Trauma Journal Club numero 4 - Italian Resuscitation Council
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Trauma Journal Club numero 4 - Italian Resuscitation Council
Anno 2, Numero 4 - Gennaio 2012 Editoriale Dopo una pausa lunghissima ritorna TJC. È stato estremamente piacevole scoprire da più fonti che la sua mancanza si è fatta sentire e questa insospettata aspettativa ci ha caricato di nuove energie. Molti degli articoli presentati in questo numero seguono un ideale fil rouge costituito dal trascorrere del tempo, che scandisce inesorabilmente tutte le fasi della prima gestione del traumatizzato grave. Quando i primi soccorritori raggiungono il ferito, dall’evento traumatico è già trascorso un certo lasso di tempo, che può essere anche molto rilevante in situazioni logistiche particolarmente complesse. Se il personale che prende in carico il ferito non è in grado di intervenire in modo efficace e tempestivo, fuori e dentro l’ospedale, per trattare le conseguenze dirette del trauma (es. ostruzione delle vie aeree, deficit respiratorio, emorragia), si genera una drammatica cascata di eventi tempo-dipendenti (es. ipossiemia, ipoperfusione, ipercapnia, ipotermia, acidosi) che peggiorano la prognosi. In tale ambito, c’è una crescente attenzione al problema della gestione del sanguinamento e delle sue conseguenze sul piano emodinamico e della coagulazione, che sta portando a radicali modifiche nella gestione dell’emorragia acuta e all’aggressiva prevenzione delle sue complicanze. Tale strategia è incentrata sulla necessità di controllare rapidamente i sanguinamenti e di evitare, in presenza di instabilità emodinamica, tutte le procedure diagnostiche e terapeutiche che comportano un rallentamento del trattamento o l’allungamento del tempo chirurgico. In questo numero si parlerà, dunque, di rapido controllo dell’emorragia, di rapido trattamento del PNX, di precoce riconoscimento e trattamento della coagulopatia, di diagnostica rapida con il ricorso all’ecografia, di evoluzione sorprendentemente rapida di situazioni cliniche inaspettate, di precoce prevenzione dell’ipotermia. Esiste però un altro fattore che ha strettamente a che fare con il fattore tempo: l’emergente (o negletta) consapevolezza che i fenomeni che condizionano la prognosi del grave traumatizzato iniziano in un tempo estremamente precoce a livello “micro” e che quando iniziamo a percepirne la presenza a livello “macro” - attraverso la clinica e i comuni test di laboratorio - può essere già troppo tardi. Una grande attenzione al mondo della macro e micro fisiologia e fisiopatologia dev’essere l’impegno per l’immediato futuro. Proviamo anche noi a dare un contributo. Gianfranco Sanson Coordinatore Commissione Trauma IN QUESTO NUMERO Articoli originali - Tactical Combat Casualty Care. Il soccorso al traumatizzato sul campo di battaglia - Coagulopatia da trauma: perché e come dovremmo modificare la nostra pratica clinica? Selezioni dalla letteratura - Il microcircolo: un organo multifunzionale - Ecocardiografia transtoracica per la valutazione emodinamica: un’opzione “FREE” - L’ecografia per la diagnosi dello pneumotorace: opzione semplice, rapida, affidabile e… low cost - Decompressione in emergenza del PNX iperteso: dov’è meglio cacciare l’ago? - Il tourniquet per il controllo delle emorragie, fra supporter e abolizionisti: solo una questione ideologica? - Amputare o ricostruire l’arto maciullato? Il punto di vista dei pazienti - Ipotermia accidentale nel traumatizzato: la prevenzione inizia sulla scena Case report - Uno shock inspiegabile: quello che non ci aspetteremo mai in un grave traumatizzato in fase acuta - Gestione dell’ustionato grave in uno scenario di emergenza multipla: quando la rete fa la differenza Italian Resuscitation Council Trauma Journal Club diametro più piccolo (A3 e A4). Le arteriole del tipo A1-2 rispondono invariabilmente con vasocostrizione all’ipovolemia acuta e tale stato perdura anche dopo la rianimazione ottimale con liquidi ed emazie. Queste arteriole perdono lentamente la capacità di costringersi fino a quando diventano poco responsive anche alla noradrenalina esogena: in questo caso lo shock diventa irreversibile. L’abbassamento del pH riveste un ruolo importante nella perdita della capacità di vasocostrizione, da ricondurre a una disfunzione della muscolatura arteriolare. Le arteriole del tipo A3-4 invece mostrano una risposta diversificata, in quanto possono andare incontro sia a vasocostrizione che a vasodilatazione come risposta all’ipovolemia acuta; nei casi in cui la risposta è di tipo dilatatorio la prognosi è ovviamente infausta. Mentre la vasocostrizione delle arteriole A3-4 risponde all’azione della noradrenalina, la vasodilatazione risulta da molteplici stimoli, quali ipossia, attivazione β2-adrenergica, liberazione di NO e altri. La generalizzazione della vasodilatazione a tutte le arteriole A3-4 e successivamente la sua propagazione anche alle arteriole A1-2 segna la transizione dello shock da reversibile a irreversibile. Questa fase è dominata dalla disfunzione dei mitocondri della muscolatura arteriolare, a sua volta causa della deplezione di ATP. La bassa concentrazione di ATP permane anche molte ore dopo il ristabilimento della normale pressione arteriosa ed è un elemento così importante che la risposta del microcircolo all’ipovolemia acuta può essere studiata anche in termini di concentrazione di ATP come funzione dell’entità dell’ipovolemia. Il distretto capillare - I capillari hanno un flusso ematico che varia a seconda del distretto che viene considerato e del momento in cui viene fatta la rilevazione. Per questo motivo si parla di capillari funzionali (entro cui c’è flusso ematico) e densità di capillari funzionali (FCD: numero di capillari funzionali in una determinata area di osservazione). Nello shock emorragico la FCD si riduce e la sopravvivenza del paziente dipende dal mantenimento di una FCD adeguata. La cosa interessante è che la FCD è un parametro di tipo “idraulico” e non dice niente sulla capacità del microcircolo di ossigenare le cellule. La FCD, ossia il numero di capillari perfusi, si riduce sia in conseguenza dell’ipovolemia, sia per l’abbassamento della pressione arteriosa media: un valore di 40 mmHg induce una riduzione critica della densità capillare. L’effetto contrario, ossia l’aumento dei capillari perfusi, vie- SELEZIONE DALLA LETTERATURA Il microcircolo: un organo multifunzionale Szopinski J, Kusza K, Semionow M. Microcirculatory responses to hypovolemic shock. J Trauma 2011;71(6):1779-88 Scopo di questo articolo è presentare le attuali conoscenze in merito ai cambiamenti nell’emodinamica del microcircolo e le loro risposte alle condizioni di ipovolemia rilevanti per i traumatizzati. Il microcircolo: definizione anatomofunzionale Il microcircolo può essere considerato come un organo speciale nell’ambito del sistema cardiovascolare, la sede dove avvengono scambi di varie molecole tra sangue e cellule. In caso di shock esso subisce le conseguenze di un flusso ematico inadeguato e causa, a sua volta, le alterazioni cellulari tipiche dell’ipoperfusione. Dal punto di vista anatomico il microcircolo è la porzione distale del sistema circolatorio ed è formato da arteriole (se ne contano vari ordini a seconda del raggio), capillari e venule (anche qui vari ordini in dipendenza del raggio). Le arteriole sono vasi circondati da tessuto muscolare liscio sotto il controllo del sistema nervoso autonomo, i capillari sono strutture formate da un solo strato di cellule endoteliali e membrana basale e sono la sede degli scambi sangue-cellule, le venule formano un serbatoio ematico a bassa pressione. Il microcircolo risente fortemente della volemia, nel senso che il rilascio di O2 dipende dallo stato volemico del paziente. In questo contesto per volemia si intende il volume di sangue necessario e sufficiente per mantenere sia la portata cardiaca che una perfusione che faciliti il rilascio dell’O2 necessario a sostenere un’efficiente fosforilazione ossidativa cellulare. In caso di shock emorragico il microcircolo attiva una serie di risposte all’ipovolemia, che sono sia di tipo meccanico che biochimico. La tipologia della risposta varia a seconda del distretto anatomico considerato. Il distretto arteriolare - Le arteriole rispondono con vasocostrizione indotta dall’attivazione simpatica. Tale risposta è più evidente nel distretto cutaneo e splancnico (in quanto qui c’è la densità più elevata di recettori α-adrenergici) ed è immediata; nel microcircolo del muscolo scheletrico viene attivata quando la pressione arteriosa media scende a 50 mmHg circa. Le arteriole vengono distinte in due tipi: quelle a diametro più grande (dette A1 e A2) e quelle a 2 Italian Resuscitation Council Trauma Journal Club ne ottenuto con espansione volemica, con somministrazione di eritrociti o con dialisi precoce. Gli eritrociti riescono ad attraversare i capillari (e a renderli così “funzionali”) grazie alla capacità di deformarsi. Se la pressione di perfusione capillare si riduce, viene a mancare l’energia necessaria a deformare l’eritrocita e a spingerlo lungo il capillare. La perfusione capillare può essere bassa anche a causa di una riduzione del diametro: in tal caso è possibile solo il flusso plasmatico, che assolve al compito di rimuovere i prodotti del metabolismo cellulare. Questa distinzione tra capillari perfusi da eritrociti e capillari attraversati da solo plasma è dinamica più che anatomica, in quanto l’ipossia determina il recruitment capillare facendo aumentare il numero di capillari con diametro adatto a far passare eritrociti. In corso di shock emorragico il capillare diventa disfunzionante; la disfunzione avviene su due piani: - disfunzione meccanica, consistente nella riduzione del diametro a causa del rigonfiamento delle cellule endoteliali dovuto alla perdita dell’omeostasi di membrana da mancanza di ATP; la riduzione del diametro a sua volta è causa non solo della già citata riduzione della perfusione ma anche della formazione di tappi di leucociti e piastrine, con conseguente rilascio di mediatori citotossici - disfunzione biochimica, consistente nella riduzione della produzione di prostaciclina e NO (ad azione vasodilatativa) e nell’aumento della produzione di endotelina e trombossano A2 (ad azione costrittiva); inoltre, in caso di riperfusione, la disfunzione capillare è causa del danno da ischemia-riperfusione. Il distretto venulare - Le venule più grandi mostrano una debole attività di vasocostrizione all’inizio dell’ipovolemia, con riduzione della capacitanza venosa e aumento del riempimento cardiaco. Questa attività è stata paragonata a una prima trasfusione che consegue all’ipovolemia acuta. Le alterazioni del microcircolo nel muscolo scheletrico in corso di shock ipovolemico Gli studi sul microcircolo sono stati condotti quasi solo nel muscolo scheletrico, perché di facile accessibilità. In questo distretto è possibile riconoscere l’unità microvascolare, anatomicamente costituita da 12-20 capillari che si diramano da un’arteriola terminale e che confluiscono in un’unica venula. Questa unità anatomica è anche un’unità funzionale in grado di regolare il rilascio di O2 nel distretto anatomico irrorato, aumentandolo in caso di aumentata richiesta mediante dilatazione delle arteriole più prossimali. Le venule in questo contesto hanno un ruolo di feedback poiché, mediante stimoli che derivano dal sangue refluo dalle cellule, favoriscono la dilatazione arteriolare. La stimolazione simpatica ha la funzione di modulare, mediante la vasocostrizione, l’iperemia che consegue all’aumentato metabolismo cellulare come può aversi in caso di intensa attività muscolare: il simpatico in questo contesto funziona da feedback negativo, nel senso che limita l’iperafflusso ematico. La vasocostrizione simpatica agisce prevalentemente sulle arteriole prossimali per cui, in caso di ipermetabolismo muscolare, le arteriole terminali possono dilatarsi in risposta alle richieste metaboliche e nonostante stimolazione massimale simpatica. Pertanto, nel muscolo il microcircolo si pone come unità funzionale che risponde in maniera diversa a stimoli sia centrali (simpatici) sia periferici (metabolismo cellulare). Non è noto se la stessa organizzazione funzionale sia presente in altri tessuti. Ad oggi è possibile visualizzare il microcircolo con immagini spettrali a polarizzazione ortogonale (OPS imaging) e con l’imaging in campo oscuro del fascio laterale (SDF imaging). Con tali tecniche è stato possibile vedere, ad es., che il microcircolo cerebrale in corso di shock ipovolemico permane inalterato anche in casi in cui in altri distretti è già compromesso. Le alterazioni degli elementi intravascolari nello shock ipovolemico Eritrociti - Gli eritrociti, oltre a trasportare O2, hanno anche la funzione di regolare il rilascio di O2 nel microcircolo. In caso di ipossia infatti rilasciano NO e ATP che agiscono come vasodilatatori. In caso di emorragia massiva gli eritrociti subiscono modificazioni conformazionali grazie alla loro capacità di deformarsi in seguito a stimoli esterni; ciò causa una modulazione del flusso ematico microvascolare che fisiologicamente tende a compensare la perdita di volume ematico. Lo stesso fenomeno di modulazione della forma dell’eritrocita si osserva anche in altre situazioni, come in caso di iperosmolarità e liberazione di radicali liberi. Lo shock emorragico riduce la deformabilità eritrocitaria e quindi riduce il flusso ematico capillare. Lo stesso dicasi per l’ipossia. La riduzione della velocità degli eritrociti comporta anche attivazione leucocitaria, microtrombi locali, occlusione vascolare e riduzione del rilascio di O2 alla cellula. Leucociti - In caso di infiammazione o trauma chirurgico l’endotelio promuove l’adesione dei leucociti circolanti, i quali, con meccanismi complessi scatenati 3 Italian Resuscitation Council Trauma Journal Club altri organi: con rigonfiamento cellulare, disfunzione mitocondriale e alterazione dell’attività cellulare. Un altro concetto che nell’articolo viene un po’ sottovalutato è che perfusione adeguata del microcircolo non implica ossigenazione adeguata delle cellule3 a causa di shunt funzionali tra versante arterioso e versante venoso dei capillari, per cui tra macro-pO2 e micro-pO2 esiste un gap, anche questo poco quantificabile in clinica ma che in condizioni di ipovolemia acuta può essere rilevante. Anche in Medicina, come in Fisica, il “micro” funziona in maniera diversa dal “macro”. Ad es., l’ematocrito sistemico differisce dal “microematocrito”, essendo questo globalmente più basso e largamente dipendente dallo stato di dilatazione (aumento) o costrizione (riduzione)4 delle arteriole e dall’attività metabolica delle cellule, per cui anche la capacità di cedere O2 ai tessuti è molto variabile e poco prevedibile sulla base della “macroEGA”;5 detto in maniera più elegante, il rilascio microvascolare di O2 non può essere predetto sulla base di calcoli effettuati sul circolo sistemico.6 È inoltre noto da tempo immemore che la micropressione è inferiore alla macro e concetti elementari di Fisica ci insegnano che il flusso ematico nel microcircolo è molto inferiore a quello misurabile in arteria; purtroppo non esiste né una correlazione facilmente applicabile tra macro e microemodinamica né la definizione di microemodinamica “stabile”. In pratica cosa si può ricavare da questo “relativismo” biologico? Credo qualcosa di importante. 1. L’obiettivo di ottenere valori emodinamici “macro” (es. pressione arteriosa media, portata cardiaca, saturazione venosa centrale) è semplicistico e forse fuorviante: il nostro target è quello di rianimare il microcircolo; occorre quindi cominciare a studiare la microfisiologia, la microfisiopatologia e la risposta del microcircolo allo shock. 