Jean-Luc Nancy Sexistenza

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Jean-Luc Nancy Sexistenza
Jean-Luc Nancy
Sexistenza
Esiste l'amore in tutta la sterminata estensione del termine, l'amore senza confini, l'amore
per l'umanità, il mondo, la musica, il mare o la montagna, la poesia o la filosofia, che è
essa stessa amore della sapienza. Non è così? Quest'ultima, a sua volta, consisterebbe
soltanto nell'amare ciò che non si può giudicare, né conoscere o rifiutare: tutto l'altro in
quanto altro, tutto l'esterno in quanto esterno, e la morte e l'amore stesso, impeto
furibondo che ci fa morire nell'altro o fa morire l'altro in noi.
Esiste questo amore sconfinato, inesorabile, insopportabile, insensato, impossibile, ed
esiste quello che si fa e per il quale non possediamo altro termine se non, appunto, «fare
l'amore» (oppure «andare a letto», espressione che però non solo manca di eleganza, ma
si trascina dietro una sfilza di parole volgari, triviali, oscene, sporche, disonorevoli,
impronunciabili, oppure riservate per essere pronunciate, gridate o mormorate durante
l'amore stesso, quando lo si fa). L'ultimo tipo di amore viene definito preferibilmente
«eros», mentre per il primo il lessico oscilla tra «philia», «agapè» e «caritas».
Questi due amori hanno in comune lo slancio, l'infervoramento, la precipitazione senza
riserve e senza prospettive: non viene fissato lo scopo, l'esito non viene descritto, si tratta
di arrivarci sapendo che l'importante non è giungere alla meta. Forse aspiriamo a tracciare
i confini di una finalità possibile: se da un lato ciascun altro è il mio prossimo, la sua
prossimità sembra giustificare e persino invocare la mia predilezione, la scelta che faccio
di lui e il valore insigne che gli attribuisco; dall'altro si suppone che il furore del desiderio
raggiunga un grado di soddisfazione tale da potersi placare. Eppure sappiamo
perfettamente che non ci è data alcuna prossimità senza che questa ci venga
immediatamente sottratta più in là, in un'estraneità infinita. E sappiamo anche che non
esiste «soddisfazione» – niente «satis», niente «abbastanza» per colui che desidera non
tanto appagarsi quanto desiderare ancora e sempre, di nuovo.
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Sotto aspetti così contrastanti, l'amore presenta un'identica necessità d'infinito: esso non
finisce mai perché è del non finire che si nutre, del non limitarsi a ciò che può essere,
possedere e fare. Farlo, l'amore, vuol dire disfare il mio essere, il mio possesso, la mia
opera, è fare una non-opera assoluta. Lì dove sembra più compiuto, nei pensieri orientali
delle opposizioni armoniche e dei passaggi dell'uno nell'altro, esso non è meno infinito – a
meno che con «amore» non si intenda un turbamento, un'agitazione, in fin dei conti non
meno infiniti.
All'orizzonte sia di un amore che dell'altro compare la riproduzione, sotto forma di
conservazione del gruppo attraverso la pace comunitaria, oppure sotto forma di
conservazione della specie (e/o del gruppo...) attraverso la generazione di nuovi individui.
In entrambi i casi, tuttavia, ci si pone al di là dell'opera: tanto il gruppo quanto il nuovo
individuo devono rinnovare il desiderio per conto proprio, invece di esserne il prodotto.
Forse il sesso propone una cifra – se non la cifra – di tale rinnovamento del desiderio, che
in fondo non è altro che il desiderio stesso. Come sappiamo con crescente
consapevolezza, la diversificazione delle caratteristiche genomiche non rappresenta
necessariamente il beneficio più sicuro della sessualità, anche se ne è un carattere
pregnante. Non per questo la riproduzione asessuata è esente da diversificazione tramite
mutazioni, anche perché ha il vantaggio di poter contare su una maggiore velocità. Inoltre
si può pensare che la sessualità concorra ampiamente al restauro dei geni colpiti da
lesioni di vario tipo, e quindi a una conservazione più che a una diversificazione. Per tutti
questi motivi, e molti altri ancora, la biologia è tuttora in difficoltà quando è costretta a
fornire una «ragione sufficiente» del sesso. Forse occorre ritenere il sesso così importante
per via del rapporto: diversificante o meno, il rapporto sessuale introduce sempre una
dimensione supplementare – e a suo modo diversificante – all'interno della specie e
persino, in alcuni casi, ai confini tra le diverse specie. Ma in cosa consisterebbe la ratio
sufficiens fornita dal rapporto in quanto tale?
