14 eugenia scabini omogenitorialita`e filiazione

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Anno 2015
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EUGENIA SCABINI
OMOGENITORIALITÀ E FILIAZIONE
Il dibattito sulle ‘‘unioni civili’’ nel nostro paese e, più in generale, sul ‘‘matrimonio omosessuale’’ in Europa, porta a galla direttamente o indirettamente
il tema/problema della omogenitorialità, tema di grande rilevanza perché ha a
che fare con il destino delle future generazioni e della responsabilità che le generazioni adulte hanno al proposito.
Per quanto riguarda il termine omogenitorialità va fatta innanzitutto una
precisazione.
Analogamente al tema dell’omosessualità anche per l’omogenitorialità sarebbe più corretto usare il plurale ‘‘le omogenitorialità’’. Infatti l’espressione ‘‘genitori omosessuali’’ comprende situazioni diverse tra loro: coppie lesbiche o
gay o singoli, coppie che hanno un figlio avuto da una precedente relazione
eterosessuale o coppie che hanno un figlio per inseminazione, utero in affitto,
o adozione.
Sono situazioni disomogenee sia per quanto riguarda la condizione degli
adulti coinvolti che per i figli. Ad esempio: altro è per un figlio sapere chi è
suo padre o sua madre e fare i conti con la trasformazione identitaria di uno
dei suoi genitori, altro è nascere con un padre o una madre inconoscibili o
ignoti. In questo scritto prenderò in considerazione soprattutto quest’ultima situazione, che è del resto quella più perseguita dalle coppie omosessuali giovani
e mi focalizzerò prevalentemente sulle conseguenze di queste scelte sui figli.
Quale è lo stato della riflessione su questo tema da parte della psicologia e
sociologia?
Il coinvolgimento di queste discipline ha un suo perché specifico.
Infatti il diritto alla genitorialità da parte di queste coppie viene molto spesso motivato dai risultati di ricerche psicologiche che sosterrebbero non esservi
alcuna differenza nello sviluppo di bambini di coppie delle stesso sesso rispetto
a figli di coppie eterosessuali. E in questo senso si è pronunciata nel 2005 la
American Psychological Association.
In realtà non possiamo sottoscrivere oggi questa affermazione vuoi perché altri studi condotti soprattutto da sociologi quali Mark Regnerus e Donald Paul
Sallins evidenziano molte differenze relativamente a comportamenti disadattativi e problemi emotivi a svantaggio di figli di coppie omogeneri, vuoi perché,
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nel suo complesso, il corpus di ricerche di cui disponiamo presta il campo a
molte limitazioni dal punto di vista metodologico.
Come evidenziato da Loren Marks, infatti, i campioni presi in considerazione sono poco rappresentativi, la maggior parte dei partecipanti sono adulti
membri militanti di organizzazioni omosessuali, poche sono le ricerche longitudinali. Si tratta poi di informazioni quasi esclusivamente ricavate da questionari, quindi di percezioni di singoli (in genere è intervistata una madre) e, per
quanto riguarda il figlio, l’età prevalentemente presa in considerazione è l’infanzia. Solo recentemente alcune ricerche prendono in considerazione figli
adolescenti. È perciò legittimo porsi alcuni interrogativi. Eccone alcuni.
Sappiamo dalle ricerche sui figli del divorzio che vi sono difficoltà e dolori
che rimangono silenti per anni e che emergono in età giovane adulta quando
essi devono a loro volta fare la propria scelta del partner e del progetto generativo. Come non supporre, allora, che tutto questo si possa verificare anche nei
figli di coppie omosessuali che vivono una ben più profonda scissione tra genitore biologico e genitore sociale o confusione identitaria nel caso del genitore
che cambia orientamento sessuale?
Inoltre gli strumenti self-report utilizzati nella ricerca sono rivolti prevalentemente a rilevare comportamenti adattativi o competenze specifiche (ad esempio successo scolastico) e poco ci dicono di aspetti identitari più profondi che
hanno una lunga gestazione e non possono essere di certo visti nell’età infantile.
Occorre perciò contestualizzare i risultati ottenuti (chiedendoci ad esempio
‘‘Quale aspetto del fenomeno vogliamo considerare?’’, ‘‘Cosa intendiamo per
benessere dei figli?’’ ...), soprattutto quando dai risultati provvisori ottenuti si
traggono conclusioni che hanno effetti giuridico-sociali.
Perciò, in buona sostanza, l’invito è di usare grande cautela nella generalizzazione dei risultati delle ricerche e soprattutto di mantenere quella coscienza
critica sulla specificità e limiti del tipo di ricerca che si sta conducendo in modo da evitare salti di contesto e di livello. Perché mai far dipendere una cosı̀
radicale messa in questione della famiglia e della filiazione da risultati di ricerche che per loro natura ci danno informazioni parziali e richiedono ulteriori
approfondimenti?
