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Registi di culto
TUTTO SU PEDRO ALMODÓVAR
La madre, la chiesa, l’omosessualità e il travestitismo: sono alcuni dei temi-feticcio
che ricorrono nelle opere del cineasta spagnolo. Straordinario ritrattista di figure di
donne, tra le sue attrici predilette si annoverano Carmen Maura, Cecilia Roth,
Victoria Abril, Marisa Paredes e Penelope Cruz. Il suo film più complesso, ardito e
incompreso da pubblico e critica è “La mala educación”. Adesso sta per uscire la sua
ultima pellicola “Gli abbracci perduti”, ispirata al noir americano.
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di Alessandra Lo Russo
“Mia madre è il metro dell’umanità a cui mi sono riferito”: anche se questa frase non è di Pedro
Almodóvar, è questo il sentimento che emerge fortissimo nella filmografia del regista spagnolo.
Qual è il filo che unisce tematiche tanto differenti tra loro nel suo cinema, dal rapporto bipolare con
la madre, a quello ancor più complesso con la chiesa e i sacerdoti fino all’omosessualità e al
travestitismo? È un filo invisibile eppure stabile, su cui i suoi personaggi ormai da 30 anni giocano
a fare i trapezisti senza cadere mai. Era il 1980 quando un giovane regista spagnolo di nome
Almodóvar si affacciava sulla scena cinematografica della movida spagnola, ormai libera dopo la
fine della dittatura di Franco, con Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio. Pedro parte da un
film divertente, caotico e scandaloso, girato nel 1978, quindi ancora lontano dalla maturità degli
anni ’90, ma dove Pepi che coltiva marijuana e il poliziotto perverso che le ‘ruba’ la verginità
preannunciano le future tematiche dell’erotismo ardito, qui ancora legate alla leggerezza della
movida. Ecco uno schema dei tòpoi dei film di Pedro Almodóvar e come ricorrono nelle sue opere e
in ordine di importanza: la madre, i gay e il travestitismo, la chiesa (corrotta), il metacinema e il
metateatro.
Oltre alla profondità dei singoli temi, il modo in cui si intrecciano nei film formando tutte le
possibili combinazioni attesta la genialità di un maestro che racconta la vita delle donne con fredda
sensibilità, dove per ‘donne’ non si intende soltanto quelle in senso classico, ma anche tutte le altre
che pensano e vivono con una sensibilità femminile, da Lola di Tutto su mia madre a Benigno di
Parla con lei. A parte Labirinto di passioni che è ravvicinabile a Pepi, Luci, Bom… per i temi
scottanti come la figlia amante del padre e la pornoattrice drogata, Sexilia, trattate in chiave
sarcastico-grottesca, gli altri film intrecciano i temi di sopra in modo via via più maturo e
drammatico, con le dovute eccezioni. La ‘cesura’ tra la commedia e il dramma è rappresentato
infatti da Donne sull’orlo di una crisi di una nervi, dove Pepa, Carmen Maura, è una Pepi cresciuta
di qualche anno, protagonista di avventure irreali che cominciano dall’abbandono da parte del
fidanzato: l’incursione dei terroristi sciiti (come quelli di Labirinto di passioni), i poliziotti che
addormenta con i sonniferi nel gazpacho e l’incontro fortuito con il figlio dell’uomo che l’ha
lasciata (Antonio Banderas) rende il film irresistibile e fuori di testa. È l’apice della maturità comica
per il regista.
Una parentesi è d’obbligo per individuare almeno quattro donne feticcio di Pedro Almodóvar:
prima in assoluto e in ordine temporale c’è Carmen Maura che da Pepi… a Volver ricorre in molti
dei suoi film; Cecilia Roth, che è presente nella filmografia di Almodóvar dall’inizio ma solo con
Tutto su mia madre lascia un’impronta indelebile; Victoria Abril, protagonista di Legami! e Tacchi
a spillo e infine Marisa Paredes, indimenticabile rappresentante del personaggio ‘madre’ e ‘attrice’.
