Copione Monologhi della Vagina 2011

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Copione Monologhi della Vagina 2011
I MONOLOGHI DELLA
VAGINA
di Eve Ensler
lunedì 14 Febbraio 2011
ore 21
Teatro Massimo di Cagliari
con:
Dayana Drag Queen
Francesca Palmas
Anna Pia
Assunta Pittaluga
Marta Proietti Orzella
Tiziana Troja
Michela Sale Musio
service
La Maschera
look manager
Marco Nateri
stage manager
Ga'
regia
Andrea Ibba Monni
SCENA 1
Presentazione
IBBA MONNI- Signore e Signori, le Vagine sono arrivate a Cagliari! Ferai
Teatro è felice di presentarvi "I MONOLOGHI DELLA VAGINA"! Ecco a
voi Dayana!
[SI APRE IL SIPARIO]
SCENA 2
Prologo
DAYANA:Appartengo alla generazione delle “parti basse”. Quelle erano le
parole - pronunciate raramente e sottovoce - che usavano le donne della mia
famiglia per indicare tutti i genitali femminili, interni o esterni.
Non è che ignorassero termini come Vagina, grandi labbra, vulva o clitoride.
Al contrario! E non erano nemmeno bacchettone o santarelline, come
avrebbero detto loro. Le mie nonne, le mie zie e mia madre, in mia presenza,
non usarono mai quelle parole gergali che fanno sembrare sporco o turpe il
corpo femminile, e di questo sono grata. Come vedrete in questa
rappresentazione teatrale, molte figlie sono cresciute con un fardello ben più
pesante.
Eppure, mentre crescevo non sentii descrivere il corpo con termini appropriati,
e men che meno pronunciati con orgoglio. Per esempio, non venne mai fatto
accenno alla parola “clitoride”. Mi ci vollero anni prima di apprendere che le
donne posseggono l’unico organo del corpo umano che non ha altra funzione
se non quella di provare piacere. Se un simile organo fosse un’esclusiva del
corpo maschile, chissà quanto parlare se ne farebbe, e cosa non servirebbe a
giustificare! Quindi, che imparassi a parlare, a scrivere o a prendermi cura del
mio corpo, mi veniva insegnato il nome di ognuna delle sue incredibili parti, a
eccezione di un’unica zona innominabile. Mi ritrovai perciò totalmente
indifesa davanti alle parole che ti fanno arrossire e alle barzellette oscene a
scuola e, più tardi, alla convinzione generale che gli uomini, sia come amanti
sia come medici, ne sanno di più sul corpo delle donne che non le donne
stesse.
La prima volta che ho letto quelle pagine - più di duecento interviste e poi
trasformati in poesia per il teatro - ho pensato: Questo lo conosco già: è il
viaggio della verità che le femministe hanno iniziato una trentina d’anni
orsono. E lo è davvero. Le intervistate le hanno affidato le loro esperienze più
intime, da quelle sessuali al parto, dalla guerra non dichiarata contro il sesso
femminile alla nuova libertà dell’amore tra donne. In ogni pagina emerge il
potere insito nell’esprimere l’indicibile che fa capolino anche nella storia
dietro le quinte del libro stesso. Un editore aveva infatti pagato un anticipo per
assicurarselo, poi, ripensandoci a mente fredda, disse a Eve Ensler che poteva
tenersi i soldi purché portasse il libro e la sua V da qualche altra parte.
Ma il valore dei Monologhi della Vagina va ben oltre l’espiazione di un
passato pieno di atteggiamenti negativi perché propone un modo personale,
fondato sul corpo, di avviarsi verso il futuro. Penso che tutti voi, sia uomini
sia donne, possiate poi lasciare questo teatro non solo con la sensazione di una
maggiore libertà interiore, e anche reciproca, ma con alcune alternative al
vecchio dualismo patriarcale di femminile/maschile, corpo/mente e
sessuale/spirituale, dualismo radicato nella divisione delle nostre identità
fisiche in “la parte di cui si parla” e “la parte di cui non si parla”.
Vorrei che le mie antenate avessero saputo che il loro corpo era sacro. Con l’aiuto
di voci straordinarie e di parole sincere come quelle che sentirete stasera,
credo che le nonne, le mamme e le figlie del futuro guariranno se stesse. E
miglioreranno il mondo.
SCENA 3
Prologo sulla Vagina
FRANCESCA PALMAS: Viva la ...... “Vagina.”
DAYANA: Signore e Signori, Francesca Palmas!
PALMAS: Ecco, l’ho detto. “Vagina.” L’ho ripetuto. Sono tanti anni che ormai,
per fortuna, si pronuncia questa parola. L’hanno detta in teatri, università,
salotti, caffè, cene mondane, programmi radiofonici in tutto il mondo. La
direi in televisione se qualcuno me lo permettesse. La pronunceremo più di
quattrocento volte stasera durante lo spettacolo I monologhi della Vagina,
che si basa su interviste a un gruppo eterogeneo di più di duecento donne.
L’argomento è la Vagina. La pronuncio nel sonno. La dico perché non è
previsto che la dica. La dico perché è una parola invisibile — una parola che
suscita ansia, imbarazzo, disprezzo e disgusto.
La dico perché credo che ciò che non si dice non venga visto, riconosciuto e
ricordato. Ciò che non diciamo diventa un segreto, e i segreti spesso creano
vergogna, paura e miti. La dico perché un giorno o l’altro vorrei sentirmi a
mio agio pronunciandola, e non vergognarmi o sentirmi in colpa.
La dico perché non sono riuscita a trovare una parola che sia più completa,
che descriva veramente l’intera zona e tutte le sue parti. “Passera” potrebbe
funzionare, ma si porta appresso troppe associazioni. E poi, non credo che
per la maggior parte di noi sia ben chiaro di cosa parliamo quando diciamo
“passera”. "Vulva" e un termine valido, più specifico, ma non credo che la
maggior parte di noi abbia le idee chiare su ciò che comprende la vulva.
Dico “Vagina” perché quando ho cominciato a pronunciare quella parola ho
scoperto quanto fossi frammentata, e come risultasse scollegato il mio corpo
dalla mia mente. La mia Vagina era una cosa che stava laggiù, lontana. Di
rado la vivevo, o la prendevo in considerazione. Ero occupatissima a
lavorare, a scrivere; a fare la mamma, l’amica. Non vedevo la mia Vagina
come una risorsa primaria, un luogo di nutrimento, umorismo e creatività. La
collegavo con una gran tensione, una gran paura. Una donna stuprata, pur
essendo cresciuta e avendo sperimentato tutto quello che le donne adulte
fanno con la propria Vagina, non rientra mai veramente in quella parte del
corpo dopo la violenza subita. In pratica, vive la maggior parte della sua vita
senza il suo motore, il suo centro, il suo secondo cuore.
Dico “Vagina” perché voglio che la gente reagisca, e così è. Hanno cercato di
censurare quella parola ovunque siano arrivati I monologhi della Vagina:
negli annunci sui principali quotidiani, sui biglietti venduti ai grandi
magazzini, sugli striscioni appesi davanti ai teatri, nella segreteria telefonica
dei botteghini dove la voce registrata diceva soltanto “Monologhi” o
“Monologhi della V.”
«E perché poi? Vagina non è una parola pornografica; anzi, è un termine
medico, una parola che serve a indicare una parte del corpo, come “gomito",
“mano" o “costola”».
CORO: «Non sarà pornografica ma è sporca. E se la sentono le nostre bambine,
che cosa diciamo loro?»
PALMAS: «Potreste dire che hanno una Vagina. Se non lo sanno già. Forse
potreste festeggiare la scoperta».
