servia III.164v), nonostante già da anni non parlasse più di questa classe di credenti, ma solo di “turchi”, o di “rinnegati albanesi”. é l’ultimo accenno che l’arcivescovo fa ai “cristiani occulti”, senza che ciò significhi che i suoi rapporti con essi finirono allora. Le pretese dei nuovi musulmani nei confronti dei sacerdoti cattolici e le manovre diplomatiche di questi ultimi per non scontentare nessuno furono una costante di quegli anni. Ancora nel 1846 un successore di Mazarek riferisce che nella diocesi di Skopje un terzo di coloro che si considerano cattolici è in realtà costituito da criptocristiani, ossia, secondo la Chiesa, da “infedeli” (Zefi 2006, p. 140). Un’ulteriore dimostrazione del fatto che la questione dei criptocristiani non fosse affatto risolta è Luca Ma iocchi la necessità che il Vaticano sentì di riunire il Secondo Concilio Albanese nel 1871, ripetendo la proibizione ai sacerdoti di battezzare i figli dei musulmani e di concedere ai criptocristiani i sacramenti (Zefi 2006, p. 174). Più o meno le stesse indicazioni vennero ripetute a parte all’arcivescovo di Skopje nel 1882 (Gasper 1986, p. 144) e nel 1895 si tenne il Terzo Concilio Albanese, l’ultimo. Le risoluzioni di questo concilio, pur ripetendo in sostanza le consuete proibizioni di seguire usi non cristiani e di assumere nomi di origine araba, presentano una novità piuttosto significativa: si cerca di favorire le riconversioni al cattolicesimo non pretendendo più, come stabiliva il Primo Concilio, che i criptocristiani dichiarino la loro apostasia dall’Islam di fronte alle autorità, pronti a sopportare il martirio. Nel 1895, probabilmente ormai troppo tardi, la Chiesa fa così un passo in direzione dei criptocristiani, dichiarandosi disposta a riaccoglierli nuovamente nel suo seno a patto che essi si dichiarino veri cristiani davanti alla sola comunità cattolica riunita, e non più davanti ai governanti musulmani (Zefi 2006, pp. 176-177). Una qualche forma di criptocristianesimo è esistita nella regione del Kosovo fino ad oggi, se è vero quanto scrive Ger Duijings all’inizio degli anni Novanta, ossia che in alcuni villaggi sperduti dell’area della Skopska Crna Gora si trovano cattolici che professano esteriormente l’Islam per motivi di convenienza, per via di legami matrimoniali che li avvicinano a clan musulmani (Duijings 2000, pp. 39-40). Materiale d’archivio Archivio Storico della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli (Roma) SOCG – Scritture originali riferite nelle congregazioni generali SC – Scritture riferite nei congressi Acta – Acta congregationis de propaganda fide Vienna – Fondo di Vienna Archives du Ministère des affaires étrangères (Parigi) Turquie – Mémoirs et documents, Turquie, vol. 76 Riferimenti bibliografici Babachanov I.M. (1951) K voprosu o proischožde- Criptocristianesimo in Kosovo nel XVIII secolo nii gruppy evreev-musul’ma nov v Bucha re (tr. it. Sulla questione dell’origine del gruppo di ebreimusulmani di Buchara), in Sovetskaja etnografija 3, pp. 160-172; Bartl P. (1975-1979) Quellen und Ma teria lien zur a lba nischen Geschichte im 17. und 18. Ja hrhundert, Münich, Harrassowitz; Castellan G. (1999) Storia dei Ba lca ni. XIV-XX secolo, Lecce, Argo; Dawkins R.M. (1933) The Crypto-Christia ns of Turkey, in Byzantion VIII, pp. 263-276. Didier H. 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In Italia infatti della scomparsa di Geertz, a parte qualche noticina in riviste di secondaria importanza, sembra non essersi accorto nessuno, salvo i sociologi che, di fronte all’assenteismo dei loro colleghi antropologi, hanno ritenuto opportuno ricordarlo (a modo loro) su una accreditata rivista di... filosofia [Nota: Aut-Aut, n. 335 luglio settembre 2007, con articoli di Alessandro Dal Lago, Pier Paolo Giglioli, Nadia Urbinati e un’intervista rilasciata dallo stesso Geertz del 2002]. Sede d’altronde quanto mai adeguata, perché come è noto - e il libro di Malighetti ne è la più ampia ed esplicita conferma - Geertz si ispira a, e al tempo solleva, problemi a cui gli stessi filosofi non si sono certo mostrati insensibili. Ma