Le relazioni fraterne sacerdotali, Padre Ferdinando Campana, ofm
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Le relazioni fraterne sacerdotali, Padre Ferdinando Campana, ofm
LE RELAZIONI DEI SACERDOTI NEL PRESBITERIO La comunione sacerdotale (Gv 17, 20-23) 1. Nelle precedenti catechesi abbiamo riflettuto sulla importanza che le proposte, o consigli evangelici, della verginità e della povertà hanno nella vita sacerdotale, e sulla misura e i modi di praticarle secondo la tradizione spirituale e ascetica cristiana e secondo la legge della Chiesa. Oggi è bene ricordare che, a coloro che volevano servirlo mentre svolgeva il suo ministero messianico, Gesù non esito a dire che, per essere veramente suoi discepoli, bisogna "rinnegare se stessi e prendere la propria croce" (Mt 16, 24; Lc 9, 23). E' una grande massima di perfezione, universalmente valida per la vita cristiana come criterio definitivo circa l'eroicità che caratterizza la virtù dei santi. Essa vale soprattutto per la vita sacerdotale, nella quale prende forme pi rigorose, giustificate dalla particolare vocazione e dallo speciale carisma dei ministri di Cristo. Un primo aspetto di tale "rinnegamento di sé" si manifesta nelle rinunce connesse con l'impegno della comunione che i Sacerdoti sono chiamati ad attuare fra loro e con il Vescovo (cf LG 28; Pastores dabo vobis, 74). L'istituzione del sacerdozio ministeriale è avvenuta nel quadro di una comunità e comunione sacerdotale. Gesù raccolse un primo gruppo, quello dei Dodici, chiamandoli a formare un'unità nel mutuo amore. A questa prima comunità "sacerdotale", volle che si aggregassero dei cooperatori. Inviando in missione i settantadue discepoli, come pure i dodici Apostoli, li mandò a due a due (cf Lc 10, 1; Mc 6, 7), sia per un reciproco aiuto nella vita e nel lavoro, sia perché si creasse l'abitudine dell'azione comune e nessuno agisse come fosse solo, indipendente dalla comunità-Chiesa, e dalla comunità-Apostoli. 2. Ciò viene confermato dalla riflessione sulla chiamata di Cristo che da origine alla vita e al ministero sacerdotale di ciascuno. Ogni sacerdozio nella Chiesa ha origine da una vocazione. Questa è rivolta a una persona particolare, ma è legata alle chiamate che sono rivolte agli altri, nel contesto di un medesimo disegno di evangelizzazione e di santificazione del mondo. Come gli Apostoli, anche i Vescovi e i Sacerdoti sono chiamati insieme, pur nella molteplicità delle vocazioni personali, da Colui che vuole impegnarli tutti a fondo nel mistero della Redenzione. Questa comunità di vocazione comporta senza dubbio un'apertura degli uni agli altri e di ciascuno a tutti, per vivere e operare nella comunione. Ciò non avviene senza rinuncia all'individualismo sempre vivo e insorgente, senza un'attuazione del "rinneghi se stesso" (Mt 16, 24) nella vittoria della carità sull'egoismo. Il pensiero della comunità di vocazione, tradotta in comunione, deve tuttavia incoraggiare tutti e ciascuno al lavoro concorde, al riconoscimento della grazia concessa singolarmente e collettivamente a Vescovi e Presbiteri: grazia accordata a ciascuno non perché dovuta a meriti e qualità personali, e non solo per la santificazione personale, ma in vista della "edificazione del Corpo" (Ef 4, 12. 16). La comunione sacerdotale si radica profondamente ancora nel sacramento dell'Ordine, nel quale il rinnegamento di se stessi diventa una partecipazione spirituale ancor più intima al sacrificio della Croce. Il sacramento dell'Ordine implica la libera risposta di ciascuno alla chiamata che gli è stata rivolta personalmente. La risposta è altrettanto personale. Ma nella consacrazione, l'azione sovrana di Cristo, operante nell'ordinazione mediante lo Spirito Santo, crea quasi una nuova personalità, trasferendo nella comunità sacerdotale, oltre la sfera della finalità individuale, mentalità, coscienza, interessi di chi riceve il sacramento. È un fatto psicologico derivante dal riconoscimento del legame ontologico di ogni Presbitero con tutti gli altri. Il sacerdozio conferito a ciascuno dovrà esercitarsi nell'ambito ontologico, psicologico e spirituale di questa comunità. Allora si avrà veramente la comunione sacerdotale. Dono dello Spirito Santo: ma anche frutto della risposta generosa del Presbitero. 1 In particolare, la grazia dell'Ordine stabilisce uno speciale legame tra i Vescovi e i Sacerdoti, perché è dal Vescovo che si riceve l'Ordinazione sacerdotale, è da lui che si propaga il sacerdozio, è lui che fa entrare i nuovi ordinati nella comunità sacerdotale, di cui egli stesso è membro. 3. La comunione sacerdotale suppone e comporta l'attaccamento di tutti, Vescovi e Presbiteri, alla persona di Cristo. Quando Gesù volle partecipare ai Dodici la sua missione messianica, dice il Vangelo di Marco che li chiamò e costituì "perché stessero con lui" (Mc 3, 14). Nell'ultima Cena, egli si rivolse ad essi come a coloro che avevano perseverato con lui nelle prove (cf Lc 22, 28), e raccomandò loro e chiese al Padre per loro l'unità. Rimanendo tutti uniti in Cristo, rimanevano uniti tra loro (cf Gv 15, 4-11). La coscienza di questa unità e comunione in Cristo rimase viva negli Apostoli, durante la predicazione che da Gerusalemme li portò nelle varie regioni del mondo allora conosciuto, sotto l'azione impellente e nello stesso tempo unificante dello Spirito della Pentecoste. Tale coscienza traspare dalle loro Lettere, dai Vangeli e dagli Atti. Anche nel chiamare i nuovi Presbiteri al sacerdozio, Gesù Cristo chiede loro l'offerta della vita alla sua persona, intendendo così unirli tra loro grazie ad uno speciale rapporto di comunione con Lui. Questa è la vera fonte dell'accordo profondo della mente e del cuore che unisce i Presbiteri e i Vescovi nella comunione sacerdotale. Questa comunione si nutre della collaborazione a una stessa opera: l'edificazione spirituale della comunità di salvezza. Certo, ogni Presbitero ha un campo personale d'attività, in cui può impegnare tutte le sue facoltà e qualità, ma tale campo rientra nel quadro dell'opera più vasta con cui ogni Chiesa locale tende a sviluppare il Regno di Cristo. L'opera e essenzialmente comunitaria, sicché ciascuno deve agire in cooperazione con gli altri operai dello stesso Regno. Si sa quanto la volontà di lavorare a una stessa opera possa sostenere e stimolare lo sforzo comune di ciascuno. Essa crea un sentimento di solidarietà e fa accettare i sacrifici che richiede la cooperazione, nel rispetto dell'altro e con l'accoglimento della sua differenza. E' importante osservare fin d'ora che questa cooperazione si articola intorno al rapporto tra il Vescovo e i Presbiteri, la subordinazione dei quali al primo è essenziale per la vita della comunità cristiana. L'opera per il Regno di Cristo può svolgersi e svilupparsi solo secondo la struttura da lui stesso stabilita. 4. Ora mi a caro sottolineare il ruolo che in questa comunione ha l'Eucaristia. Nell'ultima Cena, Gesù ha voluto instaurare - nella maniera più completa - l'unita del gruppo degli Apostoli, ai quali per primi affidava il ministero sacerdotale. Di fronte alle loro dispute per il primo posto, Egli, con la lavanda dei piedi (cf Gv 13, 2-15), da l'esempio dell'umile servizio che risolve i conflitti suscitati dall'ambizione, e insegna ai suoi primi Sacerdoti a cercare l'ultimo posto piuttosto che il primo. Sempre durante la Cena, Gesù enuncia il precetto del mutuo amore (cf Gv 13, 34; 15, 12), e apre la fonte della forza di osservarlo: da soli, infatti, gli Apostoli non sarebbero stati capaci di amarsi gli uni gli altri come il Maestro li aveva amati; ma con la comunione eucaristica essi ricevono la capacita di vivere la comunione ecclesiale e, in questa, la loro specifica comunione sacerdotale. Offrendo loro, col sacramento, questa superiore capacità d'amore, Gesù poteva rivolgere al Padre una supplica audace, quella di realizzare nei suoi discepoli una unità simile a quella che regna tra il Padre e il Figlio (Gv 17, 21- -23). Nella Cena, infine, Gesù investe solidalmente gli Apostoli della missione e del potere di fare l'Eucaristia in sua memoria, approfondendo così ancor più il legame che li univa. La comunione del potere di celebrare l'unica Eucaristia non poteva non essere per gli Apostoli - e per i loro successori e collaboratori - segno e sorgente di unità. 2 5. È significativo che, nella preghiera sacerdotale dell'ultima Cena, Gesù preghi non solamente per la consacrazione (dei suoi Apostoli) nella verità (cf Gv 17, 17), ma per la loro unità, rispecchiante la stessa comunione delle divine Persone (cf Gv 17, 11). Quella preghiera, pur riguardando prima di tutto gli Apostoli che Gesù ha voluto particolarmente riunire intorno a sé, si estende anche ai Vescovi e ai Presbiteri, oltre che ai credenti, di tutti i tempi. Gesù chiede che la comunità sacerdotale sia riflesso e partecipazione della comunione trinitaria: quale sublime ideale! Tuttavia le circostanze in cui Gesù ha elevato la sua preghiera lasciano capire che questo ideale, per essere realizzato, esige dei sacrifici. Gesù chiede l'unità dei suoi Apostoli e dei suoi seguaci nel momento in cui offre la sua vita al Padre. È a prezzo del suo sacrificio che egli instaura la comunione sacerdotale nella sua Chiesa. Perciò i Presbiteri non possono stupirsi dei sacrifici che la comunione sacerdotale richiede loro. Edotti dalla parola di Cristo, essi scoprono in tali rinunce una concreta partecipazione spirituale ed ecclesiale al Sacrificio redentore del Maestro divino. Relazioni dei presbiteri con i loro Vescovi (Gv 15, 12-15). 1. La comunione, voluta da Gesù tra quanti partecipano del sacramento dell'Ordine, deve manifestarsi in modo tutto particolare nelle relazioni dei Presbiteri con i loro Vescovi. Il Concilio Vaticano II parla a questo proposito di una "comunione gerarchica", derivante dall'unità di consacrazione e di missione. Leggiamo: "Tutti i Presbiteri, assieme ai Vescovi, partecipano in tal grado del medesimo e unico sacerdozio e ministero di Cristo, che la stessa unità di consacrazione e di missione esige la comunione gerarchica dei Presbiteri con l'Ordine dei Vescovi, che viene a volte ottimamente espressa nella concelebrazione liturgica, quando (Vescovi e Presbiteri) uniti professano di celebrare la sinassi eucaristica" (PO, 7). Come si vede, anche qui si riaffaccia il mistero dell'Eucaristia come segno e fonte di unità. Con l'Eucaristia è collegato il sacramento dell'Ordine, che determina la comunione gerarchica fra tutti coloro che partecipano del sacerdozio di Cristo: "Per ragione dell'Ordine e del ministero, - aggiunge il Concilio, - tutti i Sacerdoti, sia diocesani che religiosi, sono associati al corpo episcopale" (LG, 28). 2. Questo legame tra i Sacerdoti di qualsiasi qualifica e grado e i Vescovi è essenziale nell'esercizio del ministero presbiterale. I Sacerdoti ricevono, dal Vescovo la potestà sacramentale e l'autorizzazione gerarchica per tale ministero. Anche i Religiosi ricevono tale potestà e tale autorizzazione dal Vescovo che li ordina Sacerdoti e da colui che governa la diocesi dove essi svolgono il ministero. Anche quando appartengono a Ordini esenti dalla giurisdizione dei Vescovi diocesani per il loro regime interno, ricevono dal Vescovo, a norma delle leggi canoniche, il mandato e il consenso per l'inserimento e l'attività nell'ambito della diocesi, salva sempre l'autorità con cui il Pontefice Romano, come capo della Chiesa, può conferire agli Ordini religiosi o ad altri Istituti il potere di reggersi secondo le loro costituzioni e di operare a raggio universale. A loro volta, i Vescovi hanno nei Presbiteri dei "necessari collaboratori e consiglieri nel ministero e nella funzione di istruire, santificare e governare il Popolo di Dio" (PO, 7). 3. Per questo legame tra Sacerdoti e Vescovi nella comunione sacramentale, i Presbiteri sono "aiuto e strumento" dell'Ordine episcopale, come scrive la Costituzione Lumen Gentium (n. 28). Essi prolungano in ogni comunità l'azione del Vescovo, del quale in certo modo rendono presente la figura di Pastore nei diversi luoghi. È chiaro che, in forza della sua stessa identità pastorale e della sua origine sacramentale, il ministero dei Presbiteri si esercita "sotto l'autorità del Vescovo". Sempre secondo la Lumen 3 Gentium, è sotto questa autorità che essi portano "il loro contributo al lavoro pastorale di tutta la diocesi", santificando e governando la porzione del gregge del Signore loro affidata (ibid.). È vero che i Presbiteri rappresentano Cristo e agiscono in suo nome, partecipando, nel loro grado di ministero, al suo ufficio di unico Mediatore. Ma essi possono agire solo come collaboratori del Vescovo, estendendo così il ministero del Pastore diocesano nelle comunità locali. 4. Su questo principio teologico di partecipazione, nell'ambito della comunione gerarchica, si fondano relazioni tra Vescovi e Presbiteri cariche di spiritualità. La Lumen Gentium le enuncia così: "A ragione di questa loro partecipazione nel sacerdozio e nel lavoro apostolico, i Sacerdoti riconoscono nel Vescovo il loro padre e gli obbediscono con rispettoso amore. Il Vescovo, poi, consideri i Sacerdoti suoi cooperatori come figli e amici, al pari di Cristo che chiama i suoi discepoli non servi, ma amici (cf Gv 15, 15)" (ibid.). L'esempio di Cristo è anche qui la regola del comportamento, sia per i Vescovi che per i Presbiteri. Se Colui che aveva un'autorità divina non ha voluto trattare i suoi discepoli da servi ma da amici, il Vescovo non può considerare i suoi Sacerdoti come persone al suo servizio. Con lui, essi servono il Popolo di Dio. E da parte loro i Presbiteri devono rispondere al Vescovo come richiede la legge della reciprocità dell'amore nella comunione ecclesiale e sacerdotale: cioè da amici e da "figli" spirituali. L'autorità del Vescovo e l'obbedienza dei suoi collaboratori, i Presbiteri, devono dunque esercitarsi nel quadro della vera e sincera amicizia. Questo impegno si basa non solo sulla fraternità che esiste in virtù del Battesimo fra tutti i cristiani e su quella che deriva dal sacramento dell'Ordine, ma sulla parola e l'esempio di Gesù, che anche nel suo trionfo di Risorto, si chinò da quell'incommensurabile altezza sui suoi discepoli chiamandoli "miei fratelli" e dichiarando il Padre suo anche il "loro" (cf Gv 20, 17; Mt 28, 10). Così, sull'esempio e l'insegnamento di Gesù, il Vescovo deve trattare come fratelli e amici i Sacerdoti suoi collaboratori, senza che la sua autorità di Pastore e di superiore ecclesiastico ne sia diminuita. Un clima di fraternità e di amicizia favorisce la fiducia dei Presbiteri e la loro volontà di cooperazione e di corrispondenza nell'amicizia e nella carità fraterna e filiale verso i loro Vescovi. 5. Il Concilio scende anche ad alcuni particolari sui doveri dei Vescovi verso i Presbiteri. Basti qui rammentarli: i Vescovi devono aver a cuore, in tutto ciò che possono, il benessere materiale e soprattutto spirituale dei loro Sacerdoti; promuoverne la santificazione curandone la continua formazione, esaminando con loro i problemi riguardanti le necessità del lavoro pastorale e il bene della diocesi (cf PO, 7). Ugualmente i doveri dei Presbiteri verso i loro Vescovi sono riassunti in questi termini: "I Presbiteri, avendo presente la pienezza del sacramento dell'Ordine di cui godono i Vescovi, venerino in essi l'autorità di Cristo, supremo Pastore. Siano dunque uniti al loro Vescovo con sincera carità e obbedienza" (ibid.). Carità e obbedienza: il binomio essenziale dello spirito con cui comportarsi col proprio Vescovo. Si tratta di un'obbedienza animata dalla carità. L'intenzione fondamentale del Presbitero, nel suo ministero, non può che essere quella di cooperare col suo Vescovo. Se egli ha spirito di fede, riconosce la volontà di Cristo nelle decisioni del Vescovo. È comprensibile che talora, particolarmente nei momenti di confronto tra pareri diversi, l'obbedienza possa essere più difficile. Ma l'obbedienza è stata la disposizione fondamentale di Gesù nel suo sacrificio e ha prodotto il frutto di salvezza che tutto il mondo ha ricevuto. Anche il 4 Presbitero che vive di fede sa di essere chiamato a un'obbedienza che, attuando la massima di Gesù sull'abnegazione, gli da il potere e la gloria di condividere la fecondità redentiva del Sacrificio della Croce. 6. Si deve infine aggiungere che, come a tutti è noto, oggi più che in altri tempi, il ministero pastorale richiede la cooperazione dei Presbiteri e quindi la loro unione coi Vescovi, in ragione della sua complessità e vastità. Come scrive il Concilio, "l'unione tra i Presbiteri e i Vescovi e particolarmente necessaria ai nostri giorni, dato che oggi, per diversi motivi, le imprese apostoliche debbono non solo rivestire forme molteplici, ma anche trascendere i limiti di una parrocchia o di una diocesi. Nessun Presbitero è quindi in condizione di realizzare a fondo la propria missione se agisce da solo e per proprio conto, senza unire le proprie forze a quelle degli altri Presbiteri, sotto la guida di coloro che governano la Chiesa" (ibid.). Per questo anche i "Consigli presbiterali" hanno cercato di rendere sistematica e organica la consultazione dei Presbiteri da parte dei Vescovi (cf Sinodo dei Vescovi del 1971: Ench. Vat., IV, 1224). Da parte loro, i Presbiteri parteciperanno a questi Consigli con spirito di collaborazione illuminata e leale, nell'intento di cooperare alla edificazione dell'unico Corpo". E anche singolarmente, nei loro rapporti personali col proprio Vescovo, ricorderanno e avranno a cuore sopratutto una cosa: la crescita di ciascuno e di tutti nella carità, che è frutto dell'oblazione di se nella luce della Croce. Relazioni dei presbiteri con i confratelli nel sacerdozio (Mc 6, 7-10) 1. La "comunità sacerdotale" o presbiterio, di cui abbiamo parlato nelle precedenti catechesi, comporta tra coloro che ne fanno parte una rete di relazioni reciproche che si situano nell'ambito della comunione ecclesiale originata dal Battesimo. Il fondamento più specifico di tali relazioni è la comune partecipazione sacramentale e spirituale al sacerdozio di Cristo, da cui deriva uno spontaneo senso di appartenenza al presbiterio. Lo ha ben rilevato il Concilio: "I Presbiteri, costituiti nell'Ordine del Presbiterato mediante l'Ordinazione, sono tutti tra loro uniti da intima fraternità sacramentale; ma in modo speciale essi formano un unico Presbiterio nella diocesi al cui servizio sono ascritti sotto il proprio Vescovo" (PO, 8). Per rapporto a questo Presbiterio diocesano, in ragione della mutua conoscenza, vicinanza e consuetudine di vita e di lavoro, si sviluppa maggiormente quel senso dell'appartenenza, che crea e alimenta la comunione fraterna e l'apre nella collaborazione pastorale. I vincoli della carità pastorale si esprimono nel ministero e nella liturgia, come annota ancora il Concilio: "Ciascuno è unito agli altri membri di questo Presbiterio da particolari vincoli di carità apostolica, di ministero e di fraternità: il che viene liturgicamente rappresentato, fin dai tempi più antichi, nella cerimonia in cui i Presbiteri assistenti all'Ordinazione sono invitati a imporre le mani, assieme al Vescovo che ordina, sul capo del nuovo eletto, o anche quando celebrano la sacra Eucaristia in unione di affetti" (ibid.). Si ha in questi casi la rappresentazione della comunione sacramentale, ma anche di quella spirituale, che trova nella liturgia l'una vox per proclamare a Dio e testimoniare ai fratelli l'unita dello spirito. 2. La fraternità sacerdotale si esprime altresì nell'unita del ministero pastorale, in tutto l'ampio ventaglio di mansioni, di uffici e di attività a cui sono assegnati i Presbiteri, i quali "anche se si occupano di mansioni differenti, esercitano sempre un unico ministero sacerdotale in favore degli uomini" (ibid.). 