2. Se possiamo qualitativamente immaginare quale possa essere la condizione microcircolatoria del paziente in shock emorragico, occorre tuttavia una misurazione diretta e possibilmente bedside della funzione di questo organo. L’articolo purtroppo accenna soltanto ad alcune metodiche di micromonitoraggio, quali l’OPS e il successore evoluto SDF, che visualizzano la densità capillare funzionale, ma merita ricordare anche la StO2 come misura della saturazione di O2 del microcircolo con tecnica NIR (near infrared spectroscopy) che stima la perfusione tissutale.7 3. Siamo tutti consapevoli che lo shock subentra quando la cellula non riceve l’ossigeno necessario al da varie molecole di membrana, alla fine risultano in grado di attraversare l’endotelio. In caso di emorragia i leucociti diventano più rigidi, mentre dopo il ristabilimento della volemia diventano più adesivi (danno da ischemia-riperfusione). L’interazione leucocitiendotelio riveste un ruolo importante in caso di trauma e si modifica in senso di aumento dell’adesività dei leucociti e di attivazione degli stessi. Anomalie del microcircolo dopo la rianimazione di uno shock ipovolemico L’emodinamica del microcircolo presenta un’inerzia importante rispetto all’emodinamica del macrocircolo. Questo fenomeno può essere dovuto al fatto che la risposta cardiaca a stimoli nervosi e ormonali è molto più veloce della normalizzazione dei fenomeni cellulari che interessano l’endotelio capillare, gli eritrociti e i leucociti. Inoltre i leucociti attivati rilasciano citochine che inducono alterazioni non solo a carico dell’endotelio ma anche delle cellule rifornite dall’area microcircolatoria, che si traducono in iperpermeabilità postrianimatoria e wash-out di metaboliti accumulati durante la fase di shock. Commento Questa review riassume alcuni elementi essenziali sul microcircolo, ma credo che alcuni punti, qui solo sfiorati, vadano sottolineati. Anzitutto il concetto fondamentale: il microcircolo non è semplicemente un insieme di capillari che fanno da ponte tra distretto arterioso e venoso e, quasi per caso, lasciano passare O2 e altre molecole dal versante ematico a quello extravascolare; né è la sede dove i leucociti si attivano per “superare” la barriera endoteliale e riversarsi nei tessuti. Il microcircolo va invece concepito come un organo vero e proprio, molto particolare perché non ha una localizzazione anatomica ben precisa ma permea di sé altri organi “canonici”. Dai tentativi sperimentali di caratterizzare la disfunzione endoteliale1 si è passati a parlare di “sindrome” con manifestazioni sistemiche legate a disfunzione endoteliale.2 L’ “organo microcircolo” svolge in effetti molte funzioni: ovviamente il trasporto di O2 ai tessuti, ma anche una funzione immune (attivazione dei leucociti), una funzione endocrina (più precisamente paracrina: rilascio di citochine), interviene nella cascata coagulativa e nell’attivazione delle piastrine, regola il tono vasomotorio con la liberazione di mediatori come l’NO. Le cellule endoteliali d’altra parte risentono del deficit di O2 e delle variazioni di pH come tutti gli 4 Italian Resuscitation Council Trauma Journal Club suo metabolismo, ma siamo ancora fortemente ancorati alla diagnostica macro, la quale si avvale di parametri che, abbiamo visto sopra, poco riflettono la reale condizione delle cellule, per lo meno in tempi precoci. Forse occorre una ridefinizione di shock sulla base della nuova tecnologia che permette di valutare, bedside, come sta funzionando il microcircolo e parlare di shock quando ancora la pressione è accettabile o l’acido lattico non è stato ancora prodotto in quantità “significativamente” misurabile.8 Un’ultima annotazione: compito del microcircolo è pure consentire lo scambio di calore tra cellula e sangue. Non mi sono noti articoli in cui si sia studiato questo organo in condizioni di ipotermia medio-grave o ipertermia, né come potrebbe cambiare eventualmente l’approccio diagnostico-terapeutico al paziente ipotermico se oltre alla temperatura corporea venisse valutato, ad es., l’SDF. Questo articolo è una review narrativa, secondo me a tratti un po’ caotica, di informazioni diverse e credo che non tocchi in maniera privilegiata il problema del microcircolo nello shock ipovolemico. Va letto e meditato come primo approccio al problema “micro” e, parafrasando la conclusione degli autori, come un’introduzione a una diversa fisiopatologia e a un più fisiologico approccio al paziente critico. CASE REPORT Uno shock inspiegabile: quello che non ci aspetteremo mai in un grave traumatizzato in fase acuta Riportiamo il caso di un paziente di sesso maschile, 41 anni, con storia di etilismo cronico, trasportato dal 118 presso il Pronto Soccorso del nostro Centro perchè vittima di politrauma della strada (tamponamento del proprio motoveicolo contro autovettura). All'ingresso il paziente si presentava in stato di iperagitazione, GCS 13 (E4, V3, M6), in respiro spontaneo con SpO2 95% in aria ambiente, una buona meccanica respiratoria e un’emodinamica stabile. All'esame obiettivo non si rilevavano reperti di rilievo se non una ferita lacero-contusa su arcata sopraccigliare destra, un modesto ipertipanismo associato a tensione addominale e un atteggiamento preternaturale dell'arto inferiore destro. L’alcolemia era molto elevata (225 mg/dl). Veniva iniziata ossigenoterapia in maschera facciale, contemporaneamente venivano assicurati due accessi periferici e si iniziava l’infusione di cristalloidi. Considerata la stabilità del quadro, il paziente veniva avviato in sicurezza all'esecuzione di TC total body e Rx gamba dx. La TC mostrava un'ampia falda di falce d'aria sottodiaframmatica disposta in sede anteriore contestualmente a versamento periepatico e parietocolico dx esteso allo scavo pelvico con anse tenuali iperdense come da ematoma. L'Rx gamba dx documentava la frattura del terzo distale di tibia e perone. All'EGA praticato a un’ora e 40 minuti dall'ingresso si delineava ipossiemia (pO2 75,8 con FiO2 0,28; P/F 270) e un disordine di tipo misto, più spiccatamente di eziologia metabolica (pH 7,24; mmHg; pCO2 39,3 mmHg; HCO3- 20,2 mEq/l; BE -9,5 mmol/l; lattati 2,3 mg/dl). A 2 ore e 8 minuti dall'ingresso, considerati i reperti radiologici associati a un rapido deterioramento del quadro emogasanalitico, il paziente veniva trasportato in sala operatoria per eseguire laparotomia esplorativa. A seguito di riscontro di peritonite acuta diffusa da rottura dell'ultima ansa ileale, veniva sottoposto a resezione ileocolica e successivo confezionamento di anastomosi. Successivamente, l'équipe ortopedica applicava un fissatore esterno alle fratture di tibia e perone destro. Revisione e commento di Savino Russo SC Medicina d’Urgenza Azienda Ospedaliero-Universitaria di Trieste Bibliografia 1. Csaki C, Szabo C, Benyo Z, et al. Role of platelet-activating factor in the development of endothelial dysfunction in hemorrhagic hypotension and retransfusion. Thrombosis Research 1992;66:23-31 2. Lerman A, Zeiher AM. Endotelial function: cardiac events. Circulation 2005;111:363-8 3. Vallet B, Lund N, Curtis SE, et al. Gut and muscle tissue PO2 in endotoxemic dogs during shock and resuscitation. J Appl Phys 1994;76(2):793-80 4. Duling BR, Desjardins C. Capillary hematokrit: what does it mean? Physiology 1987;2:66-9 5. Tsai AG, Johnson PC, Intaglietta M. Oxygen gradients in the microcirculation. Physiol Rev 2003;83(3):933-63 6. Ruiz C, et al. Diagnosis and treatment of the septic microcirculation. 2010 Yearbook of intensive care and emergency medicine, JL Vincent ed, Springer. p 16-26 7. Cohn SM, Nathens AB, Moore FA, et al. Tissue oxygen saturation predicts the development of organ dysfunction during traumatic shock resuscitation. J Trauma 2007;62(1):44-54 8. Silva S, Teboul JL. Defining the adequate arterial pressure target during septic shock. Not a “micro” issue but the microcirculation can help. Critical Care 2011;15:1004 5 Italian Resuscitation Council Trauma Journal Club Mediante riempimento volemico, correzione degli squilibri elettrolitici e ventilazione meccanica veniva guadagnato un lento e provvisorio miglioramento del quadro emogasanalitico. Al termine dell'intervento chirurgico si procedeva all'estubazione del paziente. Persisteva tuttavia acidosi metabolica con ulteriore riduzione del pH (7,22) e dei bicarbonati (14 mEq/l) e incremento dei lattati (3,6 mg/dl). Per questo motivo, malgrado la contemporanea presenza in PS di diversi pazienti intubati che necessitavano di posto letto in Rianimazione, si decideva di assegnare a questo paziente l’unico posto disponibile. Il paziente entrava in Rianimazione a circa 16 ore dall'ingresso in ospedale, tendenzialmente soporoso ma collaborante, in respiro spontaneo con maschera di Venturi (FiO2 0,5), quadro EGA sempre compromesso seppur in lieve miglioramento ma con il preoccupante dato emocromocitometrico di grave leucopenia con GB 400/mm3 su un anamnesi patologica negativa per immunosoppressione. Dopo circa 1 h dal ricovero in Rianimazione si assisteva a un improvviso aggravamento delle condizioni cliniche generali con stato di shock (PA 90/60 mmHg, FC 110 bpm, segni di grave ipoperfusione) e repentina caduta della SaO2 associata a tachipnea, instabilità emodinamica e rialzo termico (T.E. 38°C). Previa induzione anestesiologica si eseguiva intubazione tracheale e si avviava ventilazione meccanica a pressione controllata. La TC toraco-addominale eseguita d'urgenza nel sospetto, non supportato appieno dall'obiettività toracica, di un PNX iperteso, escludeva tale problema, dimostrando però ampie zone di consolidamento del parenchima polmonare e nessun altro reperto degno di nota. I nuovi dati EGA sottolineavano il peggioramento emodinamico mostrando un ulteriore incremento dei lattati (fino a 35-40 mg/dl) e una severa ipossiemia (P/F<100). Al fine di ottenere un preciso quadro dell'assetto emodinamico-volumetrico il paziente veniva collegato al sistema PiCCO con riscontro di parametri compatibili col sospetto clinico di shock settico precoce (PA 86/46 dopo importante riempimento volemico; FC 110 bpm; CI 3,7; SVRI 800; GEDI 550; SVV 18). In considerazione di resistenze sistemiche sensibilmente ridotte e indice cardiaco non certo ottimale se comparato all'esiguo postcarico, si procedeva a infusione endovenosa continua di noradre- nalina a dosaggi incrementali associata a minimo supporto endovenoso continuo di dobutamina, con titolazione su base dei dati PiCCO. Sopraggiungeva una condizione di insufficienza renale acuta che veniva trattata mediante terapia sostitutiva renale con CVVHDF. Si modificava la terapia antibiotica passando da una profilassi postoperatoria per peritonite secondaria con Cefazolina e Metronidazolo a una terapia con Meropenem, Vancomicina e Fluconazolo più adeguata al trattamento di un quadro settico su paziente potenzialmente immunosoppresso. L'immunosopressione veniva peraltro esclusa nei giorni successivi da esame dell'agoaspirato midollare e test HIV risultati negativi. In 1° giornata postoperatoria veniva eseguito ecocardiogramma che rivelava ipocinesia diffusa del ventricolo sinistro con FE 40%. In 2° giornata comparivano alterazioni elettrocardiografiche patognomiche per danno ischemico (onda di Pardee inferiore in V5 e V6 con sottoslivellamento speculare anteriore), accompagnate da incremento della Troponina I fino a 93,77 ng/ml e ulteriore calo della FE al 35%. L’esame coronarografico urgente, concordato dopo consulenza cardiologica ed eseguito a fronte di un altissimo rischio in virtù della precaria condizione emodinamica e della grave piastrinopenia che nel frattempo era soppraggiunta (PLT<20.000), mostrava un albero coronarico indenne con una condizione da ascriversi in tutta verosimiglianza a una gravissima miocardite settica. In 4° giornata perveniva il referto di prelievo emocolturale, eseguito nell'immediata fase postoperatoria, positivo per Escherichia Coli, a ulteriore conferma del sospetto che lo stato di shock associato a neutropenia, coagulopatia e miocardite potesse essere attribuito a esotossina batterica. Sottoposto a tracheostomia in 10° giornata e a ripetuti cicli di ventilazione meccanica in posizione prona per ARDS, il paziente è andato incontro a un lento ma progressivo recupero di discrete condizioni generali, ha richiesto prolungato trattamento antibiotico per diverse successive positività colturali evidenziatesi in corso del ricovero, la più importante quella per Acinetobacter Baumanii multiresistente nell'esame colturale del broncoaspirato, sottoposta a trattamento antibiotico mediante Colimicina con sterilizzazione documentata da negativizzazione su due consecutivi esami colturali. 6 Italian Resuscitation Council Trauma Journal Club In diversi studi su modelli animali, già da alcuni anni, è stata dimostrata una stretta correlazione tra la presenza in circolo di MDS associate a infezioni da germi quali Escherichia Coli, Pseudomonas Aeruginosa e Staphilococcus Aureus, con rapporto diretto tra dose, via d'inoculazione, sierotipo dell'agente e intensità del deficit di contrattilità miocardica.5 Peraltro, in un più recente lavoro viene segnalato l'effetto cardiodepressivo del lisozima, sostanza batteriolitica derivante dal processo di disintegrazione dei granulociti PMN in corso di sepsi da Escherichia Coli, bloccato dall'azione di antagonisti del lisozima stesso. Altre sostanze implicate in effetti cardiodepressori includono prostanoidi e ossido nitrico.6 È importante notare come forme di scompenso cardiaco su shock settico possano essere ascrivibili a fattori prodotti dalle piastrine e presentino un'evoluzione e una durata che spesso ricalca la vita in circolo di queste ultime. Da questa osservazione deriva l'ipotesi, ancora tutta da dimostrare, che la gravità della piastrinopenia nello shock settico possa essere proporzionale alla gravità della disfunzione cardiaca.7 Dopo 54 giorni di degenza in Rianimazione il malato veniva dimesso in respiro spontaneo efficace seppure da tracheostomia ancora in sede per deficit funzionale dell'emidiaframma destro, con emodinamica stabile e autonoma, diuresi attiva ed alimentazione per os. Commento Casi come questo possono creare non poche difficoltà. Infatti è prassi comune attribuire la causa di simili precipitazioni del quadro clinico a lesioni misconosciute alla diagnostica piuttosto che a cause extra traumatiche come lo shock settico di cui pure bisogna tener conto anche nel politrauma in fase acuta. Nel caso descritto, il quadro EGA iniziale (ipossiemia, acidosi respiratoria e acidosi metabolica) era stato condizionato dall’intossicazione etanolica acuta e dalle contusioni polmonari, tuttavia l'aumento progressivo dei lattati rifletteva in modo lineare la sofferenza multiorgano in corso di stato settico, pertanto una doverosa riflessione va spesa in merito all'importanza dell'acidosi lattica come segno d'allarme e indicazione al ricovero del paziente in Rianimazione. Non sembra, nel caso in oggetto, che vi fossero particolari fattori predisponenti al precoce sviluppo di quadro di shock settico; in particolare, benché il paziente presentasse una storia di abuso etilico cronico, non erano stati evidenziati segni laboratoristici di epatopatia, piastrinopenia o leucopenia, reperti che si sono manifestati in seguito. La sepsi è definita come una risposta infiammatoria generalizzata a uno o più stimoli infettivi1, quali endotossine o altri agenti microbiologici, che induce il rilascio di mediatori locali e sistemici, come TNFα e IL-1, da monociti, macrofagi e altre cellule.2 Queste citochine stimolano PMN, cellule endoteliali, piastrine e macrofagi stessi all'amplificazione della cascata infiammatoria. Lo scompenso cardiaco, che sopraggiunge in circa il 7% dei pazienti affetti da sepsi e da shock settico, ne è una importante complicanza, la cui eziologia e patogenesi nell'uomo e negli animali non sono del tutto chiare.3 Il peggioramento della funzionalità cardiaca consta della combinazione tra insufficienza sistolica e diastolica, verosimilmente attribuibile alla presenza in circolo di sostanze miocardio depressive (MDS=myocardial depressant substance) rappresentate da differenti citochine ad azione sinergica.4 a,b a,b b Davide Piredda , Andrea P. Cossu , Giuseppe Nardi a-Scuola di Specializzazione in A&R- Università di Sassari b-UO Shock e Trauma - Osp. S.Camillo-Forlanini di Roma Bibliografia 1. Bone RC, Balk RA, Cerra FB, et al. Definitions for sepsis and organ failure and guidelines for the use of innovative therapies in sepsis. Chest 1992;101:1644-55 2. Van der Poll T, Van Deventer JH. Cytokines and anticytokines in the pathogenesis of sepsis. Infect Dis Clin North Am 1999;13:413-26 3. Parrillo JE Septic shock: clinical manifestations, pathogenesis, hemodynamics, and management in a critical care unit. In Major Issues in Critical Care Medicine. JE Parrillo and SM Ayres editors. Williams & Wilkins, Baltimore, 1984:111 4. Court O, Kumar A, Parrillo JE, Kumar A. Clinical review: Myocardial depression in sepsis and septic shock. Critical Care 2002;6(6):500-8 5. Natanson C, Danner RL, Elin RJ, et al. Role of endotoxemia in cardiovascular dysfunction and mortality escherichia coli and staphylococcus aureus challenges in a canine model of human septic shock. J Clin Investi 1989;83:243-51 6. Mink SN, Jacobs H, Duke K, et al. N,N’,N”triacetylglucosamine, an inhibitor of lysozyme, prevents myocardial depression in Escherichia coli sepsis in dogs. Crit Care Med. 2004;32:184–93 7. Azevedo LCP, Janiszewski M, Pontieri V, et al. Plateletderived exosomes from septic shock patients induce myocardial dysfunction. Crit Care 2007;11:R120 7 Italian Resuscitation Council Trauma Journal Club corso di questa prima, preziosa telefonata ci viene inoltre comunicato che sono coinvolti degli operai gravemente ustionati. Come suggerito nel nostro protocollo operativo, queste informazioni permettono di attivare un dispatch mirato fin dalle prime fasi del soccorso. Infatti, pochi minuti dopo (h 15:03) il medico responsabile della CO dichiara l’attivazione della procedura di Maxiemergenza, in quanto le notizie iniziali rientrano tra i criteri che individuano un evento che potrebbe richiedere risorse che vanno al di