La nave più brutta della flotta

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La nave più brutta della flotta
La nave
più brutta
della flotta
di Enrico Cernuschi
L
Storia e gloria
(fino ad oggi ignorata)
della regia cannoniera
Sebastiano Caboto
e navi italiane sono belle. La cosiddetta legge di
Dassault, il padre dei
celebri e filanti caccia
francesi Mirage, in base
alla quale: “Se un aereo è
bello è anche buono”, era
già stata scoperta, in verità, sin dai primi del Novecento, dai grandi progettisti navali italiani (Rota, Truccone, Bonfiglietti, Vian, Rotundi, Pugliese e Sigismondi in primis)
attivi fino agli Anni 50, salvo proseguire, in seguito, fino ad oggi, a opera dei loro successori, riusciti
a ingentilire e proporzionare perfino le spigolose
sovrastrutture stealth odierne.
Queste qualità estetiche e marine hanno giocato il
loro ruolo anche in occasione delle frequenti missioni all’estero delle navi della nostra Marina, facendo di quelle unità altrettanti preziosi ambasciatori sia del lavoro italiano (tradotto, alla fine,
in non poche, importanti commesse straniere, anche recenti, ai nostri cantieri) sia, più in generale,
di una concezione della vita (leggi cultura) che caratterizza le genti di questo Paese sin da prima dei
tempi della Magna Grecia, coniugando felicemente il bello e l’utile.
Date queste premesse, una nave italiana progettata apposta per operare in permanenza all’estero,
spaziando dall’America Latina alla Cina, avrebbe
dovuto essere, pertanto, di gradevole aspetto e bene armata, allo scopo di dar corso a quel “Dà giusta gloria e potenza alla nostra bandiera … poni sul
nemico il terrore di lei”
indicato nella Preghiera
del Marinaio. Il diavolo, tuttavia, dovette
metterci la coda perchè
il risultato maturato nel
1910, dopo tre anni di
studi da parte del colonnello del Genio Navale Ettore Berghinz, per una “cannoniera per l’America del Sud” destinata a operare lungo il Rio
delle Amazzoni, si tradusse nella Regia Nave Sebastiano Caboto, giudicata subito da tutti alla stregua
del brutto anatroccolo della Regia Marina.
Vent’anni di solitudine
Impostata il 2 marzo 1911 nei Cantieri Navali Riuniti di Palermo e varata e completata due anni
dopo, la nuova unità dislocava 876 tonnellate, pescava appena 3,4 metri a pieno carico ed era armata con sei cannoni da 76/40, oltre a quattro mitragliere Colt da 6,5 mm. L’apparato motore, formato
da due classiche macchine a triplice espansione
alimentate a carbone, assicurava una velocità massima di 13 nodi e una buona autonomia, incrementabile grazie a una velatura aurica ausiliaria.
Manovriera e abbastanza marina, la nave assicurava altresì una buona abitabilità al proprio equipaggio, grazie anche agli ampi e ventilati locali, tipici
degli stazionari destinati ai climi tropicali. L’aspetto, però, era un altro paio di maniche. Sembrava
disegnata con la riga e la squadra, tutta angoli retti e già demodé alla propria nascita.
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Per la verità, le caratteristiche del Caboto ne
avrebbero fatto un prezioso avviso scorta
in occasione della dura guerra al traffico
scatenata dai sommergibili tedeschi nel
Mediterraneo occidentale, tra il 1916 e il
1918, contro le importazioni italiane. Le
ragioni del Ministero degli Esteri prevalsero, tuttavia, rispetto a quelle dello Stato
Maggiore della Marina e la nostra cannoUn’immagine del 1913 della regia cannoniera Sebastiano Caboto, con il gran
niera rimase in Cina a proteggere le missiopavese a riva, ripresa probabilmente subito dopo il varo; in apertura, la meni cattoliche e i traffici dei nostri imprendidaglia commemorativa assegnata a tutti coloro che parteciparono alla repressione della rivolta dei Boxer
tori attivi laggiù, mentre la sicurezza del
grano americano, della carne argentina, e
Entrato in servizio il 23 novembre 1913 il Cabodel carbone britannico, vitali per il Paese in guerra
to partì il mese successivo per la lontana Cina.
rimase affidata nel Mediterraneo a una dozzina di
La traversata durò tre mesi, dando inizio a un lununità di tutti i generi, tutte più vecchie del Caboto,
go ciclo di missioni intraprese risalendo i
grandi fiumi di quel Paese, da due anni in
preda ad una guerra civile destinata a protrarsi fino al 1949, per visitare e proteggere
piccole comunità italiane e straniere dalle
razzie di pirati, predoni, soldati sbandati, e
dai partigiani dei signori della guerra, non
sempre distinguibili tra loro.