5 La varietà dei compiti può essere notevole. Così, per esemplificare, il ministero nelle parrocchie e quello interparrocchiale o sovrapparrocchiale, le opere diocesane, nazionali, internazionali, l'insegnamento nelle scuole, la ricerca, l'analisi, l'insegnamento nei vari settori della dottrina religiosa e teologica, ogni apostolato in forma di testimonianza, a volte con la coltivazione e l'insegnamento di qualche ramo dello scibile umano; e ancora, la diffusione del messaggio evangelico per il tramite dei media, l'arte religiosa nelle sue molte espressioni, i molteplici servizi di carità, l'assistenza morale alle varie categorie di ricercatori o di operatori, e infine, oggi attualissime e importantissime, le attività ecumeniche. Questa varietà non può creare delle categorie o dei dislivelli perché si tratta di compiti che per i Presbiteri rientrano sempre nel disegno della evangelizzazione. "E' chiaro - diciamo col Concilio - che tutti lavorano per la stessa causa, cioè per l'edificazione del Corpo di Cristo, la quale esige molteplici funzioni e nuovi adattamenti, soprattutto in questi tempi" (ibid.). 3. E' perciò importante che ogni Presbitero sia disposto - e convenientemente formato - a comprendere e stimare l'opera compiuta dai suoi fratelli nel sacerdozio. E' questione di spirito cristiano ed ecclesiale, oltre che di apertura ai segni dei tempi. Egli dovrà saper comprendere, ad esempio, che vi è diversità di bisogni nell'edificazione della comunità cristiana, come vi e diversità di carismi e di doni; vi è inoltre diversità di modi di concepire e di compiere le opere apostoliche, giacché possono essere proposti e impiegati nuovi metodi di lavoro nel campo pastorale, pur mantenendosi sempre nell'ambito della comunione di fede e di azione della Chiesa. La reciproca comprensione è la base del mutuo aiuto nei vari campi. Ripetiamolo col Concilio: "È assai necessario che tutti i Presbiteri, sia diocesani che religiosi, si aiutino a vicenda, in modo da essere sempre cooperatori della verità" (ibid.). Il reciproco aiuto può essere dato in molti modi: dalla disponibilità a prestarsi a un Confratello in necessità, all'accettazione di programmare il lavoro secondo uno spirito di cooperazione pastorale, che si rivela sempre più necessario tra i vari enti e gruppi e nello stesso ordinamento globale dell'apostolato. A questo proposito, si terrà presente che la stessa parrocchia (come a volte anche la diocesi), pur avendo una sua autonomia, non può essere un'isola, specialmente in un tempo come il nostro, nel quale abbondano i mezzi di comunicazione, la mobilità della gente, la confluenza in taluni punti di attrazione, le nuove omologazioni di tendenze, abitudini, mode, orari. Le parrocchie sono organi vivi dell'unico Corpo di Cristo, dell'unica Chiesa, in cui si accolgono e si servono sia i membri delle comunità locali, sia tutti coloro che per qualsiasi ragione vi affluiscono in un certo momento che può significare la comparsa di Dio in una coscienza, in una vita. Naturalmente ciò non deve diventare fomite di disordine o di irregolarità in relazione alle leggi canoniche, che sono pure a servizio della pastorale. 4. Un particolare sforzo di mutua comprensione e di reciproco aiuto è da auspicare e favorire specialmente nei rapporti fra i Presbiteri più anziani e quelli più giovani: gli uni e gli altri così necessari alla comunità cristiana, e così cari ai Vescovi e al Papa. E' il Concilio stesso a raccomandare agli anziani di avere comprensione e simpatia per le iniziative dei giovani; e ai giovani di avere rispetto per l'esperienza degli anziani e di riporre in loro fiducia; agli uni e agli altri di trattarsi con sincero affetto, secondo l'esempio dato da tanti Sacerdoti di ieri e di oggi (cf ibid.). Quante cose salirebbero dal cuore al labbro su questi punti, nei quali si manifesta concretamente la "comunione sacerdotale" che lega i Presbiteri! Contentiamoci di riferire quelle suggerite dal Concilio: "Animati da spirito fraterno, i Presbiteri non trascurino l'ospitalità (cf Eb 13, 1-2), pratichino la beneficenza e la comunità di beni (cf Eb 13, 16), avendo speciale cura di quanti sono infermi, afflitti, sovraccarichi di lavoro, soli, o in esilio, nonché di coloro che soffrono la persecuzione (cf Mt 5, 10)" (ibid.). 6 Ogni Pastore, ogni Sacerdote, percorrendo a ritroso la strada della sua vita, la trova disseminata di esperienze del bisogno di comprensione, aiuto, cooperazione di tanti Confratelli, come di altri fedeli, che si ritrovano sotto le varie forme di necessità appena elencate; e di quante altre! Chissà se non sarebbe stato possibile fare di più per tutti quei "poveri", amati dal Signore e da lui affidati alla carità della Chiesa. Anche per coloro che, come ci rammenta il Concilio (ibid.), potevano trovarsi in momenti di crisi. Pur nella coscienza di aver seguito la voce del Signore e del Vangelo, dobbiamo proporci ogni giorno di fare sempre di più e sempre meglio per tutti. 5. Il Concilio suggerisce anche qualche iniziativa comunitaria per promuovere l'aiuto reciproco nei casi di bisogno, e anche in modo permanente e quasi istituzionale in favore dei confratelli. Accenna innanzitutto a periodiche riunioni fraterne a scopo di distensione e di riposo, per rispondere all'umana esigenza di ripresa delle forze fisiche, psichiche e spirituali, che già il "Signore e Maestro" Gesù, nella sua delicata attenzione alle condizioni altrui, aveva avuto presente quando rivolse agli postoli l'invito: "Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po'!" (Mc 6, 31). Questo invito vale anche per i Presbiteri in ogni epoca, e nella nostra più che mai, dato l'incalzare delle occupazioni e la loro complicatezza anche nel ministero pastorale (cf PO, 8). Il Concilio incoraggia poi le iniziative che mirano a rendere possibile e agevole in modo permanente la vita comune dei Presbiteri, anche in forma di coabitazione saggiamente istituita e ordinata, o almeno di mensa facilmente accessibile e praticabile in luoghi convenienti. Le ragioni non solo economiche e pratiche, ma anche spirituali, di tali iniziative, in armonia con le istituzioni della primitiva comunità di Gerusalemme (cf At 2, 46-47), sono evidenti e pressanti nella condizione odierna di molti Presbiteri e Prelati, ai quali occorre offrire attenzione e cura per sollevarne difficoltà e fatiche (cf PO, 8). "Vanno anche tenute in grande considerazione e diligentemente incoraggiate le associazioni che, in base a statuti riconosciuti dall'autorità ecclesiastica competente, fomentano - grazie a un modo di vita convenientemente ordinato e approvato, e all'aiuto fraterno - la santità dei Sacerdoti nell'esercizio del loro ministero, e mirano in tal modo al servizio di tutto l'ordine dei Presbiteri" (ibid.). 6. Quest'ultima esperienza in non pochi luoghi e stata fatta da santi preti anche in passato. Il Concilio ne desidera e zela l'estensione più ampia possibile, e non sono mancate nuove istituzioni, dalle quali proviene un grande beneficio al clero e al popolo cristiano. La loro fioritura ed efficacia è proporzionale all'adempimento delle condizioni fissate dal Concilio: la finalità della santificazione sacerdotale, l'aiuto fraterno tra i Presbiteri, la comunione con l'autorità ecclesiastica, al livello diocesano o a quello della Sede Apostolica, secondo i casi. Questa comunione comporta degli statuti approvati come regola di vita e di lavoro, senza i quali gli associati sarebbero quasi inevitabilmente condannati al disordine o alle arbitrarie imposizioni di qualche personalità più forte. È un vecchio problema per ogni forma di associazione, che si ripresenta anche nel campo religioso ed ecclesiastico. L'autorità della Chiesa adempie la sua missione di servizio verso i Presbiteri e tutti i fedeli anche con lo svolgere questa funzione di discernimento dei valori autentici, di tutela della libertà spirituale delle persone e di garanzia della validità delle associazioni, cole di tutta la vita delle comunità. Anche in questo si tratta di attuare il santo ideale della "comunione sacerdotale. Giovanni Paolo II, Udienza generale di mercoledì 15 febbraio 1995 7 Relazioni tra sacerdozio e vita religiosa 1. Tra sacerdozio e vita religiosa esistono affinità profonde. Di fatto, nel corso dei secoli si nota una crescita del numero di religiosi sacerdoti. Nella maggioranza dei casi si tratta di uomini che, entrati in un Istituto religioso, vi hanno ricevuto l’Ordinazione sacerdotale; meno frequenti – ma pur sempre notevoli – sono i casi di Sacerdoti incardinati in una diocesi, che s’incorporano successivamente a un Istituto religioso. In entrambi i casi il fatto mostra che molto spesso nella vita consacrata maschile la vocazione a un Istituto religioso è associata alla vocazione al ministero sacerdotale. 2. Possiamo chiederci quale sia l’apporto della vita religiosa al ministero sacerdotale e perché, nel disegno divino, tanti uomini siano chiamati a questo ministero nel quadro della vita religiosa. Rispondiamo che, se è vero che la stessa Ordinazione sacerdotale comporta una consacrazione della persona, l’accesso alla vita religiosa predispone il soggetto a meglio accogliere la grazia dell’Ordine sacro e a viverne più integralmente le esigenze. La grazia dei consigli evangelici e della vita comune si rivela quanto mai favorevole all’acquisto della “santità” richiesta dal sacerdozio in ragione dell’ufficio circa il Corpo di Cristo sia eucaristico che mistico. Inoltre, la tendenza verso la perfezione, che specifica e caratterizza la vita religiosa, stimola lo sforzo ascetico per progredire nelle virtù, per sviluppare la fede, la speranza e soprattutto la carità, e per vivere una vita conforme all’ideale del Vangelo. Da parte degli Istituti viene impartita una formazione in questo senso, affinché i religiosi possano fin dalla giovinezza orientarsi più fermamente in una via di santità e acquisire solide convinzioni e abitudini di vita evangelicamente austere. In tali condizioni di spirito, essi possono beneficiare meglio delle grazie che accompagnano l’Ordinazione sacerdotale. 3. I voti religiosi, tuttavia, prima che come obblighi assunti in funzione dell’Ordine e del ministero, hanno valore in se stessi come risposte di amore oblativo al dono di Colui che con amore infinito “si è offerto volontariamente” per noi (cf. Is 53, 12; Eb 9, 28). Così, l’impegno nel celibato non si pone anzitutto come un’esigenza richiesta per il diaconato o il presbiterato, ma come adesione a un ideale che chiede il dono totale di sé a Cristo. Aggiungiamo che con questo impegno, anteriore all’ordinazione, i religiosi possono aiutare i Sacerdoti diocesani a comprendere meglio e ad apprezzare maggiormente il valore del celibato. Si deve auspicare che, lungi dal porre in dubbio la fondatezza di tale scelta, essi incoraggino i Sacerdoti diocesani alla fedeltà in questo campo. È una bella e santa funzione ecclesiale, svolta dagli Istituti religiosi, oltre i loro confini, a favore di tutta la comunità cristiana. L’appartenenza a un Istituto religioso permette al Sacerdote di vivere più radicalmente la povertà evangelica. Infatti è la vita in comune che consente ai membri dell’Istituto di rinunciare ai loro beni personali, mentre, normalmente, il Sacerdote diocesano deve provvedere personalmente al proprio sostentamento. Vi è dunque da auspicare e da attendersi dai Sacerdoti religiosi una testimonianza sempre più visibile di povertà evangelica, che, oltre a sostenerli nel loro cammino verso la perfezione della carità, possa incoraggiare i Sacerdoti diocesani a cercare i modi pratici di vivere una vita più povera, specialmente con la messa in comune di certe risorse. Infine, il voto di obbedienza dei religiosi è destinato ad esercitare un benefico influsso sul loro atteggiamento nel ministero sacerdotale, stimolandoli alla sottomissione nei riguardi dei superiori della comunità che li aiuta, alla comunione dello spirito di fede con coloro che rappresentano per essi la volontà divina, al rispetto dell’autorità dei Vescovi e del Papa nell’adempimento del sacro 8 ministero. Vi è dunque da auspicare e da attendersi dai Sacerdoti religiosi non solo un’obbedienza formale alla gerarchia della Chiesa, ma uno spirito di leale, amichevole e generosa cooperazione con essa. Con la loro formazione all’obbedienza evangelica, essi possono superare più facilmente le tentazioni di ribellione, di critica sistematica, di sfiducia, e riconoscere nei Pastori l’espressione di un’autorità divina. Anche questo è un valido aiuto che, come si legge nel Decreto Christus Dominus del Concilio Vaticano II, i religiosi sacerdoti possono e devono recare ai sacri Pastori della Chiesa oggi come in passato e più ancora per l’avvenire, “date le aumentate necessità delle anime... e le accresciute necessità dell’apostolato” (Christus Dominus, 34). 4. E ancora: i Sacerdoti religiosi possono manifestare, per mezzo della loro vita in comunità, la carità che deve animare il Presbiterio. Secondo l’intenzione espressa da Cristo nell’Ultima Cena, il precetto del reciproco amore è legato alla consacrazione sacerdotale. Nei rapporti di comunione stretti in funzione della perfezione della carità, i religiosi possono testimoniare l’amore fraterno che unisce coloro che esercitano, in nome di Cristo, il ministero sacerdotale. E chiaro che questo amore fraterno deve caratterizzare anche le loro relazioni con i Sacerdoti diocesani e con i membri di Istituti diversi dal proprio. Questa è la fonte da cui può derivare l’“ordinata collaborazione” raccomandata dal Concilio (cf. Christus Dominus, 35.5). 5. Sempre secondo il Concilio, i religiosi sono più profondamente impegnati nel servizio alla Chiesa, in virtù della loro consacrazione concretizzata nella professione dei consigli evangelici (cf. Lumen Gentium, 44). Questo servizio consiste soprattutto nella preghiera, nelle opere di penitenza e nell’esempio offerto con la vita, ma anche nella partecipazione “alle opere esterne dell’apostolato, tenuta presente la caratteristica propria di ogni Istituto” (Decreto Christus Dominus, 33). Per questa loro partecipazione alla cura delle anime e alle opere di apostolato sotto l’autorità dei sacri Pastori, i Sacerdoti religiosi quindi “sono da considerare come appartenenti al clero diocesano” (Christus Dominus, 34), e devono quindi “esercitare il loro compito in modo da divenire aiutanti dei Vescovi” (Christus Dominus, 35.1), ma conservando “lo spirito del loro Istituto” e restando fedeli all’osservanza della loro regola (Christus Dominus, 35. 2). C’è da auspicare che mediante l’opera dei Sacerdoti religiosi si attuino sempre più nelle diocesi e nella Chiesa intera l’unità e la concordia che Gesù ha chiesto per tutti coloro che accettano di essere, come lui, “consacrati nella verità” (Gv 17, 17) e rifulga così nel mondo l’imago Ecclesiae Caritatis! PROFESSIONE DI FEDE (Formula da usarsi nei casi in cui è prescritta la professione di fede) Io N.N. credo e professo con ferma fede tutte e singole le verità che sono contenute nel Simbolo della fede, e cioè: Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili. Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli: Dio da Dio, Luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre; per mezzo di lui tutte le cose sono state create. Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo, e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo. Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto. Il terzo giorno è risuscitato, secondo le Scritture, è salito al cielo, siede alla destra del Padre. E di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine. Credo nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita e procede dal Padre e dal Figlio. Con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato, e ha parlato per mezzo dei profeti. 9 Credo la Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica. Professo un solo battesimo per il perdono dei peccati. Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà. Amen. Credo pure con ferma fede tutto ciò che è contenuto nella Parola di Dio scritta o trasmessa e che la Chiesa, sia con giudizio solenne sia con magistero ordinario e universale, propone a credere come divinamente rivelato. Fermamente accolgo e ritengo anche tutte e singole le verità circa la dottrina che riguarda la fede o i costumi proposte dalla Chiesa in modo definitivo. Aderisco inoltre con religioso ossequio della volontà e dell’intelletto agli insegnamenti che il Romano Pontefice o il Collegio dei Vescovi propongono quando esercitano il loro magistero autentico, sebbene non intendano proclamarli con atto definitivo. GIURAMENTO DI FEDELTÀ NELL’ASSUMERE UN UFFICIO DA ESERCITARE A NOME DELLA CHIESA (Formula da usarsi da tutti i fedeli indicati nel can. 833 nn. 5-8) Io N.N. nell’assumere l’ufficio di... prometto di conservare sempre la comunione con la Chiesa cattolica, sia nelle mie parole che nel mio modo di agire. Adempirò con grande diligenza e fedeltà i doveri ai quali sono tenuto verso la Chiesa, sia universale che particolare, nella quale, secondo le norme del diritto, sono stato chiamato a esercitare il mio servizio. Nell’esercitare l’ufficio, che mi è stato affidato a nome della Chiesa, conserverò integro e trasmetterò e illustrerò fedelmente il deposito della fede, respingendo quindi qualsiasi dottrina ad esso contraria. Seguirò e sosterrò la disciplina comune a tutta la Chiesa e curerò l’osservanza di tutte le leggi ecclesiastiche, in particolare di quelle contenute nel Codice di Diritto Canonico. Osserverò con cristiana obbedienza ciò che i sacri Pastori dichiarano come autentici dottori e maestri della fede o stabiliscono come capi della Chiesa, e presterò fedelmente aiuto ai Vescovi diocesani, perché l’azione apostolica, da esercitare in nome e per mandato della Chiesa, sia com-piuta in comunione con la Chiesa stessa. Così Dio mi aiuti e questi santi Vangeli che tocco con le mie mani. (Variazioni del paragrafo quarto e quinto della formula di giuramento da usarsi dai fedeli indicati nel can. 833 n. 8) Sosterrò la disciplina comune a tutta la Chiesa e promuoverò l’osservanza di tutte le leggi ecclesiastiche, in particolare di quelle contenute nel Codice di Diritto Canonico. Osserverò con cristiana obbedienza ciò che i sacri Pastori dichiarano come autentici dottori e maestri della fede o stabiliscono come capi della Chiesa, e in unione con i Vescovi diocesani, fatti salvi l’indole e il fine del mio Istituto, presterò volentieri la mia opera perché l’azione apostolica, da esercitare in nome e per mandato della Chiesa, sia compiuta in comunione con la Chiesa stessa. 10 GIOVANNI PAOLO II Lettera Apostolica data Motu Proprio AD TUENDAM FIDEM, con la quale vengono inserite alcune norme nel Codice di Diritto Canonico e nel Codice dei Canoni delle Chiese Orientali PER DIFENDERE LA FEDE della Chiesa Cattolica contro gli errori che insorgono da parte di alcuni fedeli, soprattutto di quelli che si dedicano di proposito alle discipline della sacra teologia, è sembrato assolutamente necessario a Noi, il cui compito precipuo è confermare i fratelli nella fede (cf Lc 22, 32), che nei testi vigenti del Codice di Diritto Canonico e del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali vengano aggiunte norme con le quali espressamente sia imposto il dovere di osservare le verità proposte in modo definitivo dal Magistero della Chiesa, facendo anche menzione delle sanzioni canoniche riguardanti la stessa materia. 1. Fin dai primi secoli sino al giorno d'oggi la Chiesa professa le verità sulla fede di Cristo e sul mistero della Sua redenzione, che successivamente sono state raccolte nei Simboli della fede; oggi infatti esse vengono comunemente conosciute e proclamate dai fedeli nella celebrazione solenne e festiva delle Messe come Simbolo degli Apostoli oppure Simbolo Niceno-Costantinopolitano. Lo stesso Simbolo Niceno-Costantinopolitano è contenuto nella Professione di fede, ultimamente elaborata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede(1), che in modo speciale viene imposta a determinati fedeli da emettere quando questi assumono un ufficio relativo direttamente o indirettamente alla più profonda ricerca nell’ambito delle verità circa la fede e i costumi oppure legato a una potestà peculiare nel governo della Chiesa(2). 