L'individuo asessuato che si riproduce per divisione di sé non stabilisce un rapporto. Il
rapporto, nella sua dimensione attiva, è già presente nell'alimentazione – e persino nel
cannibalismo che, per alcuni biologi, potrebbe essere all'origine della sessualità, dal
momento che l'assorbimento di una cellula da parte di un'altra permette di scoprire nuove
risorse; d'altro canto, però, conosciamo bene i molteplici nessi che si possono stabilire tra
l'alimentazione, l'oralità, così come l'escrezione, e il sesso. Il rapporto è presente anche
nella condivisione del calore o nella cooperazione alla costruzione, nella caccia e nella
sorveglianza, ma in questi casi si tratta sempre di comportamenti determinati in base alla
specie. Anche con il sesso interviene un rapporto proprio della specie, ma un rapporto che
presenta caratteristiche abbastanza generali di comportamenti seduttivi legati a morfologie
particolari e differenziate, a esaltazioni nei colori, nei volumi, negli odori, nei versi. Ci
vorrebbe una Naturphilosophie della sessualità vegetale e animale, in grado di dimostrare
come, intorno alla sessualità, si produca un'intensificazione, amplificazione e
diversificazione di caratteri e comportamenti che non è possibile ricondurre semplicemente
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a un'eccitazione in vista della riproduzione: si tratta di una dimensione supplementare,
irriducibile alla finalità (basti pensare alle creste dei galli o alla profusione di uova di certi
pesci), di un'incandescenza che non viene raggiunta dagli altri fenomeni cromatici, olfattivi
o sonori. Saremmo persino tentati di pensare che tali fenomeni (colore delle rocce, dei cieli
o delle foglie, varietà dei mantelli, delle forme, ecc.) offrano un'eccedenza polimorfa,
generale e immotivata di cui il sesso, in qualche misura, riprenderebbe il singolarissimo
spettacolo (tumulto, baccano, effervescenza) declinandolo in forme ancor più esaltate e
legate all'eccitazione di una vita che vuol essere essa stessa rapporto tra i vivi, tra le loro
generazioni e i loro generi.
L'eccitazione sessuale, con tutta la sua forza animale e il suo singolare dominio
sull'animale umano, rappresenta una turbolenza ontologica del rapporto: alla pari del
linguaggio, lo porta molto lontano, cioè dove non si può parlare di satis-fazione, dove non
se ne può mai fare abbastanza, ma dove c'è incessantemente qualcosa da fare, qualcosa
che non avviene mai come tale, né come risultato, che perciò non è mai «fatta», ma che
pure non smette mai di volersi fare.
Cosa facciamo quando facciamo l'amore? (domanda sussidiaria: in quante lingue si dice,
più o meno letteralmente, fare l'amore?) Noi non facciamo niente nel senso di produrre
qualcosa (se si fa un figlio, che lo si consideri o meno una produzione 1, non si tratta
dell'amore in quanto tale, che potrebbe benissimo essere del tutto assente). Noi facciamo
nel senso che compiamo un atto, anche se quello designato non è un vero e proprio atto,
è un sentimento, una disposizione, l'eccitazione del rapporto al di là di se stesso, verso ciò
che sembra destinato a rinnovarlo all'infinito, oppure a oltrepassarlo in un amplesso con
cui concluderlo, senza però sapere in che senso vada preso quest'ultimo verbo. Se non
altro l'espressione indica un'effettività dell'amore che nessuna dichiarazione, nessuna
dimostrazione, nessuna testimonianza potrà mai pretendere di raggiungere. Ecco perché,
in un certo senso, non è impossibile fare l'amore in maniera diversa dal rapporto sessuale
in senso stretto: lo scambio di sguardi, di questo o quel contatto, persino delle parole può
avventurarsi sul terreno di questo «fare». Almeno una cosa, infatti, è certa: l'amore non
può essere soltanto detto, il suo dire stesso dev'essere un fare. «Ti amo» è un atto
performativo: fa ciò che dice. L'amplesso si limiterà ad aggiungere un dire in eccesso, che
«performa» il proprio limite.
