Camagni_ASUR_90_07

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Camagni_ASUR_90_07
Liberalismo contro pianificazione?
Una idiosincrasia non autorizzata dalla teoria economica
[da Archivio di Studi Urbani e Regionali 90/2007]
Roberto Camagni
(Politecnico di Milano)
Introduzione 1
Al confronto fra pianificazione territoriale e mercato, fra regole e
negoziazione, l’Italia giunge in ritardo rispetto ad altri paesi europei, che
hanno da tempo trovato specifiche sintesi, sul piano sia culturale che
operativo. Nel nostro paese, si assiste ancora oggi a una divaricazione di
posizioni che si caricano spesso di contenuti ideologici, e non si è
sviluppato a sufficienza un serio dibattito scientifico. La proposta di riforma
urbanistica dell’INU del 1995 - attenta e innovativa sul piano tecnico ma
insufficiente su molti temi avanzati: intercomunalità e area vasta, governo
metropolitano, fiscalità immobiliare, visioni strategiche e partecipazione –
è evoluta in direzioni del tutto contrastanti nelle leggi regionali di Emilia e
Toscana da una parte e Lombardia dall’altra, mentre l’INU ha appoggiato,
nel breve volgere di due anni, progetti di riforma nazionale tanto divaricati
quanto il progetto Lupi della maggioranza di centro-destra, approvato da
un ramo del Parlamento nel 2005, e il progetto dell’Ulivo dei primi mesi del
2007 (entrambi in attesa di discussione nell’attuale Parlamento).
Le posizioni culturali favorevoli a una deregolazione spinta e a un
indebolimento della strumentazione di piano – e dunque non solo a una
sua flessibilizzazione e integrazione con la progettualità privata – sono
rimaste fortemente minoritarie in altri paesi (per tutte: Pennington, 1999 e
2003; Evans, 1988; Gordon, Richardson, 1997; Parr, 2005; Bénard,
2007), mentre in Italia sono oggi assai più forti e influenzano proposte in
ambito legislativo-istituzionale. In nessun paese europeo si legge nella
legislazione nazionale, come si è rischiato di leggere in Italia, che le
funzioni amministrative di governo del territorio “sono esercitate in
maniera semplificata, prioritariamente mediante l’adozione di atti negoziali
in luogo di atti autoritativi” (art. 5 comma 4 del disegno di legge Lupi), al
fine di “trasformare il piano urbanistico in una sorta di banca dei diritti di
edificazione commerciabili nell’ambito di una filiera di interessi pubblici da
perseguire” (Lupi, 2005, p. 31), all’interno di un territorio in cui tutte le
aree, al di fuori di quelle destinate all’agricoltura o di pregio ambientale,
sono considerate urbanizzabili (art. 6 comma 5, ddl Lupi) 2 .
1
Una versione allargata e maggiormente tecnica di questo lavoro è in corso di pubblicazione su
Scienze Regionali.
2
Alla scala locale, nel Documento di Inquadramento del Comune di Milano (2001), che
costituisce la più compiuta realizzazione recente del modello deregolativo-negoziale, si capovolge
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Le teorizzazioni che legittimano questo approccio (Mazza, 2000, 2004;
Palermo, 2001) si basano generalmente su considerazioni critiche
sull’efficienza e l’efficacia della pianificazione tradizionale più che su
principi di ordinata gestione del territorio; ma possiedono comunque un
certo fascino culturale per il sedicente carattere di innovatività del modello
proposto. Veri processi di costruzione di visioni territoriali condivise e di
pianificazione strategica non vengono considerati, o vengono coniugati in
una versione inadeguata, che ho chiamato “elitista neo-corporativa”
(Camagni, 2006).
In questo quadro, due recenti lavori di Stefano Moroni (2005, 2007)
costituiscono un fatto nuovo di particolare interesse: la critica impietosa
alla pianificazione urbanistica e territoriale e la necessità di un suo
sostanziale annullamento viene fatta discendere da principi generali di
democrazia liberale basati su libero mercato e libertà individuale, in un
(apparentemente) rigoroso processo logico a carattere deduttivo.
L’ispirazione e la guida vengono individuate nel pensiero di un campione
dell’economia liberale, Friedrich August von Hayek, premio Nobel per
l’economia nel 1974; in particolare, nella sua teorizzazione, basata su un
approccio che oggi chiameremmo cognitivo, dei vantaggi dell’ordine
spontaneo di mercato e delle miserie della pianificazione economica
socialista 3 .
Anche se nella trattazione di Moroni il piano ha più il carattere di concetto
astratto e generale che di pratica concreta e attuale applicata al territorio,
la sua critica possiede, proprio per il suo carattere strettamente deduttivo,
una forza e una persuasività quale solo raramente si incontrano nelle
riflessioni critiche attuali sulla pianificazione e il governo del territorio.
Inoltre, il corredo di argomentazioni più specifiche, tratte dal dibattito
scientifico internazionale, appare lucido e completo. Per questo, ritengo
che le sue tesi meritino una critica attenta e altrettanto stringente.
il normale e necessario rapporto di subordinazione fra regole e progetti; si afferma infatti che “gli
investitori hanno la massima libertà di proposta” e “se la proposta è accolta, le regole specifiche
del progetto di trasformazione vengono definite contestualmente alla proposta di cambiamento e
non preesistono ad essa” (Sintesi di controcopertina, che riprende concetti esposti nel testo).
3
Il primo volume ha il merito di presentare una bella sintesi del pensiero di Hayek, un maestro del
pensiero economico che rilancia l’approccio neo-classico, micro-individualista e liberale,
rinnovandone le basi in senso cognitivo moderno. Egli introduce infatti la problematica
dell’informazione e dell’incertezza per rifondare il concetto di decisione economica (assunzione
della complessità, ruolo della reputazione), di equilibrio generale (che fa evolvere nel senso di un
ordine spontaneo fra attori che cooperano inintenzionalmente, ritornando per molti versi ad Adam
Smith), di concorrenza (che interpreta come meccanismo di scoperta, che porta alla
massimizzazione relativa dei processi di crescita attraverso innovazione e apprendimento
collettivo). Si comprende come un tale sistema coerente di pensiero possa esercitare una forte
fascinazione intellettuale; si comprende meno come si possa accettare oggi la forte
semplificazione operata dalla visione hayekiana di un’economia atomistica e di una società
individualistica senza capitale sociale, in cui è sottovalutato ampiamente il ruolo delle institutions.
