Leggi il primo capitolo

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Gaia Coltorti
Le affinità alchemiche
romanzo
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www.librimondadori.it
Le affinità alchemiche
di Gaia Coltorti
Collezione Scrittori italiani e stranieri
ISBN 978-88-04-62620-6
© 2013 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
I edizione gennaio 2013
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Le affinità alchemiche
Questo disperato teatrino.
Questa catastrofe di coppie di doppi.
Esso non è che una trappola
vista attraverso gli occhi di René Girard.
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C’è mai stato un libro dal contenuto
tanto abietto rilegato così bene?
Romeo e Giulietta, Atto III, Scena II
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Ti ricordi? Eravate niente di più che due liceali dopo un incontro
d’amore, e lei dormiva, adesso. Ti respirava sul collo, e con la sua
soave presenza ti rendeva felice.
Le pieghe delle tende. La luce del sole di Verona attraversava le
tende, illuminava la stanza, e tu, in quel sentore di voluttà rarefatta
intorno a voi, tendevi a perderti. L’appartamento di via Anfiteatro
era silenzioso, sospeso nell’alone di compiuta pace che di quando
in quando, in modo miracoloso, la quiete pomeridiana sprigiona.
Percepivi la voce corale della gente, della vita fuori, come un sottofondo placido, simile all’acqua gorgogliante di un fiume e, vinto
dalla tenerezza, volentieri avresti accarezzato i capelli al tuo amore, ché mentre dormiva era più amabile, e il resto del tempo, invece, si trasformava in una specie di diciottenne viziata che faceva
sempre di testa sua.
Prepotente, vero, ma aveva preso il tuo cuore.
Da settimane, lo sai, la vostra disperata e impossibile storia andava avanti. Ogni tanto, ti capitava d’immedesimarti in un estraneo e trasalire, intuendo fino a che punto, visto da fuori, quel vostro
amore dovesse apparire orribile – la parola a cui pensavi era “ripugnante”. Ma bastava infischiarsene e subito, in obbedienza al loro
misterioso destino, tutte le cose si mettevano di nuovo in cammino.
Le cose, in realtà, era lei a farle camminare di nuovo, magari a
colpi d’intraprendenza e alterigia; se pure dietro lo scudo dell’ag9
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gressività la persona che amavi si difendesse, credevi, e nient’altro. Ti eri abituato a osservare la sua ingannevole fragilità esteriore,
ciò che saltava di più all’occhio: il corpo magro, da allieva di ginnastica ritmica, pareva sul punto di rompersi quando le tue mani,
le braccia, vinte dal desiderio lo traevano a sé. Poi avevi capito che
lei era forte nel corpo e, forse meno, nello spirito.
Il tuo stesso nome – Giovanni – per te non avrebbe significato
più nulla, adesso, senza avere il suo accanto, un nome che solo a
sentirlo ti riempiva il cuore di gioia: Selvaggia. Poiché, prima di
lei, tu non eri niente, un ragazzo come tanti che passava inosservato, mescolandosi alla folla.
Chiunque ti conosceva avrebbe detto di te che eri intelligente,
educato, un tipo un po’ apatico e, tutto sommato, tranquillo. Uno
che il sabato sera usciva con gli amici per bere una cosa, aveva una
grande passione per il nuoto e sognava di partecipare, un giorno,
ai campionati italiani. Niente di più. Ma dopo di lei, per invincibile metamorfosi, Giovanni era diventato Johnny, e Johnny era come
Giovanni, solo con molta più voglia di vivere. Sembrava un uomo
che aveva trovato la sua strada, una specie di eletto a cui la vita era
miracolosamente apparsa davanti agli occhi, irta di pericoli e, nel
contempo, destinata a una felicità suprema.
Selvaggia era divenuta tutto, per te, in quei cento giorni in cui
vi eravate amati. Lei era la tua ragione di vita, ciò per cui respiravi, motivo di scelte estreme, origine di sofferenze e gioie mai conosciute. Di tutte queste cose, entrambi avevate saputo d’essere intrisi fin dal primo incontro, quasi che, in grazia della passione che
vi faceva esistere, foste venuti al mondo al solo scopo di amarvi.
