Le relazioni fraterne sacerdotali, Padre Ferdinando Campana, ofm

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Le relazioni fraterne sacerdotali, Padre Ferdinando Campana, ofm
LE RELAZIONI DEI SACERDOTI NEL PRESBITERIO
La comunione sacerdotale (Gv 17, 20-23)
1. Nelle precedenti catechesi abbiamo riflettuto sulla importanza che le proposte, o consigli
evangelici, della verginità e della povertà hanno nella vita sacerdotale, e sulla misura e i modi di
praticarle secondo la tradizione spirituale e ascetica cristiana e secondo la legge della Chiesa. Oggi
è bene ricordare che, a coloro che volevano servirlo mentre svolgeva il suo ministero messianico,
Gesù non esito a dire che, per essere veramente suoi discepoli, bisogna "rinnegare se stessi e
prendere la propria croce" (Mt 16, 24; Lc 9, 23). E' una grande massima di perfezione,
universalmente valida per la vita cristiana come criterio definitivo circa l'eroicità che caratterizza la
virtù dei santi. Essa vale soprattutto per la vita sacerdotale, nella quale prende forme pi rigorose,
giustificate dalla particolare vocazione e dallo speciale carisma dei ministri di Cristo.
Un primo aspetto di tale "rinnegamento di sé" si manifesta nelle rinunce connesse con l'impegno
della comunione che i Sacerdoti sono chiamati ad attuare fra loro e con il Vescovo (cf LG 28;
Pastores dabo vobis, 74). L'istituzione del sacerdozio ministeriale è avvenuta nel quadro di una
comunità e comunione sacerdotale. Gesù raccolse un primo gruppo, quello dei Dodici, chiamandoli
a formare un'unità nel mutuo amore. A questa prima comunità "sacerdotale", volle che si
aggregassero dei cooperatori. Inviando in missione i settantadue discepoli, come pure i dodici
Apostoli, li mandò a due a due (cf Lc 10, 1; Mc 6, 7), sia per un reciproco aiuto nella vita e nel
lavoro, sia perché si creasse l'abitudine dell'azione comune e nessuno agisse come fosse solo,
indipendente dalla comunità-Chiesa, e dalla comunità-Apostoli.
2. Ciò viene confermato dalla riflessione sulla chiamata di Cristo che da origine alla vita e al
ministero sacerdotale di ciascuno. Ogni sacerdozio nella Chiesa ha origine da una vocazione.
Questa è rivolta a una persona particolare, ma è legata alle chiamate che sono rivolte agli altri, nel
contesto di un medesimo disegno di evangelizzazione e di santificazione del mondo. Come gli
Apostoli, anche i Vescovi e i Sacerdoti sono chiamati insieme, pur nella molteplicità delle
vocazioni personali, da Colui che vuole impegnarli tutti a fondo nel mistero della Redenzione.
Questa comunità di vocazione comporta senza dubbio un'apertura degli uni agli altri e di ciascuno a
tutti, per vivere e operare nella comunione.
Ciò non avviene senza rinuncia all'individualismo sempre vivo e insorgente, senza un'attuazione
del "rinneghi se stesso" (Mt 16, 24) nella vittoria della carità sull'egoismo. Il pensiero della
comunità di vocazione, tradotta in comunione, deve tuttavia incoraggiare tutti e ciascuno al lavoro
concorde, al riconoscimento della grazia concessa singolarmente e collettivamente a Vescovi e
Presbiteri: grazia accordata a ciascuno non perché dovuta a meriti e qualità personali, e non solo per
la santificazione personale, ma in vista della "edificazione del Corpo" (Ef 4, 12. 16).
La comunione sacerdotale si radica profondamente ancora nel sacramento dell'Ordine, nel quale il
rinnegamento di se stessi diventa una partecipazione spirituale ancor più intima al sacrificio della
Croce. Il sacramento dell'Ordine implica la libera risposta di ciascuno alla chiamata che gli è stata
rivolta personalmente. La risposta è altrettanto personale. Ma nella consacrazione, l'azione sovrana
di Cristo, operante nell'ordinazione mediante lo Spirito Santo, crea quasi una nuova personalità,
trasferendo nella comunità sacerdotale, oltre la sfera della finalità individuale, mentalità, coscienza,
interessi di chi riceve il sacramento. È un fatto psicologico derivante dal riconoscimento del legame
ontologico di ogni Presbitero con tutti gli altri. Il sacerdozio conferito a ciascuno dovrà esercitarsi
nell'ambito ontologico, psicologico e spirituale di questa comunità. Allora si avrà veramente la
comunione sacerdotale. Dono dello Spirito Santo: ma anche frutto della risposta generosa del
Presbitero.
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In particolare, la grazia dell'Ordine stabilisce uno speciale legame tra i Vescovi e i Sacerdoti, perché
è dal Vescovo che si riceve l'Ordinazione sacerdotale, è da lui che si propaga il sacerdozio, è lui che
fa entrare i nuovi ordinati nella comunità sacerdotale, di cui egli stesso è membro.
3. La comunione sacerdotale suppone e comporta l'attaccamento di tutti, Vescovi e Presbiteri, alla
persona di Cristo. Quando Gesù volle partecipare ai Dodici la sua missione messianica, dice il
Vangelo di Marco che li chiamò e costituì "perché stessero con lui" (Mc 3, 14). Nell'ultima Cena,
egli si rivolse ad essi come a coloro che avevano perseverato con lui nelle prove (cf Lc 22, 28), e
raccomandò loro e chiese al Padre per loro l'unità. Rimanendo tutti uniti in Cristo, rimanevano uniti
tra loro (cf Gv 15, 4-11). La coscienza di questa unità e comunione in Cristo rimase viva negli
Apostoli, durante la predicazione che da Gerusalemme li portò nelle varie regioni del mondo allora
conosciuto, sotto l'azione impellente e nello stesso tempo unificante dello Spirito della Pentecoste.
Tale coscienza traspare dalle loro Lettere, dai Vangeli e dagli Atti.
Anche nel chiamare i nuovi Presbiteri al sacerdozio, Gesù Cristo chiede loro l'offerta della vita alla
sua persona, intendendo così unirli tra loro grazie ad uno speciale rapporto di comunione con Lui.
Questa è la vera fonte dell'accordo profondo della mente e del cuore che unisce i Presbiteri e i
Vescovi nella comunione sacerdotale.
Questa comunione si nutre della collaborazione a una stessa opera: l'edificazione spirituale della
comunità di salvezza. Certo, ogni Presbitero ha un campo personale d'attività, in cui può impegnare
tutte le sue facoltà e qualità, ma tale campo rientra nel quadro dell'opera più vasta con cui ogni
Chiesa locale tende a sviluppare il Regno di Cristo. L'opera e essenzialmente comunitaria, sicché
ciascuno deve agire in cooperazione con gli altri operai dello stesso Regno.
Si sa quanto la volontà di lavorare a una stessa opera possa sostenere e stimolare lo sforzo comune
di ciascuno. Essa crea un sentimento di solidarietà e fa accettare i sacrifici che richiede la
cooperazione, nel rispetto dell'altro e con l'accoglimento della sua differenza. E' importante
osservare fin d'ora che questa cooperazione si articola intorno al rapporto tra il Vescovo e i
Presbiteri, la subordinazione dei quali al primo è essenziale per la vita della comunità cristiana.
L'opera per il Regno di Cristo può svolgersi e svilupparsi solo secondo la struttura da lui stesso
stabilita.
4. Ora mi a caro sottolineare il ruolo che in questa comunione ha l'Eucaristia. Nell'ultima Cena,
Gesù ha voluto instaurare - nella maniera più completa - l'unita del gruppo degli Apostoli, ai quali
per primi affidava il ministero sacerdotale. Di fronte alle loro dispute per il primo posto, Egli, con la
lavanda dei piedi (cf Gv 13, 2-15), da l'esempio dell'umile servizio che risolve i conflitti suscitati
dall'ambizione, e insegna ai suoi primi Sacerdoti a cercare l'ultimo posto piuttosto che il primo.
Sempre durante la Cena, Gesù enuncia il precetto del mutuo amore (cf Gv 13, 34; 15, 12), e apre la
fonte della forza di osservarlo: da soli, infatti, gli Apostoli non sarebbero stati capaci di amarsi gli
uni gli altri come il Maestro li aveva amati; ma con la comunione eucaristica essi ricevono la
capacita di vivere la comunione ecclesiale e, in questa, la loro specifica comunione sacerdotale.
Offrendo loro, col sacramento, questa superiore capacità d'amore, Gesù poteva rivolgere al Padre
una supplica audace, quella di realizzare nei suoi discepoli una unità simile a quella che regna tra il
Padre e il Figlio (Gv 17, 21- -23). Nella Cena, infine, Gesù investe solidalmente gli Apostoli della
missione e del potere di fare l'Eucaristia in sua memoria, approfondendo così ancor più il legame
che li univa. La comunione del potere di celebrare l'unica Eucaristia non poteva non essere per gli
Apostoli - e per i loro successori e collaboratori - segno e sorgente di unità.
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5. È significativo che, nella preghiera sacerdotale dell'ultima Cena, Gesù preghi non solamente per
la consacrazione (dei suoi Apostoli) nella verità (cf Gv 17, 17), ma per la loro unità, rispecchiante la
stessa comunione delle divine Persone (cf Gv 17, 11). Quella preghiera, pur riguardando prima di
tutto gli Apostoli che Gesù ha voluto particolarmente riunire intorno a sé, si estende anche ai
Vescovi e ai Presbiteri, oltre che ai credenti, di tutti i tempi.
Gesù chiede che la comunità sacerdotale sia riflesso e partecipazione della comunione trinitaria:
quale sublime ideale! Tuttavia le circostanze in cui Gesù ha elevato la sua preghiera lasciano capire
che questo ideale, per essere realizzato, esige dei sacrifici. Gesù chiede l'unità dei suoi Apostoli e
dei suoi seguaci nel momento in cui offre la sua vita al Padre. È a prezzo del suo sacrificio che egli
instaura la comunione sacerdotale nella sua Chiesa. Perciò i Presbiteri non possono stupirsi dei
sacrifici che la comunione sacerdotale richiede loro. Edotti dalla parola di Cristo, essi scoprono in
tali rinunce una concreta partecipazione spirituale ed ecclesiale al Sacrificio redentore del Maestro
divino.
Relazioni dei presbiteri con i loro Vescovi (Gv 15, 12-15).
1. La comunione, voluta da Gesù tra quanti partecipano del sacramento dell'Ordine, deve
manifestarsi in modo tutto particolare nelle relazioni dei Presbiteri con i loro Vescovi. Il Concilio
Vaticano II parla a questo proposito di una "comunione gerarchica", derivante dall'unità di
consacrazione e di missione. Leggiamo: "Tutti i Presbiteri, assieme ai Vescovi, partecipano in tal
grado del medesimo e unico sacerdozio e ministero di Cristo, che la stessa unità di consacrazione e
di missione esige la comunione gerarchica dei Presbiteri con l'Ordine dei Vescovi, che viene a
volte ottimamente espressa nella concelebrazione liturgica, quando (Vescovi e Presbiteri) uniti
professano di celebrare la sinassi eucaristica" (PO, 7). Come si vede, anche qui si riaffaccia il
mistero dell'Eucaristia come segno e fonte di unità. Con l'Eucaristia è collegato il sacramento
dell'Ordine, che determina la comunione gerarchica fra tutti coloro che partecipano del sacerdozio
di Cristo: "Per ragione dell'Ordine e del ministero, - aggiunge il Concilio, - tutti i Sacerdoti, sia
diocesani che religiosi, sono associati al corpo episcopale" (LG, 28).
2. Questo legame tra i Sacerdoti di qualsiasi qualifica e grado e i Vescovi è essenziale nell'esercizio
del ministero presbiterale. I Sacerdoti ricevono, dal Vescovo la potestà sacramentale e
l'autorizzazione gerarchica per tale ministero.
Anche i Religiosi ricevono tale potestà e tale autorizzazione dal Vescovo che li ordina Sacerdoti e
da colui che governa la diocesi dove essi svolgono il ministero. Anche quando appartengono a
Ordini esenti dalla giurisdizione dei Vescovi diocesani per il loro regime interno, ricevono dal
Vescovo, a norma delle leggi canoniche, il mandato e il consenso per l'inserimento e l'attività
nell'ambito della diocesi, salva sempre l'autorità con cui il Pontefice Romano, come capo della
Chiesa, può conferire agli Ordini religiosi o ad altri Istituti il potere di reggersi secondo le loro
costituzioni e di operare a raggio universale. A loro volta, i Vescovi hanno nei Presbiteri dei
"necessari collaboratori e consiglieri nel ministero e nella funzione di istruire, santificare e
governare il Popolo di Dio" (PO, 7).
3. Per questo legame tra Sacerdoti e Vescovi nella comunione sacramentale, i Presbiteri sono "aiuto
e strumento" dell'Ordine episcopale, come scrive la Costituzione Lumen Gentium (n. 28). Essi
prolungano in ogni comunità l'azione del Vescovo, del quale in certo modo rendono presente la
figura di Pastore nei diversi luoghi.
È chiaro che, in forza della sua stessa identità pastorale e della sua origine sacramentale, il
ministero dei Presbiteri si esercita "sotto l'autorità del Vescovo". Sempre secondo la Lumen
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Gentium, è sotto questa autorità che essi portano "il loro contributo al lavoro pastorale di tutta la
diocesi", santificando e governando la porzione del gregge del Signore loro affidata (ibid.).
È vero che i Presbiteri rappresentano Cristo e agiscono in suo nome, partecipando, nel loro grado di
ministero, al suo ufficio di unico Mediatore. Ma essi possono agire solo come collaboratori del
Vescovo, estendendo così il ministero del Pastore diocesano nelle comunità locali.
4. Su questo principio teologico di partecipazione, nell'ambito della comunione gerarchica, si
fondano relazioni tra Vescovi e Presbiteri cariche di spiritualità. La Lumen Gentium le enuncia così:
"A ragione di questa loro partecipazione nel sacerdozio e nel lavoro apostolico, i Sacerdoti
riconoscono nel Vescovo il loro padre e gli obbediscono con rispettoso amore. Il Vescovo, poi,
consideri i Sacerdoti suoi cooperatori come figli e amici, al pari di Cristo che chiama i suoi
discepoli non servi, ma amici (cf Gv 15, 15)" (ibid.).
L'esempio di Cristo è anche qui la regola del comportamento, sia per i Vescovi che per i Presbiteri.
Se Colui che aveva un'autorità divina non ha voluto trattare i suoi discepoli da servi ma da amici, il
Vescovo non può considerare i suoi Sacerdoti come persone al suo servizio. Con lui, essi servono il
Popolo di Dio. E da parte loro i Presbiteri devono rispondere al Vescovo come richiede la legge
della reciprocità dell'amore nella comunione ecclesiale e sacerdotale: cioè da amici e da "figli"
spirituali. L'autorità del Vescovo e l'obbedienza dei suoi collaboratori, i Presbiteri, devono dunque
esercitarsi nel quadro della vera e sincera amicizia.
Questo impegno si basa non solo sulla fraternità che esiste in virtù del Battesimo fra tutti i cristiani
e su quella che deriva dal sacramento dell'Ordine, ma sulla parola e l'esempio di Gesù, che anche
nel suo trionfo di Risorto, si chinò da quell'incommensurabile altezza sui suoi discepoli chiamandoli
"miei fratelli" e dichiarando il Padre suo anche il "loro" (cf Gv 20, 17; Mt 28, 10). Così,
sull'esempio e l'insegnamento di Gesù, il Vescovo deve trattare come fratelli e amici i Sacerdoti
suoi collaboratori, senza che la sua autorità di Pastore e di superiore ecclesiastico ne sia diminuita.
Un clima di fraternità e di amicizia favorisce la fiducia dei Presbiteri e la loro volontà di
cooperazione e di corrispondenza nell'amicizia e nella carità fraterna e filiale verso i loro Vescovi.
5. Il Concilio scende anche ad alcuni particolari sui doveri dei Vescovi verso i Presbiteri. Basti qui
rammentarli: i Vescovi devono aver a cuore, in tutto ciò che possono, il benessere materiale e
soprattutto spirituale dei loro Sacerdoti; promuoverne la santificazione curandone la continua
formazione, esaminando con loro i problemi riguardanti le necessità del lavoro pastorale e il bene
della diocesi (cf PO, 7).
Ugualmente i doveri dei Presbiteri verso i loro Vescovi sono riassunti in questi termini: "I
Presbiteri, avendo presente la pienezza del sacramento dell'Ordine di cui godono i Vescovi,
venerino in essi l'autorità di Cristo, supremo Pastore. Siano dunque uniti al loro Vescovo con
sincera carità e obbedienza" (ibid.).
Carità e obbedienza: il binomio essenziale dello spirito con cui comportarsi col proprio Vescovo. Si
tratta di un'obbedienza animata dalla carità. L'intenzione fondamentale del Presbitero, nel suo
ministero, non può che essere quella di cooperare col suo Vescovo. Se egli ha spirito di fede,
riconosce la volontà di Cristo nelle decisioni del Vescovo.
È comprensibile che talora, particolarmente nei momenti di confronto tra pareri diversi,
l'obbedienza possa essere più difficile. Ma l'obbedienza è stata la disposizione fondamentale di
Gesù nel suo sacrificio e ha prodotto il frutto di salvezza che tutto il mondo ha ricevuto. Anche il
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Presbitero che vive di fede sa di essere chiamato a un'obbedienza che, attuando la massima di Gesù
sull'abnegazione, gli da il potere e la gloria di condividere la fecondità redentiva del Sacrificio della
Croce.
6. Si deve infine aggiungere che, come a tutti è noto, oggi più che in altri tempi, il ministero
pastorale richiede la cooperazione dei Presbiteri e quindi la loro unione coi Vescovi, in ragione
della sua complessità e vastità. Come scrive il Concilio, "l'unione tra i Presbiteri e i Vescovi e
particolarmente necessaria ai nostri giorni, dato che oggi, per diversi motivi, le imprese
apostoliche debbono non solo rivestire forme molteplici, ma anche trascendere i limiti di una
parrocchia o di una diocesi. Nessun Presbitero è quindi in condizione di realizzare a fondo la
propria missione se agisce da solo e per proprio conto, senza unire le proprie forze a quelle degli
altri Presbiteri, sotto la guida di coloro che governano la Chiesa" (ibid.).
Per questo anche i "Consigli presbiterali" hanno cercato di rendere sistematica e organica la
consultazione dei Presbiteri da parte dei Vescovi (cf Sinodo dei Vescovi del 1971: Ench. Vat., IV,
1224). Da parte loro, i Presbiteri parteciperanno a questi Consigli con spirito di collaborazione
illuminata e leale, nell'intento di cooperare alla edificazione dell'unico Corpo". E anche
singolarmente, nei loro rapporti personali col proprio Vescovo, ricorderanno e avranno a cuore
sopratutto una cosa: la crescita di ciascuno e di tutti nella carità, che è frutto dell'oblazione di se
nella luce della Croce.
Relazioni dei presbiteri con i confratelli nel sacerdozio (Mc 6, 7-10)
1. La "comunità sacerdotale" o presbiterio, di cui abbiamo parlato nelle precedenti catechesi,
comporta tra coloro che ne fanno parte una rete di relazioni reciproche che si situano nell'ambito
della comunione ecclesiale originata dal Battesimo. Il fondamento più specifico di tali relazioni è la
comune partecipazione sacramentale e spirituale al sacerdozio di Cristo, da cui deriva uno
spontaneo senso di appartenenza al presbiterio.
Lo ha ben rilevato il Concilio: "I Presbiteri, costituiti nell'Ordine del Presbiterato mediante
l'Ordinazione, sono tutti tra loro uniti da intima fraternità sacramentale; ma in modo speciale essi
formano un unico Presbiterio nella diocesi al cui servizio sono ascritti sotto il proprio Vescovo"
(PO, 8). Per rapporto a questo Presbiterio diocesano, in ragione della mutua conoscenza, vicinanza
e consuetudine di vita e di lavoro, si sviluppa maggiormente quel senso dell'appartenenza, che
crea e alimenta la comunione fraterna e l'apre nella collaborazione pastorale.
I vincoli della carità pastorale si esprimono nel ministero e nella liturgia, come annota ancora il
Concilio: "Ciascuno è unito agli altri membri di questo Presbiterio da particolari vincoli di carità
apostolica, di ministero e di fraternità: il che viene liturgicamente rappresentato, fin dai tempi più
antichi, nella cerimonia in cui i Presbiteri assistenti all'Ordinazione sono invitati a imporre le
mani, assieme al Vescovo che ordina, sul capo del nuovo eletto, o anche quando celebrano la sacra
Eucaristia in unione di affetti" (ibid.). Si ha in questi casi la rappresentazione della comunione
sacramentale, ma anche di quella spirituale, che trova nella liturgia l'una vox per proclamare a Dio
e testimoniare ai fratelli l'unita dello spirito.