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Queste note vogliono dunque costituire una valutazione critica di alcuni
passaggi centrali, logico-deduttivi, del ragionamento di Moroni che
implicano concetti di teoria economica, partendo dagli stessi assunti
generali e dall’ipotesi di una totale condivisione dell’individualismo
metodologico e dei valori del liberalismo che caratterizza l’approccio
hayekiano. La critica, radicale, che intendo sostenere è la seguente:
Moroni utilizza tutto l’armamentario concettuale che Hayek costruisce per
la critica alla pianificazione socialista dell’economia - basata sulla
determinazione totalmente centralizzata dei prezzi e delle quantità da
produrre di tutti i beni - per la critica alla pianificazione urbanistica e
territoriale dei paesi a economia di mercato, sulla base di una similitudine
di condizioni operative fra i due tipi di pianificazione tutta da dimostrare.
Ritengo questa estensione non lecita, anche se essa viene autorizzata da
alcune pagine di Hayek stesso, in cui tuttavia egli sottolinea anche e
soprattutto i limiti intrinseci all’operatività di un puro mercato in ambito
territoriale.
Da tempo sostengo la necessità che la pianificazione urbanistica e
territoriale si occupi prevalentemente di definire regole generali, da
coniugare con le specificità dei luoghi; l’opportunità di sposare regole e
progettualità privata all’interno di visioni condivise e partecipate, e la
necessità di utilizzare al massimo il mercato, correggendolo per le
esternalità. Non sono dunque un difensore acritico del piano, ma da
economista vedo anche i limiti del mercato, in particolare in ambito
territoriale e immobiliare, tra l’altro sottolineati dall’intera tradizione liberale
europea, da Pigou (ma potremmo dire da Smith) a Einaudi 4 .
La tesi che intendo criticare
Innanzitutto, espongo per brevi linee la tesi generale sostenuta da Moroni
nel suo ultimo lavoro (Moroni, 2007; da qui M.), comprese le proposizioni
che mi trovano anche solo parzialmente d’accordo, utilizzando per quanto
possibile le parole stesse dell’autore; successivamente procederò ad una
serie di rilievi critici.
a. “La domanda fondamentale … è se e fino a che punto qualche tipo di
pianificazione possa ancora essere decisiva per la città contemporanea e
per la città futura. In quest’ottica, si potrebbe dire non tanto che la
4
Si veda al proposito: Camagni, 2001, sulla giustificazione delle politiche regionali e urbane;
Camagni, 2002, sulle caratteristiche della pianificazione strategica e la sua capacità di ovviare ad
alcuni limiti della pianificazione tradizionale; Camagni, 1999, sull’utilizzo corretto dello
strumento perequativo; infine Camagni e Gibelli, 1996, sui grandi principi che dovrebbero
informare le politiche per le città in Europa.
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pianificazione ha problemi, ma che la pianificazione è il problema” (M., p.
5).
b. Nella prospettiva hayekiana di “ordine spontaneo dinamico, …., il
mercato è visto come un processo di scoperta collettiva continua in un
mondo segnato da incertezza radicale e popolato da attori singolarmente
e costitutivamente ignoranti, dotati di razionalità severamente limitata e
con preferenze in continua e imprevedibile trasformazione” (M., p. 7). “Si
riconosce che il mercato …. è la forma di organizzazione dell’economia
che, compatibilmente con la difesa delle libertà individuali e con l’ideale
della rule of law, riesce a garantire la maggiore prosperità diffusa in
termini di quantità, varietà e qualità di beni e servizi cui è possibile
accedere; ciò grazie alla sua capacità di attivare e rendere a tutti
disponibile la conoscenza dispersa” (M., p. 17).
c. Il concetto hayekiano di ordine sociale spontaneo supera il concetto,
statico e astratto, di equilibrio dell’economia neoclassica, sulla base del
quale sono stati elaborati i teoremi dell’economia del benessere e indicati i
casi di fallimento del mercato – casi che costituiscono il supporto teorico
forte alla necessità di una pianificazione urbanistica e territoriale. Il
concetto hayekiano “consente di mostrare come l’idea della necessità
dell’intervento statale a causa dei fallimenti dei mercati reali rispetto a
modelli puri di mercato sia insensata” (M., nota 16, p. 8). Attraverso di
esso, e del relativo concetto di efficienza della scuola austriaca, “l’intero
problema” dei fallimenti del mercato “cambia aspetto e i mercati reali
emergono come insostituibili meccanismi di scoperta e di diffusione della
prosperità” (M., nota 34, p. 18-19).
d. “La distinzione liberale fra la sfera del giusto e la sfera del bene – in cui
la sfera del giusto riguarda le regole di base universalizzabili e
coercitivamente imponibili dallo stato, mentre la sfera del bene riguarda le
insindacabili concezioni personali relativamente a cosa sia una vita
buona, liberamente perseguibili dagli individui – costituisce una distinzione
tra gli aspetti della nostra vita … che possono essere legittimamente
regolati dallo stato e gli aspetti della nostra vita …. che non possono
esserlo” (M., p. 15).
e. Con la pianificazione si ipotizza “che lo stato debba avere non solo il
compito di vietare l’indesiderabile, ma anche, e soprattutto, il compito
propositivo e positivo di promuovere una certa idea di città e di
convivenza” (M., p. 45). Tuttavia, “la pianificazione di sistema non è in
grado di acquisire la conoscenza relativa a preferenze, risorse e
opportunità disperse, ossia qual tipo di conoscenza che sarebbe
effettivamente necessaria per metterla efficacemente in atto”. Inoltre “la
pianificazione di sistema sottovaluta le difficoltà che si incontrano nel
tentare di portare le varie componenti indipendenti di un sistema
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complesso verso uno stato finale specifico a causa delle catene
imprevedibili di effetti inintenzionali che i nostri interventi di dettaglio ….
tendono inesorabilmente a generare” (M., p. 52). Infine, “tramite insiemi di
norme a carattere direzionale, non solo si perdono spazi di libertà
individuale, …, ma si peggiora anche il rendimento complessivo delle
realtà economiche …. rendendole incapaci di far fronte ai cambiamenti”
(M., p. 54-55).
f. “Le critiche richiamate mi pare colpiscano in maniera definitiva
qualunque pretesa di porre in atto forme di pianificazione di sistema” (M.,
p. 56).
La critica
Intendo svolgere la mia critica alla tesi generale proposta da Moroni - sulla
inutilità e illegittimità della pianificazione, sostituita dalle virtù del puro
mercato – puntando l’attenzione su alcuni passaggi critici del suo
ragionamento, attraverso una serie di dieci proposizioni.