E veniamo ora a quello che l’esperienza clinica ci offre sul tema dell’omogenitorialità. Tale fonte informativa ci può essere di aiuto non tanto a dirimere
la questione, ma a comprendere meglio la posta in gioco con l’avvertenza che
comunque il clinico, sul piano professionale, ha il compito di accogliere i problemi che le famiglie, o anche singoli membri di essa, portano in consultazio99
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ne e di aiutarli ad affrontarle, indipendentemente dalle forme che la relazione
familiare presenta.
I resoconti di cui disponiamo sono prevalentemente relativi a coppie lesbiche, che sono quelle che in maggioranza si avventurano nell’esperienza della
genitorialità.
La comunità gay infatti non è unanimemente favorevole alla scelta generativa. Alcuni la considerano una forma di omofobia internalizzata, quasi un tradimento della specificità di questo tipo di condizione. In ogni caso, quando la
scelta generativa viene fatta da coppie gay, essa si presenta con caratteristiche
diverse da quelle di coppie lesbiche. In questi casi infatti la scelta è molto più
del singolo che della coppia. Essa mette fortemente in conflitto il sé omosessuale con il sé genitoriale, anche per via del fatto che manca l’aggancio con l’esperienza della gravidanza che invece è presente nelle donne lesbiche. Il passaggio alla genitorialità si presenta quindi con più evidenza come più trasgressivo,
più sfidante in termini di onnipotenza, più ‘‘al di là del limite’’. Anche il ‘‘donatore’’ è presenza più drammaticamente ingombrante. Possiamo tentare di
mascherare, come oggi si tende a fare, la compravendita del corpo della donna,
non chiamando tutto questo ‘‘utero in affitto’’ ma ‘‘gestazione di sostegno’’,
ma basta un po’ di sincerità per constatare che si tratta di un eufemismo che
maschera scelte che vanno contro il fondamentale rispetto per la dignità della
donna e il suo corpo. E poi cosa farne del dialogo madre-bambino che avviene
già nella vita intrauterina? E tutto il tema dell’attaccamento alla madre motivato anche su base filogenetica? Del resto negli stessi padri gay compare frequentemente ed esplicitamente la preoccupazione per la privazione della madre per
il figlio.
D’altra parte il tema del partner assente, in questo caso il padre, fa breccia
anche in alcuni resoconti di madri lesbiche che parlano di vissuto minaccioso
di estraneità del donatore anonimo, al quale giocoforza la coppia deve ricorrere
perché vi sia fecondità (e questo vissuto è presente anche nelle coppie che ricorrono alla fecondazione eterologa come già a suo tempo aveva evidenziato
Marie-Magdeleine Châtel). Questa presenza intrusiva viene poi percepita secondo modalità diversificate da quella che sarà la madre biologica e quella che
sarà la madre sociale. In ogni caso tale presenza rompe e turba il ‘‘fantasma
dell’identico’’ tipico di queste coppie, reintroducendo la differenza anatomica
senza la quale, comunque la si metta, non si dà filiazione.
E il problema/dramma non può essere aggirato semplicemente facendo uscire dall’anonimato il donatore (in genere prezzolato) in nome della trasparenza,
perché in questi casi ciò che incontrano i figli, spesso alla ricerca spasmodica
dei padri utilizzando informazioni oggi più accessibili attraverso la rete, non è
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un padre ma un donatore di seme. La domanda di paternità dei figli non può
essere appiattita sul piano formale della ricerca di un nome e di un volto. Ben
al di là di questo, è una domanda del senso di sé come ‘‘prodotto/esito’’ di un
congiungimento, di una unione.
Anche sul versante della coppia lesbica l’uscita dall’anonimato del donatore
non è senza problema. Infatti, nel momento e nella misura in cui pretende di
fare da padre, egli invade il terreno della coppia omosessuale che si definisce
per la scelta dell’omologo e l’esclusione dell’eterologo.
Vediamo cosı̀ che, non è possibile aggirare la differenza di genere che è a
fondamento del generare: anche le coppie omosessuali devono fare i conti con
questa differenza che qualifica l’umano. Ma il tema della differenza non può
fermarsi qui: l’umana generazione, diversamente dalla riproduzione animale,
non può fare a meno di evocare la catena generazionale che si sviluppa dalla
differenza di generazione.
In quale storia generazionale si iscrive il figlio? Da chi ha preso? Che ne è
della stirpe del donatore? E come viene vissuto dalle famiglie di origine? Questi temi verranno inevitabilmente a galla quantomeno a livello genetico (specie
quando compare qualche malattia) e si agiteranno sempre, anche inconsapevolmente, nella vita della coppia e delle sue famiglie d’origine. A questo proposito
molto spesso in questi casi si fa un parallelo con l’adozione. Vi è però una differenza sostanziale a proposito del segreto delle origini nell’adozione e nella filiazione nelle coppie omosessuali. Nel primo caso, diversamente dal secondo,
la coppia eterosessuale, che offre un corpo infecondo nel quale è presente la
differenza sessuale, non sceglie di far nascere il figlio secondo la modalità prometeica omogenere. Essa sceglie di accogliere un figlio già nato (quindi dato)
che, nel suo dramma, ha un abbandono e spesso un segreto d’origine, ed è
quindi meno esposta alla fantasia del ‘‘terzo estraneo e persecutore’’. Inoltre il
bambino fa esperienza (e quindi può introiettarla) della relazione fra due persone di sesso diverso, partecipa alla loro quotidiana relazione, cosa che non avviene nelle coppie omogeneri.
