dizionario giuridico - Ordine dei Dottori Commercialisti e degli

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dizionario giuridico - Ordine dei Dottori Commercialisti e degli
Anno 11 – Numero 3
6 febbraio 2013
NORMATIVA, GIURISPRUDENZA, DOTTRINA E PRASSI
IL NUOVO DIRITTO
DELLE SOCIETÀ
D IRETTA
DA
O RESTE C AGNASSO
C OORDINATA
DA
E
M AURIZIO I RRERA
G ILBERTO G ELOSA
IN QUESTO NUMERO:
• CONCESSIONE E REVOCA “ABUSIVA” DEL
CREDITO
• AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ
SEMPLICE
• PROFESSIONISTA DISTRATTARIO
ItaliaOggi
DIREZIONE SCIENTIFICA
Oreste Cagnasso – Maurizio Irrera
COORDINAMENTO SCIENTIFICO
Gilberto Gelosa
La Rivista è pubblicata con il supporto
degli Ordini dei Dottori commercialisti e degli Esperti contabili
di:
Bergamo, Biella, Busto Arsizio, Casale Monferrato,
Crema, Cremona, Lecco, Mantova, Monza e Brianza,
Verbania
NDS collabora con la rivista:
SEZIONE DI DIRITTO FALLIMENTARE
a cura di Luciano Panzani
SEZIONE DI DIRITTO INDUSTRIALE
a cura di Massimo Travostino e Luca Pecoraro
SEZIONE DI DIRITTO TRIBUTARIO
a cura di Gilberto Gelosa
SEZIONE DI PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E IMPRESA
a cura di Marco Casavecchia
SEZIONE DI TRUST E NEGOZI FIDUCIARI
a cura di Riccardo Rossotto e Anna Paola Tonelli
COMITATO SCIENTIFICO DEI REFEREE
Carlo Amatucci, Guido Bonfante, Mia Callegari, Oreste Calliano, Maura Campra,
Matthias Casper, Stefano A. Cerrato, Mario Comba, Maurizio Comoli, Paoloefisio
Corrias, Emanuele Cusa, Eva Desana, Francesco Fimmanò, Toni M. Fine, Patrizia
Grosso, Javier Juste, Manlio Lubrano di Scorpaniello, Angelo Miglietta, Alberto Musy,
Gabriele Racugno, Paolo Revigliono, Emanuele Rimini, Marcella Sarale, Giorgio
Schiano di Pepe
COMITATO DI INDIRIZZO
Carlo Luigi Brambilla, Alberto Carrara, Paola Castiglioni, Luigi Gualerzi, Stefano
Noro, Carlo Pessina, Ernesto Quinto, Mario Rovetti, Michele Stefanoni, Mario
Tagliaferri, Maria Rachele Vigani, Ermanno Werthhammer
REDAZIONE
Maria Di Sarli (coordinatore)
Paola Balzarini, Alessandra Bonfante, Maurizio Bottoni, Mario Carena, Marco Sergio
Catalano, Alessandra Del Sole, Massimiliano Desalvi, Elena Fregonara, Sebastiano
Garufi, Stefano Graidi, Alessandro Monteverde, Enrico Rossi, Cristina Saracino,
Marina Spiotta, Maria Venturini
HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO
Luca Caravella, Marco Casavecchia, Giulia Garesio, Andrea Pessina, Mauro Pizzigati
Errata Corrige del numero 2/2013
Il titolo corretto del contributo di Alessandro Bollettinari, pubblicato nel numero 2/2013, pag.
9 è: “Il crowdfunding: la raccolta del capitale tramite piattaforme online nella prassi e nella
recente legislazione”
SOMMARIO
pag.
DIZIONARIO GIURIDICO
Brevi cenni sull'ordinamento giuridico inteso come un insieme strutturato di
norme giuridiche. Parte prima
di Marco Casavecchia
9
STUDI E OPINIONI
Noterelle minime sulla concessione “abusiva” e sulla revoca “abusiva” del
credito
di Mauro Pizzigati
80
Lo stato dell’arte in tema di amministrazione di società semplice
di Giulia Garesio
90
COMMENTI A SENTENZE
Quando l’economia (anche) processuale si sposa con la volontà del
legislatore
di Luca Caravella
128
FISCALITÀ
Il professionista distrattario non ha diritto all’IVA da parte del soccombente
in giudizio
di Andrea Pessina
144
SEGNALAZIONI DI DIRITTO COMMERCIALE
157
SEGNALAZIONI DI DIRITTO TRIBUTARIO
160
INFORMAZIONE CONVEGNI
162
MODALITÀ DI ABBONAMENTO
164
IL NUOVO DIRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
4
SOMMARIO
DIZIONARIO GIURIDICO
Brevi cenni sull'ordinamento giuridico inteso come un insieme strutturato di
norme giuridiche. Parte prima
L’Autore, facendo seguito al precedente scritto intitolato “L’Ordinamento giuridico.
Introduzione”, pubblicato nel n 1 del 2013, riassume, in termini semplificati, la tesi
per la quale il diritto in senso oggettivo può esser inteso come un “ordinamento
strutturato di norme giuridiche”. Sono poi svolte alcune considerazioni aventi ad
oggetto l’ordinamento giuridico italiano.
di Marco Casavecchia
STUDI E OPINIONI
Noterelle minime sulla concessione “abusiva” e sulla revoca “abusiva” del credito
L’Autore tratta il tema della “concessione abusiva di credito” nella prospettiva della
eventuale responsabilità della banca che abbia concesso credito ad un imprenditore
che versi in una situazione di grave difficoltà o di insolvenza, tenendolo
artificiosamente “in vita”.
di Mauro Pizzigati
Lo stato dell’arte in tema di amministrazione di società semplice
Le disposizioni codicistiche relative all’amministrazione della società semplice –
immutate all’esito della riforma del diritto societario – offrono lo spunto per una
disamina dell’evolversi delle decisioni giurisprudenziali e delle interpretazioni
elaborate in dottrina, soffermandosi in particolare sulle questioni ancora aperte.
di Giulia Garesio
COMMENTI A SENTENZE
Quando l’economia (anche) processuale si sposa con la volontà del legislatore
L’Autore condivide la soluzione del Tribunale di Roma, ispirata al giusto
compromesso tra la valutazione dei costi professionali e dei tempi processuali e, in
mancanza di requisiti minimi della domanda, e la tutela dei creditori, proprio in
osservanza del dato normativo valutato nel suo complesso. Infatti, sia l’inesistenza di
una contraria regola giuridica e sia l’inesistenza di una qualche utilità impongono, in
alcuni casi ossia laddove i fatti sconfessano ogni prognosi futura, una seria riflessione
sull’applicazione formalistica della legge. Infine, l’autore critica la pronuncia della
Corte capitolina sulle conseguenze processuali da essa generate.
di Luca Caravella
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SOMMARIO
FISCALITÀ
Il professionista distrattario non ha diritto all’IVA da parte del soccombente in
giudizio
Con due recenti pronunce la Corte Suprema di Cassazione si è nuovamente espressa
sul tema dell’obbligo di corresponsione dell’Iva esposta in parcella dal professionista
distrattario che in forza della sentenza di condanna deve ottenere il rimborso delle
spese e degli onorari di difesa direttamente dalla parte soccombente in giudizio ai
sensi dell’art. 93 del Codice di Procedura Civile. Ai fini del tributo, la differente
qualificazione soggettiva della parte vittoriosa in giudizio determina soluzioni
operative che coinvolgono anche altri soggetti interessati dal procedimento in corso:
il difensore con procura e il terzo soccombente.
di Andrea Pessina
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INDEX-ABSTRACT
Page
DICTIONARY LAW
S ome Insights about the Legal S ystem Understood as a S tructured
S ystem of Legal Rules. Part One
The Author, following the previous paper entitled “The Legal System.
Introduction”, published in this Journal (issue No. 1, 2013), summarizes the
argument for which the law can be understood as a “structured system of
legal rules”. Some considerations concerning the Italian legal system are then
carried out.
by Marco Casavecchia
STUDIES AND O PINIONS
S ome Considerations about Giving and Revoking “Abusive” Credit
The Author deals with the topic of “abusive issuance of credit” intended as
the liability of the bank that has granted credit to a entrepreneur which is
facing a situation of great difficulty or insolvency, keeping him artificially
“alive”.
by Mauro Pizzigati
The S tate of the Art in the Discipline of the Administration of S imple
Partnership
The provisions of the Civil Code related to the administration of the simple
partnership - unchanged by the reform of company law - may provide a
starting point for a discussion of the evolution of case law and doctrine, with
particular emphasis on some still outstanding issues.
by Giulia Garesio
COMMENTS ON JUDGMENTS
The meeting between the lawmaker’s will and the principle of “economia
processuale”
The Author shares the decision issued by the Court of Rome, inspired to the
compromise between an evaluation of the costs as well as the time of the
proceedings and the creditors’ protection, considering the legal provision in
its whole meaning. In some cases the lack of an adverse legal provision and
the lack of any utility, requires a serious reflection about the law’s formal
application. The Author criticizes the decision issued by the Court of Rome in
the light of the procedural consequences that it generated.
by Luca Caravella
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INDEX-ABSTRACT
TAX LAW
The so-called “professionista distrattario” has no right to receive I.V.A. by
the losing party
The Supreme Court has recently decreed, with two important decisions, about
the duty to remit the I.V.A. presented with the parcel by the “professionista
distrattario”.
by Andrea Pessina
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DIZIONARIO GIURIDICO
BREVI CENNI SULL'ORDINAMENTO
GIURIDICO INTESO COME UN INSIEME
STRUTTURATO DI NORME
GIURIDICHE.
PARTE PRIMA
L’Autore, facendo seguito al precedente scritto intitolato “L’Ordinamento giuridico.
Introduzione”, pubblicato nel n 1. del 2013, riassume, in termini semplificati, la tesi per
la quale il diritto in senso oggettivo può esser inteso come un “ordinamento strutturato
di norme giuridiche”. Sono poi svolte alcune considerazioni aventi ad oggetto
l’ordinamento giuridico italiano.
di MARCO CASAVECCHIA
1.1. Il diritto come insieme di disposizioni appartenenti al linguaggio
prescrittivo.
1.1.1. Il diritto, come già detto, è un insieme di norme o "regole" dell’agire
umano.
Scrive, ad esempio, N. Bobbio sulle norme:
“Un uomo passeggia in un giardino. S’imbatte in un cartello che reca scritto: “E’
proibito calpestare l’aiuola”. Si ferma un momento. Gli sarebbe stato comodo
attraversarla per giungere più rapidamente dall’altra parte. M a non l’attraversa e
allunga, se pure a malincuore, il cammino. Intanto, finito di leggere il giornale, sta per
gettarlo in terra, quando ricorda di aver visto un cestino con su scritto: “Rifiuti”. Torna
indietro a suo dispetto e ve lo butta dentro. In un brevissimo spazio di tempo il
comportamento di quell’uomo è stato sottoposto a due modificazioni di segno opposto
dovute ad un segnale esterno. Nel primo caso è stato indotto a fare quello che non
avrebbe voluto. In entrambi i casi si dice che il comportamento è stato guidato o
condizionato o limitato, o anche soltanto modificato, da una norma. Pur nella loro
estrema semplicità, i due casi mostrano che una norma può modificare il
comportamento principalmente in due modi: o ostacolando, cioè inducendo una persona
a non fare quello che in assenza della norma avrebbe fatto, o sollecitandolo a fare quello
che, in assenza della norma, non avrebbe fatto”1.
1
N. BOBBIO , Contributi ad un dizionario giuridico, v. “ NORMA”, Torino, 1994, p. 177-179.
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DIZIONARIO GIURIDICO
ORDINAMENTO GIURIDICO
Le norme, lo si vedrà meglio in seguito, costituiscono il "significato" di un certo
tipo di "discorso" denominato “linguaggio prescrittivo” che, in via prioritaria, il "potere
legislativo" e, in via subordinata, il “potere esecutivo”, rivolgono a tutti o a parte dei
"soggetti" di un determinato Stato: come tale il diritto è veicolato da leggi (emanate
normalmente dal potere legislativo) e da regolamenti (emanati di regola dal potere
esecutivo). Le norme sono altresì date da altre fonti: ad esempio dai Regolamenti e dalle
direttive della Comunità europea (CE), dagli atti amministrativi, dalle consuetudini,
dall’attività contrattuale e non (es. testamenti) dei privati, dalle sentenze dei giudici
eccetera.