Proposizione 1. Moroni si propone di mettere in discussione in modo
radicale “legittimità ed efficacia dell’azione pubblica” in ambito territoriale
(M., p. viii). Ciò che in realtà dimostra, appoggiandosi alla dottrina
economica neo-austriaca e a quella della public choice, sono solo le
difficoltà, la mancata efficacia e i rischi della pianificazione, non la sua illegittimità 5 – un risultato assai meno ambizioso rispetto al progetto
scientifico iniziale.
In effetti, né Moroni né l’autore più rilevante al cui lavoro si appoggia su
questo punto (Pennington, 1999, 2003) in nessuna parte dimostrano il
valore del puro meccanismo di mercato in ambito spaziale, ma solo i limiti
della pianificazione territoriale, riferendosi ai noti casi di “fallimento del
governo”. Le argomentazioni sono di due tipi (Pennington, 2003): quelle
della scuola della public choice, concernenti la struttura del sistema degli
incentivi nel settore pubblico e i costi di agenzia, che criticano in modo
drastico le ipotesi di una burocrazia volta a realizzare il bene comune (per
tutti: Buchanan, 1969; Buchanan, Tullock, 1982), e quelle neo-austriache,
sulla scia di von Hayek, concernenti le difficoltà di informazione del
pianificatore. In particolare si sostiene che:
5
Si propongono solo affermazioni apodittiche e spesso solo ideologiche del tipo: i “piani d’uso
del suolo tradizionali implicano [inutilmente] una forte restrizione delle libertà individuali” (p.
57); le tematiche ambientali sono artificiosamente enfatizzate dai supporter della pianificazione
(p. 100 e relativa nota 32); non esiste un problema di consumo di suolo (note 14 e 15 p. 71-72;
note 4 e 8 p. 69).
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i cittadini hanno uno scarso incentivo a controllare il comportamento dei
loro eletti; le lobby del mercato dei suoli possono facilmente “catturare il
regolatore”, e cioè il sistema della pianificazione; l’obiettivo della
burocrazia non è legato al bene comune ma all’incremento del potere di
controllo e intermediazione sulle risorse pubbliche; l’effetto delle scelte
discrezionali del pianificatore arrecano benefici a specifici interessi. Le
argomentazioni sono naturalmente forti e accettabili, ma sta proprio al
sistema politico, nazionale e locale, modificare il sistema degli incentivi
attraverso regole di trasparenza e di controllo democratico da esercitarsi
non solo attraverso il voto, e sta al sistema della pianificazione sottoporsi
a totale trasparenza e giustificare apertamente le sue scelte (proprio
perché ogni decisione in ambito territoriale è “politica”) (si vedano le
Proposizioni 9 e 10). Quanto alle lobby e ai grandi interessi, essi esistono
e impattano pesantemente anche sul “libero” mercato, oltre che sul
regolatore;
il sistema di piano non possiede informazioni sufficienti per individuare il
valore che gli individui assegnano alle risorse, un valore che non può che
essere rappresentato attraverso il mercato (Buchanan, 1969; Pennington,
1999). In realtà, oggi esistono metodi sufficientemente rigorosi al riguardo;
si veda la Proposizione 5 per una precisa replica.
La conclusione di queste argomentazioni sembra dunque speculare a
quella che si vorrebbe criticare, propria dei sostenitori tradizionali del
piano (il mercato fallisce in ambito territoriale, dunque interveniamo
attraverso la pubblica amministrazione): il piano fallisce e dunque occorre
lasciare mano libera al mercato. Ma, come si vedrà al prossimo punto,
tale capovolgimento non è lecito in quanto il mercato non è in grado di
garantire una razionalità complessiva alla somma delle decisioni
individuali.
Proposizione 2. La giustificazione tradizionalmente più forte per la
necessità e la legittimità di un intervento regolativo e pianificatorio a
carattere pubblico è costituito dalla teorizzazione dei casi in cui il mercato
non conduce al massimo benessere collettivo. La critica di M. a questa
legittimità della pianificazione è svolta sottovalutando totalmente la portata
logica e teorica dell’argomento dei “fallimenti del mercato”.
I casi di fallimento che attengono più direttamente alla sfera territoriale
sono, come noto:
il caso dei beni pubblici (fondamentali nell’ottica territoriale e urbana: la
città è un grande bene pubblico e un bene collettivo, creato dalla sinergia
e dalla complementarità fra azioni pubbliche e azioni private), in cui il
mercato semplicemente non esiste, per il carattere di non-escludibilità
dall’uso di tali beni e dunque per l’impossibilità di far pagare un prezzo;
il caso delle esternalità negative generate dai comportamenti privati, sia a
carattere diretto (si determina una riduzione di utilità o un aumento dei
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costi di un terzo) che a carattere indiretto (si impoverisce o si distrugge un
bene o una risorsa pubblica: aria, acqua, paesaggio, o si contribuisce a
generare un effetto generale negativo, come la congestione del traffico).
Ancora una volta i casi di esternalità per prossimità spaziale sono i più
rilevanti;
il caso delle esternalità di rete, allorché la fornitura di determinati beni,
come le infrastrutture, esige interconnessione e completezza, al limite del
monopolio; un caso concettualmente simile a quello che si verifica in
presenza di forti complementarità fisiche e funzionali fra edifici e manufatti
(ad esempio nei centri storici).
Aggiungerei al proposito altri due casi in cui il mercato non funziona in
modo ottimale, emersi dalla più recente riflessione:
il caso della necessaria simultaneità delle decisioni relative a beni/servizi
a carattere complementare per garantire la relativa profittabilità, che
implica un coordinamento fra attori che il mercato non garantisce (in
quanto opera per decisioni successive); serve una collective action a
carattere privatistico, eventualmente facilitata da un intervento pubblico di
coordinamento (Camagni, 2003);
il caso della forte irreversibilità delle decisioni di investimento edilizio dal
punto di vista ambientale, che le rende differenti dalle decisioni a carattere
produttivo: la flessibilità richiesta dal sistema di mercato per essere
efficiente, il meccanismo di trial and error, non funziona in questo caso o
comunque implica fortissimi costi sociali.