2. La fraternità sacerdotale si esprime altresì nell'unita del ministero pastorale, in tutto l'ampio
ventaglio di mansioni, di uffici e di attività a cui sono assegnati i Presbiteri, i quali "anche se si
occupano di mansioni differenti, esercitano sempre un unico ministero sacerdotale in favore degli
uomini" (ibid.).
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La varietà dei compiti può essere notevole. Così, per esemplificare, il ministero nelle parrocchie e
quello interparrocchiale o sovrapparrocchiale, le opere diocesane, nazionali, internazionali,
l'insegnamento nelle scuole, la ricerca, l'analisi, l'insegnamento nei vari settori della dottrina
religiosa e teologica, ogni apostolato in forma di testimonianza, a volte con la coltivazione e
l'insegnamento di qualche ramo dello scibile umano; e ancora, la diffusione del messaggio
evangelico per il tramite dei media, l'arte religiosa nelle sue molte espressioni, i molteplici servizi
di carità, l'assistenza morale alle varie categorie di ricercatori o di operatori, e infine, oggi
attualissime e importantissime, le attività ecumeniche. Questa varietà non può creare delle categorie
o dei dislivelli perché si tratta di compiti che per i Presbiteri rientrano sempre nel disegno della
evangelizzazione. "E' chiaro - diciamo col Concilio - che tutti lavorano per la stessa causa, cioè
per l'edificazione del Corpo di Cristo, la quale esige molteplici funzioni e nuovi adattamenti,
soprattutto in questi tempi" (ibid.).
3. E' perciò importante che ogni Presbitero sia disposto - e convenientemente formato - a
comprendere e stimare l'opera compiuta dai suoi fratelli nel sacerdozio. E' questione di spirito
cristiano ed ecclesiale, oltre che di apertura ai segni dei tempi. Egli dovrà saper comprendere, ad
esempio, che vi è diversità di bisogni nell'edificazione della comunità cristiana, come vi e diversità
di carismi e di doni; vi è inoltre diversità di modi di concepire e di compiere le opere apostoliche,
giacché possono essere proposti e impiegati nuovi metodi di lavoro nel campo pastorale, pur
mantenendosi sempre nell'ambito della comunione di fede e di azione della Chiesa.
La reciproca comprensione è la base del mutuo aiuto nei vari campi. Ripetiamolo col Concilio: "È
assai necessario che tutti i Presbiteri, sia diocesani che religiosi, si aiutino a vicenda, in modo da
essere sempre cooperatori della verità" (ibid.). Il reciproco aiuto può essere dato in molti modi:
dalla disponibilità a prestarsi a un Confratello in necessità, all'accettazione di programmare il lavoro
secondo uno spirito di cooperazione pastorale, che si rivela sempre più necessario tra i vari enti e
gruppi e nello stesso ordinamento globale dell'apostolato. A questo proposito, si terrà presente che
la stessa parrocchia (come a volte anche la diocesi), pur avendo una sua autonomia, non può essere
un'isola, specialmente in un tempo come il nostro, nel quale abbondano i mezzi di comunicazione,
la mobilità della gente, la confluenza in taluni punti di attrazione, le nuove omologazioni di
tendenze, abitudini, mode, orari. Le parrocchie sono organi vivi dell'unico Corpo di Cristo,
dell'unica Chiesa, in cui si accolgono e si servono sia i membri delle comunità locali, sia tutti coloro
che per qualsiasi ragione vi affluiscono in un certo momento che può significare la comparsa di Dio
in una coscienza, in una vita. Naturalmente ciò non deve diventare fomite di disordine o di
irregolarità in relazione alle leggi canoniche, che sono pure a servizio della pastorale.
4. Un particolare sforzo di mutua comprensione e di reciproco aiuto è da auspicare e favorire
specialmente nei rapporti fra i Presbiteri più anziani e quelli più giovani: gli uni e gli altri così
necessari alla comunità cristiana, e così cari ai Vescovi e al Papa. E' il Concilio stesso a
raccomandare agli anziani di avere comprensione e simpatia per le iniziative dei giovani; e ai
giovani di avere rispetto per l'esperienza degli anziani e di riporre in loro fiducia; agli uni e agli altri
di trattarsi con sincero affetto, secondo l'esempio dato da tanti Sacerdoti di ieri e di oggi (cf ibid.).
Quante cose salirebbero dal cuore al labbro su questi punti, nei quali si manifesta concretamente la
"comunione sacerdotale" che lega i Presbiteri! Contentiamoci di riferire quelle suggerite dal
Concilio: "Animati da spirito fraterno, i Presbiteri non trascurino l'ospitalità (cf Eb 13, 1-2),
pratichino la beneficenza e la comunità di beni (cf Eb 13, 16), avendo speciale cura di quanti sono
infermi, afflitti, sovraccarichi di lavoro, soli, o in esilio, nonché di coloro che soffrono la
persecuzione (cf Mt 5, 10)" (ibid.).
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Ogni Pastore, ogni Sacerdote, percorrendo a ritroso la strada della sua vita, la trova disseminata di
esperienze del bisogno di comprensione, aiuto, cooperazione di tanti Confratelli, come di altri
fedeli, che si ritrovano sotto le varie forme di necessità appena elencate; e di quante altre! Chissà se
non sarebbe stato possibile fare di più per tutti quei "poveri", amati dal Signore e da lui affidati alla
carità della Chiesa. Anche per coloro che, come ci rammenta il Concilio (ibid.), potevano trovarsi in
momenti di crisi. Pur nella coscienza di aver seguito la voce del Signore e del Vangelo, dobbiamo
proporci ogni giorno di fare sempre di più e sempre meglio per tutti.
5. Il Concilio suggerisce anche qualche iniziativa comunitaria per promuovere l'aiuto reciproco nei
casi di bisogno, e anche in modo permanente e quasi istituzionale in favore dei confratelli.
Accenna innanzitutto a periodiche riunioni fraterne a scopo di distensione e di riposo, per
rispondere all'umana esigenza di ripresa delle forze fisiche, psichiche e spirituali, che già il "Signore
e Maestro" Gesù, nella sua delicata attenzione alle condizioni altrui, aveva avuto presente quando
rivolse agli postoli l'invito: "Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po'!" (Mc 6,
31). Questo invito vale anche per i Presbiteri in ogni epoca, e nella nostra più che mai, dato
l'incalzare delle occupazioni e la loro complicatezza anche nel ministero pastorale (cf PO, 8).
Il Concilio incoraggia poi le iniziative che mirano a rendere possibile e agevole in modo
permanente la vita comune dei Presbiteri, anche in forma di coabitazione saggiamente istituita e
ordinata, o almeno di mensa facilmente accessibile e praticabile in luoghi convenienti. Le ragioni
non solo economiche e pratiche, ma anche spirituali, di tali iniziative, in armonia con le istituzioni
della primitiva comunità di Gerusalemme (cf At 2, 46-47), sono evidenti e pressanti nella
condizione odierna di molti Presbiteri e Prelati, ai quali occorre offrire attenzione e cura per
sollevarne difficoltà e fatiche (cf PO, 8).
"Vanno anche tenute in grande considerazione e diligentemente incoraggiate le associazioni che, in
base a statuti riconosciuti dall'autorità ecclesiastica competente, fomentano - grazie a un modo di
vita convenientemente ordinato e approvato, e all'aiuto fraterno - la santità dei Sacerdoti
nell'esercizio del loro ministero, e mirano in tal modo al servizio di tutto l'ordine dei Presbiteri"
(ibid.).
6. Quest'ultima esperienza in non pochi luoghi e stata fatta da santi preti anche in passato. Il
Concilio ne desidera e zela l'estensione più ampia possibile, e non sono mancate nuove istituzioni,
dalle quali proviene un grande beneficio al clero e al popolo cristiano. La loro fioritura ed efficacia
è proporzionale all'adempimento delle condizioni fissate dal Concilio: la finalità della santificazione
sacerdotale, l'aiuto fraterno tra i Presbiteri, la comunione con l'autorità ecclesiastica, al livello
diocesano o a quello della Sede Apostolica, secondo i casi. Questa comunione comporta degli
statuti approvati come regola di vita e di lavoro, senza i quali gli associati sarebbero quasi
inevitabilmente condannati al disordine o alle arbitrarie imposizioni di qualche personalità più forte.
È un vecchio problema per ogni forma di associazione, che si ripresenta anche nel campo religioso
ed ecclesiastico.
L'autorità della Chiesa adempie la sua missione di servizio verso i Presbiteri e tutti i fedeli anche
con lo svolgere questa funzione di discernimento dei valori autentici, di tutela della libertà spirituale
delle persone e di garanzia della validità delle associazioni, cole di tutta la vita delle comunità.
Anche in questo si tratta di attuare il santo ideale della "comunione sacerdotale.
Giovanni Paolo II, Udienza generale di mercoledì 15 febbraio 1995
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Relazioni tra sacerdozio e vita religiosa
1. Tra sacerdozio e vita religiosa esistono affinità profonde. Di fatto, nel corso dei secoli si nota una
crescita del numero di religiosi sacerdoti. Nella maggioranza dei casi si tratta di uomini che, entrati
in un Istituto religioso, vi hanno ricevuto l’Ordinazione sacerdotale; meno frequenti – ma pur
sempre notevoli – sono i casi di Sacerdoti incardinati in una diocesi, che s’incorporano
successivamente a un Istituto religioso. In entrambi i casi il fatto mostra che molto spesso nella vita
consacrata maschile la vocazione a un Istituto religioso è associata alla vocazione al ministero
sacerdotale.
2. Possiamo chiederci quale sia l’apporto della vita religiosa al ministero sacerdotale e perché, nel
disegno divino, tanti uomini siano chiamati a questo ministero nel quadro della vita religiosa.
Rispondiamo che, se è vero che la stessa Ordinazione sacerdotale comporta una consacrazione della
persona, l’accesso alla vita religiosa predispone il soggetto a meglio accogliere la grazia dell’Ordine
sacro e a viverne più integralmente le esigenze. La grazia dei consigli evangelici e della vita
comune si rivela quanto mai favorevole all’acquisto della “santità” richiesta dal sacerdozio in
ragione dell’ufficio circa il Corpo di Cristo sia eucaristico che mistico.
Inoltre, la tendenza verso la perfezione, che specifica e caratterizza la vita religiosa, stimola lo
sforzo ascetico per progredire nelle virtù, per sviluppare la fede, la speranza e soprattutto la carità, e
per vivere una vita conforme all’ideale del Vangelo. Da parte degli Istituti viene impartita una
formazione in questo senso, affinché i religiosi possano fin dalla giovinezza orientarsi più
fermamente in una via di santità e acquisire solide convinzioni e abitudini di vita evangelicamente
austere. In tali condizioni di spirito, essi possono beneficiare meglio delle grazie che accompagnano
l’Ordinazione sacerdotale.
3. I voti religiosi, tuttavia, prima che come obblighi assunti in funzione dell’Ordine e del ministero,
hanno valore in se stessi come risposte di amore oblativo al dono di Colui che con amore infinito
“si è offerto volontariamente” per noi (cf. Is 53, 12; Eb 9, 28). Così, l’impegno nel celibato non si
pone anzitutto come un’esigenza richiesta per il diaconato o il presbiterato, ma come adesione a un
ideale che chiede il dono totale di sé a Cristo.
Aggiungiamo che con questo impegno, anteriore all’ordinazione, i religiosi possono aiutare i
Sacerdoti diocesani a comprendere meglio e ad apprezzare maggiormente il valore del celibato. Si
deve auspicare che, lungi dal porre in dubbio la fondatezza di tale scelta, essi incoraggino i
Sacerdoti diocesani alla fedeltà in questo campo. È una bella e santa funzione ecclesiale, svolta
dagli Istituti religiosi, oltre i loro confini, a favore di tutta la comunità cristiana.
L’appartenenza a un Istituto religioso permette al Sacerdote di vivere più radicalmente la povertà
evangelica. Infatti è la vita in comune che consente ai membri dell’Istituto di rinunciare ai loro beni
personali, mentre, normalmente, il Sacerdote diocesano deve provvedere personalmente al proprio
sostentamento. Vi è dunque da auspicare e da attendersi dai Sacerdoti religiosi una testimonianza
sempre più visibile di povertà evangelica, che, oltre a sostenerli nel loro cammino verso la
perfezione della carità, possa incoraggiare i Sacerdoti diocesani a cercare i modi pratici di vivere
una vita più povera, specialmente con la messa in comune di certe risorse.
Infine, il voto di obbedienza dei religiosi è destinato ad esercitare un benefico influsso sul loro
atteggiamento nel ministero sacerdotale, stimolandoli alla sottomissione nei riguardi dei superiori
della comunità che li aiuta, alla comunione dello spirito di fede con coloro che rappresentano per
essi la volontà divina, al rispetto dell’autorità dei Vescovi e del Papa nell’adempimento del sacro
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ministero. Vi è dunque da auspicare e da attendersi dai Sacerdoti religiosi non solo un’obbedienza
formale alla gerarchia della Chiesa, ma uno spirito di leale, amichevole e generosa cooperazione
con essa. Con la loro formazione all’obbedienza evangelica, essi possono superare più facilmente le
tentazioni di ribellione, di critica sistematica, di sfiducia, e riconoscere nei Pastori l’espressione di
un’autorità divina. Anche questo è un valido aiuto che, come si legge nel Decreto Christus Dominus
del Concilio Vaticano II, i religiosi sacerdoti possono e devono recare ai sacri Pastori della Chiesa
oggi come in passato e più ancora per l’avvenire, “date le aumentate necessità delle anime... e le
accresciute necessità dell’apostolato” (Christus Dominus, 34).
4. E ancora: i Sacerdoti religiosi possono manifestare, per mezzo della loro vita in comunità, la
carità che deve animare il Presbiterio. Secondo l’intenzione espressa da Cristo nell’Ultima Cena, il
precetto del reciproco amore è legato alla consacrazione sacerdotale. Nei rapporti di comunione
stretti in funzione della perfezione della carità, i religiosi possono testimoniare l’amore fraterno che
unisce coloro che esercitano, in nome di Cristo, il ministero sacerdotale. E chiaro che questo amore
fraterno deve caratterizzare anche le loro relazioni con i Sacerdoti diocesani e con i membri di
Istituti diversi dal proprio. Questa è la fonte da cui può derivare l’“ordinata collaborazione”
raccomandata dal Concilio (cf. Christus Dominus, 35.5).
5. Sempre secondo il Concilio, i religiosi sono più profondamente impegnati nel servizio alla
Chiesa, in virtù della loro consacrazione concretizzata nella professione dei consigli evangelici (cf.
Lumen Gentium, 44). Questo servizio consiste soprattutto nella preghiera, nelle opere di penitenza e
nell’esempio offerto con la vita, ma anche nella partecipazione “alle opere esterne dell’apostolato,
tenuta presente la caratteristica propria di ogni Istituto” (Decreto Christus Dominus, 33). Per questa
loro partecipazione alla cura delle anime e alle opere di apostolato sotto l’autorità dei sacri Pastori, i
Sacerdoti religiosi quindi “sono da considerare come appartenenti al clero diocesano” (Christus
Dominus, 34), e devono quindi “esercitare il loro compito in modo da divenire aiutanti dei Vescovi”
(Christus Dominus, 35.1), ma conservando “lo spirito del loro Istituto” e restando fedeli
all’osservanza della loro regola (Christus Dominus, 35. 2).
C’è da auspicare che mediante l’opera dei Sacerdoti religiosi si attuino sempre più nelle diocesi e
nella Chiesa intera l’unità e la concordia che Gesù ha chiesto per tutti coloro che accettano di
essere, come lui, “consacrati nella verità” (Gv 17, 17) e rifulga così nel mondo l’imago Ecclesiae
Caritatis!
PROFESSIONE DI FEDE
(Formula da usarsi nei casi in cui è prescritta la professione di fede)
Io N.N. credo e professo con ferma fede tutte e singole le verità che sono contenute nel Simbolo
della fede, e cioè:
Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e
invisibili. Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di
tutti i secoli: Dio da Dio, Luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa
sostanza del Padre; per mezzo di lui tutte le cose sono state create. Per noi uomini e per la nostra
salvezza discese dal cielo, e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine
Maria e si è fatto uomo. Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto. Il terzo giorno è
risuscitato, secondo le Scritture, è salito al cielo, siede alla destra del Padre. E di nuovo verrà, nella
gloria, per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine.
Credo nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita e procede dal Padre e dal Figlio. Con il Padre e
il Figlio è adorato e glorificato, e ha parlato per mezzo dei profeti.
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Credo la Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica. Professo un solo battesimo per il perdono dei
peccati. Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà. Amen.
Credo pure con ferma fede tutto ciò che è contenuto nella Parola di Dio scritta o trasmessa e che la
Chiesa, sia con giudizio solenne sia con magistero ordinario e universale, propone a credere come
divinamente rivelato.
Fermamente accolgo e ritengo anche tutte e singole le verità circa la dottrina che riguarda la fede o i
costumi proposte dalla Chiesa in modo definitivo.
Aderisco inoltre con religioso ossequio della volontà e dell’intelletto agli insegnamenti che il
Romano Pontefice o il Collegio dei Vescovi propongono quando esercitano il loro magistero
autentico, sebbene non intendano proclamarli con atto definitivo.
GIURAMENTO DI FEDELTÀ
NELL’ASSUMERE UN UFFICIO
DA ESERCITARE A NOME DELLA CHIESA
(Formula da usarsi da tutti i fedeli indicati nel can. 833 nn. 5-8)
Io N.N. nell’assumere l’ufficio di... prometto di conservare sempre la comunione con la Chiesa
cattolica, sia nelle mie parole che nel mio modo di agire.
Adempirò con grande diligenza e fedeltà i doveri ai quali sono tenuto verso la Chiesa, sia universale
che particolare, nella quale, secondo le norme del diritto, sono stato chiamato a esercitare il mio
servizio.
Nell’esercitare l’ufficio, che mi è stato affidato a nome della Chiesa, conserverò integro e
trasmetterò e illustrerò fedelmente il deposito della fede, respingendo quindi qualsiasi dottrina ad
esso contraria.
Seguirò e sosterrò la disciplina comune a tutta la Chiesa e curerò l’osservanza di tutte le leggi
ecclesiastiche, in particolare di quelle contenute nel Codice di Diritto Canonico.
Osserverò con cristiana obbedienza ciò che i sacri Pastori dichiarano come autentici dottori e
maestri della fede o stabiliscono come capi della Chiesa, e presterò fedelmente aiuto ai Vescovi
diocesani, perché l’azione apostolica, da esercitare in nome e per mandato della Chiesa, sia
com-piuta in comunione con la Chiesa stessa.
Così Dio mi aiuti e questi santi Vangeli che tocco con le mie mani.
(Variazioni del paragrafo quarto e quinto della formula di giuramento da usarsi dai fedeli indicati
nel can. 833 n. 8)
Sosterrò la disciplina comune a tutta la Chiesa e promuoverò l’osservanza di tutte le leggi
ecclesiastiche, in particolare di quelle contenute nel Codice di Diritto Canonico.
Osserverò con cristiana obbedienza ciò che i sacri Pastori dichiarano come autentici dottori e
maestri della fede o stabiliscono come capi della Chiesa, e in unione con i Vescovi diocesani, fatti
salvi l’indole e il fine del mio Istituto, presterò volentieri la mia opera perché l’azione apostolica, da
esercitare in nome e per mandato della Chiesa, sia compiuta in comunione con la Chiesa stessa.
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GIOVANNI PAOLO II
Lettera Apostolica data Motu Proprio AD TUENDAM FIDEM, con la quale vengono
inserite alcune norme nel Codice di Diritto Canonico e nel Codice dei Canoni delle Chiese
Orientali
PER DIFENDERE LA FEDE della Chiesa Cattolica contro gli errori che insorgono da parte di
alcuni fedeli, soprattutto di quelli che si dedicano di proposito alle discipline della sacra teologia, è
sembrato assolutamente necessario a Noi, il cui compito precipuo è confermare i fratelli nella fede
(cf Lc 22, 32), che nei testi vigenti del Codice di Diritto Canonico e del Codice dei Canoni delle
Chiese Orientali vengano aggiunte norme con le quali espressamente sia imposto il dovere di
osservare le verità proposte in modo definitivo dal Magistero della Chiesa, facendo anche menzione
delle sanzioni canoniche riguardanti la stessa materia.
1. Fin dai primi secoli sino al giorno d'oggi la Chiesa professa le verità sulla fede di Cristo e sul
mistero della Sua redenzione, che successivamente sono state raccolte nei Simboli della fede; oggi
infatti esse vengono comunemente conosciute e proclamate dai fedeli nella celebrazione solenne e
festiva delle Messe come Simbolo degli Apostoli oppure Simbolo Niceno-Costantinopolitano.