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Se non può che essere fatto, «performato» – il che, beninteso, non ha niente a che fare
con ciò che viene chiamata una «performance» sessuale (niente, se non appunto il fatto
che la rappresentazione della performance, dell'eccellenza del fare, della capacità di
godere e far godere deve avere un rapporto con la preminenza del fare) – se, dunque, non
può che essere fatto e se anche l'amore, con tutte le sue valenze (amore spirituale,
familiare, amicale, oblativo, ecc.) forse non può che essere un atto e un'«opera», nel
1 Riportiamo l'espressione di Françoise Dolto: «I genitori credono di fare dei figli, ma si accorgono presto che i figli
non lasciano fare!».
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senso conferito a questo termine dal cristianesimo, allora forse è necessario che oggi noi
cerchiamo di pensare e di dire in qualche modo l'attualità dell'atto.
Nella maggior parte dei casi e il più a lungo possibile – oltre che nella maggioranza delle
culture –tale attualità è stata tenuta ad avere estremo pudore, massimo riserbo riguardo a
ciò che non si può mostrare o che si mostra soltanto tra gli amanti che lo fanno. Come
scrive Lévinas in un appunto isolato: «Osceno: l'amore che fanno gli altri». Il che vuol dire
anche che non è osceno l'amore che facciamo noi. Nel farlo, però, noi lo taciamo – oppure
ciò che diciamo partecipa dell'osceno, è un'esclamazione dell'osceno.
Perché bisognerebbe parlarne? Semplicemente perché non c'è casualità nel gesto
compiuto da Freud quando ha voluto fare piena luce teorica sul sesso, gesto cui
tendevano già da qualche tempo alcuni approcci antropologici del XIX secolo. Non c'è
casualità perché non sorprende che venga investito di nuovi significati ciò che era stato
così accuratamente e costantemente sottoposto a un controllo morale e religioso, vale a
dire ciò che poteva soltanto restare dissimulato per essere meglio sublimato
nell'assunzione dell'amore divino.
La dissimulazione del sesso non faceva che portare avanti, con una modalità nuova
proveniente dal contesto cristiano, la sua antichissima valenza sacra. Forse non esiste
cultura in cui il sesso non sia, o non sia stato, oggetto di prescrizioni particolari, che si tratti
dei culti rivolti agli organi genitali, dei sistemi di parentela e legittimità delle unioni, dei tabù
o delle clausole d'impurità, delle condanne di alcune forme di sessualità, delle prostituzioni
sacre oppure delle pratiche sessuali legate a certi esercizi spirituali – per limitarci ad
alcune voci di un elenco che potrebbe essere molto più lungo e preciso.
Se è vero che il cristianesimo, tra tutte le culture, forse ha rappresentato la forma più
propensa alla diffidenza e all'astinenza sessuali, evidentemente esiste un nesso con il
motivo dell'amore così come è stato determinato dal cristianesimo. L'amore cristiano non
si distingue soltanto, come si dice spesso e a ragione, dall'eros in quanto desiderio di
possesso. Del resto, in buona parte della teologia e della spiritualità cattoliche, l'agapè –
distinta in quanto affetto, diletto, cura (che diventa caritas) dell'altro – è stata spesso
accostata per molti aspetti all'eros. Carità e concupiscenza certo si oppongono, ma l'una
non può essere completamente estranea all'altra, perché in un certo senso si deve pure
amare ciò che si desidera, oppure desiderare ciò che si ama. In realtà, carità e
concupiscenza si attraggono a vicenda tanto quanto sembrano respingersi.