Il problema dei fallimenti del mercato - che implica la necessità di un
intervento pubblico di pianificazione - viene affrontato (e totalmente
sottovalutato) da Moroni in una pagina e una nota per il caso dei beni
pubblici (nota 34, p. 18) e in un’altra pagina e una nota per il caso delle
esternalità (nota 10, p. 70), con argomentazioni superficiali 6 . Per gli
economisti, liberisti e liberali, il tema dei fallimenti è essenziale ed esiziale:
si tratta infatti di circoscrivere i casi in cui il mercato agisce affettivamente
nel senso del bene comune 7 e non si risolve solo in un premio per i più
6
Sulla teoria delle esternalità e la necessità di “internalizzarle” - e cioè farle rientrare nei costi
privati di chi le genera, “correggendo” il mercato - si basa il principio, oggi costituzionale in
quanto recepito fra i grandi principi dell’Unione Europea, del “polluter pays” o “chi inquina
paga”; un principio rilevante perché autorizza ad usare il mercato, opportunamente corretto, e non
necessariamente forme di command and control. Viceversa, sulla stessa teoria applicata alle
esternalità positive si basa la pratica di incentivazione della ricerca, in quanto riconosciuta
benefica per l’intera società. Negarne rilevanza ricorrendo alla reductio ad absurdum
dell’opportunità di incentivi pubblici alle belle ragazze perché creano piacere ai passanti (M., nota
10, p. 70) è solo banale: le esternalità rilevanti derivano da atti intenzionali, con carattere di
investimento e dunque costosi, giudicati meritevoli di attenzione collettiva. E affermare che esse
vanno contrastate in un’ottica di giustizia perché colpiscono situazioni individuali e non in
un’ottica allocativa (M., p. 71) è abbastanza irrilevante: l’ottica allocativa è l’ottica in cui si pone
l’economista, con i suoi propri strumenti concettuali basati su utilità individuale e profittabilità di
impresa. Per il caso dei beni pubblici si veda la Proposizione 6.
7
Senza tale precisazione e tali approfondimenti, l’affermazione generale risulterebbe solo
ideologica.
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forti (fallimento da presenza di situazioni monopolistiche) o nell’egoismo e
nell’incuria di pochi a danno dei molti (il caso delle esternalità).
Non vale in questo caso affermare che questa è una visione “allocativa” e
statica, tipica degli economisti neoclassici – formalizzati, ottimizzanti e
“ossessionati dalla modellizzazione” alla Walras-Pareto-Debreu –
superata dalla “catallattica”, dinamica, di von Hayek e Smith.
Innanzitutto, l’approccio formalizzato ha permesso di dimostrare
assiomaticamente e deduttivamente le virtù collettive del mercato e della
concorrenza, e i loro limiti, che tutti gli economisti – classici e neoclassici,
precedenti e successivi ad Hayek – ben conoscevano e conoscono, e che
mai si sarebbero sognati e si sognerebbero di mettere in discussione
(Hayek compreso!). In secondo luogo, se è vero che l’approccio
dell’ordine spontaneo supera in senso dinamico il concetto neoclassico di
equilibrio, è purtuttavia vero che quest’ultimo non viene né sostituito né
rifiutato da Hayek, ma accettato come strumento intellettuale utilizzabile
nell’approccio stilizzato dell’economia pura, anche se privo di contenuto
empirico (Donzelli, 1988, p. 34 sgg.). Anche nelle sue opere della
maturità, allorché Hayek compara i due concetti, mantiene tutta la validità
del suo primo approccio, fondendolo nel concetto di ordine (Hayek, 1968;
trad. ital. in Hayek, 1988, p. 15-16). Dunque, affermare che, cambiando
ottica e passando dall’equilibrio all’ordine spontaneo, il mercato si
ripulisce dei suoi fallimenti e “il problema [dei fallimenti] cambia aspetto e i
mercati reali riemergono come insostituibili meccanismi …. di prosperità”
(M., p. 19: vedi punto c al par. 2) è insostenibile.
Proposizione 3. La critica alla pianificazione dell’Hayek che scrive dal
1930 al 1970 è una critica alle pretese e alla possibilità stessa di una
pianificazione socialista dell’economia, il Gosplan, che intende definire
centralmente prezzi e quantità da produrre di tutti i beni presenti nel
sistema economico – e Moroni lo sa perfettamente. L’estensione della sua
critica, perentoria e devastante, della pianificazione economica socialista
– fondata sulla impossibilità di utilizzare tutta l’informazione dispersa sulla
domanda e sull’offerta potenziale - al campo della pianificazione
urbanistica e territoriale non è affatto operazione scontata e logicamente
lecita. Essa è fatta da Hayek solo in un capitolo marginale della sua
opera, in poche pagine, e comunque con piena coscienza delle differenze.
Inoltre Hayek fa riferimento ad alcune fattispecie estreme di intervento
pubblico (come la nazionalizzazione del diritto a costruire e la confisca di
ogni plusvalore di trasformazione fondiaria operata per pochi anni nel
Regno Unito col Town and Country Planning Act del 1947) o a specifiche
strategie pubbliche di correzione dei prezzi (il controllo sui canoni d’affitto,
destinato effettivamente a generare effetti distorsivi sul sistema) (Hayek,
1960, cap. 22: “Housing and town planning”).
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Proposizione 4. Proprio trattando della città e della pianificazione
territoriale e urbanistica, Hayek riconosce esplicitamente le ragioni della
pianificazione stessa, legate ai “fallimenti” del mercato, ignorate da M.
(vedi Proposizione 2). In particolare Hayek:
riconosce l’esistenza di “effetti di vicinato” come intrinseci al contesto
urbano, e cioè di esternalità che devono essere prese necessariamente in
conto e non lasciate all’azione del puro mercato (Hayek, 1960, p. 341).
Questi effetti rendono differente il caso della proprietà immobiliare e del
suolo urbano dalla proprietà mobiliare, e cioè dalla proprietà di tutti gli altri
beni 8 ; come conseguenza, “il meccanismo dei prezzi è una guida
imperfetta per l’uso del suolo urbano” (Hayek, 1960, p. 350);
riconosce che “in conseguenza le regole generali della proprietà privata o
la libertà dei contratti individuali non forniscono una risposta immediata ai
complessi problemi generati dalla vita della città”, e impongono la
definizione di “un diritto superiore” (“superior right”) che realizzi tutti i
vantaggi di operare su una scala territoriale più ampia di quella propria
delle decisioni individuali; una scala ove si realizzano tutte le sinergie e le
complementarità fra proprietà (e azioni) individuali nonché fra queste e le
proprietà e le azioni pubbliche. Questo superiore diritto è proprio quello
normalmente assegnato alle istituzioni della pianificazione municipale o
alle loro emanazioni operative (“organized municipal corporations”) (ibid.,
p. 341);
riconosce che, al fine di rendere i proprietari immobiliari attenti e
responsabili di tutti gli effetti possibili delle loro decisioni sul contesto
urbano circostante e dunque sull’interesse pubblico, “il quadro delle
regole” urbanistiche necessarie deve “essere più dettagliato e più
aderente alle particolari circostanze locali di quanto non sia necessario nel
caso di altri tipi di proprietà” (ibid., p. 350) (si veda la nostra Proposizione
7);
riconosce infine che questa funzione è assegnata necessariamente alla
pianificazione (“town planning”); essa deve stabilire le condizioni cui
devono “conformarsi tutte le decisioni di sviluppo negli specifici distretti o
quartieri urbani”, e deve essere applicata in modo da non sostituirsi
interamente al mercato, ma da renderlo “efficace” (ibid., p. 350), laddove
esso, lasciato a sé stesso, fallirebbe.