Di solito, bastava la semplice presenza dell’unità o di una delle sue consorelle inglesi,
statunitensi, giapponesi o francesi, tutte dipinte (colori vittoriani) di bianco e con i fuNave Caboto non aveva indubbiamente una bella linea, ma la cosa era comaioli gialli, per assicurare l’ordine. In qualmune un po’ per tutte le cannoniere allora in servizio in Cina, se guardiache altra occasione era necessario sbarcare
mo questa foto degli Anni 20 che mostra l’altra nostra unità da pattugliaun plotone di marinai, e allora le avventure
mento, l’Ermanno Carlotto, in navigazione in acque cinesi
si sprecavano come ricordano, per esempio,
un bel libro di Mino Milani, Il drago di Fiamma (oggi introvabile), del 1965 o un film come
molto meno marine, con un’autonomia risicata e
Quelli della San Pablo, del 1966, interpretato da un
un’abitabilità miserabile, essendo state concepite cosuperbo Steve McQueen.
me siluranti d’altura.
Il Sebastiano Caboto perse, così, l’occasione di partecipare al conflitto mondiale guadagnando invece, la fama, ingiusta, di nave che non combatte,
nonostante l’intensissima e non certo tranquilla
attività dei suoi uomini a bordo e a terra.
La storia non cambiò nel corso degli Anni 20 e 30.
Navigazioni dalla Siberia allo Yang Tze fino ad Hankow o a Shanghai e grane a non finire, dato il precipitare della guerra civile cinese nella nuova, durissima fase della lotta senza quartiere combattuta tra i
nazionalisti di Ciang Kai Sheck e i comunisti di
Mao, per tacere del sempre più pesante intervento
nipponico intrapreso dal 1931 in poi. Per il 1934 lo
La stessa cosa si può dire osservando questa immagine della
stato della nave era ormai preoccupante. Il nuovo
San Pablo, la nave fedelmente ricostruita ad hoc sui piani di una
capo di Stato Maggiore, l’ammiraglio Domenico
gunship fluviale statunitense degli Anni 20, per girare il film
Cavagnari, già comandante superiore navale in Ci“Quelli della San Pablo” nella prima metà degli Anni 60
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A partire dalla fine dell’intervento per la crisi dei Boxer, la
presenza occidentale in Cina divenne sempre più marcata, come testimonia l’aspetto del quartiere diplomatico
austroungarico sulla Wilhelmstrasse (!) della città cinese
na nel 1932, decise pertanto, avendo verificato la situazione, di rimpatriare la ormai vecchia unità.
Si sarebbe potuto venderla e demolirla sul posto, recuperando prima la stella di prora, ma nell’Italia del
1934 anche le poche centinaia di tonnellate di acciaio ad alta resistenza di quello scafo facevano comodo, pertanto venne disposto, quello stesso anno,
il lungo viaggio di ritorno del Caboto in Patria.
La crisi con l’Inghilterra, sfociata infine nella guerra
d’Etiopia, interruppe, però, il trasferimento a metà,
in quanto la nostra ormai sfiatata cannoniera fu dirottata a Massaua, in Eritrea. Doveva trattarsi di una
destinazione temporanea, ma le buone caratteristiche di abitabilità in quel clima particolarmente torrido, le ormai lente, ma sempre affidabili ed economiche macchine a carbone e l’armamento (di piccolo calibro, ma sempre utile ai fini dell’integrazione delle difese costiere di quella base africana) fecero sì che il bastimento si trattenesse laggiù fino al
1938. Ancora una volta, come nel 1915-1918, una
guerra mancata e una destinazione scomoda.
Nel 1938, infine, la nave arrivò a Rodi, dove rimase. Un telegramma del Ministero aveva infatti stabilito, con due righe, che per il seguito, il Caboto,
già nave da guerra, passava ai ruoli del naviglio ausiliario in qualità di nave appoggio sommergibili.