là dell'ordinario. Vengono inviati sul posto quattro mezzi avanzati (MSA), tra cui due elicotteri, e dieci mezzi di soccorso di base (MSB). Non appena disponibili vengono inviati inoltre due mezzi con funzione di coordinamento, con a bordo personale tecnico e sanitario. Il primo MSB giunge in posto due minuti dopo l’attivazione. Oltre alla scelta e all’invio dei mezzi di soccorso, la CO si occupa dell’attivazione degli ospedali di primo e secondo livello presenti sul nostro territorio, provvede all’allertamento dei Centri Grandi Ustionati presenti sul territorio del Nord Italia (Torino, Genova, Cesena, Padova, Parma, Verona), informa le altre CO lombarde e gli enti preposti (AREU, Regione, Questura). La CO di Monza e la CO di Como partecipano direttamente al soccorso inviando due dei quattro mezzi avanzati che intervengono in loco, rispettivamente un’automedica e un elicottero. A distanza rispettivamente di 13’ e 20’ dalla richiesta di soccorso il primo MSB e il primo MSA giunti sulla scena forniscono alla CO informazioni sanitarie: si apprende dunque di sette pazienti coinvolti, di cui un codice verde con ustioni localizzate alle mani e sei codici rossi con ustioni di secondo e terzo grado con estensione stimata tra 40 e 90% di superficie corporea, coinvolgenti il volto e il collo. Tutti i pazienti sono coscienti e respirano autonomamente. Considerata l’estensione delle ustioni, la loro entità e la localizzazione, i pazienti presentano i criteri anatomici e fisiologici che li identificano quali ustionati maggiori. In questo contesto risulta evidente come non sia indicata l’applicazione del triage START: tutti i pazienti gravemente ustionati si presentano infatti deambulanti (codici verdi secondo i criteri dello START). È stato utilizzato quindi un triage anatomico che ha permesso una valutazione più corretta dal punto di vista sanitario. CASE REPORT Gestione dell’ustionato grave in uno scenario di emergenza multipla: quando la rete fa la differenza Lo scenario del paziente ustionato presenta spesso delle criticità legate allo squilibrio tra le complesse richieste clinico-terapeutiche e le limitate risorse specialistiche a disposizione sul territorio, soprattutto in un contesto preospedaliero. In una precedente edizione di questo giornale abbiamo discusso la gestione integrata del paziente ustionato nel contesto della realtà milanese, proponendo una strategia operativa (TJC anno 0 numero 1, 2010) finalizzata alla centralizzazione primaria del paziente presso il Centro Grandi Ustionati di Milano Niguarda qualora immediatamente disponibile; nel caso in cui tale risorsa primaria non fosse prontamente accessibile, si raccomandava l’accesso presso un ospedale situato nei pressi del luogo dell’evento, al fine di garantire la stabilizzazione delle funzioni vitali del paziente e impostare una prima rianimazione volemica, per poi provvedere il prima possibile al trasporto protetto presso un Centro Grandi Ustionati anche distante dal luogo dell’evento con il mezzo più competitivo a disposizione (ambulanza o elicottero). Un evento occorso nella nostra area ha necessitato l’applicazione di tale strategia operativa, evidenziando i punti di forza e le criticità del nostro sistema di soccorso. Il 4 Novembre 2010, alle h 14:57, la Centrale Operativa (CO) 118 di Milano riceve notizia dalla Polizia Locale di un’esplosione presso uno stabilimento industriale deputato allo smaltimento di rifiuti tossici, seguita da un’ulteriore chiamata da parte dei Vigili del Fuoco che intervengono inviando numerosi mezzi di soccorso. Curiosamente, nonostante l’evento sia estremamente visibile poiché prospiciente alla tangenziale, come ci confermeranno di lì a breve i mezzi intervenuti sul posto, la CO 118 riceve poche chiamate da parte dell’utente. Tuttavia, la prima segnalazione da parte della Polizia Locale fornisce già delle informazioni importanti: la ditta viene rapidamente identificata, veniamo immediatamente a conoscenza della tipologia di materiale trattato, in modo da poter adottare idonee precauzioni e fornire gli operatori di adeguati dispositivi di protezione individuale; sempre nel 8 Italian Resuscitation Council Trauma Journal Club Le equipe a bordo dei mezzi di soccorso avanzato presenti sul nostro territorio sono per la maggior parte costituite da un autista soccorritore, da un infermiere con competenze di area critica e da un medico esperto nella gestione delle vie aeree, generalmente un anestesista-rianimatore. Tale composizione degli equipaggi ci ha permesso di adottare, nel corso dell’intervento, una strategia stay and play. Infatti a cinque dei sei pazienti catalogati come codici rossi è stato posizionato un accesso vascolare (accesso venoso e/o intraosseo) sulla scena, al fine di consentire la somministrazione di farmaci analgesici e/o ipnotici. Per garantire un ottimale controllo delle vie aeree, anche e soprattutto in considerazione del potenziale evolutivo delle ustioni localizzate al volto e al collo, quattro dei sei codici rossi sono stati intubati prima del trasporto in ospedale mentre due sarebbero stati intubati poco dopo l’arrivo in pronto soccorso. La prima disponibilità che il Centro Grandi Ustionati regionale (Milano Niguarda) fornisce è di un solo posto letto. Il Centro tuttavia si rende immediatamente disponibile ad accogliere altri pazienti nelle ore successive. I pazienti vengono destinati presso tre ospedali di primo livello (EAS) e tre ospedali di secondo livello (DEA) dove giungono accompagnati da équipe avanzate (tranne un paziente che, pur valutato da una équipe avanzata, viene immediatamente trasportato da un MSB, secondo una strategia scoop and run), dove giungono in un intervallo variabile tra 60 e 82 minuti dalla chiamata di soccorso. I pazienti vengono stabilizzati presso gli ospedali di destinazione e successivamente trasferiti presso un Centro Grandi Ustionati nelle prime sei ore (cinque pazienti su sei) e nelle prime 24 ore (l’ultimo paziente). Dei sei codici rossi coinvolti, il Centro regionale riesce ad accoglierne quattro, mentre altri due vengono trasferiti dalle nostre equipe avanzate presso i centri di Genova e Torino. Possiamo quindi dire che la prima tappa del soccorso è stata volta a ottimizzare la gestione clinica del paziente fin dall’intervento sulla scena, individuando i criteri anatomo-fisiologici che caratterizzano l’ustionato maggiore e intervenendo di conseguenza con idonei presidi di gestione delle vie aeree, anche in considerazione del potenziale rischio evolutivo, e idonea terapia farmacologica volta a garantire al paziente un’adeguata analge- sia e una prima rianimazione volemica. Successivamente, in accordo con il modello proposto nel nostro precedente articolo, i pazienti sono stati destinati in ospedale, effettuando una centralizzazione primaria presso Centro Grandi Ustionati ove possibile, oppure una stabilizzazione presso altri ospedali e successivamente un trasporto protetto in tempi estremamente rapidi. La fase preospedaliera e la fase intraospedaliera del soccorso si sono venute a integrare in maniera estremamente efficiente, garantendo un elevato livello di assistenza a tutti i pazienti. Purtroppo, in considerazione della severità delle lesioni riportate, l’outcome a medio termine dei pazienti è stato per la maggior parte sfavorevole: dei codici rossi, quattro pazienti su sei (tra i quali uno dei due pazienti intubati all’arrivo in Pronto Soccorso) sono infatti deceduti in Terapia Intensiva. Altri due pazienti, dei quali uno intubato sulla scena e uno all’arrivo in Pronto Soccorso, hanno invece avuto un decorso favorevole, così come il paziente affetto da ustioni alle mani, inizialmente classificato come codice verde. La complessa gestione di questo evento ha richiesto l’interazione di diverse figure professionali (forze dell’ordine, vigili del fuoco, soccorritori, operatori tecnici, sanitari) con differenti competenze. In tale contesto la CO si è configurata come organo di coordinamento, canale di comunicazione e primario riferimento per l’ottimizzazione di tutte le fasi del soccorso. Il contatto con le altre CO regionali ha permesso inoltre di avere a disposizione delle ulteriori equipe di soccorso, in un’ottica di collaborazione e condivisione di competenze e mezzi che ha contribuito a colmare il gap tra richiesta di risorse avanzate e disponibilità delle stesse. Nei giorni seguenti sono stati organizzati diversi incontri, aperti a tutte le figure professionali intervenute nel soccorso, secondo le modalità del debriefing, finalizzati alla presa di coscienza delle dinamiche relazionali e comunicative intercorse fra i partecipanti. Tali incontri hanno visto la partecipazione e il supporto di specialisti quali gli psicologi dell’emergenza e, a detta di tutti i partecipanti, hanno avuto un ruolo importante nella rielaborazione di un evento a elevato impatto emotivo come questo. Elisa Dedola AAT 118 Milano 9 Italian Resuscitation Council Trauma Journal Club mente allo stato volemico, alla forza contrattile del miocardio o alla presenza di versamento pericardico; tale esame è stato eseguito e interpretato da un intensivista dopo specifico periodo di formazione. I rilievi ecografici e clinici sono stati raggruppati nelle variabili fisiologiche e anatomiche: - funzione cardiaca: frazione di eiezione (EF), stroke volume, cardiac output (CO), cardiac index (CI), funzione diastolica e funzione ventricolare destra - preload: diametro delle cavità cardiache, diametro della vena cava inferiore e sue modifiche - afterload: resistenze vascolari periferiche, pressione sistolica polmonare - anatomia cardiaca: disfunzione valvolare severa con compromissione emodinamica, versamento pericardico con o senza tamponamento. Risultati - Durante un periodo di nove mesi sono stati effettuati 53 esami FREE a pazienti traumatizzati con un’età media di 61,8 anni, di cui il 62% uomini. Il meccanismo del trauma includeva cadute (37%), incidenti stradali (34%), ferite d’arma da fuoco (13%) e aggressioni (4%); in un paziente (2%) era presente una ustione da inalazione e 5 pazienti avevano infezioni necrotizzanti dei tessuti molli con shock settico. L’85% dei pazienti erano inoltre sottoposti a ventilazione meccanica. Nel 32% dei casi (17 pazienti) l’esame è stato eseguito da specializzandi. Nell’80% dei pazienti è stato possibile rilevare la EF; nel 56% dei pazienti è stata diagnosticata una disfunzione ventricolare sinistra da moderata a severa, nel 25% dei casi una disfunzione destra. È stato possibile rilevare il diametro della vena cava inferiore (IVC) e la sua variazione con la respirazione nell’80% dei pazienti; tali parametri erano più difficili da ottenere nei pazienti operati di chirurgia addominale recente e negli obesi. In 31 casi la IVC aveva un diametro superiore a 2 cm e il 48% dei pazienti mostrava variazioni minime del diametro con la respirazione che veniva correlato a un sovraccarico di fluidi. Gli esami FREE venivano classificati secondo la qualità delle immagini ottenute in “eccellente”, “buono”, “discreto” e “tecnicamente difficoltoso”. Sono stati considerati tecnicamente difficoltosi 4 dei 17 esami effettuati dagli specializzandi e 6 dei 36 studi eseguiti da specialisti. In tutti gli esami eseguiti sia da specializzandi che da specialisti è stato possibile SELEZIONE DALLA LETTERATURA Ecocardiografia transtoracica per la valutazione in tempo reale dell’assetto emodinamico: un’opzione “FREE” per il grave traumatizzato Ferrada P, Murthi S, Anand RJ, et al. Transthoracic Focused Rapid Echocardiographic Examination: real-time evaluation of fluid status in critically ill trauma patients. J Trauma 2011; 70: 56-74 Introduzione - Una corretta valutazione della volemia, della funzionalità cardiaca e della risposta a un carico volemico può essere molto importante nella gestione del paziente con trauma grave. Per motivi diversi, i dati forniti dal catetere polmonare e dal catetere venoso centrale possono non essere in grado di offrire informazioni sufficienti. Viceversa l’ecografia ha acquisito sempre più spazio sia nell’approccio iniziale che nella gestione nelle terapie intensive di questa tipologia di paziente. Sebbene rappresenti il “gold standard”, l’ecocardiografia transesofagea (TEE) è di più difficile esecuzione, maggiormente invasiva e richiede un’adeguata esperienza. L’ecografia transtoracica (TTE) eseguita da un cardiologo esperto fornisce analoghe informazioni ma richiede una presenza dello specialista nell’arco delle 24 ore che non sempre è possibile. L’ecocardiografia eseguita al letto del paziente con un apparecchio portatile potrebbe essere sufficientemente accurata e in grado di fornire indicazioni utili, anche se effettuata da non specialisti dopo un adeguato periodo di addestramento. In tal senso la cosiddetta Focused Rapid Echocardiographic Examination (FREE), che integra le informazioni ecografiche con il quadro clinico, potrebbe fornire una utile guida nella gestione di fluidi, inotropi e vasopressori. Analogamente alla TTE, la tecnica FREE prevede l’acquisizione delle immagini dalla finestra parasternale in asse lungo e corto, apicale quattro camere e sottoxifoidea. In posizione sottoxifoidea viene esplorato anche il diametro della vena cava inferiore e le sue modifiche con il respiro. Obiettivo dello studio è la valutazione dell’utilità clinica di questo approccio. Metodo - L’esame FREE è stato effettuato su pazienti traumatizzati ricoverati in terapia intensiva in risposta a uno specifico quesito clinico relativa- 10 Italian Resuscitation Council Trauma Journal Club rilevare la EF e dare risposte ai quesiti clinici su tipo di shock, funzione cardiaca e stato volemico. Il tempo medio di un esame non ha superato i 10 minuti per paziente. Nell’87% dei casi (46 su 53) il FREE è stato in grado di fornire indicazioni cliniche al team che assisteva il paziente e nel 54% (29 pazienti) il piano terapeutico è stato modificato in base ai risultati dell’esame. Dei 29 pazienti nei quali il FREE ha cambiato il piano di cura, 10 (34%) mostravano segni di sovraccarico volemico: in questi casi il team ha optato per una rimozione di fluidi o per l’astensione da ulteriori somministrazioni di boli. In 13 pazienti (45%) il FREE ha rilevato una ipovolemia che ha indotto a incrementare la quantità di liquidi somministrati. In 3 pazienti (10%) è stato iniziato un trattamento con inotropi dopo che il FREE aveva messo in evidenza una depressione della funzione cardiaca; in altri 3 pazienti (10%) sono stati somministrati farmaci vasoattivi dopo la rilevazione di basse resistenze vascolari sistemiche (SVR) in presenza di euvolemia e funzione cardiaca adeguata. Questo studio dimostra la fattibilità dell’esame FREE e indica che le rilevazioni da esso derivate possono migliorare le strategie terapeutiche nel paziente con trauma grave, permettendo di intervenire in maniera mirata su importanti elementi quali la gestione dei fluidi, il supporto inotropo e l’uso di vasopressori. Inoltre il FREE è uno strumento non invasivo che non espone il paziente a rischi e non interferisce con le manovre di rianimazione. Esso è pensato per essere eseguito e interpretato da non specialisti che possono, con un training minimo, identificare se il cuore si contrae, se è pieno o vuoto e se la IVC è collassabile o meno con il respiro; con un training ulteriore possono essere ottenute anche informazioni più complesse. Informazioni aggiuntive circa la EF e la funzione del cuore destro, insieme alla valutazione del preload e dell’afterload ottenute con il FREE possono essere essenziali in una rianimazione complessa. Ulteriori studi, tuttavia, sono necessari per determinare l’impatto dell’ecografia effettuata da non specialisti in cardiologia sull’outcome del paziente e per individuare i metodi migliori per l’addestramento degli operatori. Commento - L’ecocardiografia è una metodica diagnostica non invasiva capace di fornire in tempo reale informazioni attendibili su molte variabili fondamentali nel paziente critico quali lo stato volemico e la performance cardiaca, oltre ad accertare, in particolare nel traumatizzato, l’integrità vascolare e lo stato del pericardio. L’esecuzione di questa diagnostica deve essere breve, limitata al B-mode e all’M-mode e mirata alla ricerca di reperti ad alto impatto clinico. L’esame assume particolare rilevanza nel paziente con trauma grave nel quale non è infrequente il riscontro di blunt cardiac trauma (BCT). Benché questo termine definisca i soli casi in cui l’impatto interessa effettivamente le strutture cardiache, un’importante disfunzione dell’attività contrattile può verificarsi anche in assenza di traumatismo diretto e comportare alterazioni emodinamiche di assoluta gravità, tali da rendere estremamente complessa la gestione dei pazienti traumatizzati. In quelli con coesistenti lesioni emorragiche la diagnosi precoce di BCT è spesso difficile. L’ipotensione viene frequentemente considerata come dovuta a ipovolemia e, a causa della mancanza di dati epidemiologici precisi, l’ipotesi di