Ancora una volta, Moroni non si sofferma su tali punti essenziali, tutto
preso dalla contemplazione delle virtù del libero mercato ediliziourbanistico 9 . Verifichiamo invece come non vi sia nessuna preclusione
8
“Unlike the situation which generally prevails with mobile property, where the advantages or
disadvantages arising from its use are usually confined to those who control it, the use made of a
piece of land often necessarily affects the usefulness of neighboring pieces” (Hayek, 1960, p.
349).
9
Solo nella parte finale del saggio, quella in cui affronta in positivo il tema delle “condizioni
istituzionali per l’auto-organizzazione”, e cioè delle regole per il mercato, ricorda in una nota: “Il
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sulla pianificazione da parte di Hayek, e come egli non proponga nulla di
molto lontano da una pratica urbanistica che è nelle esperienze concrete
migliori (si veda la Proposizione 9).
Proposizione 5. Più hayekiano di Hayek, l’approccio neo-austriaco
radicale nega la possibilità di qualunque scelta razionale alla
pianificazione, sia per la impossibilità di raccolta di informazioni disperse
sia per la difficoltà di valutare le funzioni di utilità individuali e il valore che
gli individui assegnano alle risorse ambientali, che solo il mercato può
evidenziare. Ciò renderebbe inefficienti anche i tentativi di “correzione” del
mercato attraverso tassazioni e incentivi, sulla scorta delle indicazioni
pigouviane che ipotizzano una burocrazia onnisciente, capace di dosare
accuratamente l’entità delle correzioni (Pennington, 1999).
Al proposito la risposta è semplice e duplice. Da una parte, come si
espliciterà nella Proposizione 9, una pianificazione moderna definisce
regole sufficientemente generali e vincoli a carattere tecnico all’interno dei
quali il mercato può operare liberamente (esimendo la pianificazione
dall’analisi e da decisioni di dettaglio sulla localizzazione delle singole
attività). In secondo luogo, esistono ormai metodi sufficientemente rigorosi
di valutazione delle preferenze individuali e collettive, basati da una parte
sulle preferenze “rivelate” dal mercato (ad esempio, analisi econometriche
basate sui prezzi edonici per individuare il valore implicito, di mercato,
delle esternalità ambientali), e dall’altra sulle preferenze “rilevate” (stated
preferences e choice modelling) (Camagni, Gorla, 2006, Introduzione).
Esse possono, ed anzi devono, divenire bagaglio tecnico normale della
pianificazione, accanto ai più tradizionali strumenti di indagine fisicotecnica.
Proposizione 6. La tesi di M. che “la teoria tradizionale dei beni pubblici” –
che costituisce una delle giustificazioni forti dell’intervento pubblico
pianificatorio – “sia per più aspetti inadeguata”, non è condivisibile. Essa
tenterebbe “di far apparire come un problema tecnico-economico (e
dunque apparentemente indiscutibile) quello che è invece un problema
etico-politico” (M., p. 18), da trattare alla stregua dell’obiettivo di fornire a
tutti “la possibilità di condurre una vita almeno decente” (M., p. 17).
In realtà, i due temi indicati da M. sono separati. Il secondo attiene alla
sfera della distribuzione del reddito, e dunque alla funzione redistributiva
dello stato in favore di situazioni di povertà, assoluta o relativa, ed ha
effettivamente un carattere etico-politico. Il primo tema - la fornitura di beni
pubblici, e dunque di beni non-escludibili e non-rivali nel loro uso – attiene
alla sfera dell’allocazione delle risorse (la loro migliore utilizzazione) ed ha
problema, scrive Hayek, non è se si debba o no essere favorevoli a forme pubbliche di regolazione
urbanistica, ma se i provvedimenti da prendere siano rivolti ad integrare e aiutare il mercato o a
eliminarlo e sostituirlo con un qualche tipo di direzione dall’alto” (M., p. 88).
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un fondamento logico inoppugnabile: se l’utilizzo di un bene non è
escludibile, il privato semplicemente non ha interesse a produrlo perché
non potrebbe imporne un prezzo (e questo vale anche per il mercato
inteso come “ordine” della scuola austriaca). Naturalmente il perimetro dei
beni pubblici può mutare nel tempo, per evoluzione tecnologica (il decoder
tv che rende il servizio escludibile) o per evoluzione delle scelte politiche
(per la crisi della finanza pubblica, o per scelta politica autonoma, si può
decidere di far pagare un pedaggio di accesso alle autostrade, e finanche
alle strade, ai parchi e ai giardini). Ma ricordiamo che la città è da sempre
soprattutto un grande bene pubblico, che non può essere realizzato per
iniziativa solo privata.
Al di là dei cinque punti di supposta debolezza della teoria dei beni
pubblici citati da M., a nostro avviso irrilevanti 10 , esiste un caso in cui è
possibile che il mercato realizzi una certa quantità di beni pubblici urbani,
un caso che possiamo chiamare di “internalizzazione privata di
esternalità”: allorché un unico monopolista realizzi un intero
insediamento/quartiere, integrato e autosufficiente. In tal caso infatti,
coerentemente con la qualità complessiva che si vuole realizzare,
saranno fornite anche piazze e parchi e altri manufatti localizzati, il cui
costo sarà recuperato sulle aree e sulle unità immobiliari
compravendute 11 . Il problema sta nel fatto che estendere il ragionamento
all’intera città non è possibile mantenendo l’ipotesi, necessaria, di un
unico proprietario iniziale di tutti i suoli (non siamo più nel Medio Evo
quando di questo si occupava il principe, o agli esperimenti di garden
cities dell’inizio del secolo scorso).