Vale la pena a questo punto soffermarsi brevemente sul contributo che la riflessione psicoanalitica in questi anni ha dato a questi temi. Al proposito si rilevano posizioni differenziate.
Alcuni psicoanalisti, ad esempio Claudio Risé, Giancarlo Ricci e Silvia Vegetti Finzi, riprendono la tesi classica di Freud sul triangolo edipico che è l’architrave dell’inconscio. Il bambino acquisisce la sua identità attraverso un processo di identificazione che coinvolge tanto la psiche che il corpo sessuato dei
genitori: l’aspetto simbolico è perciò strettamente collegato a quello anatomico/corporeo. Per un corretto sviluppo del bambino perciò il riferimento al pa101
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dre e alla madre è essenziale. Afferma Claudio Risé: ‘‘La madre è indispensabile per nascere e entrare nella vita. Il padre per crescere ed entrare nel tempo e
nella storia. Entrambi per vivere ed imparare ad amare ed essere amati’’ (pag.
178).
Ma oggi questo non è condiviso da tutti gli psicoanalisti. Alcuni infatti, ad
esempio Vittorio Lingiardi e Antonino Ferro, parlano di funzione materna e
paterna che possono essere esercitate prescindendo da qualsiasi riferimento al
corpo sessuato e quindi essere esercitate anche da coppie dello stesso sesso (e
qui si vede l’influenza delle teorie del gender di tipo radicalmente costruttivista).
Cosı̀ l’Edipo viene reinterpretato come un puro gioco astratto di posizioni e
l’essenza della genitorialità viene identificata nella qualità della relazione indipendentemente dalla biologia dei genitori. Per sostenere tale tesi spesso si usa
una falsa alternativa. Chi è il vero genitore, quello che mette a disposizione la
propria biologia o quello che fornisce cure? In realtà la risposta non è e non
dovrebbe essere fatta di o... o ma di e... e. Inoltre questo discorso va ampliato
in senso generazionale. Come evidenzia la prospettiva di lettura dei legami familiari che va sotto il nome di modello relazionale-simbolico, messa a punto
da Eugenia Scabini e Vittorio Cigoli, il soggetto umano per il suo sviluppo
identitario ha bisogno non solo di cure ma anche di sapersi generato, e sapersi
generato vuol dire sapersi frutto dell’incontro tra tre fondamentali differenze:
quella tra generi (uomo-donna), tra generazioni (differenza gerarchica) e tra
stirpi (la genealogia materna e paterna).
Questa prospettiva sottolinea come la generatività abbia a che fare con il tema dell’origine. Generare è altra cosa rispetto a riprodurre, ma anche rispetto
ad allevare, accudire, e persino educare. Il generare non può essere ridotto a
più o meno buone pratiche di allevamento, di qualità della relazione e di competenze (cose che peraltro hanno una loro evidente importanza). Il figlio, per
strutturare la propria identità, ha bisogno non solo di avere buone relazioni
con i membri della sua famiglia, ma di riconoscersi nel suo punto di origine
che è sempre frutto di uno scambio tra quel padre e quella madre che lo hanno generato (e che sono a loro volta generati) e che gli consentirà di inserirsi
in una storia intergenerazionale e sociale che lo renderà a propria volta generativo. In questo senso i termini dell’attuale dibattito sullo sviluppo dei bambini
figli di coppie omogeneri sono mal posti. Non si tratta tanto di dimostrare o
confutare che essi ricevono buone e competenti cure (perché mai le coppie
omosessuali non dovrebbero essere in grado di fornirne?) e, dalla risposta a
questo quesito, di legittimare questa modalità di generare. La domanda è di ti102
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po diverso: come e a quale prezzo può strutturarsi e svilupparsi nel figlio un’identità con un vuoto ed un oscuramento dell’origine?
Questo interrogativo è un appello a guardare in faccia i problemi che questi
tipi di filiazione portano con sé e a non evitare o sottovalutare la responsabilità
da parte di chi fa scelte di questo tipo. Il tema dell’omogenitorialità, che comporta necessariamente il destino dei generati, non può essere posto esclusivamente nei termini dell’eguaglianza di opportunità e del diritto degli adulti,
eludendo il tema della responsabilità che sempre le generazioni precedenti hanno su quelle successive.
La società odierna pare avere smarrito il senso dell’unità della persona umana che abita un corpo vivente nel quale si articolano indissolubilmente il biologico ed il simbolico. Tale unità non vuol dire di certo automatica armonia:
sappiamo infatti che itinerari a volte complicati accompagnano il passaggio dal
nascere maschio o femmina al divenire uomo o donna. Ma pensare di risolvere
il problema sganciando il biologico dal simbolico e preconizzare una società
fatta di ibridazioni, trans-genere, post-madre e post-padre, porta, come sostiene Janine Chasseguet-Smirgel a nuove e drammatiche forme di ‘‘rischio generativo’’.
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