Il che equivale a dire che il diritto, pur espresso (e, a volte, legittimato) dalle
leggi e dai regolamenti, non coincide né con le leggi né con i regolamenti né con altra
fonte. Le leggi e i regolamenti sono scritti in una certa lingua, in italiano per il nostro
ordinamento: come tali sono costituiti da frasi costruite secondo le regole della
grammatica e della sintassi. Tali frasi, normalmente raggruppate in titoli, capi, articoli e
commi, costituiscono nel loro insieme e in quanto appartenenti a una certa legge o a un
certo regolamento un testo normativo. Siccome i testi normativi sono emanati dal potere
legislativo e, a volte, dal potere esecutivo, si asserisce che i medesimi sono il linguaggio
con cui si esprime il legislatore (chi legifera, sia esso il potere legislativo o quello
esecutivo): sono cioè il discorso di chi ha il potere di emanare norme. Però una cosa è il
linguaggio come complesso di segni costruiti e coordinati secondo le regole della
grammatica e della sintassi, altra cosa è il significato di tale linguaggio. Una cosa è la
frase: “Chiudi la porta”, altra è la regola, la norma che da tale frase deriva. Quindi le
leggi e i regolamenti sono testi normativi nel senso di insiemi di frasi scritte in una certa
lingua, il diritto è il significato di tali testi. Siccome compito del legislatore è quello di
dirigere la condotta degli uomini e cioè di dettare delle regole o norme con le quali
“obbliga” a fare o “vieta” di fare, e quindi di “prescrivere” una certa condotta, si dice
anche che il linguaggio (o discorso) del legislatore è di tipo “prescrittivo”.
Stessa considerazione si può fare per i regolamenti e le direttive CE, per
l’attività amministrativa delle Pubbliche Amministrazioni (PP.AA), per l’attività dei
privati che creano regole tra di loro, eredi e terzi (si dice tra di loro, eredi ed aventi
causa), per le sentenze eccetera.
Il diritto è creato anche dagli usi. Questi non consistono in un linguaggio
prescrittivo, ma in comportamenti segnici prescrittivi di eguale valenza: gli usi o
consuetudini consistono nel fatto che gruppi di persone si comportano con regolarità in
un certo modo in casi ben determinati (seguono regole di condotta non scritte) con la
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DIZIONARIO GIURIDICO
ORDINAMENTO GIURIDICO
convinzione che il comportarsi in quel modo significhi seguire regole o norme (non
scritte) di diritto2.
1.1.2. Il diritto, come già detto, in quanto costituito da discorsi prescrittivi, è
apparentato con la morale, con le disposizioni che impongono, in ciascun ambiente,
certe regole di comportamento, di cortesia eccetera.
Come tale si contrappone al linguaggio descrittivo tipico delle discipline
scientifiche o comunque di ogni discorso che afferma o nega certi fatti del mondo, della
realtà.
Si contrappone, altresì, al linguaggio espressivo tipico dell'arte 3.
1.1.2.1. Il linguaggio descrittivo consiste in "proposizioni" rispetto alle quali è
possibile asserire che le stesse sono "vere" o "non vere". Esempio: la proposizione
(frase): "Oggi 20-3-2012 piove" afferma esservi un fatto che può essere "vero" o
"falso". Quello prescrittivo consiste in enunciati rispetto ai quali la domanda precedente
("E' vero l'enunciato x?") non ha senso. Esempio: l'enunciato: "Se qualcuno uccide è
punito con la pena di morte" non è né vero né falso. Può solo essere "valido" o non
"valido" e cioè essere una disposizione di diritto in vigore oppure abrogata 4.
2
Il linguaggio fa parte dei comportamenti segnici. Un alieno, per capire le regole del diritto
scritto di un dato popolo, deve imparare la lingua di quel popolo, interpretarla, e individuarne
così le norme.
Nel caso di usi, lo stesso alieno può capirne le norme dalla regolarità del comportamento di quel
popolo in casi ben determinati. Esempio: se un gruppo di persone punisce sempre chi ruba con
una pena proporzionata al furto, l’osservatore esterno può capire che la regola di quel gruppo di
persone è questa: “ Chi ruba viene punito”. Quindi la medesima norma (“ Chi ruba viene punito”)
può essere contenuta nella frase scritta in lingua italiana e della forma “ Chi ruba viene punito”
ovvero nel comportamento ripetuto di punire chi ruba.
3
Il linguaggio espressivo delle opere d’arte letterarie, in una realtà fortemente fittizia, miscela
vari tipi di linguaggio: consigli, comandi, preghiere, descrizioni ecc. Le asserzioni -ad esempio
contenute nell’Amleto di Shakespeare per le quali Ofelia è figlia di Polonio- si prestano ad
essere controllate secondo il criterio del “ vero” e del “falso”. E cioè, in quel “ mondo” (nel
mondo in cui si svolge l’azione scenica della tragedia “ Amleto”) corrisponde a verità che Ofelia
è figlia di Polonio (v.si: L. DOLOZEL , Heterocosmica. Fiction e mondi possibili, Bompiani
1999).
4
V.si, per la “ grande divisione” tra linguaggio descrittivo e prescrittivo, U. SCARPELLI, Scienza
del diritto e analisi del linguaggio, Riv. dir. comm., 1948, pagg. 212-216 e L’etica senza verità,
Il Mulino, 1982. Contesta tale distinzione H.P UTNAM in “ Fatto/valore”. Fine di una dicotomia,
Fazi Editore, 2004. La grande divisione risale a D. HUME per il quale: “ Nessun deve può essere
derivato da un è”.
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1.2. Il diritto e le norme. Vari tipi di norme. I principi (nel nostro
ordinamento e in quello comunitario). Le definizioni.
1.2.1. Il diritto, come insieme di disposizioni prescrittive (D), esprime delle
regole, delle norme (N). Le norme sono il significato delle disposizioni prescrittive:
come tali sono delle entità ideali, sono veicolate dalle frasi del discorso prescrittivo.
Nel linguaggio descrittivo si ha una specie di triangolo semiotico: (1) una serie
di segni (es.: la frase "Tutti gli uomini sono bipedi" è costituita da una serie di lettere o,
se si vuole, di parole scritte in lingua italiana); (2) una serie di concetti o di significati
(gli "uomini", l'avere "due piedi"); (3) un riferimento a una realtà concreta (gli uomini
in carne ed ossa con i loro due piedi). Nel linguaggio descrittivo il mondo della natura,
della realtà al di fuori di noi, potrebbe anche essere concepito, in una visione religiosa,
come “linguaggio di Dio” (L1) e la scienza come “linguaggio sul linguaggio di Dio”
(come L2).
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ORDINAMENTO GIURIDICO
Il triangolo semiotico, nel linguaggio de scrittivo,
è costituito come segue:
↓
1 significante o segno:
es.: la parola mela
2 significato o concetto
La parola mela veicola il
concetto, l’immagine,
di tutte le mele di
questo mondo
2
1
3 refe rente: il significato di mela
rimanda alle concrete mele come
oggetto
3
Nel linguaggio prescrittivo sembra esserci solo: (1) una serie di segni
(l'enunciato, ad esempio, che suona così: "Se qualcuno uccide è punito con la pena di
morte"); (2) la regola o norma che, come significato della frase sopra trascritta, vieta di
uccidere. La norma (N), quindi, è veicolata dalla disposizione prescrittiva (D).
Per pervenire poi alla norma (N), occorre interpretare (I) la disposizione
prescrittiva (D).
Il viaggio da disposizioni (D) al loro significato (N) passa sempre attraverso
l'interpretazione (I): quindi D I N.
Nel linguaggio prescrittivo si “fanno cose (le norme) con le parole (le
disposizioni)”: non si ha L2 su L1, bensì L (linguaggio) che crea N.
1.2.2. Le norme che costituiscono l'insieme del diritto sono di vari tipi. Si hanno
le norme:
(1) di condotta (es.: "Se rubi sarai punito con la pena x");
(2) di organizzazione o costitutive (tutte le norme che definiscono, costituiscono
la struttura di uno Stato: es.: "L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro"
[art. 1 della Costituzione]; "Il Parlamento si compone della Camera dei deputati e del
Senato della Repubblica" [art. 55 Cost.] eccetera)5;
5
La nozione di regole costitutive (constitutive rules) in contrapposizione alle regole regolanti o
regolative (regulative rules) risale, in specifico, a G. SEARLE (v. Atti linguistici: saggio di
filosofia del linguaggio, Torino, 1992, pagg. 61-71, 238 e segg.). In Italia si sono occupati di
regole costitutive G.CARCATERRA (v.si nel volume "Il linguaggio del diritto" a cura di
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U.SCARP ELLI e P. DI LUCIA , LED, 1994, il saggio Norme costitutive, pagg. 219 e segg.) e,
soprattutto, A.G. CONTE .
Quest'ultimo autore (in Regola costitutiva, condizione, autonomia, in AA.VV. a c ura di
U.SCARP ELLI, La teoria del diritto: problemi e tendenze attuali, Milano, 1983) individua,
nell'ambito delle regole costitutive contrapposte a quelle regolative:
* una prima dicotomia, nel senso che apparterrebbero alla categoria delle regole costitutive, sia:
(a) le regole eidetico-costitutive, che (b) le regole thetico-costitutive
poi
* una seconda dicotomia nel senso che le regole sub (a) si distinguerebbero in:
(a.1) regole eidetico-costitutive deontiche e (a.2) regole eidetico-costitutive ontiche,
successivamente:
* una terza dicotomia nel senso che le regole sub (a.1) si distinguerebbero in (a.1.1) regole
eidetico-costitutive deontiche paradigmatiche e (a.1.2) regole eidetico-costitutive deontiche
sintagmatiche
infine
* una quarta dicotomia nel senso che anche la categoria delle regole sub (a.2) si
suddividerebbero ulteriormente.
Dice A.G. CONTE : «Entro le regole eidetico-costitutive ontiche quali sono trattate da John
R.Searle, io ho segnalato una filosoficamente rilevante eterogeneità.
Il test per rivelare la loro eterogeneità mi è stato ispirato da Searle stesso. Come è noto, le
"constitutive rules" possono ultimamente ridursi alla forma standard 'X counts as Y' (in italiano:
'X ha valore di Y').
Ebbene, è proprio la traduzione in forma standard a rivelare che le "constitutive rules" di Searle
non sono omogenee. Quella regola costitutiva della promessa della quale parla Searle ('To make
a promise is to undertake an obligation) è regola sul valore (sul senso) dell'atto: promessa. Essa
è regola sul valore di assunzione d'un obbligo che la promessa ha. La sua parafrasi nella forma
standard ('X ha valore di Y') è: 'La promessa ha valore (senso) di assunzione d'un obbligo'. In
questa parafrasi, il termine 'promessa' occupa la posizione X.
Invece, quella regola costitutiva dello scacco matto della quale parla Searle ('A checkmate is
made when the king is attacked in such a way that no move will leave it unattacked') non è una
regola sul valore che lo scacco matto ha, ma è regola su che cosa ha valore di scacco matto. La
sua parafrasi in forma standard è: 'Ogni scacco, al quale il re non possa sottrarsi attraverso
alcuna mossa, ha valore di scacco matto'. In questa parafrasi, il termine 'scacco matto' occupa la
posizione Y.
Se ridotte in forma standard, queste due regole appaiono non omogenee. La prima è una Xregola; la seconda è una Y-regola.
Questa mia distinzione tra X-regole ed Y-regole è una distinzione puramente strutturale.
Infatti, è ovviamente possibile una regola, sullo scacco matto, nella quale 'scacco matto' occupi
la posizione X (ad esempio, 'Lo scacco matto ha valore di sconfitta'). E, simmetricamente, è
possibile un regola, sulla promessa, nella quale 'promessa' occupi la posizione Y (ad esempio,
'Dire 'Io prometto di fare p' ha valore di promessa') ».
Nel par. 2 A.G. CONTE rielabora i concetti di regole costitutive (eidetico-costitutive e thetico
costitutive) in "termini di condizione" (trattasi, se non erro, delle suddivisioni di G.M. AZZONI
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(2.1) di riconoscimento (e cioè le norme che permettono di riconoscere che
certe norme appartengono al diritto italiano. Es.: quelle che dicono come entrano in
vigore le leggi [per l'art. 10 delle preleggi al c.c.: "Le leggi e i regolamenti divengono
obbligatori nel decimo quinto giorno successivo a quello della loro pubblicazione"] o
quelle che dicono come muoiono le leggi [per l'art. 15 delle preleggi al c.c.: "Le leggi
non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore o per
incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola
l'intera materia già regolata dalla legge anteriore"]);
(2.2) di interpretazione di norme o metanorme (in quanto norme che hanno ad
oggetto altre norme. Es.: per l'articolo 12 delle preleggi al c.c.: "Nell’applicare la legge
non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio
delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore. Se una
controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle
disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora
dubbio, si decide secondo i princìpi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato"
eccetera).