Era l’ultimo insulto della sorte. Troppo lento e poco armato per combattere, sopravviveva soltanto
per via dei locali spaziosi e aerati destinati ad accogliere, come caserma, gli equipaggi dei battelli di
base nel Dodecaneso o, forse, i marinai del porticciolo di Rodi, risparmiando così all’erario il costo
di un nuovo edificio.
do l’una dall’altra, che l’apparato motore di
quella nave fosse andato in avaria in maniera
irreparabile e che l’unità fosse, pertanto, solo
un pontone. Ma l’elenco delle navigazioni
della nave, conservato presso l’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare, evidenzia, nel 1940-1942, alcune missioni da Rodi
verso Coo, Lero e ritorno alla velocità di 8–9
miglia con punte di 10 per trasporti, collegamenti
e lavori periodici. Non, quindi, l’immobilità assoluta e senza speranza di cui, talvolta, si parla.
Dall’inizio della guerra italiana, la cannoniera, posta agli ordini del 1° tenente di vascello Giuseppe
Franzitta, un ufficiale di complemento in quel grado dal 1918, concorse inoltre, con le proprie mitragliere (passate, nel 1932, al calibro 13,2 mm a scopi
anche commerciali e promozionali in Cina), alla difesa antiaerei di Rodi lamentando anche una vittima, l’allievo fuochista Gennaro Pecoraro, da Salerno, caduto a bordo la notte tra il 12 e il 13 febbraio
1941, “nell’adempimento del proprio dovere” durante
un bombardamento aereo inglese e decorato di Medaglia di Bronzo al Valor Militare alla memoria.
La grande occasione della nave apparentemente
senza storia sembrò profilarsi, improvvisamente, il
22 maggio 1941, quando i tedeschi chiesero alle
Forze Armate italiane di base nell’Egeo (dopo averlo rifiutato in precedenza) uno sbarco urgente nella parte occidentale di Creta, a seguito della mala
parata dei propri paracadutisti. Data la lenta velocità delle navicelle dell’improvvisato convoglio
d’invasione, il Caboto avrebbe potuto partecipare
benissimo alla missione, contribuendo non tanto
Nonostante tutto
Pure, i comandanti che si alternarono da allora in
poi su quella nave cercarono di conservare la natura militare del Caboto. In Italia si sparse la voce,
ripresa in seguito da più fonti secondarie, copian-
Un’altra testimonianza architettonica dell’epoca a Tien Tsin è
la caserma della Regia Marina Ermanno Carlotto, tuttora esistente, salvaguardata e restaurata dal Governo di Pechino
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In seguito, la vita di quella nave e dei suoi marinai trascorse come sempre: lunghe permanenze in porto a Rodi e brevi missioni di uno
o due giorni tra le isole.
Il postino suona sempre due volte
La notte tra il 14 e il 15 marzo 1942 ci fu, però, una novità: un bombardamento dal mare
a opera degli incrociatori britannici Dido ed
Euryalus in compagnia di sei cacciatorpediniere. Favorita dall’assenza di sbarramenti minati, essendo le acque troppo profonde, l’azione
di fuoco, condotta nella più totale oscurità
(fatta eccezione per i bengala lanciati dagli aerei inglesi) durò 20 minuti e, come tutte le
Un’immagine del Caboto probabilmente della fine degli Anni 20, a giuanaloghe iniziative di questo genere, non caudicare dal fatto che la nave non veste più la livrea vittoriana con il fumaiolo giallo
sò danni militari, pur uccidendo sette civili
raccolti nella cattedrale ortodossa. Gli incrociatori spararono contro gli aeroporti, senza
col peso dei suoi cannoni, quanto con gli ampi lorisultati, e le siluranti, in direzione dell’area del
cali che avrebbero permesso di trasportare un paio
porto. La reazione delle batterie costiere da 152
di compagnie in più, ma nonostante l’entusiasmo
mm, effettuata mirando alle vampe dei cannoni
della gente, il governatore del Dodecaneso, geneavversari, sfiorò, alla fine, con un proietto (seconrale Ettore Bastico, si oppose.
do la memorialistica britannica) l’Euryalus e, subiQualcuno dei suoi gli aveva detto, sbagliando, che
to dopo, le navi della Royal Navy aumentarono la
quella nave, per quanto vecchia, era classificata
velocità, accostarono e si ritirarono in linea di fila,
come incrociatore e, di conseguenza, era meglio
scomparendo così dalla vista degli appena sopragnon metterla in gioco per non lamentare, in caso
giunti, in lontananza, MAS 536 e 545, in quel modi affondamento, una perdita di prestigio. Anche
mento in mare per uno dei consueti pattugliail posamine Legnano, assai più prestante coi suoi
menti notturni antisom e antinave.