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Se poi si guardano con attenzione i film del regista spagnolo, ci si accorge che ricorrono non solo
queste quattro, ma un universo soprattutto femminile di volti ‘familiari’. Poche le eccezioni
maschili. Torniamo al tema ‘madre’, appunto: la madre, che compare in versione ufficiale nel 1991,
con Tacchi a spillo dove Rebeca (Victoria Abril) ama la madre Becky (Marisa Paredes) almeno
quanto è disposta a odiarla: tra le due si era stabilita con gli anni una rivalità che le aveva portate a
dividere anche un uomo. Questa è la stessa sensazione che si prova 15 anni dopo in Volver, dove
Penelope Cruz odia la madre Carmen Maura per lo stesso motivo: avevano dovuto dividere lo
stesso uomo, che però era marito dell’una e padre dell’altra. L’incapacità della madre di capire
quello che il marito stava facendo alla figlia era il motivo principale dell’odio che aveva assalito la
figlia per tutta la vita, anche dopo che aveva creduta morta la madre. Qui il tema dell’uccisione del
marito rimanda ad un precedente film di Almodóvar, Che cosa ho fatto io per meritare questo?, con
la variante però che in quest’ultimo è la moglie a compiere il delitto e in Volver invece il crimine è
l’occasione di riscatto della protagonista attraverso la figlia.
Tutto su mia madre invece è un panegirico sulle donne, in particolare sui sentimenti delle madri e
una riflessione sulla perdita di un figlio; l’erotismo è la parte stessa del dramma dell’opera della
maturità di Pedro, che è già un classico. È un film dove donne di ogni sorta, da una trans malata di
aids a una suora incinta di lei, scandiscono le tappe del viaggio di Manuela, un’infermiera ex
prostituta alla ricerca delle sue dolorose origini dopo la perdita del figlio diciassettenne. In Tutto su
mia madre Pedro si si chiede cosa vuol dire essere una donna, essere un’attrice, o una madre che ha
subito la perdita maggiore che si possa immaginare: è il film della sofferenza, della redenzione
femminile ma in cui la tragedia si conclude in una nascita e in una nuova anima ‘immacolata’ da
accudire. È un omaggio al cinema del passato: tra le citazioni, Esteban, il figlio di Manuela, vede in
televisione Eva contro Eva, il cui titolo originale tradotto alla lettera è invece Tutto su Eva; il
ragazzo si chiede perché i traduttori ne avevano cambiato il nome e Almodóvar ‘riscatta’ quel titolo
mutato, chiamando il suo film Tutto su mia madre. È infine, un omaggio al teatro: Esteban muore
per rincorrere l’auto di Huma, l’attrice interpretata da Marisa Paredes, che nel film recita in Un
tram che si chiama desiderio, la stessa piece in cui Manuela anni prima era Stella.
La chiesa per Almodóvar invece è un mondo di perversioni: il regista lo mostra all’inizio della sua
carriera nel 1983, con L’indiscreto fascino del peccato, dove il titolo di ‘bunueliana’ memoria vede
un universo di suore corrotte e drogate nel convento dove la protagonista ballerina di flamenco si
rifugia dopo la morte per overdose del fidanzato. Quest’universo grottesco ma un po’ ‘burlesque’ è
solo un inizio per affrontare il tema tanto scottante: anni dopo, nel 1999 in Tutto su mia madre sarà
proprio una suora a restare incinta del travestito malato di aids, ma solo nel 2004 la tematica sarà
sviscerata in modo totale con incursioni in altri temi almodovariani: quell’anno infatti esce La mala
educación, l’opera più inquietante e complessa di Almodóvar per l’intreccio di diversi insiemi e
sottoinsiemi. C’è innanzitutto la vita di un ragazzino in un collegio di frati che subisce violenze,
(Ignacio) ma questa storia diventa la sceneggiatura del fratello minore aspirante attore, che in realtà
‘espia’ la colpa dell’assassinio dello stesso fratello: si sovrappongono ne La mala educación il
passato e il presente della storia avvenuta nel convento, le scene del film ancora non girato e
l’ultima scena ripresa. La dimensione metacinematografica ‘addolcisce’ parte della storia che, nella
finzione risulta così meno cruda.
Il ricorso al metacinema inizia però in una delle prime scene di Legami! dove la protagonista
Victoria Abril sta girando una scena di un film; poco dopo viene rapita da Antonio Banderas e,
affetta da una sorta di sindrome di Stoccolma, la donna finirà per amarlo. Tornando a La mala
educación”, al di là dei piani narrativi intersecati, c’è fortissimo il tema del travestitismo gay, dove
un neo-almodovariano Gael Garcia Bernal, travestito come il fratello Ignacio e sotto lo pseudonimo
di Zahara, interpreta la vita vera nel film scritto proprio dal fratello morto e spacciandolo per
proprio. Ignacio, patetico con il suo seno da donna e ‘tossica’ come si definisce in una scena, non
può non ricordare i travestiti che costellano la strada dei film di Pedro Almodóvar: dalla struggente
Lola di Tutto su mia madre al divertente Lestat di Tacchi a spillo, interpretato da Miguel Bosè e che
seduce la bella Victoria Abril nel camerino di un teatro, senza dimenticare la favolosa Agrado,
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sempre di Tutto su mia madre, protagonista di un monologo semiserio che conclude così: “Una
donna è più autentica quanto più somiglia all’idea che ha sognato di se stessa”. Sono uomini che si
sentono donne, lo diventano, e continuano ad amare donne, perché il loro bisogno di cambiamento
non è motivato da un diverso desiderio sessuale, ma soltanto da una predisposizione al genere
femminile. Ne La mala educación però, il genio Almodóvar non fu capito a pieno tra pubblico e
critica: era andato troppo avanti e pochi erano riusciti a seguirlo.