(Le norme di riconoscimento e di interpretazione appartengono latamente alle
norme di organizzazione);
(3) di azione (consistenti, ad esempio, in comandi o consigli che il potere
legislativo rivolge al potere esecutivo) e di relazione (es.: le norme che disciplinano la
condotta dei vari soggetti dell’ordinamento).
(Le norme di azione appartengono, per certi versi, alle norme di organizzazione
e, per altri, a quelle di condotta. Le norme di relazione sono tipicamente norme di
condotta);
elencate dalla MORTARA GARAVELLI nel volume “ Le parole e la giustizia – Divagazioni
grammaticali e retoriche su testi giuridici italiani”, Einaudi, alle pagg. 74-75 e di quelle,
applicate all'urbanistica, utilizzate da G.MORONI, Urbanistica e regolazione, Franco Angeli
1999, pagg. 129 e segg.).
A.G.CONTE , nel saggio citato distingue ancora le regole anancastiche dalle regole eideticocostitutive deontiche. In un altro saggio (Fenomenologia del linguaggio deontico, in "Il
linguaggio del diritto" cit., pag. 387 e segg.), A.G.CONTE , facendo la storia delle regole
costitutive (v. par. 1.2) e dopo aver ribadito le tradizionali distinzioni nell'ambito delle regole
eidetico-costitutive, a proposito delle regole anankastiche (qui si usa la "k"), parla di regole
stocastiche, regole praxeologiche e regole praxeonomiche.
Distingue, infine, le regole anankastico-costitutive da quelle semplicemente anankastiche, per
poi contrapporre le regole anankastico-costitutive a quelle eidetico-costitutive (par. 3.3).
(Per le problematiche sulle regole costitutive [e relativa bibliografia] si rinvia al volume di C.
ROVERSI, Costituire. Uno studio di ontologia giuridica, Torino, 2012).
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
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DIZIONARIO GIURIDICO
ORDINAMENTO GIURIDICO
(4) primarie e secondarie (nell’ambito delle norme di condotta sarebbe primaria
la prescrizione: “Non uccidere” e secondaria l’altra parte della prescrizione: “Se uccidi
sarai punito”);
(5) programmatiche e immediatamente precettive (le prime, normalmente di
azione, abbisognano dell’intervento di qualche altro potere che provveda ad attuare il
“programma” delineato –il più delle volte genericamente- in dette norme; le seconde già
contengono, invece, un precetto che non ha bisogno di altre ulteriori norme per la sua
applicabilità);
(6) norme tecniche (di recepimento di regole tecniche nei più vari campi: es.:
norme tecniche per l’edilizia) 6;
(7) norme di semplice indirizzo o raccomandazioni (che costituiscono un
“minus” rispetto alle stesse norme programmatiche di cui molte contenute, ad esempio,
nella Costituzione italiana);
(8) inclusive ed esclusive (se ne parlerà sub 1.5.3.).
1.2.3. Si è parlato, sin qui, di norme. Accanto a queste si collocano i “principi”.
Questi, il più delle volte, sono norme inespresse le quali giustificano il ricorso
all’analogia legis e/o iuris (art. 12 delle “preleggi” al c.c.). Come tali non sono che
norme o metanorme. Vi sono però dei principi che costituiscono non delle norme o delle
metanorme, bensì dei valori. Questi non consistono in regole che costituiscono delle
entità o in regole che disciplinano una certa condotta: consistono in entità ideali che
“informano” l’intero ordinamento giuridico. I valori di libertà, di giustizia -seppur dal
significato vago- aiutano a interpretare le norme: si collocano, accanto alle metanorme,
come criteri interpretativi delle norme e fondano l’equità, la “mitezza” dell’ordinamento
giuridico.
L’esistenza dei principi viene evidenziata, il più delle volte, allorquando si ha un
caso concreto che deve essere inquadrato in una qualche norma giuridica. In tal caso è
possibile riportare il caso concreto x nell’ambito di previsione della disposizione
normativa D1 o di quella D2: non solo: normalmente, se si sceglie di riportare x
nell’ambito di operatività di D1, rimane ancora da compiere un’operazione: quella di
attribuire a D1 il significato S1 o S2 (e, quindi, costruire la regola N1 o quella N2).
Nonostante le norme di interpretazione delle norme e/o dei contratti rimane
normalmente dubbio se x va rapportato a D1 o D2, e se a D1, ancora se quest’ultima
disposizione ha il significato S1 o S2. E’ ovvio come, in tali casi, la scelta avviene alla
luce non di norme o di metanorme, bensì di principi (di libertà, di giustizia, di equità
ecc.). Ciò è tanto vero da giustificare teorie generali del diritto che affermano essere il
6
Sulle regole tecniche, v.si G.P.M. AZIONI, Cognitivo e normativo; il paradosso delle regole
tecniche, Angeli 1991, Regole tecniche, Digesto, IV, ed. UT ET , Torino, Vol. XVI, 1997; S.
MORONI, Urbanistica e regolazione, Angeli 1999, 140 e segg.
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diritto oggettivo un insieme di regole strettamente collegate, da un parte, ai fatti
economici e, dall’altra, all’ideologia. E l’ideologia -termine esso pure vago- può, a
seconda dei casi, privilegiare i valori di libertà rispetto a quelli di giustizia (liberalismo
e liberismo) o i valori di giustizia rispetto a quelli di libertà (socialismo e economia
mista) o, ancora, altri valori (quelli religiosi, quelli laici di un certo tipo ecc.).
I principi stanno apparentemente al di fuori dell’ordinamento giuridico in senso
stretto, se questo viene inteso come un insieme strutturato di norme: appartengono
all’ordinamento etico, religioso, culturale, ideologico: però collegano l’ordinamento
giuridico al “resto” dell’attività umana e quindi ne fanno parte rendendo “impuro”
l’ordinamento giuridico 7.
Si può anche dire che i “principi” sono norme “aperte”, mentre le norme in senso
stretto sono “chiuse”.
Dal punto di vista funzionale, le regole giuridiche agiscono nel ragionamento
pratico come ragioni perentorie e indipendenti dal contenuto (la caratterizzazione è
ripresa da HART , 1982). Le regole sono ragioni perentorie (ragioni protette nelle
terminologia di RAZ, 1979, 1990) nel duplice senso che sono ragioni di primo ordine
per compiere l’azione prescritta e ragioni di secondo ordine (ragioni escludenti) per
escludere qualsivoglia decisione del destinatario della norme intorno agli argomenti pro
e contro il compimento dell’azione in questione. Sono inoltre ragioni indipendenti dal
contenuto, poiché il loro carattere perentorio dipende dal fatto che hanno origine o fonte
nell’autorità normativa che le ha promulgate.
Per contro, i principi non sono ragioni perentorie, poiché non escludono ogni
decisione da parte del destinatario della norma; sono solo ragioni di primo ordine, che
indirizzano il corso di azione, ma entrano nella decisione dell’agente insieme con altre
ragioni (altri principi), e che possono pertanto essere superate nel bilanciamento delle
ragioni.
Forse a questo proposito si potrebbe usare un’analogia (ALCHOURRÒN, 1993).
Nell’ambito della filosofia morale, è stato sostenuto che una difficoltà notevole
dell’etica kantiana giace nella sua configurazione dei doveri morali come doveri
assoluti. Così, ad esempio, se c’è un dovere morale di dire la verità, allora in qualunque
circostanza è moralmente obbligatorio dire la verità. In questo caso, il dovere morale di
dire la verità si comporta come una regola, assolutamente opaca (per la distinzione tra
opacità e trasparenza delle regole, si veda REGAN, 1989) di fronte ad altri doveri che
possono entrare in conflitto con il dovere di dire la verità. Non importa ora che questo
dovere sia configurato come categorico (nel particolare senso kantiano). E’ comunque
possibile formulare una regola condizionale che dica pressappoco: “Ogniqualsivolta tu
7
Sui principi: v.nsi: G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, Torino, 1992, 147 e segg.; N. BOBBIO,
Contributi ad un dizionario giuridico ... v. “PRINCIPI” 1994, 257 e segg.; G. ALPA , I principi
generali, Milano Giuffrè, 1993.
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ORDINAMENTO GIURIDICO
faccia un’osservazione, devi dire ciò che credi vero”. Dato che questa posizione pare
insoddisfacente, alcuni filosofi morali (cfr. ROSS , 1930) hanno sostenuto che i doveri
morali sono non doveri assoluti, bensì doveri prima facie, che possono cioè entrare in
conflitto con -ed essere superati da- altri doveri morali. Per esempio: nel 1940, a
Berlino, un tedesco benevolo di classe elevata nasconde in casa un amico ebreo; un
giorno, egli prende il tè con un alto dirigente della Gestapo, e questi gli domanda se per
caso egli sappia qualcosa proprio di quell’ebreo che nasconde; ebbene, una morale che
esigesse dal nostro buon prussiano una risposta sincera ci parrebbe una morale
spregevole. Per questa ragione, il dovere morale di dire la verità è non un dovere
assoluto, ma un dovere prima facie, che si comporta come un principio, del tipo:
“Ogniqualvolta tu faccia un’asserzione, e non vi sia un principio concorrente che superi
il dovere morale di dire la verità (ad esempio, il principio secondo cui si deve
proteggere la vita di un innocente) devi dire ciò che credi vero”.
Questa analogia ci consente di approfondire meglio la differenza logica tra
regole e principi. Le regole possono essere concepite come enunciati condizionali
classici.
I principi, invece, si comportano non come condizionali classici, bensì come
condizionali superabili (defeasible conditionals) che offrono solo ragione di prima facie.
Un sistema di regole è dunque, un sistema di doveri condizionali non superabili.
Un sistema di principi, per contro, è un sistema di doveri condizionali superabili 8.
1.2.4. (a) I principi, nel nostro ordinamento giuridico, sono richiamati
nell’articolo 12 delle “preleggi” al codice civile. Esempi di principi sono quelli della
“intangibilità della persona”, della “tutela della salute”, del “valore della famiglia”, della
“eguaglianza dei coniugi”, della “tutela dei minori”, della “tutela della proprietà”, della
“libertà contrattuale”, del “rischio di impresa” eccetera. A volte i principi sono espressi
con brocardi latini: “fraus omnia corrumpit”, “mala fides superveniens non nocet”,
“servitus in faciendo consistere nequit”, “Pacta sunt servanda”, eccetera 9.
(b) Nell’ordinamento comunitario, si possono menzionare i seguenti principi:
(b.1) I principi generali di diritto relativi a ogni sistema giuridico, in particolare
quelli comuni desunti dagli ordinamenti degli Stati membri e recepiti nell’ordinamento
comunitario, che rappresentano il comune sostrato giuridico dell’ordinamento integrato:
* principio di legalità, rispetto dei diritti della difesa e diritto al contraddittorio;
* rispetto della riservatezza;
* certezza del diritto (il quale impone che, tanto le norme comunitarie quanto le
norme degli Stati membri, nelle materie disciplinate dal diritto comunitario, devono
8
J.J. MORESO, Come far combaciare i pezzi del diritto, in Analisi e diritto 1997, Torino,
1998, 81.
9
G. ALPA, op. cit.
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essere formulate in modo non equivoco al fine di consentire ai soggetti interessati di
conoscere i loro diritti e obblighi in modo chiaro, preciso e prevedibile);
* non retroattività degli atti amministrativi;
* rispetto dei diritti quesiti;
* buona fede (che si impone anche alle istituzioni);
* legittimo affidamento (secondo cui gli amministrati devono poter contare sul
mantenimento di una situazione giuridica di fronte a una sua modifica improvvisa che
non potevano ragionevolmente aspettarsi, oppure quando il comportamento
dell’istituzione ha fatto sorgere nell’interessato un’aspettativa ragionevolmente fondata
o rispetto a una prassi nazionale non conforme al diritto comunitario);
* arricchimento senza causa;
* forza maggiore;
* proporzionalità (per cui la sanzione di un obbligo comunitario deve essere
appropriata e necessaria per raggiungere il fine perseguito; e in caso di misure
alternative sia adottata quella che impone oneri minori).