Lo stesso Simbolo Niceno-Costantinopolitano è contenuto nella Professione di fede, ultimamente
elaborata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede(1), che in modo speciale viene imposta a
determinati fedeli da emettere quando questi assumono un ufficio relativo direttamente o
indirettamente alla più profonda ricerca nell’ambito delle verità circa la fede e i costumi oppure
legato a una potestà peculiare nel governo della Chiesa(2).
2. La Professione di fede, preceduta debitamente dal Simbolo Niceno-Costantinopolitano, ha inoltre
tre proposizioni o commi che intendono esplicare le verità della fede cattolica che la Chiesa, sotto la
guida dello Spirito Santo che Le «insegnerà tutta la verità» (Gv 16, 13), nel corso dei secoli ha
scrutato o dovrà scrutare più profondamente(3).
Il primo comma che enuncia: «Credo pure con ferma fede tutto ciò che è contenuto nella parola di
Dio scritta o trasmessa e che la Chiesa, sia con giudizio solenne sia con magistero ordinario e
universale, propone a credere come divinamente rivelato»(4), convenientemente afferma e ha il suo
disposto nella legislazione universale della Chiesa nei cann. 750 del Codice di Diritto Canonico(5)
e 598 del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali(6).
Il terzo comma che dice: «Aderisco inoltre con religioso ossequio della volontà e dell'intelletto alle
dottrine che il Romano Pontefice o il Collegio dei Vescovi propongono quando esercitano il loro
magistero autentico, sebbene non intendano proclamarle con atto definitivo»(7), trova il suo posto
nei cann. 752 del Codice di Diritto Canonico(8) e 599 del Codice dei Canoni delle Chiese
Orientali(9).
3. Tuttavia, il secondo comma in cui si afferma: «Fermamente accolgo e ritengo anche tutte e
singole le verità circa la dottrina che riguarda la fede o i costumi proposte dalla Chiesa in modo
definitivo»(10), non ha alcun canone corrispondente nei Codici della Chiesa Cattolica. È di
massima importanza questo comma della Professione di fede, dal momento che indica le verità
necessariamente connesse con la divina rivelazione. Queste verità, che nell’esplorazione della
dottrina cattolica esprimono una particolare ispirazione dello Spirito di Dio per la comprensione più
profonda della Chiesa di una qualche verità che riguarda la fede o i costumi, sono connesse sia per
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ragioni storiche sia come logica conseguenza.
4. Spinti perciò da detta necessità abbiamo opportunamente deliberato di colmare questa lacuna
della legge universale nel modo seguente:
A) Il can. 750 del Codice di Diritto Canonico d’ora in poi avrà due paragrafi, il primo dei quali
consisterà del testo del canone vigente e il secondo presenterà un testo nuovo, cosicché nell’insieme
il can. 750 suonerà:
Can. 750 - § 1. Per fede divina e cattolica sono da credere tutte quelle cose che sono contenute nella
parola di Dio scritta o tramandata, vale a dire nell'unico deposito della fede affidato alla Chiesa, e
che insieme sono proposte come divinamente rivelate, sia dal magistero solenne della Chiesa, sia
dal suo magistero ordinario e universale, ossia quello che è manifestato dalla comune adesione dei
fedeli sotto la guida del sacro magistero; di conseguenza tutti sono tenuti a evitare qualsiasi dottrina
ad esse contraria.
§ 2. Si devono pure fermamente accogliere e ritenere anche tutte e singole le cose che vengono
proposte definitivamente dal magistero della Chiesa circa la fede e i costumi, quelle cioè che sono
richieste per custodire santamente ed esporre fedelmente lo stesso deposito della fede; si oppone
dunque alla dottrina della Chiesa cattolica chi rifiuta le medesime proposizioni da tenersi
definitivamente.
Nel can. 1371, n. 1 del Codice di Diritto Canonico sia congruentemente aggiunta la citazione del
can. 750 § 2, cosicché lo stesso can. 1371 d’ora in poi nell’insieme suonerà:
Can. 1371 - Sia punito con una giusta pena:
1) chi oltre al caso di cui nel can. 1364 § 1, insegna una dottrina condannata dal Romano Pontefice
o dal Concilio Ecumenico oppure respinge pertinacemente la dottrina di cui nel can. 750 § 2 o nel
can. 752, ed ammonito dalla Sede Apostolica o dall'Ordinario non ritratta;
2) chi in altro modo non obbedisce alla Sede Apostolica, all'Ordinario o al Superiore che
legittimamente gli comanda o gli proibisce, e dopo l'ammonizione persiste nella sua disobbedienza.
B) Il can. 598 del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali d’ora in poi avrà due paragrafi, dei
quali il primo consisterà del testo del canone vigente e il secondo presenterà un testo nuovo,
cosicché nell’insieme il can. 598 suonerà:
Can. 598 - § 1. Per fede divina e cattolica sono da credere tutte quelle cose che sono contenute nella
parola di Dio scritta o tramandata cioè nell'unico deposito della fede affidato alla Chiesa, e che
insieme sono proposte come divinamente rivelate sia dal magistero solenne della Chiesa, sia dal suo
magistero ordinario e universale, ossia quello che è manifestato dalla comune adesione dei fedeli
sotto la guida del sacro magistero; di conseguenza tutti i fedeli curino di evitare qualsiasi dottrina
che ad esse non corrisponda.
§ 2. Si devono pure fermamente accogliere e ritenere anche tutte e singole le cose che vengono
proposte definitivamente dal magistero della Chiesa circa la fede e i costumi, quelle cioè che sono
richieste per custodire santamente ed esporre fedelmente lo stesso deposito della fede; si oppone
dunque alla dottrina della Chiesa cattolica chi rifiuta le medesime proposizioni da tenersi
definitivamente.
Nel can. 1436 del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali si aggiungano convenientemente le
parole che si riferiscono al can. 598 § 2, cosicché nell’insieme il can. 1436 suonerà:
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Can. 1436 - § 1. Colui che nega una verità da credere per fede divina e cattolica o la mette in dubbio
oppure ripudia totalmente la fede cristiana e legittimamente ammonito non si ravvede, sia punito
come eretico o come apostata con la scomunica maggiore; il chierico può essere punito inoltre con
altre pene, non esclusa la deposizione.
§ 2. All'infuori di questi casi, colui che respinge pertinacemente una dottrina proposta da tenersi
definitivamente o sostiene una dottrina condannata come erronea dal Romano Pontefice o dal
Collegio dei Vescovi nell'esercizio del magistero autentico e legittimamente ammonito non si
ravvede, sia punito con una pena adeguata.
5. Ordiniamo che sia valido e ratificato tutto ciò che Noi con la presente Lettera Apostolica data
Motu Proprio abbiamo decretato e prescriviamo che sia inserito nella legislazione universale della
Chiesa Cattolica, rispettivamente nel Codice di Diritto Canonico e nel Codice dei Canoni delle
Chiese Orientali così come è stato sopra dimostrato, nonostante qualunque cosa in contrario.
Roma, presso san Pietro, 18 maggio 1998, anno ventesimo del Nostro Pontificato.
GIOVANNI PAOLO II
VITA CONSACRATA E MINISTERO ORDINATO
La condizione attuale del presbitero religioso
di Rossano Zas Friz De Col S.I. in Rivista di teologia 45 (2004) 54-61
Nell’anno 2000 M. Costa S.I. pubblica un lungo articolo che contribuisce a fare luce sul rapporto tra VC e
MO (nota 50). In effetti, questo rapporto è un problema esistenziale che riguarda l’unità di vita del presbitero
religioso: è forse la sua una duplice vocazione, quella di essere presbitero e religioso insieme? Costa parte
dalla considerazione generale che «non dobbiamo pensare che sia il sacerdozio a determinare il carisma
ecclesiale di un Istituto di vita religiosa, semmai è piuttosto il carisma ecclesiale dell’Istituto, ben più ricco e
complesso, ad indicare il modo in cui il religioso deve essere sacerdote» (57).
Una prima distinzione attinente per chiarire il rapporto tra MO e VC è prendere coscienza che ogni sacerdote
ha ricevuto contemporaneamente all’ordinazione l’incardinazione, cioè è stato inserito in un contesto storico,
sociale ed ecclesiale determinato nel quale eserciterà concretamente il suo ministero. Per questa ragione non
si deve «identificare il carisma del ministero sacerdotale con il carisma della secolarità diocesana» (58),
13
perché il MO si può concretizzare come un carisma diocesano o religioso, a seconda di dove è incardinato il
presbitero (chiesa locale o istituto religioso). Come conseguenza di questa impostazione avremo che il
presbitero diocesano è ugualmente invitato a cercare l’unità vitale tra MO e incardinazione, per non falsare la
propria vocazione. Per quanto riguarda il rapporto tra MO e VC si può anche sostenere che un religioso è
presbitero o che un presbitero è religioso. Nel primo caso (religioso presbitero) si distingue tra due religiosi,
uno presbitero e l’altro no, mentre nel secondo (presbitero religioso) si dice che il presbitero è religioso e non
diocesano.
Una seconda distinzione importante va fatta nell’ambito della vita consacrata. La VC, di per sé, non è né
clericale né laicale, ma un Istituto è o clericale o laicale (CIC 588, § 1). Gli istituti clericali interpretano il
MO come essenziale alla loro identità, anche se non tutti i membri sono ordinati e non è sufficiente per la
loro identità il semplice esercizio ministeriale perché lo si deve realizzare in armonia con un determinato
stile di vita: «Negli Istituti strettamente sacerdotali, come per esempio la Compagnia di Gesù, la
sacerdotalità prima di essere una questione di ministeri da espletare e da scegliere, consiste in uno stile di
vita e in uno spirito che in-forma (= dà forma a) ogni attività e missione facendola essere ministero, e che
pertanto, se forse nella sua forma più evidente si esprime in ministeri particolari, non necessariamente ad
essi si riduce. I ministeri cosiddetti sacerdotali sono attività e modelli archetipi del servizio apostolico
sacerdotale che il sacerdote religioso rende a servizio della missione apostolica della Chiesa» (64).
Si potrebbe porre però ancora un’altra distinzione negli Istituti di VC. I religiosi sacerdoti sono quelli che
assumono la dimensione sacerdotale in modo più esterno, come un ministero, come una dimensione che si
aggiunge alle altre della VC; il MO è al servizio della realizzazione della particolare vocazione apostolica
dell’istituto. La dimensione sacerdotale è subordinata alla vocazione religiosa.
Invece i sacerdoti religiosi interpretano la loro sacerdotalità come il principio che dà unità e senso alla vita
personale e comunitaria (nota 51).
L’autore, nella n. 19, fa una digressione molto interessante sul modo in cui ogni istituto è segnato dalle sue
origini. Pone come esempio il caso della Compagnia di Gesù. Ignazio de Loyola seppe raggruppare intorno a
sé giovani studenti di teologia che, una volta ordinati, lo elessero capo del loro corpo.
Allo stesso modo, nel percorso formativo-incorporativo alla Compagnia, la professione si realizza dopo
l’ordinazione. Questa pratica è in contrasto con il Codice di Diritto Canonico (cc. 265, 266, 1019, 1037), il
quale suppone esattamente il contrario: il religioso, per essere ordinato, deve essere pienamente incorporato
al suo istituto. Secondo Costa, questo fatto mostra l’attuale preferenza della Chiesa per il religioso sacerdote;
come conseguenza c’è una maggiore difficoltà per comprendere la figura del sacerdote religioso. Tuttavia la
«minore stima e considerazione in cui è oggi tenuta la vita religiosa clericale nella Chiesa stessa non deve e
non può, però, in nessun modo giustificare il mettere tra parentesi, da parte degli Istituti clericali, il
carattere sacerdotale del carisma degli Istituti clericali, o addirittura, la rinuncia ad esso per una falsa
concezione di aggiornamento o di adattamento alle particolari circostanze di tempo e di luogo che oggi si
verificano» (66-67).
Una terza distinzione tra MO e VC si può stabilire a livello della persona. In un religioso sacerdote o in un
sacerdote religioso si creano diversi poli di tensione. Il primo è quello che nasce a partire dal connubio tra il
sacramento ricevuto e la vocazione religiosa. Un secondo polo è quello che riflette la tensione che si produce
tra lo stile diocesano e quello religioso e che a un livello più generale si manifesta come tensione tra la
Chiesa universale e la Chiesa particolare. Il clero religioso ha una visione universale del suo apostolato
locale, mentre il clero diocesano ha una visione locale della sua missione, in un orizzonte universale (la
Chiesa). Ma questa tensione tra particolare e universale opera anche all’interno della relazione MO-VC,
perché il sacerdote religioso ha una visione più universale, mentre il religioso sacerdote ha una visione più
locale: del primo è più normale essere nelle frontiere, del secondo, al contrario, rimanere in un posto fisso (cf
76).
Ma il sacerdote religioso vive ancora un terzo polo di tensione: quella che si compie tra MO e il carisma del
suo Istituto, tra il carisma e l’istituzione. Ambedue danno forma alla sua vocazione: per il carisma è un
sacerdote di una particolare spiritualità, per l’istituzione risulta un uomo che ha ricevuto una missione. La
VC e gli Istituti clericali sono un carisma per l’Istituzione ecclesiale gerarchica: essendo diversi sono
complementari. In ugual modo per il sacerdote religioso le due dimensioni formano parte della sua unica
vocazione carismatica (religiosa) e ministeriale (gerarchica). Se la gerarchia ordina l’azione
carismatica della VC, allo stesso modo nel sacerdote religioso il MO sarà ordinamento istituzionale
per l’azione carismatica della sua consacrazione religiosa (nota 52).
Per queste ragioni Costa afferma che «la vocazione ecclesiale del prete membro di un Istituto religioso è una
realtà originale e unitaria che preesiste sia alla sua ordinazione sacerdotale, sia alla sua consacrazione
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attraverso la professione dei voti» (81). Considerando perciò questa particolare chiamata dal punto di vista
ecclesiale, essa ha un legittimo diritto di cittadinanza nella Chiesa. Ma se la si considera dalla prospettiva
dell’Istituto o del membro particolare, bisogna distinguere tra il sacerdote religioso e il religioso sacerdote.
Non è sufficiente semplicemente mettere insieme due poli (MO e VC), bisogna sfumarli perché
rappresentano due carismi ecclesiali diversi. Sarà impegno di ogni Istituto particolare chiarificare la sua
peculiare vocazione ecclesiale: «nella Chiesa di Cristo ha diritto di cittadinanza non solo la presenza della
vocazione sacerdotale e quella della vocazione alla consacrazione religiosa separatamente considerate, non
solo la presenza all’interno del presbiterio diocesano o della fraternità tra sacerdoti a livello universale di
un clero diocesano e di un clero regolare, ma, all’interno stesso di questo, hanno diritto di cittadinanza la
figura del “sacerdote religioso” e quella del “religioso Sacerdote” (84).
L’evidente diversità dei carismi ecclesiali deve essere vista come una ricchezza: tra essi figura la particolare
vocazione all’integrazione del MO con la VC. La condizione per tale realizzazione è che entrambe le
dimensioni vengano vissute come complementari e funzionali verso un’unità vitale distinta da quella che si
vive quando quelle dimensioni si realizzano separatamente. In caso contrario sarebbe impossibile parlare di
una particolare vocazione ecclesiale.
In conclusione, se è vero quanto si è sostenuto, bisogna ritornare ancora alla prima distinzione tra
ordinazione e incardinazione. In quanto all’incardinazione religiosa c’è da considerare il particolare carisma
di ogni Istituto (se è più religioso-sacerdotale o più sacerdotale-religioso) in modo tale che il singolo membro
sia stimolato chiaramente verso un’integrazione di vita nella vocazione dell’Istituto al quale appartiene (nota
53).
Nello stesso anno 2000, Severino Dianich ha pubblicato un articolo in cui si propone «di studiare dal punto
di vista teologico la complessa e problematica composizione nella stessa persona di componenti molteplici
ed anche disparate tra loro» (nota 54). Si riferisce al presbitero religioso in quanto egli ha una vocazione
comune a tutti i battezzati, ma la vive in un modo particolare, come consacrato a Dio in un istituto mediante
la professione di voti, a cui si aggiunge l’esercizio del ministero ordinato vissuto secondo il carisma
dell’istituto d’appartenenza. La sua considerazione si rivolge esclusivamente ai membri ordinati degli istituti
religiosi (cf CIC 607, § 2) (nota 55), escludendo gli istituti secolari.
Dianich, dopo una seria considerazione sulla pluralità dei carismi e dei ministeri nella vita cristiana,
conclude che «il problema del rapporto fra vita consacrata e tutti i possibili ministeri, compreso il ministero
ordinato, può essere posto e risolto solo all’interno delle diverse istituzioni, perché antecedentemente ad esse
è aperto a qualsiasi soluzione» (386). L’unica realtà, per così dire, che rimane comune a tutte le vocazioni
nella Chiesa è quella dell’evangelizzazione (cf 386-394).
Non è pensabile oggi che un presbitero religioso eserciti il suo ministero rivolgendosi esclusivamente alla
cura delle anime del proprio territorio (la parrocchia, per esempio). Il suo deve essere un ministero ad gentes,
missionario, superando così la concezione tradizionale del presbitero diocesano chiuso nella sua comunità di
credenti e centrato soltanto in un compito liturgico-cultuale senza un’attiva partecipazione nella predicazione
e nell’evangelizzazione (nota 56). Data la realtà sociale e religiosa attuale, il Ministero Ordinato dovrebbe
essere articolato in modo diverso: «Penso soprattutto ad un ministero tradizionale, di carattere più statico e
più legato alla cura di comunità stabili, ad un ministero che si muova con più agilità all’interno della chiesa
locale, destinato soprattutto al contatto con gli ambienti lontani dalla fede, e infine ad un ministero di tipo
itinerante» (392).
Le caratteristiche elencate per ultimo hanno identificato durante i secoli i preti religiosi: «Il carattere
dell’itineranza, la disponibilità alla varietà e mobilità delle forme del ministero, la possibilità di impegni più
elastici e meglio articolati sono valori ben noti, caratteristici dei preti religiosi» (393-394). Tuttavia essi
realizzano la loro missione evangelizzatrice all’interno di una visione universale della Chiesa e non è
pensabile che la attuino «senza legami di dipendenza da alcuna chiesa locale» (392) (nota 57).
Secondo Dianich la situazione oggi sarebbe più o meno questa: da una parte, i preti diocesani hanno
riscoperto la dimensione missionaria del loro MO, sia a livello parrocchiale o diocesano, sia a livello di
missione esterna; da un’altra, è impensabile che i preti religiosi possano realizzare un’evangelizzazione
universale se questa non avviene in una chiesa locale. Così, non è detto che i diocesani debbano essere
costretti a esercitare il loro ministero diocesano nell’ambito del territorio in cui sono incardinati, mentre è
detto che i religiosi non possono esercitare il loro ministero universale se non incardinati in una chiesa
locale. In effetti:
«Nella visione ecclesiologica del Vaticano II, tutta la ricchezza della cattolicità risiede nella chiesa locale
ed è operante dal suo interno. Del resto, lo stesso ministero papale non è un ministero della chiesa
universale, se non a partire dal fatto che il papa è vescovo della chiesa locale di Roma. Il papato non è un
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grado del sacramento dell’ordine superiore all’episcopato e, pur con il suo singolare carisma e le sue
particolari prerogative, è e resta un ministero episcopale.
Il quadro ecclesiologico globale, quindi, sembra esigere un ancoramento di ogni ministero ordinato ad una
chiesa locale: non per niente è dal vescovo che il prete riceve l’imposizione delle mani. Il ministero viene dal
sacramento ed ha bisogno di restare ancorato al sacramento, non di vagare nello spazio aperto di una
giurisdizione universale» (394).
Da queste considerazioni l’autore arriva a quello che possiamo ritenere il quid dello status questionis: il
presbitero religioso non può appartenere al presbiterio di una chiesa locale che si raduna intorno al suo
vescovo per celebrare l’Eucaristia e poi svolgere il suo ministero «esclusivamente nel quadro giurisdizionale
della chiesa universale» (ivi). Oggi non si può più pensare nei termini di una doppia appartenenza: «quella
dell’ordine sacramentale alla chiesa locale e quella dell’ordine giurisdizionale alla chiesa universale» (ivi)
(nota 58). Certamente la celebrazione eucaristica non è l’unico servizio - anche se ne è il punto culminante che il ministro ordinato, sia diocesano che religioso, compie a favore della chiesa locale. Il coinvolgimento
integrale del MO a favore della comunità implica la sua cura pastorale e l’evangelizzazione all’esterno di
essa. Perciò il rapporto del presbitero con la comunità che evangelizza e per cui celebra l’Eucaristia «è un
rapporto che lo impegna alla totalità della dedizione pastorale. [...] In forza del suo carisma sacramentale il
prete appartiene alla comunità nella quale egli è posto, con il vescovo e in dipendenza dal vescovo, come il
garante dell’unità nell’unica fede e nell’unica eucaristia» (397). Dianich ammette la validità del “ruolo
eucaristico” del presbitero dove manca “l’esercizio del ministero pastorale”, ma si tratta di un caso limite.