CORO: «Ma noi non chiamiamo “Vagina” la loro Vagina»
PALMAS: «E come la chiamate?»
CORO: patatina; cosina; topina; figa; fica; fessa; topa; sorca; bernarda; tana;
farfalla; mortaio; cespuglio; natura; brugna; fregna; salvadanaio; cinsfornia;
pertugio; gnocca; caverna; passera; mussa; boschetto; patata; patacca;
patonza.
PALMAS: Dico “Vagina” perché ho letto le statistiche e ovunque succedono cose
terribili alle vagine: ogni anno negli Stati Uniti vengono stuprate 500 mila
donne; 100 milioni hanno subito mutilazioni genitali in tutto il mondo; e la
lista continua. Dico “Vagina” perché voglio che queste violenze cessino, e so
che non cesseranno finché non riconosciamo che succedono; l’unico modo
per raggiungere questo scopo è permettere alle donne di parlarne senza
timore di punizioni o castighi.
Fa paura pronunciare questa parola. “Vagina.” All’inizio hai l’impressione di
sfondare un muro invisibile. “Vagina.” Ti senti in colpa, a disagio, come se
qualcuno stesse per colpirti. Poi, dopo che l’hai detta per la centesima o la
millesima volta, ti viene in mente che è la tua parola, il tuo corpo, la tua parte
più essenziale. All’improvviso ti rendi conto che la vergogna e l’imbarazzo
che provavi pronunciando-la miravano a mettere a tacere il tuo desiderio, a
erodere la tua ambizione.
Poi cominci a usarla sempre più spesso. La dici con una sorta di passione, di
premura, perché senti che, se smetti di pronunciarla, sarai di nuovo
sopraffatta dalla paura e ricadrai in un mormorio imbarazzato. Così la ripeti
tutte le volte che ti capita, la fai emergere in ogni conversazione. La
tua
Vagina ti emoziona: vuoi studiarla, esplorarla, conoscerla, scoprire come
ascoltarla, darle piacere, e conservarla sana e saggia e forte. Impari a
soddisfare te stessa e a insegnare al tuo amante a soddisfarti. Sei consapevole
della tua Vagina tutto il giorno, ovunque ti trovi — in macchina, al
supermercato, in palestra, in ufficio. Sei consapevole di questa parte di te
così preziosa, meravigliosa generatrice di vita che hai fra le gambe, e’perciò
sorridi, piena d’orgoglio.
E quanto più le donne pronunciano la parola Vagina, minore è l’effetto che
fa; diventa parte del nostro linguaggio, parte della nostra vita. La nostra
Vagina diventa integrata, rispettata, sacra. Diventa parte del nostro corpo,
collegata alla nostra mente, e carburante per il nostro spirito. La vergogna se
ne va e la violenza cessa, perché la Vagina è qualcosa di visibile e di reale, ed
è associata a donne potenti e sagge che parlano di Vagina.
Ci aspetta un lungo viaggio e questo è solo l’inizio. Qui possiamo pensare
alla nostra Vagina, conoscere quella di altre donne, ascoltare storie e
interviste, rispondere a domande e farne. Qui abbandoniamo i miti, la
vergogna e la paura. Qui possiamo esercitarci a pronunciare la parola, perché,
come sappiamo, è la parola che ci spinge avanti e ci rende libere. “Vagina.”
Scommetto che siete preoccupate. Io ero preoccupata. E per questo che ho
deciso di partecipare a questa pièce. Ero preoccupata per le vagine. Ero
preoccupata per quello che pensiamo delle vagine, e ancor più per quello che
non pensiamo. Ero preoccupata per la mia Vagina. Mi serviva un contesto di
altre vagine — una comunità, una cultura di vagine. Sono circondate da tanta
oscurità e segretezza... come il triangolo delle Bermude. Nessuno torna mai
da laggiù a raccontarci com’è.
Per prima cosa, non è nemmeno tanto facile trovare la propria Vagina. Molte
donne passano settimane, mesi, a volte anni, senza guardarla. Una potente
donna d’affari che Eve Ensler ha intervistato, le ha detto che era troppo
impegnata; non aveva tempo. Guardarsi la Vagina, ha detto, richiede
un’intera giornata. Ti devi sistemare davanti a uno specchio, meglio se a
figura intera. Devi trovarti nella posizione perfetta, con la luce perfetta, che
poi è sempre un po’ oscurata dallo specchio e dalla posizione in cui sei. Devi
contorcerti, marcare il collo per tirar su la testa, spezzandoti la schiena. Alla
fine sei stanca morta... Ha detto che non aveva tempo per farlo. Era troppo
impegnata. Così la Ensler ha deciso di parlare alle donne della loro Vagina,
di fare delle interviste sulla Vagina, che sono diventate i monologhi della
Vagina. Ha parlato con più di duecento donne, giovani, vecchie, sposate,
single, lesbiche: docenti, attrici, manager, professioniste del sesso; donne
afroamericane, ispaniche, asiatiche, native americane, caucasiche, ebree.
All’inizio erano riluttanti, un po’ timide. Ma una volta partite, non riuscivi
più a fermarle. Sotto sotto le donne adorano parlare della loro Vagina. Le
eccita molto, forse perché nessuno gliel’ha mai chiesto prima.
Cominciamo dalla parola “Vagina”. Nel migliore dei casi fa venire in mente
un’infezione, forse uno strumento chirurgico: «Presto, infermiera, mi porti la
Vagina». «Vagina. » «Vagina. »
Puoi dirla quante volte ti pare, ma non suona mai come una parola che hai
voglia di pronunciare. E una parola assolutamente ridicola, non ha niente di
sexy Se la usi durante un rapporto, cercando di esprimerti in modo
politicamente corretto : «Tesoro, mi potresti carezzare la Vagina?» distruggi
l’atmosfera all’istante. Sono preoccupata per la Vagina, per come la
chiamiamo e come non la chiamiamo. C’è chi la chiama “cosina”. Una donna
di lì mi ha raccontato che sua madre le diceva sempre: «Non portare le
mutandine sotto il pigiama, cara; devi far prendere aria alla cosina».
Sono preoccupata, sono molto preoccupata per le vagine.
SCENA 4
Il laboratorio sulla Vagina
DAYANA: La mia Vagina è una conchiglia tenera e rosa... La mia Vagina è un
fiore: il profumo è tenue, i petali delicati ma robusti. Signore e Signori, Anna Pia!
ANNA PIA- La mia Vagina è una conchiglia, una tenera conchiglia rosa
rotonda, che si apre e si chiude. La mia Vagina è un fiore, un tulipano eccentrico,
dal centro acuto e profondo, il profumo tenue, i petali delicati ma robusti.
Questo non lo sapevo prima. L’ho imparato al laboratorio sulla Vagina. L’ho
imparato da una donna che dirige il laboratorio sulla Vagina, una donna che crede
nelle vagine, che vede veramente le vagine, che aiuta le donne a vedere la propria
Vagina vedendo le vagine altrui.
Nella prima seduta la donna che dirige il laboratorio sulla Vagina ci ha chiesto di
fare un disegno della nostra “unica, bellissima, favolosa Vagina”. E così che l’ha
definita. Voleva sapere che cosa ci ricordava la nostra unica, bellissima, favolosa
Vagina. Una donna incinta tracciò una grande bocca rossa urlante da cui usciva un
fiotto di monete. Io ho disegnato un enorme palla nera con attorno ghirigori
svolazzanti. La palla nera equivaleva a un buco nero nello spazio. Le linee
svolazzanti erano persone o cose o semplicemente atomi che si erano smarriti
laggiù. Avevo sempre pensato alla mia Vagina come a un vuoto anatomico che
risucchia dall’ambiente circostante particelle e oggetti a caso, come un’entità
indipendente, che roteava come una stella nella sua galassia, e che avrebbe finito
per esaurire la propria energia gassosa oppure esplodere e dividersi in migliaia di
altre vagine più piccole, ognuna roteante nella sua galassia.