Moroni e Pennington (1999) ricordano al proposito il caso di covenant o
convenzioni a carattere cooperativo-condominiale, in cui è possibile
formare un accordo fra privati per fornire beni a carattere collettivo, simile
concettualmente al caso sopra ricordato. Il limite di queste fattispecie
consiste nel fatto che, per addivenire a un accordo, occorre una relativa
omogeneità degli obiettivi e delle funzioni di utilità individuali, che si
manifesta in casi speciali di quartieri autosufficienti monoclasse come le
gated communities americane – e non è certo questo il caso della città, né
intera né per parti, in cui i costi di transazione per addivenire a un accordo
sarebbero proibitivi (Webster, 1998). Inoltre con esse, per la maggior
10
Si veda M., p. 18-19. 1. I beni pubblici sarebbero rari: non vero, ma se anche fosse? 2. Essi
possono cambiare stato nel tempo per sopravvenuta escludibilità: certo, e allora? 3. Il
comportamento da free-rider non è l’unico possibile: se si allude alla possibilità di comportamenti
altruistici, del tipo ONG o “terzo settore”, diciamo che non sono sufficienti e che possono
applicarsi ai servizi, non agli investimenti (infrastrutture di ogni tipo). 4. Passando dall’equilibrio
all’ordine, il problema dei fallimenti cambierebbe totalmente aspetto: abbiamo già visto che è
falso. 5. Non è detto che lo stato riesca a produrre i beni pubblici che il mercato non può produrre:
ma lo fa da sempre! Ed è solo questione di risorse disponibili.
11
Si pensi in Italia, alla realizzazione dell’insediamento di Porto Cervo in Sardegna o di Milano 2.
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parte, si realizzano non beni pubblici, aperti a tutti, ma “beni di club”, ad
uso esclusivo dei partner/condomini.
Proposizione 7. Il mercato è un sistema che ha bisogno, per poter ben
operare, di precise regole quadro, che non possono che essere definite
dall’etica collettiva. Seguendo Karl Polanyi (1974), tali regole concernono
non solo alcuni generali rapporti di convivenza economica (rispetto e
enforcement dei contratti, divieto di insider trading, …), ma soprattutto le
modalità di utilizzo dei fattori di produzione. Polanyi ricorda in particolare
le regole che concernono l’utilizzo della forza lavoro (se l’etica collettiva
non lo vietasse, il mercato continuerebbe a utilizzare i bambini in miniera,
come nell’ottocento, o per cucire palloni da foot-ball) o del capitale (leggi e
regole contro l’usura). Oggi, a questi fattori occorre aggiungere le risorse
di suolo, l’ambiente e il paesaggio: la buona pianificazione deve
soprattutto occuparsi delle regole, generali e particolari, concernenti l’uso
di questi fattori (Camagni, 1996).
Moroni naturalmente ammette l’esigenza di definire “regole di cornice” e
giustamente indica che esse “non vertono direttamente sulla forma di
coordinazione fra azioni” degli innumerevoli operatori economici, ma
“stabiliscono semplicemente gli spazi entro cui ciò può accadere” (M., p.
10); successivamente tuttavia sembra dimenticarsene, allorché giudica
ogni intervento pianificatorio come lesivo dell’autonomia dei singoli
operatori 12 .
Al proposito è necessaria un’importante precisazione. La risorsa “terra” o
“suolo” possiede una ineliminabile specificità nella sua differenziazione
geografica e spaziale – ciò che in economia urbana dà luogo a una
difficoltà analitica, nota come la non-convessità delle funzioni di
produzione e di utilità – per cui ciò che è accettabile in alcuni contesti
spaziali può non esserlo in altri contesti. Per questo non è possibile, nella
pianificazione, affidarsi solo a leggi o regole “generali” e “astratte”: ciò che
conta è la combinazione di diverse regole, con i loro specifici ambiti di
validità generale, e la loro coniugazione e applicazione alle specificità di
ogni contesto territoriale particolare 13 . Ecco che la pianificazione,
dovendosi occupare di singoli ambiti spaziali, potrebbe apparire “invasiva”
e “non imparziale” nei confronti del privato; in realtà essa non lo è, solo
che dia esplicita e formale giustificazione delle sue scelte sulla base di
principi generali e loro combinazioni.
12
L’errore di M. mi pare quello di parlare sempre di “beni”, anche quando si tratta del suolo
urbano (ad esempio a pag. 71), e mai di fattori, secondo la fondamentale distinzione non solo di
Polanyi, come se si trattasse solo della gestione e del controllo di manufatti edilizi e non anche e
soprattutto del controllo di risorse non riproducibili.
13
Come si è visto, questa affermazione è anche pienamente condivisa da Hayek (Proposizione 4,
punto c).
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Proposizione 8. Moroni ricorda la distinzione liberale fra “la sfera del
giusto e la sfera del bene”, in cui la prima abbraccia “gli aspetti della
nostra vita che possono essere legittimamente regolati dallo stato” e la
seconda quelli che “non possono esserlo” (M., p. 15). Siamo certi che
questa semplice distinzione sia ancora sostenibile oggi? Che essa tratti in
modo adeguato ad esempio una categoria emergente, che potremmo
chiamare “la sfera del rispetto delle generazioni future” o “della
precauzione”? Per non ammettere questo caso, di giustizia
intergenerazionale ma anche appartenente alla sfera del bene per le
generazioni attuali, M. è costretto a minimizzare sulle sfide globali, sulle
quali l’informazione e la nostra comprensione sono ancora deboli, ma
dove esiste un corpus di evidenza empirica crescente di giorno in giorno.
Si tratta invece di rischi anticipabili in senso tecnico, e dunque affidabili
alla gestione di una tecnostruttura e non alla imprevidenza congenita e
all’orizzonte sempre più breve delle decisioni di mercato.
Al proposito, mi pare che occorra risalire dall’idea di “giustizia” all’idea più
generale di “etica”, e da qui ridiscendere coniugandola nelle direzioni oggi evolute rispetto a cento anni fa, ormai accettate e consolidate - della
sostenibilità, della difesa delle culture e delle identità, della solidarietà.
Proposizione 9. Se da tutto quanto precede emerge che un ordine
spontaneo di mercato non può essere utilizzato per costruire e gestire la
città (e il territorio), dobbiamo chiederci quale tipo di regolazione a
carattere collettivo può realizzare il benessere urbano/urbanistico migliore,
senza ledere inutilmente e senza giustificazione la sfera delle scelte e
delle libertà individuali. Poiché una regolazione a democrazia diretta,
attraverso “arene deliberative” e processi a carattere partecipativo, può
oggi aiutare ma non certo rappresentare l’unico strumento di governance
urbana, dobbiamo pensare a forme di regolazione pubblica, e dunque a
qualche forma di governo del territorio e di pianificazione. Il problema è
dunque “quale pianificazione”, diversamente da quanto pensa M. per il
quale “piuttosto che continuare a sottolineare le ovvie differenze fra forme
e ambiti diversi di pianificazione” (M., p. 60), occorre con “radicalità”
riconoscere che “la pianificazione è il problema” (M., p. 5).