Eppure, questo film intriso di cinica acrimonia nei confronti della chiesa, non manca di lasciare agli
spettatori un messaggio cinefilo, avendo come protagonisti un regista appassionato del suo lavoro e
un fragile attore arrivista lacerato dai sensi di colpa che lo portano a piangere disperatamente
nell’ultima scena del film girato nel film: la frase di chiusura sembra un epitaffio sulla tomba
dell’amore fraterno violato e al tempo stesso un inno all’amore per il cinema come unico narratore
di storie. La mala educación è ambientato in diversi periodi: l’attualità è il 1980, il passato sono gli
anni ’60 del collegio, come a voler parlare di una storia in parte autobiografica perché lo stesso
Pedro aveva frequentato un collegio di monaci da bambino. Inoltre, La mala educación si avvicina
a Parla con lei perché ha come protagonisti due uomini. In quest’ultimo, Benigno e Marco,
rispettivamente infermiere e giornalista, attendono che le loro amate si sveglino dal coma, con la
differenza che il primo tratta la donna che ama, Alicia, come se fosse cosciente, mentre il secondo
era stato appena lasciato dalla sua Lydia, torera in coma per incidente durante la corrida. Le cose
cambiano quando Alicia rimane incinta: nonostante la situazione ‘scabrosa’, Almodóvar riesce a
dare una sensibilità incredibile a Benigno, interpretato da un bravissimo Javier Camara; lo
spettatore finisce per voler bene al personaggio, quasi quanto Marco gliene vuole: tra i due nasce
un’amicizia intensa, legata dal comune dolore prima e dal bisogno di aiuto di Benigno dopo: solo
Marco gli resta vicino. L’umanità di questi due uomini infrange la regola per cui si crede che
Almodóvar sia solo dalla parte delle donne, perché qui, tra “pudore e sgomento” affronta la storia di
chi ha varcato il tabù dell’amore impossibile con una donna in coma, ma la poesia di questo
sentimento è indescrivibile a parole. Si può solo dire che la morte del protagonista, che lascerà
forse spazio ad un incontro tra i due in vita, completa uno script che è perfetto, fino nei dettagli,
fino al cameo di Geraldine Chaplin, che interpreta la maestra di danza di Alicia e che va a trovare in
ospedale come se fosse ancora una sua allieva.
Non dimentichiamo però che Almodóvar è famoso per l’erotismo shock di alcuni suoi film.
Matador e La legge del desiderio richiamano ovviamente al tema doppio dell’eros e thanatos. In
particolare, anche Matador richiama un titolo di bunueliana memoria perché ricorda L’Age d’or,
eppure gioca sul doppio significato di questo suono: oltre a Matador, il torero che sfida il toro
durante la corrida, mata d’or, alla lettera significa “chioma d’oro”, anche se tutte le attrici del film
hanno i capelli scuri. I due film sono melodrammi dove la passione, all’inizio delle opere è
‘solitaria’, mentre nelle rispettive ultime scene rappresenta ‘connubi mortali’. Presente in entrambi i
film Antonio Banderas, che diventa ufficialmente uno dei pochi feticci maschili di Almodóvar e che
da Labirinto di passioni entra nel suo universo di volti familiari. Il sesso però non è mai trattato in
una chiave ‘usuale’, non è mai perversione fine a sé stessa: è giocoso nei primi film, fonte di
piacere accompagnato alla morte in Matador e La legge del desiderio, schiavitù e malattia in
Legami!, ma con Kika diventa voyeuristico. Lo stupro, ripreso da Almodóvar come una scena di
commedia, e poi trasmesso in parte durante un reality show, è la metafora dello ‘stupro della
privacy’ da parte della televisione. In anticipo con i tempi, il regista spagnolo denuncia l’invadenza
del mezzo di comunicazione usando come strumento del racconto il sesso, che da atto privato
diventa violento e visibile a tutti. Infine, l’umorismo nero di Kika si riavvicina a quello visto dieci
anni prima con Che cosa ho fatto io per meritare tutto questo?