(b.2) I principi generali propri del diritto comunitario, attinenti in modo specifico
a questo ordinamento, ricavati cioè in modo autonomo dal sistema dei testi scritti, in
quanto ritenuti espressione di regole più generali, o desunti dalla stessa natura, struttura
e finalità dell’Organizzazione:
* solidarietà (che lega gli Stati membri e alla quale essi devono uniformare i
loro comportamenti);
* leale cooperazione (che impone agli Stati membri di assicurare l’esecuzione
degli obblighi derivanti dal diritto comunitario e astenersi da qualsiasi misura che possa
compromettere la realizzazione degli scopi del Trattato);
*
responsabilità dello Stato membro (per danni derivanti agli individui dalla
violazione ad esso imputabile di un obbligo comunitario);
* preferenza comunitaria (che, tuttavia, trova applicazione solo nei limiti delle
finalità del Trattato);
* equilibrio istituzionale;
* mutuo riconoscimento;
* effetto diretto, effetto utile (che impone un’applicazione dell’atto comunitario
funzionale al raggiungimento della finalità perseguita);
* libertà di circolazione delle persone e libero esercizio delle attività
professionali;
* libertà di concorrenza e di esercizio delle attività economiche (che può
tuttavia trovare limitazioni giustificate dal perseguimento di un interesse generale della
Comunità);
* non discriminazione e parità di trattamento, (definito “uno dei principi
giuridici fondamentali della Comunità”, tanto in ragione della nazionalità, che del
sesso);
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* uguaglianza (che vieta di trattare in modo diverso situazioni simili o
viceversa);
* libertà di religione;
* libertà di espressione e di informazione;
* libertà di circolazione e di associazione;
* inviolabilità del domicilio (che tuttavia non può essere invocato per tutelare
l’inviolabilità dei locali commerciali);
* diritto di proprietà (che può tuttavia incontrare dei limiti in funzione
dell’interesse generale);
* rispetto della vita privata e del segreto professionale;
* diritto alla tutela giurisdizionale;
* diritto a un giusto processo;
* non retroattività delle norme penali e riserva della retroattività della legge
penale più favorevole;
* rispetto dei diritti della difesa;
* non discriminazione in ragione del sesso10.
1.2.5. Il diritto comprende anche le definizioni. Queste possono atteggiarsi in
due maniere: (1) o consistono in norme di condotta che rinviano a regole tecniche (es.:
“Per costruire un ponte devi servirti delle regole tecnico-matematiche del tipo x”); (2) o
consistono in regole convenzionali del tipo: “L’ente a è un ente pubblico economico”.
Nel primo caso si ha una normale regola di condotta che incorpora una regola tecnica
(es.: la normativa tecnica relativa alle varie costruzioni in cemento armato, in legno, in
ferro eccetera). Nel secondo caso la definizione parrebbe essere una norma costitutiva
del tipo: “L’ente pubblico economico è quell’ente pubblico con le proprietà x, y e z e
l’ente a è un ente pubblico economico”. Se, allora, le definizioni giuridiche sono
norme 11 non hanno una autonomia loro propria.
1.3. Il diritto e la sanzione
Il diritto, per quanto concerne le norme di condotta, all’interno del linguaggio
prescrittivo, si distingue dalla morale, dal costume eccetera, per la presenza di sanzioni.
Potremmo dire “che carattere delle norme è di essere norme, in confronto di
quelle morali e sociali, a efficacia rafforzata. Tanto è vero che le norme giuridiche per
eccellenza sono considerate quelle statuali, che si distinguono da tutte le altre norme
regolanti la nostra vita perché hanno il massimo di efficacia” 12.
10
da Trattato di diritto amministrativo europeo, diretto da M. CHITI e G. GRECO , Milano 1997,
I, 49 e segg.
11
Ma la questione è molto dubbia: v.si: G. T ARELLO , L’interpretazione della legge, Milano,
1980, 153 e segg.
12
N. BOBBIO , Teoria della norma giuridica, Torino, p. 199-200.
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Normalmente le norme di condotta (e cioè le regole dell’agire umano) dicono
che una certa azione (p) è “obbligatoria” (Op = è obbligatorio p), o è “vietata” (O non p
= è obbligatorio che non sia p, o è vietato p) o è “permessa” (Pp = è permesso p o P non
p = è permesso non fare p) o è giuridicamente “libera” (Pp e P non p = P e non p sono
entrambi permessi, ovvero p è giuridicamente libero in quanto indifferente al mondo del
diritto).
Quando una norma “obbliga” a fare o “vieta” di fare, accompagna la
prescrizione con una “sanzione”: es.: “Se non fai ciò che ti è comandato, subisci la
sanzione x”, ovvero: “Se fai ciò ti è vietato fare, allora subisci la sanzione x”. (Da qui la
struttura delle norme di condotta: “Se p [se non fai p “comandato” o se fai p “vietato”],
allora q [subisci q come sanzione])”.
Da qui, secondo alcuni teorici, il fatto che il diritto è costituito da norme
primarie e secondarie. Ogni norma “di condotta ... parrebbe scindersi in due norme: la
direttiva rivolta al privato di attenersi a un certo modello di comportamento e la direttiva
rivolta al giudice di esercitare la propria autorità in caso di trasgressione del privato”13.
1.4. Vari punti di vista dai quali studiare il diritto
Il diritto è oggetto di studi: (a) storici (es.: storia del diritto romano, italiano,
continentale [civil law], anglosassone [common law], eccetera); (b) filosofici (ci si
domanda se il diritto, ad esempio, appartiene alla categoria del “dover essere” [in
contrapposizione a quella dell’”essere”], quali sono i criteri per giudicare se le norme
del diritto sono “giuste” [teoria della giustizia]); (c) esegetici (si studia il diritto per
quello che è a prescindere da “giudizi di valore”; si studia il diritto come prodotto,
discorso, del “legislatore”); (d) così come può essere oggetto di teorie generali (si
costruiscono delle teorie generali che avrebbero la pretesa di essere valide per ogni tipo
di diritto. Es.: la teoria dell’ordinamento giuridico o, più in specifico, la teoria dell’atto
giuridico, del negozio giuridico, del contratto, dell’atto amministrativo, del
procedimento [negoziale o amministrativo]); (e) o di indagini sociologiche (si studia se
e in che limiti un certo diritto viene applicato), eccetera 14.
13
E. PATTARO , Lineamenti per una teoria del diritto, CUEB Bologna, 1990, p. 362.
(a) Per gli studi storici, a parte le varie storie del diritto romano, v.si: M.ELIA , Origini e
funzione del diritto, ERI, 1972; F.SCHULTZ, Storia della giurisprudenza romana, Sansoni, 1953;
G.ASTUTI, La formazione dello Stato moderno in Italia, Lezioni di storia del diritto italiano,
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Mulino 1996; A.WATSON, La formazione del diritto civile, Il Mulino 1986; S.M. KELLY, Storia
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G. GILMORE , Le grandi epoche del diritto americano, Giuffrè 1991; P.STEIN , I fondamenti del
diritto europeo, Giuffrè, 1997.
14
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(b) Per i rapporti con la filosofia -a parte le opere più propriamente filosofiche, nelle quali,
forse, non v'è pensatore che non si sia occupato del diritto (compreso M.HEIDEGGER: v.si, ad
es.: S.BANCALARI, L'altro e l'esserci. Il problema del Mitsein nel pensiero di Heidegger, in
Archivio di Filosofia, Cedam, 2000, pagg. 9 e segg.)- vi è da premettere che le tematiche più
propriamente filosofiche sono costituite da teorie sulla giustizia e da teorie generali del diritto.
(i) Sul primo versante, si segnalano: N.BOBBIO , Teoria della giustizia, Torino; H.KELSEN, Il
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Diritto e giustizia, Einaudi 1958; J. RAWLS, Una teoria della Giustizia, Feltrinelli, 1984;
B.BARRY , Teorie della giustizia, Il Saggiatore, 1996.
(ii) Sul secondo versante, si segnalano: H.KELSEN , La dottrina pura del diritto, Einaudi, 1966;
Teoria generale del diritto e dello Stato ETas Libri, 1966; Socialismo e Stato, De Donato,
1978; Teoria generale delle norme, Einaudi, 1985 (e su Kelsen: M. LOSANO , L'evoluzione della
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maggioranza] che a quelli c.d. continentali [secondo la classificazione di F.D'AGOSTINI,
Analitici e continentali. Guida alla filosofia degli ultimi trent'anni, R.Cortina Ed., 1997]. Per un
confronto tra le due correnti di pensiero nell'ambito della filosofia del diritto, v.si: AA.VV. [M.
JORI a cura di], Ermeneutica e filosofia analitica. Due concezioni del diritto a confronto,
Giappichelli, 1994). Si se gnalano, poi, i 10 volumi a cura di P.COMANDUCCI e R.GUASTINI,
intitolati Analisi e diritto, ricerche di giurisprudenza analitica, Giappichelli (anni 1990-1999).
(b.1) Per la storia della filosofia del diritto -a parte studi specialistici (O.VON GIERKE , Giovanni
Althusins e lo sviluppo storico delle teorie politiche giusnaturalistiche, Einaudi, 1974;
H.W ETZEL, La dottrina giusnaturalistica di Samuel Pufendorf, Giappichelli, 1993; N.BOBBIO,
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Non solo: Il diritto è stato (e continua ad essere) studiato in paragone con la
matematica (costruzione del diritto more geometrico), con l'informatica, con la logica
(sotto il duplice aspetto della logica deontica o delle norme e della logica giuridica o
del ragionamento giuridico), con la retorica, con l'economia (per il marxismo il diritto è
un aspetto sovrastrutturale dei rapporti economici; attualmente, poi, i rapporti diritto vs.
economia sono oggetto di particolari studi negli USA), con la fisica (in particolare con
la termodinamica: come "l'entropia è solitamente concepita come una misura del
disordine e la seconda legge della termodinamica stabilisce che i sistemi possono
soltanto procedere a uno stato di crescente disordine, col passare del tempo l'entropia
non può mai diminuire", così "la legislazione più si sviluppa e più diventa caotica"),
con la letteratura (sotto il duplice aspetto di law in Literature e Law as Literature e cioè
non solo come il diritto viene visto in opere letterarie [in Dickens, ad esempio], ma
come insieme di testi interpretabili con gli stessi metodi con i quali si interpreta un testo
letterario: negli USA, ad esempio, diversi autori "sottolineano il ruolo educativo della
letteratura nella formazione dei giuristi e si pronunciano a favore dell'introduzione
della materia del diritto e letteratura nel programma di studi della facoltà di
giurisprudenza"), con il linguaggio (dal punto di vista sintattico, semantico e
Teorie sovietiche del diritto, Giuffrè, 1964; U.CERRONI, Il pensiero giuridico sovietico, Ed.
Riuniti, 1969; Marx e il diritto moderno, Ed. Riuniti, 1962; M.LOSANO , La teoria di Marx e
Engels sul diritto e sullo Stato, CLUT, To 1969; G.GUASTINI, Marx dalla filosofia del diritto
alla scienza della società, Il Mulino, 1974; D.CAMPANALE , Il diritto naturale tra metafisica e
storia, Leibeniz e Vico, Giappichelli, 1988; D.COCCOP ALMERIO , Francesco Carnelutti. Il
"realismo giuridico italiano", ESI, 1989; M.A.CATTANEO , Metafisica del diritto e ragione
pura. Studio sul "platonismo giuridico" di Kant, Giuffrè, 1984; R.C.VAN CAENEGEM, I signori
del diritto. Giuristi stranieri di oggi, Giuffrè, 1991; E.STEIN , Un nuovo diritto per l'Europa,
Giuffrè, 1991 - v.nsi: G.FASSÒ, Storia della filosofia del diritto, 4 Volumi, Il Mulino, 1968;
A.DE GENNARO , Introduzione alla storia del pensiero giuridico, Giappichelli, 1979.
(b.2) Per il formarsi, in Italia, del paradigma pandettistico, v.nsi gli scritti contenuti nella
Rivista trimestrale di diritto pubblico, Giuffrè 1989 (dedicati a Vittorio Emanuele Orlando) e
P.GRASSI, Scienza giuridica italiana un profilo storico 1860-1950, Giuffrè, 2000.