2. La Professione di fede, preceduta debitamente dal Simbolo Niceno-Costantinopolitano, ha inoltre tre proposizioni o commi che intendono esplicare le verità della fede cattolica che la Chiesa, sotto la guida dello Spirito Santo che Le «insegnerà tutta la verità» (Gv 16, 13), nel corso dei secoli ha scrutato o dovrà scrutare più profondamente(3). Il primo comma che enuncia: «Credo pure con ferma fede tutto ciò che è contenuto nella parola di Dio scritta o trasmessa e che la Chiesa, sia con giudizio solenne sia con magistero ordinario e universale, propone a credere come divinamente rivelato»(4), convenientemente afferma e ha il suo disposto nella legislazione universale della Chiesa nei cann. 750 del Codice di Diritto Canonico(5) e 598 del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali(6). Il terzo comma che dice: «Aderisco inoltre con religioso ossequio della volontà e dell'intelletto alle dottrine che il Romano Pontefice o il Collegio dei Vescovi propongono quando esercitano il loro magistero autentico, sebbene non intendano proclamarle con atto definitivo»(7), trova il suo posto nei cann. 752 del Codice di Diritto Canonico(8) e 599 del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali(9). 3. Tuttavia, il secondo comma in cui si afferma: «Fermamente accolgo e ritengo anche tutte e singole le verità circa la dottrina che riguarda la fede o i costumi proposte dalla Chiesa in modo definitivo»(10), non ha alcun canone corrispondente nei Codici della Chiesa Cattolica. È di massima importanza questo comma della Professione di fede, dal momento che indica le verità necessariamente connesse con la divina rivelazione. Queste verità, che nell’esplorazione della dottrina cattolica esprimono una particolare ispirazione dello Spirito di Dio per la comprensione più profonda della Chiesa di una qualche verità che riguarda la fede o i costumi, sono connesse sia per 11 ragioni storiche sia come logica conseguenza. 4. Spinti perciò da detta necessità abbiamo opportunamente deliberato di colmare questa lacuna della legge universale nel modo seguente: A) Il can. 750 del Codice di Diritto Canonico d’ora in poi avrà due paragrafi, il primo dei quali consisterà del testo del canone vigente e il secondo presenterà un testo nuovo, cosicché nell’insieme il can. 750 suonerà: Can. 750 - § 1. Per fede divina e cattolica sono da credere tutte quelle cose che sono contenute nella parola di Dio scritta o tramandata, vale a dire nell'unico deposito della fede affidato alla Chiesa, e che insieme sono proposte come divinamente rivelate, sia dal magistero solenne della Chiesa, sia dal suo magistero ordinario e universale, ossia quello che è manifestato dalla comune adesione dei fedeli sotto la guida del sacro magistero; di conseguenza tutti sono tenuti a evitare qualsiasi dottrina ad esse contraria. § 2. Si devono pure fermamente accogliere e ritenere anche tutte e singole le cose che vengono proposte definitivamente dal magistero della Chiesa circa la fede e i costumi, quelle cioè che sono richieste per custodire santamente ed esporre fedelmente lo stesso deposito della fede; si oppone dunque alla dottrina della Chiesa cattolica chi rifiuta le medesime proposizioni da tenersi definitivamente. Nel can. 1371, n. 1 del Codice di Diritto Canonico sia congruentemente aggiunta la citazione del can. 750 § 2, cosicché lo stesso can. 1371 d’ora in poi nell’insieme suonerà: Can. 1371 - Sia punito con una giusta pena: 1) chi oltre al caso di cui nel can. 1364 § 1, insegna una dottrina condannata dal Romano Pontefice o dal Concilio Ecumenico oppure respinge pertinacemente la dottrina di cui nel can. 750 § 2 o nel can. 752, ed ammonito dalla Sede Apostolica o dall'Ordinario non ritratta; 2) chi in altro modo non obbedisce alla Sede Apostolica, all'Ordinario o al Superiore che legittimamente gli comanda o gli proibisce, e dopo l'ammonizione persiste nella sua disobbedienza. B) Il can. 598 del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali d’ora in poi avrà due paragrafi, dei quali il primo consisterà del testo del canone vigente e il secondo presenterà un testo nuovo, cosicché nell’insieme il can. 598 suonerà: Can. 598 - § 1. Per fede divina e cattolica sono da credere tutte quelle cose che sono contenute nella parola di Dio scritta o tramandata cioè nell'unico deposito della fede affidato alla Chiesa, e che insieme sono proposte come divinamente rivelate sia dal magistero solenne della Chiesa, sia dal suo magistero ordinario e universale, ossia quello che è manifestato dalla comune adesione dei fedeli sotto la guida del sacro magistero; di conseguenza tutti i fedeli curino di evitare qualsiasi dottrina che ad esse non corrisponda. § 2. Si devono pure fermamente accogliere e ritenere anche tutte e singole le cose che vengono proposte definitivamente dal magistero della Chiesa circa la fede e i costumi, quelle cioè che sono richieste per custodire santamente ed esporre fedelmente lo stesso deposito della fede; si oppone dunque alla dottrina della Chiesa cattolica chi rifiuta le medesime proposizioni da tenersi definitivamente. Nel can. 1436 del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali si aggiungano convenientemente le parole che si riferiscono al can. 598 § 2, cosicché nell’insieme il can. 1436 suonerà: 12 Can. 1436 - § 1. Colui che nega una verità da credere per fede divina e cattolica o la mette in dubbio oppure ripudia totalmente la fede cristiana e legittimamente ammonito non si ravvede, sia punito come eretico o come apostata con la scomunica maggiore; il chierico può essere punito inoltre con altre pene, non esclusa la deposizione. § 2. All'infuori di questi casi, colui che respinge pertinacemente una dottrina proposta da tenersi definitivamente o sostiene una dottrina condannata come erronea dal Romano Pontefice o dal Collegio dei Vescovi nell'esercizio del magistero autentico e legittimamente ammonito non si ravvede, sia punito con una pena adeguata. 5. Ordiniamo che sia valido e ratificato tutto ciò che Noi con la presente Lettera Apostolica data Motu Proprio abbiamo decretato e prescriviamo che sia inserito nella legislazione universale della Chiesa Cattolica, rispettivamente nel Codice di Diritto Canonico e nel Codice dei Canoni delle Chiese Orientali così come è stato sopra dimostrato, nonostante qualunque cosa in contrario. Roma, presso san Pietro, 18 maggio 1998, anno ventesimo del Nostro Pontificato. GIOVANNI PAOLO II VITA CONSACRATA E MINISTERO ORDINATO La condizione attuale del presbitero religioso di Rossano Zas Friz De Col S.I. in Rivista di teologia 45 (2004) 54-61 Nell’anno 2000 M. Costa S.I. pubblica un lungo articolo che contribuisce a fare luce sul rapporto tra VC e MO (nota 50). In effetti, questo rapporto è un problema esistenziale che riguarda l’unità di vita del presbitero religioso: è forse la sua una duplice vocazione, quella di essere presbitero e religioso insieme? Costa parte dalla considerazione generale che «non dobbiamo pensare che sia il sacerdozio a determinare il carisma ecclesiale di un Istituto di vita religiosa, semmai è piuttosto il carisma ecclesiale dell’Istituto, ben più ricco e complesso, ad indicare il modo in cui il religioso deve essere sacerdote» (57). Una prima distinzione attinente per chiarire il rapporto tra MO e VC è prendere coscienza che ogni sacerdote ha ricevuto contemporaneamente all’ordinazione l’incardinazione, cioè è stato inserito in un contesto storico, sociale ed ecclesiale determinato nel quale eserciterà concretamente il suo ministero. Per questa ragione non si deve «identificare il carisma del ministero sacerdotale con il carisma della secolarità diocesana» (58), 13 perché il MO si può concretizzare come un carisma diocesano o religioso, a seconda di dove è incardinato il presbitero (chiesa locale o istituto religioso). Come conseguenza di questa impostazione avremo che il presbitero diocesano è ugualmente invitato a cercare l’unità vitale tra MO e incardinazione, per non falsare la propria vocazione. Per quanto riguarda il rapporto tra MO e VC si può anche sostenere che un religioso è presbitero o che un presbitero è religioso. Nel primo caso (religioso presbitero) si distingue tra due religiosi, uno presbitero e l’altro no, mentre nel secondo (presbitero religioso) si dice che il presbitero è religioso e non diocesano. Una seconda distinzione importante va fatta nell’ambito della vita consacrata. La VC, di per sé, non è né clericale né laicale, ma un Istituto è o clericale o laicale (CIC 588, § 1). Gli istituti clericali interpretano il MO come essenziale alla loro identità, anche se non tutti i membri sono ordinati e non è sufficiente per la loro identità il semplice esercizio ministeriale perché lo si deve realizzare in armonia con un determinato stile di vita: «Negli Istituti strettamente sacerdotali, come per esempio la Compagnia di Gesù, la sacerdotalità prima di essere una questione di ministeri da espletare e da scegliere, consiste in uno stile di vita e in uno spirito che in-forma (= dà forma a) ogni attività e missione facendola essere ministero, e che pertanto, se forse nella sua forma più evidente si esprime in ministeri particolari, non necessariamente ad essi si riduce. I ministeri cosiddetti sacerdotali sono attività e modelli archetipi del servizio apostolico sacerdotale che il sacerdote religioso rende a servizio della missione apostolica della Chiesa» (64). Si potrebbe porre però ancora un’altra distinzione negli Istituti di VC. I religiosi sacerdoti sono quelli che assumono la dimensione sacerdotale in modo più esterno, come un ministero, come una dimensione che si aggiunge alle altre della VC; il MO è al servizio della realizzazione della particolare vocazione apostolica dell’istituto. La dimensione sacerdotale è subordinata alla vocazione religiosa. Invece i sacerdoti religiosi interpretano la loro sacerdotalità come il principio che dà unità e senso alla vita personale e comunitaria (nota 51). L’autore, nella n. 19, fa una digressione molto interessante sul modo in cui ogni istituto è segnato dalle sue origini. Pone come esempio il caso della Compagnia di Gesù. Ignazio de Loyola seppe raggruppare intorno a sé giovani studenti di teologia che, una volta ordinati, lo elessero capo del loro corpo. Allo stesso modo, nel percorso formativo-incorporativo alla Compagnia, la professione si realizza dopo l’ordinazione. Questa pratica è in contrasto con il Codice di Diritto Canonico (cc. 265, 266, 1019, 1037), il quale suppone esattamente il contrario: il religioso, per essere ordinato, deve essere pienamente incorporato al suo istituto. Secondo Costa, questo fatto mostra l’attuale preferenza della Chiesa per il religioso sacerdote; come conseguenza c’è una maggiore difficoltà per comprendere la figura del sacerdote religioso. Tuttavia la «minore stima e considerazione in cui è oggi tenuta la vita religiosa clericale nella Chiesa stessa non deve e non può, però, in nessun modo giustificare il mettere tra parentesi, da parte degli Istituti clericali, il carattere sacerdotale del carisma degli Istituti clericali, o addirittura, la rinuncia ad esso per una falsa concezione di aggiornamento o di adattamento alle particolari circostanze di tempo e di luogo che oggi si verificano» (66-67). Una terza distinzione tra MO e VC si può stabilire a livello della persona. In un religioso sacerdote o in un sacerdote religioso si creano diversi poli di tensione. Il primo è quello che nasce a partire dal connubio tra il sacramento ricevuto e la vocazione religiosa. Un secondo polo è quello che riflette la tensione che si produce tra lo stile diocesano e quello religioso e che a un livello più generale si manifesta come tensione tra la Chiesa universale e la Chiesa particolare. Il clero religioso ha una visione universale del suo apostolato locale, mentre il clero diocesano ha una visione locale della sua missione, in un orizzonte universale (la Chiesa). Ma questa tensione tra particolare e universale opera anche all’interno della relazione MO-VC, perché il sacerdote religioso ha una visione più universale, mentre il religioso sacerdote ha una visione più locale: del primo è più normale essere nelle frontiere, del secondo, al contrario, rimanere in un posto fisso (cf 76). Ma il sacerdote religioso vive ancora un terzo polo di tensione: quella che si compie tra MO e il carisma del suo Istituto, tra il carisma e l’istituzione. Ambedue danno forma alla sua vocazione: per il carisma è un sacerdote di una particolare spiritualità, per l’istituzione risulta un uomo che ha ricevuto una missione. La VC e gli Istituti clericali sono un carisma per l’Istituzione ecclesiale gerarchica: essendo diversi sono complementari. In ugual modo per il sacerdote religioso le due dimensioni formano parte della sua unica vocazione carismatica (religiosa) e ministeriale (gerarchica). Se la gerarchia ordina l’azione carismatica della VC, allo stesso modo nel sacerdote religioso il MO sarà ordinamento istituzionale per l’azione carismatica della sua consacrazione religiosa (nota 52). Per queste ragioni Costa afferma che «la vocazione ecclesiale del prete membro di un Istituto religioso è una realtà originale e unitaria che preesiste sia alla sua ordinazione sacerdotale, sia alla sua consacrazione 14 attraverso la professione dei voti» (81). Considerando perciò questa particolare chiamata dal punto di vista ecclesiale, essa ha un legittimo diritto di cittadinanza nella Chiesa. Ma se la si considera dalla prospettiva dell’Istituto o del membro particolare, bisogna distinguere tra il sacerdote religioso e il religioso sacerdote. Non è sufficiente semplicemente mettere insieme due poli (MO e VC), bisogna sfumarli perché rappresentano due carismi ecclesiali diversi. Sarà impegno di ogni Istituto particolare chiarificare la sua peculiare vocazione ecclesiale: «nella Chiesa di Cristo ha diritto di cittadinanza non solo la presenza della vocazione sacerdotale e quella della vocazione alla consacrazione religiosa separatamente considerate, non solo la presenza all’interno del presbiterio diocesano o della fraternità tra sacerdoti a livello universale di un clero diocesano e di un clero regolare, ma, all’interno stesso di questo, hanno diritto di cittadinanza la figura del “sacerdote religioso” e quella del “religioso Sacerdote” (84). L’evidente diversità dei carismi ecclesiali deve essere vista come una ricchezza: tra essi figura la particolare vocazione all’integrazione del MO con la VC. La condizione per tale realizzazione è che entrambe le dimensioni vengano vissute come complementari e funzionali verso un’unità vitale distinta da quella che si vive quando quelle dimensioni si realizzano separatamente. In caso contrario sarebbe impossibile parlare di una particolare vocazione ecclesiale. In conclusione, se è vero quanto si è sostenuto, bisogna ritornare ancora alla prima distinzione tra ordinazione e incardinazione. In quanto all’incardinazione religiosa c’è da considerare il particolare carisma di ogni Istituto (se è più religioso-sacerdotale o più sacerdotale-religioso) in modo tale che il singolo membro sia stimolato chiaramente verso un’integrazione di vita nella vocazione dell’Istituto al quale appartiene (nota 53). Nello stesso anno 2000, Severino Dianich ha pubblicato un articolo in cui si propone «di studiare dal punto di vista teologico la complessa e problematica composizione nella stessa persona di componenti molteplici ed anche disparate tra loro» (nota 54). Si riferisce al presbitero religioso in quanto egli ha una vocazione comune a tutti i battezzati, ma la vive in un modo particolare, come consacrato a Dio in un istituto mediante la professione di voti, a cui si aggiunge l’esercizio del ministero ordinato vissuto secondo il carisma dell’istituto d’appartenenza. La sua considerazione si rivolge esclusivamente ai membri ordinati degli istituti religiosi (cf CIC 607, § 2) (nota 55), escludendo gli istituti secolari. Dianich, dopo una seria considerazione sulla pluralità dei carismi e dei ministeri nella vita cristiana, conclude che «il problema del rapporto fra vita consacrata e tutti i possibili ministeri, compreso il ministero ordinato, può essere posto e risolto solo all’interno delle diverse istituzioni, perché antecedentemente ad esse è aperto a qualsiasi soluzione» (386). L’unica realtà, per così dire, che rimane comune a tutte le vocazioni nella Chiesa è quella dell’evangelizzazione (cf 386-394). Non è pensabile oggi che un presbitero religioso eserciti il suo ministero rivolgendosi esclusivamente alla cura delle anime del proprio territorio (la parrocchia, per esempio). Il suo deve essere un ministero ad gentes, missionario, superando così la concezione tradizionale del presbitero diocesano chiuso nella sua comunità di credenti e centrato soltanto in un compito liturgico-cultuale senza un’attiva partecipazione nella predicazione e nell’evangelizzazione (nota 56). Data la realtà sociale e religiosa attuale, il Ministero Ordinato dovrebbe essere articolato in modo diverso: «Penso soprattutto ad un ministero tradizionale, di carattere più statico e più legato alla cura di comunità stabili, ad un ministero che si muova con più agilità all’interno della chiesa locale, destinato soprattutto al contatto con gli ambienti lontani dalla fede, e infine ad un ministero di tipo itinerante» (392). Le caratteristiche elencate per ultimo hanno identificato durante i secoli i preti religiosi: «Il carattere dell’itineranza, la disponibilità alla varietà e mobilità delle forme del ministero, la possibilità di impegni più elastici e meglio articolati sono valori ben noti, caratteristici dei preti religiosi» (393-394). Tuttavia essi realizzano la loro missione evangelizzatrice all’interno di una visione universale della Chiesa e non è pensabile che la attuino «senza legami di dipendenza da alcuna chiesa locale» (392) (nota 57). Secondo Dianich la situazione oggi sarebbe più o meno questa: da una parte, i preti diocesani hanno riscoperto la dimensione missionaria del loro MO, sia a livello parrocchiale o diocesano, sia a livello di missione esterna; da un’altra, è impensabile che i preti religiosi possano realizzare un’evangelizzazione universale se questa non avviene in una chiesa locale. Così, non è detto che i diocesani debbano essere costretti a esercitare il loro ministero diocesano nell’ambito del territorio in cui sono incardinati, mentre è detto che i religiosi non possono esercitare il loro ministero universale se non incardinati in una chiesa locale. In effetti: «Nella visione ecclesiologica del Vaticano II, tutta la ricchezza della cattolicità risiede nella chiesa locale ed è operante dal suo interno. Del resto, lo stesso ministero papale non è un ministero della chiesa universale, se non a partire dal fatto che il papa è vescovo della chiesa locale di Roma. Il papato non è un 15 grado del sacramento dell’ordine superiore all’episcopato e, pur con il suo singolare carisma e le sue particolari prerogative, è e resta un ministero episcopale. Il quadro ecclesiologico globale, quindi, sembra esigere un ancoramento di ogni ministero ordinato ad una chiesa locale: non per niente è dal vescovo che il prete riceve l’imposizione delle mani. Il ministero viene dal sacramento ed ha bisogno di restare ancorato al sacramento, non di vagare nello spazio aperto di una giurisdizione universale» (394). Da queste considerazioni l’autore arriva a quello che possiamo ritenere il quid dello status questionis: il presbitero religioso non può appartenere al presbiterio di una chiesa locale che si raduna intorno al suo vescovo per celebrare l’Eucaristia e poi svolgere il suo ministero «esclusivamente nel quadro giurisdizionale della chiesa universale» (ivi). Oggi non si può più pensare nei termini di una doppia appartenenza: «quella dell’ordine sacramentale alla chiesa locale e quella dell’ordine giurisdizionale alla chiesa universale» (ivi) (nota 58). Certamente la celebrazione eucaristica non è l’unico servizio - anche se ne è il punto culminante che il ministro ordinato, sia diocesano che religioso, compie a favore della chiesa locale. Il coinvolgimento integrale del MO a favore della comunità implica la sua cura