Il fiore del mio segreto è il film che vede Pedro Almodóvar confrontarsi con l’autobiografismo
legato alla madre, che finora era emerso solo nei personaggi di Sexilia di Labirinto di passioni e
Rebeca di Tacchi a spillo. La protagonista è una donna ispirata alla figura della madre di
Almodóvar che cerca di risolvere le sue ‘questioni irrisolte’ e torna a un certo punto nel suo paese
natale (il ritorno sarà sviscerato completamente in Volver, letteralmente “tornare”) e dopo il
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tradimento da parte del marito, trova l’amore in un altro uomo. Un discorso a parte lo merita invece
Carne tremula, del 1997: è l’unico film di Almodóvar tratto da un romanzo, “Life flesh” di Ruth
Rendell ed è l’unica sua opera in cui si parla di Francisco Franco: il film si apre nel 1970 con la
nascita del protagonista Victor sotto la dittatura, ma si proietta venti anni dopo per arrivare fino al
1996 dove la vicenda si conclude in modo circolare con una nuova nascita. Il film drammatico non
presenta le ‘solite tematiche’ del suo cinema, ma anticipa qualcosa del successivo, Tutto su mia
madre: in particolare, la struttura ad anello sulla nascita e la presenza di Penelope Cruz, anche se
solo per pochi minuti all’inizio.
Torniamo sul ‘tornare’, appunto con Volver: se finora Almodóvar aveva realizzato film con storie e
tematiche che si riproponevano, qui l’autore abbia realizza l’opera che le contiene tutte. C’è infatti
un marito violento che viene ucciso, la madre e il ‘ritorno a casa’, quest’ultimo diverso da quello de
Il fiore del mio segreto: le questioni irrisolte tra madre e figlia torneranno a galla quando Carmen
Maura, nei panni della madre Irene tornerà dal suo finto viaggio nell’aldilà. Volver è un ritorno
pieno di amore e di sofferenza, in cui Penelope Cruz, alias la figlia Raimunda, esprime un dolore
surreale ma che sentiamo anche noi dalla platea, perché ci comunica il sentimento di odio e amore
nei confronti di sua madre, quando la ritrova viva e vegeta, dopo che l’aveva creduta morta per
anni. Emerge in questo film un autobiografismo fortissimo, che rivela quanto sia sanguigno e
complesso il rapporto con una madre e quanto abbia segnato la storia personale del regista. La scena
in cui Raimunda fugge via piangendo dopo aver ritrovato la madre, è un capolavoro, perché
l’inaspettato ritorno porta alla figlia innanzitutto altra sofferenza, perché riaffiorano anche i
fantasmi del passato che pensava di aver seppellito con la morte della madre. Poi, le corrispondenze
tra i destini delle due donne le avvicinano perché entrambe uccidono, in modo diretto o indiretto
(partecipando alla copertura dell’omicidio) il proprio marito: gli uomini di questo film sono
pessimi, non valgono niente, sono fatti solo di impulsi e di violenza.
Tra le altre scene indimenticabili, rimangono quella in cui Raimunda canta come quando aveva 13
anni e ancora amava sua madre: gli occhi le si illuminano di lacrime per il ricordo del passato
felice; nella scena d’apertura del film, invece, le protagoniste tirano a lucido le tombe dei propri cari
al cimitero, in un rito che sa di folklore più che di amore cristiano. Questo film ci ricorda infine la
caratteristica di tutti i film di Pedro Almodóvar, cioè la capacità di far sembrare verosimili
situazioni del tutto irreali, con un cast di attrici nei panni di personaggi unici, da Agustina, la figlia
di un’ex hippy malata di cancro alla figlia di Raimunda, Paula, che per evitare le violenze di un
presunto padre, lo uccide. È il film con cui il regista si riconcilia con se stesso sviscerando il tema
tabù delle origini e della madre, unendo tutti i fili narrativi dei suoi precedenti 16 film. È un film
dove le donne sono tutto e gli uomini poco, ma non nel senso femminista e quindi discutibile del
termine, nel senso ‘sanguigno’ che comporta l’essere donna.
Adesso aspettiamo il prossimo film di Almodóvar, Gli abbracci perduti, in cui invece, il regista si
cimenterà con una storia ispirata al noir americano: tra i temi ci saranno il destino, la colpa, la
ricerca del padre da parte di un figlio e il mistero della creazione. Ci ricorda qualcosa? Pedro ha
rimescolato le carte un’altra volta ed è pronto alla prossima mano.