(c) Per la scuola dell'esegesi, v.si: G.T ARELLO, La "scuola dell'esegesi" e la sua diffusione in
Italia, in Scritti per il XL della morte di P.E. Benso, Milano, 1969.
(d) Per studi sociologici del diritto. V.si R.T REVES, Sociologia del diritto, Einaudi, 1987;
CASTELLANO - E.RESTA , Le ipotesi della sociologia del diritto, Laterza 1972; R.BETTINI, Nel
diritto amministrativo, F.Angeli, 2000; N.BOBBIO, Pareto e il sistema sociale , Sansoni 1973;
P ACE – PALOMBA , L'efficienza della giustizia in Italia e i suoi aspetti economico-sociali,
Laterza 1968; E.POGGI, La vicenda dello stato moderno. Profilo sociologico, Il Mulino, 1978,
Sociologi; nonché la rivista "Sociologia del diritto", FAE Riviste Srl, Milano.
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pragmatico), con il denaro, con la teologia, con il gioco, con la morale, con la politica,
eccetera 15.
15
(a) Per i rapporti tra diritto e matematica, si riporta quanto scrive E.CASSIRER (La filosofia
dell'illuminismo, La Nuova Italia, 1973, pagg. 329 e segg.): "Come per Platone la filosofia del
diritto sorge da un reciproco rapporto di diritto ed etica, così il problema del diritto si congiunge
nella mente di Ugo Grozio col problema della matematica. Questa sintesi è tipica delle direttive
fondamentali del secolo XVII. La matematica costituisce sempre il tramite e lo strumento
spirituale per la ricostruzione dell’ “ idea” platonica. Non solo la scienza naturale, ma anche le
scienze dello spirito si sono incamminate per questa via. Certo però questo collegamento
metodico contiene per la scienza del diritto una conseguenza a prima vista pericolosa e
sommamente paradossale. Sembra infatti che ciò che il diritto acquista ora dal punto di vista
puramente ideale, debba perdere in quanto riguarda la sua “realtà”, la sua applicazione empirica.
Esso passa dall’effettivo, dal reale e attivo, al “possibile”. Il Leibniz non fece altro che trarre la
precisa conseguenza da un pensiero fondamentale di Ugo Grozio, quando dichiarò che la
scienza del diritto è tra quelle discipline che non dipendono da esperienze, ma da definizioni,
non da fatti, ma da dimostrazioni puramente logiche. Infatti ciò che sono in sé il diritto e la
giustizia non può esser desunto dall’esperienza. L’uno e l’altra contengono il concetto di una
concordanza, di una proporzionalità, di un’armonia, che sarebbe valida, anche se non fosse mai
realizzata concretamente in alcun singolo caso; anche se non esistesse nessuno che eserciti la
giustizia e nessuno verso il quale sia esercitata. Il diritto è in questo riguardo pari all’aritmetica
pura: ciò che questa ci insegna circa la natura dei numeri e le loro relazioni racchiude una verità
eterna e necessaria, una verità che rimarrebbe intatta, anche se perisse tutto il mondo empirico,
se esistesse quindi più nessuno che conta in realtà e non esistessero più oggetti da contare. Alla
similitudine e alla medesima analogia metodica ricorre anche il Grozio nella prefazione della
sua massima opera. Egli vi afferma esplicitamente che le sue deduzioni circa il diritto della
guerra e della pace non mirano affatto a trovare una soluzione sicura soltanto per determinate
questioni concrete, soltanto per problemi della politica attuale. In queste discussioni lasciò anzi
da parte, dice, tutti i riguardi di questo genere: allo stesso modo che il matematico suol
considerare le figure che sta esaminando del tutto separate da ogni materia corporea. Nel
successivo sviluppo delle dottrine riguardanti il diritto naturale si acuisce ancora questa
matematizzazione del diritto. Il Pufendorf sostiene che, per quanto l’applicazione dei principi
del diritto naturale a determinate questioni concrete possa far sorgere parecchi dubbi, non se ne
deve trarre la conclusione che questi principi, in quanto tali, includano qualche difetto di
evidenza: essi sono invece suscettibili della stessa evidenza che hanno gli assiomi, puramente
matematici. Se il diritto naturale mette così in relazione tra loro il diritto e la matematica, lo fa
perché considera entrambi come simboli di una stessa facoltà fondamentale. Esso vede in loro le
più importanti testimonianze della normatività e della spontaneità dello spirito. Come lo spirito
è capace di edificare, con le proprie forze, in base alle proprie “ idee innate”, l’ambito della
quantità e del numero, così ha anche la facoltà creatrice di costruire e di edificare sul terreno del
diritto. Anche qui può e deve incominciare da norme originali che attinge da sè stesso e
procedere da queste verso la formazione del particolare. Soltanto per questa via può infatti
elevarsi al di sopra della contingenza, della dispersione e dell’esteriorità dei soli fatti, può
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conquistare un sistema del diritto, nel quale ogni cosa contribuisce a formare l’intero e ogni
risoluzione, riceve dall’intero la sua sanzione e la sua conferma. Perché questa tesi
fondamentale del diritto naturale potesse imporsi, bisognava superare due ostacoli e abbattere
due potenti avversari. Da un canto il diritto doveva mantenere la sua originalità e la sua
autonomia spirituale di fronte al dogma teologico e sottrarsi alla sua stretta pericolosa; d’altra
parte bisognava determinare e delimitare chiaramente la sfera del diritto da quella dello Stato e
proteggerla nel suo carattere particolare e nel suo valore di fronte all’assolutismo statale. Su
questi due fronti si combatte la guerra per i fondamenti dei diritto naturale moderno. E la si deve
combattere tanto contro la concezione teocratica, contro la derivazione del diritto da una volontà
divina semplicemente irrazionale, impenetrabile e inaccessibile alla ragione umana, quanto
contro lo “ Stato Leviathano”. In tutti e due i casi si tratta di scalzare e superare il medesimo
principio, la tesi dello «stat pro ratione voluntas». A questa tesi si era appellato Calvino per
mostrare che ogni diritto si fonda infine sulla potenza divina, che questa stessa però è
incondizionata, non soggetta a regole e norme limitative. Il nocciolo della dogmatica
calvinistica, soprattutto il dogma centrale della predestinazione, è racchiuso in questo pensiero:
esso contiene la salvezza e la dannazione. Non sì può indagare la ragione o il diritto della
decisione divina la salute dell’anima: il solo quesito significherebbe un’arroganza delittuosa,
un’elevazione della ragione umana al di sopra di Dio stesso. La potenza assoluta di Dio ripudia
la maggior parte dell’umanità, mentre salva e innalza un piccolo numero di eletti; questo e
quello avvengono senza alcun riguardo al merito o alla dignità morale. Da questo problema
religioso si è sviluppato il problema filosofico del diritto naturale. Il Grozio è il vero precursore
spirituale di quel movimento che, nei Paesi Bassi, sotto la guida del vescovo Arininio, si oppose
al dogma calvinistico della predestinazione. Questa sua difesa degli Arminiani e dei
“ Rimostranti” ebbe non solo gravi conseguenze per la sua vita personale (dopo la condanna
della dottrina di Arminio nel Sinodo di Dordrecht egli fu spogliato delle sue cariche e gettato in
carcere), ma segnò anche l’indirizzo di tutta la sua attività scientifica e letteraria. Egli si trova
esattamente allo stesso punto si era trovato Erasmo: egli prende le difese dell’idea umanistica di
libertà contro la tesi della “ non libertà della volontà”, propugnata nuovamente dai Riformatori,
da Calvino e Lutero. Se non che si vede indotto a combattere contemporaneamente contro un
altro avversario. Come si oppone all’onnipotenza di Dio, deve opporsi all’onnipotenza dello
Stato, di questo “ Dio mortale”, come lo chiama con frase efficace e caratteristica il Hobbes. Il
Grozio si trova qui di fronte ad una concezione specificamente moderna, la quale andava
guada gnando terreno continuamente dal Rinascimento in poi. Dopo il “Principe” del
Machiavelli e la “ Repubblica” del Bodin la teoria che il possessore del supremo potere statale
non sia sottomesso ad alcuna condizione e limitazione giuridica, si era imposta sempre più. Di
fronte alle due tendenze il diritto naturale propugna come suo principio supremo la tesi che
esiste un diritto precedente ad ogni potere divino e umano, e da esso indipendente. Il contenuto
del concetto di diritto in quanto tale non si fonda sulla sola sfera del potere e della volontà, ma
sulla sfera della ragione pura. Nessuna sentenza autoritaria può modificare o togliere alcunché
da ciò che questa ragione ha concepito come «esistente», da ciò che è dato nella sua pura
essenza. La legge, nel suo significato primario e primitivo; nel senso di «lex naturalis», non è
mai scindibile in una somma di meri atti arbitrari. Essa non è soltanto l’insieme delle
prescrizioni, ma è ciò che prescrive in origine: è “ ordo ordinans», non “ ordo ordinatus». Non c’è
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dubbio che il concetto perfetto della legge presupponga un comandamento rivolto alle singole
volontà. Se non che questo comandamento non crea l’idea del diritto e della giustizia, ma
sottostà a questa idea; la mette in esecuzione attuale; non si deve però confondere questa
esecuzione con la motivazione dell’idea giuridica in quanto tale. Queste basi che il GROZIO
stabilisce nei prolegomeni alla sua opera “De jure belli ac pacis” presentano con la massima
purezza il platonismo del diritto naturale moderno. Come il demiurgo platonico non è il creatore
delle idee, ma forma il mondo della realtà in base ad esse, in quanto originali eterni e non creati:
così si dica, secondo l’idea del Grozio, per la formazione e l’ordine entro la comunità giuridicostatale. Promulgando i suoi singoli comandamenti positivi il legislatore ha di mira una norma
che è di validità universale e impegnativa tanto per la sua propria volontà quanto per quella di
tutti gli altri. In questo senso va inteso il celebre detto del Grozio che le tesi del diritto naturale
conserverebbero il loro valore, anche se si supponesse che non esiste un Dio o che la divinità
non si cura delle cose umane). Queste parole non intendono assolutamente scavare un abisso fra
la religione da una parte e il diritto e la moralità dall’altra. Il Grozio infatti è con tutta la sua
mentalità un pensatore profondamente religioso: il rinnovamento morale, la reformatio della
religione non gli stanno a cuore meno che la motivazione spirituale e l’approfondimento
dell’idea del diritto. Le parole che, anche senza ammettere l’esistenza divina, possa e debba
esistere un diritto non vanno quindi intese come tesi, ma soltanto come ipotesi. Considerate
infatti come affermazione significherebbero certamente, come il Grozio stesso soggiunge, un
sacrilegio e un’assurdità. Come pura “ ipotesi”, nel senso platonico della parola, servono invece,
entro la sfera religiosa, che il Grozio considera ancora come perfetta unità (è lontana da lui la
separazione che vi compì più tardi il secolo XVIII), a delimitare tra loro con chiarezza le singole
competenze. Il diritto non è valido perché esiste un Dio, né lo si può, appoggiare a una
qualunque esistenza sia empirica sia assoluta. Esso proviene dalla pura idea del bene, da
quell’idea che, come aveva detto Platone, sopravanza tutto il resto, per forza ed età. Questa
“trascendenza” dell’idea dei diritto che innalza il bene e il giusto al di sopra di ogni essere, che
non ci concede di fondare il suo significato su qualche essere, è predicata continuamente dal
Grozio. E appunto in ciò, non già nella “ scoperta” del diritto naturale, consiste il suo vero
merito storico e filosofico. Anche il Medio Evo cristiano aveva tenuto alto il pensiero del diritto
naturale, preso nelle sue linee essenziali dalla Stoa. La teoria scolastica conosce accanto alla
“ lex divina” una propria e relativamente autonoma sfera della «lex naturalis ». Il diritto non è
subordinato interamente alla rivelazione né derivato da questa soltanto; si propugna invece una
moralità naturale e una naturale conoscenza giuridica che la ragione avrebbe conservato anche
dopo il peccato originale, e che si considera come la premessa necessaria e il punto di partenza
della ricostruzione, soprannaturale e basata sulla grazia divina, della perfetta conoscenza dello
stato primitivo. Ma ciò nonostante il Medio Evo non poteva ammettere un diritto proprio della
“ lex naturalis”, come non poteva ammettere un diritto proprio della “ ragione naturale”. La
ragione rimane l’ancella della rivelazione (tamquam famula et ministra). Nella cerchia delle
energie naturali spirituali e psichiche essa deve avviare alla rivelazione e contribuire a
prepararle il terreno. La legge naturale è quindi subordinata alla legge divina anche dove la si
ammette su una scala relativamente vasta: Tommaso d’Aquino dichiara l’una e l’altra emani
dell’essenza divina, l’una destinata a scopi terreni, l’altra fondata dalla rivelazione per scopi
ultraterreni. Il Grozio supera in questo caso la scolastica più nel metodo che nel contenuto. Si
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tratta di raggiungere nel campo del diritto ciò che il Galilei aveva raggiunto nel campo della
conoscenza della natura. Si tratta di trovare una fonte della conoscenza giuridica che non
scaturisca dalla rivelazione divina, ma si affermi in sé stessa, sua propria “ natura”, e in virtù di
questa si tenga lontana da ogni turbamento e da ogni mistificazione. Come il Galilei afferma e
propugna l’autonomia della conoscenza fisico-matematica, così il Grozio combatte per
l’autarchia della conoscenza del diritto. Il Grozio stesso, a quanto pare, vide chiaramente questo
nesso ideale: egli è pieno di ammirazione per il Galilei e in una lettera lo chiama il più grande
genio del secolo. Nella vita spirituale del secolo XVII il concetto e la parola di “natura”
comprendono due gruppi di problemi che oggi si sogliono considerare separati, e ne fanno
un’unità. Le “ scienze naturali” non vengono ancora messe di fronte alle “ scienze dello spirito” e
men che meno opposte a loro per quanto riguarda la qualità e il valore. “ Natura” non significa
infatti l’ambito del mero essere « fisico », dal quale si debba distinguere ciò che è psichicospirituale; non indica il «materiale» rispetto allo «spirituale». Questa parola non riguarda un
essere di cose, ma mira all’origine e alla motivazione di verità. Alla «natura» appartengono tutte
le verità che sono suscettibili di una motivazione puramente immanente, che non hanno bisogno
di una rivelazione trascendente, ma sono per sè certe ed evidenti. T ali verità non si chiedono
ora, soltanto per il mondo fisico, ma anche per il mondo etico-spirituale: esse infatti fanno di
entrambi un vero «mondo», un cosmo che ha le sue basi e il suo centro di gravità sè stesso.