pastorale e l’evangelizzazione all’esterno di essa. Perciò il rapporto del presbitero con la comunità che evangelizza e per cui celebra l’Eucaristia «è un rapporto che lo impegna alla totalità della dedizione pastorale. [...] In forza del suo carisma sacramentale il prete appartiene alla comunità nella quale egli è posto, con il vescovo e in dipendenza dal vescovo, come il garante dell’unità nell’unica fede e nell’unica eucaristia» (397). Dianich ammette la validità del “ruolo eucaristico” del presbitero dove manca “l’esercizio del ministero pastorale”, ma si tratta di un caso limite. Ammettere questa situazione come “normale” «significherebbe inferire un vulnus non solo alla concezione del ministero ordinato, ma anche a tutto l’equilibrio sacramentale che si gioca essenzialmente sulla circolarità fra rito e vita, segno e significato e che non permette cortocircuiti fra sacramento e sacramento. Uno di questi cortocircuiti si verificherebbe qualora pensassimo il sacramento dell’ordine destinato alla celebrazione eucaristica senza passare attraverso la mediazione di una vita dedicata all’edificazione della comunità» (398). L’autore conclude l’articolo affermando che sebbene il problema rimanga aperto, tuttavia nel futuro la chiesa dovrà fare una scelta tra il primato dell’ordinamento sacramentale e il primato dell’ordinamento giurisdizionale (nota 59). Note: (50) Cf M. Costa, «”Sacerdote-religioso” o/e “Religioso-sacerdote”? Vocazione al sacerdozio e vocazione alla vita religiosa negli Istituti di vita consacrata», in Informationes SCRIS 26 (2000) 55-87. (51) «Nel secondo caso, invece, anche quando l’Istituto fosse impegnato in maniera considerevole nel campo della promozione della giustizia e un buon numero dei suoi membri sacerdoti quasi solo episodicamente di fatto esercitassero un ministero pastorale strettamente legato al sacramento dell’Ordine, la dimensione sacerdotale della vocazione del religioso viene ad integrarsi in un rapporto dialettico con la sua consacrazione religiosa al di là di un rapporto mezzo/ fine o di subordinazione dell’una verso l’altra. Bisognerà, però che la vita dell’Istituto nel suo insieme come corpo-uno e, conseguentemente, quella di tutti i suoi membri in quanto partecipi del suo carisma, qualunque sia la concreta missione loro affidata dall’ubbidienza, sia vissuta ad un profondo livello di interiorità. Questo, poi, dovrà essere tanto più profondo e intensamente vissuto quanto più l’attualizzazione della missione si situi all’esterno, su un piano più propriamente secolare e lontano dall’esercizio del ministero sacerdotale esclusivo e proprio di coloro che hanno ricevuto il sacramento dell’Ordine. Solo in tal modo sarà possibile che la configurazione a Cristo capo, pastore e sposo, e la carità pastorale impregnino, motivino e creino il clima per tutta la loro esistenza e operatività, che potrà allora diventare sorgente di santificazione secondo le linee del carisma confidato e trasmesso dal fondatore» (M. Costa, «”Sacerdote-religioso”....», cit., 65-66). (52) L’autore continua a sviluppare il tema sotto il profilo dell’integrazione personale delle due dimensioni (MO e VC) nel discernimento spirituale, sviluppo che sfugge al nostro interesse immediato. Tuttavia, l’unità tra MO e VC si realizza, secondo Costa, non soltanto per opera dell’intelligenza e della volontà, ma anche dell’affettività, la quale ha un ritmo proprio, quello della maturazione psico spirituale. Perciò è dell’idea che insieme ad un’ortodossia e ad un’ortoprassi si dovrebbe aggiungere un’ortopatia (cf M. Costa, «”Sacerdote-religioso”...», cit., 79). (53) «Ponendoci nella prospettiva della singola persona, ci è sembrato più esatto parlare di dimensione sacerdotale e di dimensione religiosa di un’unica vocazione a partire dalla quale - come da un “tutto” che precede - si ridiscende a considerare i due poli come parti che si possono distinguere ma non separare, piuttosto che di due vocazioni diverse e separate che preesistono all’unità di vita» (M. Costa, «”Sacerdote- 16 religioso”...», cit., 87). (54) S. Dianich, «Ministeri e ministero ordinato nella vita dei religiosi», in Homo Vivens 11 (2000) 377-400, qui 377. «La figura del prete religioso è qualificata da due connotazioni non omologhe, in quanto l’essere prete dice un ministero che può essere esercitato in diversi stati di vita, mentre l’essere religioso dice uno stato di vita nel quale possono essere esercitati i più diversi ministeri» (380). (55) «Comunque la questione dovrà essere collocata nel quadro più ampio del rapporto esistente nella vita del religioso fra il suo stato di “consacrato” e il ministero, qualunque esso sia, che egli esercita» (S. Dianich, «Ministeri e ministero ordinato nella vita dei religiosi», cit., 380). (56) Le parole di Dianich sono pertinenti relativamente a questa concezione tradizionale del ministero presbiterale: «In questo quadro [tradizionale] i religiosi si sono affermati come i missionari mandati dal papa ad evangelizzare nuovi popoli. Il ministero ordinato del prete comune, inoltre, per la carenza di una sua dimensione missionaria, si ritrovava totalmente concentrato nelle sue funzioni cultuali: la sua caratterizzazione sacrale esauriva il suo carisma al punto che il compito della predicazione sembrava non appartenergli neppure all’interno della sua comunità, dove saranno chiamati a predicare preti religiosi, sulla scia di una tradizione aperta dai mendicanti. In questo quadro la legislazione canonica riservava esclusivamente al papa la responsabilità dell’attività missionaria (cf CIC [1917] 1350 § 2)» (S. Dianich, «Ministeri e ministero ordinato nella vita dei religiosi», cit., 391-392. (57) E poi aggiunge: «Le ragioni che giustificano l’istituto della esenzione dei religiosi dalla giurisdizione del vescovo sono tali da farlo apparire quasi ovvio quando riguarda la vita interna delle comunità religiose e le attività dei religiosi non pertinenti al ministero ordinato. Dire che i religiosi in questi ambiti non dipendono dall’autorità diocesana è quasi come dire che i laici sono esenti dalla giurisdizione del vescovo nella loro vita familiare e nella loro attività professionale. Ma se hanno ricevuto da un vescovo l’imposizione delle mani e sono parte di un presbiterio, non si vede come si possa subordinare l’esercizio del loro ministero alle esigenze interne delle loro istituzioni» (S. Dianich, «Ministeri e ministero ordinato nella vita dei religiosi», cit., 393). (58) «Solo una concezione puramente professionale, che riducesse il ministero ordinato ad un mestiere, potrebbe far pensare il prete come un operatore esterno, che porta alla comunità del popolo di Dio la sua predicazione e la celebrazione dei sacramenti e poi vive la sua esperienza ecclesiale altrove» (S. Dianich, «Ministeri e ministero ordinato nella vita dei religiosi», cit., 396). Nella pagina seguente Dianich critica J.M.R. Tillard perché considera la comunità religiosa del presbitero religioso come “comunità di vita”, mentre le persone che si aggruppano attorno a lui come frutto del suo ministero formerebbero la sua équipe de travail. (59) «Non penso che la soluzione per forza debba assorbire un ordinamento nell’altro, ma che la chiesa debba in futuro fare una scelta per il primato dell’uno o dell’altro» (S. Dianich, «Ministeri e ministero ordinato nella vita dei religiosi», cit., 399). LA SITUAZIONE DEL RELIGIOSO PRESBITERO NELLA CHIESA OGGI “I religiosi presbiteri: aspetti storici ed elementi teologici” (Don Erio Castellucci, Diocesi di Forlì-Bertinoro) L’intervento si struttura attorno ai due elementi del titolo, con l’ovvia premessa che offrirà solo delle tracce e degli spunti al dibattito. PRIMA PARTE: PRINCIPALI MODELLI STORICI 17 Le due grandi tradizioni, quella religiosa e quella presbiterale, si sono intrecciate più volte e bidirezionalmente nella storia della Chiesa: si distinguono infatti processi di trasferimento del ministero ordinato sui religiosi e processi inversi di trasferimento della vita e spiritualità religiosa sui ministri ordinati; in alcuni casi, poi, la sintesi è riuscita talmente bene che è difficile distinguere quale delle componenti rappresenti il perno attorno al quale ruota l’altra. PROGRESSIVO INTRECCIO TRA MONACHESIMO E MINISTERO ORDINATO – DAL IV AL XII SECOLO1 Due forze si misurano in questi otto secoli: quella monastica, che gioca di difesa, e quella ministeriale, che gioca d’attacco; la prima, all’inizio ben salda nelle sue posizioni, perde gradualmente terreno e finisce per cedere alla seconda, che alla fine la ingloba in maniera quasi completa. La metafora sportiva può rendere adeguatamente il complesso gioco di relazioni tra monachesimo e sacerdozio ministeriale intrecciatosi tra la fine dell’epoca patristica e il periodo altomedievale. E’ bene partire cavallerescamente dall’ottica degli sconfitti e poi analizzare le ragioni dei vincitori. Resistenze iniziali del monachesimo alla clericalizzazione I primi anacoreti come Antonio e monaci come Pacomio, ritirandosi solitariamente o a gruppetti nel deserto, prendevano parte all’eucaristia domenicale nei villaggi più vicini alla loro abitazione e non pensavano minimamente di inserirsi nella tradizione del sacerdozio ministeriale. Ben presto però la tradizione cenobitica prese il sopravvento su quella eremitica; le comunità monastiche nel IV secolo crebbero di numero e si dotarono di luoghi di culto, limitandosi però dapprima a chiedere ai presbiteri locali il servizio sacramentale (in questo periodo neppure il padre spirituale o l’abate sono ordinati), poi gradualmente permettendo ad alcuni dei fratelli di essere ordinati presbiteri per i bisogni della comunità; sono gli ieromonaci, ordinati unicamente per rispondere alle necessità sacramentali del cenobio2. Permaneva tuttavia una certa riluttanza da parte dei ‘santi uomini’ ad essere ordinati, con tanto di fuga per non venire presi (gli es. più noti: Pacomio, Gregorio nazianzeno e Giovanni Crisostomo). L’ordinazione era accettata, nel IV e V secolo, solo quando la si riteneva necessaria per il proprio monastero o, a titolo eccezionale, per il bene delle chiese locali; veniva comunque percepita come una ‘eccezione’ rispetto alla tradizione monastica. Nel VI sec. Benedetto invitava i suoi discepoli ad essere cauti nell’accettare presbiteri nelle loro comunità o nel presentare membri della comunità per l’ordinazione, perché temeva che venisse favorita l’ambizione e che i fratelli venissero distolti dalla pace ascetica; egli accoglieva i presbiteri disponibili a prendere posto tra gli altri monaci, senza officiare all’altare (cf. Regula 60,62). E Cassiano, in un passaggio famoso, chiedeva ai monaci di fuggire con tutte le loro forze dalle donne e dai vescovi (De institutis coenobiorum et de octo principalium vitiorum remediis 11.18; SC 109,444). La riluttanza verso l’ordinazione 1 Cf. B.E. DALEY, “The ministry of disciples: historical reflections on the role of religious priests”, in Theological Studies 48 (1987), pp. 616-620; AAVV, “Sacerdozio”, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, vol. VIII, Paoline, Roma 1988, coll. 48-97. In entrambi gli studi il riferimento alle fonti è abbondantissimo: ad esso rimandiamo. 2 A. SCRIMA, “Sacerdozio”, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, cit., col. 54. 18 da parte dei monaci si spiega non tanto con il senso di indegnità di fronte al ‘tremendo potere’ del sacerdozio (tema espresso in maniera inarrivabile nel Dialogo sul Sacerdozio di Giovanni Crisostomo), quanto con il timore di perdere la specificità della propria vocazione contemplativa, implicante solitudine fisica e mentale, tempo per la meditazione e la riflessione, e di scadere in un ruolo subalterno rispetto al vescovo del luogo. E’ considerata ancora costitutiva e benefica ancor oggi dagli orientali – sebbene talvolta fonte di tensione – la distinzione tra la gerarchia “istituzionale” del ministero e quella “carismatica” o “spirituale” del monacheismo: si può dire che l’Oriente cristiano ha sempre mantenuto questa impostazione di principio, tenendo distinte la linea monastica celibataria e laicale da quella presbiterale e ministeriale, in genere uxorata, e limitandosi a ordinare quasi esclusivamente coloro che erano necessari per la comunità monastica3; il fatto che i vescovi, già fin da subito ma poi canonicamente dal IX secolo, siano scelti solo tra i monaci, è probabilmente dovuto all’intenzione di “riunire, almeno simbolicamente, nella persona del vescovo, ‘istituzione’ e ‘carisma’, ‘autorità’ e ‘rinuncia’; mentre in Occidente questa stessa linea è stata mantenuta fin verso l’epoca carolingia, quando invece si affermerà decisamente quell’ordinazione ‘di massa’ dei monaci che rimarrà costante per molti secoli4. Graduale resa del monachesimo al ministero ordinato Come si è arrivati a questa ordinazione monastica ‘di massa’, quando i punti di partenza erano così chiaramente distinti, e il desiderio monastico di fedeltà al carisma laicale originario sembrava così ben custodito? Le ragioni del successo che alla fine ebbero gli attaccanti-sacerdoti contro i difensori-monaci dipendono da una complessa serie di fattori, alcuni dei quali già accennati. Per cogliere qualche elemento più preciso, possiamo seguire la scansione proposta da A. De Vogüé5, che ravvisa alla base della clericalizzazione dei monaci i seguenti fenomeni. - Monaci inseriti nel clero diocesano. “Nella Chiesa antica, in cui le norme della formazione clericale sono così poco determinate, l’idea di reclutare chierici in quel corpo scelto che formavano i monaci doveva imporsi spontaneamente”6; infatti i monaci dal IV secolo vennero scelti per l’ordinazione con sempre maggiore insistenza a motivo della loro ottima reputazione, della loro santità ed esperienza nelle cose di Dio. E’ noto come Agostino prenda monaci del suo monastero per ordinarli chierici e come diversi monaci di Lérins vengano nominati vescovi, attingendo poi a loro volta chierici per le loro diocesi da quello stesso monastero di cui essi avevano fatto parte (famoso in questo Fulgenzio di Ruspe). Il fenomeno divenne spesso fonte di tensione, se è vero che un Concilio del 449-61 ad Arles stabilisce che per l’ordinazione di un monaco è richiesto il consenso dell’abate: norma che i papi dell’alto medievo, pur favorendo la prassi di tali ordinazioni, richiameranno più d’una volta. - Chierici riuniti in comunità monastiche. Il vescovo Eusebio di Vercelli vive in una comunità di chierici che sono allo stesso tempo monaci; Agostino fonda due monasteri: uno, 3 “Per l’Oriente cristiano, vocazione monastica e ministero sacerdotale rappresentano due elementi completamente distinti di vita cristiana e di struttura ecclesiale” (Ibid., 53). 4 Cf. G. ROCCA, “Sacerdozio”, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, cit., coll. 48-49. 5 A. DE VOGÜE’, “Sacerdozio”, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, cit., coll. 55-77. Per la documentazione puntuale rimandiamo a questo studio. 6 Ibid., col. 56. 19 quando era ancora presbitero, di tipo laicale e l’altro, ormai da vescovo (dopo avere trasmesso la guida del primo ad un preposto laico), di tipo clericale; il vescovo Agostino prende più di un chierico dal suo primo monastero, inserendolo così nel secondo (il suo “presbiterio”). Anche Basilio di Cesarea, Ilario di Arles, Fulgenzio di Ruspe, Agostino di Canterbury e altri vivranno in comunità miste di chierici e monaci e le alimenteranno con ordinazioni monastiche. Questo modello, come è noto, giocherà un ruolo determinante in Gallia, Britannia e Irlanda, dove il cristianesimo si plasmerà attorno ai monasteri in modo ancora più deciso che nel sud Europa, e il clero delle diocesi verrà raccolto in comunità di tipo monastico guidate dal vescovo-abate. - Chierici in penitenza nei monasteri. I monasteri accoglievano i chierici (presbiteri e vescovi) caduti in peccati gravi, soprattutto di incontinenza, per il periodo penitenziale: la prima regola di Lérins, all’inizio del V secolo, prevede la loro accoglienza (è l’unico genere di presenza clericale accettato) e un secolo dopo sinodi della Gallia avvallano la stessa prassi. L’accoglienza non doveva essere proprio penitenziale, anzi i bravi monaci dovettero mostrarsi davvero molto larghi nell’ospitalità, se lo stesso papa Gregorio e un sinodo di Narbonne, alla fine del VI secolo, dovranno intervenire ad ordinare ai vescovi di confinare i chierici colpevoli in monasteri poveri e osservanti e agli abati di non trattarli troppo lautamente, ricordando che essi sono lì per fare penitenza. - Chierici “diocesani” residenti nei monasteri. Talvolta i sacerdoti diocesani che vanno incontro alle necessità sacramentali dei monasteri iniziano a risiedervi, creando qualche problema di equilibrio interno: infatti “i superiori laici rischiano di essere dominati da queste persone che fanno parte della gerarchia”7, provocando interventi anche autorevoli come quello di papa Gregorio. - Vigilanza sacerdotale sui monasteri. Nel 451 il Concilio di Calcedonia stabilisce che il vescovo abbia autorità su tutti i fedeli compresi i monaci (can. 4); e il sinodo di Orléans, nel 511, che gli abati sono sottoposti al potere dei vescovi (can. 19). Talvolta sono i beni materiali del monastero l’oggetto della contesa. Si avvia comunque la prassi dei ricorsi a Roma, vinti a volte dagli abati: è famoso il caso di Bertulfo di Bobbio, che la spuntò sul vescovo di Tortona, ottenendo da papa Onorio la concessione al monastero dell’esenzione dal potere episcopale. - Visite del clero ai monaci. Era richiesta dallo stesso monastero la visita dei chierici per la celebrazione eucaristica e le altre necessità sacramentali; tuttavia qualche vescovo fissò la cathedra in monastero, celebrandovi così le messe pubbliche con concorso di fedeli; questo fatto creò difficoltà e provocò interventi anche da parte di papi, a divieto di tale prassi. - Chierici che diventano membri di comunità monastiche. Alcuni chierici dal IV secolo abbandonano il loro ministero attivo per farsi monaci; e se un sinodo di Saragozza del 380 vietò questa prassi (can. 6), un sinodo di Toledo del 633 invece la difese, affermando che si tratta della scelta di una vita “migliore”. Monaci ordinati per il servizio del loro monastero. Mentre Pacomio non volle l’ordinazione né per se stesso né per i suoi successori né per alcuno dei suoi monaci, gli stessi monasteri pacomiani dovranno poi accettare, dalla fine del V secolo, l’ordinazione di loro membri, essendo diventati anche di numero esteso (a volte addirittura alcune centinaia di monaci). In Oriente e in Occidente, nel VI secolo, l’ordinazione di monaci per il servizio del monastero diventa prassi comune: Giustiniano nel 539 decreta che ogni chiesa monastica abbia il suo personale ordinato (quattro o cinque monaci anziani); e Benedetto 7 Ibid., col. 64. 