15 nodi e due cannoni da 102/35 e un pezzo da
In quell’occasione, l’equipaggio del Caboto dimo76/40, avrebbe dovuto accompagnare la spediziostrò un’insospettata efficienza, aprendo il fuoco
ne, ma ancora una volta il governatore si oppose
dopo breve tempo in direzione delle vampe dei
perché l’unità era assegnata alla sua persona per
cannoni dei cacciatorpediniere avversari. Il tiro
gli spostamenti attraverso le isole, svolgendo altre(86 proietti da 76 mm), diretto dal comandante,
sì compiti di rappresentanza, essendo allestita con criteri di lusso e pannelli di legno
isolante dappertutto. Perderla sotto le cannonate inglesi, pertanto, sarebbe stato un
peccato.
Alla fine, come Dio volle, i 2.400 uomini del
corpo da sbarco, evidentemente spendibili
al pari dei cisternini, dei motopescherecci e
dei piroscafetti che lo formavano, partirono,
il pomeriggio del 27 maggio da Rodi riuscendo ad arrivare sani e salvi a destinazione, a Sitia, e a sbarcare felicemente le truppe
e i materiali grazie alla decisa guida e intuizione del comandante superiore in mare,
l’allora capitano di vascello Aldo Cocchia. Il
Il magnifico aspetto all’alba di una delle gole nelle quali scorre lo Yang
Caboto e i suoi marinai se li videro sfilare daTze (Fiume Azzurro) dove tanto operò la nostra piccola ma indomita canvanti, non senza una certa malinconia.
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Il porto della cittadina Eritrea di Massaua con il centro storico alle spalle, dove, dal 1932 al 1938 venne ridestinato come stazionario il Caboto
risultò regolare e senza colpi mancati, pur non
vantando centri, in quanto eseguito con modalità
di sbarramento alla massima elevazione, ma risultato ben presto troppo corto rispetto alla portata
massima dei cannoni da 120 mm delle siluranti
nemiche, le quali spararono, in tutto, circa 200
colpi nel corso di un rapido passaggio. La circostanza depose, in ogni modo, a favore di quella
nave trascurata e del suo comandante, promosso a
maggio capitano di corvetta, mentre la piccola ausiliaria dall’animo ancora guerriero si spostava dal
proprio ormeggio ordinario al molo nord per trasferirsi, con compiti anti nave, alla banchina del
molo San Nicola, per poter battere, se necessario,
l’ingresso del mandracchio.
Secondo le auree regole della strategia descritte dal
celebre filosofo cinese Sun Tsu, non bisognerebbe
mai ripetere due volte la stessa mossa. Probabilmente, però, gli inglesi non l’avevano mai letto,
in quanto si ripresentarono nuovamente davanti a
Rodi la notte tra il 12 e il 13 agosto 1942.
Questa volta si trattava del 15th Cruiser Squadron,
una divisione navale formata dagli incrociatori
Cleopatra (nave di bandiera del contrammiraglio
Arthur John Power, arrivato per aereo nel Mediterraneo appena 12 giorni prima) e Arethusa in compagnia dei caccia Sikh, Zulu, Javelin e Kelvin. L’attacco aeronavale, come sempre preceduto e appoggiato da un bombardamento aereo, iniziò alle
ore 23.11 del 12. I piani britannici prevedevano,
questa volta, un bombardamento costiero a distanze molto più ravvicinate, essendo stata constatata l’inefficacia dell’operazione precedente, ma
le cose, secondo il rapporto inglese, andarono male sin dal principio.
La reazione delle batterie costiere (in tutto una
dozzina di cannoni da 152, 120 e 102 mm), le luci
abbaglianti dei proiettori, il fumo causato dal
bombardamento aereo, giudicato troppo vicino al
porto e, infine, un attacco di MAS spinsero, infatti, Sir Arthur a interrompere il bombardamento,
iniziato alle ore 00.03 del 13 agosto, dopo appena
quattro minuti, ottenendo così, come recita il rapporto di missione originario rintracciato recentemente in Gran Bretagna, un result poor, ossia un
esito piuttosto scarso, avendo gli incrociatori aperto il fuoco a distanze molto superiori rispetto a
quanto pianificato senza poter osservare alcunché;
oltretutto nessun “colpo a segno” (hits) fu osservato o riferito dagli aerei.