Anche il secolo XVIII si attiene scrupolosamente a questo pensiero. Il Montesquieu incomincia
come empirico indagatore della natura, e per questa via si vede guidato verso il suo vero
problema, verso l’analisi delle istituzioni giuridico-politiche. Come giurista egli formula la
stessa questione che il Newton aveva formulato come fisico: non vuol accontentarsi delle leggi
del cosmo politico conosciute soltanto empiricamente, ma limitare e riportare la molteplicità di
queste leggi a pochi principi determinati. Il fatto che esiste un tale ordine, che esiste una tale
sistematica dipendenza fra le singole norme, costituisce secondo lui lo «spirito delle leggi». Può
quindi incominciare la sua opera con un’interpretazione del concetto di legge considerandolo in
tutta la sua vastità, nel suo significato universale non limitato a nessun campo particolare di
fatti. “ Les lois dans la signification la plus étendue», dichiara, “ sont les rapports nécessaires qui
dérivent de la nature de choses”. Una tale “natura delle cose” esiste nel possibile come nel reale,
nel pensato come nell’effettivamente esistente, nel fisico come nel morale. L’eterogeneità dei
fatti non ci deve mai trattenere dal ricercare la nascosta uniformità; il contingente non ci deve
mai far disperare del necessario nè chiuderci la via alla conoscenza del necessario. In base a
questo pensiero il Montesquieu ripetè esplicitamente (già nelle «Lettres Persanes») il principio,
sul quale il Grozio aveva fondato il diritto naturale. La giustizia è un determinato rapporto (un
rapport de convenance): e questo rapporto rimane sempre uguale, non conta quale soggetto lo
concepisca, non conta se sia contemplato da Dio o da un angelo o da un uomo. E siccome la
volontà di Dio è sempre conforme alla sua conoscenza, è impossibile che egli pecchi contro le
norme eterne del giusto da lui riconosciute. Anche se Dio non esistesse, dovremmo dunque
amare la giustizia e far di tutto per essere uguali a un Ente, del quale abbiamo un’idea così
elevata, a un Ente che, se esiste, dev’essere necessariamente giusto. Anche essendo liberi dal
giogo della religione, saremmo ciò nonostante soggetti al dominio della giustizia. Il diritto ha la
sua struttura oggettiva che nessun arbitrio può modificare, allo stesso modo che la matematica
ha la sua. “ Avant qu’il y eut des lois faites, il y avait des rapports de justice possibles. Dire qu’il
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n’y a rien de juste ni d’injuste que ce qu’ordonnent ou dèfendent le lois positives, c’est dire
qu’avant qu’on eut tracé des cercles, tous les rayons n’étaient pas égaux”.
A questo “ apriorismo” del diritto, a questo postulato che esista e debba esistere una quantità di
norme giuridiche immutabili e universalmente impegnative, la filosofia dell’illuminismo si
attiene, in un primo tempo, interamente.
- (a1)Sempre in ordine ai rapporti tra diritto e matematica/logica, N.BOBBIO (Contributi ad un
dizionario giuridico, v. "Logica giuridica", Giappichelli, 1994) asserisce: "Per mostrare quanto
il destino della scienza giuridica sia stato connesso, nel pensiero occidentale, allo sviluppo della
logica, mi limiterò ad esaminare qui tre momenti o concezioni giuridiche, in cui la stretta
parentela tra diritto e logica, in varie combinazioni e significati, è un elemento essenziale per la
individuazione del loro contenuto e del loro valore storico: 1) il giusnaturalismo moderno; 2) la
giurisprudenza dei concetti, in cui talora si fa confluire l’intero movimento della pandettistica;
3) il formalismo neo-kantiano, di cui il normativismo è la più importante filiazione. L’ideale del
giusnaturalismo moderno, che è un aspetto del generale movimento razionalistico in filosofia, è
la costruzione di una giurisprudenza geometrico more demonstrata. Si pensi a Hobbes: sin dalle
prime pagine del De cive, Hobbes contrappone gli studiosi della geometria che «hanno ben
coltivato il loro campo» ai filosofi morali, i cui scritti sino ad oggi «sono serviti ben poco alla
conoscenza della verità». Egli parte dal presupposto tipico di ogni razionalismo etico che i
peggiori malanni di cui soffre l’uomo, come la guerra, sarebbero definitivamente debellati «se si
conoscessero con egual certezza le regole delle azioni umane come si conoscono quelle delle
grandezze in geometria». Il suo scopo è quello di costruire una teoria razionale del diritto, cioè
una scienza, come egli si esprime, «derivata con nessi evidenti da princìpi veri». Vi è un curioso
passo nel cap. XIV del De cive, in cui dopo aver definito la legge naturale, aggiunge: “ Questa è
la legge che ho tentato di esaminare in tutto questo libro”. Si capisce da queste parole che
Hobbes vuoi presentare la sua opera come un trattato di diritto naturale, perché solo partendo
dalle leggi naturali, considerate come dettami della retta ragione, si può tentare di costruire un
sistema razionale, in cui tutte le proposizioni del sistema siano riconducibili a d alcuni postulati
iniziali. Non si può dire che Hobbes abbia condotto molto avanti questo tentativo e si sia data
molta pena per derivare una legge dall’altra. Ma l’intenzione è chiara sin dalle prime battute:
della ventina di leggi naturali che egli enuncia, ve n’è una fondamentale e le altre sono o
pretendono di essere derivate da quella con metodo deduttivo. Alla fine della enumerazione, si
esprime in questo modo: «Quelle che chiamiamo leggi di natura non sono altro che una specie
di conclusione tratta dalla ragione in merito a quel che si deve fare o tralasciare». Nel Leviatano
precisa «conclusioni o teoremi». E’ noto che Pufendorf, prima di scrivere l’opera maggiore (De
iure naturae et gentium, 1672), aveva composto, per consiglio del suo maestro di matematica,
Erhard Weigel (che fu anche maestro di Leibniz) un’opera, poi superata ma non ripudiata, che
avrebbe dovuto esporre la materia del diritto naturale in forma dimostrativa, valendosi di queste
partizioni: 1) Definitiones; 2) Principia; 3) Propositiones seu conclusiones. Ma anche
nell’opera maggiore non rinuncia a questo ideale di matematizzazione Nel cap. II De certitudine
disciplinarum, quae circa moralia versantur, prende netta posizione contro la tesi tramandata
per l’autorità di Aristotele, secondo cui le scienze morali non sono scienze dimostrative. Dopo
aver dato della dimostrazione la seguente definizione: «Rerum propositarum certitudinem
necessariam e certis principiis tamquam suis causis indubitato cognoscendam syllogistice
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deducere», afferma che la scienza morale, che si accinge a esporre, «omnino eiusmodi
fundamentis nititur, ut exinde genuinae demonstrationes, quae solidam scientiam parere sint
aptae, deduci queant». Qual fosse l’importanza che Leibniz annetteva alla logica per lo studio
della giurisprudenza è stato detto e ripetuto, anche se questo settore delle ricerche leibniziane,
nonostante la minuziosa opera di Grua, rimane quasi completamente inesplorato. Ci limitiamo a
due citazioni, scelte in scritti di anni lontani, che ci sembrano tra le più significative e le più
intransigenti nei confronti dell’ideale del sistema giuridico come sistema deduttivo: «Da
qualsiasi definizione si possono trarre conseguenze sicure, impiegando le incontestabili regole
della logica. Questo è precisamente quanto si fa costruendo le scienze necessarie e dimostrative,
che non dipendono dai fatti, ma unicamente dalla ragione, quali la logica, la metafisica,
l’aritmetica, la geometria, la scienza del movimento, nonché la scienza del diritto; le quali non
sono punto fondate sull’esperienza e sui fatti, ma servono piuttosto a rendere ragione dei fatti e
a regolarli in anticipo; ciò che varrebbe, per il diritto, quand’anche non esistesse al mondo
neppure una legge». «La teoria del diritto è del numero di quelle che non dipendono da
esperimenti, ma da definizioni; non da ciò che mostrano i sensi, ma da ciò che dimostra la
ragione; e sono, per così dire, di diritto e non di fatto. Poiché infatti la giustizia consiste in una
certa convenienza e proporzionalità, si può comprendere che qualcosa sia giusta quand’anche
non esista alcuno che possa far valere la giustizia o su cui la si possa far valere; allo stesso modo
che i rapporti aritmetici sono veri, anche se non vi sia chi numeri né vi siano cose da numerare
... per cui non c’è da stupirsi che i principi di queste scienze abbiano valore di verità eterne:
poiché essi sono tutti condizionali, e non ci dicono che cosa esista, ma che cosa consegua, posta
che sia l’esistenza».
Questa idea dell’ordinamento giuridico come sistema di regole dedotte da alcuni princìpi
evidenti o naturali e, con altre parole, di un legislatore razionale e universale, giunse sino alle
soglie delle grandi codificazioni dell’età illuministica. L’idea stessa di una codificazione
universale si ispirava al modello di un ordinamento giuridico come sistema deduttivo, i cui
caratteri essenziali sarebbero dovuti essere l’unità, la semplicità, la completezza e la coerenza
«Occorrono poche leggi — scriveva Saint-Just ripetendo una opinione assai diffusa —. Ove ve
ne sono molte, il popolo è schiavo ... Colui che dà al popolo troppe leggi è un tiranno». Ma il
sopravvento della Scuola storica del diritto, che considerò il diritto non più come prodotto di
una natura umana sempre eguale ma delle mutevoli convinzioni popolari, mise definitivamente
da parte l’idea della legislazione universale. Se, con terminologia kelseniana, chiamiamo
sistema statico un ordinamento di regole costruito a immagine di un sistema deduttivo, nessuno,
credo, sarebbe ancora disposto a chiamare sistema statico un ordinamento giuridico. Se possa
poi dirsi un sistema, e in quale senso, è un’altra questione che qui possiamo tralasciare. Non per
questo venne meno l’idea di una stretta connessione tra diritto e logica: solo che essa retrocesse,
se possiamo esprimerci così, dalla sfera della produzione, delle regole giuridiche, o dalla
legislazione, a quella della loro applicazione, cioè dall’attività del legislatore a quella del
giudice e del giurista. Mentre il giusnasturalismo aveva creduto di poter ridurre a complesso di
operazioni logiche l’attività stessa del legislatore, stringendo il nesso tra diritto e logica nel
momento stesso della formazione dell’ordinamento, il positivismo giuridico, che tenne il campo
nello sviluppo del pensiero giuridico del secolo XIX, abbandonò il momento della produzione
giuridica, per esprimerci con una formula sintetica, anche se alquanto rozza, alle forze
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irrazionali della storia, e restrinse il dominio della logica ad un campo subordinato ma non meno
ben delimitato, e pur vasto e importante, quello dell’applicazione della legge al caso concreto.
