Pochi desideri ma seri - racconto di Camelia Ciuban

Transcript

Pochi desideri ma seri - racconto di Camelia Ciuban
Pochi desideri ma seri
Di Camelia Ciuban
L’errore è stato attraversare l’ingresso senza accendere la luce. Il colpo all’anca
arrivò secco e potente. Imprecai come un camionista e mi trascinai in cucina dove
lei mi aspettava con il solito caffè bollente. Non appena accennai sull’esigenza di
buttare quella vecchia e ingombrante macchina da cucire incominciò a raccontarmi
questa storia di tanto tempo fa. Così tanto che io non ero ancora nata. Lei però sì.
E anche sua sorella Nunzia che, tra tutti, era la più grande. Se ne andò presto di
casa in città per studiare. Aveva deciso di non fare mai la fine dei suoi genitori,
gente povera sommersa da figli e tormenti. Sarebbe diventata proprio una di quelle
belle signore che vivono in palazzi di quattro piani, con bagni e tutte le comodità. Il
passato l’avrebbe sepolto. Scordato. La scuola poi l’aveva tirata per i capelli. Era
riuscita a finire il liceo ma non a diplomarsi. Quello non l’avrebbe mai fatto. Ma
ormai aveva poca importanza: l’uomo della sua vita l’aveva incontrato e lui le aveva
promesso che non appena si fossero sposati avrebbe cercato un bel appartamento
al quarto piano e l’avrebbe fatta la regina della casa. Nunzia già si sognava con le
unghie smaltate di rosso ciliegia e i bigodini in testa.
-
Ecco, arriva tuo padre. Vai a salutarlo che non ti vede da Ferragosto. Io gli
vado a preparare l’acqua per lavarsi.
Nunzia guardò fuori dalla finestra:
-
Ma se non c’è nessuno!
-
C’è, c’è! Non senti Lupo?
Ormai riconosceva l’arrivo del marito dal guaito del cane. Infatti da lì a breve si
sentì lo scricchiolio del portone. Nunzia non capì neppure quando Lodor sgattaiolò
di fianco a lei e raggiunse il padre balzandogli nelle braccia:
1
-
Papà! È arrivata la Nunzia.
-
Briciola! Come stai?
-
Bene, oggi ho tossito poco poco, guarda se prendo vigore – e gli fece vedere
un bicipite gracile e pallido come il suo viso.
-
Sei un orso sei!
Nunzia aspettava sulla soglia di casa e non appena suo padre mise a terra il
fratello, gli andò incontro abbracciandolo forte. Lui la strinse a sé e se la tenne a
lungo. Poi l’allontanò di poco fermandola per un braccio e misurandola dalla testa ai
piedi:
-
Ma guarda se sei cresciuta!
-
Me lo dici ogni volta ma ho smesso di crescere da un bel po’.
-
Allora sarò rimpicciolito io. Ciao vagabonda.
-
Papà! Me lo devi sempre rimproverare?
-
Non mi sono abituato a non averti più qui.
L’abbracciò ancora e poi mangiarono in un chiasso indescrivibile. Sei figli non erano
pochi. Ma neanche troppi – pensava l’uomo e guardò Lodor che rideva come la
primavera tra un colpo di tosse e l’altro. Che Dio me lo lasci questo figlio – pregò
qualcuno che sembrava si fosse dimenticato di lui – che Dio me lo lasci!
Da quando si era ammalato avevano perso la pace. L’avevano portato ovunque,
da tutti i medici e persino al monastero ma il piccolo continuava a peggiorare e si
spegneva a vista d’occhio. A stento, ma finora era sempre riuscito ad alzarsi dal
letto, anche nei momenti peggiori in cui si svegliava sputando quei grumi di sangue
che gl’impedivano di respirare. Il dolore lo conteneva con una dignità innaturale
persino per un adulto. Gli toglieva tutto ma non la smisurata voglia di vivere. Con
gli occhi sbarrati, il respiro mozzato, la bocca spalancata e i pugni infossati
nell’addome, quando aveva una di quelle crisi guardava in faccia sua mamma come
per dirle “non lo farò mai più non lo farò”.