non ci si inganni. Clifford Geertz . Il la voro dell’a ntropologo non è un libro “scritto apposta”, cioè sull’onda del “vuoto” seguito alla scomparsa dell’illustre studioso nordamericano. Questo libro è invece la riproposizione, ampiamente rivista e aggiornata, di un volume che lo stesso Malighetti aveva pubblicato nell’ormai lontano 1991, quando l’opera di Geertz, tra molte diffidenze e reticenze, cominciava a essere conosciuta anche nel nostro Paese. Quando i suoi lavori iniziarono a essere tradotti in Italia nella seconda metà degli anni Ottanta (confermando il proverbiale ritardo con cui da noi molte discipline - purtroppo l’antropologia non è l’unica - accolgono certe novità culturali), Geertz fu infatti “capito poco”, più che veramente ignora- to dalla comunità antropologica di allora [Nota: in realtà il primo libro di Geertz tradotto in italiano fu Isla m. Ana lisi socio-cultura le dello sviluppo religioso in Ma rocco e in Indonesia , Brescia, Morcelliana 1973 (ed. or 1968). Il libro passò però praticamente inosservato. In Italia Geertz cominciò ad essere preso in considerazione solo dopo la pubblicazione del suo Interpreta zione di culture, Il Mulino, Bologna 1987]. La sua prospettiva ermeneutica, e la concezione della “cultura come testo” che accompagnava quella prospettiva, erano inoltre e forse soprattutto “disturbanti” per una comunità antropologica fortemente debitrice o di un orientamento etnologico più o meno classico, o dell’affascinante (ma per altri versi anche “inquietante”) strutturalismo lévi-straussiano, o dello storicismo di varia configurazione, da quello storicista a quello marxista, più o meno ortodosso. Col tempo tuttavia Geertz divenne, anche da noi, un importante punto di riferimento per alcuni antropologi (ma non solo) che, sebbene per motivi anche diametralmente opposti gli uni dagli altri, si trovavano in quel momento in uno stato di “indeterminatezza teorica”. Da Geertz, ovviamente, si imparò quanto fosse fondamentale la dimensione ermeneutica nella costruzione della rappresentazione etnografica. Ma, come spesso accade, fu anche quella volta questione di imparare soprattutto un nuovo linguaggio. Se posso citare il mio caso personale, direi che di Geertz mi coinvolse la scrittura. Diretta, ironica, suadente e anche un po’ complice, piuttosto lontana tanto da quella troppo rassicurante, forse perché fortemente “oggettiva”, dei classici, quanto da quella grondante esprit de géométrie di un Lévi-Strauss (Tristi tropici è, almeno in parte, un’altra storia). Geertz sembrava coniugare al meglio la tradizione anglosassone (schiettezza nordamericana più ironia britannica) con una densità argomentativa di matrice europea (senza essere un adepto, al contrario di molti suoi colleghi statunitensi, della cosiddetta French Theory). [Nota: Con l’espressione French Theory 125 n.20 / 2008 si indica l’insieme, del tutto inorganico, delle suggestioni teoriche che, provenienti appunto dal lavoro di alcuni intellettuali francesi (Foucault, Derrida, Lyotard, Bourdieu, Baudrillard ecc.) sono state riprese negli Stati Uniti e utilizzate, a volte in maniera discutibile, a sostegno di varie posizioni nel campo delle scienze umane e degli studi postcoloniali]. Quanto a me, ex-studente di filosofia ma poco familiare con l’ermeneutica, ritrovai in Geertz quello “spessore” (le dimensioni del senso, del significato) che l’antropologia, nelle sue varianti storiche, sembrava aver estromesso dal suo programma. In Italia Geertz non ebbe inizialmente grande risonanza perché cambiava improvvisamente le regole del gioco a cui (ci) si era abituati. Egli induceva il sospetto che, benché sia sempre l’antropologo ad avere l’ultima parola (“cosa fa l’a ntropologo? scrive...”) non è poi così ovvio pensare che tutto possa risolversi in descrizione, comparazione e generalizzazione, come invece l’intera storia dell’antropologia precedente sembrava indicare. Il fatto che anche “gli altri” potessero produrre senso e significato (una cosa che per altro molti antropologi prima di lui sapevano benissimo senza trarne però le debite conseguenze), Geertz lo