Ammettere questa situazione come “normale” «significherebbe inferire un vulnus non solo alla concezione
del ministero ordinato, ma anche a tutto l’equilibrio sacramentale che si gioca essenzialmente sulla
circolarità fra rito e vita, segno e significato e che non permette cortocircuiti fra sacramento e sacramento.
Uno di questi cortocircuiti si verificherebbe qualora pensassimo il sacramento dell’ordine destinato alla
celebrazione eucaristica senza passare attraverso la mediazione di una vita dedicata all’edificazione della
comunità» (398).
L’autore conclude l’articolo affermando che sebbene il problema rimanga aperto, tuttavia nel futuro la chiesa
dovrà fare una scelta tra il primato dell’ordinamento sacramentale e il primato dell’ordinamento
giurisdizionale (nota 59).
Note:
(50) Cf M. Costa, «”Sacerdote-religioso” o/e “Religioso-sacerdote”? Vocazione al sacerdozio e vocazione
alla vita religiosa negli Istituti di vita consacrata», in Informationes SCRIS 26 (2000) 55-87.
(51) «Nel secondo caso, invece, anche quando l’Istituto fosse impegnato in maniera considerevole nel campo
della promozione della giustizia e un buon numero dei suoi membri sacerdoti quasi solo episodicamente di
fatto esercitassero un ministero pastorale strettamente legato al sacramento dell’Ordine, la dimensione
sacerdotale della vocazione del religioso viene ad integrarsi in un rapporto dialettico con la sua
consacrazione religiosa al di là di un rapporto mezzo/ fine o di subordinazione dell’una verso l’altra.
Bisognerà, però che la vita dell’Istituto nel suo insieme come corpo-uno e, conseguentemente, quella di tutti
i suoi membri in quanto partecipi del suo carisma, qualunque sia la concreta missione loro affidata
dall’ubbidienza, sia vissuta ad un profondo livello di interiorità. Questo, poi, dovrà essere tanto più profondo
e intensamente vissuto quanto più l’attualizzazione della missione si situi all’esterno, su un piano più
propriamente secolare e lontano dall’esercizio del ministero sacerdotale esclusivo e proprio di coloro che
hanno ricevuto il sacramento dell’Ordine. Solo in tal modo sarà possibile che la configurazione a Cristo
capo, pastore e sposo, e la carità pastorale impregnino, motivino e creino il clima per tutta la loro esistenza e
operatività, che potrà allora diventare sorgente di santificazione secondo le linee del carisma confidato e
trasmesso dal fondatore» (M. Costa, «”Sacerdote-religioso”....», cit., 65-66).
(52) L’autore continua a sviluppare il tema sotto il profilo dell’integrazione personale delle due dimensioni
(MO e VC) nel discernimento spirituale, sviluppo che sfugge al nostro interesse immediato.
Tuttavia, l’unità tra MO e VC si realizza, secondo Costa, non soltanto per opera dell’intelligenza e della
volontà, ma anche dell’affettività, la quale ha un ritmo proprio, quello della maturazione psico spirituale.
Perciò è dell’idea che insieme ad un’ortodossia e ad un’ortoprassi si dovrebbe aggiungere un’ortopatia (cf
M. Costa, «”Sacerdote-religioso”...», cit., 79).
(53) «Ponendoci nella prospettiva della singola persona, ci è sembrato più esatto parlare di dimensione
sacerdotale e di dimensione religiosa di un’unica vocazione a partire dalla quale - come da un “tutto” che
precede - si ridiscende a considerare i due poli come parti che si possono distinguere ma non separare,
piuttosto che di due vocazioni diverse e separate che preesistono all’unità di vita» (M. Costa, «”Sacerdote-
16
religioso”...», cit., 87).
(54) S. Dianich, «Ministeri e ministero ordinato nella vita dei religiosi», in Homo Vivens 11 (2000) 377-400,
qui 377. «La figura del prete religioso è qualificata da due connotazioni non omologhe, in quanto l’essere
prete dice un ministero che può essere esercitato in diversi stati di vita, mentre l’essere religioso dice uno
stato di vita nel quale possono essere esercitati i più diversi ministeri» (380).
(55) «Comunque la questione dovrà essere collocata nel quadro più ampio del rapporto esistente nella vita
del religioso fra il suo stato di “consacrato” e il ministero, qualunque esso sia, che egli esercita» (S. Dianich,
«Ministeri e ministero ordinato nella vita dei religiosi», cit., 380).
(56) Le parole di Dianich sono pertinenti relativamente a questa concezione tradizionale del ministero
presbiterale: «In questo quadro [tradizionale] i religiosi si sono affermati come i missionari mandati dal papa
ad evangelizzare nuovi popoli. Il ministero ordinato del prete comune, inoltre, per la carenza di una sua
dimensione missionaria, si ritrovava totalmente concentrato nelle sue funzioni cultuali: la sua
caratterizzazione sacrale esauriva il suo carisma al punto che il compito della predicazione sembrava non
appartenergli neppure all’interno della sua comunità, dove saranno chiamati a predicare preti religiosi, sulla
scia di una tradizione aperta dai mendicanti. In questo quadro la legislazione canonica riservava
esclusivamente al papa la responsabilità dell’attività missionaria (cf CIC [1917] 1350 § 2)» (S. Dianich,
«Ministeri e ministero ordinato nella vita dei religiosi», cit., 391-392.
(57) E poi aggiunge: «Le ragioni che giustificano l’istituto della esenzione dei religiosi dalla giurisdizione
del vescovo sono tali da farlo apparire quasi ovvio quando riguarda la vita interna delle comunità religiose e
le attività dei religiosi non pertinenti al ministero ordinato. Dire che i religiosi in questi ambiti non
dipendono dall’autorità diocesana è quasi come dire che i laici sono esenti dalla giurisdizione del vescovo
nella loro vita familiare e nella loro attività professionale. Ma se hanno ricevuto da un vescovo l’imposizione
delle mani e sono parte di un presbiterio, non si vede come si possa subordinare l’esercizio del loro ministero
alle esigenze interne delle loro istituzioni» (S. Dianich, «Ministeri e ministero ordinato nella vita dei
religiosi», cit., 393).
(58) «Solo una concezione puramente professionale, che riducesse il ministero ordinato ad un mestiere,
potrebbe far pensare il prete come un operatore esterno, che porta alla comunità del popolo di Dio la sua
predicazione e la celebrazione dei sacramenti e poi vive la sua esperienza ecclesiale altrove» (S. Dianich,
«Ministeri e ministero ordinato nella vita dei religiosi», cit., 396). Nella pagina seguente Dianich critica
J.M.R. Tillard perché considera la comunità religiosa del presbitero religioso come “comunità di vita”,
mentre le persone che si aggruppano attorno a lui come frutto del suo ministero formerebbero la sua équipe
de travail.
(59) «Non penso che la soluzione per forza debba assorbire un ordinamento nell’altro, ma che la chiesa
debba in futuro fare una scelta per il primato dell’uno o dell’altro» (S. Dianich, «Ministeri e ministero
ordinato nella vita dei religiosi», cit., 399).
LA SITUAZIONE DEL RELIGIOSO PRESBITERO NELLA CHIESA OGGI
“I religiosi presbiteri: aspetti storici ed elementi teologici”
(Don Erio Castellucci, Diocesi di Forlì-Bertinoro)
L’intervento si struttura attorno ai due elementi del titolo, con l’ovvia premessa che
offrirà solo delle tracce e degli spunti al dibattito.
PRIMA PARTE: PRINCIPALI MODELLI STORICI
17
Le due grandi tradizioni, quella religiosa e quella presbiterale, si sono intrecciate più
volte e bidirezionalmente nella storia della Chiesa: si distinguono infatti processi di
trasferimento del ministero ordinato sui religiosi e processi inversi di trasferimento della
vita e spiritualità religiosa sui ministri ordinati; in alcuni casi, poi, la sintesi è riuscita
talmente bene che è difficile distinguere quale delle componenti rappresenti il perno attorno
al quale ruota l’altra.
PROGRESSIVO INTRECCIO TRA MONACHESIMO E MINISTERO ORDINATO – DAL IV AL
XII SECOLO1
Due forze si misurano in questi otto secoli: quella monastica, che gioca di difesa, e quella
ministeriale, che gioca d’attacco; la prima, all’inizio ben salda nelle sue posizioni, perde
gradualmente terreno e finisce per cedere alla seconda, che alla fine la ingloba in maniera
quasi completa. La metafora sportiva può rendere adeguatamente il complesso gioco di
relazioni tra monachesimo e sacerdozio ministeriale intrecciatosi tra la fine dell’epoca
patristica e il periodo altomedievale. E’ bene partire cavallerescamente dall’ottica degli
sconfitti e poi analizzare le ragioni dei vincitori.
Resistenze iniziali del monachesimo alla clericalizzazione
I primi anacoreti come Antonio e monaci come Pacomio, ritirandosi solitariamente o a
gruppetti nel deserto, prendevano parte all’eucaristia domenicale nei villaggi più vicini alla
loro abitazione e non pensavano minimamente di inserirsi nella tradizione del sacerdozio
ministeriale. Ben presto però la tradizione cenobitica prese il sopravvento su quella
eremitica; le comunità monastiche nel IV secolo crebbero di numero e si dotarono di luoghi
di culto, limitandosi però dapprima a chiedere ai presbiteri locali il servizio sacramentale (in
questo periodo neppure il padre spirituale o l’abate sono ordinati), poi gradualmente
permettendo ad alcuni dei fratelli di essere ordinati presbiteri per i bisogni della comunità;
sono gli ieromonaci, ordinati unicamente per rispondere alle necessità sacramentali del
cenobio2. Permaneva tuttavia una certa riluttanza da parte dei ‘santi uomini’ ad essere
ordinati, con tanto di fuga per non venire presi (gli es. più noti: Pacomio, Gregorio
nazianzeno e Giovanni Crisostomo). L’ordinazione era accettata, nel IV e V secolo, solo
quando la si riteneva necessaria per il proprio monastero o, a titolo eccezionale, per il bene
delle chiese locali; veniva comunque percepita come una ‘eccezione’ rispetto alla tradizione
monastica.
Nel VI sec. Benedetto invitava i suoi discepoli ad essere cauti nell’accettare presbiteri
nelle loro comunità o nel presentare membri della comunità per l’ordinazione, perché
temeva che venisse favorita l’ambizione e che i fratelli venissero distolti dalla pace ascetica;
egli accoglieva i presbiteri disponibili a prendere posto tra gli altri monaci, senza officiare
all’altare (cf. Regula 60,62). E Cassiano, in un passaggio famoso, chiedeva ai monaci di
fuggire con tutte le loro forze dalle donne e dai vescovi (De institutis coenobiorum et de
octo principalium vitiorum remediis 11.18; SC 109,444). La riluttanza verso l’ordinazione
1
Cf. B.E. DALEY, “The ministry of disciples: historical reflections on the role of religious priests”, in
Theological Studies 48 (1987), pp. 616-620; AAVV, “Sacerdozio”, in Dizionario degli Istituti di Perfezione,
vol. VIII, Paoline, Roma 1988, coll. 48-97. In entrambi gli studi il riferimento alle fonti è abbondantissimo:
ad esso rimandiamo.
2
A. SCRIMA, “Sacerdozio”, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, cit., col. 54.
18
da parte dei monaci si spiega non tanto con il senso di indegnità di fronte al ‘tremendo
potere’ del sacerdozio (tema espresso in maniera inarrivabile nel Dialogo sul Sacerdozio di
Giovanni Crisostomo), quanto con il timore di perdere la specificità della propria vocazione
contemplativa, implicante solitudine fisica e mentale, tempo per la meditazione e la
riflessione, e di scadere in un ruolo subalterno rispetto al vescovo del luogo.
E’ considerata ancora costitutiva e benefica ancor oggi dagli orientali – sebbene talvolta
fonte di tensione – la distinzione tra la gerarchia “istituzionale” del ministero e quella
“carismatica” o “spirituale” del monacheismo: si può dire che l’Oriente cristiano ha sempre
mantenuto questa impostazione di principio, tenendo distinte la linea monastica celibataria e
laicale da quella presbiterale e ministeriale, in genere uxorata, e limitandosi a ordinare quasi
esclusivamente coloro che erano necessari per la comunità monastica3; il fatto che i vescovi,
già fin da subito ma poi canonicamente dal IX secolo, siano scelti solo tra i monaci, è
probabilmente dovuto all’intenzione di “riunire, almeno simbolicamente, nella persona del
vescovo, ‘istituzione’ e ‘carisma’, ‘autorità’ e ‘rinuncia’; mentre in Occidente questa stessa
linea è stata mantenuta fin verso l’epoca carolingia, quando invece si affermerà decisamente
quell’ordinazione ‘di massa’ dei monaci che rimarrà costante per molti secoli4.
Graduale resa del monachesimo al ministero ordinato
Come si è arrivati a questa ordinazione monastica ‘di massa’, quando i punti di partenza
erano così chiaramente distinti, e il desiderio monastico di fedeltà al carisma laicale
originario sembrava così ben custodito? Le ragioni del successo che alla fine ebbero gli
attaccanti-sacerdoti contro i difensori-monaci dipendono da una complessa serie di fattori,
alcuni dei quali già accennati. Per cogliere qualche elemento più preciso, possiamo seguire
la scansione proposta da A. De Vogüé5, che ravvisa alla base della clericalizzazione dei
monaci i seguenti fenomeni.
- Monaci inseriti nel clero diocesano. “Nella Chiesa antica, in cui le norme della
formazione clericale sono così poco determinate, l’idea di reclutare chierici in quel corpo
scelto che formavano i monaci doveva imporsi spontaneamente”6; infatti i monaci dal IV
secolo vennero scelti per l’ordinazione con sempre maggiore insistenza a motivo della loro
ottima reputazione, della loro santità ed esperienza nelle cose di Dio. E’ noto come
Agostino prenda monaci del suo monastero per ordinarli chierici e come diversi monaci di
Lérins vengano nominati vescovi, attingendo poi a loro volta chierici per le loro diocesi da
quello stesso monastero di cui essi avevano fatto parte (famoso in questo Fulgenzio di
Ruspe). Il fenomeno divenne spesso fonte di tensione, se è vero che un Concilio del 449-61
ad Arles stabilisce che per l’ordinazione di un monaco è richiesto il consenso dell’abate:
norma che i papi dell’alto medievo, pur favorendo la prassi di tali ordinazioni,
richiameranno più d’una volta.
- Chierici riuniti in comunità monastiche. Il vescovo Eusebio di Vercelli vive in una
comunità di chierici che sono allo stesso tempo monaci; Agostino fonda due monasteri: uno,
3
“Per l’Oriente cristiano, vocazione monastica e ministero sacerdotale rappresentano due elementi
completamente distinti di vita cristiana e di struttura ecclesiale” (Ibid., 53).
4
Cf. G. ROCCA, “Sacerdozio”, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, cit., coll. 48-49.
5
A. DE VOGÜE’, “Sacerdozio”, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, cit., coll. 55-77. Per la
documentazione puntuale rimandiamo a questo studio.
6
Ibid., col. 56.
19
quando era ancora presbitero, di tipo laicale e l’altro, ormai da vescovo (dopo avere
trasmesso la guida del primo ad un preposto laico), di tipo clericale; il vescovo Agostino
prende più di un chierico dal suo primo monastero, inserendolo così nel secondo (il suo
“presbiterio”). Anche Basilio di Cesarea, Ilario di Arles, Fulgenzio di Ruspe, Agostino di
Canterbury e altri vivranno in comunità miste di chierici e monaci e le alimenteranno con
ordinazioni monastiche. Questo modello, come è noto, giocherà un ruolo determinante in
Gallia, Britannia e Irlanda, dove il cristianesimo si plasmerà attorno ai monasteri in modo
ancora più deciso che nel sud Europa, e il clero delle diocesi verrà raccolto in comunità di
tipo monastico guidate dal vescovo-abate.
- Chierici in penitenza nei monasteri. I monasteri accoglievano i chierici (presbiteri e
vescovi) caduti in peccati gravi, soprattutto di incontinenza, per il periodo penitenziale: la
prima regola di Lérins, all’inizio del V secolo, prevede la loro accoglienza (è l’unico genere
di presenza clericale accettato) e un secolo dopo sinodi della Gallia avvallano la stessa
prassi. L’accoglienza non doveva essere proprio penitenziale, anzi i bravi monaci dovettero
mostrarsi davvero molto larghi nell’ospitalità, se lo stesso papa Gregorio e un sinodo di
Narbonne, alla fine del VI secolo, dovranno intervenire ad ordinare ai vescovi di confinare i
chierici colpevoli in monasteri poveri e osservanti e agli abati di non trattarli troppo
lautamente, ricordando che essi sono lì per fare penitenza.
- Chierici “diocesani” residenti nei monasteri. Talvolta i sacerdoti diocesani che
vanno incontro alle necessità sacramentali dei monasteri iniziano a risiedervi, creando
qualche problema di equilibrio interno: infatti “i superiori laici rischiano di essere dominati
da queste persone che fanno parte della gerarchia”7, provocando interventi anche autorevoli
come quello di papa Gregorio.
- Vigilanza sacerdotale sui monasteri. Nel 451 il Concilio di Calcedonia stabilisce che
il vescovo abbia autorità su tutti i fedeli compresi i monaci (can. 4); e il sinodo di Orléans,
nel 511, che gli abati sono sottoposti al potere dei vescovi (can. 19). Talvolta sono i beni
materiali del monastero l’oggetto della contesa. Si avvia comunque la prassi dei ricorsi a
Roma, vinti a volte dagli abati: è famoso il caso di Bertulfo di Bobbio, che la spuntò sul
vescovo di Tortona, ottenendo da papa Onorio la concessione al monastero dell’esenzione
dal potere episcopale.
- Visite del clero ai monaci. Era richiesta dallo stesso monastero la visita dei chierici
per la celebrazione eucaristica e le altre necessità sacramentali; tuttavia qualche vescovo
fissò la cathedra in monastero, celebrandovi così le messe pubbliche con concorso di fedeli;
questo fatto creò difficoltà e provocò interventi anche da parte di papi, a divieto di tale
prassi.
- Chierici che diventano membri di comunità monastiche. Alcuni chierici dal IV secolo
abbandonano il loro ministero attivo per farsi monaci; e se un sinodo di Saragozza del 380
vietò questa prassi (can. 6), un sinodo di Toledo del 633 invece la difese, affermando che si
tratta della scelta di una vita “migliore”.
Monaci ordinati per il servizio del loro monastero. Mentre Pacomio non volle
l’ordinazione né per se stesso né per i suoi successori né per alcuno dei suoi monaci, gli
stessi monasteri pacomiani dovranno poi accettare, dalla fine del V secolo, l’ordinazione di
loro membri, essendo diventati anche di numero esteso (a volte addirittura alcune centinaia
di monaci). In Oriente e in Occidente, nel VI secolo, l’ordinazione di monaci per il servizio
del monastero diventa prassi comune: Giustiniano nel 539 decreta che ogni chiesa
monastica abbia il suo personale ordinato (quattro o cinque monaci anziani); e Benedetto
7
Ibid., col. 64.
20
dedica una capitolo della sua Regula ai “sacerdoti del monastero”, cioè ai monaci che
l’abate ha fatto ordinare per il servizio comunitario (questa resta per lui l’unica ragione
dell’ordinazione di monaci). I monaci sacerdoti iniziano ad essere separati dal resto della
comunità, anche per la riservatezza legata al ministero dell’assoluzione. Se
quantitativamente i monaci ordinati erano pochi nei primi secoli, in epoca carolingia essi
appariranno come la ‘norma’ della vita monastica. Un dato statistico lo mette bene in
evidenza: nel monastero costantinopolitano del famoso Eutiche, a metà del V secolo, vi
erano un prete e dieci diaconi per 300 monaci; ma verso l’800 la proporzione dei monaci
sacerdote copre un quarto o anche un terzo delle comunità. Addirittura in certi monasteri,
come quello di S. Gallo, la quasi totalità del monaci alla fine del IX secolo è ordinata:
nell’895 su 101 monaci 42 erano presbiteri, 24 diaconi e 15 suddiaconi. Un fattore decisivo,
dal IX secolo in avanti, nell’aumento vertiginoso delle ordinazioni ‘interne’ ai monasteri fu
la moltiplicazione delle ‘messe private’, delle intenzioni per i defunti e quindi degli altari
nei monasteri; avere molti sacerdoti diventava importante anche come mezzo di sussistenza
materiale8.