Non chiedeva aiuto. Chiedeva solo perdono. Perdono per star male e per farli
stare male. Raramente aveva ancora giornate buone come questa in cui riusciva a
fare due salti o a scendere nel cortile. Di solito stava coricato nel letto che i suoi
2
avevano posto per lui giusto sotto la finestra e guardava i suoi fratelli che
giocavano o si menavano nel patio. Spesso Sandra, la sorella di due anni più
grande, si prendeva sulle ginocchia l’uncinetto e gli faceva compagnia.
-
Ma vai a giocare che tanto non ti sposi domani! Che stai a cucire il corredo a
undici anni?
-
Non mi va coi figli della Dora, mi prendono in girò quelli lì.
-
Se fossi io al posto tuo li farei secchi! Che hai paura? Sono più piccoli di te.
-
Che siano. Non mi va. E non urlare che non sono sorda.
-
E chi ha detto che lo sei?
Lodor provava molta pena per sua sorella e forse era l’unico che comprendeva la
vera entità del suo disagio. Sandra sentiva poco e articolava male le parole. In
famiglia erano abituati col suo modo di parlare ma chi non la conosceva faceva
fatica a capirla. Per quello preferiva stare zitta il più possibile. Ma con lui era
diverso. Lui non l’aveva mai offesa neanche quando litigavano e anche se allora se
ne dicevano di tutti i colori, mai le aveva dato della sorda o della muta. Sandra
sapeva che la chiamavano così.
-
Crescerò e me ne andrò via da questo paese – si sfogava quando non ne
poteva più.
-
E dove vai sciocca? Almeno qui stai con noi. Pensi che in altri posti la gente
sia migliore? Fidati che non lo è.
-
Sì che tu le sai tutte. Mica hai visto tutto il mondo, te.
-
Più di te sì. A Slatina sono stato un sacco di volte.
-
A Slatina ci sono stata anch’io.
-
Certo, avevi tre anni, menomale che te l’hanno raccontato.
-
Avevo quasi quattro invece e me lo ricordo anche bene se lo vuoi sapere.
-
Facciamo che ci credo, dimmi allora hai visto tu lì gente più buona?
-
Non me lo ricordo – rispose lei dopo aver socchiuso un po’ gli occhi come per
farsi venire in mente qualcosa.
-
Te lo dico io che ci sono stato anche il mese scorso che sono tutti uguali. Si
vestono solo meglio di noi.
3
-
Almeno quello. Qualcosa di diverso c’è. Io di qui me ne vado, vedrai.
Lei se ne sarebbe andata molto lontana ma Lodor non avrebbe fatto in tempo a
vederla. La morte gli stava alle costole, gli fiatava sul collo. Però faceva a botte lui
con la morte e aveva deciso che finché avesse avuto un filo di vita l’avrebbe vissuta
da vivo. A scuola non poteva più andare ma si faceva portare a casa tutti i compiti
e il maestro Tino lo veniva a trovare ogni settimana.
Stavano tutti intorno al tavolo che, ora che Nunzia era tornata, sembrava ancor
più piccolo. Gomito nel gomito i bambini si contendevano i pezzi migliori di cibo. La
mamma teneva sulle ginocchia la piccola e le infilava in bocca pezzetti di polenta e
formaggio. Lei si dimenava come se la stesse nutrendo di fuoco e si sputava
addosso più di metà di ogni boccone. La donna puliva i resti con le dita e li
mangiava. Si era sempre nutrita con gli avanzi dei suoi figli come se fosse l’unica
cosa giusta da fare. Un po’ perché non si permettevano di sprecare briciola, un po’
perché era questo il suo essere madre.
-
Sentite fratelli, ora che ci siamo tutti quanti vi voglio parlare di una cosa –
disse Lodor
sforzandosi di coprire il fracasso degli altri – una cosa
importante.