trauma cardiaco viene presa in considerazione solo tardivamente. Le contusioni polmonari gravi sono spesso associate a disfunzione miocardica anche in assenza di trauma diretto sulle strutture cardiache: la performance cardiaca può essere depressa per una riduzione della contrattilità del ventricolo destro e un incremento significativo del postcarico destro. Lesioni del miocardio non legate a trauma diretto sono state osservate anche nei pazienti con grave trauma cranico come conseguenza di turbe ischemiche legate a vasocostrizione coronarica massimale in seguito al rilascio massivo di noradrenalina e adrenalina. Inoltre un BCT può determinare emopericardio che può portare a tamponamento cardiaco. In questo contesto la stima della EF può suggerire l’impiego di inotropi (spesso “sottoutilizzati”) piuttosto che di vasopressori o di boli di liquidi aggiuntivi. Il diametro della IVC e le sue variazioni con il respiro possono essere ottenute rapidamente con l’ecografia; nella maggior parte dei casi sono dati che danno una buona stima dello stato volemico del paziente (la tendenza a “riempire” il paziente traumatizzato che non conosciamo e che all’ingresso non sappiamo se è “pieno” o “vuoto” 11 Italian Resuscitation Council Trauma Journal Club è assai diffusa). Tuttavia a tal proposito occorre fare alcune considerazioni. Nell’articolo si fa riferimento alle variazioni minime del diametro della IVC con il respiro come segno di sovraccarico fluidico. In realtà, una IVC piena e non comprimibile potrebbe essere anche la spia di un fenomeno ostruttivo a valle (es. tamponamento cardiaco, pneumotorace iperteso). Va dunque sottolineato che l’operatore deve sempre integrare questo dato con la clinica e con le altre informazioni che è possibile ricavare dall’esame ecografico. Ad esempio, in caso di tamponamento cardiaco oltre ad un incremento del diametro della IVC è possibile visualizzare un versamento pericardico con mancato rilasciamento del cuore in diastole; allo stesso modo, in caso di pneumotorace iperteso il dato clinico di un’asimmetria del murmure vescicolare all’auscultazione del torace e l’estensione dell’esame ecografico al torace alla ricerca dei segni specifici (vedi articolo di Roberta Ciraolo su ecografia e PNX in questo numero di TJC, NdR) possono orientare nel porre la diagnosi indirizzando verso le scelte terapeutiche più appropriate. È intuitivo, quindi, come la possibilità di avvalersi, insieme alla valutazione clinica, di uno strumento di diagnosi anche differenziale di rapida esecuzione, non invasivo ed esente da rischi, praticabile anche da un non specialista con un training di base minimo, offra un grande ausilio per l’orientamento diagnostico e quindi terapeutico del paziente con trauma grave. Inoltre bisogna ricordare che l’esame è immediatamente ripetibile e pertanto può offrire l’opportunità di un monitoraggio seriato del paziente e di guida in tempo reale, permettendo di verificare subito gli effetti del trattamento e di correggere o modificare tempestivamente le scelte operative. Questo studio aggiunge un altro elemento a favore dell’uso dell’ecocardiografia nel paziente traumatizzato perché, se impiegato precocemente e integrato con le informazioni cliniche, può fornire informazioni che possono essere preziose nella diagnostica differenziale dello shock e nella guida a un corretto trattamento. SELEZIONE DALLA LETTERATURA L’ecografia per la diagnosi dello pneumotorace: opzione semplice, rapida, affidabile e… low cost Volpicelli G. Sonographic diagnosis of pneumothorax Intensive Care Med 2011;37:224–32 Ci siamo occupati spesso di ecografia, sulla nostra rivista, perché negli ultimi anni la diffusione di apparecchi portatili di ottima qualità, la bassa invasività coniugata ai costi contenuti, l’incremento delle conoscenze e soprattutto delle competenze di figure professionali impegnate in ambiente critico e dell’emergenza, hanno dilatato a dismisura le applicazioni di questa metodica, rendendola addirittura un’estensione dell’esame obiettivo. L’applicazione delle tecniche ultrasonografiche nello studio delle patologie polmonari (LUS) è relativamente recente perché l’assunto che gli ultrasuoni non attraversano l’aria ne aveva di fatto escluso l’applicazione per molti anni. Tuttavia non sempre la diagnosi segue un percorso diretto. Per esempio, nell’ambito dello studio polmonare l’ecografia consente di escludere o confermare la presenza di un PNX in base alla comprensione degli artefatti causati dalle diverse interfacce (tessuto-aria-acqua). L’introduzione delle tecniche ultrasonografiche in ambito di patologia polmonare, soprattutto in emergenza, è relativamente recente e si è rivelata sorprendente in merito a sensibilità e velocità di esecuzione; è infatti solo da un decennio circa che tale metodica ha trovato applicazione nella diagnosi di pneumotorace. Questa review passa in rassegna in modo sistematico la letteratura e la coniuga con expert opinion e personale esperienza clinica. Le conclusioni sono incoraggianti in quanto l’eco si è rivelata in grado di confermare o escludere, con poche acquisizioni e in tempi contratti, uno PNX con una sensibilità analoga a quella della TAC e ovviamente superiore a quella della Rx tradizionale. Per la diagnosi ecografica di PNX è necessaria una tecnologia di minima: un apparecchio portatile, acquisizione B-Mode (color e M-mode opzionali) e una qualunque sonda (quella lineare ad alta frequenza 5-12 MHz è la migliore per lo studio della pleura). Quando un paziente è in decubito supino l’aria tende ad accumularsi in posizione antigravitaria, cioè anteriormente da entrambi i lati del torace. La sonda si posiziona, su entrambi gli emitoraci, Revisione e commento di Carmen Di Maria UOC Anestesia e Rianimazione AORN “G. Rummo” - Benevento 12 Italian Resuscitation Council Trauma Journal Club a livello del III–IV spazio intercostale tra parasternale e linea medio-claveare (sede antero-inferiore); il fuoco dovrebbe essere settato superficialmente, allineandolo all’altezza della pleura (generalmente 0,5 cm sotto la superficie della costola). razione attiva o passiva. La capacità di risoluzione della tecnica non è tale da distinguere i due foglietti ma il movimento di scorrimento o scivolamento è segno indiretto della presenza di due strati. Quando si frappone aria tra i due foglietti pleurici, come accade nello PNX, questo movimento di scivolamento scompare: in altre parole la pleura è ancora visibile ma non si muove. La visualizzazione dello sliding nelle due aree anteriori di entrambi gli emitoraci, a livello del III-IV spazio intercostale, virtualmente esclude la presenza di PNX con un valore predittivo negativo del 100%. Il Doppler può essere di aiuto nei casi di difficile visualizzazione della linea pleurica, in quanto la comparsa di fugace colore al di sotto del piano pleurico implica movimento e si osserva solo quando il polmone è a parete e si muove con gli atti respiratori. L’acquisizione in M-Mode può essere utile per oggettivare il movimento pleurico su carta. Se la presenza di sliding esclude al 100% un PNX, la sua assenza non ha la stessa predittività (specificità 91% nella popolazione generale, 78% nel paziente critico, 60% nel paziente con ARDS) poiché tale condizione può esistere anche in presenza di atelettasie massive, intubazione selettiva del bronco destro, contusione polmonare, ARDS, aderenze pleuriche, per cui per la conferma di PNX è necessario ricorrere ad altri segni. Artefatti. Nella valutazione ecografica del polmone la zona sottostante alla pleura è l’area degli artefatti. La presenza dell’aria alveolare non consente, infatti, di visualizzare le strutture reali, tuttavia spesso è possibile osservare delle linee artefattuali orizzontali o verticali a partenza dalla pleura. Di particolare importanza sono le linee B verticali che si diramano dalla superficie pleurica e raggiungono la parte inferiore dello schermo senza perdita di intensità, frutto dell’interfaccia aria-acqua contenuta nei setti interlobulari. Il numero e la diffusione delle linee B aumenta quando cresce la percentuale di acqua contenuta nel polmone. L’importanza delle linee B nella diagnosi di PNX è indiretta, poiché anche la visualizzazione di una sola linea B ne esclude la presenza con un valore predittivo negativo del 100%. Com’è intuitivo l’assenza delle linee B non ha lo stesso valore diagnostico. Lung pulse. In aggiunta alle linee orizzontali della pleura sono a volte visibili movimenti pleurici verticali sincroni con il battito cardiaco. Questo movimento viene definito lung pulse ed è il terzo segno da ricercare; si apprezza a polmone fermo Figura – Quando un paziente è in decubito supino l’aria tende ad accumularsi in posizione antigravitaria, cioè anteriormente Il primo piano di scansione consigliato è quello longitudinale con l’asse lungo della sonda orientato parallelamente al piano sagittale del paziente. Questa finestra acustica consente di visualizzare almeno due costole e il corrispettivo spazio intercostale, nel cui contesto è molto semplice individuare la linea pleurica anche per chi non ha acquisito ancora molta pratica. La pleura parietale appare come una linea orizzontale localizzata tra e sotto le due costole adiacenti. Una volta identificata la pleura si ruota la sonda allineandola in corrispondenza dell’asse lungo dello spazio intercostale; si ottiene così il piano obliquo che consente di visualizzare la linea pleurica per un’estensione maggiore. Spesso è necessario muoversi su più spazi intercostali in basso e lateralmente, per confermare la diagnosi di PNX o per valutarne l’estensione. Anche se in apparenza complessa, la conferma o l’esclusione ecografica di un PNX è semplice e rapida e richiede solo una breve curva di apprendimento. Si devono ricercare in sequenza quattro segni dinamici. Lung sliding. È il primo segno dinamico e rappresenta il movimento di scorrimento orizzontale sottile e luminoso della linea pleurica, individuabile in pochi secondi e apprezzabile in condizioni di respi- 13 Italian Resuscitation Council Trauma Journal Club pulse in un solo punto, bilateralmente e sulla parte anteriore del torace. In pazienti in arresto o instabili, un pattern ecografico caratterizzato dall’assenza di sliding, linee B e lung pulse conferma PNX e pone indicazione a decompressione immediata. L’eco è più sensibile della radiologia tradizionale nella diagnosi di PNX traumatici o iatrogeni postprocedura, anche quando si tratti di piccole falde. Sebbene piccoli PNX radio-occulti in pazienti stabili non siano usualmente da drenare, l’eco si rivela utile per il loro follow up e per il corretto inquadramento del paziente in DEA. Nel paziente stabile, come già detto, l’eco è utile anche per la valutazione dell’estensione del PNX, ma non del suo volume; infatti, se il reperimento del lung point può indicare con precisione la superficie su cui il PNX si estende, l’esame ecografico non dà indicazioni sulla profondità della falda individuata: la mancanza della terza dimensione impedisce quindi, di fatto, di stimare il volume della falda (PNX di analoga estensione lineare possono coinvolgere volumi polmonari differenti, sebbene sia improbabile che una vasta estensione lineare sottenda un PNX di piccolo volume). Per una stima quantitativa del volume del PNX è necessaria la TAC. Esistono condizioni che limitano l’affidabilità della tecnica. Ad esempio, l’enfisema sottocutaneo può simulare lo sliding e le linee B (falso sliding pleurico e false linee B, dette linee E). Le linee E sono in tutto e per tutto identiche alle linee B tranne che per il fatto che non originano dalla linea pleurica. Tuttavia è noto che la presenza di enfisema sottocutaneo per se è segno clinico che si associa con estrema frequenza al PNX, così in questi casi la diagnosi non sarà complessa. Altro segno, possibile fonte d’errore, è la presenza di doppio lung point; in questi casi (presenza di sacche pleuriche e/o aderenze), il valore del lung point in merito alla stima dell’estensione del PNX si perde. In conclusione, allo stato dell’arte l’ecografia può essere considerata affidabile, estremamente rapida, di semplice utilizzo e a basso costo, nella diagnosi in emergenza di PNX. (pausa respiratoria) e con aree di consolidamento. Questo segno è molto utile per differenziare lo pneumotorace da altre condizioni patologiche con le quali condivide l’assenza dello sliding. Lo pneumotorace si differenzia da queste per l’assenza sia dello sliding che del lung pulse, perché l’aria intrapleurica non consente la trasmissione dei movimenti alla pleura parietale. La visualizzazione del lung pulse esclude la presenza di pneumotorace. Lung point. L’ultimo segno da ricercare è il lung point che, contrariamente ai precedenti segni analizzati, quando è riscontrabile conferma con una specificità del 100% la presenza di PNX (alto valore predittivo positivo). Nel caso in cui non siano apprezzabili sliding o pulse lung e non siano evidenzibili le linee B, si sposta la sonda ecografica progressivamente in basso e lateralmente lungo il torace, fino a evidenziare il punto in cui si apprezza il movimento pleurico. Questo viene definito lung point e corrisponde al punto in cui il polmone aderisce nuovamente alla pleura. Tanto più lateralmente si colloca questo punto, tanto più esteso è lo pneumotorace. Purtroppo l’assenza del lung point non esclude la presenza di PNX, poiché in presenza di collasso polmonare completo il segno non è evidenziabile. In sintesi la diagnosi ecografia di PNX passa attraverso l’analisi di quattro segni: tre di esclusione (forte valore predittivo negativo) e uno di conferma (alto valore predittivo positivo). Il primo segno da ricercare è lo sliding la cui presenza esclude un PNX; il secondo segno è la presenza delle Linee B che ancora una volta escludono un PNX (ne basta una); il terzo è il lung pulse che, se presente, anche in assenza di tutti gli altri è in grado di escludere la presenza di PNX; infine il lung point che invece se presente implica presenza di PNX con specificità 100%. La diagnosi ecografica di PNX è utile nei pazienti instabili o in arresto cardiocircolatorio, nei casi di PNX radio-occulto, nella valutazione dell’estensio-ne del PNX in pazienti emodinamicamente stabili, nella diagnosi di PNX in aree remote. L’ecografia in condizioni di estrema emergenza può diagnosticare PNX, tamponamento cardiaco, embolia polmonare e ipovolemia, ponendo indicazione a manovre aggressive nel tentativo di rianimare il paziente. Nel paziente in arresto cardiaco si devono ricercare lung sliding, linee B e lung Revisione e commento di Roberta Ciraolo Cardioanestesia Pediatrica CCPM-OPBG Ospedale S. Vincenzo – Taormina (ME) 14 Italian Resuscitation Council Trauma Journal Club pressione al quinto spazio intercostale sulla linea ascellare media sia associata a una maggior probabilità di riuscita rispetto al tradizionale repere anteriore. Essi ritengono urgente l'esecuzione di uno studio su viventi per la validazione definitiva dei dati emersi dallo studio preliminare su cadaveri. SELEZIONE DALLA LETTERATURA Decompressione in emergenza del PNX iperteso: dov’è meglio cacciare l’ago? Inaba K, Branco BC, Eckstein M, et al. Optimal positioning for emergent needle thoracostomy: a cadaver-based study. J Trauma 2011;71:1099-103 Allo studio, che peraltro apre il numero di Journal of Trauma, segue un commento editoriale di John H. Calhoon dell'università del Texas che ne sottolinea l'importanza e il contenuto potenzialmente rivoluzionario capace di sovvertire una consuetudine procedurale consolidata e un pilastro delle linee guida ATLS. Egli si sbilancia anche affermando come i risultati dello studio seppur sperimentali siano sufficienti a indurre cambiamenti nella pratica clinica, in attesa di un più vasto trial randomizzato su viventi. Introduzione - La decompressione con ago è la manovra d'emergenza più rapida e diffusa per decomprimere uno pneumotorace in espansione (iperteso) per la sua rapidità e facilità di esecuzione alla portata di differenti figure professionali sanitarie. È una manovra che può essere preceduta dalla puntura esplorativa diagnostica con ago sottile e deve essere seguita dalla decompressione definitiva con drenaggio toracico. La sede di esecuzione comune indicata dalle linee guida ATLS e PTC è il secondo spazio intercostale sulla linea emiclaveare. La causa di fallimento più comune è la mancata penetrazione in cavità toracica. Questo studio effettuato su cadaveri confronta il successo della procedura eseguita in due sedi diverse. Metodo - Su venti cadaveri è stato posizionato un ago 14G di 5 cm di lunghezza in due sedi diverse (secondo spazio intercostale sulla linea emiclaveare e quinto spazio intercostale sulla linea ascellare media) sia a destra che a sinistra, a simulare la decompressione con ago di un ipotetico pneumotorace. In totale sono stati posizionati quattro aghi su ogni cadavere per un totale di 80 posizionamenti. Al termine del posizionamento è stata effettuata la toracotomia per valutare l'effettiva penetrazione in cavità toracica degli aghi posizionati. È stato anche misurato lo spessore della parete toracica in ogni sede di penetrazione. Risultati - Lo studio è stato effettuato su 14 maschi e 6 femmine. Il 100% degli aghi posizionati al quinto spazio intercostale è penetrato in cavità toracica contro solo il 57,5 % di quelli posizionati in secondo spazio (p=0,001). Per gli aghi posizionati in secondo spazio, la penetrazione è avvenuta nel 60% a destra e nel 55% a sinistra. Lo spessore medio della gabbia toracica è risultato 3,5 ± 0,9 cm al quinto spazio intercostale e 4,5 ± 1,1 al secondo spazio (p=0,001). La differenza di spessore della parete non ha mostrato differenze significative fra emitorace destro e sinistro. Gli autori sulla base dei dati anatomici dello spessore della parete toracica sottolineano come la decom- Commento - Non mi sento di condividere l'entusiasmo del Dr. Calhoon nel commentare l'articolo di Inaba e ritengo che l'efficacia della decompressione con ago in sede anteriore sia sottostimata nei dati sperimentali su cadavere. Il limite principale dello studio è l'utilizzo della cannula di materiale plastico del catetere venoso 14G che è effettivamente corta (3,5-4 cm). Le linee guida IRC-PTC consigliano l'esecuzione della decompressione con l'ago metallico del catetere anziché con la cannula in plastica per due motivi: l'elevato rischio di dislocazione e deformazione della cannula in plastica e la maggior lunghezza della parte metallica. L'ago di metallo è infatti lungo 6 cm capace quindi di perforare a tutto spessore la parete toracica in sede anteriore (spessa secondo lo studio 4,5 ± 1,1 cm). L'indubbio vantaggio della sede di decompressione anteriore è l'accessibilità, importante soprattutto in ambiente extraospedaliero in cui la postura del paziente è obbligata (necessità di mantenere allineamento e posizione neutra del rachide) e il torace può non essere del tutto accessibile: l'accessibilità del quinto spazio intercostale è possibile solo dopo sollevamento del braccio e quasi completa svestizione del paziente. Tale svantaggio è peraltro sottolineato anche in un passaggio dell'articolo. Lo studio su cadaveri ovviamente non permette l'analisi delle possibili complicanze. Se è vero che la puntura anteriore può ledere l’arteria mammaria, la puntura laterale può determinare lesione cardiaca se la parete miocardica è particolarmente vicina alla parete (es. cardiomegalia) o lesioni viscerali addominali se eseguita in spazio intercostale erroneamente basso. 