Non pensavo alla mia Vagina in termini pratici o biologici. Non la vedevo, per
esempio, come una parte del mio corpo, qualcosa che ho tra le gambe, attaccata a
me.
Al laboratorio ci è stato chiesto di guardare la nostra Vagina con uno specchietto
in mano. Poi, dopo un attento esame, dovevamo raccontare al gruppo quello che
avevamo visto. Devo confessare che fino a quel momento tutto ciò che sapevo
sulla mia Vagina era basato sul sentito dire o sull’invenzione. Non l’avevo mai
vista veramente. Non mi era mai venuto in mente di guardarla. La mia Vagina
esisteva su un piano astratto. Sembrava così riduttivo e goffo guardarla, distese
sui lucidi tappetini azzurri, con i nostri specchietti in mano. Mi ha fatto pensare ai
primi astronomi coi loro telescopi primitivi.
Sulle prime l’ho trovata piuttosto inquietante, la mia Vagina. Come la prima volta
che vedi un pesce sventrato e scopri quell'altro mondo complesso e sanguinolento
all’interno, proprio sotto la pelle. Era così cruda, così rossa, così fresca. E quello
che mi sorprendeva di più era la quantità di strati. Strati dentro strati, che si
aprono su altri strati. La mia Vagina era come un evento mistico che continua a
dispiegare un altro aspetto di sé, il che è in realtà un evento in sé, ma lo capisci
solo dopo.
La mia Vagina mi ha lasciato stupefatta. Avevo aperto gli occhi su ciò che la
coordinatrice del laboratorio chiamava “stupore Vaginale”. Volevo solo starmene
lì distesa sul mio tappetino, con le gambe aperte, a esaminare la mia Vagina per
sempre.
Era antica e piena di grazia. Aveva l’innocenza e la freschezza di un vero giardino
all’inglese. Era buffa, molto buffa. Mi ha fatto ridere. Poteva giocare a
nascondino, aprirsi e chiudersi. Era una bocca. Era il mattino. E poi, per un
istante, mi è venuto in mente che era me, la mia Vagina: era chi ero io. Non era
un’entità a sé. Era dentro di me.
Poi la coordinatrice del laboratorio ha chiesto quante avevano avuto degli
orgasmi. Due hanno alzato la mano titubanti. Io non ho alzato la mano, ma di
orgasmi ne avevo avuti. Non ho alzato la mano. perché erano orgasmi accidentali.
Succedevano. Succedevano nei sogni, e mi svegliavo raggiante. Succedevano
spessissimo in acqua, soprattutto nel bagno. Succedevano a cavallo, in bicicletta,
in palestra. Non ho alzato la mano perché anche se avevo avuto parecchi orgasmi,
non sapevo come provocarli. Non avevo mai cercato di provocarne uno. Pensavo
che fosse una faccenda mistica, magica. Non volevo interferire. Mi sembrava
sbagliato immischiarmi, una forzatura, una forma di manipolazione. Faceva molto
Hollywood. Orgasmi a comando. La sorpresa se ne sarebbe andata, e così il
mistero. Il problema, naturalmente, era che la sorpresa se n’era andata da due
anni. Non avevo un casuale, magico orgasmo da molto tempo, e fremevo dalla
voglia di provarlo. Ecco perché ero al laboratorio.
E poi è arrivato il momento che temevo e insieme, segretamente, anelavo. La
coordinatrice del laboratorio ci ha chiesto di tirar fuori di nuovo i nostri
specchietti e di vedere se riuscivamo a localizzare la nostra clitoride. Eravamo lì,
tutto il gruppo di donne, sdraiate sulla schiena, sui nostri materassini, a trovare il
nostro punto, il nostro luogo, la nostra ragione, e io non so perché, ma ho
cominciato a piangere. Forse era puro e semplice imbarazzo. Forse era la
convinzione di aver rinunciato alla fantasia, l’enorme illusione, divoratrice di vita,
che qualcuno o qualcosa avrebbe fatto questo per me — l’idea che qualcuno
sarebbe arrivato a dirigere la mia vita, a sceglierne la direzione, a regalarmi
orgasmi. Ero abituata a vivere in sordina, in modo magico, superstizioso. Quella
ricerca della clitoride, quel pazzesco laboratorio sui tappetini blu, stava rendendo
tutta la faccenda reale, troppo reale. Sentivo arrivare il panico. Il terrore e la
contemporanea presa di coscienza... Avevo evitato di trovare la clitoride, e mi ero
rifugiata nella razionalizzazione che era solo una moda, una forma di consumismo
perché, in realtà, ero terrorizzata dalla possibilità di non avere la clitoride, di
essere una di quelle donne costituzionalmente incapaci, una di quelle frigide,
morte, chiuse definitivamente, secche, che sanno di albicocca, amare — oh, mio
Dio. Ero sdraiata lì col mio specchietto che cercavo il punto, che allungavo le
dita, e tutto ciò che riuscivo a pensare era a quella volta che avevo dieci anni e
avevo perso il mio anello d’oro con gli smeraldi in un lago. Mi ero tuffata e
rituffata continuamente tastando sassi e pesci e tappi di bottiglia e roba viscida,
ma mai il mio anello. Il panico che ho provato. Sapevo che sarei stata punita. Non
avrei dovuto portarlo in acqua.
La coordinatrice del laboratorio ha notato che mi agitavo come una pazza, sudavo
e respiravo pesantemente. Mi si è avvicinata. Io le ho detto: «Ho perso la
clitoride. È sparita. Non avrei dovuto portarla mentre nuotavo». La donna si è
messa a ridere e mi ha accarezzato con calma la fronte. Mi ha detto che la
clitoride non era qualcosa che potevo perdere. Era me, l’essenza di me. Era sia il
campanello della porta di casa sia la casa stessa. Non dovevo trovarla. Dovevo
essere. Essere la clitoride. Essere la mia Vagina. Mi sono sdraiata e ho chiuso gli
occhi. Ho messo giù lo specchio. Mi sono guardata galleggiare al di sopra di me
stessa. Mi osservavo avvicinarmi lentamente al mio io e a rientrarvi. Mi sentivo
come un astronauta che rientra nell’atmosfera terrestre. E stato molto calmo il
rientro: calmo e dolce. Rimbalzavo e atterravo. Atterravo e rimbalzavo. Entravo
nei miei muscoli, nel cuore e nelle cellule e poi, ecco, scivolavo dentro la Vagina.
Improvvisamente era tutto così facile e io ci stavo comoda. Ero calda, pulsante,
pronta, giovane e viva. E poi, senza guardare, con gli occhi ancora chiusi, ho
messo il dito su ciò che tutt’a un tratto era diventato me. Ho sentito un piccolo
tremito dapprima, che mi ha convinto a restare. Poi il tremito è diventato un
terremoto, un’eruzione, con gli strati che si dividevano e si suddividevano. Il
terremoto si disperdeva in un antico orizzonte di luce e silenzio, che si apriva su
una piana di musica e colori e innocenza e nostalgia, e io mi sentivo collegata,
unita mentre mi dimenavo sul mio tappetino blu.
La mia Vagina è una conchiglia, un tulipano e un destino. Arrivo mentre
incomincio già a partire. La mia Vagina, la mia Vagina, io.
SCENA 5
Domande
DAYANA- Se la tua Vagina potesse parlare, che cosa direbbe, in due parole?
CORO- Va’ più piano. Sei tu? Nutrimi. Ho voglia. Mmm, buono. Oh, sì.