-
State un po’ zitti – l’aiutò il padre.
-
Io ho pensato così: dato che la nostra Sandra ha i problemi che ha, sarà
difficile per lei trovarsi un marito. Facciamo che mettiamo ognuno di noi un
po’ di soldi e le comperiamo una macchina da cucire che lei a cucire è brava.
-
Ma chi ha i soldi? – disse Pietro – ce li hai tu i soldi?
-
Non adesso dico, quando saremo grandi e avremo i nostri lavori.
-
E cosa se ne farà lei della macchina?
-
Non ci arriveremo mai a tanti soldi, costerà un mucchio.
-
Ci arriveremo se ne mettiamo tutti un po’. Così lei da grande potrà
mantenersi facendo la sarta. Pensateci un po’. Tanto non mi dovete dare una
risposta ora. Pensateci solo.
4
Sandra corse fuori e pianse ma per poco. Amava suo fratello più di qualsiasi altra
cosa al mondo. E non credeva che sarebbe morto per quella malattia. Lei non ci
credeva davvero. Neanche nei mesi che seguirono e nei quali Lodor peggiorò al
punto da non stare più in piedi. Vedeva i suoi disperarsi ma lei non ci credeva lo
stesso.
-
Andiamo a Bucarest – gli diede il padre la notizia un pomeriggio d’inverno,
quasi una sentenza.
-
Io non ci vado – rispose Lodor.
-
Ma se lo hai sempre voluto!
-
Lo voglio ancora ma non voglio che vendiate la Mara - scoppio a piangere.
Lo faceva di rado.
-
Amore di papà – il vecchio si chinò e l’abbracciò nascondendosi il viso nel
cuscino dove Lodor posava la testa – amore di papà, ormai è fatta. La mucca
l’ho venduta oggi.
-
Non dovevi! Non dovevi! Resterete… resteremo senza mangiare – si
corregge.
-
Ne compreremo un'altra in primavera. Promessa. Una bella vitella rossa, l’ho
già vista da Popa. La deve ancora svezzare, è grassa come una zucca, ti
porto a vederla se vuoi.
Quella mucca era tra le poche risorse che avevano e nonostante la promessa
appena fatta al figlio la stalla sarebbe rimasta vuota per sempre e l’uomo lo intuiva
però allora non aveva alcuna importanza. Se la sarebbero cavata lo stesso, i
bambini sarebbero cresciuti anche senza latte e formaggio ma ora sapeva di poter
contare sui soldi che aveva ricavato per provare l’ultima, l’estrema possibilità.
-
Va bene papà, andiamo a Bucarest. E se… tanto l’hai già venduta, io avrei
pochi desideri ma seri.
-
Ho preso tanti soldi. Dimmeli tutti.
-
Papà vorrei un abito di velluto, di quelli con giacca e pantaloni e un paio di
scarpe da tennis. Chissà se mi vedono elegante che non mi curino meglio?
5
Penseranno che siamo ricchi – sghignazzò contento della trovata,
asciugandosi il viso con il dorso della mano.
-
Di che colore lo vuoi?
-
Quello che trovi, basta che sia di velluto. Anche se marrone sarebbe più
meglio. Poi, se non costa troppo, a Bucarest ci andrei in treno. Voglio andare
in treno papà, almeno una volta.
Si erano sempre spostati facendo l’autostop. La statale tagliava giusto in due
il paese. I camion si fermavano senza problemi non appena alzavi la mano, e
pagavi quel che potevi. Con un po’ di fortuna capitavano anche delle automobili
e queste, oltre ad essere pure comode, non puzzavano.
-
In treno andiamo, dannato di un treno, glielo facciamo vedere noi se
andiamo – disse il padre in tono di sfida, quasi ce l’avesse col mondo intero
per non averlo fatto mai prima. Lodor si sistemò il cuscino dietro la schiena,
si schiarì la voce e prosegui:
-
L’ultimo desiderio, mah… non so neanche se dirtelo, penserai che è una
fesseria.
-
E tu dimmi lo stesso poi vediamo.