In altre parole, il positivismo giuridico rinunciò alle posizioni più avanzate del giusnaturalismo,
che la critica storicistica aveva rese indifendibili, ma non rinunciò affatto all’idea che gran parte
dell’attività mentale concernente il diritto fosse da intendersi sotto il segno della logica. Mi
riferisco in particolare, per quel che riguarda l’attività del giudice, alla teoria cosiddetta
dichiarativa del giudizio, che risolve la sentenza in un sillogismo; per quel che riguarda l’attività
scientifica, all’insieme di teorie che costituirono il movimento noto col nome di giurisprudenza
dei concetti. I possibili riferimenti storici sono molti; ma anche qui mi limito a qualche citazione
essenziale. Per la formulazione della teoria del sillogismo è classica quella data dal Beccaria:
«In ogni delitto si deve fare dal giudice un sillogismo perfetto: la maggiore dev’essere la legge
generale; la minore l’azione conforme o no alla legge; la conseguenza la libertà o la pena.
Quando il giudice sia costretto, o voglia fare anche solo due sillogismi, si apre la porta
all’incertezza». L’idea che debbano essere distinti il metodo del legislatore dal metodo del
giureconsulto o del giudice appare chiaramente e curiosamente, per esempio, nella dottrina di
Matteo Pescatore, che, rispetto al legislatore, parla di «sistema della legalità», con ciò
intendendo dire che il compito del legislatore è di fissare il diritto con regole generali; e poi,
soltanto rispetto al giureconsulto e al giudice, parla di «logica del diritto», intendendo riferirsi a
quella iuris ratio, a quella recta disputandi ratio, con cui si de ducono le conseguenze da un
principio: essa «non è altro che la logica del diritto» senza la quale «il diritto perde, per così
dire, ogni consistenza obbiettiva e sparisce». Per quel che riguarda l’importanza della logica
nella scienza giuridica è molto significativo il fatto che, proprio nel più celebre scritto del
fondatore della Scuola storica, si trovino quelle espressioni che servirono, se non ad alimentare,
a giustificare retrospettivamente la giurisprudenza dei concetti. Volendo esprimere la sua
ammirazione per i giureconsulti romani, Savigny scriveva che «il loro intero procedimento
acquista una sicurezza che non si trova all’infuori della matematica, tanto che si può dire senza
esagerazione che essi calcolano coi loro concetti». Qui il nostro pensiero corre ad un’altrettanto
celebre frase di Leibniz: «Digestorum opus admiror: nec quidquam vidi, sive ratio num acumen,
sive dicendi nervos spectes, quod magis accedat ad mathematicorum laudem». A proposito della
irraggiungibile completezza dei codici, Savigny ancora commentava, nella stessa operetta,
approfondendo l’analogia tra la scienza giuridica e la matematica: «In ogni triangolo si danno
certi elementi, dalla connessione dei quali discendono necessariamente tutti gli altri ... Nello
stesso modo, ogni parte del nostro diritto ha tali punti, attraverso i quali sono dati tutti gli altri:
possiamo chiamarli i postulati fondamentali. Ricavarli e partendo da essi riconoscere l’intera
connessione e il tipo di affinità di tutti i concetti e le forme giuridiche, è uno dei più difficili
compiti della nostra scienza, ed è proprio quello che dà al nostro lavoro carattere scientifico».
Probabilmente con riferimento a queste frasi del Savigny, spesso ripetute, lo Stammler, se pur
con qualche esagerazione, poteva ripetere il luogo comune che la giurisprudenza dei concetti
«tratta concetti che non sono altro che riproduzioni di materiale storicamente dato, come
concetti puri quali i concetti della matematica». Dico «con qualche esagerazione», perché nel
capitolo dedicato alla tecnica del diritto nel Geist des römischen Rechts di Ihering, che viene
considerato di solito come la teorizzazione del concettualismo giuridico, il modello per la
elaborazione del metodo delle scienze giuridiche non era la matematica, bensì la scienza
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naturale, e la nozione fondamentale per caratterizzarne il metodo non era la deduzione, ma la
costruzione, intesa come elaborazione del sistema dal basso, cioè partendo dall’isolamento
prima e dal raggruppamento poi dei cosiddetti corpi giuridici. Il punto di rottura però, rispetto ai
critici del concettualismo, stava pur sempre nel fatto che, giunto al sistema, anche Ihering —
s’intende il Ihering della prima maniera— si fermava pieno di ammirazione, ed affermando che
esso era «una fonte inesauribile di materia nuova», commentava: «Si può solo impropriamente
parlare di materia nuova, dal momento che la giurisprudenza si limita a rendere esplicito ciò che
il legislatore ha indirettamente stabilito e decretato. Essa non è tanto una creazione nuova
quanto una rivelazione». Proprio erigendosi contro questa nozione di sistema, il Heck, sferrando
un fortunato attacco alla giurisprudenza dei concetti, proclamava: «Noi sostituiamo l’ideale di
un sistema deduttivo con un altro sistema che può essere chiamato induttivo o descrittivo».
Almeno agli occhi degli avversari, sembrava dunque che il tenace ideale dell’ordinamento
giuridico come sistema deduttivo, e quindi dell’opera della scienza giuridica come attività
prevalentemente logica, fosse stato trasmesso dai giusnaturalisti del secolo XVII ai positivisti
del secolo XIX. Il panorama non è destinato a cambiare, quando si passi dalla dottrina tedesca a
quella francese della cosiddetta Scuola dell’esegesi. Uno dei maggiori rappresentanti della
Sc uola scriveva: «... solo allo sviluppo logico delle conseguenze di ogni principio è possibile
chiedere le verità di cui si vuole ottenere il trionfo». E così pure non è senza significato che il
maggior elogio elevato ad uno dei monumenti della scienza giuridica ottocentesca, il Cours de
droit civil français di Aubry e Rau, sia stato formulato in questi termini: «Ciò che costituisce il
merito particolare dell’opera è la sicurezza della dottrina, la sobrietà dell’esposizione, la
deduzione inflessibile di tutte le conseguenze giuridiche da un principio dato . . . T utte le
soluzioni sono contenute in germe in un insieme di princìpi formulati con tal rigore matematico
e così intimamente connessi gli uni agli altri che formano un vero edificio giuridico di cui si
possono criticare senza dubbio i particolari, ma di cui è impossibile non riconoscere la solida
costruzione».
(V.si, altresì, M.MUGNAI, Introduzione alla filosofia di Leibniz, Einaudi, 2001, pagg. 205 e
segg.).
(b) Per i rapporti tra diritto e logica, v.si: N.BOBBIO, Contributi ad un dizionario giuridico,
Giappichelli, 1994, v. Logica giuridica (I) e Logica giuridica (II); G.KALINOWSKI, Introduzione
alla logica giuridica, Giuffrè, 1971; C.P ERELMANN , Logica giuridica. Nuova retorica, Giuffrè,
1979, T.MAZZARESE , Logica deontica e linguaggio giuridico, Cedam 1999; N.VASSALLO , La
depsicologizzazione della logica: un confronto tra Boole e Fuge, F.Angeli 1995; E.BULIGYN,
Norme, validità, sistemi normativi, Giappichelli 1995 (sono da leggere i capitoli "Norme e
logica Kelsen e Weinberger sull'ontologia delle norme" e "Sul problema dell'applicabilità della
logica al diritto"); H.KELSEN , Diritto e logica, in Problemi di teoria del diritto (a cura di
R.GUASTINI), Il Mulino, pag. 173 e segg.; A.ROSS, Critica del diritto e analisi del linguaggio, Il
Mulino, 1982; A.G.CONTE, Un saggio filosofico sulla logica deontica, in Filosofia del
linguaggio normativo, I, 3 e segg.; C.E. ALCOURRON , Concezioni della logica, in Analisi e
diritto 1994, Giappichelli, pag. 17 e segg.; U.SCARPELLI, L'etica senza verità, Il Mulino 1982;
A.P INTORE , Il diritto senza verità, Giappichelli, 1996; AA.VV. (P.COMANDUCCI e
R.GUASTINI), L'analisi del ragionamento giuridico, voll. I e II, Giappichelli, 1987 e 1989;
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DIZIONARIO GIURIDICO
ORDINAMENTO GIURIDICO
N.BOBBIO , Ragionamento giuridico, in contributi ad un dizionario giuridico (cit.); N.MAC
CORMICK , Ragionamento giuridico e teoria del diritto, Giappichelli, 1978.
(c) Per i rapporti tra diritto e informatica, v.si: V.KNAPP, L'applicabilità della cibernetica al
diritto, Einaudi 1963; M.G. LOSANO , Giuscibernetica, Macchine e modelli cibernetici nel
diritto, Einaudi, 1969; Il diritto privato dell'informatica. Corso di informatica giuridica,
Einaudi 1986; AA.VV. (P.MARIANI E D.T ISCORNIA , a cura di), Sistemi esperti giuridici.
L'Intelligenza artificiale applicata al diritto, F.Angeli, 1989.
(d) Per i rapporti tra diritto e retorica, v.si C.PERELMAN e L.OLBRECHTS-TYTECA, Trattato
dell'argomentazione. La nuova retorica (cit.); R.ALEXY , Teoria dell'argomentazione giuridica,
Giuffrè, 1998; D.CARPONI SCHITTAR, La persuasione del giudice attraverso gli esami e i
controesami, Giuffrè, 1998; E.BETTI, Teoria generale dell'interpretazione, voll. I e II, Giuffrè,
1990; B.MORTARA GARAVELLI, Manuale di retorica.
(e) V.si, per il paragone con l'entropia: G.LAZZARO, Entropia della legge, Giappichelli, 1985.
(f) Per i rapporti tra diritto e economia, v.si, a parte gli scritti di MARX, ENGELS, LENIN
eccetera: P.I. STUCKA , La funzione rivoluzionaria del diritto, Einaudi 1967; N.BOBBIO,
Marxismo e diritto, in Contributi ad un dizionario giuridico (cit.), pagg. 157 e segg.;
P.CHIASSONI, Law and economics: l'analisi economica del diritto negli Stati Uniti,
Giappichelli, 1992; M.R. FERRARESE, Diritto e mercato. Il caso degli Stati Uniti, Giappichelli,
1992; AA.VV., Studi economico-giuridici, Giappichelli, 1998; F.GALGANO , Diritto e economia
alla soglia del nuovo millennio, in Contr. e Impresa, 2000, 189; F.DENOZZA , Norme efficienti.
L’analisi economica delle regole giuridiche, Giuffrè 2002; AA.VV. (a cura di G. ALP A, P.L.
CHIASSONI, A. PERICU , F. PULITINI, S. RODOTÀ, F. ROMANI), Analisi economica del diritto,
Giuffrè, 1997.
(g) Per i rapporti tra diritto e letteratura (sotto il duplice aspetto di law in literature e Law as
Literature). V.si A.SANSONE , Diritto e letteratura, Giuffrè 2001 (da pag. 143 contiene una
vastissima bibliografia). V.si, altresì, di G.ALP A , Law as 8or is) literature?, in Contratto e
Impresa, 1999, 263 e segg. Da ultimo, v.si di G. NAP OLINANO E M. ABRESCIA , Analisi
economica del diritto pubblico, Il Mulino, 2009.
(h) Per i rapporti tra diritto e linguaggio, v.si, a parte il volume di B.MORTARA GARAVELLI (Le
parole e la giustizia), la bibliografia citata in detto volume da pag. 229, nonché il volume di
Autori vari (a cura di G. GARZONE E F. SANTULLI), intitolato Il linguaggio giuridico.
Prospettive interdisciplinari, Giuffrè, 2008)..
(i) Per i rapporti tra diritto e denaro, diritto e teologia, v.nsi le note 1 e 7. Per il diritto come
gioco (e parte ogni riferimento a W ITTGENSTEIN), v.si: M.VAN DE KERCHOVE E F.OST, Il diritto
ovvero i paradossi del gioco, Giuffrè, 1995.