E forse non ci sarebbe stato niente di strano, in voi e nel vostro
amore disperato, se non che la ragazza che ti dormiva a fianco, e
poggiava la testa sul tuo petto, e ti faceva morire ogni volta che la
baciavi sulla bocca, era tua sorella.
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Ti ricordi? Le vacanze a cavallo tra il quarto e il quinto anno delle superiori erano appena iniziate e, prima d’allora, Selvaggia non
l’avevi mai conosciuta. I vostri genitori si erano separati quando
eravate piccoli – avrete avuto un anno, sì e no – e tu non avevi mai
conosciuto realmente neanche tua madre: la vedevi ogni tanto, sì,
un paio di brevi visite l’anno, ché di più, pressata dalla carriera in
polizia, non aveva proprio modo di trattenersi.
Non ricordavi di averla mai odiata, per il fatto di esserti tanto
lontana. Sapevi solo di non aver approvato certe sue scelte, come
cambiare compagno tutte le volte che le andava, e informarne con
solerzia tuo padre – Daniele Mantegna, l’ottimo buon notaio quarantacinquenne, dedito al lavoro e a quanto restava della sua famiglia –
affinché lui, daccapo, cadesse nella sua gelosia divenuta, dopo tutti
quegli anni, una specie di riflesso persino un po’ astratto.
Ma forse, in un modo astruso di cui nulla sapevi, dal suo giochino
perverso la mamma ricavava una qualche soddisfazione o divertimento per grandi, ben consapevole di quanto lui ancora la amasse.
Così, avevi trascorso gli ultimi diciott’anni della tua vita da solo
con tuo padre, lì a Verona, mentre tua madre e tua sorella, che si
erano trasferite a Genova fin dall’inizio della separazione, dovevano aver condotto in quei luoghi una loro esistenza, ai tuoi occhi
semimisteriosa e parallela alla vostra.
Renderti conto, adesso, che entrambe sarebbero ripiombate nella
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tua vita: per un po’, nemmeno avevi saputo tanto bene come reagire, cosa pensare. Non avevi mai vissuto con l’idea di ritrovarti delle presenze femminili più o meno intorno, e tuo padre era sempre
stato molto più che discreto, quanto alle sue eventuali, e per certo
fugaci, relazioni sentimentali.
Era comprensibile, dunque, che ti fossi sentito perplesso quando, un giorno come tanti, a pranzo, col basso continuo del telegiornale intento a illustrare le miserie del mondo, tuo padre aveva detto in tono piatto: «Antonella e Selvaggia tornano a Verona». Forse
non voleva neanche una risposta; non diversamente da quando
dissentiva su un argomento o qualcosa e, d’improvviso, diveniva freddo, o distante, come non desiderasse commenti diversi da
quelli che si aspettava.
«E allora?» era stata la tua prima reazione, in un moto d’indolenza. Francamente, non è che t’importasse tanto. Vedevi talmente
poco tua madre che ti eri abituato a vivere come se non ne avessi
mai avuta una. Riguardo a tua sorella, questa cara gemella bicoriale o monocoriale – a essere sinceri non ricordavi –, be’, la conoscevi in foto, e le ultime che avevi guardato solo per far contento
tuo padre risalivano almeno a due anni prima. No, quattro, in realtà. E quasi mai ci avevi parlato, con lei, e quasi mai avevate giocato insieme da piccoli o, se sì, non conservavi ricordi bastevoli a cavarne una qualche impressione stabile.
«Niente» aveva considerato tuo padre, per tutta risposta. «Solo,
sta per succedere. Tua madre è stata trasferita a Verona, sai come
vanno le cose in polizia, no? Saranno qui fra pochissimo. E anzi, scusa se te lo dico così tardi. Ma la mamma ha già comprato una casa,
vendendo quella di Genova. Lei e Selvaggia si stanno sistemando.»