Ricomincia. No, lì. Leccami. Resta a casa. Scelta coraggiosa. Ripensaci. Ancora,
per favore. Abbracciami. Giochiamo. Non smettere. Ancora, ancora. Ti ricordi di
me? Vieni dentro. Non ancora. Wow! Sì, sì. Cullami. Entra a tuo rischio e
pericolo. Oh, Dio! Grazie a Dio. Sono qui. Andiamo. Trovami. Grazie. Bonjour.
Troppo duro. Non mollare. Dov’è Brian? Così va meglio. Si, lì. Lì.
SCENA 6
Stupro
FRANCESCA PALMAS- La mia Vagina era il mio villaggio. La mia Vagina era
verde, campi d’acqua rosa tenero, mucca che muggisce sole che si posa dolce
ragazzo che tocca leggero con un morbido filo di paglia bionda.
C’è qualcosa tra le mie gambe. Non so cos’è. Non so dov’è. Io non tocco.
Non ora. Non più. Non più da allora.
La mia Vagina era chiacchierona, non vede l’ora, tante, tante cose da dire,
parole parlate, non posso smettere di provare, non posso smettere di dire oh
sì. Oh sì.
Non da quando sogno che c’è un animale morto cucito là sotto con grossa
lenza nera. E il cattivo odore dell’animale morto non si riesce a togliere. E
ha la gola tagliata e il suo sangue inzuppa tutti i miei vestiti estivi.
La mia Vagina che canta tutte le canzoni da ragazze, campanacci delle capre
che suonano canzoni, selvagge canzoni dei campi d’autunno, canzoni della
Vagina, canzoni del paese della Vagina.
Non da quando i soldati mi infilarono dentro un lungo e grosso fucile. Così
freddo, con quella canna d’acciaio che annienta il mio cuore. Non so se
faranno fuoco o se lo spingeranno su attraverso il mio cervello impazzito.
Sei uomini, mostruosi dottori con maschere nere che mi ficcano dentro
anche bottiglie, bastoni, e un manico di scopa.
La mia Vagina che nuota acqua di fiume, acqua pulita che si rovescia su
pietre cotte al sole sopra clitoride di pietra, pietre-clitoride mille volte.
Non da quando ho sentito la pelle strapparsi e fare rumori striduli da limone
strizzato, non da quando un pezzo della mia Vagina si è staccato e mi è
rimasto in mano, una parte delle labbra, ora da un lato un labbro è
completamente andato.
La mia Vagina. Un umido villaggio vivente di acqua. La mia Vagina, la mia
città natale.
Non da quando hanno fatto a turno per sette giorni con quella puzza di
escrementi e carne affumicata, e hanno lasciato il loro lurido sperma dentro
di me. Sono diventata un fiume di veleno e di pus e tutti i raccolti sono morti,
e anche i pesci.
La mia Vagina, umido villaggio vivente di acqua. Loro l’hanno invaso.
L’hanno massacrato e bruciato. Io non tocco adesso. Non ci vado mai. Io
vivo in un altro posto, adesso. Io non so dov’è, adesso.
SCENA 7
La vagina arrabbiata
DAYANA- Signore e Signori, Nives Gamberini e Ginger degli Esposti!
TIZIANA TROJA- La mia Vagina è arrabbiata. Davvero,. È incazzata. La mia
Vagina è furiosa e ha bisogno di parlare. Ha bisogno di parlare di tutta questa
merda. Ha bisogno di parlarvi. Allora, cos’è questa faccenda... C’è in giro un
esercito di persone, che escogitano modi per torturare la mia povera, gentile e
amorevole Vagina... Che passano i giorni a fabbricare psicoprodotti e idee
orrende per minare la mia passera. Rompicoglioni della Vagina! Tutta questa
merda che cercano senza sosta di spingerci dentro, per pulirci, per imbottirci,
la faranno scomparire. Bene, la mia Vagina non se ne andrà. È incazzata e se
ne starà qui. Prendi i tamponi... che diavolo è ‘sta roba? Un cazzo di tampone
di cotone asciutto, infilato dentro. Perché non trovano un modo per
lubrificare leggermente il tampone? Appena la mia Vagina lo vede, ha uno
choc. Dice: “Lascia perdere”. Si chiude. Dovete saperci fare con la Vagina,
prepararla alle cose. E tutta una faccenda di preliminari. Dovete convincere la
mia Vagina, sedurre la mia Vagina, suscitare la fiducia della mia Vagina.
Non potete riuscirci con un cazzo di tampone di cotone asciutto.
Smettete di spingere cose dentro di me. Smettete di spingere e smettete di
pulire. La mia Vagina non ha bisogno di essere pulita, sa già di buono. Non
come i petali di rosa. Non cercate di abbellire la realtà. Non credete loro,
quando vi dicono che profuma come petali di rosa: è fatta per odorare come
una passera, deve odorare - profumare - di figa. Ecco cosa stanno facendo:
cercano di pulirla, di farla odorare come uno spray da bagno o un giardino.
Tutti quegli spray profumati, fiori, bacche, pioggia. Non voglio che la mia
passera profumi di bacche o di pioggia. Tutta pulita, come lavare un pesce
dopo averlo cucinato. Voglio sentire il sapore del pesce, è per questo che l’ho
ordinato. Così è la donna, così sono io. I miei umori tutti in collisione e che
sanno di pesce.
E poi ci sono quegli esami. Chi li ha escogitati? Ci deve essere un modo
migliore di fare quegli esami. Perché quando ti sdrai ti devi sentire come un
pezzo di carta che qualcuno ha gettato via? Perché i guanti di gomma? Perché
la pila puntata lì come se la Signora in Giallo stesse indagando su un
omicidio? Perché le staffe d’acciaio in stile nazi, le orrende e fredde labbra
d’anatra che spingono dentro di te? Che cos’è questa faccenda? La mia
Vagina è arrabbiata per queste visite. Si mette sulla difensiva settimane
prima. Si chiude, non si rilassa. Non vi fa innervosire?
“Rilassi la Vagina, rilassi la Vagina.” Perché? La mia Vagina è intelligente sa cosa sta succedendo - si deve rilassare così tu puoi infilarle quelle fredde
labbra d’anitra dentro. Esame Vaginale? Non penso proprio. Sembra più
un’esecuzione Vaginale.
Perché non trovano uno splendido, delizioso velluto rosso e non me lo
avvolgono attorno, non mi fanno sdraiare su una soffice coperta di cotone,
non si infilano attraenti guanti rosa o azzurri, e appoggiano i miei piedi su
staffe ricoperte di pelliccia? E perché non riscaldano le labbra d’anatra?
Lavorano con la mia vagina!
No, invece, sempre torture: quei cazzo di tamponi di cotone asciutto, fredde
labbra d’anitra e biancheria intima di cuoio. Non c'è niente di peggio della
biancheria di cuoio. Chi l’ha inventata? Si muove tutto il tempo, si incastra,
davvero una merdata.
La Vagina è fatta per stare libera e aperta, non per essere tenuta imprigionata.
È per questo motivo che le guaine sono una pessima idea. Abbiamo bisogno
di muoverci e aprirci, parlare e parlare. Le vagine hanno bisogno di
comodità. Fate qualcosa per dar loro piacere. No, naturalmente non lo fanno.
Odiano vedere una donna che prova piacere, soprattutto piacere sessuale.
Quello che intendo è un grazioso paio di mutande di morbido cotone con un
vibratore incorporato. Le donne verrebbero tutto il giorno: verrebbero nei
supermercati, in metropolitana, felici vagine orgasmiche. Loro non lo
sopporterebbero. Non tollererebbero di vedere tutte quelle calde vagine felici,
energizzate, che non subiscono umiliazioni.