-
Va bene. Ecco, ci terrei molto, se fosse possibile ci terrei ad avere un pallone
vero. Così una volta tornato dall’ospedale potrò giocare – disse, poi guardò il
padre e attese la sua reazione che fu immediata e senza esitazione:
-
Invece sai che ti dico? Altroché fesseria! È la cosa più seria e saggia che tu
abbia chiesto finora. Più importante dell’abito e del treno, delle scarpe da
tennis e più importante della mucca stessa.
-
Davvero pa’? Mi pareva a me che dovevo dirla per prima questa del pallone
ma non ne ero tanto sicuro – disse Lodor un po’ confuso è tentennante, poi
decise di chiederlo lo stesso: e perché?
-
Perché lo desideri questo benedetto pallone da quando hai imparato a
camminare, te lo sogni di notte, diamine! Per questo.
-
È vero – si meravigliò il bambino come se l’avesse capito soltanto allora – è
proprio così, l’ho sempre voluto io il pallone. Quasi quasi non ci credo che
6
l’avrò – rise e batte in modo scherzoso e amichevole con la mano scarna
sulla coscia del padre ribadendo: quasi quasi non ci credo! Poi risero insieme
dopo di che nessuno disse più niente per un bel po’ di tempo.
I cieli si svuotavano spietati e la neve copriva ogni macchia di colore il giorno
in cui partirono. Alla stazione c’erano tutti: la mamma con la piccola in braccio,
Pietro, Nunzia, Costanza e persino Tino, l’insegnante, li aveva portati lui in
stazione con la carrozza. Sandra era l’unica che non piangeva. Aveva insistito lei
per far sì che vendessero la mucca. A Bucarest l’avrebbero curato, ne era certa.
Il padre, magro e piegato come una scheggia, teneva stretto il figliolo in
braccio:
-
Se dovessimo restare di più vi mando un telegramma.
-
Tienilo al caldo il ragazzo – fu l’unica cosa che seppe dire la moglie.
Si aggrappava alla piccola appesa al collo come per non cadere, come per
succhiare la vita che le stava scivolando via. Un pezzo di sé sarebbe salito su
quel maledetto treno. Il vuoto non aveva confini. La terra le tremava sotto i
piedi. La fine del mondo era lì, a due passi, le precipitava addosso e lei non
poteva far nulla per fermarla.
Come in una processione muta e mesta, sfilarono uno ad uno per salutare il
ragazzo. Lui tentava di sorridere ma per il freddo o per altro non vi riusciva. O
riusciva appena. Il suo sguardo però li cercava avido ed era quello di uno che ha
già capito tutto. Il treno partì con uno scricchiolio stridulo e lacerante. La neve
continuava a venire giù a valanghe. Mai si era vista una neve così – pensò la
madre – è un segno.
I campi splendidamente bianchi scorrevano veloci al di là del finestrino
appannato lasciando l’impressione di un unico, immutabile, interminabile
paesaggio. Lodor teneva lo sguardo fisso sull’infinito. Con il palmo segnava ogni
tanto un cerchio limpido trasparente in un angolo del vetro gelato e poi vi
posava la fronte. Stringeva a se il pallone di gomma non più grande di un
7
melone maturo. Era marrone l’abito di velluto che indossava. Marrone e morbido
come un abbraccio. Avrebbe voluto dire qualcosa. Qualcosa che facesse capire a
suo padre quanto fosse felice in quei attimi. Ma la stessa felicità gli impediva di
aprire bocca e di mutare sguardo quindi restò così, proprio così fisso fino alla
fine del suo primo ed ultimo viaggio in treno.