Neppure gli avevi risposto, ricordi? Solo, ti eri limitato a prendere atto della cosa. Alla fine, non ti diceva proprio niente, che fra
poco avresti potuto riabbracciarle entrambe.
Più tardi, come ti accadeva quando sentivi il bisogno di pensare,
avevi cercato di districare i tuoi dubbi nuotando a dorso in pisci12
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na. Che papà avesse in mente di riprendere a corteggiare la mamma era chiaro come il sole. E di sicuro non gliene facevi una colpa,
dato che quella era l’unica donna in grado di renderlo masochisticamente felice, accettando di vivergli a fianco. “Va bene” ti dicevi.
“Non sarà un problema di nessun genere se, alla stregua d’un risarcimento, riavrai indietro una specie di famiglia, no?”
Eppure, il viavai di pensieri non a fuoco circa i cambiamenti in
arrivo non smetteva il suo assedio. Così andavi avanti a ripeterti enunciati brumosi, considerazioni sul fatto che a te non doveva
importare – in fondo, cosa cavolo c’entravi, realmente, tu?
“Saranno fatti loro” ti dicevi.
Ma di nuovo quei pensieri tornavano, come se un tarlo dispettoso si divertisse ad aizzarli, e tu, daccapo, provavi a ragionare con
loro e li contrastavi. Del resto metterti nella prospettiva di simulare indifferenza sarebbe stata, per te, una pratica del tutto nuova.
Già. Vero.
Dopo quel paio d’ore di vasche, tornando a casa avevi sorpreso tuo
padre al telefono. Quasi l’avessi colto in flagranza di reato, lui aveva subito assunto un tono formale, ma tu eri ugualmente riuscito
a intuire che stesse parlando con la mamma di cose molto, molto
private. Per un attimo, ti eri dispiaciuto di averlo interrotto, seppure senza volerlo, e un istante più tardi, tuttavia, dopo esserti detto
che le cose, intorno a te, stavano prendendo una piega alla quale
non eri abituato, avevi sorriso, sentendoti piacevolmente confuso.
In fondo non era poi così male, se dei genitori decidevano di
riavvicinarsi. Alla fine, ti dicevi, era sempre meglio una persona di
cui tu non sapevi pressoché nulla come tua madre, ma a cui papà
aveva continuato a sentirsi in qualche modo legato, piuttosto che
una delle segretarie trentenni dello studio, o altre, per te equivalenti, sconosciute totali.
In ogni caso, ti faceva un po’ ridere il fatto che, dopo essere cresciuto secondo l’autodottrina del faccio-come-dico-io, da maggiorenne ti saresti ritrovato con questa madre a tenerti almeno un poco al
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guinzaglio, se non nella stessa casa – ché ancora non si era parlato di un’evenienza del genere – quanto meno, riflettevi, nei pressi.
Nutrivi ben pochi dubbi sul fatto che i tuoi avrebbero finito, completati quei primi passi, per tornare a vivere insieme, sotto il medesimo tetto. E con loro, ti dicevi, in qualche angolo della villetta a
due piani sarebbe esistita anche lei, tua sorella. Proprio non sapevi
che punto di vista abitare, immaginando il futuro.
A ogni modo quel primo sabato di giugno era giunto, segnando
il momento in cui father Daniele e mother Antonella, dopo essersi riavvicinati, per la prima volta, a distanza di anni e anni, erano
usciti a cena insieme. L’ora fatidica aveva scoccato il suo rintocco,
dunque, ed erano trascorsi non più di cinque giorni da quando la
mamma e Selvaggia si erano trasferite a Verona. Si stavano sistemando nell’appartamento di via Anfiteatro, vicino all’Arena, mentre tu e tuo padre avreste continuato a vivere nella casa con giardino in cui avevi abitato da che c’era ancora il nonno Bruno, con
voi, il padre di tuo padre, l’ultimo dei nonni ancora vivi quando
tu e Selvaggia eravate nati. Per il resto non era certo lei, tua sorella, e l’eventuale, futuro rapporto di coesistenza fra voi a preoccuparti sul serio – in fondo, eravate fratelli, avevate la stessa età e sareste riusciti, che diamine, almeno a parlarvi. Era il nuovo legame
con tua madre, piuttosto, ad apparirti un minimo complicato, ché
non inquadravi tanto bene con quali sentimenti saresti riuscito ad
accoglierla nella tua esistenza di tutti i giorni.