15 Italian Resuscitation Council Trauma Journal Club La decompressione d'emergenza con ago dovrebbe essere eseguita solamente dopo evidenza clinica di pneumotorace iperteso, caso quindi in cui dovrebbe essere pescata aria sia pungendo in sede anteriore sia in sede latero toracica. Tuttavia, in caso di falda sotto pressione anteriore o erronea diagnosi clinica di PNX iperteso, la puntura in sede laterale può associarsi a una probabilità più elevata di lesione intraparenchimale; è noto, infatti, che il PNX traumatico si colloca preferibilmente in sede toracica anteriore (Ball CG. Factors related to the failure of radiographic recognition of occult posttraumatic pneumothoraces. Am J Surg 2005;189(5):541-6). A mio parere i dati descritti nello studio non sono sufficiente a modificare i protocolli attuali. Lo studio di Inaba ha comunque il merito di ricordare come la mancata penetrazione dell'ago nel torace sia sempre possibile in caso di posizionamento non perpendicolare dell'ago e in caso di pareti toraciche particolarmente spesse e come la sede laterale di puntura sia in casi selezionati una valida alternativa. delle vie aeree. Recenti statistiche americane sulle morti in combattimento nel periodo 2003–2007 nei teatri operativi di Iraq e Afghanistan hanno confermato i dati di tale studio (vedi Tabella).2 Causa del decesso % Traumi penetranti della testa 31% Lesioni inoperabili del tronco 25% Infezioni conseguenti al trauma 12% Traumi del tronco potenzialmente operabili 10% Emorragie dalle estremità 9% Traumi con lesioni devastanti da scoppio 7% Pneumotorace iperteso 5% Ostruzione vie aeree 1% Tabella. Cause di morte in ambiente bellico Butler evidenziò, inoltre, che un elevato numero di soccorritori venivano feriti o uccisi nelle prime fasi del soccorso, con ciò richiamando l’attenzione sul fatto che l’approccio al ferito in zona di combattimento deve, più che in altre realtà, considerare le necessità del traumatizzato da soccorrere assieme all’incolumità dei soccorritori. Per questo, nel TCCC il soccorso viene suddiviso in tre fasi in base alla situazione tattica contingente. 1. Care Under Fire - In questa fase la priorità è evitare ulteriori perdite ponendo fine alla minaccia avversaria (supremazia di fuoco). Quando un militare viene ferito, nella primissima fase è ancora potenzialmente presente un’attività bellica da parte del nemico e quindi il soccorritore, se intervenisse, si troverebbe a elevato rischio per la propria incolumità. In questa situazione è previsto dunque l’autosoccorso, se il militare è in grado di farlo, oppure l’aiuto da parte di un commilitone (Buddy Aid). Appena le condizioni ambientali permettono di avvicinarsi al ferito, si può procedere al suo spostamento, dopo aver effettuato rapide manovre di stabilizzazione, in una zona sicura nelle immediate vicinanze del luogo del ferimento (es. dietro un muro o un mezzo blindato). È importante, se il ferito si presenta agitato, procedere immediatamente a disarmarlo. In questa fase la necessità è dedicare al primo soccorso il più breve tempo possibile, focalizzando l’attenzione sulla lesione che in combattimento determina rapidamente la morte del ferito, quindi l’emorragia dagli arti (60% delle morti Revisione e commento di Emiliano Cingolani Shock and Trauma Unit Ospedale San Camillo Forlanini - Roma ARTICOLO ORIGINALE Tactical Combat Casualty Care. Il soccorso al traumatizzato sul campo di battaglia Il concetto del Tactical Combat Casualty Care (TCCC), cioè la cura del ferito in ambiente ostile, nasce a metà degli anni ‘90, quando il Capitano medico Frank Butler (ex Navy SEAL, le forze speciali della Marina statunitense), dopo un'analisi retrospettiva condotta su diverse operazioni militari effettuate nel corso degli anni, fu promotore di uno studio per identificare e sviluppare i principi dell’assistenza ai pazienti coinvolti in eventi traumatici in ambiente di combattimento. Al termine dello studio pubblicò uno storico articolo1 in cui dimostrò che i traumi gravati dalla più alta mortalità sul campo di battaglia sono determinati da lesioni penetranti a livello cranico, addominale, toracico e degli arti e che il circa il 15% delle morti avveniva per cause potenzialmente reversibili applicando manovre efficaci e relativamente semplici; di queste il 60% era dovuto a emorragia degli arti, il 33% a pneumotorace iperteso e l’1% a ostruzione 16 Italian Resuscitation Council Trauma Journal Club prevenibili sul campo di battaglia); si tralascia quindi l’approccio ABCDE e si agisce solo per interrompere l’emorragia esterna nel modo più rapido possibile applicando un particolare tipo di tourniquet (CAT - Combat Application Tourniquet) che, con manovra semplice e rapida, è in grado di fermare un’emorragia che pone in immediato pericolo di vita il paziente.3 Val la pena di ricordare che si sta parlando di pazienti affetti da lesioni distrettuali in cui il rischio potenziale di una lesione del rachide cervicale è estremamente basso; inoltre, come dimostrato da un recente studio,4 nelle ferite penetranti del collo una lesione instabile del rachide si associa a un elevato tasso di mortalità e, quindi, un paziente con una lesione penetrante del collo ma vivo è poco probabile che abbia una concomitante lesione del rachide cervicale. Questi assunti giustificano l’indicazione per il soccorritore a non attardarsi in una zona tattica non sicura per applicare il collare cervicale. In caso di paziente all’interno di un veicolo per estricarlo si utilizza la manovra di Rautek. Una volta fermata l’emorragia esterna il paziente viene trasportato in maniera rapida verso un riparo sicuro, non utilizzando barelle ma sistemi di trasporto alternativi a una o due persone (Fireman carry). 2. Tactical Field Care - Dopo aver trasportato il ferito al riparo, la situazione tattica permette l’approccio A-B-C-D-E della Primary Survey preospedaliera.5 Si valuta A (ostruzione delle vie aeree, 1% delle cause di morte) e si trattano eventuali problemi di pervietà delle vie aeree (utilizzando principalmente cannule rinofaringee o tubo laringeo). In questa fase può non essere disponibile l’ossigeno. Per quanto riguarda il punto B, lo pneumotorace iperteso è la seconda causa di morte evitabile in ambiente bellico e una volta riconosciuto va immediatamente trattato (decompressione con ago, minitoracotomia). Nel punto C si rivaluta la presenza di eventuali emorragie che pongono a immediato rischio di morte il paziente trattandole con bendaggio compressivo tipo “benda israeliana” o utilizzando agenti emostatici (Celox, Chitoflex, QuikClot)6 da applicare direttamente sulla ferita sanguinante. Una volta applicato, il CAT non va più rimosso fino all’arrivo alla struttura sanitaria dotata di sala operatoria.7 In questa fase si procede con un tentativo di applicazione di un accesso venoso e, in caso di insuccesso, si procede subito con il posizionamento di un accesso intraosseo. La somministrazione di fluidi segue i principi della Damage Control Resuscitation.8 Nella valutazione di D si usa il sistema AVPU. Durante l’exposure va come sempre evitata l’ipotermia del paziente utilizzando speciali coperte isotermiche dotate anche di cuffietta per evitare la termodispersione dal capo. Peculiarità importante nella gestione del paziente ferito in zona di combattimento è la variabilità dei tempi preospedalieri. Per tutta una serie di situazioni contingenti il ferito può rimanere più di un’ora sul terreno prima di raggiungere una struttura sanitaria. Questo determina la necessità di gestire due problemi concomitanti: la gestione del dolore e la profilassi antibiotica. Per la gestione del dolore preospedaliero, il farmaco che si utilizza è la morfina a boli refratti endovena. In altre realtà (Stati Uniti, Gran Bretagna) sono disponibili autoiniettori di morfina intramuscolo da 10 mg o il fentanyl citrato 400 µg per assorbimento orale transmucoso.9 L’infezione della ferita è la maggior complicanza delle lesioni in zona di guerra. In un recente lavoro, su 405 ferite in varie regioni del corpo circa il 7% avevano una sovra infezione da Gram negativi principalmente A. Baumanii.10 Attualmente le Linee Guida prevedono essenzialmente l’utilizzo di cefazolina e.v. da somministrare entro tre ore dal trauma. Risulta chiaro che, se si prevedono tempi di evacuazione molto lunghi, l’antibiotico va somministrato sul luogo del ferimento. Come detto, i tempi di attesa per l’evacuazione del ferito sono variabili, anche se normalmente la rete Medevac con elicottero dedicato prevede un arrivo sul luogo dell’evento in trenta minuti. Si procede, quindi, alla valutazione continua dei parametri vitali, con monitoraggio in situazioni in cui potrebbe essere disponibile solo un saturimetro. 3. Casualty Evacuation Care - È la fase del trasporto del ferito dal luogo del ferimento al luogo di trattamento. Il mezzo per il trasporto può essere un mezzo dedicato, in questo caso dotato di monitor, ventilatore e ossigeno, tuttavia in altre situazioni potrebbero essere disponibili solo mezzi tattici non sanitari in cui il paziente viene sistemato per permetterne l’accesso più rapido possibile alla sala operatoria. Durante il trasporto si effettua il monitoraggio e la rivalutazione del paziente e si attuano le procedure per evitare l’ipotermia. 17 Italian Resuscitation Council Trauma Journal Club Conclusioni La gestione al paziente traumatizzato in ambienti bellici estremamente ostili (TCCC) presenta elementi di sostanziale differenza rispetto ai normali ambiti civili. Nella fase di Care Under Fire le uniche manovre previste prima dello spostamento del ferito sono tese al controllo delle emorragie degli arti (essenzialmente con CAT) mentre le priorità dell’A-B-C-D-E possono essere assicurate solo quando vittima e operatore sono in sicurezza e con un corredo di materiali/apparecchiature elettromedicali ridotto veramente al minimo (Tactical Field Care). Viene tuttavia posta grande enfasi, visti i tempi di attesa determinati dall’ambiente tattico, alla gestione del dolore all’eventuale antibiotico terapia. Queste informazioni devono essere bagaglio personale di ogni operatore sanitario che opera in ambiente ostile in modo da permettere il migliore output nei confronti delle vittime, che spesso possono essere civili, come risposta del sistema sanitario pre/intraospedaliero nei vari teatri operativi e poi nelle strutture sanitari in Patria. Michele Giattino Alessandro Rizzo SELEZIONE DALLA LETTERATURA Il tourniquet per il controllo delle emorragie, fra supporter e abolizionisti: solo una questione ideologica? Kragh JF, O’Neill ML, Walters TJ, et al. Minor morbidity with emergency tourniquet use to stop bleeding in severe limb trauma: research, history, and reconciling advocates and abolitionists. Mil Med 2011;176:817-23 Introduzione - Sebbene il controllo delle emorragie delle estremità sia ritenuto di vitale importanza, le indicazioni all’impiego in emergenza del tourniquet sono controverse, essenzialmente per timori relativi alla difficoltà di conciliare l’efficacia emostatica con il rischio di generare lesioni secondarie ischemiche e neurologiche. Tuttavia, recentemente sono state riportate evidenze secondo le quali l’impiego del tourniquet si associa a un miglioramento della sopravvivenza. Questo studio, che fa seguito ad altro analogo, si è posto l’obiettivo di analizzare l’impatto dell’impiego del tourniquet in situazioni belliche sul controllo delle emorragie, sulla morbilità ad esso correlata e, in ultima analisi, sulla sopravvivenza. Metodo - Lo studio ha proseguito una precedente indagine osservazionale prospettica di coorte con analisi di sottogruppi. I pazienti inclusi presentavano gravi lesioni degli arti con alto rischio di shock, coagulopatia e morte. L’insorgenza di lesioni nervose conseguenti all’applicazione del tourniquet sono state valutate in base a segni neurologici che evidenziassero deficit sensitivi o motori dei muscoli innervati dai nervi compressi dal tourniquet (es. caduta del polso da paralisi del nervo radiale con tourniquet applicato a livello del braccio), salvo che la disfunzione fosse coincidente con una lesione tissutale aperta (es. frattura esposta dell’ulna prossimale con paralisi intrinseca della mano e tourniquet posizionato a livello del braccio, in presenza di una lesione visibile del nervo ulnare distale dal tunnel cubitale). L’indicazione al posizionamento del laccio emostatico era data dalla presenza di lesioni degli arti a rischio di dissanguamento (es. ferita da arma da fuoco alla coscia con recisione dell'arteria femorale), tutte confermate chirurgicamente. Vi sono state anche indicazioni “situazionali” determinate dai soccorritori a causa di condizioni operative complesse, in cui è stato deciso di utilizzare il tourniquet come Bibliografia 1. Butler FK, Hagman J, Butler EG, Tactical Combat Casualty Care in Special Operations. Milt Med 1996;161(Supp):3-16 2. Nessen SC, Lounsbury DE, Hetz SP. War surgery in Afghanistan and Iraq: a series of cases 2003-2007. Textbooks of Military Medicine. 2008 3. Riordan WP, Cotton BA. All bleeding stops: how we can help… Critical Care 2010;14:146 4. Ramasamy A, Midwinter M, Mahoney P, Clasper J. Learning the lessons from conflict: Pre-hospital cervical spine stabilization following ballistic neck trauma. Injury 2009;40:1342–5 5. Sanson G, Nardi G, De Blasio E, et al. Prehospital Trauma Care. Approccio e trattamento al traumatizzato in fase preospedaliera e nella prima fase intraospedaliera. 2007 IRC Ed. 6. Devlin JJ, Kircher S, Kozen BG, et al. Comparison of ChitoFlex®, CELOX™, AND QuikClot® in control of hemorrhage. J Emerg Med 2011;41(3): 237–45. 