Se la mia Vagina potesse parlare, parlerebbe di se stessa come faccio io,
parlerebbe di altre vagine, farebbe imitazioni di vagine.
Porterebbe diamanti di Cartier. Nessun vestito, ornata solo di diamanti.
La mia Vagina ha aiutato a mettere alla luce un bambino enorme. Pensava
che avrebbe fatto qualcosa di più, ma non è stato così. Ora vuole viaggiare,
non desidera molta compagnia. Vuole leggere e conoscere cose nuove, e
uscire più spesso. Vuole sesso, le piace il sesso. Vuole andare più in
profondità, è affamata di profondità. Desidera gentilezza, vuole un
cambiamento.
Vuole silenzio, libertà, baci gentili, liquidi caldi e contatto profondo. Vuole
cioccolato fiducia e bellezza. Vuole urlare. Non vuole più essere arrabbiata.
Vuole venire. Vuole volere. Vuole. La mia Vagina, la mia Vagina. Be’...
vuole tutto.
SCENA 8
DAYANA- Se la tua Vagina si vestisse, che cosa indosserebbe?
CORO- Una giacca di pelle. Calze di seta. Una pelliccia di visone. Un boa rosa.
Uno smoking da uomo. I jeans. Qualcosa di aderente. Smeraldi. Un abito da
sera. Lustrini. Solo Armani. Un tutù. Biancheria nera trasparente. Un abito da
ballo di taffetà. Qualcosa che si possa lavare in lavatrice. Una maschera di
carnevale. Un pigiama di velluto viola. Angora. Un fiocco rosso. Ermellino e
perle. Un grande cappello pieno di fiori. Un cappello di leopardo. Un kimono
di seta. Un basco. Pantaloni di felpa. Un tatuaggio. Un congegno che dà la
scossa per tener lontani gli sconosciuti inopportuni. Tacchi alti. Pizzi e anfibi.
Piume porpora, rametti e conchiglie. Cotone. Uno scamiciato. Un bikini. Un
impermeabile di gomma.
SCENA 9
La Vagina: alcuni fatti
MICHELA SALE MUSIO- La clitoride ha uno scopo puro. È l’unico organo del
corpo umano designato esclusivamente al piacere. E solo un fascio di nervi,
per la precisione 8000 fibre nervose: la più alta concentrazione di fibre
nervose di tutto il corpo, compresi i polpastrelli, le labbra e la lingua, e due
volte.., due volte superiore a quella presente nel pene. Chi ha bisogno di una
rivoltella, quando ha a disposizione una semiautomatica?
SCENA 10
La Vagina Mentale
DAYANA- Ferai Teatro nel presentare "I MONOLOGHI DELLA VAGINA" per
la prima volta a Cagliari, decide di devolvere il vostro contributo a favore dei
centri AIAS e della FONDAZIONE RANDAZZO nei quali lavora da anni e
nei quali ha contribuito a fondare un gruppo di attori e attrici molto speciale,
si chiama LA SESTA PARETE ed è formato da chi in quei centri ci vive.
Signore e Signori una piccola parte delle attrici de La Sesta Parete!
PAOLA NATERI- Ho una vagina nella testa... le sue pareti si contraggono ogni
volta che i ricordi filtrano all'interno scorrendo come aria. Io non so
carezzare. I ricordi così duri, spietati che trafiggono l'anima, il corpo e dai
visceri parte un urlo lancinante, e urlo calcio con tutta la forza che ho dentro,
urlo mentre vengo trascinata, e urlo quando legata sento la mia vagina, urlo
quando legata sento la mia vagina che accoglie contro la sua volontà... la mia
vagina, una fossa comune immersa nell'urina che trattiene con la speranza
che ci sia un sopravvissuto. E trattiene e trattiene...Bisogna toglierlo dalla
fossa questo bambino le leggi della natura non hanno nulla a che vedere con
le patologie della mente umana. Bambino figlio della violenza e della follia
orfano dal momento in cui viene generato, io inconsapevole orfana di un
figlio e madre di un bambolotto creduto tale, non so più cosa sono, non so
carezzare la mia vagina, a che pro? il mio corpo arido per sempre... non so
più nemmeno di essere una donna.
[LE ATTRICI DANZANO IN SCENA PER TUTTA LA MUSICA]
SCENA 11
Il club della vulva
DAYANA- Ecco a voi Marta Proietti Orzella!
MARTA PROIETTI ORZELLA- Sono sempre stata ossessionata dall’idea di dare
un nome alle cose. Se potevo dare loro un nome, potevo conoscerle. Se
potevo dar loro un nome, potevo dominarle. Potevano essere mie amiche.
Quando ero bambina, per esempio, avevo un e-norme collezione di rane.
Rane imbottite, di ceramica, di plastica, rane al neon, rane a batteria. Ognuna
di esse aveva un nome. Mi prendevo il tempo di conoscerle un po’, prima di
dar loro un nome. Le posavo sul mio letto e le guardavo alla luce del giorno,
le mettevo nella tasca del mio cappotto, le tenevo nella mia piccola mano
sudata. Arrivavo a conoscerle per la loro consistenza, per l’odore, la forma e
la dimensione. E per il loro senso dell’umorismo. Solo allora davo loro un
nome, generalmente durante una splendida cerimonia. Circondate dalle loro
amiche, le rivestivo di abiti sontuosi, le coprivo di lustrini o stelle dorate, le
mettevo davanti al tempio delle rane e davo loro un nome.
Prima sussurravo all’orecchio il nome ambito. (Sussurro) “Tu sei la mia
Ranocchia Pastrocchia.” Mi assicuravo che la rana gradisse il nome. Poi lo
ripetevo a voce alta davanti alle altre rane eccitate, alcune delle quali stavano
aspettando il proprio nome. “Ranocchia Pastrocchia.” Seguivano i canti: di
solito, il nome ripetuto in continuazione, all’unisono con le altre rane.
(Canzone) “Ranocchia Pastrocchia. Ranocchia Pastrocchia!” Il canto era
accompagnato da danze.
Mettevo le rane in fila e danzavo in mezzo a loro, saltando come una rana e
facendo versi da rana, tenendo la neobattezzata nelle mani o tra le braccia, a
seconda della sua dimènsione. Era una cerimonia spossante ma
fondamentale. Sarebbe stato anche accettabile, se la cosa si fosse limitata alle
rane, ma presto sentii il bisogno di dare un nome a tutto. Davo un nome a
tappeti e porte, a sedie e gradini. Ben, per esempio, era la mia torcia, dal
nome del maestro d’asilo, sempre presente nelle mie storie. Alla fine diedi un
nome a tutte le parti del mio corpo. Le mie mani... Gladys: sembravano
funzionali ed essenziali, come Gladys. Chiamai le mie spalle Shorty: forti e
un po’ battagliere. I miei seni erano Betty. Non erano Veronica, ma non
erano nemmeno brutti. Scegliere un nome per “là sotto” non era facile. Non
era come trovare un nome per le mani, no, era complicato. “Là sotto” era un
posto vivo, non facile da designare. Rimase senza nome e, proprio per
questo, era non domato, sconosciuto.
A quel tempo avevamo una baby-sitter, Sara Stanley. Parlava con una voce
acutissima, insopportabile. Una sera che stavo facendo il bagno, mi disse di
lavare bene il mio “bottoncino”. Non posso dire che il nome mi piacesse. Mi
ci volle un po’ persino per capire di che cosa si trattasse. Ma c’era qualcosa
nella sua voce.., e il nome rimase. Ebbene, sì, il mio Bottoncino.