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Alle cinque e mezzo di pomeriggio stavi alquanto domesticamente
uscendo dalla doccia, quando avevi sentito la porta di casa chiudersi, al piano di sotto, e queste due voci, una maschile e una femminile, che dopo aver chiamato il tuo nome ora tacevano, sostituite
da uno scalpiccio in avvicinamento. Ti eri guardato allo specchio,
pensando in modo confuso che una quantità di cose sarebbe cambiata, da lì in avanti, e poi le avevi cacciate indietro, le tue pseudopreoccupazioni, avevi acceso l’asciugacapelli e avevi sentito bussare alla porta. «Giovanni, sei qui?», la voce della mamma aveva
domandato.
Eri lì, Giovanni? Fisicamente, non potevano esservi dubbi: eri lì,
però non avresti saputo garantire che la tua testa, satura d’incerte
questioni, dovesse considerarsi compresente al corpo.
Comunque, i tuoi genitori avevano aperto la porta, incuranti che
tu potessi essere più o meno nudo, intento sotto la doccia o altro.
Per fortuna ti avevano trovato con l’asciugamano legato in vita,
e tua madre, estasiata di elettricità autoprodotta, senza curarsi di
niente né darti modo di pronunciare una parola, ti si era avventata addosso, abbracciandoti.
Avresti scommesso che il calco del tuo torace ancora umido si
sarebbe impresso sul suo tailleur: «Ciao, mamma» avevi provato a
dirle, mezzo soffocato nel trasporto del suo abbraccio. Con gli occhi avevi cercato aiuto in tuo padre, ma lui si era limitato a ridere,
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stringere le spalle e spingere meglio indietro i suoi occhiali fifties
style. Così non ti era restato che soccombere alla tempesta di quei
baci odorosi di rossetto costoso. Con la mano la mamma ti aveva
scompigliato i capelli bagnati e, come un’entusiasta troppo su di
giri, ridendo ti aveva afferrato per l’asciugamano. Tu d’istinto avevi levato un grido e l’avevi tenuto ben stretto alla vita, quel telo di
spugna celeste. Ché si era tutti d’accordo, lei era tua madre e non
sarebbe stata la prima volta che ti vedeva nudo, però un minimo di
privacy, specialmente in bagno, era un atto dovuto, porca miseria!
I tuoi avevano riso, contagiati di allegria l’un l’altra e, dopo averti
intimato di raggiungerli in sala da pranzo al più presto, chiudendo
la porta dannata ti avevano lasciato in pace, ed erano tornati di sotto.
Avevi emesso un sospirone, sentendoti ancora in imbarazzo, e
subito, per evitare altre invasioni di campo e ulteriori inconvenienti di qualunque tipo, ti eri sbrigato a vestirti.
In sala da pranzo, seduti sul divano, i tuoi genitori stavano bevendo dello chardonnay fresco, e il tailleur della mamma era proprio
elegante, e l’intonazione complessiva della sua persona risultava
accurata fin nei dettagli, senza che quell’accuratezza, lasciandosi troppo notare, prevalesse sul resto. Lei, questa donna di nome
Antonella, era come la ricordavi da sempre, con indosso bei vestiti e un tintinnante bracciale, o una collana che, mentre il suo corpo, muovendosi, abitava lo spazio, produceva una cascatella di
suoni minimi e allegri.
Era una donna che stava per compiere quarantadue anni, ancora perfettamente giovane e tanto più bella in quanto caparbia e
fin troppo libera rispetto a una serie di scelte volta a volta delicate, compiute nel ruolo di madre adulta.