7. Bridges E, Biever K. Advancing critical care: joint combat casualty research team and joint theater trauma system. AACN Adv Crit Care. 2010;21(3):260-76 8. Butler F. Fluid resuscitation in tactical combat casualty care brief history and current status. J Trauma 2011;70(5S):S11-2 9. Aldington DJ, McQuay HJ, Moore RA. End-to-end military pain management. Philos Trans R Soc Lond B Biol Sci 2011;366(1562):268–75 10. Murray CK, Hospenthal DR, Kotwal RS, et al. Efficacy of point-of-injury combat antimicrobials. J Trauma 2011;71(2 S):S307-13 18 Italian Resuscitation Council Trauma Journal Club miglior soluzione per motivi diversi dalle caratteristiche della lesione (es. necessità di prestare soccorso sotto il fuoco nemico sul campo di battaglia). Risultati - Lo studio ha incluso complessivamente 499 pazienti e 651 arti con tourniquet (176 arti superiori e 475 arti inferiori). Le regioni in cui sono stati applicati i tourniquet includevano 436 cosce, 162 braccia, 46 gambe, 13 avambracci. Dal momento che un singolo laccio non si è sempre rivelato efficace nell’interrompere il sanguinamento, è stato a volte necessario applicare tourniquet multipli su un arto per fermare le emorragie. Un singolo tourniquet è stato utilizzato in 445 arti, due in 166 arti, tre in 24 arti, quattro in 2 arti e cinque in un arto; in quest’ultimo caso, l’iniziale inefficacia di un CAT (vedi commenti) aveva posto indicazione al posizionamento aggiuntivo di un tourniquet pneumatico (EMT) che però, a sua volta, ha avuto un problema che ha indotto alla sua rimozione e sostituzione con un tourniquet “a verricello” simile al CAT e, poiché l’emorragia non era stata interrotta, con un ulteriore analogo presidio. I lacci sono stati utilizzati soprattutto nel preospedaliero (85%). I meccanismi di lesione sono stati un ampio spettro di traumi penetranti, chiusi, da schiacciamento, termici o loro combinazioni, per lo più (72%) dovuti a esplosioni. Il tempo medio del follow-up è stato di 36 giorni (range 0,5-860 giorni; mediana 5 giorni). A carico dei 651 arti in cui è stato applicato il tourniquet sono state registrate 230 amputazioni (35%) e 148 fasciotomie (23%). Il dato sulle amputazioni si riferisce alla somma complessiva di lesioni traumatiche, chirurgia e morbilità (nel primo studio era stato esplicitato che nessun paziente aveva avuto una morbidità permanente attribuibile unicamente all’uso del tourniquet). In tredici arti si è verificata la cosiddetta “emorragia paradossa”, per cui l'uso del tourniquet ha determinato un aumento dell’emorragia secondo una tipica escalation (iniziale controllo dell’emorragia con persistenza del polso distale, aumento progressivo della circonferenza dell’arto, congestione e riduzione della compressibilità delle vene distali con edema, perdita di sangue dalla ferita, formazione e progressiva espansione di ematomi, sindrome compartimentale che ha portato alla decisione di effettuare una fasciotomia, con emorragia incontrollabile). Si sono verificati nove casi (1,4%) di paralisi correlate all’applicazione del laccio, nell’85% dei casi a carico dell’arto superiore, tutte risoltesi rapidamente (range 3 minuti - 3 giorni) ad eccezione di una che ha determinato una parziale persistenza dei sintomi oltre il terzo giorno (termine del follow-up per trasferimento del ferito). I dati evidenziano come l’uso del tourniquet sia sicuro e si associ a un miglioramento della sopravvivenza se applicato precocemente; l’utilizzo del tourniquet solo dopo una massiva perdita ematica o dopo che era già clinicamente evidente uno stato di shock ha portato al 10% di sopravvivenza, mentre l'uso precoce ha portato al 90% di sopravvivenza. I dati sembrano allontanare le preoccupazioni per la morbilità da tourniquet; gli autori riportano ampia esperienza clinica di pazienti con tourniquet in sede a volte per più di 6-8 ore senza bisogno di amputazione e ritengono che l’ischemia fredda danneggi gli arti meno dell’ischemia calda. Le poche lesioni neurologiche rilevate sono state tutte temporanee e non hanno dato generato esiti definitivi. Sono stati evidenziati una serie di insuccessi nel controllo dell’emorragia o di morbidità che gli autori attribuiscono a scorrette modalità di gestione del presidio (applicazione troppo stretta, troppo lenta, allentamento o spostamento nelle fasi di trasporto, presidio malfunzionante); ad es., i 13 casi di emorragia paradossa sarebbero da ricondurre a un tourniquet troppo lento che ha indotto occlusione venosa ma non arteriosa, mentre le lesioni neurologiche al suo serraggio eccessivo. Alla luce dei dati riportati, gli autori ritengono giustificata la politica di incentivazione all’utilizzo del laccio emostatico di emergenza nella situazione analizzata. Commento - L’emorragia è attualmente la più importante causa di morte prevenibile, responsabile del 40% delle morti conseguenti a evento traumatico. Il sanguinamento acuto da trauma ha importanti e precocissime ripercussioni sul piano macro e micro emodinamico e della coagulazione. L’obiettivo di ridurre la mortalità da trauma grave richiede dunque un approccio per certi versi più “aggressivo” alla gestione dell’emorragia acuta e alla prevenzione delle sue complicanze. Emostasi rapida e prevenzione della coagulopatia rappresentano oggi i cardini di tale strategia. Molti traumatizzati gravi presentano imponenti perdite ematiche da svariati distretti. Una delle priorità nel trattamento iniziale del grave traumatizzato (passo C) è il controllo delle emorragie. In particolare, l’identificazione di importanti foci emorragici esterni in zone comprimibili (es. arti) pone indicazione a un immediato tentativo di emo- 19 Italian Resuscitation Council Trauma Journal Club stasi. Va sottolineato che spesso la scelta del metodo emostatico da impiegare in emergenza è condizionata dalla scorretta percezione dell’entità della perdita ematica da parte del personale di assistenza. L'emorragia non si limita a quella osservata a un certo punto nel tempo (es. sulla scena, in shock room); anche quando la perdita per unità di tempo non è eclatante (es. la classica femorale che zampilla) molte lesioni degli arti determinano una perdita ematica continua, cosicché il sangue viene perso sulla scena del trauma e per tutto il tempo del soccorso, durante il trasporto, nella prima fase intraospedaliera, in sala operatoria mentre si interviene su lesioni etero-distrettuali considerate più critiche o in terapia intensiva mentre si tenta di gestire la stabilizzazione del paziente. La quantità di sangue che viene perso dalle lesioni emorragiche degli arti è comunemente sottovalutata! Nelle lesioni emorragiche degli arti, la perdita ematica può essere dovuta a lesioni di singoli vasi ma più spesso l’interessamento vascolare è diffuso e legato a lesioni, talora massive, di ossa e tessuti molli. In ogni caso deve essere fatto rapidamente ogni sforzo per ridurre l’emorragia. In termini generali, la tecnica utilizzata dovrebbe dimostrarsi efficace nel controllo dell’emorragia senza determinare danno a carico dei tessuti sani a valle; una strategia, dunque, incentrata sulla ricerca di un bilanciamento fra efficacia emostatica e rischio di danno secondario. In quest’ottica, l’opportunità di utilizzare il laccio emostatico è ancora molto dibattuta poiché esistono legittime preoccupazioni per quanto riguarda il potenziale di morbilità in termini di lesione ischemica, infezioni, sindrome compartimentale e amputazione prossimale. Per tutte queste ragioni, fino a oggi il tourniquet è stato considerato solo un trattamento estremo e di ultima istanza, descritto come strumento “buono” o “cattivo” a seconda di come è stato utilizzato. L’attenzione alla prevenzione dei potenziali danni secondari rischia però di rendere intempestivi o poco efficaci gli interventi per la precoce interruzione del sanguinamento. Ad es., va evidenziato che la manovra di controllo di emorragie arteriose attraverso i “punti di pressione" a monte della lesione, tecnica ancora insegnata in molti corsi di primo soccorso, va del tutto abbandonata in quanto si è dimostrata inutile e inefficace, anche per l’impossibilità di controllare i circoli collaterali. Vale quindi la pena di richiamare alcuni importanti concetti, anche sulla base di recenti evidenze di let- teratura. La strategia di emostasi va modulata sulla base della situazione emodinamica del paziente e della controllabilità dell’emorragia. - In presenza di situazioni controllabili in pazienti emodinamicamente stabili, le manovre di emostasi devono avvenire attraverso un processo a invasività graduale che tenga in giusta considerazione l’attenzione per danni potenziali correlati alla manovra. L’indicazione è di partire dalla pressione diretta del focolaio emorragico, eventualmente associata a elevazione dell’arto; in caso di insuccesso, è opportuno completare la compressione posizionando sul focolaio un plico di garze e provvedendo a un fissaggio circonferenziale tramite una benda elastica autoretraente, mentre il ricorso a metodiche più aggressive come il tourniquet deve essere riservato ai casi in cui le tecniche meno invasive non abbiano ottenuto successo. - Questa strategia step by step non dev’essere però applicata nei traumi complessi con crash, in presenza cioè di lesioni massive di ossa e/o tessuti molli associate a emorragia francamente pericolosa per la vita o di amputazioni traumatiche, specie se prossimali; in tali situazioni una quota molto alta del volume ematico può essere persa all’esterno e/o raccogliersi a livello dei tessuti in tempi relativamente brevi; sono situazioni nelle quali i tentativi di emostasi selettiva sono destinati al fallimento e determinano un’inaccettabile perdita di tempo. In tali casi il posizionamento di un tourniquet alla radice degli arti, o comunque a monte della lesione, dev’essere la prima scelta e deve avvenire in un tempo estremamente precoce. In pazienti con emorragia critica, il suo utilizzo ha infatti dimostrato di associarsi a un miglioramento significativo della sopravvivenza solo quando applicato prima che l’impatto della perdita ematica abbia compromesso la perfusione sistemica in modo significativo e quindi prima che insorga un quadro di grave shock emorragico. L’applicazione precoce di un tourniquet può rappresentare una manovra salvavita e il suo impiego è raccomandato anche dallo European Trauma Course e dalle LG europee sulla gestione dell’emorragia da trauma (TJC, num. 1). Un altro elemento di estrema importanza da evidenziare è che la scelta del presidio da utilizzare è assolutamente strategica. Per essere efficiente, il tourniquet deve garantire un’ampia superficie di contatto e la possibilità di graduare la tensione in funzione della 20 Italian Resuscitation Council Trauma Journal Club forza compressiva che si intende esercitare. Non tutti i sistemi di tourniquet sono efficaci nel controllare il flusso arterioso. Sono in commercio (largamente utilizzati, ad esempio, nelle forze armate di diversi stati anche allo scopo di consentire manovre di emostasi autogestite dal soldato ferito - vedi articolo TCCC su questo numero) modelli di tourniquet a superficie piuttosto stretta (40 mm) e dotati di un meccanismo “a verricello” che consente di potenziare la forza compressiva (es. CAT); alcuni studi1-3 ne hanno dimostrato l’inefficacia, soprattutto in caso di emorragie prossimali (sopra il ginocchio), registrando numerosi casi di pazienti arrivati in ospedale con un persistente sanguinamento attivo, nonostante l’applicazione di uno o più di tali presidi. Al contempo, è stato evidenziato che, una volta che comincia la rianimazione aggressiva, gli arti gestiti con lacci di questo tipo spesso iniziano a risanguinare nonostante il tourniquet in situ e tentativi estremi per aumentare la forza di compressione attraverso il verricello. Inoltre, la permanenza prolungata (>2 h) del tourniquet così come una sua eccessiva tensione si associano a rischi di gravi lesioni muscolari e nervose che possono arrivare fino alla perdita degli arti a causa dell’ischemia mentre, come detto, una tensione insufficiente può risultare inefficace nel controllo del flusso arterioso. Per tali ragioni la scelta dovrebbe essere orientata su presidi di tipo pneumatico, sui quali peraltro esiste una vasta esperienza ospedaliera legata al controllo del sanguinamento intraoperatorio, soprattutto in ambito ortopedico. Tourniquet pneumatici ad ampia superficie (90-100 mm) possono dunque controllare efficacemente il sanguinamento in modo sicuro e affidabile; modelli pneumatici compatti sono stati sviluppati anche per l'uso preospedaliero. Il presidio deve essere inizialmente gonfiato a una pressione che garantisca la compressione dei vasi arteriosi, tenendo conto dell’effetto di smorzamento dato dallo spessore dei tessuti. Per limitare le possibili conseguenze dell’ischemia è raccomandato il mantenimento di una pressione di 250 mmHg (ovvero la pressione necessaria a interrompere l’emorragia e a far scomparire il polso arterioso a valle). Il tempo di permanenza in sede del tourniquet dovrebbe comunque essere limitato e non superare, secondo alcuni Autori, i 90 minuti.4 Per la fase ospedaliera sono disponibili sul mercato tourniquet che garantiscono il gonfiaggio elettronico della fascia emostatica a una pressione predeterminata e il mantenimento automatico del livello pressorio con allarme in caso di riduzione non programmata della pressione. In conclusione, val la pena di tentare una sintesi per provare a dare un contributo a uno dei molti temi che, nell’emergenza traumatologica, portano a un atteggiamento manicheo che tende a idealizzare o demonizzare di volta in volta una tecnica o una strategia organizzativa; non sfuggiranno di certo, ai più attenti, i riferimenti a “scoop & run vs stay & play”, “fluidi sì vs fluidi no”, “intubazione sì vs intubazione no”, “TAC sì vs TAC no” e via discorrendo. Fisiopatologia, letteratura ed esperienza ci hanno sempre aiutato a superare queste rigide dicotomie “bianco o nero” e fatto scoprite molte sfumature di grigio. Dunque. Va evidenziato che la maggior parte dei sanguinamenti conseguenti a lesioni traumatiche degli arti può essere gestita con metodiche a invasività crescente e non necessita di tourniquet. Tuttavia, nel piccolo gruppo di vittime con gravi lesioni emorragiche, lesioni estese dei tessuti molli o con lesioni apparentemente controllabili ma con instabilità emodinamica, il tourniquet dovrebbe essere la prima scelta e andrebbe posizionato il più presto possibile. La raccomandazione è che uno o più tourniquet, meglio se di tipo pneumatico, entrino a far parte del normale set di dotazioni delle squadre di soccorso extraospedaliero e che tutti gli operatori siano adeguatamente formati su tecnica e indicazioni di posizionamento. È opportuno che shock room e sale d’emergenza siano dotate di tourniquet pneumatici. È inoltre essenziale che siano predisposti percorsi clinici allo scopo di ridurre i tempi di mantenimento in situ del tourniquet e ottimizzare le procedure per l’emostasi definitiva, che spesso può richiede un precoce accesso alla sala operatoria. Time is blood! Revisione e commento di Gianfranco Sanson Corso di Laurea in Infermieristica Università di Trieste Bibliografia 1. King RB, Filips D, Blitz S, et al. Evaluation of possible tourniquet systems for use in the Canadian Forces. J Trauma 2006;60:1061-71 2. Kragh JF, Walters TJ, Baer DG, et al. Practical use of emergency tourniquets to stop bleeding in major limb trauma. J Trauma. 