Da parte italiana, la difesa fu giudicata soddisfacente in quanto, questa volta, si registrò, in tutto,
soltanto un ferito (ancora una volta un civile), data la brevità dell’azione di fuoco, e danni praticamente nulli da parte delle sei unità avversarie, correttamente identificate da terra. I soliti MAS 536 e
545 erano in mare anche quella notte nella zona
antistante il porto e il primo, al comando del tenente di vascello Giusto Riavini, riuscì, questa volta, a fare in tempo a portarsi, nel giro di tre minuti, nel cerchio di lancio. Uno dei due siluri avrebbe
colpito, pochi secondi dopo, da 800 metri di distanza, un incrociatore, tosto allontanatosi nella
notte dopo l’esplosione.
Supermarina prese atto dell’episodio, senza peraltro giudicarlo probabile, annotando, nel contempo, la reazione delle batterie costiere e della navi
Caboto e Legnano. Quest’ultimo, sparò soltanto
con i propri cannoni da 102 mm, data la distanza.
Il fatto nuovo
La cronaca di quella notte narrata fino a questo
momento è, tutto sommato, nota. Quell’azione
minore ebbe, però, un’appendice, qui rivelata per
la prima volta. La succinta relazione inglese non
accenna, in verità, alle vicende dei cacciatorpedi-
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L’ingresso del porto di Rodi, l’isola del Dodecaneso annessa all’Italia nel 1912 durante la guerra italo – turca; nella foto piccola,
l’ingresso in quell’anno dei bersaglieri italiani nella città greca
niere: le unità sottili britanniche si erano portate,
questa volta, a meno di 3.000 metri dal porto nel
tentativo di colpire, finalmente, le navi ormeggiate
laggiù. Scoperte prima ancora che gli incrociatori
avessero avuto modo di aprire il fuoco, erano state
prontamente inquadrate, per colmo di sfortuna,
dalle fotoelettriche da 120 cm di Rodi e a questo
punto il vecchio Caboto, sempre agli ordini di Franzitta, aveva iniziato il tiro contro il caccia serrafila
avversario (il Kelvin), in quanto le navi britanniche
avevano immediatamente accostato in fuori.
Il risultato strategico, ossia impedire il bombardamento da parte dei caccia inglesi, era stato così raggiunto, ma i bene addestrati e motivati cannonieri
e puntatori di quel vecchio scarafone non intendevano perdere l’occasione di una vita e il loro fuoco
celere, passato immediatamente al tiro d’efficacia,
fu infine premiato da un’esplosione a bordo dell’ultima unità nemica. Quella stessa deflagrazione che
l’equipaggio del MAS attribuì, legittimamente, al
proprio siluro. Un “direct hit 3 inch. Direct action fuzed shell”, ovvero un colpo da 76 mm centrò quel
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caccia, provocando un foro del diametro di 3 pollici
e mezzo e scoppiando, infine, nell’apparato motore. E soltanto quella vecchia, sfottuta cannoniera
disponeva di armi di quel calibro che tirarono,
quella notte, contro le unità inglesi. I colpi lunghi
dei quattro cannoni del Caboto in quel momento in
azione provocarono, inoltre, qualche danno da
schegge al caccia sezionario Javelin, il quale precedeva in quel momento il Kelvin.
Informato dell’accaduto, Sir Arthur tirò, per la storia
e per le cronache sui giornali, un paio di fiancate coi
propri incrociatori dirette, alla cieca, contro l’isola e
si ritirò, dopo l’avvistamento di tre MAS (in realtà
erano solo i MAS 536 e 545), a tutta velocità, lasciando libertà di manovra alle due siluranti colpite.
Il Javelin e il Kelvin iniziarono, così, la propria lenta navigazione alla volta di Cipro. Il primo dei due
caccia, colpito a dritta circa tre piedi al di sopra
della linea di galleggiamento all’altezza della caldaia nº. 2, non poteva procedere oltre la velocità
massima stimata di 24 nodi. Inoltre le schegge del
proietto avevano causato danni alle tubolature del
vapore e ai condotti della nafta, riducendo l’autonomia della nave a causa della contaminazione da
acqua di mare di due depositi.