Come tuo padre, avevi sempre pensato che il mestiere di commissario non le si addicesse. In modo lampante, col suo complicato daffare, la carriera in polizia doveva averla tenuta legata a una
quantità d’obblighi, responsabilità e vincoli a cui lei aveva dedicato
risorse sottratte, così credeva tuo padre e anche tu credevi, alla co16
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struzione della famiglia. Volentieri l’avresti immaginata nelle vesti
di una professionista, magari una manager del servizio sanitario regionale costretta, per lavoro, a usare, di quando in quando, l’aereo.
Tuo padre, invece, pur essendo un notaio come il nonno Bruno,
somigliava molto più a un intellettuale progressista, interessato alla
politica e all’arte, appassionato di fotografia e collezionista di antiche incisioni di Dürer, Rembrandt e Martial-Potémont.
Daniele e Antonella. Come coppia evidentemente stridevano e basta, seppure, chissà, forse avresti potuto ricrederti, un poco, pensando ai loro interessi simmetrici: tua madre, la pittura; tuo padre,
la fotografia. Nella vostra famiglia, o almeno nel ritratto d’insieme
che adesso si mostrava ai tuoi occhi, tutti avevate un interesse coltivato con dedizione: tu avevi il nuoto agonistico; Selvaggia, avresti scoperto di lì a non molto, la ginnastica ritmica; mentre i tuoi
genitori consideravano eccitante tappezzare le pareti di casa con
foto e dipinti, loro e altrui.
E di sicuro non sbagliavi, adesso, riflettendo che quella era sul
serio la prima volta in cui li vedevi parlare tanto tranquillamente. A tal punto che la cosa produceva in te una vibrazione di modesta inquietudine. Dopo un po’ che li squadravi dall’arco della
porta intenti a parlare di ristoranti alla moda e locali all’incirca per
quarantenni, tuo padre si era accorto della tua presenza e aveva
annunciato che quella sera lui e la mamma sarebbero usciti a cena.
E tu: «Ok» avevi risposto a mezza voce, tradendo un certo compiacimento. “Perfetto!” ti eri detto, ché avresti avuto casa libera tutta la sera e, fra un minuto, avresti invitato gli amici Nautilus e Paranoia a guardare in tv l’amichevole Italia-Francia.
Ma purtroppo, duole dirlo, questi non erano esattamente i piani
dei tuoi genitori.
«Allora, Giovanni», tuo padre ti si era rivolto. «Non ti dispiace
se Selvaggia si ferma a dormire qui da noi, stanotte!»
E il sogno della partita era sfumato all’istante in una bolla di sapone. Puff. E poiché non avevi altra scelta, avevi risposto questo
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«Ok», seppure ultrasvogliato e che, nella tua mente, suonava molto più come una specie di “Ko”, “knock-out”, “al tappeto”.
«Vi piacerete di sicuro» aveva considerato tuo padre.
«Non vedo l’ora di sapervi amici, ancor più che fratelli!» aveva trillato tua madre, dando mostra di sentirsi tutta un fremito. E
anche tu avevi esibito un tentativo di faccia entusiasta, malgrado
nelle tue intenzioni dovesse risultare un’espressione più d’Indolenza Assoluta, qualcosa tipo: “Ma davvero? Perché a me, scusate,
non potrebbe importare di meno!”.
«Noi passiamo a prendere Selvaggia a casa della mamma e l’accompagniamo qui» aveva detto tuo padre, quaranta minuti più tardi,
apprestandosi a uscire, ultra agghindato come il Pinguino da Cerimonia, per quella che si preannunciava come una Serata di Nuova
Concezione in compagnia della mamma. «La cena è in frigo.»
«Tanto, Selvaggia sa cucinare e non dovrai preoccuparti di niente!» lo aveva contrappuntato lei. «Poi fate quel che volete, guardate un film, uscite, vedete voi! Noi faremo tardi!»
Tu avevi annuito per pura inerzia: figurarsi cosa t’interessava,
cosa, se Selvaggia sapeva cucinare o non sapeva! Stanco come ti
sentivi, dopo il tempo trascorso in piscina ad allenarti con la perseveranza malata del Pazzo del Luogo, non avresti fatto altro che
mangiare un toast e crollare a letto svenuto.