2008;64(2 suppl):S38 –S50 3. Taylor DM, Vater GM, Parker PJ. An evaluation of two tourniquet systems for the control of prehospital lower limb hemorrhage. J Trauma 2011;71:591–5 4. Moore FA. Tourniquet, another adjunct in damage control. Ann Surg 2009;249:8-9 21 Italian Resuscitation Council Trauma Journal Club solo la rende meno disponibile per la trasformazione del fibrinogeno in fibrina, ma attiva la proteina C, che ha effetto inibitorio sui cofattori V e VIII e determina ulteriore riduzione della produzione di trombina. La proteina C attivata ha poi un effetto sul PAI-1, l’inibitore dell’attivatore tissutale del plasminogeno, con conseguente iperfibrinolisi. I pazienti con ATC sono estremamente più a rischio degli altri e possono beneficiare di una precoce identificazione. ARTICOLO ORIGINALE Coagulopatia da trauma: perché e come dovremmo modificare la nostra pratica clinica? L’esperienza dell’Ospedale dell’Angelo di Mestre Era il 2009 quando veniva pubblicato l’articolo ripreso nel titolo.1 Un titolo coraggioso che precedeva di pochi mesi l’arrivo del ROTEM Delta presso la rianimazione cardiochirurgica dell’Ospedale di Mestre. Nei due anni seguenti, mentre si moltiplicavano in letteratura le evidenze che supportavano il suo utilizzo, il tromboelastometro (TEM) da esoterico strumento di laboratorio diventava giorno dopo giorno parte della nostra routine. Nel 2010 il nostro protocollo per l’emorragia massiva veniva integrato con un algoritmo ROTEM-guidato mutuato da quello di Gorlinger (Essen University, Germany) e a fine 2011 già diverse decine di pazienti politraumatizzati con emorragia critica erano stati trattati con tale approccio. A distanza di qualche anno, l’esperienza maturata, seppur breve, ci consente di fare qualche considerazione in merito. Incidenza della coagulopatia associata al trauma Generalmente, traumatismi lievi o moderati comportano quadri TEM normali o di ipercoagulabilità. Nei pazienti con ISS>25 la coagulopatia è presente in almeno un quarto dei casi;2 nei pazienti con ISS>50 la coagulopatia è quasi sempre presente e in alcuni casi severissima. In particolare, i pazienti con fibrinolisi fulminante che abbiamo trattato hanno avuto una mortalità del 100%, a prescindere dalla tempestività del trattamento e dalla correzione dell’iperfibrinolisi (in letteratura 80-100%).3 TEM, strumento predittivo di emorragia massiva La TEM può innanzitutto aiutare a identificare il rischio di emorragia massiva. Si potrebbe obiettare che tale rischio, valutata la clinica del paziente, eseguite E-FAST ed emogasanalisi, sia già sufficientemente stimabile. Tuttavia, come riportato in letteratura, almeno un quarto dei traumi severi che arrivano nella nostra shock room sono già coagulopatici, prima ancora che acidosi, ipotermia, diluizione (la cosiddetta triade letale) complichino il quadro. Il meccanismo della ATC (Acute Traumatic Coagulopathy), descritto da Brohi nel 2003, è sotteso da danno tissutale e shock. In situazione di ipoperfusione, l’endotelio danneggiato rilascia trombomobulina, la quale, formato un complesso con la trombina, non Clotting Time (CT) - tempo di coagulazione Tempo che intercorre dall’inizio della misurazione fino all’inizio del coagulo, formazione della trombina, inizio della polimerizzazione del coagulo (VN 35-80 s in EXTEM, 100-240 s in INTEM) Clot Formation Time (CFT) - tempo di formazione del coagulo Tempo che intercorre dall’inizio del coagulo fino a quando si raggiunge un’ampiezza di 20 mm, polimerizzazione della fibrina, stabilizzazione del coagulo con le piastrine e il fattore XIII (VN 35-160 s in EXTEM, 35-110 s in INTEM) Maximum Clot Firmness (MCF) - consistenza max del coagulo Consistenza meccanica massima del coagulo, stabilizzazione crescente del coagulo mediante polimerizzazione della fibrina, delle piastrine, del fattore XIII (MCF>50 mm: emostasi normale; 46-49 mm: emostasi normale con riserva ridotta; 40-45 mm: rischio di emorragia; 30-39 mm: alto rischio di emorragia; < 30 mm: nessuna emostasi efficace) Maximul Lysis (ML) - lisi massima Lisi del coagulo espressa in % di MCF (stabilità normale del coagulo se ML <15% entro 1 ora) Figura 1 - I parametri tromboelastografici I vantaggi della tromboelastometria Il vero punto di forza della TEM sta nella sua rapidità di risposta e nella possibilità di un orientamento sulla correzione mirata dei deficit. Dal momento che sul fattore tempo si gioca gran parte della partita, non c’è dubbio che l’utilizzo di una metodica 22 Italian Resuscitation Council Trauma Journal Club che in pochi minuti fornisca un orientamento sui deficit del paziente sia preferibile rispetto all’attesa degli esami di coagulazione di routine (in genere almeno 40 minuti). cui le variabili in gioco sono molteplici e confondenti. I limiti della tromboelastometria Vanno ovviamente ricordati anche i limiti della metodica, a partire dall’impossibilità di valutare l’emostasi primaria (es. un deficit funzionale delle piastrine a causa di assunzione di antiaggreganti o l’influenza di fattori come ematocrito, acidosi, temperatura). Inoltre, essendo un test “ex vivo” non è possibile trasferire acriticamente i risultati “in vivo”; in particolare non fornisce alcuna informazione sul bilancio tra fattori procoagulanti e anticoagulanti, ovvero nessuna informazione sul “peso” di AT-III e proteina C, S e Z. Resta il fatto che la TEM a Mestre (così come in molti altri centri) ha avuto un grosso impatto sull’approccio terapeutico. Per quanto già i risultati del CRASH-2 ci avessero sensibilizzato, vedere con i proprio occhi una fibrinolisi fulminante correggersi dopo somministrazione di acido tranexamico è stato più convincente di qualsiasi evidenza scientifica o raccomandazione delle linee guida. Vi è stato inoltre è un progressivo incremento dell’utilizzo di fibrinogeno e del complesso protrombinico. Il fibrinogeno, “magicbullet”? Il fibrinogeno è il “collante” fondamentale che tiene insieme le piastrine del coagulo, nonché il primo fattore che si riduce a livelli critici durante emorragia massiva e/o emodiluizione. L’evidenza che la somministrazione di fibrinogeno riduce le perdite durante chirurgia maggiore e nel politrauma è in continua crescita.5 La nostra esperienza conferma che il fibrinogeno è il primo fattore a determinare una riduzione della firmness del coagulo e che la sua somministrazione normalizza i parametri TEM. In presenza di sanguinamento critico, è consigliabile correggere un FIBTEM<7 mm con un target di almeno 10 mm. In alcuni centri l’utilizzo di fibrinogeno ha comportato anche una riduzione del consumo di concentrati piastrinici, dal momento che la sua somministrazione può compensare una carenza di piastrine. Le recenti linee guida europee sulla gestione del sanguinamento nel paziente traumatizzato suggeriscono la correzione della fibrinogenemia se inferiore a 1,5-2 g/l. Tuttavia, pretendere una correlazione tra il fibrinogeno plasmatico e FIBTEM è un errore concettuale poiché la prima è una misura quantitativa (tra l’altro indiretta) mentre la seconda è qualitativa dato che il FIBTEM determina il EXTEM Attivazione del coagulo attraverso tromboplastina (fattore tissutale) INTEM Attivazione del coagulo tramite fase di contatto (come per aPTT e ACT). Sensibile alla carenza dei fattori della via intrinseca e nei confronti dell’eparina nel campione FIBTEM Attivazione come in EXTEM con aggiunta di citocalasina, sostanza che blocca le piastrine. Il FIBTEM consente una valutazione funzionale de fibrinogeno e della polimerizzazione della fibrina APTEM Attivazione come in EXTEM, con l’aggiunta di aprotinina, inibitore della fibrinolisi. HEPTEM Attivazione come in INTEM con aggiunta di eparinase (consente l’analisi TEM in pazienti trattati con eparina) Tabella 1 - Test di analisi dei parametri TEG con attivatori o inibitori; consentono lo studio dei diversi processi dell’emostasi Tali test, fra l’altro, non forniscono alcuna informazione sull’effettiva capacità emostatica del paziente: PT e PTT ci possono dire solo se il processo coagulativo inizia ma nulla riguardo alla capacità del coagulo di fare da “tappo”, che in fondo è ciò che interessa per discriminare se il problema del paziente è l’emostasi chirurgica o l’incapacità dell’assetto coagulativo di garantire un’emostasi naturale efficace. Nonostante la percezione comune di un valore aggiunto nel trattamento del paziente con sanguinamento critico, nel 2011 una review da parte del Cochrane Anesthesia Group, giungeva alla conclusione che allo stato attuale non vi era evidenza che l’utilizzo della TEM comportasse una riduzione in termini di morbidità o di mortalità. Tuttavia, dimostrare che uno strumento di monitoraggio diminuisca la mortalità è di per sé molto difficile. Schoechl nel 20104 dimostrava un miglioramento della sopravvivenza rispetto al TRISS (dato che comunque non può essere esclusivamente attribuito all’approccio trasfusionale). Ciò che diminuisce la mortalità è la terapia e non il monitor e la gestione emostatica del paziente è solo un aspetto della damage control resuscitation, per 23 Italian Resuscitation Council Trauma Journal Club contributo del fibrinogeno alla solidità del coagulo e non la sua concentrazione plasmatica. Una possibile fonte di fibrinogeno è rappresentata dal plasma ma, se il problema evidenziato in una data situazione clinica è dovuto al fibrinogeno, non c’è motivo per cui si debba trasfondere plasma; da notare che somministrare 1-2 g di fibrinogeno significa dare almeno 4 unità di plasma, con costi alla fine dei conti paragonabili se non superiori. Figura 2 - Una delle prime TEM eseguite nell’Ospedale di Mestre su una paziente accolta dopo emorragia massiva in corso di intervento chirurgico di isterectomia presso un altro ospedale. Il quadro TEM presentava una situazione severa, con allungamento del tempo di coagulazione e una MCF di 30 mm, incompatibile con un’emostasi efficace. La paziente era stata trasfusa con 36 unità di sangue e un imprecisato volume di plasma e concentrati piastrinici. Riportare in sala operatoria questa paziente prima della correzione della coagulopatia avrebbe condizionato in modo drammatico l’outcome. Inoltre, negli anni, le evidenze degli effetti collaterali non infettivi del plasma (NISHOTs) si sono moltiplicate. Un’alternativa al fibrinogeno è rappresentata dal crioprecipitato che tuttavia dev’essere scongelato come il plasma e richiede compatibilità AB0. Inoltre è controindicato quando sia presente in commercio il concentrato del fattore specifico di cui si ritenga necessaria la correzione. “Formula driven” vs ROTEM-guided transfusion Alcuni studi hanno dimostrato come un approccio “formula-driven” costituito da un certo rapporto di emazie concentrate e plasma riduca la mortalità nel traumatizzato con emorragia critica, quindi molti centri hanno predisposto protocolli di questo tipo.6 C’è molta discussione su quale sia il rapporto ideale (1:1, 1:2) e molti studi presentano un bias importante sul fattore tempo, che lascia aperta la domanda: i non sopravvissuti sono morti perchè avevano ricevuto un rapporto basso GRC:PFC o hanno ricevuto un rapporto basso di GRC:PFC poiché sono morti prima che il plasma fosse scongelato e somministrato? Esiste un generale consenso sul fatto che la somministrazione precoce di plasma possa migliorare la sopravvivenza nell’emorragia massiva del traumatizzato, tuttavia questo approccio ha delle conseguenze di rilievo: - la necessità di avere a disposizione sempre e già scongelate alcune unità di plasma AB (che rappresenta anche un costo) - il rischio di sottoporre a inutile trasfusione di plasma un paziente che poi, di fatto, non sanguinerà massivamente. Spesso la scelta di somministrare plasma è dovuta alla convinzione di dover garantire un apporto completo di tutti i fattori della coagulazione, tuttavia ci dovremmo chiedere se realmente ci servono tutti quanti! Come ama dire Sorensen7 nelle sue lectures, è sufficiente il 5% di fattore V per garantire una sufficiente generazione di trombina. Ma la cosa più imbarazzante riguardo alla somministrazione plasma è che in letteratura l’evidenza della sua efficacia nel reversal della coagulopatia è scarsa e di bassa qualità. Molti lavori hanno dimostrato come gli usuali dosaggi raccomandati (15-20 ml/kg) siano insufficienti nel correggere la coagulopatia e suggeriscono come più appropriati dosaggi di almeno 30 ml/kg, corrispondenti ad almeno 8 unità in un paziente di 70 kg. La triste abitudine di trasfondere con 500 ml di plasma i pazienti che sanguinano durante un intervento chirurgico risponde spesso più al bisogno di riempire quel terribile vuoto nella cartella anestesiologica che alle necessità del paziente… 24 Italian Resuscitation Council Trauma Journal Club Gran parte dei fattori della coagulazione sono sufficienti a garantire un’emostasi efficace anche a livelli molto bassi. Nel politrauma con emorragia in atto, almeno in una prima fase, ci possiamo concentrare nel garantire un’adeguata presenza dei substrati fondamentali del coagulo, ovvero trombina, fibrino- geno e piastrine. Al fine di ottenere un sufficiente apporto di trombina un possibile candidato è rappresentato dal complesso protrombinico poiché la quantità di fattore II gioca un ruolo determinante nella generazione di trombina. Figura 3 - Iperfibrinolisi fulminante in politrauma severo. Il complesso protrombinico Il complesso protrombinico esiste in commercio in due formulazioni, a 3 o 4 fattori. Il “3 fattori” contiene i fattori II, IX e X (Uman Complex, Kedrion) mentre il “4 fattori” i fattori II, IX, X e VI, comprese le proteine C, S e Z (Confidex, CSL Behring). Il suo utilizzo è raccomandato nelle emergenze emorragiche in pazienti con deficit congeniti o acquisiti dei fattori vitamina K dipendenti. La somministrazione di complesso protrombinico al posto del plasma è raccomandato nel reversal dell’anticoagulazione in pazienti che assumono anticoagulanti orali come i dicumarolici e che devono essere sottoposti a intervento chirurgico emergente (esempio classico è la correzione in presenza di emorragia cerebrale e necessità di intervento neu- rochirurgico): in pochi minuti, e senza necessità di dover ripetere gli esami, il paziente può essere portato in sala operatoria. Alcuni studi hanno suggerito la somministrazione di complesso protrombinico anche in diverse tipologie di emergenze emorragiche. Il razionale del suo utilizzo nel politrauma è dovuto al fatto che, producendo un boost della generazione di trombina, viene aggirato il problema alla base della ATC, ovvero quello dell’attivazione della proteina C e al suo effetto in particolare sul fattore V, che risulta in una diminuzione di generazione della trombina. Nonostante per ora l’utilizzo del complesso protrombinico sia off-label, il suo razionale è condivisibile. A oggi, le evidenze su eventi avversi di tipo tromboembolico sono basse e senza significatività 25 Italian Resuscitation Council Trauma Journal Club statistica.7 Tuttavia, parlare di effetti collaterali protrombotici per farmaci che hanno una funzione protrombotica è un po’ paradossale. il suo utilizzo come plasma expander o per la correzione della disprotidemia e pur essendo la sua efficacia nella correzione della coagulopatia inferiore rispetto a quella del concentrato protrombinico, almeno ai dosaggi abitualmente utilizzati, non c’è dubbio che esso faccia questo e quello, per così dire… 3 piccioni con una fava! Un approccio trasfusionale all’emorragia massiva esclusivamente basato sull’utilizzo di concentrati non può prescindere dalla necessità di garantire l’euvolemia: ciò comporta l’utilizzo di grandi quantità di cristalloidi e di colloidi (questi ultimi poi peggiorano la coagulopatia), senza contare che successivamente potrebbe rendersi necessaria anche la somministrazione di albumina, la cui funzione non è solo quella di contribuire per buona parte al potere oncotico del sangue ma anche al trasporto dei farmaci. Figura 4 - MCF medio all’arrivo nei pazienti deceduti (in azzurro) e nei sopravvissuti (in rosso) (p < 0,0001) Ospedale dell’Angelo, dati non pubblicati Ci dovremmo piuttosto chiedere fino a che punto la “bilancia” dei fattori pro e anticoagulanti può essere influenzata dall’utilizzo esclusivo di complesso protrombinico. Ma, almeno inizialmente, nel paziente sanguinante, l’obiettivo deve essere quello di ottenere nel più breve tempo possibile il ripristino di un’emostasi efficace. Una volta ottenuta, è ragionevole pensare a correggere anche i fattori anticoagulanti, in particolare l’AT-III. Riflessioni È giunto quindi il momento di abbandonare l’utilizzo di plasma? Io credo che sia giunto almeno il momento di iniziare a evitare la trasfusione di plasma inappropriata, quella al di fuori di qualsiasi linea guida, nonché di qualsiasi fondamento scientifico. I dati di una recente review8 dimostrano come il 50% dei pazienti critici venga trasfuso con plasma secondo criteri inappropriati. Solo il 36% dei medici intervistati ha risposto correttamente a domande relative all’utilizzo del plasma, alla sua composizione e alle sue indicazioni. L’utilizzo della TEM potrebbe essere di aiuto ridurre la somministrazione inappropriata. In quanto alla somministrazione “appropriata”, come lo è quella prevista dalle linee guida in caso di emorragia massiva, alcuni autori hanno ritenuto comunque preferibile la somministrazione di concentrati. A Mestre, in questi anni, alcuni pazienti sono stati trattati esclusivamente con concentrati. Tuttavia, in presenza di emorragia massiva, oltre le 10-12 unità di sangue trasfuse è stato ritenuto ragionevole anche l’utilizzo di plasma. Pur non essendo indicato Valuta CT* * ai fini di escludere iperfibrinolisi CT in EXTEM>80 s e CT in APTEM<80 s CT in EXTEM>80 s e CT in APTEM>80 s Somministra acido tranexamico 2 g Somministra complesso protrombinico 15-20 UI/kg (o plasma 15-30 ml/kg) valuta A10 in EXTEM (o in APTEM se c’è fibrinolisi) A10 in EXTEM<40 mm A10 in EXTEM<30 mm valuta MCF in FIBTEM Somministra - fibrinogeno 4-8 g - PCC 15-20 U/kg (o plasma 30ml/kg) - concentrato piastrinico 2 U <7 mm >10 mm Somministra fibrinogeno 2-6 g (target 10mm) Somministra concentrato piastrinico 1 U Target - PLT > 50.000; T° > 34°C; pH > 7,2; Ca++ > 1; Ht > 24% Figura 5 - Algoritmo trasfusionale ROTEM-guidato (Ospedale di Mestre) Così, il confronto “concentrati vs plasma”, proposto da alcuni studi, potrebbe non essere corretto quando si volesse confrontare non solo l’efficacia emostatica ma il trattamento del paziente nel suo complesso. Si dovrebbe piuttosto confrontare la “trasfusione di plasma vs concentrati e grandi 26 Italian Resuscitation Council Trauma Journal Club quantità di colloidi e cristalloidi” (ed eventualmente albumina). Un confronto del genere potrebbe anche concludere a sfavore dell’utilizzo esclusivo dei concentrati quando le perdite del paziente siano superiori a un certo livello. Per quanto riguarda l’algoritmo trasfusionale ROTEM-guidato attualmente in uso a Mestre, il modello di Gorlinger, dimostratosi didattico inizialmente ma carente in alcuni aspetti, è stato sostituito da uno home-made (figura 5). Oltre le 10 unità di emazie concentrate, se sono stati somministrati solo concentrati la somministrazione di plasma è ritenuta ragionevole, così come la correzione dell’AT-III. SELEZIONE DALLA LETTERATURA Amputare o ricostruire l’arto maciullato? Il punto di vista dei pazienti Akula M, Gella