Se l'unico amore che vale (se non addirittura che esiste) è quello di Dio nel senso di un
genitivo soggettivo, cioè l'amore che viene da Dio e anche l'amore che costituisce l'essere
Dio, allora questo amore rivolto all'intero creato, amore egli stesso creatore, relega
nell'insignificanza qualsiasi amore non divino e al contempo chiama qualsiasi creatura a
entrare in quell'amore, a diventare amore. Così due tendenze profonde hanno governato e
diviso il cristianesimo, riunendosi e dividendosi al suo interno: un'espansione infinita
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dell'eros e un'assunzione di qualsiasi desiderio e piacere sotto l'egida di una cura
originaria.
L'insieme si lascia sussumere nel simbolo dell'infinito (potremmo persino aggiungere,
rimandando a Lévinas, dell'infinito e/o della totalità). Se l'amore, in qualsiasi forma lo si
immagini, è ricerca di un bene, con il cristianesimo è diventato ricerca di un bene infinito –
il che implica allo stesso tempo che tale bene infinito precede infinitamente la ricerca di sé,
la eccede e la esige in un senso esso stesso esorbitante (oppure strettamente
etimologico) del verbo exigo (compiere, portare a termine, senza riserve).
Nell'ottica dell'infinito, l'esigenza eccede in maniera assoluta ogni possibilità di
realizzazione, oppure non viene realizzata se non come l'atto divino da cui procede. Dio
crea per amore e questo amore vuole tornare a sé all'infinito. L'amore diventa il nome di
un ritorno infinito – all'origine, a sé, all'altro assoluto. Nell'ottica della totalità, il tutto va
inteso non più come un ordine (un cosmos con il suo arché e il suo logos), bensì come
una scelta gelosa che ordina (nuovo senso di èn archè hèn o logos). L'amore ordina che
lo si preferisca, come esso stesso ci ha preferito (al nulla). Esiste un debito assoluto.
Esiste un debito, il dovere di restituire l'amore ricevuto e, al tempo stesso, questo amore
ricevuto costituisce una specie di credito illimitato: l'amore rivendica se stesso ovunque, in
tutti. Vi è dunque una specie di totalitarismo, un'economia totalitaria dell'amore, dietro la
quale peraltro non è certo indifferente veder profilarsi un'economia del profitto.
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Queste considerazioni ci avvicinano il più possibile al sesso, persino al suo intimo. Esso
consiste nell'energia che mobilitano insieme, o alternativamente, i due aspetti di questa
nuova organizzazione delle cose – degli affetti, dei rapporti, del mondo. Che avvenga
nell'eccesso o nella rivendicazione, l'amore cristiano mobilita comunque l'energia del
sesso (come faceva anche, a modo suo, lo slancio verso le Idee o l'Eros platonico).
«Eppure amo una sorta di luce e voce e odore e cibo e amplesso nell'amare il mio Dio: la
luce, la voce, l'odore, l'amplesso dell'uomo interiore che è in me», scrive sant'Agostino
(Confessioni, X, 6). O forse dovremmo dire, al contrario, che l'energia del sesso mobilita il
cristianesimo laddove essa si trova in un certo senso priva di impiego, avendo in qualche
modo perduto, nel tardo ellenismo e a Roma, lo slancio impetuoso, straripante e in fin dei
conti fisicamente mistico che si riscontra nell'amante del Fedro di Platone. (All'opposto,
rispetto a tutto ciò che nel cristianesimo deriva dal giudaismo, è sorprendente notare che
la benedizione ebraica del sesso, potremmo chiamarla così, non sussista se non
presentando alterazioni molto profonde. Il Dio di Israele non si aspetta che il suo amore
venga contraccambiato).
È a partire da questo che è possibile comprendere come il sesso si manifesti al mondo
moderno con un vigore, una virulenza e persino una violenza mai conosciute altrove. Esso
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è carico di tutta l'energia che nessun impeto divino può più assumersi e che quindi non
raccolgono nemmeno più le macchine adibite alla produzione.