Il padre usciva ed entrava dallo scompartimento, andava nel corridoio e si
fumava la pipa che non usava più da quando era stato in guerra e ripensando a
quei tempi concluse che non furono assolutamente i più terrificanti della sua
vita. La prospettiva della propria morte, la distruzione dei popoli, il puntare
l’arma contro un nemico mai visto in faccia, la melma, la miseria, l’incertezza del
domani, tutto, ma proprio tutto era stato più facile da vivere. Se solo potessi
fare scambio, se Dio mi concedesse di barattare la mia salute per la sua malattia
e sarebbe un Dio da venerare. E allora tentò, lui tentò per davvero di
aggrapparsi a questa illusione e incominciò a pregare con parole che non aveva
ancora usato, e pregò Dio, e pregò Gesù Cristo, la Vergine e tutti i santi che
ricordava ed era pronto pure a vendersi l’anima al diavolo, uno o l’altro, prima o
poi, l’avrebbe sentito. Lodor si volse di scatto e lo cercò con gli occhi. Gli fece un
sorriso lungo una vita e lo salutò con la manina poi ripose lo sguardo sulla
distesa di neve. Il dondolio del treno, blando e costante, entrava nei loro corpi
logorati dal male, li attraversava come la tregua il fiume in tempesta e si andava
a posare ai piedi, dove restava buono e benefico. Il bambino si addormentò
sereno e il suo vecchio, senza mai toglierli gli occhi di dosso, riposò del suo
riposo.
A Bucarest dalla stazione e fino all’ospedale andarono a piedi. Non gli pesava
suo figlio, non gli sarebbe mai pesato portarselo in braccio. Cammin facendo si
fermarono ovunque. In pasticceria Lodor sprizzava gioia da ogni parte. Indeciso
e sopraffatto alla vista di tutto quel ben di Dio si prese tre dolci che mangiò
senza batter ciglio come neanche un bambino in salute avrebbe potuto fare. La
panna montata, il caramello, lo sciroppo alle fragole, erano tutti sapori che non
8
aveva mai provato. Era entusiasta, soddisfatto e Dio sa quant’altro e se non
fosse stato per la magrezza e per il fatto di non reggersi in piedi, chiunque
avrebbe scommesso sulla sua salute.
Andarono poi in un negozio di giocattoli e là dentro toccò tutto ma non vuole
altro che una piccolissima bambola grassoccia dagli occhi marroni e gambe
morbide e una scatola di matite colorate. Di palloni ce n’erano diversi, più grandi
e più belli del suo e il padre quasi lo pregò di prendersene un altro. Mi piace il
mio – diceva, mi piace troppo. Invece la bambola la scartò subito e la mise nella
tasca della giacca.
Passando davanti ad un cinema decisero di entrarci. Nessuno dei due era mai
stato prima d’allora. Dopo, tanto meno. Non sapevano bene cos’era e lo
intuivano lontanamente. Perciò quando il film incominciò rimasero atterriti e
increduli e per una volta tutti e due, padre e figlio, si lasciarono scaraventare in
un mondo diverso, al di là della loro realtà ed immaginazione. Uomini a cavallo
correvano e sparavano, morivano e attraversavano montagne impetuose in uno
spazio così ridotto e allo stesso tempo illimitato. I primi piani li inorridivano. Visi
giganteschi sembravano precipitare fuori dallo schermo facendoli incollare allo
schienale dei sedili. Che ha detto? – chiedeva ogni tanto il padre al ragazzo che
si ricordava così di leggergli i sottotitoli. Il vecchio a scuola era andato poco e
non faceva in tempo a scorrere tutte le scritte.
Dopo un ora e mezzo uscirono nel mondo reale ma non smisero di
raccontarsela mentre cercavano la via dell’ospedale. Con lo zaino, dove sua
moglie aveva preparato i ricambi di Lodor, sulla schiena e i non più di
venticinque chili di suo figlio in braccio il padre camminava svelto senza sapere
da dove gli arrivava cotanta forza. Si godeva quella vicinanza come nulla prima
e quasi si vergognava di potersi ancora sentire beato. Contava solo tenerselo
stretto. Più a lungo possibile. La vita pulsava qui ed ora. E qui ed ora si
trascinava per le vie di una città immensa e indifferente, sommersa dalle nevi.