Be’, eravate intesi, ’fanculo.
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Ti ricordi? Avevi sentito tre voci chiamarti alla porta. Quelle dei
parents, e una che non identificavi, semplicemente perché era
nuova. Era una voce controllata e gradevole, in ogni caso. Sentendola, in modo istintivo l’avevi associata a un’idea probabilmente
molto infantile di sensazione piacevole, come mangiare una crostata fragrante di forno, o percepire sulla pelle, dopo una doccia,
la consistenza meravigliosa dell’accappatoio che profuma di bucato. Mischiata a quelle dei due parents, tuttavia, la voce che non
conoscevi produceva, al contempo, un contrasto stridente. Suonava artificiosa. Come nascondesse una sua rabbia, un’indolenza incendiaria o qualcosa, complicato da inquadrare.
I tuoi continuavano a chiamarti, se non avessi risposto sarebbero
venuti a cercarti. E alla fine lei stessa, Selvaggia, ti aveva chiamato. Che lo avesse fatto produceva dentro di te uno strano effetto,
come non avesse alcun diritto – assolutamente – di venirti a rompere le scatole; d’altra parte, non appena avevi sentito pronunciare il
tuo nome dalla sua voce, un intimo senso di piacere ti aveva colto.
Lo sai, quella voce tenacemente ti attirava.
Vi era dell’alchimia stuzzicante, nell’aria, e solo quando lei ti
aveva chiamato daccapo ti eri affacciato dalla tua camera – la faccia di tolla dell’Ignaro del Luogo e la scusa irricevibile di non aver
sentito per via dello stereo col Battiato che andava.
E a quel punto, l’avevi vista.
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Lei era tua sorella?
Francamente – maledizione, accidenti –, in nessun modo poteva
darsi. Poiché, come minimo, avrebbe dovuto essere la tua ragazza!
I tuoi occhi non avevano mai visto una persona altrettanto bella. Lei era alta quasi quanto te, e magra, di una magrezza perfetta
e resa come ostentata dai vestiti attillati. Ed era abbronzata, vero,
anche se di sicuro la sua carnagione doveva essere per natura un
po’ più scura della tua. Questa divinità lungo il corridoio indossava un semplice paio di jeans non scoloriti, delle Converse color
prugna e una maglietta dello stesso colore, abbinata a una collana
che ricordava l’estate. E aveva con sé un’enorme valigia, certo, ovviamente, come dovesse fermarsi una settimana o giù di lì, piuttosto che una sera soltanto.
Dapprima, Selvaggia ti era sembrata persino troppo magra, ricordi? E invece aveva questo corpo bellissimo, e questo volto bellissimo, e tu ti eri soffermato sui suoi occhi verdi, grandi, espressivi, presi da tuo padre, mentre tu avevi ereditato solo quelli nocciola
annacquato, con tutto il rispetto, della mamma. Aveva lineamenti
delicati, lei, e una fronte che, nascosta dalla frangia deliziosa, immaginavi ben conformata.
Diversamente dal marrone scuro dei tuoi capelli, i suoi, neri e
lucenti, le arrivavano a metà schiena, profumati e serici. Subito,
avevi sognato di affondare il viso tra quei capelli meravigliosi legati a coda di cavallo ma, ovviamente, non essendo una specie di
aitante e romanzesco contadino tardo ottocentesco all’ultimo stadio, ultra arcaico e realmente pazzo e polarizzato, ti eri trattenuto.
E lei si era avvicinata a te, che immattonito ristavi a metà corridoio,
ti aveva squadrato da capo a piedi coi suoi grandi occhi stupiti.