argomentò in maniera sottile, ricca di esemplificazioni etnografiche, credendo che bisognasse perseguire fino in fondo il quanto mai enigmatico imperativo malinowskiano: vedere le cose dal punto di vista dei nativi. Enigmatico perché fino a Geertz non si sapeva bene se l’antropologo dovesse far finta di mettersi nella testa del nativo, se dovesse dichiaratamente sostituirsi a lui, oppure imparare tutto ciò che un nativo sa “per essere come lui”. Geertz, che non ha mai amato le teorie chiuse, i sistemi e le formule, pose infatti il problema in termini di comunicazione. L’antropologia era infatti per Geertz un “ampliamento del discorso umano”, un tentativo mai concluso di cogliere il modo in cui, sul campo, si stabiliscono relazioni comunicative capaci di far emergere oggetti nuovi di riflessione per l’antropologia, una scienza, come lui amava dire, “in divenire”. La prima versione di questo libro di Malighetti contribuì non poco, anche nel periodo in cui era in gestazione, a farmi cogliere alcuni aspetti importanti del lavoro di Geertz. E credo che anche altri 126 antropologi italiani, oltre al sottoscritto, siano stati “sollecitati” dal libro di Malighetti a cogliere in maniera più adeguata e articolata le connessioni tra la teoria etnografica dell’antropologo americano e alcuni aspetti della riflessione filosofica del Novecento. Possiamo infatti affermare con relativa sicurezza che il merito di questo libro è duplice: da un lato esso fu, per il pubblico italiano, un’eccellente “introduzione a Geertz” (non si fraintenda però sul termine “introduzione” pensando che si sia trattato di una “scorciatoia”); mentre, dall’altro lato, costituì il primo testo critico in assoluto, a livello mondiale, sul lavoro dell’antropologo americano (come mi suggerisce il ricordo di un incontro tra Malighetti e lo stesso Geertz). In quest’ultima accezione il libro - oggi potenziato in molte sue parti - “smonta e rimonta” la macchina teorica di Geertz senza nulla concedere a tentazioni “storicistiche” di sorta. A Malighetti non interessa infatti distinguere Geertz da altri antropologi o accostarlo a “precursori” e a “successori”. Malighetti punta dritto al cuore del problema almeno nel senso che, nel momento stesso in cui delinea il retroterra epistemologico-filosofico di Geertz, ne osserva le ricadute nella sua pratica etnografica. Quanto la connessione tra teoria etnografica e pratica del campo sia al centro degli interessi di Malighetti i lettori potrebbero d’altronde constatarlo leggendo un altro suo libro: Il Quilombo di Frecha l. Identità e la voro sul ca mpo in una comunità bra silia na di discendenti di schia vi (Malighetti, 2004). In questo lavoro sono infatti presenti molti spunti derivanti dall’opera geertziana, spunti grazie ai quali Malighetti ha potuto articolare, in tutta autonomia e senza alcun “complesso di dipendenza”, i principali nodi teorici sviluppati dall’antropologo americano in relazione ad un contesto etnografico particolare. Dopo aver pubblicato il suo primo lavoro su Geertz Il filosofo e il confessore. Antropologia ed ermeneutica in Clifford Geertz (1991), Malighetti ha infatti compiuto ricerche in Brasile presso una comunità impegnata da molti anni a rivendicare il legittimo possesso di alcuni territori di fronte alle pretese dei fa zenderos - e di conseguenza a riplasmare la propria identità di fronte a questi ultimi e alla autorità brasiliane. Il frutto di questa ricerca non è però soltanto un resoconto particolareggiato dell’emer- sione di una forma di identità collettiva come conseguenza di lotta per vedere riconosciuti i propri diritti sulla terra; Il Quilombo di Frecha l è anche, e forse soprattutto, un libro che pone problemi metodologici cruciali per lo statuto scientifico delle discipline antropologiche, interrogandosi continuamente sulle dinamiche della ricerca sul campo e sulle condizioni della produzione di un sapere etnografico determinato dai modelli comunicativi tra l’etnografo e i suoi interlocutori. Riprendendo Geertz, e ridiscutendone in maniera critica le posizioni espresse da quest’ultimo al riguardo, Malighetti