20 dedica una capitolo della sua Regula ai “sacerdoti del monastero”, cioè ai monaci che l’abate ha fatto ordinare per il servizio comunitario (questa resta per lui l’unica ragione dell’ordinazione di monaci). I monaci sacerdoti iniziano ad essere separati dal resto della comunità, anche per la riservatezza legata al ministero dell’assoluzione. Se quantitativamente i monaci ordinati erano pochi nei primi secoli, in epoca carolingia essi appariranno come la ‘norma’ della vita monastica. Un dato statistico lo mette bene in evidenza: nel monastero costantinopolitano del famoso Eutiche, a metà del V secolo, vi erano un prete e dieci diaconi per 300 monaci; ma verso l’800 la proporzione dei monaci sacerdote copre un quarto o anche un terzo delle comunità. Addirittura in certi monasteri, come quello di S. Gallo, la quasi totalità del monaci alla fine del IX secolo è ordinata: nell’895 su 101 monaci 42 erano presbiteri, 24 diaconi e 15 suddiaconi. Un fattore decisivo, dal IX secolo in avanti, nell’aumento vertiginoso delle ordinazioni ‘interne’ ai monasteri fu la moltiplicazione delle ‘messe private’, delle intenzioni per i defunti e quindi degli altari nei monasteri; avere molti sacerdoti diventava importante anche come mezzo di sussistenza materiale8. Abati-diaconi e abati-sacerdoti. Dal V secolo è sempre più frequente che l’abate venga ordinato sacerdote, e dalla metà del VI secolo questa diventa prassi generalizzata, fino ad arrivare al sinodo di Roma dell’826 che ne fa una norma. Ormai il sacerdozio è più una dignità che un servizio, e gli abati non possono rimanerne esclusi. Va detto infatti che rispetto all’epoca dei primi monaci il ministero ordinato aveva subito un’evoluzione in direzione decisamente ‘sacerdotale’, e quindi veniva riportato essenzialmente all’offerta del sacrificio eucaristico (visione che poi Tommaso renderà classica, ma che prende avvio dalla ‘sacerdotalizazzione’ del ministero già in epoca patristica). In tal modo, quindi, tra lo stile di vita monastico e l’ideale presbiterale-sacerdotale si stabilì una sorta di ‘santa alleanza’, per cui l’offerta del sacrificio eucaristico venne vista all’inizio del periodo altomedievale come il culmine della vita contemplativa e della preghiera liturgica, e l’ordinazione come una sorta di ‘sigillo’ sacramentale posto su una vita santa. Queste intersezioni producono quindi una progressiva ‘clericalizzazione’ dei monasteri. Le crescenti necessità sacramentali dei monasteri sono state come il piede d’appoggio per l’attacco del fronte sacerdotale su quello monastico; inserendosi in questa fessura aperta dai bisogni monastici, i sacerdoti hanno poi ben presto trasformato la fessura in porta, facendo prevalere a loro volta bisogni concreti, come: un clero di alta qualità spirituale e morale, la necessità di luoghi per portare a termine la penitenza dei chierici, la possibilità di offrire anche al clero secolare esperienze comunitarie. L’assorbimento del ministero nel ‘sacerdozio’, con le opportunità derivanti dal moltiplicarsi delle messe private, e il guadagno di una concezione che ne esaltava più la dignità che il servizio, fecero il resto. Una piccola rivincita dei monaci: la riforma gregoriana Una rivincita da parte dei monaci si verificò nell’XI secolo con la riforma gregoriana, tesa a generalizzare il ‘prete monaco’ i cui compiti principali sono la preghiera liturgica corale (opus Dei) e la ‘vita angelica’, caratterizzata dal disprezzo per il mondo. Il modello sacerdotale uscito dalla riforma gregoriana ha prodotto un indubbio e necessario miglioramento nei costumi del clero, a prezzo però della proiezione della spiritualità 8 Cf. Ibid., coll. 76-77. Per una descrizione dettagliata, cf. J. DUBOIS, “Sacerdozio”, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, cit., coll. 77-90. 21 monastica sulla figura del presbitero e del vescovo. ”Ne risulta una quasi ‘monasticizzazione’ della teoria e della pratica del ministero. Il vescovo è pensato secondo il modello dell'abate, canonicamente posto a capo della sua comunità, più che secondo il modello del ‘convocatore’ della comunità e del coordinatore dei ministeri; la rottura con il mondo è accentuata; tutti i ministri pregano sul modello della liturgia monastica; il celibato [...] si modella sulla castità monastica”9. AFFIANCAMENTO TRA IL MINISTERO DEI RELIGIOSI E QUELLO DEI DIOCESANI – DAL XIII AL XX SECOLO Nel XII secolo si moltiplicarono i gruppi religiosi che professavano un ritorno al Vangelo sine glossa, in polemica spesso sia con il basso clero, che ormai non predicava più e si limitava a svolgere funzioni liturgiche sempre più lontane dal popolo, sia con l’alto clero, che viveva troppe volte negli agi e nelle preoccupazioni amministrative, senza curarsi della vita pastorale delle comunità. La struttura locale e ‘parrocchiale’ di Chiesa, anche dove era fiorente, non riusciva certo da sola a far fronte alla predicazione dei valdesi e degli albigesi. Gli ordini mendicanti sorsero nel XIII secolo con il compito di assumere le istanze più autentiche di questi gruppi religiosi radicali, restando però nell’alveo della Chiesa. Gli Ordini mendicanti I domenicani nacquero con l’intento di annunciare il Vangelo nella frontiera delle questioni allora controverse; in questo modo essi di fatto raccolsero un elemento del ministero ormai divenuto secondario sia nella pratica che nella teologia ‘sacerdotale’ dell’epoca, ma che era stato preminente nelle prime comunità cristiane, cioè la predicazione; fu perciò naturale ordinare presbiteri e poi vescovi molti di coloro che entravano nell’Ordine; per i domenicani dunque il sacerdozio “è connaturale con il loro sistema di vita, sono già chierici sin dalle origini, non vengono clericalizzati, e i fratelli laici sono di appoggio-sostegno ai sacerdoti, perché possano dedicarsi totalmente al loro ministero”10. I francescani presero avvio come grandi confraternite laicali, ma vennero anch’essi ben presto clericalizzati per gli stessi motivi, in quanto si sobbarcavano la predicazione tra i ceti popolari. A differenza dei domenicani, essi dunque sono alle origini laici, ma “la clericalizzazione è rapida, e frate Elia (un laico che diviene ministro generale dell’Ordine) resta una eccezione. Anche gli altri Ordini medicanti (Agostiniani, Carmelitani, Servi di Maria) si clericalizzano presto”11. In tal modo, “almeno dal XIII secolo, la storia degli ordini religiosi riguarda tanto la storia del ministero come la storia dell’ascetismo religioso”12. L’espansione degli ordini mendicanti, e in essi del ministero, andò di pari passo con l’affermazione del modello universalistico di Chiesa e del prestigio del papato, che fece fronte alle (non rare) resistenze da parte dei vescovi locali all’accoglienza di religiosi nel loro territorio per la predicazione; francescani e domenicani dall’inizio godettero di certi privilegi e numerose esenzioni da 9 J.-M. TILLARD, Ministero, in A. VAUCHEZ e C. LEONARDI, Dizionario enciclopedico del Medioevo, Città Nuova, Roma 1998, vol. II, col. 1198. 10 E. BOAGA – G. ROCCA, “Sacerdozio”, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, cit., col. 90. 11 Ibid. 12 J. W. O’MALLEY, “Priesthood, Ministry, and Religious Life: Some Historical and Historiografical Considerations”, in Theological Studies 49 (1988), p. 227. 22 parte della Santa Sede13. “Il ministero dei frati era esente dalla supervisione dell’episcopato, perché i frati si dedicavano al ministero in un modo particolare e, come ‘gli apostoli’, trascendevano i confini locali”: questo sviluppo risponde sia al papato forte della riforma gregoriana sia al desiderio di molti vescovi che abbisognavano di ministri preparati alla predicazione14. Va notato tuttavia anche il fenomeno dell’ordinazione di religiosi mendicanti con il solo scopo di celebrare messe per fondazioni e lasciti (come già da tempo avveniva per i monaci), che comportavano numerose celebrazioni quotidiane. Tra i religiosi mendicanti “si veniva così in pratica a dividere i membri sacerdoti in due gruppi: quelli capaci di poter esercitare in pieno il ministero sacerdotale, e quelli atti solo a celebrare la messa”15: i primi erano adeguatamente preparati, e solo loro potevano accedere agli uffici di responsabilità; per i secondi invece era ritenuto sufficiente quel tanto di conoscenze che li metteva in grado di celebrar messa (sono i “sacerdoti da messa”, ai quali ci si riferisce ad es. nelle Costituzioni dei Cappuccini del 1536). I gesuiti La Società di Gesù16, fondata nel XVI secolo da Ignazio di Loyola, fu dall’inizio interamente composta da presbiteri ordinati, riuniti poi sotto una regola. Lo scopo della Società era quello di portare avanti il ministero pastorale della Chiesa con uno slancio ed una competenza nuovi, in luoghi nei quali era più grande il bisogno, e sotto la guida diretta del papa, condividendone la cura pastorale per la Chiesa universale, al di là dei legami con le singole chiese particolari. E’ indicativo che all’inizio, verso il 1540, i gesuiti venissero chiamati ‘preti pellegrini’ o ‘preti riformati’: venivano quindi chiaramente percepiti non come monaci o frati ma come un ramo della famiglia presbiterale, non definibile attraverso i legami normali con diocesi e parrocchie. Il quarto voto dei gesuiti può essere visto anche come l’alleanza tra Pietro (papa) e Paolo, il modello del ministro itinerante, che i gesuiti assunsero da subito, andando in ogni parte del mondo a svolgere il ministero, inviati direttamente o indirettamente dal papa. Come nel XIII secolo i domenicani e i francescani assunsero la predicazione quale perno del ministero per far fronte alle eresie spiritualiste, così nel XVI secolo i gesuiti per far fronte al luteranesimo. “Se i gesuiti devono essere collocati nella storia del ministero, essi devono essere visti fondamentalmente come una continuazione delle tradizioni che cominciano con i mendicanti e una potente espansione di essi”17; anche in essi dominò dall’inizio una concezione del ministero legata alla predicazione; questa predicazione aveva luogo non solo durante la messa ma anche nei pomeriggi dei giorni festivi e ogni giorno durante l’avvento e la quaresima. Era una specie di “catechesi per adulti” (pratica scomparsa nell’epoca medievale), che poteva essere preceduta o seguita dalle “conversazioni spirituali” sulla parola di Dio a livello individuale o di piccoli gruppi; la predicazione avveniva nella strada, negli ospedali e in altri luoghi, e prese anche la forma delle missioni popolari, portate 13 Cf. J. W. O’MALLEY, “Priesthood, Ministry, and Religious Life”, cit., p. 235. Cf. J. W. O’MALLEY, “Priesthood, Ministry, and Religious Life”, cit., p. 236. 15 E. BOAGA – G. ROCCA, “Sacerdozio”, cit., col. 91. 16 B.E. DALEY, “The ministry of disciples”, cit., p. 620-621; .J. W. O’MALLEY, “Priesthood, Ministry, and Religious Life”, cit., pp. 237-237-245. 17 Ibid., p. 238. 14 23 avanti non solo dai gesuiti ma, almeno dal XVII secolo, anche dai cappuccini e dai vincenziani18. Dal punto di vista teologico è interessante notare che il modello ministeriale assunto dei gesuiti è una reazione “uguale e contraria” a quello luterano e protestante: se Lutero assolutizzava la predicazione del Vangelo come compito del ministro (anche a fronte della pesante trascuratezza da parte dei ministri cattolici), facendone il tutto del ministero, Ignazio prendeva proprio questo punto, integrandolo nell’insieme dei compiti del ministro, ma utilizzandolo dentro il ministero per diffondere e difendere la fede cattolica. La lotta tra Riforma protestante e Riforma cattolica La nascita della Compagnia di Gesù si colloca dunque in un contesto infuocato per la Chiesa: la controversia tra i riformatori protestanti e la Chiesa cattolica. Non a caso, il duplice rifiuto del ministero sacerdotale e dei voti monastici fu un elemento non marginale nella polemica di Lutero. Rifacendosi al sola Scriptura, aveva negato la legittimità dei voti, riassorbendone il significato nel Battesimo e ritenendo che non vi fosse spazio per una versione radicale di quel tipo; sulla base del sola Scriptura Lutero aveva inoltre negato la consistenza sacramentale dell’ordinazione sacerdotale, sostituendo i sacerdoti con dei ministri eletti temporaneamente dalle comunità per la predicazione della parola. Anche il sacerdozio, come i voti, per Lutero viene assorbito completamente dal Battesimo, che abilita tutti i fedeli all’esercizio del sacerdozio di Cristo. Il Concilio di Trento, leggendo la Scrittura attraverso la Tradizione, aveva reagito diametralmente riaffermando la legittimità e il valore dei voti monastici e religiosi e l’esistenza di un sacerdozio ministeriale fondato sull’Ordine, abilitato all’offerta del sacrificio eucaristico. Se Lutero aveva interpretato teologicamente il ministero in chiave unicamente profetica e funzionale, Trento lo imposta in chiave decisamente cultuale e ontologica. Per la verità Trento presenta anche un’altra chiave, quella pastorale: i vescovi e i presbiteri devono plasmarsi sull’immagine del Buon Pastore che offre la vita per il gregge; e di questa offerta fa parte anche la predicazione della parola di Dio; purtroppo però questa visione non compare nei decreti dogmatici, dominati da quella cultuale, ma solo nei decreti giuridici. Per cinque secoli quindi vengono avanti parallelamente queste tre concezioni del ministero ordinato: il mondo protestante è caratterizzato, con molte sfumature tra le varie confessioni, dal ministero inteso come funzione profetica nella comunità, come predicazione della Scrittura; nel mondo cattolico invece convivono tre modelli: quello del ‘sacerdote’ configurato ontologicamente a Cristo Sacerdote, che esprime questo suo essere nella celebrazione del sacrificio eucaristico e dei sacramenti; quello del ‘pastore’ che deve assumere lo stile di Cristo Buon Pastore verso il gregge, dando la vita per la Chiesa; e, all’interno della concezione pastorale, anche il modello del ‘predicatore’, che ha il compito di trasmettere al gregge la voce di Cristo. Avendo però solo il primo dei tre modelli vera e propria dignità sacramentale, il secondo rimaneva affidato al diritto e alla spiritualità del presbitero, ma non ne caratterizzava l’essere. Riprenderemo più avanti il filo del discorso: qui basti notare come i religiosi che fanno della predicazione il perno del loro ministero (specialmente domenicani, francescani e gesuiti), strutturano il sacerdozio attorno ad una dimensione teologicamente e pastoralmente trascurata dalla Chiesa e posta invece al centro dai suoi avversari. 18 Cf. Ibid., pp. 239-240. 24 La riforma tridentina adotta dunque teologicamente il modello tomista ‘sacerdotale’, e praticamente il modello ‘pastorale’. L’istituzione dei Seminari avviene in questa sorta di ambiguità teologico-pratica; vi vengono infatti formati dei pastori ma con la coscienza di essere dal punto di vista dogmatico essenzialmente custodi e garanti del culto e della celebrazione. Il fatto che la formazione seminaristica del clero diocesano sia stata affidata in gran parte ai religiosi, condusse l’epoca post-tridentina a scelte maggiormente in linea con la vita religiosa comunitaria che con quella parrocchiale presbiterale. Apporti della scuola francese del XVII secolo e del Card. Mercier La scuola di spiritualità francese nel XVII secolo19 cercò di risolvere questa tensione tra teologia e pastorale attraverso la coniugazione dei due elementi nell’idea ‘dionisiana’ della mediazione, sviluppata nella chiave dell’offerta sacrificale di sé, da parte del sacerdote, in unione con Cristo nella messa. Aiutò in questa riflessione certamente anche la figura di grandi vescovi riformatori cattolici, come Carlo Borromeo e Gregorio Barbarigo, che vissero il loro ministero come offerta totale di sé a Cristo e al gregge, come sacrificio della vita. Il sacerdote secondo questa spiritualità deve “purificare, illuminare, perfezionare”, separandosi dal mondo, in una rinuncia che diventi ostia a Dio gradita, da unire a Cristo immolato nel sacrificio eucaristico. In questo senso alcuni autori insistono sul fatto che il sacerdozio non è affatto inferiore alla vita religiosa e si inizia a parlare del sacerdozio diocesano come dell’Ordine di S. Pietro (la prima volta nel 1640) e del sacerdote come “il vero religioso di Dio” (nel 1675). Mercier scrisse nel 1918 un libro di spiritualità nel quale proponeva l'ideale di perfezione applicato al clero diocesano 20, sviluppando idee da lui già espresse in precedenza 21; dopo di lui, altri scrissero circa lo stesso argomento 22 e si moltiplicarono gli studi sulla spiritualità del clero diocesano. Per lui il presbitero diocesano non ha nulla da invidiare, quanto a spiritualità, ai monaci e ai religiosi. Infatti, mentre congregazioni e ordini religiosi sono stati fondati da uomini, per quanto santi, il sacerdozio è stato fondato da Gesù Cristo in persona: "Sì, miei cari Confratelli, voi appartenete al primo Ordine religioso stabilito nella Chiesa; il vostro Fondatore è Nostro Signore Gesù Cristo in persona; i primi religiosi del suo Ordine furono gli Apostoli; i loro successori sono i vescovi e, in unione con loro, i sacerdoti, tutti i ministri dei santi Ordini e fino agli stessi chierici, che fanno pubblicamente professione di non voler più che Dio per eredità e il servizio di Dio per occupazione della loro vita" 23. Dunque i sacerdoti sono per eccellenza 'religiosi', perché 'consacrati' al servizio pastorale voluto da Cristo. Le esigenze della vita pastorale, più ancora che le esigenze della vita cristiana e della vita monastica, richiedono ascesi e santità di vita.. "Nessuno quaggiù più del vescovo è chiamato a una più alta perfezione; nessuno ha un programma di vita più conforme a quello del nostro divin Redentore; siate tutt'uno con lui, che la sua opera sia la vostra; siate, uniti a lui, 19 M. DUPUY, “Sacerdozio”, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, cit., coll. 91-95. D. G. MERCIER, La vie intérieure, Louvain 1918. 21 Cf. ID., Retraite pastorale, Louvain 1909. 22 E' famoso il libro di E. MASURE, De l'éminente dignité du clergé diocésain, Paris 1938. 23 Ibid. ,p. 197. 20 25 salvatori di anime, e sarete santi fra i santi [...]. Cooperatori del vostro vescovo, uniti in spirito e volontà al suo apostolato; in possesso, anche voi, di quella forma di carità pastorale che vi spingerebbe, se occorresse, a dare la vostra vita per il vostro gregge, carità nella quale la tradizione cattolica vede risplendere la superiorità dell'episcopato su ogni altro stato di vita, avete dunque il diritto di considerarvi davanti a Dio come associati allo stato di perfezione più elevato che esista al mondo" 24. E' così che i tratti tipicamente tridentini e dionisiani di Mercier vengono trasportati, di fatto, dentro ad uno schema agostiniano, perché le esigenze della vita spirituale - sebbene presentata con tratti marcatamente 'monastici' - vengono fatte dipendere dalle esigenze pastorali e non da una qualche 'superiorità' della vita contemplativa o dei tre voti. Al Vaticano II, che cerca di superare il puro e semplice affiancamento tra sacerdozio religioso e secolare, riserveremo abbondante spazio nella parte teologica, alla quale ora passiamo. SECONDA PARTE: PRINCIPALI ELEMENTI TEOLOGICI Ci sembra di potere individuare tre grandi interpretazioni teologiche del complesso rapporto fra vita monastica e religiosa da una parte e ministero ordinato dall’altra: le chiameremo monolitica, pluralistica e analogica. Per la prima, esiste solo un tipo di ministero sacerdotale ed una sola modalità di esercizio; la seconda invece prospetta una pluralità di ministeri e quindi, ovviamente, di traduzioni pratiche; la terza, come via media, professa l’unità del ministero nella varietà delle forme concrete di esercizio. L’esposizione di quest’ultima, che appare la più adeguata, costituirà anche un tentativo sistematico di comprensione del rapporto tra vita religiosa e ministero ordinato. 25 INTERPRETAZIONE MONOLITICA Per quasi quattordici secoli – dunque un tempo ragguardevole nella vicenda ecclesiale – il ministero ordinato è stato inteso teologicamente in maniera univoca e monolitica come abilitazione al culto e particolarmente all’offerta del sacrificio eucaristico: da Isidoro di Siviglia (sec. VII) fino alle soglie del Vaticano II, passando attraverso S. Tommaso e il Concilio di Trento, il sacerdozio era identificato sostanzialmente con il munus eucaristicosacrificale. Gli altri compiti – quelli relativi alla predicazione e alla guida pastorale nelle loro diverse forme – pure ammessi, apprezzati ed esercitati, come si è accennato erano ricondotti a fonti extra-sacramentali, e quindi non venivano dedotti dall’Ordine. Tappe storiche fondamentali Le tappe che hanno portato a questa visione univoca e monolitica sono ben note e possono qui essere solo richiamate: - I preamboli si trovano nella sacerdotalizzazione del ministero che prende avvio dal III secolo, con l’uso prima sporadico poi sempre più frequente di designare il vescovo 24 Ibid., pp. 200.204. Per la documentazione del contenuto di questa sezione, ci permettiamo di rimandare al nostro volume Il ministero ordinato, Queriniana, Brescia 2002, pp. 104-197. 