9
Il padre lasciava l’ospedale solo per andare in posta a spedire telegrammi:
“Fanno analisi”; “Provano farmaci nuovi”; “Un dottore l’ha preso a cuore”;
“Sembra meglio. Oggi ha mangiato”; “Sta peggiorando”; “Vuole che vi dica che
è quasi sano. Che Dio ci aiuti”; “Mi sta mandando via. Chiede di restare solo”;
“Domani arrivo”.
Per due giorni Lodor aveva insistito che suo padre tornasse a casa.
-
Sto bene, gli diceva, non vedi che sto meglio? Vai a dirlo a tutti e porta
questa lettera ma non leggerla finche non arrivi, prometti.
Il padre annui e gli sfiorò i capelli. Non mantenne la promessa però. Nel retro di
un camion, sulla via di ritorno, lesse la lettera di suo figlio. Era scritta con matite
colorate. Ogni frase un colore diverso. Giallo, azzurro, rosso, arancione. Blu
rosa. Verdemarroneviola. Nero non c’era. Per niente.
“Cara mia famiglia,
non voglio morire ma credo che dovrò e non voglio che qualcuno mi veda
mentre lo faccio perché è una cosa brutta, lo so io che ho visto morire la nonna
ed era proprio brutta. Non ho tanta paura comunque se muoio perché so che
andrò in cielo e lì Dio farà sicché non avrò più dolori. Pensate che bello, tornerò
come prima. Il mio pallone lo lascio a Pietro e tutti i miei vestiti meno questo di
velluto che vorrei tenermi. Non ho niente da lasciare alle sorelle tranne i libri di
scuola che sono abbastanza come nuovi e i disegni. La bambola e le matite le
do a Sandra. Mi raccomando la macchina da cucire per lei è importante. Mi
dispiace solo per la mucca che avete venduto per niente ma almeno sono
venuto in treno e ho visto anche Bucarest che è una città molto grande e bella
con cinema e pasticcerie e sperò che la vitella sarà buona com’era la nostra
Mara. Vi voglio tanto bene a tutti e so che anche se vi chiedo di non piangere
tanto voi piangerete lo stesso perché tutti piangono quando muore qualcuno.
Allora potete piangere e anch’io piango che non vi rivedrò mai più. Ma poi andrà
tutto bene.
Vostro figlio e fratello, Lodor”.
10
Il padre se ne stava pietrificato e così rimase fino all’arrivo. Pensava che
avrebbe dovuto dormire molto, il più possibile. Solo a quello pensava. Senza
guardare la strada arrivò sulla soglia del portone di casa. Non entrò però. Si
sedette sulla panca e vi restò. Sua moglie lo guardava dall’interno del cortile
senza nulla dire, ostinata a sbrigare le faccende domestiche come se fosse una
giornata come altre. È così che li trovò il postino: lui seduto, lei indaffarata con
dei polli. Solo allora uscì e si mise accanto al marito. Prima di aprire il
telegramma parlarono tanto, ricordarono con quanta gioia l’avevano accolto, era
il primo maschio dopo tre femmine, rivissero i suoi primi passi, la volta in cui
cadde nel fango e arrivò a casa nero come il carbone, tanto da non riconoscerlo.
Risero. Poi piansero. E seppero che una volta aperto il telegramma nulla sarebbe
stato mai più come prima e così ritardarono quell’attimo quanto fu nei loro
poteri.
Il caffè si è raffreddato senza averlo nemmeno toccato. Mentre mi racconta,
mia mamma non ha le lacrime agli occhi anzi sembra contenta di cercare nella
memoria:
- Noi li guardavamo dalla finestra. Da come stavano là fuori piegati avevamo
capito che era successa una cosa terribile. Era un bambino speciale, l’abbiamo
sempre saputo tutti. A lungo mi è mancato da morire e pensavo di non farcela
senza di lui. Poi però, come nelle sue previsioni, andò tutto bene. Con i primi
stipendi mi comperai quell’ingombrante macchina da cucire. Ora sai perché la
tengo, non importa se non la uso.
11