Consideriamo la definizione di pianificazione di Moroni: “strumento di
coordinazione finalizzata di sistema” (M., p. 67), “un sistema di norme, a
carattere direzionale, volto a ottenere il raggiungimento di un determinato
stato finale, tramite la coordinazione di contenuto di un insieme di attività”
(M., p. 36). In tale definizione, lo stato finale viene inteso come pretesa di
controllo pubblico totale sulle scelte residenziali dei singoli individui, sulla
forma urbana e sulla localizzazione delle singole attività 14 , qualcosa che
14
Si parla di zoning, di “classificare ogni particella di terra in una particolare categoria d’uso”
(M., p. 58), di “importanza minima delle informazioni tecniche”, possedute naturalmente dal
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non appare essere concretamente l’obiettivo della pianificazione, almeno
nelle città moderne. Qualcosa che forse si adatta, alla lontana, alle forme
di pianificazione “razional-comprensiva”, “sinottica” o “olistica” più radicali
seguite in talune realtà del nostro paese negli anni ’60 e ’70 ma non certo
alla pianificazione quale è oggi praticata e intesa in Europa (occidentale) e
quale viene oggi faticosamente perseguita in alcune esperienze italiane.
La pianificazione, a nostro avviso, dovrebbe invece consistere in:
un sistema di norme generali volte a garantire che le azioni individuali,
comunque lecite, non ledano in modo irreversibile la qualità dell’ambiente,
urbano e non urbano; non generino spreco della risorsa suolo; si integrino
fra loro e con il contesto in modo armonioso e sinergico, evitando la
creazione di esternalità negative sulle attività economiche e sulla vita degli
altri individui;
la traduzione di tali norme generali e di principio in norme particolari,
specifiche in termini di luoghi e di tempi, con esplicita giustificazione
(controvertibile);
la massima valorizzazione della progettualità privata all’interno di dette
norme, generali e particolari;
l’utilizzo del mercato per quanto possibile, per il raggiungimento di obiettivi
di crescita economica e di ordinata struttura insediativa, anche
“correggendolo” per evitare esternalità negative;
la definizione dell’architettura territoriale delle reti tecnologiche e di
mobilità e degli spazi e dei servizi pubblici, in modo da supportare le
conseguenti decisioni private riducendone l’incertezza al contorno, e da
perseguire nel modo migliore gli obiettivi di qualità, di efficienza e di
identità territoriale.
Gli obiettivi della pianificazione attengono dunque sia alla sfera del giusto
(simile accesso ai servizi di interesse generale; equità intergenerazionale
sulla disponibilità di risorse naturali) che alla sfera del bene (territorio
ordinato ed efficiente, qualità della vita definita da benchmark
internazionali in termini di accessibilità, mobilità, qualità degli spazi
pubblici e del sistema del verde, efficienza dei servizi pubblici).
E’ in grado un siffatto sistema di pianificazione di rispondere alle giuste
preoccupazioni di Hayek in merito alla capacità di raccogliere e
maneggiare tutta l’informazione necessaria? Ritengo di si, per due ragioni.
Innanzitutto, in molta parte dell’attività di pianificazione - concernente sia
gli interventi diretti sulle reti tecniche e tecnologiche, sia i divieti di ordine
ambientale, idrogeologico e paesaggistico, sia le prescrizioni sulle
coerenze localizzative e igienico-sanitarie - si tratta della elaborazione e
del controllo di informazioni tecniche, ingegneristiche e scientifiche che
pianificatore. Per questo la pianificazione urbanistica incontrerebbe “problemi di informazione del
tutto simili a quelli della pianificazione economica” (M., nota 32 p. 58).
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solo il pianificatore e l’esperto possono agevolmente realizzare. Hayek
stesso in questo caso generale afferma che “l’organizzazione” e la
tecnostruttura sono forme di regolazione giustificate e indispensabili,
modalità efficaci di coordinamento delle attività individuali (Hayek, 1945,
p. 280 della trad. ital.; Donzelli, 1988, p. 45 e 50).
In secondo luogo, per quanto concerne le informazioni disperse sulle
caratteristiche della domanda individuale e sulle potenzialità dell’offerta
localizzabile, quelle che Hayek chiama “le conoscenze delle circostanze
particolari di tempo e di luogo”, esse non solo non possono, ma non
vogliono essere trattate dalla pianificazione: se sia più profittevole aprire
una pizzeria, una drogheria o una bottega di barbiere in una strada che la
pianificazione giudica adatta all’attività commerciale per le sue
caratteristiche di accessibilità e per la mancanza di vistosi effetti
idiosincratici sulle altre attività esistenti, non può che essere delegato alla
libera valutazione individuale. Dunque, se intesa in senso appropriato e
non astratto ed estremizzato, la pianificazione non lede i principi di uso
della conoscenza di von Hayek.
Tornando a Moroni, al di là di alcune affermazioni sconcertanti (ma
logicamente dedotte dalle definizioni adottate) come quella che le regole
generali di governo del territorio non appartengono al sistema della
pianificazione (M., p. 71), allorché egli cerca di costruire, sulle macerie
della sua critica radicale, un quadro di possibili “condizioni istituzionali per
l’auto-organizzazione” 15 , e cioè di regole di governo del territorio e della
città, giunge a un risultato per alcuni versi non troppo dissimile da quello
che ho tentato ora di tracciare, anche se sempre coniugato in senso
limitativo dei compiti della pianificazione.
Restano due grandi limiti nell’approccio di Moroni. Innanzitutto, una
ideologia (mi sembra di aver dimostrato che di ideologia si tratta, non
potendo riscontrare una consequenzialità logica e un fondamento
scientifico nella sua tesi principale) avversa alla pianificazione e tutta
intenta a magnificare improbabili virtù del libero mercato edilizio e
localizzativo, che giudico particolarmente rischiosa se proposta in un
paese, il nostro, in cui le regole generali di convivenza e di rispetto della
sfera collettiva sono sempre più spesso disattese, quando non
ridicolizzate.
15
Sconcertante l’incipit del capitolo, laddove M. ammette “una impasse” (p. 79) : dunque non solo
il piano fallisce, ma fallisce anche il mercato? Dopo tutte queste difese d’ufficio? Giova
comunque ripetere che “fallimenti del mercato” e “fallimenti del governo” non definiscono
condizioni operative logicamente speculari e contrarie: i fallimenti del mercato configurano
impossibilità logiche intrinseche, mentre i fallimenti del governo configurano solo una legge
sociologica (la burocrazia non agisce di per sé per il bene comune), indicativa di rischi cui la
società politica può cercare di ovviare attraverso gli opportuni strumenti di controllo.