25 26 sacerdos; uso che dal IV secolo, con la nascita delle comunità rurali stabili, verrà trasferito spontaneamente sul presbitero. Mentre il Nuovo Testamento evitava la trasposizione diretta di termini sacerdotali sui ministri cristiani – per marcare la discontinuità del ministero inaugurato da Gesù rispetto al sistema sacerdotale antico – ben presto questa trasposizione si verifica. La ragione di fondo sembra da ricercare nella sottolineatura sacrificale della celebrazione eucaristica (già a partire da Didaché): il ministro che la presiede compie un sacrificio; ma non è un sacrificio qualunque, bensì la ripresentazione del sacrificio della Croce; sulla Croce Gesù ha realizzato (è la teologia di Ebr) il suo sacerdozio; dunque chi presiede l’eucaristia compie un atto sacerdotale, e può essere chiamato ‘sacerdote’. - Dalla sistematizzazione dei ‘gradi’ dell’Ordine operata da Isidoro di Siviglia a Tommaso d’Aquino la teologia assume decisamente l’abilitazione all’offerta del sacrificio eucaristico come essenza del sacerdozio ministeriale: al punto che l’episcopato viene considerato dal punto di vista sacramentale identico al presbiterato, cioè unicamente come ‘sacerdozio’, e la consacrazione episcopale viene vista prevalentemente non come ordinazione ma come conferimento solenne di poteri giuridici in contesto liturgico. In questo periodo si individua una duplice fonte alla base dei poteri sacerdotali: l’Ordine e la giurisdizione, che altro non sono se non lo specchio di una separazione avvenuta dentro la Chiesa tra dimensione sacramentale e giuridica. Per la potestas ordinis il sacerdote è abilitato all’assoluzione sacramentale e all’offerta sacrificale eucaristica; per la potestas iurisdictionis è invece abilitato alla predicazione e alla cura pastorale. Da Isidoro alla fine del primo millennio, del resto, l’evangelizzazione e la catechesi erano praticamente quasi scomparse dal percorso normale di una comunità cristiana; solo il risorgere di questa pratica specialmente attraverso i domenicani e i francescani all’inizio del XIII sec., come già detto, reimmise questo munus nell’alveo del ministero sacerdotale: ma ormai (anche per Tommaso, pure domenicano!) la teologia si era cristallizzata attorno al munus cultuale. - Il Concilio di Trento percorre questo binario, trattando del sacerdozio nelle sessioni dogmatiche dal solo punto di vista cultuale (in reazione a Lutero che aveva estromesso il culto dall’essenza del ministero) e riservando alcune attenzioni alla predicazione e allo stile pastorale nelle sessioni de reformatione. La separazione è, più ampiamente, tra teologia e pratica: per cui l’essenza teologica del sacerdozio veniva individuata in un nucleo cultuale che nella pratica era in realtà tradotto in maniera molto più ricca e dinamica, nell’impegno di predicazione (nel quale i presbiteri religiosi, specialmente domenicani e francescani, ebbero una parte importantissima) e nella molteplice attività pastorale (alla quale comunque molti presbiteri, specialmente diocesani, si dedicavano). - Il già menzionato influsso della scuola oratoria e sulpiziana francese, di grandissima levatura ascetica e spirituale, ha accentuato nella visione del sacerdozio l’elemento ‘verticale’, assumendo tratti di Pseudodionigi (mediatore) nella concezione poi definita dall’espressione sacerdos alter Christus. La concezione cultuale è stata assorbita da quella sacrale, dando origine ad una esaltazione a volte eccessiva della dignità del sacerdozio, non raramente funzionale all’affermazione di una superiorità rispetto ai ‘semplici laici’. Anche la coloritura sacrale si poneva quindi a servizio di una concezione unilateralmente cultuale, poiché era proprio nell’esercizio del culto che si ravvisava la più alta realizzazione della mediazione e della rappresentanza di Cristo. La visione monolitica del sacerdozio ha quindi assolutizzato l’elemento cultuale e sacrale, identificandolo con l’essenza del ministero ordinato, ed estromettendo teologicamente da tale essenza ogni altro elemento di tipo pastorale e profetico. Il fatto che 27 l’esercizio del ministero, sia religioso che diocesano, sia presbiterale che episcopale, fosse normalmente molto più ricco ed articolato rispetto al solo compito cultuale, non sembra avere scalfito teologicamente in modo significativo questa interpretazione, fino al Vaticano II escluso. Si può anche notare come l’univocità di tale interpretazione non si sia limitata ad una relazione ‘orizzontale’ ma si sia estesa ad una relazione ‘verticale’, se è vero che l’appiattimento del ministero ordinato nel ‘sacerdozio’ ha portato a vedervi un solo ‘grado’ – di fatto quello presbiterale – estromettendovi per difetto quello diaconale (in quanto manca l’abilitazione all’offerta del sacrificio eucaristico) e per eccesso quello episcopale (in quanto rappresenta solo un’aggiunta di poteri giuridici al presbiterato). ‘Monolitica’ è dunque, questa interpretazione, in tutti i sensi. Limiti Questa concezione contrasta con l’esistenza di svariate forme ministeriali che il Nuovo Testamento e la prassi ecclesiale di tutti i tempi testimoniano. Per il Nuovo Testamento è sufficiente menzionare la pluralità di termini che definiscono i ministeri cristiani innestati su quello apostolico: accanto infatti alla triade che poi, dal II secolo, assorbirà tutti i servizi neotestamentari ufficiali, vescovo, presbitero e diacono, esistono come sappiamo altri termini e altre funzioni: profeta, dottore, capo, pastore, evangelista, guida, presidente. L’orizzonte escatologico segnato dall’attesa di un ritorno immediato del Signore glorioso, insieme al diretto esercizio del ministero delle comunità da parte degli apostoli e dei loro collaboratori, rendeva secondaria la preoccupazione di strutturare il ministero ecclesiale. Solo quando gli apostoli cominciano a mancare e l’attesa escatologica a scemare, le comunità sentono il bisogno di darsi dei ministeri stabili e meglio definiti: è la fase rispondente alle Lettere Pastorali. Assorbire tutta la ricchezza dei ministeri neotestamentari dentro al concetto di ‘sacerdozio’ esistente per il culto – compiti attestato nel Nuovo Testamento ma subordinato massicciamente all’annuncio del Vangelo – rappresenta una vera e propria riduzione del ministero. La prassi ecclesiale del ministero poi, come è anche sporadicamente emerso nella prima parte, è immensamente più ricca dello schema sacerdotale. La molteplicità delle figure ministeriali è un dato che accompagna la storia della Chiesa. Già dal VI secolo fino a tutto il periodo post-tridentino il ministero ‘parrocchiale’ era solo uno dei modi di esercitare il ministero, accanto a quello che veniva esercitato nei monasteri, nei priorati, nelle cappelle, negli oratori, nelle confraternite, nei terzi ordini, nelle scuole, nelle chiese collegiate. Così come oggi vi sono figure diversissime di ministri ordinati, diocesani e religiosi. per questo convivono legittimamente e si completano a vicenda, nella Chiesa, presbiteri che interpretano il loro ministero in chiave prevalentemente liturgica e sacramentale, con altri che mettono al primo posto la testimonianza della carità nelle situazioni disagiate ed emarginate; presbiteri che si dedicano essenzialmente all’animazione della comunità cristiana e alla pastorale cosiddetta ordinaria, con altri che accolgono le sfide dei ‘nuovi areopaghi’ della cultura e comunicazione, percorrendo le diverse possibilità offerte oggi dai mass media in tutti i campi; presbiteri che puntano soprattutto sulle relazioni interpersonali e si pongono come accompagnatori e guide spirituali, con altri che spendono le loro migliori energie nella formazione o nell’insegnamento della religione, teologia e scienze umane o magari, almeno per certi periodi e in certe situazioni, assumono compiti di supplenza nei campi dell’educazione, promozione umana e professionale o altro. 28 L’interpretazione monolitica è quindi difficilmente sostenibile, a meno che non si voglia reintrodurre quella frattura tra aspetto teologico (cultuale) ed esercizio concreto (pastoraleprofetico), che ha caratterizzato molti secoli, ma è stato superato in via di principio dal Vaticano II; e la reintroduzione di questa frattura appare francamente un prezzo troppo alto da pagare. INTERPRETAZIONE PLURALISTICA Da alcuni decenni vengono elaborate teorie in netto contrasto con la visione monolitica e tese invece a rendere ‘pluralista’ il ministero ordinato: non semplicemente nel senso ‘verticale’ dei tre gradi – recuperati dal Vaticano II – e neppure solamente nel senso della pluralità delle forme di esercizio; bensì nel senso di una vera e propria natura ‘plurale’ del ministero, preferendo dunque parlare di ‘ministeri’ diversi già all’origine. Se non comprendiamo male, queste teorie prendono avvio proprio dall’intento di trovare una precisa identità teologica del clero religioso e vengono in gran parte proposte dagli stessi religiosi presbiteri. Principali sostenitori Salvo sviste, il precursore cattolico di queste concezioni è il p. J. Moingt s.j., che negli anni settanta espresse più volte la sua tesi. Reagendo ad una visione troppo cultuale del ministero, Moingt non intende semplicemente negarla: piuttosto la separa nettamente dalla dimensione missionaria e riconduce culto e missione a due diverse fonti, teorizzando due tipi di ministero 26. L'autore parte dall'esistenza di una duplice natura nella Chiesa: da una parte la Chiesa come corrente storica che porta avanti il Vangelo e dall'altra come esistenza sociale e comunitaria dei cristiani radunati attorno al Vangelo. Alla duplice natura corrisponderebbe una duplice finalità, poiché la Chiesa da una parte deve estendersi attraverso la missione e dall'altra deve consolidarsi e crescere localmente. Il ministero nella Chiesa di conseguenza, sarà duplice: un tipo di ministero, che si colloca nella linea apostolica, è quello del Vangelo, finalizzato all'estensione missionaria della Chiesa; un altro tipo, che deriva invece dal potere autonomo di amministrazione che spetta alle singole Chiese, è quello delle comunità, finalizzato alla santificazione della Chiesa. Il primo tipo di ministero è dunque essenzialmente itinerante, mentre il secondo è essenzialmente sedentario. Nella visione di Moingt, che diventa proposta per il futuro dei ministeri, è evidente la netta separazione della dimensione cultuale-comunitaria del ministero da quella evangelizzatrice-missionaria, fino a farne due apostolati di diversa origine (la Parola da una dimensione della Chiesa e lo Spirito dall'altra) e di diversa natura (essenziamente cultualesedentario l'uno ed essenzialmente missionario-itinerante l'altro). Negli stessi anni settanta un altro gesuita, H. J. Lauter27 s.j., si esprimeva invece direttamente sulla distinzione tra clero diocesano e religioso, che ravvisava in questi 26 Nel testo sintetizziamo le idee principali dell'autore, riferendoci a questi suoi studi: “Caractère et ministère sacerdotale”, in Revue des Sciences Réligieuses 56 (1968), pp. 563-589; “Nature du sacerdoce ministériel”, in Revue des Sciences Réligieuses 58 (1970), pp. 237-272; “L'avenir des ministères dans l'Eglise catholique”, in Revue de Droit Canonique 23 (1973), pp. 291-331; “Services et lieux d'Eglise”, in Etudes (1979) n. 350, 836-849 e n. 351, 363-394. 27 H. J. LAUTER, “Der Ordenpriester”, in Ordenkorrespondenz 13 (1973), pp. 134-138. 29 elementi: il primo svolge una pastorale ordinaria e continuata nel tempo, verso un gruppo stabile di fedeli; il secondo una pastorale straordinaria e intermittente verso gruppi non stabili; il secondo inoltre vive in comunità, è maggiormente specializzato, può dedicarsi anche alla vita contemplativa, vive in comunità è dedito in certa misura al lavoro d’équipe28. Mentre Moingt, pur restando più vago circa la distinzione tra clero religioso e diocesano, si spingeva ad alcune riflessioni de iure, Lauter, entrando proprio nel merito di tale distinzione, sembra però fermarsi ad una rassegna di osservazioni de facto. In altri autori appaiono semplici letture fenomenologiche o poco più, certo importanti per la teologia, specialmente quando considera argomenti così connessi alla pratica come il ministero ordinato e la vita religiosa e tuttavia non sufficienti a dare indicazioni precise sull’identità teologica. Non basta cioè inventariare la situazione con letture puramente descrittive, se è vero che una riflessione teologica comporta anche una lettura ‘critica’ della realtà, confrontata con la rivelazione. Se in Moingt l’attribuzione del ministero itinerante ai religiosi e di quello stabile ai diocesani rimaneva piuttosto in sordina, e in Lauter diventata più esplicita ma meno impegnativa dal punto di vista teologico, altri autori gesuiti arrivano ad una sintesi, nel decennio successivo, utilizzando la distinzione tra clero diocesano stabile e clero religioso missionario in senso propriamente teologico e non più solo descrittivo.. O’Malley s.j., che rimprovera al Vaticano II di avere tenuto presente solo il clero diocesano, ritiene che il modello ministeriale tracciato dal Concilio si adatti perfettamente a tale clero, ma non a quello religioso. Secondo l’autore, il decreto Presbyterorum Ordinis è basato su tre assunti fondamentali: che il ministero si esercita in una comunità stabile (parrocchia), composta di fedeli, e in comunione con il proprio vescovo; ora, continua O’Malley, il ministero dei presbiteri religiosi storicamente non si esercita in una comunità stabile ma in tutte le parti del mondo, è rivolto specialmente a coloro che non vengono raggiunti dal ministero ordinario, come gli orfani, le vedove, le prostitute, gli emarginati, gli infedeli, gli scismatici, gli eretici, e non ha una relazione gerarchica con l’ordinario del luogo, ma con il proprio superiore29. O’Malley ravvisa nella ‘divisione del lavoro’ che si è verificata nel sec. XIII tra presbiteri secolari e regolari non un elemento secondario bensì essenziale alla teologia del ministero. Esistono per lui non semplicemente due diverse spiritualità, ma due tipi di ministeri: quello locale o diocesano, dedicato alla pastorale stabile e ordinaria della comunità di credenti; quello dei religiosi, dedicato alla pastorale ‘eccezionale’, tra gli emarginati e in molti casi tra i non credenti. Nel primo tipo di ministero predominano le categorie di officium e parrocchia, nel secondo di bisogno e missione; nel primo ‘gerarchia’, nel secondo ‘ fraternità’; per il primo ‘apostolico’ indica la successione per il secondo uno stile di vita; il primo si colloca nella linea delle Lettere Pastorali e dei Padri (il modello del vescovo attorniato dai presbiteri, che diventa poi successivamente l’ufficio episcopale ad immagine del potere civile e il sacerdozio presbiterale), il secondo di Gesù e degli apostoli, di Paolo, di Francesco; il primo parla volentieri di ‘sacerdote’, il secondo di ‘profeta’30. Il Vaticano II a suo parere consacra solo uno dei due modelli (quello delle Pastorali e dei Padri) e trascura l’altro. 28 Questi ultimi due elementi vengono sottolineati anche da P. LIPPERT, “Zum Selbstverständnis des Ordenpriesters. Implikationen der neueren theologischen Diskussion über das Priesterbild und über das Ordensleben im Hinblick auf den Ordenspriester”, in Ordenskorrespondenz 18 (1978), pp. 32-45. 29 Cf. J. W. O’MALLEY, “Priesthood, Ministry, and Religious Life”, cit., pp. 250-251. 30 Cf. Ibid., pp. 255-257. 30 Anche un altro padre gesuita, B. E. Daley31, riconduce la dualità di forme, religiosa e ministeriale al Nuovo Testamento, e precisamente alla distinzione discepoli-apostoli: i primi chiamati alla sequela radicale e a rivestire ruoli carismatici, i secondi alla predicazione e presidenza della comunità e a rivestire ruoli istituzionali. Interessante è la sua insistenza sul fatto che lo ‘specifico’ teologico del clero religioso è di essere “paradosso vivente”, dovendo incarnare sia la critica all’istituzione propria di ogni carisma, sia l’appartenenza all’istituzione propria del clero diocesano. Esiste a suo parere l’effettivo pericolo, nel caso del religioso presbitero, che una dimensione ‘rubi’ qualcosa all’altra: che l’ordinazione ‘addomestichi’ il carisma del religioso o che l’appartenenza del ministro ordinato ad una comunità spiritualizzi così tanto il suo ruolo nella Chiesa da sottrargli la sua connotazione pubblica. Il valore e l’identità di chi nella Chiesa combina le due vocazioni è di essere un un “campo di tensioni” tra le esigenze del discepolato e quelle dell’apostolato, tra il carisma critico e l’istituzione interessata alla conservazione, tra l’essere chiamato e l’essere inviato. Più complessa la proposta del p. gesuita F. Taborda32, che incontra nel Nuovo Testamento tre modelli di esercizio del ministero: il locale-residenziale, l’itineranteprofetico e il martiriale; mentre i presbiteri secolari sarebbero più in linea con i ministeri locali “ordinari” in direzione comunitaria, i presbiteri regolari sarebbero in continuità con il ministero profetico primitivo, che assumeva in via straordinaria anche la presidenza eucaristica. P. J. Philbert 33 si spinge ad un riferimento all’Antico Testamento, parlando di due modelli storici di presbitero: uno orientato in senso veterotestamentario, predominante dal 1500 in poi; l’altro orientato verso il servizio, proprio del Vaticano II; per l’autore i religiosi appartengono più al secondo che al primo modello34. Per p. R. Zas Friz de Col, che condivide questa impostazione35, si potrebbe ipotizzare che le due tendenze principali della teologia del ministero ordinato, quella cristologica e quella ecclesiologica, corrispondano la prima “a un orientamento più religioso e la seconda a una tendenza più diocesana”36 nell’esercizio del ministero. Egli insiste sul pluralismo dei modelli di ministero ordinato, lamentando il monopolio postconciliare del modello del presbitero secolare e parroco, e coniando l’interessante espressione: “diversità creatrice di un’unità plurale”37. Limiti Questa interpretazione è certamente più conforme alla complessità del Nuovo Testamento e delle prassi ministeriali lungo i secoli, rispetto alla interpretazione monolitica. Non si potrà certo contestare la legittimità, anzi la ricchezza, di una teologia del ministero che faccia spazio alle svariate forme di esercizio che esso ha assunto dalle prime comunità cristiane ad oggi. Quello oggi che appare problematico è l’individuazione di una linea di separazione per così dire ‘trasversale’ al triplice ministero ordinato, per cui il compito 31 B.E. DALEY, “The ministry of disciples”, cit., pp. 621-629. F. TABORDA, “Il religioso presbitero: una questione discussa”, in Vita Consacrata 38 (2002), pp. 626640. 33 P.J. PHILIBERT, “Priesthood within the Context of Religious Life”, in D.J. GOERGEN (ed.), Being a Priest Today, Liturgical Press, Collegeville (Minnesota) 1992, pp. 73-96. 34 Cf. Ibid., p. 85. 35 Cf. R. ZAS FRIZ DE COL, “La condizione attuale del presbitero religioso nella Chiesa”, in Rassegna di Teologia 45 (2004), pp. 35-71; in particolare: pp. 65-71. 36 Ibid., p. 71. 37 ID., “L’identità ecclesiale del presbitero religioso. Il caso dei gesuiti”, in Rassegna di Teologia 3 (2004), p. 360. 