problematizza in maniera decisa la questione del rapporto dell’antropologo con i suoi interlocutori. E’ in questo modo che Malighetti rende manifesti i punti di vista e le narrazioni particolari che si incontrano nell’intreccio dialogico, così come le forme parziali in cui la memoria della comunità viene riattivata dagli individui nell’intento di fornire una rappresentazione identitaria stabile del proprio villaggio. Nelle pagine de Il Quilombo possiamo infatti seguire l’intera “storia” senza mai perdere contatto con la relazione che Malighetti costruisce con i quilomboles e, tramite essa, con i problemi metodologici ed epistemologici posti dalla ricerca etnografica in generale. Contrariamente a quanto potrebbe pensare qualcuno sulla base di quanto ho appena detto, la prospettiva di Malighetti non è mai condizionata da quello stile riflessivo che, sull’onda di certe suggestioni geertziane male interpretate - e senza che Geertz ne sia stato per altro responsabile - hanno puntato decisamente verso la dimensione introspettiva più che verso una vera ermeneutica. La problematizzazione dell’Io sul campo non dovrebbe infatti essere un’indagine sul Sé del ricercatore: può anche esserlo naturalmente, ma a patto che tale problematizzazione sia prima di tutto la condizione dello svelamento delle procedure di costruzione dell’oggetto del discorso scientifico. “Intendevo - scrive infatti Malighetti - evitare l’ormai “aneddotica” critica di Sahlins agli approcci riflessivi, considerati incapaci - egli prosegue - di veicolare informazioni etnografiche che superassero la vita privata dell’antropologo [Nota: L’“aneddotica critica di Sahlins agli approcci riflessivi” a cui accenna Malighetti, si riferisce al fatto che Sahlins mise in scena il buffo dialogo tra un antropologo e un nativo, in cui quest’ultimo chiedeva all’antropologo iperriflessivo implorandolo: “ma non si potrebbe parlare anche un po’ di me”?]. Ero deciso a emanciparmi dalle pratiche confessionali che non consideravo esperimenti compiutamente dialogici” (Malighetti, 2004, p. 70). Malighetti è infatti propenso a perseguire un modello di inchiesta che prenda sul serio l’invito ermeneutico di Geertz, invito a cui non sempre è facile, nota Malighetti, tenere fede. Nemmeno Geertz, e molti altri che a lui si sono ispirati, si sono rivelati sempre in grado di spingersi molto più in là di alcune dichiarazioni d’intenti. Infatti, enunciare la necessità di una visione ermeneutica della ricerca sul campo, o anche esplorarne teoricamente la “ineludibilità”, non significa che per questo stesso fatto, tale aspetto dell’etnografia risulterà a livello testuale. Per questo Malighetti si interroga continuamente sui limiti dei vari modi di scrivere etnografia. Di questi vari modi egli dice: “Nonostante la loro apertura nello stile narrativo e sebbene avessero reso l’io e l’altro, la cultura e i suoi interpreti, entità meno sicure, rivelando lo status artificioso e contingente di ogni descrizione etnografica, ebbi modo di constatare come tendessero a riprodurre forme di realismo e oggettivismo etnografico da cui cercavano, senza successo, di emanciparsi. Riproducevano, così, il tradizionale dualismo fra soggetto e oggetto” (Malighetti, 2004, p.65). E poco più avanti aggiunge: “Le costruzione dell’Altro, le sue spiegazioni, sono considerate indipendenti e spontanee, elaborate in isolamento e non in risposta alle sollecitazioni dell’antropologo....Così, se il discorso di Rabinow determina un’irriducibile differenza fra il Sé e l’Altro, tralasciando di indicare il processo attraverso il quale i significati sono prodotti, il modello di analisi di Geertz fa emergere i significati ma non i soggetti” (Malighetti, 2004, p. 65). Ciò che non soddisfa Malighetti, di questi approcci pur innegabilmente “ermeneutici”, non è dunque l’impossibilità di ottenere una perfetta immedesimazione o empatia con l’Altro. Immedesimazione o empatia non sono nemmeno troppo auspicabili perché, come tali, non comportano la possibilità che io possa far intendere a qualcun altro (per esempio il lettore del mio resoconto etnografico) il