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Il secondo limite riguarda la incapacità di riconoscere i vantaggi e le virtù
di forme innovative di pianificazione, o di alcuni aspetti della
pianificazione, che intrinsecamente aiutano il mercato a funzionare
anziché limitarlo o espellerlo. Mi riferisco in particolare:
a una efficiente programmazione e realizzazione di opere pubbliche
infrastrutturali, precise sui tempi e coerenti sui luoghi, che aiutano a
ridurre l’incertezza attorno a decisioni private di investimento e di
localizzazione;
alla pianificazione strategica, il cui vero vantaggio risiede nel realizzare un
coordinamento ex-ante fra privati e forme di concertazione fra pubblico e
privato, al fine di raggiungere, attraverso interventi complementari, una
profittabilità altrimenti improbabile e di creare sinergie attraverso azioni
coerenti con una visione condivisa del futuro del territorio e della città
(Camagni, 2003). E’ chiaro che il mercato di Moroni, così astratto e ideale,
non prevede meccanismi di riduzione di incertezza e di cooperazione
(altamente apprezzati, invece, da Hayek) 16 ;
alla necessità di creare con opportune regole un contesto di vera
competizione fra progetti e realizzazioni differenti; ricordo infatti che ogni
proprietario è un piccolo monopolista di un bene posizionale e che la
necessaria competizione fra progetti alternativi sullo stesso terreno non
esiste di per sé, a causa del chiaro vantaggio del proprietario 17 ;
alle potenzialità di una urbanistica negoziata, sulla base di regole chiare
erga omnes e di trasparenza sulle condizioni economiche dei progetti e
sulla distribuzione fra pubblico e privato del profitto lordo emergente. In
questo senso la negoziazione non genera disparità di trattamento (come
afferma M., p. 94), ma anzi consente di limare extra-profitti ed extrarendite generate da condizioni non facilmente eliminabili di monopolio
territoriale;
alla necessità di incentivare giochi cooperativi fra attori legati da forti
complementarità (ad esempio, fra i proprietari di immobili in un centro
storico) al fine di eliminare comportamenti opportunistici che la teoria dei
giochi e la pratica ci indicano come probabili 18 .
16
Affermare che visioni condivise e progetti collettivi per la città sono non solo impossibili ma
anche “indesiderabili”, perché disaccordo, conflitto e competizione fra individui sono il vero
motore della società (M., p. 119), è abbastanza stupefacente e dimostra una incomprensione di
fondo del mercato capitalistico (e della società) in era di globalizzazione.
17
Ho recentemente proposto in questo senso che, con l’immissione di un terreno, di dimensione o
localizzazione importante, fra le aree edificabili nel “piano operativo” proposto da INU e da varie
leggi regionali, il proprietario si impegni automaticamente a sottostare a un processo competitivo
di progettazione e realizzazione, con definizione del valore di possibile cessione dell’area a cura
del pianificatore o anche dello stesso proprietario, con adeguata tassazione contestuale del capital
gain.
18
La “tutela degli insiemi”, secondo una recente legge della Provincia Autonoma di Bolzano, non
può essere solo delegata a meccanismi di controllo, ma deve essere accompagnata da opportune
misure di incentivazione; l’interesse collettivo è chiaro.
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Proposizione 10. Quali garanzie devono essere fornite dal sistema di
pianificazione a proposito del principio di equità e di non discriminazione
degli interessi privati, che giustamente sta a cuore a Moroni? E’ questa la
risposta più rilevante da fornire a fronte delle critiche ai possibili, e in taluni
casi probabili, esiti negativi dell’attribuzione di poteri di controllo territoriale
alla pianificazione.
Pur all’interno dei limiti alla discrezionalità pura che provengono dai
principi elencati al punto precedente, è possibile che si verifichino
fenomeni di corruzione, di “cattura del regolatore” da parte degli interessi
forti, di imposizioni di “rendite burocratiche” e di trattamento ineguale di
interessi privati simili. Sintetizzando all’estremo, gli antidoti stanno nei
seguenti elementi:
una attitudine civica diffusa di attenzione critica sull’operato delle
amministrazioni locali,
un ricorso ampio a processi di partecipazione dei cittadini, in varie forme
(dalle arene ai referendum),
la trasparenza delle decisioni di piano, in particolare allorché si procede
con strumenti a carattere negoziale,
la giustificazione forte delle scelte pubbliche, ivi compresa la valutazione
dei costi di opportunità e dei costi/vantaggi di strategie alternative,
il ricorso alla competizione fra localizzazioni, fra progetti e fra realizzazioni
alternative,
l’utilizzo dello strumento perequativo laddove le scelte pubbliche impattino
differentemente sul valore patrimoniale fondiario di suoli in condizioni
localizzative e giuridiche simili. Ciò significa un uso selettivo e su specifici
comparti territoriali dello strumento stesso, non un uso generico e
totalizzante, del tipo “indice unico di edificazione” (M., p. 85), falsamente
egualitario, che nella realtà - proprio perché non si parte da territori vergini
ma da territori fortemente differenziati dalla storia e dalla legislazione
pregressa – si tradurrebbe in un trattamento “uguale dei diversi”
(Camagni, 1999). E ciò significa anche che non sia lecito introdurre forme
surrettizie di indennizzo di vincoli ambientali, attraverso la concessione di
indici generici di edificabilità a terreni in precedenza vincolati, favorendo
pratiche speculative ben evidenti;
la valutazione dei possibili effetti di vincoli edificatori specifici sulla scarsità
complessiva di offerta immobiliare, in modo da evitare dannosi effetti di
crescita artificiale dei prezzi (Evans, 1988; Bénard, 2007);
l’assunzione da parte delle strutture di piano delle professionalità
necessarie e delle metodologie più adatte per realizzare analisi,
valutazioni, scelte e negoziazioni.
Come si vede, si tratta di elementi e condizioni non certo impossibili da
realizzare, solo che l’etica collettiva lo richieda.
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4. Conclusioni
Come detto in apertura, liberalismo e pianificazione non sono
assolutamente da considerare né antitetici né mutuamente escludentisi. Il
mercato applicato alle decisioni di localizzazione territoriale e di
edificazione “fallisce” ampiamente nel garantire benessere collettivo –
come previsto e dimostrato da tutta la teoria economica liberale, classica
e neoclassica. Per questo esso deve essere inquadrato in una cornice di
regole generali e indirizzato da una serie di norme di piano che
coniughino i principi generali col contesto specifico.
All’interno di questa duplice cornice, il mercato non solo deve essere
lasciato libero di agire e di proporre progetti e innovazioni, ma deve
essere anche aiutato opportunamente a realizzarsi attraverso forme varie
di facilitazione della competizione, di coordinamento decisionale e di
riduzione di incertezza.
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