Forse la comparsa così singolare nella cultura europea del marchese de Sade va intesa
proprio a partire da questo: il suo è il momento in cui l'energia sessuale si trova lasciata a
se stessa, sprovvista di qualsiasi altra destinazione. «No, non c’è nessun Dio, la natura
basta a se stessa», dice Justine. Tale sufficienza, tuttavia, si afferma e in fin dei conti si
autodenuncia immediatamente, perché ciò che intraprende appartiene a
un'insoddisfazione interminabile, essa stessa duplice: da un lato il godere non può che
proiettarsi nell'interminabile moltiplicazione, dall'altro non può avere fine se non in sé – il
che vuol dire prima di tutto che deve avere una fine, e questo, inevitabilmente, nel doppio
senso del termine. Il godere non finisce mai di finire. Ecco perché si accanisce e non può
concepirsi se non all'interno di una distruzione generale la cui logica non può che tendere
verso l'autodistruzione.
Sade non è stato il solo: pochi anni dopo Fourier offre un'immagine completamente
diversa, ma non meno disperata del godimento lasciato all'interminabile, vale a dire al
malvagio infinito, quello che si subordina all'obiettivo di un compimento, di una totalità il cui
fantasma si rinnova ed esaurisce senza posa. È così che abbiamo finito per intendere il
godimento in un senso che l'appagamento, al tempo stesso calàmita, limita e delude. La
questione che ci viene posta oggi è sapere se, in effetti, noi non possiamo, sappiamo e
vogliamo godere diversamente dal modo che ha per sfondo questo orizzonte fantasmatico
ed estenuante – in realtà già ampiamente estenuato.
Sant'Agostino, poche righe dopo il testo citato, scrive che nell'amore di Dio «si assapora
un alimento che nessuna voracità fa scomparire e degli abbracci che nessuna sazietà
scioglie». Verso la metà del XIX secolo Walt Whitman scrive: «l'irritabile onda incapace di
appagamento/ l'eco in me del desiderio che risponde all'eco del desiderio nell'altro» ( Figli
di Adamo, 1860). Senza dubbio Whitman ci mostra – e tanti altri dopo di lui – che gli
abbracci divini non sono preclusi e possono fare a meno di Dio.
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A questo volevo arrivare. Oggi possiamo dire e pensare il sesso – che è sempre uno dei
modi per farlo – senza essere ridotti a dover scegliere tra Sade e Fourier, tra la distruzione
e la consumazione, tra due modi della replezione – e senza per questo dover ricorrere al
fantastico abbraccio di un Altro che godrebbe al posto nostro. Noi possiamo e dobbiamo
poter immaginare il sesso con il valore di un esistenziale – di una disposizione inerente
all'esercizio stesso dell'esistere.
Così come Kant affermava che la ragione comune non ha bisogno di essere istruita sulla
legge morale, perché la trova già insita in sé, anche noi possiamo affermare che nessun
uomo ha bisogno di essere istruito sulla verità del sesso. Essa ci precede. Non si tratta
nemmeno della verità della sessualità – funzione le cui modulazioni e complicazioni sono
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alquanto numerose – anch'essa precedente. Il sesso non è una funzione, né è la divisione
dei sessi o quella dei generi, in qualsiasi modo tali termini vengano intesi. Il sesso è un
abisso e una violenza: tramite la seconda, che subiamo, cadiamo nel primo, dove non
capiamo nulla.
L'abisso è indicato da Kant: «Quale può essere la causa di questo fatto, che tutti gli essere
organici, da noi conosciuti riproducono la loro specie solo per mezzo dell'unione dei due
sessi (il maschile e il femminile)? Tuttavia non si può ammettere che il Creatore, soltanto
per una stranezza e per produrre sulla terra un’organizzazione che gli piacesse, abbia per
così dire soltanto scherzato; ma sembra che dovesse essere impossibile far sorgere dalla
materia del nostro globo, per discendenza, degli esseri organici altrimenti che per mezzo
dei due sessi. In quale oscurità sprofonda la ragione umana, quando vuole rintracciare
l’origine prima, o anche solo cercare d’indovinarla!» (Antropologia, § 31, nota).