Abati-diaconi e abati-sacerdoti. Dal V secolo è sempre più frequente che l’abate venga
ordinato sacerdote, e dalla metà del VI secolo questa diventa prassi generalizzata, fino ad
arrivare al sinodo di Roma dell’826 che ne fa una norma. Ormai il sacerdozio è più una
dignità che un servizio, e gli abati non possono rimanerne esclusi. Va detto infatti che
rispetto all’epoca dei primi monaci il ministero ordinato aveva subito un’evoluzione in
direzione decisamente ‘sacerdotale’, e quindi veniva riportato essenzialmente all’offerta del
sacrificio eucaristico (visione che poi Tommaso renderà classica, ma che prende avvio dalla
‘sacerdotalizazzione’ del ministero già in epoca patristica). In tal modo, quindi, tra lo stile di
vita monastico e l’ideale presbiterale-sacerdotale si stabilì una sorta di ‘santa alleanza’, per
cui l’offerta del sacrificio eucaristico venne vista all’inizio del periodo altomedievale come
il culmine della vita contemplativa e della preghiera liturgica, e l’ordinazione come una
sorta di ‘sigillo’ sacramentale posto su una vita santa.
Queste intersezioni producono quindi una progressiva ‘clericalizzazione’ dei monasteri.
Le crescenti necessità sacramentali dei monasteri sono state come il piede d’appoggio per
l’attacco del fronte sacerdotale su quello monastico; inserendosi in questa fessura aperta dai
bisogni monastici, i sacerdoti hanno poi ben presto trasformato la fessura in porta, facendo
prevalere a loro volta bisogni concreti, come: un clero di alta qualità spirituale e morale, la
necessità di luoghi per portare a termine la penitenza dei chierici, la possibilità di offrire
anche al clero secolare esperienze comunitarie. L’assorbimento del ministero nel
‘sacerdozio’, con le opportunità derivanti dal moltiplicarsi delle messe private, e il
guadagno di una concezione che ne esaltava più la dignità che il servizio, fecero il resto.
Una piccola rivincita dei monaci: la riforma gregoriana
Una rivincita da parte dei monaci si verificò nell’XI secolo con la riforma gregoriana,
tesa a generalizzare il ‘prete monaco’ i cui compiti principali sono la preghiera liturgica
corale (opus Dei) e la ‘vita angelica’, caratterizzata dal disprezzo per il mondo. Il modello
sacerdotale uscito dalla riforma gregoriana ha prodotto un indubbio e necessario
miglioramento nei costumi del clero, a prezzo però della proiezione della spiritualità
8
Cf. Ibid., coll. 76-77. Per una descrizione dettagliata, cf. J. DUBOIS, “Sacerdozio”, in Dizionario degli
Istituti di Perfezione, cit., coll. 77-90.
21
monastica sulla figura del presbitero e del vescovo. ”Ne risulta una quasi
‘monasticizzazione’ della teoria e della pratica del ministero. Il vescovo è pensato secondo
il modello dell'abate, canonicamente posto a capo della sua comunità, più che secondo il
modello del ‘convocatore’ della comunità e del coordinatore dei ministeri; la rottura con il
mondo è accentuata; tutti i ministri pregano sul modello della liturgia monastica; il celibato
[...] si modella sulla castità monastica”9.
AFFIANCAMENTO TRA IL MINISTERO DEI RELIGIOSI E QUELLO DEI DIOCESANI – DAL
XIII AL XX SECOLO
Nel XII secolo si moltiplicarono i gruppi religiosi che professavano un ritorno al Vangelo
sine glossa, in polemica spesso sia con il basso clero, che ormai non predicava più e si
limitava a svolgere funzioni liturgiche sempre più lontane dal popolo, sia con l’alto clero,
che viveva troppe volte negli agi e nelle preoccupazioni amministrative, senza curarsi della
vita pastorale delle comunità. La struttura locale e ‘parrocchiale’ di Chiesa, anche dove era
fiorente, non riusciva certo da sola a far fronte alla predicazione dei valdesi e degli albigesi.
Gli ordini mendicanti sorsero nel XIII secolo con il compito di assumere le istanze più
autentiche di questi gruppi religiosi radicali, restando però nell’alveo della Chiesa.
Gli Ordini mendicanti
I domenicani nacquero con l’intento di annunciare il Vangelo nella frontiera delle
questioni allora controverse; in questo modo essi di fatto raccolsero un elemento del
ministero ormai divenuto secondario sia nella pratica che nella teologia ‘sacerdotale’
dell’epoca, ma che era stato preminente nelle prime comunità cristiane, cioè la predicazione;
fu perciò naturale ordinare presbiteri e poi vescovi molti di coloro che entravano
nell’Ordine; per i domenicani dunque il sacerdozio “è connaturale con il loro sistema di
vita, sono già chierici sin dalle origini, non vengono clericalizzati, e i fratelli laici sono di
appoggio-sostegno ai sacerdoti, perché possano dedicarsi totalmente al loro ministero”10.
I francescani presero avvio come grandi confraternite laicali, ma vennero anch’essi ben
presto clericalizzati per gli stessi motivi, in quanto si sobbarcavano la predicazione tra i ceti
popolari. A differenza dei domenicani, essi dunque sono alle origini laici, ma “la
clericalizzazione è rapida, e frate Elia (un laico che diviene ministro generale dell’Ordine)
resta una eccezione. Anche gli altri Ordini medicanti (Agostiniani, Carmelitani, Servi di
Maria) si clericalizzano presto”11.
In tal modo, “almeno dal XIII secolo, la storia degli ordini religiosi riguarda tanto la
storia del ministero come la storia dell’ascetismo religioso”12. L’espansione degli ordini
mendicanti, e in essi del ministero, andò di pari passo con l’affermazione del modello
universalistico di Chiesa e del prestigio del papato, che fece fronte alle (non rare) resistenze
da parte dei vescovi locali all’accoglienza di religiosi nel loro territorio per la predicazione;
francescani e domenicani dall’inizio godettero di certi privilegi e numerose esenzioni da
9
J.-M. TILLARD, Ministero, in A. VAUCHEZ e C. LEONARDI, Dizionario enciclopedico del Medioevo,
Città Nuova, Roma 1998, vol. II, col. 1198.
10
E. BOAGA – G. ROCCA, “Sacerdozio”, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, cit., col. 90.
11
Ibid.
12
J. W. O’MALLEY, “Priesthood, Ministry, and Religious Life: Some Historical and Historiografical
Considerations”, in Theological Studies 49 (1988), p. 227.
22
parte della Santa Sede13. “Il ministero dei frati era esente dalla supervisione dell’episcopato,
perché i frati si dedicavano al ministero in un modo particolare e, come ‘gli apostoli’,
trascendevano i confini locali”: questo sviluppo risponde sia al papato forte della riforma
gregoriana sia al desiderio di molti vescovi che abbisognavano di ministri preparati alla
predicazione14.
Va notato tuttavia anche il fenomeno dell’ordinazione di religiosi mendicanti con il solo
scopo di celebrare messe per fondazioni e lasciti (come già da tempo avveniva per i
monaci), che comportavano numerose celebrazioni quotidiane. Tra i religiosi mendicanti “si
veniva così in pratica a dividere i membri sacerdoti in due gruppi: quelli capaci di poter
esercitare in pieno il ministero sacerdotale, e quelli atti solo a celebrare la messa”15: i primi
erano adeguatamente preparati, e solo loro potevano accedere agli uffici di responsabilità;
per i secondi invece era ritenuto sufficiente quel tanto di conoscenze che li metteva in grado
di celebrar messa (sono i “sacerdoti da messa”, ai quali ci si riferisce ad es. nelle
Costituzioni dei Cappuccini del 1536).
I gesuiti
La Società di Gesù16, fondata nel XVI secolo da Ignazio di Loyola, fu dall’inizio
interamente composta da presbiteri ordinati, riuniti poi sotto una regola. Lo scopo della
Società era quello di portare avanti il ministero pastorale della Chiesa con uno slancio ed
una competenza nuovi, in luoghi nei quali era più grande il bisogno, e sotto la guida diretta
del papa, condividendone la cura pastorale per la Chiesa universale, al di là dei legami con
le singole chiese particolari. E’ indicativo che all’inizio, verso il 1540, i gesuiti venissero
chiamati ‘preti pellegrini’ o ‘preti riformati’: venivano quindi chiaramente percepiti non
come monaci o frati ma come un ramo della famiglia presbiterale, non definibile attraverso i
legami normali con diocesi e parrocchie. Il quarto voto dei gesuiti può essere visto anche
come l’alleanza tra Pietro (papa) e Paolo, il modello del ministro itinerante, che i gesuiti
assunsero da subito, andando in ogni parte del mondo a svolgere il ministero, inviati
direttamente o indirettamente dal papa.
Come nel XIII secolo i domenicani e i francescani assunsero la predicazione quale perno
del ministero per far fronte alle eresie spiritualiste, così nel XVI secolo i gesuiti per far
fronte al luteranesimo. “Se i gesuiti devono essere collocati nella storia del ministero, essi
devono essere visti fondamentalmente come una continuazione delle tradizioni che
cominciano con i mendicanti e una potente espansione di essi”17; anche in essi dominò
dall’inizio una concezione del ministero legata alla predicazione; questa predicazione aveva
luogo non solo durante la messa ma anche nei pomeriggi dei giorni festivi e ogni giorno
durante l’avvento e la quaresima. Era una specie di “catechesi per adulti” (pratica scomparsa
nell’epoca medievale), che poteva essere preceduta o seguita dalle “conversazioni spirituali”
sulla parola di Dio a livello individuale o di piccoli gruppi; la predicazione avveniva nella
strada, negli ospedali e in altri luoghi, e prese anche la forma delle missioni popolari, portate
13
Cf. J. W. O’MALLEY, “Priesthood, Ministry, and Religious Life”, cit., p. 235.
Cf. J. W. O’MALLEY, “Priesthood, Ministry, and Religious Life”, cit., p. 236.
15
E. BOAGA – G. ROCCA, “Sacerdozio”, cit., col. 91.
16
B.E. DALEY, “The ministry of disciples”, cit., p. 620-621; .J. W. O’MALLEY, “Priesthood, Ministry,
and Religious Life”, cit., pp. 237-237-245.
17
Ibid., p. 238.
14
23
avanti non solo dai gesuiti ma, almeno dal XVII secolo, anche dai cappuccini e dai
vincenziani18.
Dal punto di vista teologico è interessante notare che il modello ministeriale assunto dei
gesuiti è una reazione “uguale e contraria” a quello luterano e protestante: se Lutero
assolutizzava la predicazione del Vangelo come compito del ministro (anche a fronte della
pesante trascuratezza da parte dei ministri cattolici), facendone il tutto del ministero, Ignazio
prendeva proprio questo punto, integrandolo nell’insieme dei compiti del ministro, ma
utilizzandolo dentro il ministero per diffondere e difendere la fede cattolica.
La lotta tra Riforma protestante e Riforma cattolica
La nascita della Compagnia di Gesù si colloca dunque in un contesto infuocato per la
Chiesa: la controversia tra i riformatori protestanti e la Chiesa cattolica. Non a caso, il
duplice rifiuto del ministero sacerdotale e dei voti monastici fu un elemento non marginale
nella polemica di Lutero. Rifacendosi al sola Scriptura, aveva negato la legittimità dei voti,
riassorbendone il significato nel Battesimo e ritenendo che non vi fosse spazio per una
versione radicale di quel tipo; sulla base del sola Scriptura Lutero aveva inoltre negato la
consistenza sacramentale dell’ordinazione sacerdotale, sostituendo i sacerdoti con dei
ministri eletti temporaneamente dalle comunità per la predicazione della parola. Anche il
sacerdozio, come i voti, per Lutero viene assorbito completamente dal Battesimo, che abilita
tutti i fedeli all’esercizio del sacerdozio di Cristo. Il Concilio di Trento, leggendo la
Scrittura attraverso la Tradizione, aveva reagito diametralmente riaffermando la legittimità e
il valore dei voti monastici e religiosi e l’esistenza di un sacerdozio ministeriale fondato
sull’Ordine, abilitato all’offerta del sacrificio eucaristico. Se Lutero aveva interpretato
teologicamente il ministero in chiave unicamente profetica e funzionale, Trento lo imposta
in chiave decisamente cultuale e ontologica. Per la verità Trento presenta anche un’altra
chiave, quella pastorale: i vescovi e i presbiteri devono plasmarsi sull’immagine del Buon
Pastore che offre la vita per il gregge; e di questa offerta fa parte anche la predicazione della
parola di Dio; purtroppo però questa visione non compare nei decreti dogmatici, dominati
da quella cultuale, ma solo nei decreti giuridici.
Per cinque secoli quindi vengono avanti parallelamente queste tre concezioni del
ministero ordinato: il mondo protestante è caratterizzato, con molte sfumature tra le varie
confessioni, dal ministero inteso come funzione profetica nella comunità, come
predicazione della Scrittura; nel mondo cattolico invece convivono tre modelli: quello del
‘sacerdote’ configurato ontologicamente a Cristo Sacerdote, che esprime questo suo essere
nella celebrazione del sacrificio eucaristico e dei sacramenti; quello del ‘pastore’ che deve
assumere lo stile di Cristo Buon Pastore verso il gregge, dando la vita per la Chiesa; e,
all’interno della concezione pastorale, anche il modello del ‘predicatore’, che ha il compito
di trasmettere al gregge la voce di Cristo. Avendo però solo il primo dei tre modelli vera e
propria dignità sacramentale, il secondo rimaneva affidato al diritto e alla spiritualità del
presbitero, ma non ne caratterizzava l’essere. Riprenderemo più avanti il filo del discorso:
qui basti notare come i religiosi che fanno della predicazione il perno del loro ministero
(specialmente domenicani, francescani e gesuiti), strutturano il sacerdozio attorno ad una
dimensione teologicamente e pastoralmente trascurata dalla Chiesa e posta invece al centro
dai suoi avversari.
18
Cf. Ibid., pp. 239-240.
24
La riforma tridentina adotta dunque teologicamente il modello tomista ‘sacerdotale’, e
praticamente il modello ‘pastorale’. L’istituzione dei Seminari avviene in questa sorta di
ambiguità teologico-pratica; vi vengono infatti formati dei pastori ma con la coscienza di
essere dal punto di vista dogmatico essenzialmente custodi e garanti del culto e della
celebrazione. Il fatto che la formazione seminaristica del clero diocesano sia stata affidata in
gran parte ai religiosi, condusse l’epoca post-tridentina a scelte maggiormente in linea con
la vita religiosa comunitaria che con quella parrocchiale presbiterale.
Apporti della scuola francese del XVII secolo e del Card. Mercier
La scuola di spiritualità francese nel XVII secolo19 cercò di risolvere questa tensione tra
teologia e pastorale attraverso la coniugazione dei due elementi nell’idea ‘dionisiana’ della
mediazione, sviluppata nella chiave dell’offerta sacrificale di sé, da parte del sacerdote, in
unione con Cristo nella messa. Aiutò in questa riflessione certamente anche la figura di
grandi vescovi riformatori cattolici, come Carlo Borromeo e Gregorio Barbarigo, che
vissero il loro ministero come offerta totale di sé a Cristo e al gregge, come sacrificio della
vita. Il sacerdote secondo questa spiritualità deve “purificare, illuminare, perfezionare”,
separandosi dal mondo, in una rinuncia che diventi ostia a Dio gradita, da unire a Cristo
immolato nel sacrificio eucaristico. In questo senso alcuni autori insistono sul fatto che il
sacerdozio non è affatto inferiore alla vita religiosa e si inizia a parlare del sacerdozio
diocesano come dell’Ordine di S. Pietro (la prima volta nel 1640) e del sacerdote come “il
vero religioso di Dio” (nel 1675).
Mercier scrisse nel 1918 un libro di spiritualità nel quale proponeva l'ideale di perfezione
applicato al clero diocesano 20, sviluppando idee da lui già espresse in precedenza 21; dopo
di lui, altri scrissero circa lo stesso argomento 22 e si moltiplicarono gli studi sulla
spiritualità del clero diocesano. Per lui il presbitero diocesano non ha nulla da invidiare,
quanto a spiritualità, ai monaci e ai religiosi. Infatti, mentre congregazioni e ordini religiosi
sono stati fondati da uomini, per quanto santi, il sacerdozio è stato fondato da Gesù Cristo in
persona: "Sì, miei cari Confratelli, voi appartenete al primo Ordine religioso stabilito nella
Chiesa; il vostro Fondatore è Nostro Signore Gesù Cristo in persona; i primi religiosi del
suo Ordine furono gli Apostoli; i loro successori sono i vescovi e, in unione con loro, i
sacerdoti, tutti i ministri dei santi Ordini e fino agli stessi chierici, che fanno pubblicamente
professione di non voler più che Dio per eredità e il servizio di Dio per occupazione della
loro vita" 23. Dunque i sacerdoti sono per eccellenza 'religiosi', perché 'consacrati' al servizio
pastorale voluto da Cristo.
Le esigenze della vita pastorale, più ancora che le esigenze della vita cristiana e della vita
monastica, richiedono ascesi e santità di vita.. "Nessuno quaggiù più del vescovo è chiamato
a una più alta perfezione; nessuno ha un programma di vita più conforme a quello del nostro
divin Redentore; siate tutt'uno con lui, che la sua opera sia la vostra; siate, uniti a lui,
19
M. DUPUY, “Sacerdozio”, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, cit., coll. 91-95.
D. G. MERCIER, La vie intérieure, Louvain 1918.
21
Cf. ID., Retraite pastorale, Louvain 1909.
22
E' famoso il libro di E. MASURE, De l'éminente dignité du clergé diocésain, Paris 1938.
23
Ibid. ,p. 197.
20
25
salvatori di anime, e sarete santi fra i santi [...]. Cooperatori del vostro vescovo, uniti in
spirito e volontà al suo apostolato; in possesso, anche voi, di quella forma di carità pastorale
che vi spingerebbe, se occorresse, a dare la vostra vita per il vostro gregge, carità nella quale
la tradizione cattolica vede risplendere la superiorità dell'episcopato su ogni altro stato di
vita, avete dunque il diritto di considerarvi davanti a Dio come associati allo stato di
perfezione più elevato che esista al mondo" 24.
E' così che i tratti tipicamente tridentini e dionisiani di Mercier vengono trasportati, di
fatto, dentro ad uno schema agostiniano, perché le esigenze della vita spirituale - sebbene
presentata con tratti marcatamente 'monastici' - vengono fatte dipendere dalle esigenze
pastorali e non da una qualche 'superiorità' della vita contemplativa o dei tre voti.
Al Vaticano II, che cerca di superare il puro e semplice affiancamento tra sacerdozio
religioso e secolare, riserveremo abbondante spazio nella parte teologica, alla quale ora
passiamo.
SECONDA PARTE: PRINCIPALI ELEMENTI TEOLOGICI
Ci sembra di potere individuare tre grandi interpretazioni teologiche del complesso
rapporto fra vita monastica e religiosa da una parte e ministero ordinato dall’altra: le
chiameremo monolitica, pluralistica e analogica. Per la prima, esiste solo un tipo di
ministero sacerdotale ed una sola modalità di esercizio; la seconda invece prospetta una
pluralità di ministeri e quindi, ovviamente, di traduzioni pratiche; la terza, come via media,
professa l’unità del ministero nella varietà delle forme concrete di esercizio. L’esposizione
di quest’ultima, che appare la più adeguata, costituirà anche un tentativo sistematico di
comprensione del rapporto tra vita religiosa e ministero ordinato.
25
INTERPRETAZIONE MONOLITICA
Per quasi quattordici secoli – dunque un tempo ragguardevole nella vicenda ecclesiale –
il ministero ordinato è stato inteso teologicamente in maniera univoca e monolitica come
abilitazione al culto e particolarmente all’offerta del sacrificio eucaristico: da Isidoro di
Siviglia (sec. VII) fino alle soglie del Vaticano II, passando attraverso S. Tommaso e il
Concilio di Trento, il sacerdozio era identificato sostanzialmente con il munus eucaristicosacrificale. Gli altri compiti – quelli relativi alla predicazione e alla guida pastorale nelle
loro diverse forme – pure ammessi, apprezzati ed esercitati, come si è accennato erano
ricondotti a fonti extra-sacramentali, e quindi non venivano dedotti dall’Ordine.
Tappe storiche fondamentali
Le tappe che hanno portato a questa visione univoca e monolitica sono ben note e
possono qui essere solo richiamate:
- I preamboli si trovano nella sacerdotalizzazione del ministero che prende avvio dal
III secolo, con l’uso prima sporadico poi sempre più frequente di designare il vescovo
24
Ibid., pp. 200.204.