Sfortunatamente il nome mi seguì nell’età adulta. Nella nostra prima notte
insieme dissi all’uomo, che poi avrei sposato, che Bottoncino era timida ma
volenterosa, e sicuramente avrebbe svelato tutti i suoi misteri se solo lui fosse
stato paziente. Penso che rimase un po’ interdetto ma, come è nella sua
natura, stette al gioco, e dopo prese addirittura a chiamarla per nome.
«Bottoncino è lì? È pronta?» Non sono mai stata convinta del suo nome, e
quanto accadde in seguito non fu una vera sorpresa. Una notte, durante un
rapporto sessuale tra me e mio marito, lui la chiamò: «Vieni, mia piccola
Bottoncino», ma lei non rispose, come se fosse improvvisamente scomparsa.
«Bottoncino, sono io, il tuo divertimento preferito. » Nessuna risposta,
nessun movimento.
Allora la chiamai io. «Bottoncino, dài, vieni fuori, non puoi farmi questo.»
Nessuna risposta, nessun suono. Bottoncino era morta, muta, sparita.
«Bottoncino! » Non comparve per giorni, poi settimane, poi mesi. Mi avvilii.
Riluttante, raccontai la cosa alla mia amica Teresa, che trascorreva tutto il
suo tempo in un nuovo gruppo di donne. «Bottoncino non mi parla, Teresa.
Non risponde ai miei richiami.» «Chi è Bottoncino?» «La mia Bottoncino»
risposi. «La mia Bottoncino! »
«Di che cosa stai parlando?» chiese, con una voce che d’improvviso suonò
molto più profonda della mia. «Ragazza, intendi dire la vulva?» «Vulva?»
dissi a Teresa. «Che cos’è?» «È tutto» rispose. «È l’intera faccenda.» Vulva.
Vulva. Potevo sentire qualcosa che si schiudeva. Bottoncino non andava
bene, l’avevo sempre saputo. Noù potevo vedere Bottoncino. Non avevo mai
saputo chi o che cosa fosse, e non evocava l’idea di un’apertura odi un paio
di labbra.
Quella notte, le abbiamo dato un nome, mio marito Randy e io. Proprio come
con le rane. Vestita di abiti sexy e lustrini, messa di fronte al tempio del
corpo, le candele accese. Dapprima abbiamo sussurrato: «Vulva, vulva».
Piano, per vedere se sentiva. «Vulva, vulva, sei lì?» Era dolce e sicuramente
qualcosa si agitò. «Vulva, vulva, sei vera?»
E cantammo la canzone della vulva, che non significava gracidare, ma
baciare, e danzammo la danza della vulva, che non comportava salti ma
sfioramenti con le labbra, e tutte le altre parti del corpo erano schierate —
Betty e Gladys e Shorty — di sicuro stavano in ascolto.
SCENA 12
Domanda
DAYANA- Di che cosa sa la Vagina?
CORO- Terra. Spazzatura bagnata. Dio. Acqua. Un mattino nuovo di zecca.
Profondità. Zenzero dolce. Sudore. Dipende. Muschio. Me. Non ha odore, mi
hanno detto. Ananas. Paloma Picasso. Carne terrosa e muschio. Cannella e
chiodi di garofano. Rose. Foresta di muschio, gelsomino e spezie, profonda,
profondissima foresta. Muschio umido. Caramelle squisite. Il Sud Pacifico.
Una via di mezzo tra il pesce e i lillà. Pesche. I boschi. Frutta matura. Tisana
alla fragola e kiwi. Pesce. Paradiso. Aceto e acqua. Liquore dolce e leggero.
Formaggio. Oceano. Sexy. Una spugna. L’inizio.
SCENA 13
Alcuni fatti
DAYANA- La Vagina, alcuni fatti.
ANNA PIA- Nell’Ottocento, le ragazze che imparavano a raggiungere l’orgasmo
con la masturbazione erano considerate casi clinici. Spesso venivano “curate o
“corrette” con l’amputazione o con la cauterizzazione della clitoride o con
“cinture di castità in miniatura”, ottenute cucendo insieme le labbra vulvari
per rendere inaccessibile la clitoride, e persino con la castrazione, che
avveniva rimuovendo chirurgicamente le ovaie. Ma nella letteratura medica
non c’è alcun riferimento all’asportazione dei testicoli o all’amputazione del
pene per impedire ai ragazzi di masturbarsi.
Negli Stati Uniti, l’ultima clitoridectomia per “curare” la masturbazione di cui
si ha testimonianza è stata eseguita nel 1948, su una bambina di cinque anni.
Tra gli ottanta e i cento milioni di bambine e di giovani donne hanno subito
mutilazione genitale. Nei paesi dove è praticata, soprattutto africani, circa due
milioni di giovanissime ogni anno, si aspettano che il coltello - o il rasoio o un
frammento di vetro - tagli loro la clitoride o la asporti completamente e di
avere le labbra completamente o in parte... cucite insieme con filo per suture o
spine. Spesso si cerca di edulcorare l’operazione chiamandola “circoncisione”.
Lo specialista africano Nahid Toubia chiarisce il concetto: in un uomo
equivale dall’amputazione della maggior parte del pene fino all”asportazione
integrale del pene, delle sue radici di tessuto molle e di parte della pelle
scrotale”.
Le conseguenze a breve termine di queste mutilazioni includono tetano,
setticemia, emorragie, tagli nell’uretra, nella vescica, nelle pareti Vaginali e
nello sfintere anale. Quelle a lungo termine: infezione uterina cronica, estese
cicatrici che possono ostacolare a vita la deambulazione, formazione di fistole,
aumento del dolore e dei rischi durante il parto, morte prematura.
SCENA 14
Riabilitare la Fica
TIZIANA TROJA- Io la chiamo fica. L’ho riabilitata: “fica”. Mi piace davvero.
“Fica.” Ascoltate. “Fica.” E immaginate. F F, Fi Fi. Femmina, fianchi, fallo,
fare, figlio. Felicità e Futuro. E anche: i come io, inizio, identità, immensità,
isola, irta e iridata. F i, f i, fifl, fischio lungo acuto, un treno che sfreccia in
aperta campagna. Ed ecco la C: ecco il fico, il dolce frutto, e insieme la foglia
di fico. Infine Ca, Ca. Con la a ampia e rotonda. Di caverna, cantare,
capezzolo, cara, carne, casa, cammina — c chiusa — chiusa dentro, dentro la
casa al calduccio... Fica. Dimmi, dimmi: “Fica”. Dillo, dimmi: “Fica”...
“Fica.”
SCENA 15
[DAYANA DANZA IN SCENA PER TUTTA LA MUSICA]
SCENA 16
La cosina liberata
ANNA PIA- Ricordo: dicembre 1965, cinque anni
Mia madre mi dice, con una voce terribile, forte, minacciosa, di piantarla di
grattarmi la cosina. Mi viene il terrore di averla staccata via a furia di grattare.
Non mi tocco più, nemmeno nel bagno. Ho paura che l’acqua mi entri dentro e
mi riempia tutta finché non esplodo. Mi metto dei cerotti sulla cosina per
coprire il buco, ma si staccano nell’acqua. Mi immagino un turacciolo, un
tappo della vasca da bagno, messo lì dentro per impedire che ci entri qualcosa.
Dormo con tre paia di mutande di cotone stampate a cuoricini sotto il
pigiamone. Ho ancora voglia di toccarmi, ma non lo faccio.
TIZIANA TROJA- Ricordo: sette anni
Marcolino, che ha dieci anni, si arrabbia con me e mi tira un pugno tra le
gambe con tutta la sua forza. Ho l’impressione che mi abbia fatto a pezzi.
