LO SPARO di Annalisa Deltedesco «Un quarto alle dieci», bisbigliò

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LO SPARO di Annalisa Deltedesco «Un quarto alle dieci», bisbigliò
LO SPARO
di Annalisa Deltedesco
«Un quarto alle dieci», bisbigliò la Serafina, affrancandosi con le nocche sudate i lembi del
fazzoletto sbiadito che le copriva il capo, mentre ciocche ramate fuggivano di sotto le tempie, a
lasciarsi accendere dai riflessi infuocati di un sole quasi autunnale.
Erano stati i rintocchi del campanone a suggerirle quel pensiero, quei suoni grevi e ritmati nell'aria
che ancora scandivano e costellavano di significati il tempo degli alpigiani come lei.
La chiesetta dell'Assunta era il cuore palpitante di quella comunità di neanche duecento anime, era
la perla di sacralità attorno a cui si organizzavano i momenti salienti della povera gente. Ed era
l'edificio davanti a cui la Serafina era solita inginocchiarsi devota a recitare sottovoce le preci
apprese da sua madre defunta.
Il terreno da mietere era vasto, eccessivo per la corporatura gracile della Serafina; ma la sua tempra
non si faceva intimorire dalla fibra spessa e tenace dell'ultimo fieno.
Il suo busto seguiva in modo ritmato l'arnese che magistralmente le sue braccine sapevano reggere e
governare, mentre la lama falciava con ordine ciò che sarebbe diventato prezioso foraggio invernale
da custodire nella stalla. A vederla così sembrava la minuta statuina di un presepe meccanico,
costumata a fare quell'azione dalla notte dei tempi, costruita da chicchessia per quel preciso fine.
Troppo presto la vita l'aveva scaraventata nelle responsabilità; la seconda elementare era stato il suo
spartiacque esistenziale, il suo valico silenzioso verso la vita adulta.
La sua testolina vivace sì che ne avrebbe imparate di nozioni, ma c'era la campagna e c'erano sei
bocche da sfamare, e lo sa solo Dio quanto fosse difficile campare a novecento metri di quota per
una famigliuola come la sua. Da quando un male misterioso si era portato via la mamma, poi,
lasciandola col babbo e una quaterna di creature macilente da crescere, c'era ben poco da fare
progetti sghembi e sognanti.
Le sue giornate erano lì, ardite e monotone gincane fra i panni, il focolare e le mansioni stagionali
dei contadini. E c'era un particolare che poteva testimoniare più di ogni altra cosa la dura vita della
Serafina: le sue manine. Sottili come foglie di betulla, arrossate come ribes maturi, troppo avvizzite
per avere diciassette anni.
Di tanto in tanto il suo ostinato recidere subiva una fulminea pausa, il tempo di passarsi il polso
sinistro sulla fronte madida e di riprendere fiato, guardando il cielo con un respiro profondo. Quasi
che a quel torace così stretto fosse sufficiente una folata d'aria e d'azzurro per rinvigorirsi. In fondo
la Serafina era una fanciulla di poche pretese, operosa e fiera nella sua nostrana bellezza.
Chi incontrava i suoi occhi grigi non poteva non pensare alle rocce nude e svettanti, ma chi le si
accostava da presso notava anche leggere striature verdognole nelle sue iridi, simili a quesi sassi
vicini ai torrenti, muschiati per l'umidità a settentrione.
Una farfalla decollava ed atterrava sul bordo superiore di un muretto a secco, un'altra più scura la
seguiva in un gioco così bello da parere una studiata coreografia. E la Serafina la notò divertita.
Ma in quel preciso istante fu colta da un rumore stropicciato di passi provenienti dal sentiero
sottostante il terrazzamento su cui lei si trovava.
Una voce di ragazzo implorava sommessamente, mentre parole secche come bastonate intimavano
ordini in una lingua straniera.
Quella era la voce dell'Alfredo, l'avrebbe riconosciuta pure mescolata a mille altre voci.
Apparteneva a lui, a quel ragazzotto sano dallo sguardo blu, che le faceva sempre un cenno gentile
di saluto sul sagrato, la domenica, uscendo dalla Messa.
Da qualche settimana non lo aveva visto più.
Ora camminava in salita, a volto chino, pungolato avanti da due energumeni armati in uniforme che
non si capiva cosa dicevano, ma per certo parlavano il linguaggio dei cattivi.
La Serafina restò turbata fin nelle viscere da quella scena; simulò noncuranza, ma tanto avrebbe
voluto voltarsi a donare almeno una parola di conforto.
Il campanile battè le undici e trenta. La Serafina raccolse le proprie cose e, adagio, scivolò con
passo malfermo lungo la mulattiera che conduceva a casa. Quando si trovava nei pressi del lavatoio,
sentì distintamente uno sparo sordo, poi subito un altro. Il colpo di grazia.
Il suo cuore sussultò, un dolore grande le si versò dentro come una tremenda emorragia.
Le sue braccia composero svelte un segno di croce.
La Serafina mandò giù una lacrima più salata del solito e si apprestò a preparare la sua quotidiana
polenta, i fratellini sull'uscio già la reclamavano.
Era l'ottobre del 1944 e si era appena conclusa la Resistenza del partigiano Alfredo-occhi-blu.
Dati anagrafici concorrente
ANNALISA DELTEDESCO
Località Prato di Coggia, 6
28868 Varzo (VB)
tel. 0324-780543
cell. 347 8920348
e-mail [email protected]
Cenni biografici
Nata a Domodossola l'8 settembre 1978, vive a Varzo. Ha frequentato il liceo classico presso il
Collegio Mellerio Rosmini di Domodossola e, nel 2002, si è Laureata in Lettere Moderne presso
l'Università degli Studi di Milano, discutendo una tesi sulle descrizioni e la rappresentazione dello
spazio nelle novelle dell'epigono manzoniano Giulio Carcano.
È titolare della cattedra di Lettere presso la Scuola Media di Varzo ed è madre di due figli, Cloe di 8
anni e Gioele di 5.