Più che la «fonte», Abstamm designa il ceppo originario – ceppo il cui segreto consiste
nella divisione, in quella deiscenza che non lascia intravvedere alcuna necessità e che
potremmo essere indotti a prendere per una fantasia, se solo ci fosse permesso di
immaginare un creatore fantasioso. La perplessità di Kant non può essere imputata alla
sua biologia sommaria: ho già fatto notare che le risorse proprie della divisione
cromosomica non bastano a stabilire una piena superiorità della riproduzione sessuata. Si
tratta piuttosto di prendere le distanze dai concetti di superiorità – d'altro canto, se
vogliamo continuare a seguire questa logica, esistono organismi viventi molto rudimentali
che sono sessuati (per esempio, i lieviti unicellulari).
La violenza è dipinta da Montaigne: «Noi mangiamo e beviamo, certo, come le bestie, ma
questi non sono atti che impediscano le operazioni della nostra anima. In essi manteniamo
la nostra superiorità su di loro. Questo [il rapporto sessuale] mette ogni altro pensiero sotto
il giogo. Abbrutisce e inebetisce con la sua imperiosa autorità tutta la teologia e la filosofia
che c’è in Platone. Eppure egli non se ne lagna. In qualsiasi altra cosa potete conservare
una certa decenza. Ogni altra azione sopporta certe regole di decoro. Questa non si può
neppure immaginare se non viziosa o ridicola» (Saggi, III, 5).
Poche righe prima Montaigne scrive che il sesso fa pensare all'uomo come al «trastullo
degli dèi», proprio ciò che Kant si vieta di pensare e che, di conseguenza, forse a maggior
ragione pensa. In effetti il sesso fa ridere: tutte le culture sembrano conoscere scherzi a
sfondo sessuale. Fa ridere oppure dà fastidio, anche se non ripugna. Esiste una violenza
e/o una sconvenienza del sesso davanti alle quali operiamo uno scarto tramite il riso o il
pudore.
Il riso, tuttavia, non sempre è una difesa. Può anche manifestare una mancanza di
conclusione, la risoluzione in nulla di un'attesa (questo lo si trova in Kant, Baudelaire o
Hermann Broch). Il sesso non porta a niente se non al proprio piacere – sebbene
quest'ultimo non sia esente da un certo dolore, come osserva ancora Montaigne. Il piacere
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è stato a lungo interpretato come un mezzo di cui la natura dispone per incitare alla
riproduzione. In ogni epoca, tuttavia, si è saputo praticare il sesso senza esporlo alla
fecondazione. E anche quando questa deviazione formale non è in gioco, spesso può
trattarsi di un'attrazione manifestamente estranea all'intenzione di fare un figlio. Le due
epopee omeriche non includono forse gli amori non domestici di Achille e di Ulisse? Fare
l'amore fa altro rispetto al fare un figlio, anche quando lo si fa.
Saremmo tentati di dire che il figlio è una produzione (poiesis), mentre l'amore è un
comportamento (praxis). Tale distinzione, però, risulterebbe troppo semplicistica, perché
un figlio è un'altra esistenza più che un prodotto e il comportamento sessuale è ben lungi
dal limitarsi agli atti che portano questo nome. È molto difficile decidere dove cominci e
dove finisca il sesso attraverso tutti i nostri rapporti, attività e atteggiamenti. Esso
attraversa tutta la nostra vita. Ciò che ha portato alla luce Freud, con il nome di «pulsione
(Trieb) erotica», non è l'imprevista importanza, più o meno meccanica, di un registro
inferiore della nostra animalità umana: è piuttosto la figura al tempo stesso nuova e
antichissima di ciò che ha sempre aperto l'essere vivente a un sovrappiù di vita e l'essere
vivente parlante a un'esclamazione sempre ai confini del senso.
Per il momento accontentiamoci di dire che il sesso apre l'esistente a un abisso e a una
violenza che se non esauriscono certo i tratti digressivi e scoperti dell'esistenza, quanto
meno possiedono una caratteristica: ci conducono – in un groviglio di abisso e violenza –
sul bordo di un «fare» che fondamentalmente si limita a sfiorare al tempo stesso il doppio
al di là dell'animale e del divino, due nomi che non dicono altro se non che l'esistenza è la
sua stessa deiscenza, una sexistenza.
Traduzione italiana di Ida Porfido
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