Torno a casa zoppicando. Non riesco a fare pipì. La mamma mi chiede che
cos’ho alla cosina e quando le dico cosa mi ha fatto Marcolino, si mette a
gridare e dice di non permettere mai più che qualcuno mi tocchi là sotto. Ho
cercato di spiegare... non l’ha toccata, mamma, ci ha tirato un pugno.
MICHELA SALE MUSIO- Ricordo: tredici anni
C’è questa bellissima donna di ventiquattro anni nel mio quartiere e io la
guardo sempre. Un giorno mi invita nella sua macchina. Mi chiede se mi
piace baciare i ragazzi e io rispondo di no. Allora lei dice che vuole
mostrarmi qualcosa, e si sporge in avanti e mi bacia così dolcemente sulle
labbra e poi mi infila la lingua in bocca. Wow! Mi chiede se voglio fare un
salto a casa sua e poi mi bacia di nuovo e mi dice di rilassarmi, di sentire e
basta, di lasciare che le nostre lingue si sentano. Poi chiede a mia madre se
posso restare lì a dormire e mia madre è felicissima che una donna così bella
e di successo si interessi a me. Ho paura e contemporaneamente non vedo
l’ora. Il suo appartamento è fantastico. Arredato benissimo. Sono gli anni
settanta: perline, cuscini soffici, luci soffuse. Decido immediatamente che
quando sarò grande farò la segretaria, come lei. Lei si prepara una vodka e
poi mi chiede che cosa voglio bere. Io rispondo quello che beve lei e lei dice
che non pensa che a mia madre farebbe piacere. Io dico che probabilmente
non le farebbe neanche piacere che baciassi le ragazze, e la bella donna mi
serve la vodka. Poi si cambia e si mette un pagliaccetto di raso color
cioccolata. È così bella. Ho sempre pensato che le lesbicone fossero brutte.
Dico:
«Sei bellissima» e lei: «Anche tu». Poi dico: «Ma ho solo questo reggiseno e
mutandine di cotone bianco». Allora lei mi aiuta a indossare, lentamente, un
altro pagliaccetto di raso. È color lavanda, come i primi, dolci giorni di
primavera. L’alcol mi è andato alla testa e mi sento rilassata e pronta. C’è un
quadro, sopra il suo letto, di una donna nuda con un’enorme capigliatura
afro. Lei mi distende sul letto delicatamente, lentamente, e il solo strofinarsi
dei nostri corpi mi fa venire. Poi mi fa di tutto, a me e alla mia cosina che
prima avevo sempre pensato fosse orrenda, e wow! Sono così calda, così
eccitata. Lei mi dice: «La tua Vagina, mai toccata da un uomo, ha un odore
così buono, così fresco, che vorrei poterla conservare così per sempre». Io
divento una furia scatenata e poi suona il telefono e naturalmente è la
mamma. Sono sicura che lo sa; qualsiasi cosa faccia, lei mi becca. Ho il
respiro pesante ma cerco di comportarmi normalmente quando vado al
telefono e lei mi chiede: «Che cosa ti succede, hai fatto una corsa?». Io
rispondo: «No, mamma, ho fatto ginnastica». Poi lei dice alla bella segretaria
di badare che io non stia intorno ai ragazzi e la donna le dice: «Si fidi di me,
non ci sono ragazzi qui intorno». Dopo la splendida donna mi insegna tutto
sulla mia cosina. Mi fa toccare davanti a lei e mi insegna tutti i diversi modi
per darmi piacere da sola. E molto precisa. Mi dice che devo sapere come
darmi piacere da sola così non avrò mai bisogno di un uomo. Il mattino dopo
ho paura di essere diventata un maschiaccio, perché sono così innamorata di
lei. Lei ride, ma non la rivedrò mai più. Ora la gente dice che è stato una
specie di stupro. Io avevo solo tredici anni e lei ventiquattro. Capii più tardi
che lei fu la mia salvezza a sorpresa, inaspettata e politically incorrect. Lei
aveva trasformato la mia triste cosina e l’aveva innalzata in una specie di
paradiso.
DAYANA- Perché gli piaceva guardarla? Assunta Pittaluga!
SCENA 17
Perché gli piaceva guardarla
[ASSUNTA PITTALUGA DANZA IN SCENA PER TUTTA LA MUSICA]
MICHELA SALE MUSIO- Questa è la storia è imbarazzante perché non è
politically correct. Voglio dire, so che sarebbe dovuto succedere in una vasca
con sali da bagno del Mar Morto, con un disco di Enya. E io felice di essere
donna. Conosco la storia. Le vagine sono meravigliose. L’odio che nutriamo
per noi stesse è solo la repressione interiorizzata e l’odio nei confronti della
cultura patriarcale, ma non corrisponde alla realtà. So tutto questo. Se
fossimo cresciute in una cultura in cui ci avessero detto che le cosce grasse
sono bellissime, ingolleremmo tutte frappè e biscotti, mollemente sdraiate, le
cosce che si espandono... Ma non siamo cresciute in una cultura del genere:
io odiavo le mie cosce, e odiavo ancora di più la mia Vagina. Pensavo che
fosse estremamente brutta. Ero una di quelle donne che l’aveva guardata, e
che se n'era pentita. Mi faceva star male; compativo chiunque dovesse andare
lì dentro.
Per sopravvivere, cominciai a far finta che tra le mie gambe ci fosse
qualcos’altro. Immaginavo mobili - accoglienti futon con trapunte di cotone
leggero, piccoli divani di velluto, tappeti di leopardo - oggetti graziosi fazzoletti di seta, porta vasi traforati - oppure scenari e paesaggi in miniatura
- laghi trasparenti o umide paludi. Mi abituai talmente alle mie fantasie, che
mi dimenticai del tutto di avere una Vagina. Ogni volta che facevo sesso con
un uomo, lo immaginavo dentro un guanto foderato di visone, una rosa rossa,
o una tazza cinese.
Poi incontrai Roberto, l’uomo più comune che avessi mai conosciuto. Era
alto e magro, anonimo, e indossava abiti color cachi. Non gli piacevano i cibi
speziati né ascoltare i dischi di Enya. Non nutriva alcun interesse per la
biancheria intima sexy D’estate stava all’ombra. Non parlava dei suoi
sentimenti intimi. Non aveva nessun problema o grana, e non era nemmeno
alcolizzato. Non era particolarmente divertente, loquace o misterioso. Non
era tirchio .o poco disponibile. Non era egocentrico o carismatico. Non
amava la guida veloce. Roberto non mi attraeva in modo particolare. Non
l’avrei notato in nessun modo, se non avesse raccolto il resto che mi era
caduto sul pavimento della rosticceria. Quando, porgendomi le monete, la
sua mano sfiorò casualmente la mia, qualcosa accadde. Andai a letto con
lui... e fu allora che avvenne il miracolo.
Venne fuori che a Roberto piacevano le vagine. Era un intenditore. Gli
piaceva il loro odore, il loro sapore, ma soprattutto il loro aspetto. Aveva
bisogno di guardarle. La prima volta che abbiamo fatto sesso insieme, mi
disse che doveva guardarmi.
«Sono qui»
IBBA MONNI- «No, te...Devo vedere te.»
SALE MUSIO- «Accendi la luce»
Pensavo che fosse uno svitato e cominciai ad agitarmi nell’oscurità. Accese la
luce.
IBBA MONNI- «Ok, sono pronto, pronto per vederti»
SALE MUSIO- «Sono qui, proprio qui.» Cominciò a spogliarmi. «Che cosa stai
facendo, Roberto?»
IBBA MONNI- «Ho bisogno di vederti»
SALE MUSIO- «Non ce n’è bisogno: tuffati dentro!»