32 31 cultuale e quello missionario vengono assunti da due ministeri diversi, riconducibili poi in seconda battuta alla tradizione del clero secolare o diocesano e a quella del clero religioso o regolare. La pertinenza della ricerca di un supporto nella dualità tra le Pastorali da una parte e il Paolo delle prime lettere dall’altra, oppure gli apostoli da una parte e i discepoli dall’altra, o ancora il sacerdozio veterotestamentario nel primo caso e il servizio neotestamentario nel secondo, è tutta da verificare. E’ innegabile la presenza di accentuazioni diverse, ma è discutibile la loro trasformazione in ‘ministeri’ diversi. Nelle prime lettere paoline, ad es., l’Apostolo è indiscutibilmente lanciato nella missione evangelizzatrice, ma non trascura di conferire il Battesimo (sebbene dica esplicitamente che non è questa la sua missione), né di dare indicazioni dettagliate alle sue comunità, tipiche del pastore che ne orienta la vita e attività quotidiana. Il Paolo degli At, poi, presiede la celebrazione eucaristica. D’altronde nelle Lettere Pastorali si trova, accanto al ministero dei sacramenti (ordinazione compresa) e della guida pastorale ordinaria delle comunità, anche il compito dell’annuncio della parola (nell’accentuazione del ‘depositum fidei’ da conservare e difendere). Per quanto poi sappiamo del ministero svolto dai Dodici, essi assumono da Gesù la globalità della missione di evangelizzazione, istruzione e culto (cf. Mt 28,18-20 e i racconti dell’Ultima Cena; At 2; e i racconti di battesimo in At, ecc.). Il ministero apostolico quindi, sul quale gli altri successivi vengono innestati, mantiene la globalità dei compiti affidati da Gesù alla Chiesa e a loro stessi per la Chiesa. Sembra quindi molto difficile fondare nel Nuovo Testamento la distinzione netta tra un vero e proprio ministero cultuale e stabile e un vero e proprio ministero missionario e itinerante. Il grande sforzo del Vaticano II è stato proprio quello di ricondurre ad unità questi compiti che ormai viaggiavano paralleli, sebbene compresenti di fatto in molti presbiteri (religiosi e diocesani): il munus cultuale, quello profetico e quello pastorale. Come abbiamo accennato nella prima parte, il compito liturgico connotava la dogmatica del sacerdozio; quello profetico – sospetto a causa dell’assunzione da parte dei protestanti – era stato provvidenzialmente assunto specialmente dal clero religioso, prima dagli Ordini mendicanti poi dai gesuiti e altri; quello pastorale, infine, caratterizzava la pratica di molti vescovi e presbiteri post-tridentini, plasmati sulle scelte che quel Concilio operò (purtroppo soltanto) nei decreti di riforma. Come vedremo tra poco, il Vaticano II adotta un’ermeneutica del Nuovo Testamento e della Tradizione che ha come scopo di integrare i tre modelli nell’unica natura del ministero ordinato, superandone il semplice affiancamento o addirittura la concorrenza. La teologia della Chiesa locale, avviata decisamente – sebbene non svolta compiutamente – dal Vaticano II è un altro elemento che rende molto problematica la distinzione essenziale di un ministero stabile da uno itinerante. Siamo così entrati nell’esposizione della terza grande interpretazione, quella analogica del Vaticano II. INTERPRETAZIONE ANALOGICA Sulla sostanza dell’interpretazione offerta dal Vaticano II circa la teologia del ministero e sulla possibilità di indicare questa interpretazione come ‘analogica’ convergono autori di tutte le posizioni. O’Malley, ad es., è perfettamente condivisibile quando afferma che il Concilio parla di un solo sacerdozio con differenti spiritualità38 ed assume come analogato principale il ministero pastorale del vescovo. Per il Vaticano II infatti esiste un ministero ordinato, distribuito in tre gradi – dei quali il vescovo rappresenta la pienezza – ciascuno dei 38 . J. W. O’MALLEY, “Priesthood, Ministry, and Religious Life”, cit., pp. 250-251. 32 quali adotta legittimamente diverse modalità di esercizio, che si incanalano e convergono comunque nel triplex munus dell’annuncio, celebrazione e guida pastorale. Le ragioni per cui il Vaticano II giunge a questa concezione del ministero, recuperando una lettura del Nuovo Testamento ‘ampia’ e integrativa di tutte le possibili visioni del ministero e incanalandole nel modello proto-patristico invece che medievale, vanno ricercate soprattutto nel duplice sforzo di collocare il ministero ordinato, fino ad allora unilateralmente cultuale e sviluppato nella linea cristologica, nel quadro missionariodiaconale e nella linea ecclesiologica. Delineiamo i principali passaggi, solo logicamente consecutivi ma in realtà maturati contemporaneamente in aula conciliare. Natura missionaria del ministero ordinato nel Vaticano II Alla porta del Vaticano II bussa un sacerdozio cultuale e sacrale e dalla stessa porta, tre anni dopo, esce un ministero ordinato missionario ed ecclesiale. In tre anni si cono concentrati moltissimi dibattiti sulla natura del ministero, tante interpretazioni delle Scritture e della Tradizione, numerosissime preoccupazioni pastorali e pratiche. L’esito, per quanto sofferto, è chiaro: la visione conciliare, fatta propria costantemente dal magistero successivo, integra i tre modelli classici di ministero (sacerdotale, profetico e pastorale) in una stessa natura, riconducendoli tutti all’Ordine e superando la dicotomia tra compiti derivati dall’ordinazione sacramentale e compiti derivati dalla giurisdizione (si veda in particolare il testo di PO 4-6, con il guadagno del triplex munus; e si pensi alla ‘distanza’ reciproca prima patita dai tre ambiti). Il Vaticano II arriva a questo risultato partendo da un allargamento dell’istituzione del ministero ordinato da parte di Gesù: non più solo nel mandato di ripetere il gesto eucaristico, come classicamente si diceva (Gesù ha istituito il sacerdozio nell’Ultima cena), ma più globalmente nell’intera missione affidata da Gesù ai Dodici e da questi partecipata ai loro collaboratori e successori: missione che, come accennato, comprende anche il mandato cultuale (e non solo eucaristico ma anche battesimale e forse penitenziale), ma non si ferma ad esso, riguardando l’annuncio del Vangelo a tutte le genti e la trasmissione dei comandamenti di Gesù, concentrati in quello dell’amore. E’ stata questa ermeneutica globale del Nuovo Testamento a consigliare, durante i lavori conciliari, di abbandonare lo schema delle duae potestates, che scindevano il ministero in due diverse fonti, e adottare invece quello (presente per la prima volta in Calvino) dei tria munera, che considera invece coessenziali le tre dimensioni, e tutte riconducibili ad un’origine sacramentale, poi regolata a vario titolo dal diritto. Lo schema dei tria munera apparve adatto ai padri conciliari ad esprimere l’unica origine della triplice missione dei ministri sulla linea dell’apostolato. Per questo poi il Concilio rovescia lo schema scolastico-tomista che vedeva l’analogato principale del ministero ordinato nel ‘sacerdotium’, quindi essenzialmente nell’offerta del sacrificio eucaristico, e lo pone invece nell’episcopato, inteso (alla maniera ignaziana e proto-patristica) come somma del sacro ministero di annuncio, celebrazione e guida, e non semplicemente come un’aggiunta di poteri giuridici ad un ‘sacerdozio’ già in sé completo (cf. LG 25-27). Se prima era il vescovo che riceveva un ‘di più’ (liturgico-giuridico), poi è il presbitero (e il diacono) che ‘partecipa’ della pienezza episcopale. La maggiore o minore integrazione dei tria munera, nel concreto esercizio del ministero da parte del vescovo, presbitero e diacono, renderà oggettivamente più o meno significativa l’assunzione e conduzione di tale ministero. Il ministero ordinato, nella mens conciliare, si 33 realizza tanto più adeguatamente quanto più persegue la globalità della missione, cioè quanto meglio integra ed esprime nel suo effettivo esercizio i tria munera. Probabilmente in questo senso va letta, come diremo meglio tra poco, l’indicazione conciliare dei presbiteri ‘in cura d’anime’ come del modello di presbiterato ‘tipico’. Natura diaconale del ministero ordinato nel Vaticano II Riscoprendo la connotazione missionaria del ministero ordinato, il Vaticano II ne metteva in luce anche la connotazione diaconale: il ministero ordinato in generale e presbiterale in particolare emerge in primo luogo dal Vaticano II e dal magistero successivo come diaconia. L'intero capitolo III della LG è percorso dall'idea che il ministero ordinato non è una semplice 'dignità' ma un vero 'servizio' 39. Già nel n. 18 l'accento è sulla finalizzazione ecclesiale del ministero pastorale: esso è infatti istituito “per pascere e sempre più accrescere il popolo di Dio”; in tal modo i ministri “sono a servizio del loro fratelli, perché tutti coloro che appartengono al popolo di Dio, e perciò godono della vera dignità cristiana, aspirino tutti insieme liberamente e ordinatamente allo stesso fine e arrivino alla salvezza” (LG 18). Ma è nel n. 24, trattando dell’episcopato, che il principio è espresso più chiaramente, poiché vi appare l'idea che il ‘potere’ dei vescovi in realtà non ha altro scopo che di essere ‘ministero’. Dopo avere richiamato i testi più importanti del Nuovo Testamento sulla missione apostolica (Mt 28,18-20; Mc 16,15-16; At 26,17 ss) e sull'invio dello Spirito agli Apostoli (At 1,8; 2,1 ss; 9,15), il testo conclude: “questo ufficio (munus) che il Signore ha affidato ai pastori del suo popolo è un vero servizio (servitium), che nella Sacra Scrittura è chiamato significativamente ‘diaconìa’ o ministero ('diakonìa' seu ministerium) (cf. At 1,17.25; 21,19; Rom 11,13; 1 Tim 1,12)”. La potestas-exousìa è dunque intesa non come comando o dignità, bensì come munus, servitium, diakonìa, ministerium. E' determinante il fatto che questo paragrafo venga collocato prima dei tre successivi che trattano dei tria munera episcopali: ne dà dunque l'inquadratura e l'interpretazione esatta, che è quella diaconale. Anche il presbiterato è ordinato al ministero40, come affermano sinteticamente i redattori del testo finale di PO, interpretandone l’orientamento di fondo. Nel diaconato, poi, la parola stessa fa perno sull’idea del ministero (cf. LG 29). Un dato è quindi sicuro: rituffando la teologia del ministero nella sua sorgente neotestamentaria, il Vaticano II ne recupera la connotazione diaconale, che diventa il filo conduttore per trattare di tutte e tre le articolazioni dell’Ordine, e sostituisce una visione troppo incentrata sulla sacralità e la dignità del sacerdozio, come se questo fosse conferito più per elevare la persona che lo riceve che non per mettersi a servizio del popolo sacerdotale. Tale diaconia, episcopale, presbiterale e diaconale, si esercita nella Chiesa e di fronte alla Chiesa (linguaggio che non si trova nei testi conciliari, ma ne rappresenta una buona interpretazione, adottata ufficialmente da Giovanni Paolo II per i sacerdoti in Pastores dabo vobis, 16): 39 Cf. M. LÖHRER, La gerarchia al servizio del popolo cristiano, in G. BARÁUNA (ed.), La Chiesa del Vaticano II, Vallecchi, Firenze 1965, pp. 699-712. L'autore mostra come la LG, recuperando il fondamento neotestamentario del 'servizio' pastorale, inquadra la gerarchia nelle coordinate della doppia ministerialità cristologico-ecclesiale. 40 AS IV, VII,115 (Modi generales). 34 a. la connotazione cristologica del ministero è espressa dall’espressione ‘di fronte alla Chiesa’: l’ordinato riceve il ministero non da una delega della comunità, ma dall'autorità di Cristo: si dovrebbero menzionare in merito i passi Nuovo Testamento sulla chiamata e l'invio del Dodici, sui forti richiami di Paolo all'exousìa ricevuta da Cristo e non dagli uomini, ecc.; su questa linea si leggono la ‘sacramentalità’ dell'Ordine e il ‘carattere’ che esso conferisce: prova che il ministro non agisce facendo leva sulle proprie qualità psico-morali-spirituali, ma sulla grazia di Cristo. b. mentre 'nella Chiesa' esprime la connotazione ecclesiologica del ministero: l’ordinato non è un super-battezzato, ma un battezzato (dunque membro del popolo sacerdotale) che ha ricevuto la missione sacramentale di ‘rendere presente’ Cristo risorto Via, Verità e Vita, contribuendo a edificare la Chiesa attraverso l'annuncio autorevole della Parola, la celebrazione/presidenza dei sacramenti e il discernimento dei doni dello Spirito. E con queste osservazioni siamo già allo snodo successivo. Collocazione ecclesiologica del ministero ordinato nel Vaticano II L'idea del ‘sacerdos alter Christus’, come sopra è già emerso, aveva avuto grandi meriti storici; essa rappresentava la coniugazione tra lo sforzo gregoriano di trasferire la spiritualità monastica sul prete e l'individuazione medievale-tridentina dell'essenza del 'sacerdozio' nell'abilitazione all'offerta sacrificale dell'eucaristia. In quella visione il prete si santificava nella misura della sua componente monastica e della sua capacità oblativa interiore: il ministero di tanti presbiteri è stato sostenuto da questa impostazione ed ha portato enormi benefici alla Chiesa. Quella impostazione, tuttavia, aveva messo in sordina la dimensione ecclesiologica del ministero ordinato. Riportandola in luce, l'ultimo Concilio ha integrato il riferimento cristologico con il riferimento ecclesiologico. In questo modo il Vaticano II ha anche potuto evitare senza traumi l'uso delle due categorie – effettivamente equivoche se non ormai fuorvianti – di ‘sacerdos alter Christus’ e ‘mediatore’, che veicolavano una immagine di comunità ‘passiva’, incompatibile con la visione del Vaticano II, che rilancia il sacerdozio comune (cf. LG 11, ecc.) e la missione come caratteristiche di tutto il popolo di Dio (cf. LG 17; AA 2; AG 5; ecc.). Il ministro ordinato, per il Vaticano II, non sta a metà tra il cielo e la terra, ma sta con i piedi saldamente per terra, testimoniando efficacemente come solo la grazia di Cristo (la grazia dello Spirito, dei sacramenti e della parola) edifichi la Chiesa e il mondo. Il ministro ordinato non assorbe in sé tutta l’azione di Cristo e dello Spirito nella Chiesa e nel mondo, ma si pone a servizio (diaconia) di tale azione, costituendo uno dei mezzi efficaci di cui il Signore ha dotato la Chiesa per renderla consapevole della gratuità della salvezza. Se il ministero ordinato nella mente del Vaticano II vive e opera essenzialmente (e non ‘accidentalmente’) legato alla Chiesa, ciò significa che la santificazione del ministro – ed ora parliamo direttamente del presbitero – avviene nell'esercizio del ministero ecclesiale: non a fianco né tantomeno nonostante l'esercizio di tale ministero. Con queste affermazioni, avanzate per la prima volta chiaramente in PO 13 e riprese poi costantemente dal magistero seguente (cf. Pastores dabo vobis, 26), veniva a maturazione la riflessione sul ‘clero diocesano’ del card. Mercier, sfrondata dalle sfumature 'sacrali' che in lui permanevano. Sintomatica l'inversione nel titolo e nella trattazione durante l'elaborazione del documento sui presbiteri: dal precedente de vita et ministerio sacerdotum 35 si passa all'attuale de ministerio et vita presbyterorum: non è possibile tratteggiare la vita spirituale prima del ministero (modello del ‘serbatoio’ spirituale), perché la prima riceve la sua connotazione essenziale dal secondo. In tal modo il Vaticano II supera in linea di principio la sovrapposizione tra componente ‘monastica’ contemplativa e componente ‘apostolica’ attiva nel presbitero; l’apostolato stesso, nell’esercizio della triplice missione, plasma e struttura la vita spirituale dei presbiteri, e richiede loro ascolto della Parola, contemplazione e celebrazione dei misteri, preghiera e oblazione. Si comprende così come l'elemento specifico della spiritualità del presbitero venga indicato dal Concilio nella carità pastorale (cf. PO 14): c. La carità è la via di perfezione comune ad ogni battezzato; ciascun cristiano è chiamato a santificarsi (cf. LG cap. V) e la santificazione avviene nella carità: misura cristiana della santità non sono di per sé i voti, le pratiche ascetiche, la preghiera e la meditazione, gli impegni a favore del prossimo; misura della santità è la carità che viene immessa dentro a tutte queste dimensioni. Ma non esiste un solo modo di declinare la carità: esistono invece un modo matrimoniale, uno monastico, uno religioso, uno laicale, uno ministeriale, e tanti altri. d. Il presbitero ha un suo modo specifico di vivere la carità: si santifica vivendo la carità nella forma pastorale. Il concetto di ‘carità pastorale’ è stato così inteso dal Vaticano II: “rappresentando il buon pastore nello stesso esercizio della carità pastorale, (i presbiteri) troveranno il vincolo della perfezione sacerdotale che realizzerà l'unità nella loro vita e attività” (PO 14). Il magistero successivo, universale e italiano, è ritornato spesso sull'importanza della carità pastorale (cf. in particolare Pastores dabo vobis, 21-23). Se il presbitero rappresenta Cristo in quanto Capo, Pastore e Sposo, la sua peculiare maniera di santificarsi prende la forma della pastoralità (meno usate ma legittime le categorie di ‘capitalità’ e ‘sponsalità’), cioè fa essenzialmente riferimento anche ad un gregge, ad un popolo. L'esercizio del ministero favorisce la crescita della carità pastorale ed è a sua volta alimentato da essa. Collocazione ‘locale’ del presbiterato nel Vaticano II Ma il Vaticano II ha declinato la dimensione ecclesiale del ministero non solo in direzione universale bensì anche locale. L'ecclesiologia universale, dominante nella teologia cattolica del secondo millennio, è stata integrata dall’ultimo Concilio con l'ecclesiologia locale (cf. specialmente SC 41; LG 23 e 26 e CD 11), prevalente invece nell'epoca patristica e conservata nella tradizione orientale. L'approfondimento della teologia della Chiesa ‘corpo di Cristo’ in relazione all'Eucaristia (cf. specialmente de Lubac e Afanassiev), coniugata con la recuperata sacramentalità e collegialità episcopale (cf. LG cap. III) ha permesso di raggiungere una sintesi che non rinuncia (ovviamente) all'elemento universale del primato romano, ma lo riconduce al suo contesto, che è quella della communio tra le Chiese: è questa communio che, per essere tale, esige un primato, non concepito come delega dai singoli vescovi ma come esercizio vicario del ministero di Pietro. La principale manifestazione della Chiesa si ha dunque non là dove il ministero petrino è esercitato al massimo grado (es.: esercizio del magistero infallibile da parte del Papa), ma là dove il vescovo, il presbiterio e il popolo di Dio si radunano attorno alla celebrazione eucaristica (cf. SC 41). E' l'Eucaristia che ‘fa’ la Chiesa ‘corpo di Cristo’: è lo stesso Cristo che si rende presente, nell'Eucaristia, in tutte le Chiese locali presiedute dai loro vescovi. E' 36 quindi nella Chiesa particolare/locale che quella universale si fa evento, è lì che si incontra concretamente Cristo Sacerdote, Re e Profeta, si entra a far parte del suo corpo e si collabora alla sua edificazione. Se è vero che è essenzialmente 'ecclesiale', il ministero ordinato in quanto tale, prima ancora delle distinzioni nelle diverse modalità di esercizio, è segnato anche dalla forma locale della Chiesa: il riferimento ad essa non è per il presbiterato un ‘di più’ facoltativo, ma ne incide la natura stessa. Non avrebbe senso, proprio per la natura ministeriale dell'Ordine, una sorta di ‘ordinazione assoluta’, senza riferimento vivo ad una determinata Chiesa particolare, cioè ad un popolo di Dio nel territorio, al vescovo e al presbiterio. E se questo vale in modo paradigmatico – per il presbitero diocesano, che è incardinato in una Chiesa particolare, avendo scelto di dedicarvisi interamente, vale anche in misura minore e diversa per il presbitero religioso, se è vero che il secondo grado dell’Ordine è per il ministero della parola, dei sacramenti e della guida pastorale, e che questi ministeri per loro natura si intrecciano con la vita di una precisa Chiesa locale. E' difficile dopo il Vaticano II concepire il ministero di un presbitero avulso dal concreto cammino di una Chiesa particolare: e il richiamo alla Chiesa universale non dovrebbe mai diventare occasione per evadere dalle concrete esigenze comunionali e missionarie della Chiesa concreta nella quale il presbitero è incardinato e/o lavora. Il richiamo alla missione ad gentes non è una reale obiezione alla dimensione ‘locale’ del presbiterato, perciò non è fondato distinguere nettamente una figura locale e stabile di ministro da una missionaria e itinerante. E’ infatti sempre una Chiesa locale ad essere soggetto principale di missione e pastorale sul territorio, anche quando questa Chiesa sia ancora in via di formazione; e quando non esiste ancora, perché il Vangelo non è giunto in un luogo, è l’interesse di altre Chiese, espresso attraverso persone concrete (singoli, presbiteri, religiosi, diaconi, congregazioni e ordini, ecc.), a suscitare l’ascolto e l’adesione. Il presbitero che annuncia il Vangelo ad gentes, dovrebbe essere sempre meno visto come un ‘eroe isolato’ – se è vero che la missione è opera di tutta la Chiesa – e sempre più come ‘inviato’, da una Chiesa che dona ad un’altra l’annuncio del Vangelo. La missione che un presbitero diocesano esercita lontano dalla sua Chiesa locale è parte della missione che quella Chiesa locale esercita nel mondo: quel presbitero diocesano è sempre a servizio della propria Chiesa particolare, in una dedicazione che può prevedere modi di esercizio diversi ma che rimane sempre tale; è poi l'intera Chiesa particolare che si pone più evidentemente, con la sua attività missionaria, a servizio della Chiesa universale. E la missione che un presbitero religioso esercita nel mondo, è espressione diretta della cura missionaria della sua congregazione o del suo ordine, ma prende avvio comunque da una Chiesa locale nella quale egli è stato battezzato ed educato alla fede, e poi va ad innestarsi comunque in una realtà ‘locale’, in una comunità che è o può diventare diocesi, che come tale ha un suo volto, una sua configurazione sociale, una sua storia, delle esigenze che vanno rispettate e interpretate. Per questo la spiritualità diocesana concerne tutti i presbiteri, anche religiosi; si può dunque parlare di spiritualità del prete diocesano, riferendosi al sacerdote secolare incardinato in un diocesi, ma si deve parlare anche di spiritualità diocesana del prete, comprendente sia il presbiterato secolare che quello religioso41. 