Per la documentazione del contenuto di questa sezione, ci permettiamo di rimandare al nostro volume Il
ministero ordinato, Queriniana, Brescia 2002, pp. 104-197.
25
26
sacerdos; uso che dal IV secolo, con la nascita delle comunità rurali stabili, verrà trasferito
spontaneamente sul presbitero. Mentre il Nuovo Testamento evitava la trasposizione diretta
di termini sacerdotali sui ministri cristiani – per marcare la discontinuità del ministero
inaugurato da Gesù rispetto al sistema sacerdotale antico – ben presto questa trasposizione
si verifica. La ragione di fondo sembra da ricercare nella sottolineatura sacrificale della
celebrazione eucaristica (già a partire da Didaché): il ministro che la presiede compie un
sacrificio; ma non è un sacrificio qualunque, bensì la ripresentazione del sacrificio della
Croce; sulla Croce Gesù ha realizzato (è la teologia di Ebr) il suo sacerdozio; dunque chi
presiede l’eucaristia compie un atto sacerdotale, e può essere chiamato ‘sacerdote’.
- Dalla sistematizzazione dei ‘gradi’ dell’Ordine operata da Isidoro di Siviglia a
Tommaso d’Aquino la teologia assume decisamente l’abilitazione all’offerta del sacrificio
eucaristico come essenza del sacerdozio ministeriale: al punto che l’episcopato viene
considerato dal punto di vista sacramentale identico al presbiterato, cioè unicamente come
‘sacerdozio’, e la consacrazione episcopale viene vista prevalentemente non come
ordinazione ma come conferimento solenne di poteri giuridici in contesto liturgico. In
questo periodo si individua una duplice fonte alla base dei poteri sacerdotali: l’Ordine e la
giurisdizione, che altro non sono se non lo specchio di una separazione avvenuta dentro la
Chiesa tra dimensione sacramentale e giuridica. Per la potestas ordinis il sacerdote è
abilitato all’assoluzione sacramentale e all’offerta sacrificale eucaristica; per la potestas
iurisdictionis è invece abilitato alla predicazione e alla cura pastorale. Da Isidoro alla fine
del primo millennio, del resto, l’evangelizzazione e la catechesi erano praticamente quasi
scomparse dal percorso normale di una comunità cristiana; solo il risorgere di questa pratica
specialmente attraverso i domenicani e i francescani all’inizio del XIII sec., come già detto,
reimmise questo munus nell’alveo del ministero sacerdotale: ma ormai (anche per
Tommaso, pure domenicano!) la teologia si era cristallizzata attorno al munus cultuale.
- Il Concilio di Trento percorre questo binario, trattando del sacerdozio nelle sessioni
dogmatiche dal solo punto di vista cultuale (in reazione a Lutero che aveva estromesso il
culto dall’essenza del ministero) e riservando alcune attenzioni alla predicazione e allo stile
pastorale nelle sessioni de reformatione. La separazione è, più ampiamente, tra teologia e
pratica: per cui l’essenza teologica del sacerdozio veniva individuata in un nucleo cultuale
che nella pratica era in realtà tradotto in maniera molto più ricca e dinamica, nell’impegno
di predicazione (nel quale i presbiteri religiosi, specialmente domenicani e francescani,
ebbero una parte importantissima) e nella molteplice attività pastorale (alla quale comunque
molti presbiteri, specialmente diocesani, si dedicavano).
- Il già menzionato influsso della scuola oratoria e sulpiziana francese, di grandissima
levatura ascetica e spirituale, ha accentuato nella visione del sacerdozio l’elemento
‘verticale’, assumendo tratti di Pseudodionigi (mediatore) nella concezione poi definita
dall’espressione sacerdos alter Christus. La concezione cultuale è stata assorbita da quella
sacrale, dando origine ad una esaltazione a volte eccessiva della dignità del sacerdozio, non
raramente funzionale all’affermazione di una superiorità rispetto ai ‘semplici laici’. Anche
la coloritura sacrale si poneva quindi a servizio di una concezione unilateralmente cultuale,
poiché era proprio nell’esercizio del culto che si ravvisava la più alta realizzazione della
mediazione e della rappresentanza di Cristo.
La visione monolitica del sacerdozio ha quindi assolutizzato l’elemento cultuale e
sacrale, identificandolo con l’essenza del ministero ordinato, ed estromettendo
teologicamente da tale essenza ogni altro elemento di tipo pastorale e profetico. Il fatto che
27
l’esercizio del ministero, sia religioso che diocesano, sia presbiterale che episcopale, fosse
normalmente molto più ricco ed articolato rispetto al solo compito cultuale, non sembra
avere scalfito teologicamente in modo significativo questa interpretazione, fino al Vaticano
II escluso. Si può anche notare come l’univocità di tale interpretazione non si sia limitata ad
una relazione ‘orizzontale’ ma si sia estesa ad una relazione ‘verticale’, se è vero che
l’appiattimento del ministero ordinato nel ‘sacerdozio’ ha portato a vedervi un solo ‘grado’
– di fatto quello presbiterale – estromettendovi per difetto quello diaconale (in quanto
manca l’abilitazione all’offerta del sacrificio eucaristico) e per eccesso quello episcopale (in
quanto rappresenta solo un’aggiunta di poteri giuridici al presbiterato). ‘Monolitica’ è
dunque, questa interpretazione, in tutti i sensi.
Limiti
Questa concezione contrasta con l’esistenza di svariate forme ministeriali che il Nuovo
Testamento e la prassi ecclesiale di tutti i tempi testimoniano.
Per il Nuovo Testamento è sufficiente menzionare la pluralità di termini che definiscono i
ministeri cristiani innestati su quello apostolico: accanto infatti alla triade che poi, dal II
secolo, assorbirà tutti i servizi neotestamentari ufficiali, vescovo, presbitero e diacono,
esistono come sappiamo altri termini e altre funzioni: profeta, dottore, capo, pastore,
evangelista, guida, presidente. L’orizzonte escatologico segnato dall’attesa di un ritorno
immediato del Signore glorioso, insieme al diretto esercizio del ministero delle comunità da
parte degli apostoli e dei loro collaboratori, rendeva secondaria la preoccupazione di
strutturare il ministero ecclesiale. Solo quando gli apostoli cominciano a mancare e l’attesa
escatologica a scemare, le comunità sentono il bisogno di darsi dei ministeri stabili e meglio
definiti: è la fase rispondente alle Lettere Pastorali. Assorbire tutta la ricchezza dei ministeri
neotestamentari dentro al concetto di ‘sacerdozio’ esistente per il culto – compiti attestato
nel Nuovo Testamento ma subordinato massicciamente all’annuncio del Vangelo –
rappresenta una vera e propria riduzione del ministero.
La prassi ecclesiale del ministero poi, come è anche sporadicamente emerso nella prima
parte, è immensamente più ricca dello schema sacerdotale. La molteplicità delle figure
ministeriali è un dato che accompagna la storia della Chiesa. Già dal VI secolo fino a tutto il
periodo post-tridentino il ministero ‘parrocchiale’ era solo uno dei modi di esercitare il
ministero, accanto a quello che veniva esercitato nei monasteri, nei priorati, nelle cappelle,
negli oratori, nelle confraternite, nei terzi ordini, nelle scuole, nelle chiese collegiate. Così
come oggi vi sono figure diversissime di ministri ordinati, diocesani e religiosi. per questo
convivono legittimamente e si completano a vicenda, nella Chiesa, presbiteri che
interpretano il loro ministero in chiave prevalentemente liturgica e sacramentale, con altri
che mettono al primo posto la testimonianza della carità nelle situazioni disagiate ed
emarginate; presbiteri che si dedicano essenzialmente all’animazione della comunità
cristiana e alla pastorale cosiddetta ordinaria, con altri che accolgono le sfide dei ‘nuovi
areopaghi’ della cultura e comunicazione, percorrendo le diverse possibilità offerte oggi dai
mass media in tutti i campi; presbiteri che puntano soprattutto sulle relazioni interpersonali
e si pongono come accompagnatori e guide spirituali, con altri che spendono le loro migliori
energie nella formazione o nell’insegnamento della religione, teologia e scienze umane o
magari, almeno per certi periodi e in certe situazioni, assumono compiti di supplenza nei
campi dell’educazione, promozione umana e professionale o altro.
28
L’interpretazione monolitica è quindi difficilmente sostenibile, a meno che non si voglia
reintrodurre quella frattura tra aspetto teologico (cultuale) ed esercizio concreto (pastoraleprofetico), che ha caratterizzato molti secoli, ma è stato superato in via di principio dal
Vaticano II; e la reintroduzione di questa frattura appare francamente un prezzo troppo alto
da pagare.
INTERPRETAZIONE PLURALISTICA
Da alcuni decenni vengono elaborate teorie in netto contrasto con la visione monolitica e
tese invece a rendere ‘pluralista’ il ministero ordinato: non semplicemente nel senso
‘verticale’ dei tre gradi – recuperati dal Vaticano II – e neppure solamente nel senso della
pluralità delle forme di esercizio; bensì nel senso di una vera e propria natura ‘plurale’ del
ministero, preferendo dunque parlare di ‘ministeri’ diversi già all’origine. Se non
comprendiamo male, queste teorie prendono avvio proprio dall’intento di trovare una
precisa identità teologica del clero religioso e vengono in gran parte proposte dagli stessi
religiosi presbiteri.
Principali sostenitori
Salvo sviste, il precursore cattolico di queste concezioni è il p. J. Moingt s.j., che negli
anni settanta espresse più volte la sua tesi. Reagendo ad una visione troppo cultuale del
ministero, Moingt non intende semplicemente negarla: piuttosto la separa nettamente dalla
dimensione missionaria e riconduce culto e missione a due diverse fonti, teorizzando due
tipi di ministero 26. L'autore parte dall'esistenza di una duplice natura nella Chiesa: da una
parte la Chiesa come corrente storica che porta avanti il Vangelo e dall'altra come esistenza
sociale e comunitaria dei cristiani radunati attorno al Vangelo. Alla duplice natura
corrisponderebbe una duplice finalità, poiché la Chiesa da una parte deve estendersi
attraverso la missione e dall'altra deve consolidarsi e crescere localmente. Il ministero nella
Chiesa di conseguenza, sarà duplice: un tipo di ministero, che si colloca nella linea
apostolica, è quello del Vangelo, finalizzato all'estensione missionaria della Chiesa; un altro
tipo, che deriva invece dal potere autonomo di amministrazione che spetta alle singole
Chiese, è quello delle comunità, finalizzato alla santificazione della Chiesa. Il primo tipo di
ministero è dunque essenzialmente itinerante, mentre il secondo è essenzialmente
sedentario. Nella visione di Moingt, che diventa proposta per il futuro dei ministeri, è
evidente la netta separazione della dimensione cultuale-comunitaria del ministero da quella
evangelizzatrice-missionaria, fino a farne due apostolati di diversa origine (la Parola da una
dimensione della Chiesa e lo Spirito dall'altra) e di diversa natura (essenziamente cultualesedentario l'uno ed essenzialmente missionario-itinerante l'altro).
Negli stessi anni settanta un altro gesuita, H. J. Lauter27 s.j., si esprimeva invece
direttamente sulla distinzione tra clero diocesano e religioso, che ravvisava in questi
26
Nel testo sintetizziamo le idee principali dell'autore, riferendoci a questi suoi studi: “Caractère et
ministère sacerdotale”, in Revue des Sciences Réligieuses 56 (1968), pp. 563-589; “Nature du sacerdoce
ministériel”, in Revue des Sciences Réligieuses 58 (1970), pp. 237-272; “L'avenir des ministères dans
l'Eglise catholique”, in Revue de Droit Canonique 23 (1973), pp. 291-331; “Services et lieux d'Eglise”, in
Etudes (1979) n. 350, 836-849 e n. 351, 363-394.
27
H. J. LAUTER, “Der Ordenpriester”, in Ordenkorrespondenz 13 (1973), pp. 134-138.
29
elementi: il primo svolge una pastorale ordinaria e continuata nel tempo, verso un gruppo
stabile di fedeli; il secondo una pastorale straordinaria e intermittente verso gruppi non
stabili; il secondo inoltre vive in comunità, è maggiormente specializzato, può dedicarsi
anche alla vita contemplativa, vive in comunità è dedito in certa misura al lavoro d’équipe28.
Mentre Moingt, pur restando più vago circa la distinzione tra clero religioso e diocesano, si
spingeva ad alcune riflessioni de iure, Lauter, entrando proprio nel merito di tale
distinzione, sembra però fermarsi ad una rassegna di osservazioni de facto. In altri autori
appaiono semplici letture fenomenologiche o poco più, certo importanti per la teologia,
specialmente quando considera argomenti così connessi alla pratica come il ministero
ordinato e la vita religiosa e tuttavia non sufficienti a dare indicazioni precise sull’identità
teologica. Non basta cioè inventariare la situazione con letture puramente descrittive, se è
vero che una riflessione teologica comporta anche una lettura ‘critica’ della realtà,
confrontata con la rivelazione.
Se in Moingt l’attribuzione del ministero itinerante ai religiosi e di quello stabile ai
diocesani rimaneva piuttosto in sordina, e in Lauter diventata più esplicita ma meno
impegnativa dal punto di vista teologico, altri autori gesuiti arrivano ad una sintesi, nel
decennio successivo, utilizzando la distinzione tra clero diocesano stabile e clero religioso
missionario in senso propriamente teologico e non più solo descrittivo.. O’Malley s.j., che
rimprovera al Vaticano II di avere tenuto presente solo il clero diocesano, ritiene che il
modello ministeriale tracciato dal Concilio si adatti perfettamente a tale clero, ma non a
quello religioso. Secondo l’autore, il decreto Presbyterorum Ordinis è basato su tre assunti
fondamentali: che il ministero si esercita in una comunità stabile (parrocchia), composta di
fedeli, e in comunione con il proprio vescovo; ora, continua O’Malley, il ministero dei
presbiteri religiosi storicamente non si esercita in una comunità stabile ma in tutte le parti
del mondo, è rivolto specialmente a coloro che non vengono raggiunti dal ministero
ordinario, come gli orfani, le vedove, le prostitute, gli emarginati, gli infedeli, gli scismatici,
gli eretici, e non ha una relazione gerarchica con l’ordinario del luogo, ma con il proprio
superiore29. O’Malley ravvisa nella ‘divisione del lavoro’ che si è verificata nel sec. XIII tra
presbiteri secolari e regolari non un elemento secondario bensì essenziale alla teologia del
ministero. Esistono per lui non semplicemente due diverse spiritualità, ma due tipi di
ministeri: quello locale o diocesano, dedicato alla pastorale stabile e ordinaria della
comunità di credenti; quello dei religiosi, dedicato alla pastorale ‘eccezionale’, tra gli
emarginati e in molti casi tra i non credenti. Nel primo tipo di ministero predominano le
categorie di officium e parrocchia, nel secondo di bisogno e missione; nel primo ‘gerarchia’,
nel secondo ‘ fraternità’; per il primo ‘apostolico’ indica la successione per il secondo uno
stile di vita; il primo si colloca nella linea delle Lettere Pastorali e dei Padri (il modello del
vescovo attorniato dai presbiteri, che diventa poi successivamente l’ufficio episcopale ad
immagine del potere civile e il sacerdozio presbiterale), il secondo di Gesù e degli apostoli,
di Paolo, di Francesco; il primo parla volentieri di ‘sacerdote’, il secondo di ‘profeta’30. Il
Vaticano II a suo parere consacra solo uno dei due modelli (quello delle Pastorali e dei
Padri) e trascura l’altro.
28
Questi ultimi due elementi vengono sottolineati anche da P. LIPPERT, “Zum Selbstverständnis des
Ordenpriesters. Implikationen der neueren theologischen Diskussion über das Priesterbild und über das
Ordensleben im Hinblick auf den Ordenspriester”, in Ordenskorrespondenz 18 (1978), pp. 32-45.
29
Cf. J. W. O’MALLEY, “Priesthood, Ministry, and Religious Life”, cit., pp. 250-251.
30
Cf. Ibid., pp. 255-257.
30
Anche un altro padre gesuita, B. E. Daley31, riconduce la dualità di forme, religiosa e
ministeriale al Nuovo Testamento, e precisamente alla distinzione discepoli-apostoli: i primi
chiamati alla sequela radicale e a rivestire ruoli carismatici, i secondi alla predicazione e
presidenza della comunità e a rivestire ruoli istituzionali. Interessante è la sua insistenza sul
fatto che lo ‘specifico’ teologico del clero religioso è di essere “paradosso vivente”,
dovendo incarnare sia la critica all’istituzione propria di ogni carisma, sia l’appartenenza
all’istituzione propria del clero diocesano. Esiste a suo parere l’effettivo pericolo, nel caso
del religioso presbitero, che una dimensione ‘rubi’ qualcosa all’altra: che l’ordinazione
‘addomestichi’ il carisma del religioso o che l’appartenenza del ministro ordinato ad una
comunità spiritualizzi così tanto il suo ruolo nella Chiesa da sottrargli la sua connotazione
pubblica. Il valore e l’identità di chi nella Chiesa combina le due vocazioni è di essere un un
“campo di tensioni” tra le esigenze del discepolato e quelle dell’apostolato, tra il carisma
critico e l’istituzione interessata alla conservazione, tra l’essere chiamato e l’essere inviato.
Più complessa la proposta del p. gesuita F. Taborda32, che incontra nel Nuovo
Testamento tre modelli di esercizio del ministero: il locale-residenziale, l’itineranteprofetico e il martiriale; mentre i presbiteri secolari sarebbero più in linea con i ministeri
locali “ordinari” in direzione comunitaria, i presbiteri regolari sarebbero in continuità con il
ministero profetico primitivo, che assumeva in via straordinaria anche la presidenza
eucaristica. P. J. Philbert 33 si spinge ad un riferimento all’Antico Testamento, parlando di
due modelli storici di presbitero: uno orientato in senso veterotestamentario, predominante
dal 1500 in poi; l’altro orientato verso il servizio, proprio del Vaticano II; per l’autore i
religiosi appartengono più al secondo che al primo modello34. Per p. R. Zas Friz de Col, che
condivide questa impostazione35, si potrebbe ipotizzare che le due tendenze principali della
teologia del ministero ordinato, quella cristologica e quella ecclesiologica, corrispondano la
prima “a un orientamento più religioso e la seconda a una tendenza più diocesana”36
nell’esercizio del ministero. Egli insiste sul pluralismo dei modelli di ministero ordinato,
lamentando il monopolio postconciliare del modello del presbitero secolare e parroco, e
coniando l’interessante espressione: “diversità creatrice di un’unità plurale”37.
Limiti
Questa interpretazione è certamente più conforme alla complessità del Nuovo
Testamento e delle prassi ministeriali lungo i secoli, rispetto alla interpretazione monolitica.
Non si potrà certo contestare la legittimità, anzi la ricchezza, di una teologia del ministero
che faccia spazio alle svariate forme di esercizio che esso ha assunto dalle prime comunità
cristiane ad oggi. Quello oggi che appare problematico è l’individuazione di una linea di
separazione per così dire ‘trasversale’ al triplice ministero ordinato, per cui il compito
31
B.E. DALEY, “The ministry of disciples”, cit., pp. 621-629.
F. TABORDA, “Il religioso presbitero: una questione discussa”, in Vita Consacrata 38 (2002), pp. 626640.
33
P.J. PHILIBERT, “Priesthood within the Context of Religious Life”, in D.J. GOERGEN (ed.), Being a
Priest Today, Liturgical Press, Collegeville (Minnesota) 1992, pp. 73-96.
34
Cf. Ibid., p. 85.
35
Cf. R. ZAS FRIZ DE COL, “La condizione attuale del presbitero religioso nella Chiesa”, in Rassegna di
Teologia 45 (2004), pp. 35-71; in particolare: pp. 65-71.
36
Ibid., p. 71.
37
ID., “L’identità ecclesiale del presbitero religioso. Il caso dei gesuiti”, in Rassegna di Teologia 3 (2004),
p. 360.