«Mamma, ma è uguale a Johnny Strong!» aveva trillato, studiandoti come fossi un alieno. E ok, certo, gli somigliavi, lo ammettevi,
all’attore Johnny Strong, se pure non così spudoratamente come
pareva credere lei. Di Strong, in effetti, possedevi una similare conformazione del viso, stessi capelli scuri scompigliati, e la Camel
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leggera appesa alle labbra – che tuttavia, in quel momento, colto
di sorpresa, non avevi predisposto, orrore e dannazione! – a completare il tuo fascino. Il quale, a ben vedere, a livello di copyright
apparteneva specialmente a Hollywood e all’attore Johnny Strong,
ma se alle divinità lungo il corridoio piaceva perché mai rinunciarvi anche solo a livello, mio buon Giovanni, di posa?
Con tutto che tu sembravi un poco più malinconico e sulle tue,
rispetto all’inquieta, e perennemente foriera di chissà quali enormi
promesse per il dopocena, celebrità attoriale. Questo, in ogni caso,
non toglieva che le ragazze ti guardassero, quando passavi per strada.
Ma torniamo a lei. Ti aveva pizzicato un braccio senza che le
avessi dato il permesso, e così ti eri subito ritratto, un poco, sospettoso; evidentemente lei non era abbastanza timida da capire
che intendevi mantenere le distanze. Col solo toccarti appena era
come se avesse raggiunto ogni tuo sentimento e pensiero mettendoti – gasp! – a nudo.
Anche lei, per un istante, pareva essersi persa, mentre tu, tuo
malgrado, stavi per dimenticare, ancora una volta, che lei era la tua
parente più prossima e, di sicuro, non potevi trattarla come fosse
una ragazza qualunque.
Ma il tocco leggero e delicato di quel pizzicotto aveva finito per
scaldarti dentro, colmandoti di stupore e qualcos’altro d’indefinito, che tu, in qualità di buon sardone sott’olio, non avevi ancora
sperimentato fin lì. Oh, sbigottito timore! Lei ti dava sensazioni talmente particolari! Sarà stato che volevi tanto toccarla anche tu ma
non potevi, poiché eri suo fratello, e questo ti impediva qualunque
cosa, dai gesti più semplici agli istinti più naturali!
Se solo non fosse stata una tua parente, avresti fatto di tutto per
attaccare discorso, e prima o poi ci sarebbe scappato un bacio – ma
non potevi, e questa torturante evidenza ti causava avvilimento
e una sorta di rassegnata tristezza che non avevi mai conosciuto.
Quella mano che adesso ti sfiorava i capelli, e poi il mento, e
quegli occhi deliziosi che ti studiavano erano una tentazione malinconica che dovevi a tutti i costi allontanare da te, perché fran21
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camente era ripugnante provare qualcosa di diverso da un amore
fraterno e distaccato, nei confronti di lei. Ti stava facendo impazzire al primo tocco, e tu avevi cominciato a pregare affinché i parents
riprendessero quella sera stessa a litigare di brutto, così da impedire a te e Selvaggia di ritrovarvi, fosse solo per una notte, sotto
lo stesso tetto.
«È vero, eh? Dài, Giovanni, cosa aspetti, non startene lì impalato!» aveva considerato la mamma.
«Abbracciatevi, che diamine!» vi aveva esortato quel pazzo di
vostro padre.
Volentieri l’avresti ucciso, non fosse stato che tua sorella ti si era
catapultata fra le braccia, e tu eri rimasto immobile dov’eri, disteso sott’olio e incapace di fare niente.
Oh Dio!, lei profumava di doccia – sapeva di albicocca! – e i suoi
capelli avevano il sentore irresistibile di quelli appena asciutti, subito dopo lo shampoo e il balsamo ristrutturante!
In un moto di disagio, l’avevi scostata da te non appena avevi
potuto, seppure lei, in modo ostentato, si ostinasse a tenere questo
suo braccio dannato attorno alle tue spalle. Ghignando, si penzolava, quasi!
E a quel punto vostro padre e vostra madre, rapidi, vi avevano
salutati tutti contenti, spariti dentro un lampo alla volta della loro
ineffabile e – dal tuo nuovo punto di vista, costretto a tener conto
della conclamata sfacciataggine di Selvaggia –, per te e nessun altro, forse pericolosissima cenetta a due.
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