IBBA MONNI- «Devo vedere come sei fatta»
SALE MUSIO- «Ti sarà già capitato di vedere un divano di cuoio rosso... »
Roberto continuò. Non aveva nessuna intenzione di fermarsi. Io volevo
vomitare e morire. «È una cosa molto intima! Non puoi semplicemente
entrare dentro di me?»
IBBA MONNI- «No. È la tua essenza. Devo guardare. »
SALE MUSIO- Trattenni il respiro. Lui guardò e guardò. Ansimò e sorrise, fissò
e gemette. Cominciò a respirare affannosamente e la sua faccia cambiò. Non
sembrava più un uomo comune, sembrava una meravigliosa bestia famelica.
IBBA MONNI- «Sei bellissima. Sei elegante e profonda, innocente e ribelle.»
SALE MUSIO- «Hai visto tutto questo, là?» Era come se mi stesse leggendo il
palmo della mano.
IBBA MONNI- «Ho visto questo e altro, altro ancora.»
SALE MUSIO- Rimase a guardare per circa un’ora, come se stesse studiando una
mappa, osservando la luna, fissandomi negli occhi, ma era la mia Vagina.
Nella luce lo osservavo mentre mi guardava, ed era così autenticamente
eccitato, così pacifico ed euforico, che cominciai a bagnarmi e a eccitarmi.
Cominciai a vedermi come lui mi vedeva. Cominciai a sentirmi splendida e
deliziosa, come un bel quadro o una cascata. Roberto non era intimorito, non
era disgustato. Cominciai a gonfiarmi, cominciai a sentirmi orgogliosa.
Cominciai ad amare la mia Vagina. Roberto vi si perse e io ero lì con lui,
nella mia Vagina, e tutti e due ci smarrimmo insieme.
SCENA 18
Mestruazioni
DAYANA- E quando una ragazza diventa una donna, arrivano le mestruazioni
CORO- Avevo dodici anni. Mia madre mi ha dato uno schiaffo.
Classe seconda, sette anni, mio fratello stava parlando di quelle “cose”. Non mi
piaceva il modo in cui rideva. Sono andata da mia madre. «Cos’è un ciclo?» ho
chiesto. «E’ una cosa che succede con scadenza regolare» mi ha risposto.
«Come il ciclo solare.»
Mio Papà mi diede un biglietto di auguri: “Alla mia piccolina che non è più tanto
piccola”.
Ero terrorizzata. Mia madre mi mostrò quegli spessi assorbenti igienici. Dovevo
mettere quelli usati nella spazzatura sotto il lavandino della cucina.
Ricordo che sono stata una delle ultime. Avevo tredici anni. Non vedevamo l’ora
che ci venissero.
Avevo tanta paura. Ho cominciato a mettere gli assorbenti usati in sacchetti di
carta marrone nei ripostigli bui sotto il tetto.
Terza media. Mia madre ha detto: «Oh, che bello». Mi ha mostrato come mettere
un assorbente interno. È entrato solo a metà.
Alle medie. Goccioline marroni prima che arrivassero. Sono coincise con un po’
di peluria sotto le braccia, che era cresciuta irregolarmente: un ascella aveva i
peli, l’altra niente. Ho associato le mestruazioni a fenomeni inspiegabili.
Avevo sedici anni, ero un pò spaventata. Mia madre ha detto che dovevo usare
una pezzuola. Niente Tampax. Non si poteva mica infilare qualsiasi cosa lì
dentro.
La mamma mi ha dato la codeina. Avevamo i letti a castello. Io sono andata in
quello di sotto e mi sono sdraiata li. Mia madre stava così scomoda. Mi sono
messa un po’ di cotone idrofilo.
L’ho detto a mia madre. Lei mi ha regalato delle bambole di carta con la faccia di
Sophia
Loren.
Una notte, sono arrivata a casa tardi e mi sono infilata nel letto senza accendere
nessuna luce. La mamma aveva trovato i tamponi di cotone usati e li aveva
messi tra le lenzuola del mio letto.
Quindici anni. Mia madre ha detto: auguri! e poi mi ha dato uno schiaffo. Non
sapevo se fosse una cosa buona o cattiva.
Avevo dodici anni, ero ancora in mutande. Non
mi ero vestita. Ho guardato giù
sulle scale Eccolo lì. Ho guardato giù e ho visto il sangue. Le mie mestruazioni
sembravano la miscela della torta prima che sia cotta.
Seconda media. La mamma se n’è accorta ‘dalle mie mutande. Allora mi ha dato
dei pannolini di plastica. Ho saputo che le indiane stavano sedute sul muschio
per cinque giorni. Avrei voluto essere una nativa americana.
Mia madre è stata molto affettuosa: «Vado a prenderti un assorbente». Avevo
quindici anni e non vedevo l’ora che mi venissero. Ero alta e continuavo a
crescere.
Quando la mia amica Marisa le ha avute, ha festeggiato. La sua famiglia ha
preparato una cena. Quando ho visto in palestra alcune ragazze con gli
assorbenti interni, ho pensato che fossero delle poco di buono.
Tutte ‘volevamo le ‘mestruazioni. Le volevamo’ subito. Ho visto quelle gocce
rosse sulle piastrelle rosa e ho detto: «Sììì». Tredici anni. Era prima che
mettessero in commercio gli assorbenti igienici. Mia madre era contenta per
me.
"Devi fare attenzione al vestito". Io ero povera. Sangue sul dietro del mio vestito
in chiesa. Non si vedeva, ma mi sentivo in colpa. Ho pensato che era tremendo.
Usavo gli OB e mi piaceva infilare le dita lì dentro.
Undici anni, portavo un paio di pantaloni bianchi. Il sangue ha cominciato a
uscire.
Avevo dieci anni e: mezzo. Nessuna preparazione. Non ero pronta. Roba
appiccicosa e marrone sulle mutande. Mi è venuto mal di schiena.
Mi sentivo arrapata. Avevo paura che la gente sentisse l’odore. Paura che dicesse
che puzzavo di pesce. Vomitavo, non riuscivo a mangiare. Terrorizzata.
Dodici anni. Ero felice. La mia amica aveva un tavolino per le sedute spiritiche,
ha chiesto quando ci sarebbero venute le mestruazioni, ho guardato giù, e ho
visto il sangue. Ho guardato giù ed eccolo lì. Mi piacciono. Sembrano vernice.
Sono una donna. A volte sono molto rosse le gocce che cadono nel gabinetto.
Certe volte sono marroni e mi preoccupo. Mi è venuta fame.
Non credevo che mi sarebbero venute. Avevo dodici anni. Mia madre mi ha dato
uno schiaffo e mi ha portato una camicia di cotone rosso. Mio padre è uscito
comprare una bottiglia sangria. Hanno cambiato completamente il mio modo di
sentire me stessa. Sono diventata molto silenziosa e matura. Una brava donna
una tranquilla lavoratrice, virtuosa, che non parla mai.
Nove anni e mezzo. Ero sicura che sarei morta dissanguata, ho appallottolato le
mutande
e
le
ho
buttate in un angolo. Non volevo preoccupare i miei genitori.
Mia madre mi ha dato acqua calda e vino e mi sono addormentata.
Ero in camera, a casa di mia madre. Le mie amiche mi hanno detto che si ha
un’emorragia ogni mese. Mia madre non poteva sopportare che diventassi
grande. «Cara professoressa Cogotti, la prego di dispensare mia figlia dall'ora
di ginnastica. Si è appena sviluppata».
Al campo mi hanno detto di non fare il bagno con le mestruazioni. Mi hanno
spennellata di antisettico.
SCENA 19
Finale
Saluti finali
[IL SIPARIO SI CHIUDE]
FINE