32
31
cultuale e quello missionario vengono assunti da due ministeri diversi, riconducibili poi in
seconda battuta alla tradizione del clero secolare o diocesano e a quella del clero religioso o
regolare. La pertinenza della ricerca di un supporto nella dualità tra le Pastorali da una parte
e il Paolo delle prime lettere dall’altra, oppure gli apostoli da una parte e i discepoli
dall’altra, o ancora il sacerdozio veterotestamentario nel primo caso e il servizio
neotestamentario nel secondo, è tutta da verificare. E’ innegabile la presenza di
accentuazioni diverse, ma è discutibile la loro trasformazione in ‘ministeri’ diversi. Nelle
prime lettere paoline, ad es., l’Apostolo è indiscutibilmente lanciato nella missione
evangelizzatrice, ma non trascura di conferire il Battesimo (sebbene dica esplicitamente che
non è questa la sua missione), né di dare indicazioni dettagliate alle sue comunità, tipiche
del pastore che ne orienta la vita e attività quotidiana. Il Paolo degli At, poi, presiede la
celebrazione eucaristica. D’altronde nelle Lettere Pastorali si trova, accanto al ministero dei
sacramenti (ordinazione compresa) e della guida pastorale ordinaria delle comunità, anche il
compito dell’annuncio della parola (nell’accentuazione del ‘depositum fidei’ da conservare
e difendere). Per quanto poi sappiamo del ministero svolto dai Dodici, essi assumono da
Gesù la globalità della missione di evangelizzazione, istruzione e culto (cf. Mt 28,18-20 e i
racconti dell’Ultima Cena; At 2; e i racconti di battesimo in At, ecc.). Il ministero apostolico
quindi, sul quale gli altri successivi vengono innestati, mantiene la globalità dei compiti
affidati da Gesù alla Chiesa e a loro stessi per la Chiesa. Sembra quindi molto difficile
fondare nel Nuovo Testamento la distinzione netta tra un vero e proprio ministero cultuale e
stabile e un vero e proprio ministero missionario e itinerante.
Il grande sforzo del Vaticano II è stato proprio quello di ricondurre ad unità questi
compiti che ormai viaggiavano paralleli, sebbene compresenti di fatto in molti presbiteri
(religiosi e diocesani): il munus cultuale, quello profetico e quello pastorale. Come abbiamo
accennato nella prima parte, il compito liturgico connotava la dogmatica del sacerdozio;
quello profetico – sospetto a causa dell’assunzione da parte dei protestanti – era stato
provvidenzialmente assunto specialmente dal clero religioso, prima dagli Ordini mendicanti
poi dai gesuiti e altri; quello pastorale, infine, caratterizzava la pratica di molti vescovi e
presbiteri post-tridentini, plasmati sulle scelte che quel Concilio operò (purtroppo soltanto)
nei decreti di riforma. Come vedremo tra poco, il Vaticano II adotta un’ermeneutica del
Nuovo Testamento e della Tradizione che ha come scopo di integrare i tre modelli
nell’unica natura del ministero ordinato, superandone il semplice affiancamento o
addirittura la concorrenza. La teologia della Chiesa locale, avviata decisamente – sebbene
non svolta compiutamente – dal Vaticano II è un altro elemento che rende molto
problematica la distinzione essenziale di un ministero stabile da uno itinerante. Siamo così
entrati nell’esposizione della terza grande interpretazione, quella analogica del Vaticano II.
INTERPRETAZIONE ANALOGICA
Sulla sostanza dell’interpretazione offerta dal Vaticano II circa la teologia del ministero e
sulla possibilità di indicare questa interpretazione come ‘analogica’ convergono autori di
tutte le posizioni. O’Malley, ad es., è perfettamente condivisibile quando afferma che il
Concilio parla di un solo sacerdozio con differenti spiritualità38 ed assume come analogato
principale il ministero pastorale del vescovo. Per il Vaticano II infatti esiste un ministero
ordinato, distribuito in tre gradi – dei quali il vescovo rappresenta la pienezza – ciascuno dei
38
. J. W. O’MALLEY, “Priesthood, Ministry, and Religious Life”, cit., pp. 250-251.
32
quali adotta legittimamente diverse modalità di esercizio, che si incanalano e convergono
comunque nel triplex munus dell’annuncio, celebrazione e guida pastorale.
Le ragioni per cui il Vaticano II giunge a questa concezione del ministero, recuperando
una lettura del Nuovo Testamento ‘ampia’ e integrativa di tutte le possibili visioni del
ministero e incanalandole nel modello proto-patristico invece che medievale, vanno
ricercate soprattutto nel duplice sforzo di collocare il ministero ordinato, fino ad allora
unilateralmente cultuale e sviluppato nella linea cristologica, nel quadro missionariodiaconale e nella linea ecclesiologica. Delineiamo i principali passaggi, solo logicamente
consecutivi ma in realtà maturati contemporaneamente in aula conciliare.
Natura missionaria del ministero ordinato nel Vaticano II
Alla porta del Vaticano II bussa un sacerdozio cultuale e sacrale e dalla stessa porta, tre
anni dopo, esce un ministero ordinato missionario ed ecclesiale. In tre anni si cono
concentrati moltissimi dibattiti sulla natura del ministero, tante interpretazioni delle
Scritture e della Tradizione, numerosissime preoccupazioni pastorali e pratiche. L’esito, per
quanto sofferto, è chiaro: la visione conciliare, fatta propria costantemente dal magistero
successivo, integra i tre modelli classici di ministero (sacerdotale, profetico e pastorale) in
una stessa natura, riconducendoli tutti all’Ordine e superando la dicotomia tra compiti
derivati dall’ordinazione sacramentale e compiti derivati dalla giurisdizione (si veda in
particolare il testo di PO 4-6, con il guadagno del triplex munus; e si pensi alla ‘distanza’
reciproca prima patita dai tre ambiti).
Il Vaticano II arriva a questo risultato partendo da un allargamento dell’istituzione del
ministero ordinato da parte di Gesù: non più solo nel mandato di ripetere il gesto
eucaristico, come classicamente si diceva (Gesù ha istituito il sacerdozio nell’Ultima cena),
ma più globalmente nell’intera missione affidata da Gesù ai Dodici e da questi partecipata ai
loro collaboratori e successori: missione che, come accennato, comprende anche il mandato
cultuale (e non solo eucaristico ma anche battesimale e forse penitenziale), ma non si ferma
ad esso, riguardando l’annuncio del Vangelo a tutte le genti e la trasmissione dei
comandamenti di Gesù, concentrati in quello dell’amore.
E’ stata questa ermeneutica globale del Nuovo Testamento a consigliare, durante i lavori
conciliari, di abbandonare lo schema delle duae potestates, che scindevano il ministero in
due diverse fonti, e adottare invece quello (presente per la prima volta in Calvino) dei tria
munera, che considera invece coessenziali le tre dimensioni, e tutte riconducibili ad
un’origine sacramentale, poi regolata a vario titolo dal diritto. Lo schema dei tria munera
apparve adatto ai padri conciliari ad esprimere l’unica origine della triplice missione dei
ministri sulla linea dell’apostolato.
Per questo poi il Concilio rovescia lo schema scolastico-tomista che vedeva l’analogato
principale del ministero ordinato nel ‘sacerdotium’, quindi essenzialmente nell’offerta del
sacrificio eucaristico, e lo pone invece nell’episcopato, inteso (alla maniera ignaziana e
proto-patristica) come somma del sacro ministero di annuncio, celebrazione e guida, e non
semplicemente come un’aggiunta di poteri giuridici ad un ‘sacerdozio’ già in sé completo
(cf. LG 25-27). Se prima era il vescovo che riceveva un ‘di più’ (liturgico-giuridico), poi è il
presbitero (e il diacono) che ‘partecipa’ della pienezza episcopale.
La maggiore o minore integrazione dei tria munera, nel concreto esercizio del ministero
da parte del vescovo, presbitero e diacono, renderà oggettivamente più o meno significativa
l’assunzione e conduzione di tale ministero. Il ministero ordinato, nella mens conciliare, si
33
realizza tanto più adeguatamente quanto più persegue la globalità della missione, cioè
quanto meglio integra ed esprime nel suo effettivo esercizio i tria munera. Probabilmente in
questo senso va letta, come diremo meglio tra poco, l’indicazione conciliare dei presbiteri
‘in cura d’anime’ come del modello di presbiterato ‘tipico’.
Natura diaconale del ministero ordinato nel Vaticano II
Riscoprendo la connotazione missionaria del ministero ordinato, il Vaticano II ne
metteva in luce anche la connotazione diaconale: il ministero ordinato in generale e
presbiterale in particolare emerge in primo luogo dal Vaticano II e dal magistero successivo
come diaconia. L'intero capitolo III della LG è percorso dall'idea che il ministero ordinato
non è una semplice 'dignità' ma un vero 'servizio' 39. Già nel n. 18 l'accento è sulla
finalizzazione ecclesiale del ministero pastorale: esso è infatti istituito “per pascere e sempre
più accrescere il popolo di Dio”; in tal modo i ministri “sono a servizio del loro fratelli,
perché tutti coloro che appartengono al popolo di Dio, e perciò godono della vera dignità
cristiana, aspirino tutti insieme liberamente e ordinatamente allo stesso fine e arrivino alla
salvezza” (LG 18).
Ma è nel n. 24, trattando dell’episcopato, che il principio è espresso più chiaramente,
poiché vi appare l'idea che il ‘potere’ dei vescovi in realtà non ha altro scopo che di essere
‘ministero’. Dopo avere richiamato i testi più importanti del Nuovo Testamento sulla
missione apostolica (Mt 28,18-20; Mc 16,15-16; At 26,17 ss) e sull'invio dello Spirito agli
Apostoli (At 1,8; 2,1 ss; 9,15), il testo conclude: “questo ufficio (munus) che il Signore ha
affidato ai pastori del suo popolo è un vero servizio (servitium), che nella Sacra Scrittura è
chiamato significativamente ‘diaconìa’ o ministero ('diakonìa' seu ministerium) (cf. At
1,17.25; 21,19; Rom 11,13; 1 Tim 1,12)”. La potestas-exousìa è dunque intesa non come
comando o dignità, bensì come munus, servitium, diakonìa, ministerium. E' determinante il
fatto che questo paragrafo venga collocato prima dei tre successivi che trattano dei tria
munera episcopali: ne dà dunque l'inquadratura e l'interpretazione esatta, che è quella
diaconale.
Anche il presbiterato è ordinato al ministero40, come affermano sinteticamente i redattori
del testo finale di PO, interpretandone l’orientamento di fondo. Nel diaconato, poi, la parola
stessa fa perno sull’idea del ministero (cf. LG 29). Un dato è quindi sicuro: rituffando la
teologia del ministero nella sua sorgente neotestamentaria, il Vaticano II ne recupera la
connotazione diaconale, che diventa il filo conduttore per trattare di tutte e tre le
articolazioni dell’Ordine, e sostituisce una visione troppo incentrata sulla sacralità e la
dignità del sacerdozio, come se questo fosse conferito più per elevare la persona che lo
riceve che non per mettersi a servizio del popolo sacerdotale.
Tale diaconia, episcopale, presbiterale e diaconale, si esercita nella Chiesa e di fronte alla
Chiesa (linguaggio che non si trova nei testi conciliari, ma ne rappresenta una buona
interpretazione, adottata ufficialmente da Giovanni Paolo II per i sacerdoti in Pastores dabo
vobis, 16):
39
Cf. M. LÖHRER, La gerarchia al servizio del popolo cristiano, in G. BARÁUNA (ed.), La Chiesa del
Vaticano II, Vallecchi, Firenze 1965, pp. 699-712. L'autore mostra come la LG, recuperando il fondamento
neotestamentario del 'servizio' pastorale, inquadra la gerarchia nelle coordinate della doppia ministerialità
cristologico-ecclesiale.
40
AS IV, VII,115 (Modi generales).
34
a. la connotazione cristologica del ministero è espressa dall’espressione ‘di fronte alla
Chiesa’: l’ordinato riceve il ministero non da una delega della comunità, ma dall'autorità
di Cristo: si dovrebbero menzionare in merito i passi Nuovo Testamento sulla chiamata e
l'invio del Dodici, sui forti richiami di Paolo all'exousìa ricevuta da Cristo e non dagli
uomini, ecc.; su questa linea si leggono la ‘sacramentalità’ dell'Ordine e il ‘carattere’ che
esso conferisce: prova che il ministro non agisce facendo leva sulle proprie qualità
psico-morali-spirituali, ma sulla grazia di Cristo.
b. mentre 'nella Chiesa' esprime la connotazione ecclesiologica del ministero: l’ordinato
non è un super-battezzato, ma un battezzato (dunque membro del popolo sacerdotale)
che ha ricevuto la missione sacramentale di ‘rendere presente’ Cristo risorto Via, Verità
e Vita, contribuendo a edificare la Chiesa attraverso l'annuncio autorevole della Parola,
la celebrazione/presidenza dei sacramenti e il discernimento dei doni dello Spirito. E con
queste osservazioni siamo già allo snodo successivo.
Collocazione ecclesiologica del ministero ordinato nel Vaticano II
L'idea del ‘sacerdos alter Christus’, come sopra è già emerso, aveva avuto grandi meriti
storici; essa rappresentava la coniugazione tra lo sforzo gregoriano di trasferire la
spiritualità monastica sul prete e l'individuazione medievale-tridentina dell'essenza del
'sacerdozio' nell'abilitazione all'offerta sacrificale dell'eucaristia. In quella visione il prete si
santificava nella misura della sua componente monastica e della sua capacità oblativa
interiore: il ministero di tanti presbiteri è stato sostenuto da questa impostazione ed ha
portato enormi benefici alla Chiesa.
Quella impostazione, tuttavia, aveva messo in sordina la dimensione ecclesiologica del
ministero ordinato. Riportandola in luce, l'ultimo Concilio ha integrato il riferimento
cristologico con il riferimento ecclesiologico. In questo modo il Vaticano II ha anche potuto
evitare senza traumi l'uso delle due categorie – effettivamente equivoche se non ormai
fuorvianti – di ‘sacerdos alter Christus’ e ‘mediatore’, che veicolavano una immagine di
comunità ‘passiva’, incompatibile con la visione del Vaticano II, che rilancia il sacerdozio
comune (cf. LG 11, ecc.) e la missione come caratteristiche di tutto il popolo di Dio (cf. LG
17; AA 2; AG 5; ecc.).
Il ministro ordinato, per il Vaticano II, non sta a metà tra il cielo e la terra, ma sta con i
piedi saldamente per terra, testimoniando efficacemente come solo la grazia di Cristo (la
grazia dello Spirito, dei sacramenti e della parola) edifichi la Chiesa e il mondo. Il ministro
ordinato non assorbe in sé tutta l’azione di Cristo e dello Spirito nella Chiesa e nel mondo,
ma si pone a servizio (diaconia) di tale azione, costituendo uno dei mezzi efficaci di cui il
Signore ha dotato la Chiesa per renderla consapevole della gratuità della salvezza.
Se il ministero ordinato nella mente del Vaticano II vive e opera essenzialmente (e non
‘accidentalmente’) legato alla Chiesa, ciò significa che la santificazione del ministro – ed
ora parliamo direttamente del presbitero – avviene nell'esercizio del ministero ecclesiale:
non a fianco né tantomeno nonostante l'esercizio di tale ministero.
Con queste affermazioni, avanzate per la prima volta chiaramente in PO 13 e riprese poi
costantemente dal magistero seguente (cf. Pastores dabo vobis, 26), veniva a maturazione la
riflessione sul ‘clero diocesano’ del card. Mercier, sfrondata dalle sfumature 'sacrali' che in
lui permanevano. Sintomatica l'inversione nel titolo e nella trattazione durante
l'elaborazione del documento sui presbiteri: dal precedente de vita et ministerio sacerdotum
35
si passa all'attuale de ministerio et vita presbyterorum: non è possibile tratteggiare la vita
spirituale prima del ministero (modello del ‘serbatoio’ spirituale), perché la prima riceve la
sua connotazione essenziale dal secondo. In tal modo il Vaticano II supera in linea di
principio la sovrapposizione tra componente ‘monastica’ contemplativa e componente
‘apostolica’ attiva nel presbitero; l’apostolato stesso, nell’esercizio della triplice missione,
plasma e struttura la vita spirituale dei presbiteri, e richiede loro ascolto della Parola,
contemplazione e celebrazione dei misteri, preghiera e oblazione.
Si comprende così come l'elemento specifico della spiritualità del presbitero venga
indicato dal Concilio nella carità pastorale (cf. PO 14):
c. La carità è la via di perfezione comune ad ogni battezzato; ciascun cristiano è chiamato
a santificarsi (cf. LG cap. V) e la santificazione avviene nella carità: misura cristiana
della santità non sono di per sé i voti, le pratiche ascetiche, la preghiera e la meditazione,
gli impegni a favore del prossimo; misura della santità è la carità che viene immessa
dentro a tutte queste dimensioni. Ma non esiste un solo modo di declinare la carità:
esistono invece un modo matrimoniale, uno monastico, uno religioso, uno laicale, uno
ministeriale, e tanti altri.
d. Il presbitero ha un suo modo specifico di vivere la carità: si santifica vivendo la carità
nella forma pastorale. Il concetto di ‘carità pastorale’ è stato così inteso dal Vaticano II:
“rappresentando il buon pastore nello stesso esercizio della carità pastorale, (i presbiteri)
troveranno il vincolo della perfezione sacerdotale che realizzerà l'unità nella loro vita e
attività” (PO 14). Il magistero successivo, universale e italiano, è ritornato spesso
sull'importanza della carità pastorale (cf. in particolare Pastores dabo vobis, 21-23). Se il
presbitero rappresenta Cristo in quanto Capo, Pastore e Sposo, la sua peculiare maniera
di santificarsi prende la forma della pastoralità (meno usate ma legittime le categorie di
‘capitalità’ e ‘sponsalità’), cioè fa essenzialmente riferimento anche ad un gregge, ad un
popolo. L'esercizio del ministero favorisce la crescita della carità pastorale ed è a sua
volta alimentato da essa.
Collocazione ‘locale’ del presbiterato nel Vaticano II
Ma il Vaticano II ha declinato la dimensione ecclesiale del ministero non solo in
direzione universale bensì anche locale. L'ecclesiologia universale, dominante nella teologia
cattolica del secondo millennio, è stata integrata dall’ultimo Concilio con l'ecclesiologia
locale (cf. specialmente SC 41; LG 23 e 26 e CD 11), prevalente invece nell'epoca patristica
e conservata nella tradizione orientale. L'approfondimento della teologia della Chiesa ‘corpo
di Cristo’ in relazione all'Eucaristia (cf. specialmente de Lubac e Afanassiev), coniugata con
la recuperata sacramentalità e collegialità episcopale (cf. LG cap. III) ha permesso di
raggiungere una sintesi che non rinuncia (ovviamente) all'elemento universale del primato
romano, ma lo riconduce al suo contesto, che è quella della communio tra le Chiese: è
questa communio che, per essere tale, esige un primato, non concepito come delega dai
singoli vescovi ma come esercizio vicario del ministero di Pietro.
La principale manifestazione della Chiesa si ha dunque non là dove il ministero petrino è
esercitato al massimo grado (es.: esercizio del magistero infallibile da parte del Papa), ma là
dove il vescovo, il presbiterio e il popolo di Dio si radunano attorno alla celebrazione
eucaristica (cf. SC 41). E' l'Eucaristia che ‘fa’ la Chiesa ‘corpo di Cristo’: è lo stesso Cristo
che si rende presente, nell'Eucaristia, in tutte le Chiese locali presiedute dai loro vescovi. E'
36
quindi nella Chiesa particolare/locale che quella universale si fa evento, è lì che si incontra
concretamente Cristo Sacerdote, Re e Profeta, si entra a far parte del suo corpo e si
collabora alla sua edificazione.
Se è vero che è essenzialmente 'ecclesiale', il ministero ordinato in quanto tale, prima
ancora delle distinzioni nelle diverse modalità di esercizio, è segnato anche dalla forma
locale della Chiesa: il riferimento ad essa non è per il presbiterato un ‘di più’ facoltativo, ma
ne incide la natura stessa. Non avrebbe senso, proprio per la natura ministeriale dell'Ordine,
una sorta di ‘ordinazione assoluta’, senza riferimento vivo ad una determinata Chiesa
particolare, cioè ad un popolo di Dio nel territorio, al vescovo e al presbiterio. E se questo
vale in modo paradigmatico – per il presbitero diocesano, che è incardinato in una Chiesa
particolare, avendo scelto di dedicarvisi interamente, vale anche in misura minore e diversa
per il presbitero religioso, se è vero che il secondo grado dell’Ordine è per il ministero della
parola, dei sacramenti e della guida pastorale, e che questi ministeri per loro natura si
intrecciano con la vita di una precisa Chiesa locale. E' difficile dopo il Vaticano II concepire
il ministero di un presbitero avulso dal concreto cammino di una Chiesa particolare: e il
richiamo alla Chiesa universale non dovrebbe mai diventare occasione per evadere dalle
concrete esigenze comunionali e missionarie della Chiesa concreta nella quale il presbitero è
incardinato e/o lavora.
Il richiamo alla missione ad gentes non è una reale obiezione alla dimensione ‘locale’ del
presbiterato, perciò non è fondato distinguere nettamente una figura locale e stabile di
ministro da una missionaria e itinerante. E’ infatti sempre una Chiesa locale ad essere
soggetto principale di missione e pastorale sul territorio, anche quando questa Chiesa sia
ancora in via di formazione; e quando non esiste ancora, perché il Vangelo non è giunto in
un luogo, è l’interesse di altre Chiese, espresso attraverso persone concrete (singoli,
presbiteri, religiosi, diaconi, congregazioni e ordini, ecc.), a suscitare l’ascolto e l’adesione.