S, Shaw CJ, et al. A meta-analysis of amputation versus limb salvage in mangled lower limb injuries. The patient perspective Injury 2011;42(11):1194-7 Introduzione - Nelle lesioni traumatiche degli arti inferiori con gravissimo danno tissutale, un’amputazione sotto il ginocchio riduce il tempo di trattamento, permettendo così al paziente un recupero più rapido e una vantaggiosa ripresa delle attività socioeconomiche a scapito della perdita di un arto. D'altra parte, una procedura ricostruttiva può essere in grado di conservare l'arto, lasciando spesso, tuttavia, esiti significativi sul piano estetico e funzionale e ritardando il ritorno alla produttività socio-economica a causa della necessità di un prolungato trattamento chirurgico e riabilitativo. Attualmente non esiste un consenso su quale opzione (amputazione o ricostruzione) dovrebbe essere offerto ai pazienti né quali siano le loro aspettative in termini di risultati in caso di successo della procedura. Questo studio sottopone a meta-analisi la letteratura osservazionale peerreviewed relativa alla ricostruzione e all’amputazione in conseguenza di gravi lesioni degli arti inferiori (fratture esposte principalmente di grado 3°B e 3°C e alcune di grado 3°A secondo Gustillo, gravi disfunzioni vascolari post-traumatiche, lesioni estese dei tessuti molli, lesioni da combattimento, amputazioni posttraumatiche transfemorali e transtibiali), utilizzando il punto di vista del paziente in termini di qualità di vita sulla base di sistemi di valutazione validati (Short Form-36 - SF-36 e / o Sickness Impact Profile - SIP) per stabilire quale metodo di trattamento sia in grado di assicurare una migliore qualità della vita dal punto di vista fisico e psicologico. Risultati - Sono stati selezionati 214 studi, dei quali 11 rispondevano ai criteri di inclusione. Il numero totale di casi negli studi inclusi è stato di 1.138 (769 amputazioni e 369 ricostruzioni). L'età media dei pazienti era 38,9 anni, con un follow-up medio di 12 anni (range 2-28 anni). Per la valutazione degli esiti otto studi hanno usato il SF-36 (668 amputazioni e 117 ricostruzioni) e tre studi il SIP (101 amputazioni e 252 ricostruzioni). Quattro lavori erano studi comparativi tra l'amputazione e la ricostruzione. Cinque articoli consideravano gli esiti Alberto Grassetto UOC Anestesia e Rianimazione Ospedale dell’Angelo – Mestre (VE) Bibliografia 1. Theusinger OM, Spahn DR, Ganter MT. Transfusion in trauma: why and how should we change our current practice? Curr Op Anaesth 2009;22(2):305–12 2. Tauber H, Innerhofer P, Breitkopf R, et al. Prevalence and impact of abnormal ROTEM assays in severe blunt trauma: results of the ‘Diagnosis and Treatment of Trauma-Induced Coagulopathy (DIA-TRE-TIC) study.’ Br J Anaesth 2011;107(3):378-87 3. Schöchl H, Frietsch T, Pavelka M, Jámbor C. Hyperfibrinolysis after major trauma: differential diagnosis of lysis patterns and prognostic value of thrombelastometry. J Trauma 2009;67(1):125–31 4. Schöchl, H, Nienaber U, Hofer G, et al. Goal-directed coagulation management of major trauma patients using thromboelastometry (ROTEM)-guided administration of fibrinogen concentrate and prothrombin complex concentrate. Critical care 2010;14(2):R55 5. Levy JH, Szlam F, Tanaka KA, Sniecienski RM. Fibrinogen and hemostasis, a primary hemostatic target for the management of acquired bleeding, Anesth Analg 2012;114(2):261–74 6. Nienaber U, Innerhofer P, Westermann I, et al. The impact of fresh frozen plasma vs coagulation factor concentrates on morbidity and mortality in trauma-associated haemorrhage and massive transfusion. Injury 2011;42(7):697–701 7. Sørensen B, Spahn DR, Innerhofer P, et al. Clinical review. Prothrombin complex concentrates-evaluation of safety and thrombogenicity. Critical care 2011;15(1):201 8. Nascimento B, Callum J, Rubenfeld G, Clinical review. Fresh frozen plasma in massive bleedings - more questions than answers. Critical care 2010;14(1):202 27 Italian Resuscitation Council Trauma Journal Club dell’amputazione e due gli esiti della ricostruzione. Per il gruppo amputazione, il punteggio medio è stato 39,76±7.06 per la componente fisica (PCS) e 52,05±3,39 per quella mentale (MCS). Per il gruppo ricostruzione, il PCS medio è stato 38,5±0,78 e il MCS 50,76±3,09. Per l’amputazione, il punteggio medio fisico SIP è stato 16,2, il SIP medio psicologico 15,6. Per la ricostruzione, il SIP medio fisico è stato 13,3, il SIP medio psicologico 11,5. Non è stata evidenziata, in termini di risultati fisici, alcuna differenza statisticamente significativa tra l'amputazione e la ricostruzione. La valutazione delle conseguenze psicologiche ha evidenziato esiti significativamente migliori per il gruppo sottoposto a ricostruzione (SF-36: p=0,008; SIP: p=0,05). Fino ad oggi, la conservazione dell'arto e l'amputazione precoce con successivo supporto protesico sono le due modalità impiegate per le forme gravissime di traumi degli arti inferiori. Non vi è tuttavia chiarezza sugli esiti associati alle due strategie, in particolare per quanto riguarda ciò che il paziente deve aspettarsi in termini di qualità della vita. Nel corso degli ultimi decenni, i miglioramenti delle tecniche chirurgiche hanno aumentato le possibilità di salvataggio nei gravi traumi degli arti inferiori. Sull’altro versante, tuttavia, l'amputazione è tecnicamente ed economicamente meno impegnativa e i miglioramenti nei disegni protesici hanno migliorato il risultato funzionale negli amputati. La letteratura contemporanea non mostra un significativo e convincente vantaggio di una modalità di trattamento rispetto all'altra. Commento - Questo studio confronta gli esiti di due opzioni di trattamento (amputazione vs salvataggio) dal punto di vista del paziente. Un limite immediatamente osservabile è legato alla metodologia statistica. Normalmente le meta-analisi si basano su studi controllati randomizzati; gli Autori, per l’evidente difficoltà a reperire sull’argomento lavori di tale categoria, hanno ripiegato su studi osservazionali. Ciò ha comportato, peraltro, l’identificazione di un campione probabilmente eterogeneo; in particolare non è dato a sapere se la popolazione di riferimento sia costituita da pazienti con gravi lesioni degli arti isolate o inserite nel contesto di un politrauma, né, di conseguenza, se la necessità di dover procedere all’amputazione sia stata condizionata da situazioni di instabilità determinate da lesioni multidistrettuali. Questo fattore potrebbe aver inciso sulla possibilità di informare adeguatamente il paziente e di condividere con lui la decisione sull’opzione di trattamento. Tuttavia, questo lavoro evidenzia che la ricostruzione è molto più accettabile psicologicamente per i pazienti che hanno subito gravi traumi degli arti inferiori rispetto all’amputazione e che questo influenza la qualità della vita, in assenza di differenze significative sul piano fisico. L’amputazione di un arto in conseguenza di una grave lesione traumatica rappresenta sempre una scelta tremendamente difficile. Da un lato molte volte si è di fronte a quadri clinici di estrema gravità, spesso in relazione alla salvabilità dell’arto ma che talvolta possono compromettere la stessa sopravvivenza del paziente innescando situazioni fisiopatologiche a elevato impatto sistemico (es. sindrome compartimentale, emorragia, coagulopatia, infezioni, sepsi). Le lesioni che comportano la scelta sull’opportunità o meno di procedere all’amputazione sono variamente associate a grave danno tissutale (tessuti molli, vasi, nervi, ossa) e quasi inevitabilmente contaminate, condizioni che impattano negativamente sulla salvabilità dell’arto. Anche quando la chirurgia ricostruttiva ha successo, la funzionalità residua dell’arto è per lo più seriamente compromessa, così come poco entusiasmanti sono i risultati sul piano estetico. La decisione sulla strategia da seguire rappresenta certamente un grave dilemma per il trauma team e, in particolare, per il chirurgo chiamato a effettuare l’intervento, anche perché non esistono in letteratura, ad oggi, criteri in grado di prevedere con sufficiente certezza l’esito finale di ciascuna strategia. La scelta ha indubbiamente un impatto significativo anche sul piano dei costi sanitari, dato che intuitivamente una strategia di ricostruzione preannuncia un percorso assai più lungo e costoso rispetto all’amputazione. Tuttavia, lo studio qui recensito evidenzia come la prospettiva del paziente sia inevitabilmente diversa. Il discorso cambia completamente, tuttavia, in presenza di un grave politrauma, quando la decisione sulla necessità di amputare può rientrare in una più ampia damage control strategy e deve venir presa in tempi brevi e molto precoci, con immaginabili implicazioni sul piano psicologico (per paziente e operatori) ma anche medico-legale: non si dimentichi che la necessità di ottenere il consenso informato per un’amputazione di arto potrebbe da un lato comportare una pericolosa perdita di tempo, dall’altro essere preclusa dalle condizioni cliniche del ferito (es. sedazione-curarizzazione, alterazione della coscienza). La possibilità di condividere tale decisione con il paziente dovrebbe, ogni volta che sia possibile, costituire un obiettivo primario del trauma team e, in tal senso, 28 Italian Resuscitation Council Trauma Journal Club condizionare in una certa misura le decisioni sia sul piano clinico (es. analgesia loco regionale anziché generale per mantenere sveglio il paziente, emostasi aggressiva con tourniquet pneumatico, eventuale isolamento chirurgico e legatura con laccio dell’arteria femorale, profilassi antibiotica precoce), sia su quello organizzativo (presenza immediata in shock room di tutti gli specialisti interessati, percorsi diagnostici agili e predefiniti, disponibilità di una sala operatoria multifunzionale, ecc.). È evidente che, in presenza di grave instabilità e necessità di procedere a prioritari interventi salvavita, tale strategia potrebbe non essere applicabile. Tuttavia, come evidenziato dalla metanalisi presa in esame, a fronte di un impatto comunque significativo sul piano fisico, la possibilità di conservare il proprio arto ha ripercussioni significativamente migliori sul versante psicologico e dell’accettazione della propria immagine corporea. L’obiettivo di poter informare il paziente il più adeguatamente possibile sulla propria situazione clinica e sul rapporto fra rischi e benefici in caso di amputazione o di ricostruzione dell’arto potrebbe permettergli di essere meglio preparato all’accettazione del gravissimo danno che la perdita dell’arto inevitabilmente comporterà sul piano fisico e dell’immagine di sé. prevenzione dell’ipotermia. I due lavori esaminati hanno messo a confronto i sistemi di riscaldamento passivo con una strategia integrata che unisce tali sistemi con device a riscaldamento attivo ottenuto mediante reazione chimica. Metodi e risultati - Il primo lavoro è un eccellente studio realizzato su otto volontari sani che sono stati ricoperti con vestiti bagnati, esposti a un ambiente freddo e ventoso e successivamente ricoperti, in maniera randomizzata e in tre giorni differenti, con tre differenti sistemi di isolamento, ossia due semplici sistemi di riscaldamento passivo e il “sistema di Hibler” consistente in un’ampia compressa termica atta a coprire anteriormente torace e addome che, una volta attivata chimicamente, si riscalda rapidamente mantenendo la temperatura per circa un’ora, mentre il paziente viene ricoperto con una coperta termica convenzionale (vedi figura). Revisione e commento di Gianfranco Sanson Corso di Laurea in Infermieristica Università di Trieste SELEZIONE DALLA LETTERATURA Ipotermia accidentale nel traumatizzato: la prevenzione inizia sulla scena Thomassen Ø, Færevik H, Østerås Ø, et al. Comparison of three different prehospital wrapping methods for preventing hypothermia - a crossover study in humans. Scand J Trauma 2011;19:41 Lundgren P, Henriksson O, Naredi P, Björnstig U. The effect of active warming in prehospital trauma care during road and air ambulance transportation - a clinical randomized trial. Scand J Trauma 2011;19:59 Figura - Metodo di Hibler Introduzione - I più comuni mezzi di prevenzione del raffreddamento sui mezzi di soccorso sono rappresentati da sistemi passivi come, ad esempio, coperte di lana o di pile oppure specifiche coperte isotermiche (c.d. metalline). In letteratura esistono pochi dati che affermano la reale utilità di tali sistemi nella I volontari sono stati quindi posti supini per un’ora in una camera fredda mentre veniva monitorata la temperatura cutanea, la temperatura rettale, misurato il consumo di ossigeno e la produzione di calore; a fine esperimento veniva somministrato un questionario per la valutazione soggettiva di comfort, calore e 29 Italian Resuscitation Council Trauma Journal Club brividi. La temperatura corporea è risultata significativamente più elevata dopo 15 minuti dal posizionamento del sistema di Hibler comparato con i sistemi di riscaldamento passivi. Non si sono riscontrate differenze significative nella variazione della temperatura del core mentre i volontari hanno dichiarato di preferire decisamente il sistema di Hibler. Il secondo lavoro invece é stato condotto su pazienti traumatizzati di età ≥ 18 anni e con uno stimato di trasporto dalla scena all’ospedale superiore ai 10 minuti. Tali pazienti non dovevano aver ricevuto manovre di riscaldamento prima dell'intervento dell'équipe di soccorso o non dovevano essere stati soccorsi in ambienti riscaldati. Sulla scena, i pazienti venivano trattati in maniera convenzionale incluso la copertura con sistemi passivi di riscaldamento. Dopo il caricamento sul mezzo di soccorso (ambulanza o elicottero), i pazienti venivano - in maniera randomizzata - ricoperti con sistemi passivi o trattati con la metodica di riscaldamento attivo Dorcas AB, costituito da una serie di compresse termiche posizionate sulla parte anteriore e posteriore del torace. A tutti i soggetti veniva posizionata una sonda timpanica e la temperatura nel mezzo di trasporto veniva regolata a 25 gradi. Il trattamento specifico come immobilizzazione, infusione di fluidi e terapia farmacologica veniva condotto secondo protocolli standardizzati. Le registrazioni dei parametri vitali e della temperatura venivano condotti a 5 minuti e successivamente ogni 30 minuti fino all’arrivo in dipartimento di emergenza. Nei pazienti coperti con sistemi passivi (n=22) la temperatura media del core é aumentata da 35,1°C a 36,0°C, nei pazienti in cui é stato utilizzato un sistema di riscaldamento attivo (n=26) da 35,4°C a 36,4°C con nessuna differenza significativa tra i gruppi. Tuttavia, il discomfort dei pazienti è diminuito in modo molto maggiore e statisticamente significativo nel gruppo sottoposto a riscaldamento attivo, che ha dimostrato anche una significativa diminuzione della frequenza cardiaca e della frequenza respiratoria. Commento - L’ipotermia accidentale, definita come una riduzione non intenzionale della temperatura centrale al di sotto dei 35°C, è un importante fattore che influenza la morbidità e la mortalità in tutti i pazienti traumatizzati. È noto che in questa popolazione l’ipotermia è spesso iatrogena e si sviluppi durante le fasi iniziali di valutazione e terapia per ragioni correlate agli interventi effettuati (es. infusione di fluidi non riscaldati, anestesia e miorisoluzione) o alla tipologia e gravità delle lesioni riportate. Tuttavia, il contributo dei fattori ambientali e situazionali nella genesi dell’ipotermia accidentale è altrettanto importante: dati recenti evidenziano che una percentuale di traumatizzati gravi (ISS>15) compresa fra il 10 e il 66% giunge in PS con una temperatura corporea ≤34°C. Un’adeguata prevenzione di tale fattore rappresenta quindi un elemento chiave nel trattamento del traumatizzato, particolarmente quando si deve gestire un soccorso in condizioni climatiche difficili oppure quando il trasporto del paziente si presenta particolarmente complesso con tempi di evacuazione notevolmente lunghi. Non vanno altresì trascurati i trasferimenti intra-extra ospedalieri in cui il paziente si presenta ad alto rischio di ipotermia. I due studi dimostrano che nel campo del soccorso extraospedaliero i sistemi di riscaldamento attivo, peraltro già presenti sul mercato, possono rappresentare un importante presidio nella prevenzione dell’ipotermia e in particolare nel ridurre le conseguenze cliniche a essa associata. Revisione e commento di Domenico Violante Anestesia e Rianimazione Ospedale San Francesco - Oliveto Citra (SA) Direttore responsabile Erga Laura Cerchiari (Presidente IRC) Direttore di redazione Gianfranco Sanson Comitato di redazione Carlo Coniglio Emiliano Cingolani Roberta Ciraolo Hanno collaborato a questo numero Emiliano Cingolani Giuseppe Nardi Roberta Ciraolo Davide Piredda Andrea P. Cossu Alessandro Rizzo Elisa Dedola Savino Russo Carmen Di Maria Gianfranco Sanson Michele Giattino Domenico Violante Alberto Grassetto TJC 2012;2(4) 30