grado della mia identificazione all’Altro. L’immedesimazione non 127 n.20 / 2008 comporta media zione. Invece la riflessività, intesa nel senso di una interpretazione che si fonda su una “unità ermeneuticamente prodotta tra l’etnografo, in quanto soggetto di conoscenza, e la gente studiata in quanto oggetto di conoscenza” Josephides, 1997, p. 17), può raggiungere lo scopo. Riflessività significa, in questo caso, sentire come l’altro, introducendo la dimensione della mediazione (come) che, per poter essere realizzata, ha bisogno di esprimersi tramite figure retoriche [Nota: Per esempio tramite l’allegoria. Cfr. Fabietti, 1999, pp. 100-104]. In questo senso esperienza e interpretazione non sono separabili, perché se è vero che nel testo etnografico e nel lavoro teorico i due aspetti della ricerca sono distinguibili, nella situazione etnografica (il campo) essi appartengono allo stesso processo di conoscenza. E quest’ultimo, per quanto improntato a riflessività, quindi ad un riconoscimento del Soggetto (l’etnografo) nella situazione da lui esperita, deve essere trasmesso, comunicato. Rovesciando l’idea di un Altro (il “nativo”) che dà risposte a un Sé (l’antropologo), in quella di un Sé che è un tramite per la comprensione dell’Altro, passando insomma dall’ “osservazione (dell’Altro) partecipante a una osservazione della partecipazione” (del Sé), Malighetti punta invece alla esplicitazione del modo in cui i suoi “resoconti e le situazioni da essi analizzate si elaborano e si modificano in un processo dialettico contestuale, all’interno di un particolare spazio sociale da cui derivano il loro consenso [Nota: L’espressione è di Barbara Tedlock (1991): “From participant observation to the observation of participation: the emergence of narrative ethnography”]. Il campo diventava così una working fiction (Geertz) in cui condividevo con i miei interlocutori un mondo di significati....” (Malighetti, 2004, p. 71). Mi sono soffermato sull’esperienza etnografica di Malighetti con uno scopo ben preciso: cercare di far intendere come Clifford Geertz. Il la voro dell’a ntropologo non sia, nella storia del suo autore, un puro esercizio di teoria né, tantomeno, di ricostruzione storica della figura del grande antropolo- 128 go statunitense. Mi sono soffermato sull’esperienza etnografica di Malighetti per cercare di far comprendere meglio, al lettore di questo libro su Geertz, come le problematiche in esso discusse abbiano avuto, per quanto riguarda il suo autore, una ricaduta concreta sul suo stesso lavoro di campo. Il che equivale, credo, a un invito: dopo aver letto questo libro, il lettore prenda conoscenza del Il Quilombo di Frecha l, che dello studio su Geertz è, in un certo senso, un’ ideale, e al tempo stesso critica, “applicazione etnografica”. Riferimenti bibliografici Aut-Aut, 2007, L’a ntropologia interpreta tiva di Clifford Geertz, n. 335, Il Saggiatore, Milano, pp. 3-67. Fabietti U. (1999), Antropologia cultura le. L’esperienza e l’interpreta zione, Laterza, Roma. Geertz C. (1968), Isla m Observed. Religious Development in Morocco a nd Indonesia , University of Chicago Press, Chicago (trad. it. Isla m. Ana lisi socio-cultura le dello sviluppo religioso in Ma rocco e in Indonesia , Morcelliana, Brescia, 1973). Geertz C. (1973), The Interpreta tion of Culture, Basic Books, New York (trad. it. Interpreta zione di culture, Il Mulino, Bologna, 1987). Josephides L. (1997), “Representing the anthropologist’s predicament”, in A. James, J. Hockey e A. Dawson (a cura di), After Wtiting Culture, London, Routledge 1997. Lévi-Strauss C. (1955), Tristes Tropiques, Plon Paris (tr. it., Tristi tropici , Il Saggiatore, Milano, 1960). Malighetti R. (1991), Il filosofo e il confessore. Antropologia ed ermeneutica in Clifford Geertz Malighetti R. (2004), Il Quilombo di Frecha l. Identità e la voro sul ca mpo in una comunità bra silia na di discendenti di schia vi , R. Cortina, Milano. Tedlock B. (1991), “From participant observation to the observation of participation: the emergence of narrative ethnography”, in Journa l of Anthropologica Resea rch, 47, pp.69-94.