In seguito, gli inglesi avrebbero scritto che i due
caccia si erano staccati dalla formazione principale
Il cacciatorpediniere HMS Kelvin (1.700 tonnellate di dislocamento con 6 cannoni da 120
mm, contro le 876 tonnellate e i 6 cannoni da
76 mm del Caboto) che, nonostante ancora oggi venga ammesso solo ufficiosamente dalle autorità britanniche, trovò un contrasto valoroso
da parte della piccola Caboto che ebbe così un
momento di gloria, battendosi strenuamente
per effettuare una prolungata caccia a un sommergibile colto al largo di Cipro, ma se davvero ciò avvenne dovette trattarsi di un falso allarme in quanto nulla del genere risulta dagli atti italiani e tedeschi, né alcun battello andò perduto quel giorno in
quella zona. Raggiunta, il 13, Famagosta le due navi
eseguirono laggiù le prime riparazioni coi mezzi di
bordo e si rifornirono di acqua e nafta per poi trasferirsi, il 14 ad Haifa, dove il Javelin trascorse under
repair una settimana, interrotta soltanto per un
giorno in seguito alla necessità di scortare il Kelvin a
Port Said. Preso in carico dall’arsenale di Alessandria, il Kelvin proseguì in quella sede i lavori fino al
24 agosto 1943, per poi ricongiungersi col Javelin.
Qualcosa, però, continuava a non funzionare per il
verso giusto, tanto che la nave passò, a settembre,
nel Mar Rosso per un ulteriore ciclo di lavori da eseguire coi mezzi di bordo (self refit) a Massaua, restando in quelle acque per altri due mesi. Richiamato nel Mediterraneo a novembre, data la penuria di
cacciatorpediniere che affliggeva la Mediterranean
Fleet, fu destinato essenzialmente a compiti di scorta, data la propria sempre modesta velocità massima, scesa infine ad appena 18 nodi per l’aprile
1943. Rimpatriato, ebbe l’apparato motore ricostruito tornando infine in squadra nell’aprile 1944.
L’ultima vicenda
Quanto al Caboto, le sue macchine erano ormai
talmente logore, nel 1943, che si ritenne utile
sbarcare i cannoni (passati a una nuova batteria
costiera realizzata sulla Torre di San Nicolò) facendone, a tutti gli effetti, una nave sede comando.
Immobilizzata per avaria, nonostante un ultimo
tentativo di rimettere in moto almeno una delle
due macchine e di procurarsi il carbone necessa-
rio, e al comando del capitano di corvetta Corradino Corradini (in seguito
distintosi a Lero, raggiunta in maniera avventurosa portando la Bandiera
di Combattimento del Caboto), la nave passò, il 12 settembre, sotto controllo tedesco in ottemperanza con gli
accordi di neutralità, stile Vichy, stipulati a Rodi, il pomeriggio del giorno precedente,
tra il governatore, l’ammiraglio Inigo Campioni, e
i tedeschi, e violati, in seguito da questi ultimi la
sera del 21 di quello stesso mese in imminenza
della creazione del governo della nuova Repubblica Sociale Italiana. Campioni, come è noto, fu fucilato il 24 maggio 1944 a Parma assieme all’ammiraglio Luigi Mascherpa.
Le fonti ufficiali affermano, infine, che il Caboto
fu affondato a Rodi da un bombardamento aereo
inglese. Neanche questa notizia è del tutto corretta. Presa in carico, senza cambiare nome, dal comando trasporti navali tedeschi dell’Egeo e rimessa in servizio fu utilizzata, come in precedenza, essenzialmente come nave deposito. Danneggiata
dall’esplosione accidentale di una mina, a Rodi, il
18 agosto 1944, fu in seguito danneggiata a prora,
il 19 del mese successivo, da velivoli britannici decollati dalla portaerei di scorta Attacker. Ritrovata a
galla alla fine della guerra in condizioni, tutto
sommato, buone quanto a scafo, fu rimorchiata
nel 1945 per essere trasferita al Pireo, ma incagliò
durante il viaggio sulla costa dell’isola di Symi e fu
demolita laggiù nel 1949.
Il destino di questa piccola nave appare così coerente. Fece il proprio dovere sotto ogni latitudine
ed ebbe il proprio momento di gloria, misconosciuto, per poi andare perduta in circostanze rimaste per molto tempo oscure. Il centro sul caccia
Kelvin, grosso il doppio e modernissimo, fu, è vero, un colpo di fortuna, ma questa è sempre aiutata, in mare e nella vita, da anni di lavoro tenace,
diligente e, spesso, non riconosciuto. Ed anche per
questo motivo che la nave più brutta della flotta e
il suo equipaggio meritano, su queste pagine, un
postumo, doveroso omaggio.
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