41 Abbiamo tentato di articolare la distinzione tra spiritualità diocesana del prete e spiritualità del prete diocesano nel breve contributo: Principi fondamentali di una spiritualità ‘diocesana’ del presbitero, in Orientamenti pastorali 52 (2004) n. 10, 52-60. 37 ‘Locale’ non è perciò alternativo a ‘missionario’: la missione, anche quella ad gentes, si intreccia con la vita di una o più Chiese locali. La Chiesa locale è per natura missionaria, altrimenti non è ‘Chiesa’. Anche il presbitero diocesano è per natura ‘missionario’, altrimenti non è presbitero. Ogni presbitero, diocesano o religioso, è missionario, sia nel senso ampio della ‘missione’ che riguarda tutti gli uomini a cui è mandato, nei quali – anche fossero tutti battezzati – resta sempre il germe del peccato e quindi una componente ‘mondana’ da evangelizzare, sia nel senso stretto eventuale della missione ad gentes, che deve essere assunta da una comunità diocesana o religiosa e che comunque si innesta sempre in un terreno ‘locale’. Ed ogni ministero si svolge ‘in frontiera’, non solo quello di chi si reca (lodevolmente) in zone pericolose o di particolare disagio: non solo perché ormai anche le nostre diocesi presentano queste situazioni, ma anche perché la vera frontiera è il cuore dell’uomo, ed in qualunque ambiente, anche quelli apparentemente meno compromessi, si incontrano delle povertà tremende che richiedono la grazia risanante del Signore e della sua parola. Non appaiono quindi congruenti tutti quei tentativi di fondare de iure la diversità tra clero diocesano e religioso su una dinamica stabile-itinerante o ordinario-straordinario o cultuale-missionario o normale-di frontiera, e simili. Il vero deficit di queste teorie è la teologia della Chiesa locale, che viene implicitamente contrapposta alla Chiesa universale, ponendo nella prima un accento di staticità e nella seconda di dinamicità. D’altronde non è affatto detto che un presbitero diocesano si concentri soprattutto sulla conduzione pastorale e sui sacramenti e un presbitero religioso sull’annuncio e sull’attività in frontiera. Vi sono presbiteri diocesani che si proiettano ‘fuori’ dai confini ecclesiali e presbiteri religiosi che si dedicano al (non meno importante anche se meno appariscente) ministero della celebrazione e dell’assoluzione. Porre la distinzione a questo livello appare molto problematico. In questo senso si può convenire con Dianich quando afferma che tutte le forme di esercizio del ministero presbiterale devono svolgersi in relazione (di varia intensità) con la Chiesa locale e non è pensabile che si attuino “senza legami di dipendenza da alcuna Chiesa locale”42, per cui è esigito comunque “un ancoramento di ogni ministero ordinato ad una chiesa locale”43. Ancoramento che per l’episcopato viene mantenuto, da Nicea in avanti, pena l’invalidità dell’ordinazione (con la finzione giuridica – comunque teologicamente significativa – dell’attribuzione di sedi non più esistenti a vescovi che vengono ordinati non per una diocesi, come gli ausiliari, i funzionari della curia romana o i nunzi apostolici); e che per il presbiterato va comunque mantenuto, quando non a livello giuridico (incardinazione), almeno a livello ‘operativo’, cioè di inserimento nel tessuto vivo di una Chiesa locale. LINEE PER UNA RIFLESSIONE TEOLOGICA SUL CLERO RELIGIOSO Una volta escluse come inadeguate le ipotesi appena emerse, va comunque perseguito il tentativo di trovare un proprium teologico del clero religioso. Il Vaticano II in effetti su questo punto appare piuttosto reticente. Ma è un fatto che la progressiva riscoperta conciliare della natura missionaria, diaconale ed ecclesiale (universale e locale) del ministero ordinato – in particolare del presbiterato – delineava gradualmente una figura sostanzialmente rispondente più al clero diocesano che a quello religioso; questo ha 42 S. DIANICH, “Ministeri e ministero ordinato nella vita dei religiosi”, in Homo Vivens 11 (2000), pp. 377-400; qui: 392. 43 Ibid., 394. 38 prodotto – come ripetutamente osservato da molti – dei documenti ritagliati sui presbiteri diocesani, con generiche dichiarazioni di validità, ‘pro sua parte’, anche per i presbiteri religiosi: si deve considerare questa attenuante, quando si imputa con buone ragioni al Vaticano II una carenza nella riflessione sui preti religiosi. La teologia conciliare dei ministeri, per così dire, è stata talmente assorbita dalla consonanza tra la figura sacerdotale che meglio emergeva dal Nuovo Testamento e dalla tradizione antica e la figura pastorale del presbiterato diocesano, che non ha avuto tempo né modo di sviluppare ulteriormente la riflessione. E’ certamente vero che il Vaticano II non è intoccabile e definitivo, e non volle esserlo, e quindi non va “congelato nella sua perfezione”44; ma non sembra che il prezzo da pagare per valorizzare il clero religioso sia di contrastare il Vaticano II: va piuttosto integrato e approfondito. Occorre dunque prendere atto che con il Concilio si è verificato un significativo capovolgimento teologico dovuto in massima parte proprio all'impostazione di PO. Se prima il tipo ideale di presbitero al quale rifarsi era quello religioso (alla cui figura la spiritualità del presbitero cosiddetto ‘secolare’ doveva ispirarsi il più possibile), dopo il Concilio il tipo di presbitero che meglio incarna il significato del ministero presbiterale è il’'pastore’, cioè il presbitero ‘in cura d'anime’, che è per sua stessa costituzione il presbitero diocesano. Il presbiterato apparirebbe dunque oggi più compiutamente tradotto dalla figura diocesana di presbitero che non da quella religiosa. In realtà, però, in Concilio la questione è più complessa, perché si ha a che fare non con due categorie, bensì con quattro: alla distinzione tra presbitero diocesano e regolare, infatti, occorre aggiungere quella tra presbitero in cura d'anime e presbitero non in cura d'anime 45. La vicenda conciliare dei destinatari di PO è, in proposito, di particolare interesse; alcune volte, nelle discussioni tra i padri conciliari, era stata espressa la preoccupazione che il contenuto del decreto in via di elaborazione trascurasse i presbiteri religiosi e fosse diretto di fatto ai soli diocesani. In effetti, a mano a mano che si guadagnava un'impostazione meno sacerdotale-sacrale e più ministeriale del presbiterato, con l'emergere della carità pastorale come nota caratterizzante il suo ministero e la sua vita spirituale, veniva a delinearsi per forza di cose il presbitero diocesano in cura d'anime come ‘tipo ideale’ di presbitero e veniva sollevata, corrispettivamente, la domanda sul senso del ministero ordinato di quei presbiteri che non assumono cura d'anime, tra i quali vi sono specialmente presbiteri religiosi. Mentre i primi schemi del decreto ignorarono la questione, la penultima redazione precisò che il Concilio tratta “dei presbiteri, specialmente diocesani; ma ciò che viene detto, con i dovuti adattamenti, si applica anche ai presbiteri religiosi che sono dediti alla cura delle anime” 46. Il testo definitivo contiene alcune varianti: “ciò che qui viene detto si applica a tutti i presbiteri, specialmente a coloro che sono dediti alla cura delle anime, con i dovuti adattamenti a riguardo dei presbiteri religiosi”. La diversità tra i due testi appare significativa: nella penultima redazione il decreto veniva rivolto in primo luogo ai presbiteri diocesani, in secondo luogo a quelli religiosi in cura d'anime e in terzo luogo a tutti gli altri presbiteri (cioè quelli religiosi non in cura d'anime); l'ultima redazione, invece, riporta una diversa successione: i presbiteri diocesani in cura d'anime, poi i presbiteri religiosi in cura 44 Cf. J. W. O’MALLEY, “Priesthood, Ministry, and Religious Life”, cit., pp. 228-229. Utilizziamo questa distinzione senza sposarla (a rigore: chi sarebbero quei preti che, volendo essere tali, non sono 'in cura d'anime'?) e solo perché il Concilio la usa (cf. PO proemio), intendendo con preti 'in cura d'anime' quelli impegnati direttamente nella pastorale parrocchiale. 46 AS IV,VI,345. 45 39 d'anime e infine tutti i presbiteri (diocesani e religiosi) che non sono in cura d'anime. Se dunque nella penultima redazione criterio principale era la diocesanità e criterio subordinato la pastoralità, nel testo finale il rapporto tra i due criteri si inverte, per non accentuare l'impressione che il clero religioso traduca meno di quello diocesano la natura del presbiterato. Rimane il fatto che la figura presbiterale oggettivamente più completa, nel decreto, appare quella dotata di entrambe le qualità, ossia il presbitero diocesano ‘in cura d'anime’ 47. Gli altri (non molti) passi conciliari che trattano del clero religioso non cambiano il quadro generale delineato da PO48: tra questi è utile menzionare esplicitamente un passaggio di CD 28, che appare in qualche modo esemplificativo della visione conciliare sul nostro argomento: “Tutti i sacerdoti, sia diocesani che religiosi, in unione col vescovo partecipano all’unico sacerdozio di Cristo e lo esercitano, e perciò sono costituiti provvidenziali cooperatori dell’ordine episcopale. Nell’esercizio della cura delle anime la principale responsabilità spetta ai sacerdoti diocesani, come coloro che, incardinati o addetti a una Chiesa particolare, si consacrano totalmente al suo servizio per pascere una porzione del gregge del Signore. Perciò essi costituiscono un solo presbiterio e una sola famiglia, di cui il vescovo è il padre”. Muovendoci sulla linea del Concilio possiamo concludere che se la natura del presbiterato è la ministerialità, innervata dalla carità pastorale, in ordine all’annuncio della parola, alla celebrazione dei sacramenti e alla guida pastorale di una porzione del popolo di Dio, la sua traduzione tipica avviene in effetti nel presbiterato diocesano, relazionato in modo essenziale ad una Chiesa locale: vescovo, presbiterio e porzione di popolo di Dio a lui affidata; andrà dunque ridefinito il significato dell'ordinazione presbiterale conferita ai religiosi; tenendo conto della specificità del carisma ‘religioso’, che in molti casi potrà meglio emergere se non viene affiancato al sacramento dell'Ordine. Non si può comunque parlare semplicemente del ‘clero’ in generale o limitarsi a distinguere diverse forme pratiche di esercizio del ministero presbiterale: e non si può non solo per la consistenza numerica del clero religioso (un terzo dei presbiteri del mondo), ma anche e soprattutto per il ‘filo rosso’ che lega i presbiteri che vivono negli ordini e nelle congregazioni: la consacrazione. Il rapporto che si crea tra consacrazione e ordinazione, quando entrambe si incontrano nello stesso soggetto, rappresenta teologicamente un punto importante. E’ probabilmente questa la pista di ricerca più promettente, che gli stessi presbiteri religiosi o religiosi presbiteri potrebbero continuare a percorrere, per approfondire 47 La conferma di questa scelta di PO viene da una risposta della Commissione redattrice del decreto a 139 padri conciliari che avevano proposto di aggiungere al titolo ("Il ministero e la vita dei presbiteri") la specificazione "specialmente diocesani", per delimitare la trattazione e non dare l'impressione che il presbiterato si risolva nella diocesanità. Ecco la risposta della Commissione: "cum de ministerio Presbyterorum quaestio sit, et de vita earum uti exigitur ab ipso ministerio, declarationes schemati reapse valent de omnibus Presbyteri, qui in ministerio partem habent; ceterum Presbyteratus ordinatur ad ministerium, ita ut per se valeant declarationes de omnibus Presbyteris, quatenus de facto in ministerio partes habent" (Relatio de singulis numeris: AS IV,VII,115). La Commissione si richiama dunque alla natura ministeriale del presbiterato per concludere che il decreto vale, nei diversi casi, proporzionalmente al grado di esercizio effettivo del ministero. 48 PC ne accenna solo fugacemente e in maniera poco significativa ai nn. 8 e 20, a dispetto della grande importanza che il ministero ha avuto nella storia di certi ordini religiosi. CD, oltre al n. 28 citato nel testo, vi si riferisce ai nn. 30.34.35: il criterio presbiterale di CD è lo stesso ministero episcopale, cioè la cura animarum. Interessante la sfumata affermazione di CD 34: i presbiteri religiosi “sono da considerarsi in certo qual vero modo come appartenenti al clero della ciocesi”. 40 la riflessione: che cosa significa che la forza del sacramento dell’Ordine si unisce nella stessa persona alla forza della sequela radicale di Gesù, che questa avvenga in direzione prevalentemente contemplativa oppure apostolica. Avanziamo un’ipotesi, da discutere e verificare. Si potrebbero ipotizzare due figure ‘tipiche’, rispettivamente di ministero ordinato e di consacrazione religiosa, ed una terza figura che – senza essere un ibrido – mostrerebbe la fecondità della relazione tra le prime due. La prima figura tipica, riguardante il ministero ordinato, è quella del vescovo, ordinato per la diaconia dell’annuncio, della celebrazione e della guida pastorale in una Chiesa particolare. Conformemente all’impostazione del Vaticano II, è dunque l’episcopato l’analogato principale del ministero ordinato; della pienezza episcopale partecipano per la loro parte i presbiteri (e i diaconi), il ministero dei quali è oggettivamente tanto più significativo quanto più tende all’esercizio armonioso dei tria munera verso il popolo di Dio, in relazione filiale con il vescovo e in comunione fraterna nel presbiterio. Siccome la figura pratica che strutturalmente realizza meglio questa armonia è quella del presbitero in cura d’anime o del parroco, a questa figura va la preferenza del Vaticano II (cf. in particolare il Proemio di PO e CD 30). La seconda figura tipica, riguardante la consacrazione, è quella del monaco e del religioso, nei quali i voti, incarnati poi concretamente nella vita solitaria o comune, nella contemplazione o nell’azione, caratterizzano la testimonianza della superiorità di Dio su ogni valore terreno, anche importante, ed offrono al mondo il richiamo vivente al Regno dei cieli, dove la somma ricchezza, il gaudio pieno e la libertà totale è Dio stesso. L’analogato principale della vita consacrata resta quindi, a nostro parere, l’istituto dei voti che, sebbene non assorba tutta la ricchezza della condizione monastica e religiosa, la connota in maniera distintiva rispetto alle altre vocazioni e ne indica l’apporto più cospicuo alla Chiesa e al mondo. Sono stati all’inizio e sono gli stessi monaci, ed oggi sono anche molti religiosi, a chiedere con insistenza di conservare anche questa forma tipica della consacrazione, senza necessariamente o normalmente coniugarla con il ministero ordinato: sia perché l’impiego nel ministero pastorale di tipo parrocchiale portano via tempo ed energie alla coltivazione del proprio carisma religioso, a danno non solo del proprio Istituto ma della Chiesa, privata in tal modo di quella specifica testimonianza49, sia per il “desiderio di ricuperare il modello di vita presentato dal Vangelo e vissuto nella prima comunità cristiana”; nel caso di istituti di vita attiva, questa richiesta nasce anche “dal desiderio di distinguere più chiaramente i compiti propriamente sacerdotali da quelli che possono essere svolti da laici”50. La terza figura in qualche modo coniuga consacrazione e ministero ordinato. Il presbitero che vive nel contempo la consacrazione religiosa e il religioso che nello stesso tempo vive il ministero presbiterale, uniscono in maniera originale le due vocazioni. Nel realizzare questa coniugazione, colui che assume sia il ministero ordinato che la consacrazione religiosa rinuncia in un certo senso alla tipicità dell’uno e dell’altra; ma questa rinuncia è controbilanciata e ripagata dall’originale sintesi che nasce da tale coniugazione. Questa rinuncia si potrebbe forse concretamente tradurre anche in termini giuridici, come segue: il presbitero che emette i voti ‘ridimensiona’ l’istituto dell’incardinazione, mentre il religioso 49 Cf. il Documento “Priests and Religious” (1990), della Conferenza dei Superiori Maggiori degli USA, cit. in R. ZAS FRIZ DE COL, “La condizione attuale del presbitero religioso nella Chiesa”, cit., pp. 47-48. 50 Cf. J. DUBOIS, “Sacerdozio”, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, cit., col. 89 e G. ROCCA, “Sacerdozio”, in Ibid., col. 97. 41 che viene ordinato presbitero ‘ridimensiona’ l’istituto dell’esenzione. La ricchezza che controbilancia tale rinuncia si potrebbe forse indicare in questo modo: il consacrato che viene ordinato prete testimonia come il presbiterato sia una delle forme possibili del dono totale e radicale di sé al Signore e alla Chiesa; e il presbitero che emette i voti in un ordine o in una congregazione testimonia come la consacrazione possa favorire la dedicazione della propria vita e delle proprie energie alla diaconia di Cristo per la Chiesa, e in particolare per una Chiesa. La lunga tradizione latina del celibato presbiterale ha già facilitato questa coniugazione, sebbene a volte la trasposizione dell’una nell’altra vocazione sia avvenuta – come abbiamo visto – in termini problematici. Sono solo spunti per un discorso che, se ritenuto plausibile, potrebbe continuare, venire corretto e precisato. E’ però un discorso che sta iniziando e quindi esigerà molta pratica, spirituale e pastorale, per aiutare la teologia a registrarsi e raffinarsi. Sarà la lettura critica delle diverse situazioni alla luce della Rivelazione alla teologia elementi per arrivare a qualche sintesi concreta, che non sacrifichi le principali acquisizioni conciliari circa la teologia della Chiesa locale e la natura missionaria, diaconale ed ecclesiale del ministero ordinato. Occorrerà in particolare che gli stessi religiosi chiariscano meglio il loro carisma in relazione al ministero ordinato: e non solo in senso generale, come rapporto tra ministero e vita religiosa, ma soprattutto in senso specifico: occorre cioè che dall’interno di ciascun ordine o congregazione o istituto si precisi quale sia questa relazione, che si presenta non facilmente generalizzabile, ma che assume tratti particolari per ciascuno: un esempio da imitare ed approfondire è la promettente riflessione avviata sul “caso dei gesuiti”, con gli studi in particolare di p. Costa e di p. Zas Friz de Col51. 51 M. COSTA, “’Sacerdote-religioso’ o/e ‘Religioso-sacerdote’? Vocazione al sacerdozio e vocazione alla vita religiosa negli Istituti di vita consacrata”, in Informationes SCRIS 26 (2000), pp. 55-87; R. ZAS FRIZ DE COL, “L’identità ecclesiale del presbitero religioso. Il caso dei gesuiti”, pp. 325-360. Quest’ultimo passa in rassegna le opinioni degli stessi studiosi gesuiti, che risultano in merito svariatissime. 42