Il presbitero che annuncia il Vangelo ad gentes, dovrebbe essere sempre meno visto come
un ‘eroe isolato’ – se è vero che la missione è opera di tutta la Chiesa – e sempre più come
‘inviato’, da una Chiesa che dona ad un’altra l’annuncio del Vangelo. La missione che un
presbitero diocesano esercita lontano dalla sua Chiesa locale è parte della missione che
quella Chiesa locale esercita nel mondo: quel presbitero diocesano è sempre a servizio della
propria Chiesa particolare, in una dedicazione che può prevedere modi di esercizio diversi
ma che rimane sempre tale; è poi l'intera Chiesa particolare che si pone più evidentemente,
con la sua attività missionaria, a servizio della Chiesa universale. E la missione che un
presbitero religioso esercita nel mondo, è espressione diretta della cura missionaria della sua
congregazione o del suo ordine, ma prende avvio comunque da una Chiesa locale nella
quale egli è stato battezzato ed educato alla fede, e poi va ad innestarsi comunque in una
realtà ‘locale’, in una comunità che è o può diventare diocesi, che come tale ha un suo
volto, una sua configurazione sociale, una sua storia, delle esigenze che vanno rispettate e
interpretate. Per questo la spiritualità diocesana concerne tutti i presbiteri, anche religiosi; si
può dunque parlare di spiritualità del prete diocesano, riferendosi al sacerdote secolare
incardinato in un diocesi, ma si deve parlare anche di spiritualità diocesana del prete,
comprendente sia il presbiterato secolare che quello religioso41.
41
Abbiamo tentato di articolare la distinzione tra spiritualità diocesana del prete e spiritualità del prete
diocesano nel breve contributo: Principi fondamentali di una spiritualità ‘diocesana’ del presbitero, in
Orientamenti pastorali 52 (2004) n. 10, 52-60.
37
‘Locale’ non è perciò alternativo a ‘missionario’: la missione, anche quella ad gentes, si
intreccia con la vita di una o più Chiese locali. La Chiesa locale è per natura missionaria,
altrimenti non è ‘Chiesa’. Anche il presbitero diocesano è per natura ‘missionario’,
altrimenti non è presbitero. Ogni presbitero, diocesano o religioso, è missionario, sia nel
senso ampio della ‘missione’ che riguarda tutti gli uomini a cui è mandato, nei quali – anche
fossero tutti battezzati – resta sempre il germe del peccato e quindi una componente
‘mondana’ da evangelizzare, sia nel senso stretto eventuale della missione ad gentes, che
deve essere assunta da una comunità diocesana o religiosa e che comunque si innesta
sempre in un terreno ‘locale’. Ed ogni ministero si svolge ‘in frontiera’, non solo quello di
chi si reca (lodevolmente) in zone pericolose o di particolare disagio: non solo perché ormai
anche le nostre diocesi presentano queste situazioni, ma anche perché la vera frontiera è il
cuore dell’uomo, ed in qualunque ambiente, anche quelli apparentemente meno
compromessi, si incontrano delle povertà tremende che richiedono la grazia risanante del
Signore e della sua parola. Non appaiono quindi congruenti tutti quei tentativi di fondare de
iure la diversità tra clero diocesano e religioso su una dinamica stabile-itinerante o
ordinario-straordinario o cultuale-missionario o normale-di frontiera, e simili. Il vero deficit
di queste teorie è la teologia della Chiesa locale, che viene implicitamente contrapposta alla
Chiesa universale, ponendo nella prima un accento di staticità e nella seconda di dinamicità.
D’altronde non è affatto detto che un presbitero diocesano si concentri soprattutto sulla
conduzione pastorale e sui sacramenti e un presbitero religioso sull’annuncio e sull’attività
in frontiera. Vi sono presbiteri diocesani che si proiettano ‘fuori’ dai confini ecclesiali e
presbiteri religiosi che si dedicano al (non meno importante anche se meno appariscente)
ministero della celebrazione e dell’assoluzione. Porre la distinzione a questo livello appare
molto problematico.
In questo senso si può convenire con Dianich quando afferma che tutte le forme di
esercizio del ministero presbiterale devono svolgersi in relazione (di varia intensità) con la
Chiesa locale e non è pensabile che si attuino “senza legami di dipendenza da alcuna Chiesa
locale”42, per cui è esigito comunque “un ancoramento di ogni ministero ordinato ad una
chiesa locale”43. Ancoramento che per l’episcopato viene mantenuto, da Nicea in avanti,
pena l’invalidità dell’ordinazione (con la finzione giuridica – comunque teologicamente
significativa – dell’attribuzione di sedi non più esistenti a vescovi che vengono ordinati non
per una diocesi, come gli ausiliari, i funzionari della curia romana o i nunzi apostolici); e
che per il presbiterato va comunque mantenuto, quando non a livello giuridico
(incardinazione), almeno a livello ‘operativo’, cioè di inserimento nel tessuto vivo di una
Chiesa locale.
LINEE PER UNA RIFLESSIONE TEOLOGICA SUL CLERO RELIGIOSO
Una volta escluse come inadeguate le ipotesi appena emerse, va comunque perseguito il
tentativo di trovare un proprium teologico del clero religioso. Il Vaticano II in effetti su
questo punto appare piuttosto reticente. Ma è un fatto che la progressiva riscoperta
conciliare della natura missionaria, diaconale ed ecclesiale (universale e locale) del
ministero ordinato – in particolare del presbiterato – delineava gradualmente una figura
sostanzialmente rispondente più al clero diocesano che a quello religioso; questo ha
42
S. DIANICH, “Ministeri e ministero ordinato nella vita dei religiosi”, in Homo Vivens 11 (2000), pp.
377-400; qui: 392.
43
Ibid., 394.
38
prodotto – come ripetutamente osservato da molti – dei documenti ritagliati sui presbiteri
diocesani, con generiche dichiarazioni di validità, ‘pro sua parte’, anche per i presbiteri
religiosi: si deve considerare questa attenuante, quando si imputa con buone ragioni al
Vaticano II una carenza nella riflessione sui preti religiosi. La teologia conciliare dei
ministeri, per così dire, è stata talmente assorbita dalla consonanza tra la figura sacerdotale
che meglio emergeva dal Nuovo Testamento e dalla tradizione antica e la figura pastorale
del presbiterato diocesano, che non ha avuto tempo né modo di sviluppare ulteriormente la
riflessione. E’ certamente vero che il Vaticano II non è intoccabile e definitivo, e non volle
esserlo, e quindi non va “congelato nella sua perfezione”44; ma non sembra che il prezzo da
pagare per valorizzare il clero religioso sia di contrastare il Vaticano II: va piuttosto
integrato e approfondito.
Occorre dunque prendere atto che con il Concilio si è verificato un significativo
capovolgimento teologico dovuto in massima parte proprio all'impostazione di PO. Se prima
il tipo ideale di presbitero al quale rifarsi era quello religioso (alla cui figura la spiritualità
del presbitero cosiddetto ‘secolare’ doveva ispirarsi il più possibile), dopo il Concilio il tipo
di presbitero che meglio incarna il significato del ministero presbiterale è il’'pastore’, cioè il
presbitero ‘in cura d'anime’, che è per sua stessa costituzione il presbitero diocesano. Il
presbiterato apparirebbe dunque oggi più compiutamente tradotto dalla figura diocesana di
presbitero che non da quella religiosa. In realtà, però, in Concilio la questione è più
complessa, perché si ha a che fare non con due categorie, bensì con quattro: alla distinzione
tra presbitero diocesano e regolare, infatti, occorre aggiungere quella tra presbitero in cura
d'anime e presbitero non in cura d'anime 45.
La vicenda conciliare dei destinatari di PO è, in proposito, di particolare interesse; alcune
volte, nelle discussioni tra i padri conciliari, era stata espressa la preoccupazione che il
contenuto del decreto in via di elaborazione trascurasse i presbiteri religiosi e fosse diretto
di fatto ai soli diocesani. In effetti, a mano a mano che si guadagnava un'impostazione meno
sacerdotale-sacrale e più ministeriale del presbiterato, con l'emergere della carità pastorale
come nota caratterizzante il suo ministero e la sua vita spirituale, veniva a delinearsi per
forza di cose il presbitero diocesano in cura d'anime come ‘tipo ideale’ di presbitero e
veniva sollevata, corrispettivamente, la domanda sul senso del ministero ordinato di quei
presbiteri che non assumono cura d'anime, tra i quali vi sono specialmente presbiteri
religiosi. Mentre i primi schemi del decreto ignorarono la questione, la penultima redazione
precisò che il Concilio tratta “dei presbiteri, specialmente diocesani; ma ciò che viene detto,
con i dovuti adattamenti, si applica anche ai presbiteri religiosi che sono dediti alla cura
delle anime” 46.
Il testo definitivo contiene alcune varianti: “ciò che qui viene detto si applica a tutti i
presbiteri, specialmente a coloro che sono dediti alla cura delle anime, con i dovuti
adattamenti a riguardo dei presbiteri religiosi”. La diversità tra i due testi appare
significativa: nella penultima redazione il decreto veniva rivolto in primo luogo ai presbiteri
diocesani, in secondo luogo a quelli religiosi in cura d'anime e in terzo luogo a tutti gli altri
presbiteri (cioè quelli religiosi non in cura d'anime); l'ultima redazione, invece, riporta una
diversa successione: i presbiteri diocesani in cura d'anime, poi i presbiteri religiosi in cura
44
Cf. J. W. O’MALLEY, “Priesthood, Ministry, and Religious Life”, cit., pp. 228-229.
Utilizziamo questa distinzione senza sposarla (a rigore: chi sarebbero quei preti che, volendo essere tali,
non sono 'in cura d'anime'?) e solo perché il Concilio la usa (cf. PO proemio), intendendo con preti 'in cura
d'anime' quelli impegnati direttamente nella pastorale parrocchiale.
46
AS IV,VI,345.
45
39
d'anime e infine tutti i presbiteri (diocesani e religiosi) che non sono in cura d'anime. Se
dunque nella penultima redazione criterio principale era la diocesanità e criterio subordinato
la pastoralità, nel testo finale il rapporto tra i due criteri si inverte, per non accentuare
l'impressione che il clero religioso traduca meno di quello diocesano la natura del
presbiterato. Rimane il fatto che la figura presbiterale oggettivamente più completa, nel
decreto, appare quella dotata di entrambe le qualità, ossia il presbitero diocesano ‘in cura
d'anime’ 47. Gli altri (non molti) passi conciliari che trattano del clero religioso non
cambiano il quadro generale delineato da PO48: tra questi è utile menzionare esplicitamente
un passaggio di CD 28, che appare in qualche modo esemplificativo della visione conciliare
sul nostro argomento: “Tutti i sacerdoti, sia diocesani che religiosi, in unione col vescovo
partecipano all’unico sacerdozio di Cristo e lo esercitano, e perciò sono costituiti
provvidenziali cooperatori dell’ordine episcopale. Nell’esercizio della cura delle anime la
principale responsabilità spetta ai sacerdoti diocesani, come coloro che, incardinati o addetti
a una Chiesa particolare, si consacrano totalmente al suo servizio per pascere una porzione
del gregge del Signore. Perciò essi costituiscono un solo presbiterio e una sola famiglia, di
cui il vescovo è il padre”.
Muovendoci sulla linea del Concilio possiamo concludere che se la natura del
presbiterato è la ministerialità, innervata dalla carità pastorale, in ordine all’annuncio della
parola, alla celebrazione dei sacramenti e alla guida pastorale di una porzione del popolo di
Dio, la sua traduzione tipica avviene in effetti nel presbiterato diocesano, relazionato in
modo essenziale ad una Chiesa locale: vescovo, presbiterio e porzione di popolo di Dio a lui
affidata; andrà dunque ridefinito il significato dell'ordinazione presbiterale conferita ai
religiosi; tenendo conto della specificità del carisma ‘religioso’, che in molti casi potrà
meglio emergere se non viene affiancato al sacramento dell'Ordine.
Non si può comunque parlare semplicemente del ‘clero’ in generale o limitarsi a
distinguere diverse forme pratiche di esercizio del ministero presbiterale: e non si può non
solo per la consistenza numerica del clero religioso (un terzo dei presbiteri del mondo), ma
anche e soprattutto per il ‘filo rosso’ che lega i presbiteri che vivono negli ordini e nelle
congregazioni: la consacrazione. Il rapporto che si crea tra consacrazione e ordinazione,
quando entrambe si incontrano nello stesso soggetto, rappresenta teologicamente un punto
importante. E’ probabilmente questa la pista di ricerca più promettente, che gli stessi
presbiteri religiosi o religiosi presbiteri potrebbero continuare a percorrere, per approfondire
47
La conferma di questa scelta di PO viene da una risposta della Commissione redattrice del decreto a 139
padri conciliari che avevano proposto di aggiungere al titolo ("Il ministero e la vita dei presbiteri") la
specificazione "specialmente diocesani", per delimitare la trattazione e non dare l'impressione che il
presbiterato si risolva nella diocesanità. Ecco la risposta della Commissione: "cum de ministerio
Presbyterorum quaestio sit, et de vita earum uti exigitur ab ipso ministerio, declarationes schemati reapse
valent de omnibus Presbyteri, qui in ministerio partem habent; ceterum Presbyteratus ordinatur ad
ministerium, ita ut per se valeant declarationes de omnibus Presbyteris, quatenus de facto in ministerio partes
habent" (Relatio de singulis numeris: AS IV,VII,115). La Commissione si richiama dunque alla natura
ministeriale del presbiterato per concludere che il decreto vale, nei diversi casi, proporzionalmente al grado
di esercizio effettivo del ministero.
48
PC ne accenna solo fugacemente e in maniera poco significativa ai nn. 8 e 20, a dispetto della grande
importanza che il ministero ha avuto nella storia di certi ordini religiosi. CD, oltre al n. 28 citato nel testo, vi
si riferisce ai nn. 30.34.35: il criterio presbiterale di CD è lo stesso ministero episcopale, cioè la cura
animarum. Interessante la sfumata affermazione di CD 34: i presbiteri religiosi “sono da considerarsi in certo
qual vero modo come appartenenti al clero della ciocesi”.
40
la riflessione: che cosa significa che la forza del sacramento dell’Ordine si unisce nella
stessa persona alla forza della sequela radicale di Gesù, che questa avvenga in direzione
prevalentemente contemplativa oppure apostolica. Avanziamo un’ipotesi, da discutere e
verificare.
Si potrebbero ipotizzare due figure ‘tipiche’, rispettivamente di ministero ordinato e di
consacrazione religiosa, ed una terza figura che – senza essere un ibrido – mostrerebbe la
fecondità della relazione tra le prime due.
La prima figura tipica, riguardante il ministero ordinato, è quella del vescovo, ordinato
per la diaconia dell’annuncio, della celebrazione e della guida pastorale in una Chiesa
particolare. Conformemente all’impostazione del Vaticano II, è dunque l’episcopato
l’analogato principale del ministero ordinato; della pienezza episcopale partecipano per la
loro parte i presbiteri (e i diaconi), il ministero dei quali è oggettivamente tanto più
significativo quanto più tende all’esercizio armonioso dei tria munera verso il popolo di
Dio, in relazione filiale con il vescovo e in comunione fraterna nel presbiterio. Siccome la
figura pratica che strutturalmente realizza meglio questa armonia è quella del presbitero in
cura d’anime o del parroco, a questa figura va la preferenza del Vaticano II (cf. in
particolare il Proemio di PO e CD 30).
La seconda figura tipica, riguardante la consacrazione, è quella del monaco e del
religioso, nei quali i voti, incarnati poi concretamente nella vita solitaria o comune, nella
contemplazione o nell’azione, caratterizzano la testimonianza della superiorità di Dio su
ogni valore terreno, anche importante, ed offrono al mondo il richiamo vivente al Regno dei
cieli, dove la somma ricchezza, il gaudio pieno e la libertà totale è Dio stesso. L’analogato
principale della vita consacrata resta quindi, a nostro parere, l’istituto dei voti che, sebbene
non assorba tutta la ricchezza della condizione monastica e religiosa, la connota in maniera
distintiva rispetto alle altre vocazioni e ne indica l’apporto più cospicuo alla Chiesa e al
mondo. Sono stati all’inizio e sono gli stessi monaci, ed oggi sono anche molti religiosi, a
chiedere con insistenza di conservare anche questa forma tipica della consacrazione, senza
necessariamente o normalmente coniugarla con il ministero ordinato: sia perché l’impiego
nel ministero pastorale di tipo parrocchiale portano via tempo ed energie alla coltivazione
del proprio carisma religioso, a danno non solo del proprio Istituto ma della Chiesa, privata
in tal modo di quella specifica testimonianza49, sia per il “desiderio di ricuperare il modello
di vita presentato dal Vangelo e vissuto nella prima comunità cristiana”; nel caso di istituti
di vita attiva, questa richiesta nasce anche “dal desiderio di distinguere più chiaramente i
compiti propriamente sacerdotali da quelli che possono essere svolti da laici”50.
La terza figura in qualche modo coniuga consacrazione e ministero ordinato. Il presbitero
che vive nel contempo la consacrazione religiosa e il religioso che nello stesso tempo vive il
ministero presbiterale, uniscono in maniera originale le due vocazioni. Nel realizzare questa
coniugazione, colui che assume sia il ministero ordinato che la consacrazione religiosa
rinuncia in un certo senso alla tipicità dell’uno e dell’altra; ma questa rinuncia è
controbilanciata e ripagata dall’originale sintesi che nasce da tale coniugazione. Questa
rinuncia si potrebbe forse concretamente tradurre anche in termini giuridici, come segue: il
presbitero che emette i voti ‘ridimensiona’ l’istituto dell’incardinazione, mentre il religioso
49
Cf. il Documento “Priests and Religious” (1990), della Conferenza dei Superiori Maggiori degli USA,
cit. in R. ZAS FRIZ DE COL, “La condizione attuale del presbitero religioso nella Chiesa”, cit., pp. 47-48.
50
Cf. J. DUBOIS, “Sacerdozio”, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, cit., col. 89 e G. ROCCA,
“Sacerdozio”, in Ibid., col. 97.
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che viene ordinato presbitero ‘ridimensiona’ l’istituto dell’esenzione. La ricchezza che
controbilancia tale rinuncia si potrebbe forse indicare in questo modo: il consacrato che
viene ordinato prete testimonia come il presbiterato sia una delle forme possibili del dono
totale e radicale di sé al Signore e alla Chiesa; e il presbitero che emette i voti in un ordine o
in una congregazione testimonia come la consacrazione possa favorire la dedicazione della
propria vita e delle proprie energie alla diaconia di Cristo per la Chiesa, e in particolare per
una Chiesa. La lunga tradizione latina del celibato presbiterale ha già facilitato questa
coniugazione, sebbene a volte la trasposizione dell’una nell’altra vocazione sia avvenuta –
come abbiamo visto – in termini problematici.
Sono solo spunti per un discorso che, se ritenuto plausibile, potrebbe continuare, venire corretto e
precisato. E’ però un discorso che sta iniziando e quindi esigerà molta pratica, spirituale e pastorale,
per aiutare la teologia a registrarsi e raffinarsi. Sarà la lettura critica delle diverse situazioni alla luce
della Rivelazione alla teologia elementi per arrivare a qualche sintesi concreta, che non sacrifichi le
principali acquisizioni conciliari circa la teologia della Chiesa locale e la natura missionaria,
diaconale ed ecclesiale del ministero ordinato. Occorrerà in particolare che gli stessi religiosi
chiariscano meglio il loro carisma in relazione al ministero ordinato: e non solo in senso generale,
come rapporto tra ministero e vita religiosa, ma soprattutto in senso specifico: occorre cioè che
dall’interno di ciascun ordine o congregazione o istituto si precisi quale sia questa relazione, che si
presenta non facilmente generalizzabile, ma che assume tratti particolari per ciascuno: un esempio
da imitare ed approfondire è la promettente riflessione avviata sul “caso dei gesuiti”, con gli studi in
particolare di p. Costa e di p. Zas Friz de Col51.
51
M. COSTA, “’Sacerdote-religioso’ o/e ‘Religioso-sacerdote’? Vocazione al sacerdozio e vocazione alla
vita religiosa negli Istituti di vita consacrata”, in Informationes SCRIS 26 (2000), pp. 55-87; R. ZAS FRIZ
DE COL, “L’identità ecclesiale del presbitero religioso. Il caso dei gesuiti”, pp. 325-360. Quest’ultimo
passa in rassegna le opinioni degli stessi studiosi gesuiti, che risultano in merito svariatissime.
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