(l) Per i rapporti tra diritto e politica si potrebbe ripetere quanto detto circa i rapporti tra diritto e
filosofia. Qui i rapporti sono talmente intrecciati e inevitabili da far dire che, praticamente,
quando si parla di diritto si parla di politica (perché il diritto lo si interpreta da destra o da
sinistra) e viceversa.
Si segnalano, comunque: G.H. SABINE , Storia delle dottrine politiche, Etas Kompas, 1967;
N.BOBBIO , Locke e il diritto naturale, Giappichelli 1963; Da Hobbes a Marx, Marano, 1965;
Diritto e Stato nel pensiero di Emanuele Kant, Giappichelli, 1969; Politica e cultura, Einaudi
1955; Gramschi e la concezione della società civile, Feltrinelli, 1977; Quale socialismo?,
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DIZIONARIO GIURIDICO
ORDINAMENTO GIURIDICO
Uno degli esiti dello studio del diritto, concepito come linguaggio prescrittivo e
dal punto di vista semantico, è la teoria delle norme e dell'ordinamento giuridico; e ciò
senza dimenticare sul punto l'apporto della pandettistica tedesca. L'altro è quello che
pone in rilievo come un certo tipo di linguaggio veicola la prescrittività o la
normatività.
Einaudi 1976; Saggi sulla scienza politica in Italia, Laterza, 1977; Destra e sinistra: ragioni e
significati di una distinzione politica, Donzelli, 1994; Saggi sulla scienza politica in Italia,
Laterza, 1996; L'età dei diritti, Einaudi, 1990; Democrazia, maggioranze minoranze (con
C.OFFE E E G.LOMBARDINI), Il Mulino, 1981; Società e Stato nella filosofia politica moderna
(con M.BOVERO), Il Saggiatore 1979; Elogio della mitezza, Linea d'ombra, 1994; De senectute,
Einaudi, 1996; S.CASSESE , I diritti umani nel mondo contemporaneo; AA.VV. (CHITI a cura di),
Cittadino e potere in Inghilterra, Giuffrè, 1990; AA.VV. (F.LORENZONI E A.SCHIAVONE a cura
di), Democrazia e diritto, De Donato, 1975.
(m) Per i rapporti diritto e morale, v.nsi C.S. Nino, Il diritto come morale applicata, Giuffrè,
1999; F.von Kutschera, Fondamenti dell'etica, F.Angeli, 1991; AA.VV. (L.Gianformaggio e
E.Lecaldano a cura di), Etica e diritto, Laterza, 1986; G.Cosi, La responsabilità del giurista.
Etica e professione legale, Giappichelli, 1998; F. Fagiani, Etica e teoria dei diritti; L.
Gianformaggio, Rapporti tra etica e diritto; S. Castignone, La questione animale tra etica e
diritto, tutti e tre in “Teorie etiche contemporanee, a cura di C.A. Viano, Bollati-Boringhieri,
1990; nonché (per la loro attuale rilevanza, soprattutto per chi abbia a cura le sorti del “ diritto
penale”), M.D. Hauser, Menti morali. Le origini del bene e del male, Il saggiatore, 2006; A.
Lavazza, Neuroscienze e filosofia morale, in Riv. di filosofia, Il Mulino, 3/2007, pagg. 327 e
segg. [Nel par. 4 si legge: “Patricia S. Churchland, che sta conducendo un sistematico tentativo
di rifondazione filosofica legato alle neuroscienze, propone un nuovo paradigma con cui
concettualizzare l’identità personale. Si può sostenere che, quando si saranno compresi meglio
i dettagli dei sistemi regolatori del nostro cervello e il modo in cui le decisioni emergono dalle
reti neuronali (cosa che peraltro stiamo già facendo), risulterà sempre più evidente che gli
standard morali, le pratiche e i comportamenti fino alle scelte pubbliche dipendono dalla
neurobiologia. Approfondendo le conoscenze dello sviluppo neuronale, dell’evoluzione dei
sistemi nervosi e del modo in cui avviene la regolazione genica, è diventato assai chiaro come il
sistema nervoso sia profondamente plasmato dalla storia filogenetica. La nostra natura morale
possiede l’attuale configurazione perché i cervelli sono ciò che sono; e questo vale anche per le
capacità di imparare, ragionare, inventare e fare scienza. Il cervello è una macchina causale,
passa da uno stato all’altro sulla base delle condizioni di attivazione precedenti. Scelte e
valutazioni di opzioni sono processi che avvengono nel sistema nervoso e producono decisioni
comportamentali. Esse sono il frutto di un’ampia gamma di condizioni antecedenti, alcune
costituite da stimoli eterni, altre da mutamenti interni, come variazioni nei livelli ormonali del
glucosio, della temperatura corporea…”).
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DIZIONARIO GIURIDICO
ORDINAMENTO GIURIDICO
1.5. L’ordinamento giuridico. Punto di vista statico e dinamico
1.5.0. Il diritto come insieme di norme è strutturato , ha un certo ordine: si
parla dell’insieme delle norme (delle quali alcune, ogni giorno, nascono, entrano in
vigore [art. 10 preleggi al c.c.] e altre muoiono, sono abrogate [art. 15 preleggi al c.c.]),
come di un ordinamento.
1.5.1. Concepire (o, se si vuole, costruire) un ordinamento (“fare, cioè cose,
con le parole”)(11) significa aver a che fare con delle entità singole, atomiche (le norme,
nel caso del diritto) e istituire delle relazioni d’ordine tra dette entità. Nel diritto le
relazioni d’ordine tra le norme sono di tipo gerarchico: vi sono, a cascata, norme a più
importanti di norme b, più importanti di norme c, eccetera. L’ordinamento è tale perché
è costruito a gradini. Nell’ordinamento italiano: (1) alla base vi sono le norme
costituzionali (Costituzione, leggi costituzionali); (2) le norme nazionali seguono le
norme CE (Regolamenti, direttive CE); (3) poi vi sono le norme delle leggi statali
(leggi, decreti legislativi, decreti legge convertiti in legge), (4) poi vi sono le norme
delle leggi regionali (leggi delle Regioni a statuto speciale e a statuto ordinario [131
Cost.]).
I gradini (1), (2), (3) e (4) sono costituiti da norme veicolate da leggi e cioè
prodotte dal potere legislativo. Seguono altri piani o gradini. Vi sono norme prodotte:
(5) da regolamenti emanati dal potere esecutivo e cioè da qualsiasi “Autorità” della
Pubblica amministrazione (Governo, Regioni, Enti locali, altri enti); (6) da atti
amministrativi emanati, sempre, dalle varie Pubbliche amministrazioni; (7) da sentenze
del potere giudiziario (le sentenze, in quanto applicano norme del potere legislativo a
casi concreti, costituiscono la “norma singola coattiva” per il destinatario delle
sentenze)16. Infine vi sono le norme veicolate dagli atti negoziali (c.d. regno
dell’autonomia privata).
16
Le sentenze parrebbero avere una forma del sillogismo (=ragionamento) pratico.
Nel caso del discorso descrittivo, un tipo di sillogismo teorico è questo:
* affermazione universale (premessa maggiore): “T utti gli uomini sono mortali”
* affermazione particolare (premessa minore): “ Socrate è un uomo”
* affermazione particolare (come conseguenza): “ Socrate è mortale”.
Le sentenze parrebbero avere forma analoga:
* norma generale (premessa maggiore): “T utti i ladri devono essere puniti”;
* condotta particolare (premessa minore): “Mario è un ladro”;
* sentenza (come conseguenza): “Mario viene punito”.
In realtà, attualmente, si tende a dire che la sentenza appartiene, almeno nella premessa
maggiore e in quella minore, a un tipo di discorso non meccanico, ma di convincimento
argomentativo: non appartiene alla logica, ma alla retorica.
Il giudice ha difficoltà ad accertare i fatti (se, ad esempio, tra due parti è stato o meno stipulato
un contratto [che non esiga la forma scritta] con cui una parte concede all’altra di godere di un
bene immobile dietro un certo compenso), così come ha difficoltà ad accertare quale siano le
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DIZIONARIO GIURIDICO
ORDINAMENTO GIURIDICO
1.5.1.1. Le relazioni d’ordine tra le norme di cui sopra si è parlato non sono le
sole che contribuiscono a creare l’ordinamento.
Le norme di riconoscimento (quelle cioè che permettono di distinguere le norme
giuridiche [perché entrate in vigore attraverso la procedura costituzionale sulla
formazione delle leggi: artt. 70-82 Cost. per le leggi statali, artt. 116-117 per le leggi
regionali] da quelle di altri ordinamenti [morali, di costume ecc.]) e, latamente, quelle di
organizzazione contribuiscono a delineare un perimetro ideale che distingue
l’ordinamento giuridico da altri ordinamenti.
Quindi: (a) la relazione di gerarchia tra le norme di condotta e (b) le norme di
organizzazione contribuiscono a far sì che l’insieme delle norme giuridiche sia unitario:
sia costituito come un cono rovesciato e con un certo perimetro: alla base del cono vi
sarebbe, secondo alcuni, una norma fondamentale, non scritta (di ordine puramente
logico) del tipo: “Tutte le norme dell’ordinamento poggiano sul potere costituente”.
norme che disciplinano quel contratto (se le norme sulla locazione di beni immobili [artt. 1571 e
segg. c.c.] ovvero quelle sul comodato [artt. 1803 e segg. c.c.]).
La conclusione (la sentenza) consiste in una soluzione solo “probabile”: ad esempio che quel
contratto si è stipulato (ex art. 1326 c.c.) e che è disciplinato dalle norme sulla locazione.
Proprio perché tale, detta sentenza (di 1° grado), sarà appellabile e soggetta a ricorso per
Cassazione. Siccome non si può ricorrere all’infinito, vi è sempre una sentenza definitiva la
quale, sia come sia, è quella che va accettata: non è né vera, né falsa. E’ la conclusione di un
ragionamento argomentato, ma niente di più: tant’è che la sentenza definitiva, si asserisce, facit
de quadrata rutundis, facit de albo nigrum (fa quadrate le cose rotonde, fa nero ciò che è
bianco). V.si, sul punto, C. PERELMANN e L. OLBRECHTS TYTECA, T rattato
dell’argomentazione, precedentemente citato in nota 7(d).
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DIZIONARIO GIURIDICO
ORDINAMENTO GIURIDICO
t1= tempo 1
t2= tempo (successivo) 2
1.5.2. L’unitarietà non è la sola caratteristica dell’ordinamento giuridico. Questo,
per essere tale, abbisogna che nella scala gerarchica delle norme vi siano delle regole
che permettano di evitare le antinomie (contraddizioni) tra norme di grado diverso e di
pari grado e cioè delle regole logiche che ne permettano la coerenza.
1.5.2.1. Circa le norme di grado diverso la regola, come già detto prima, è quella
per la quale lex superior derogat inferiori (criterio gerarchico).
Tale regola, come principio generale, comporta: (a) che le leggi statali ordinarie
devono essere conformi alla Costituzione, pena il loro annullamento da parte della Corte
costituzionale (artt. 134-137 Cost.); (a.1) che i decreti legislativi (artt. 76-77 Cost.)
devono essere conformi alle leggi deleganti emanate dal Parlamento e queste, a loro
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
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DIZIONARIO GIURIDICO
ORDINAMENTO GIURIDICO
volta, alla Costituzione; (b) che le leggi regionali siano conformi agli statuti delle
Regioni a statuto speciale (che sono approvati da leggi costituzionali: artt. 115 e 138
Cost.) e che le leggi regionali delle regioni a statuto ordinario siano conformi alle leggi
“cornice” dello Stato (almeno nei casi di c.d. “legislazione concorrente”: art. 117 Cost.)
e queste, a loro volta, conformi alla Costituzione pena il loro annullamento da parte
della Corte costituzionale; (c) che i regolamenti statali siano conformi alla legge, pena il
loro annullamento da parte degli organi di giustizia amministrativa (su ricorso di chi ne
abbia interesse e secondo quanto previsto dal d.lg. 104/2010 [“Codice del processo
amministrativo”]) e la loro disapplicazione da parte della M agistratura ordinaria (ma,
attualmente, anche da parte degli organi di giustizia amministrativa); (d) che i
regolamenti delle PP.AA. locali siano conformi alla legge, pena il loro annullamento da
parte dei vari TAR regionali e la loro disapplicazione da parte della M agistratura
ordinaria (e, attualmente, anche da parte dei vari TAR); (e) che gli atti amministrativi
delle varie PP.AA. siano conformi alle leggi e/o ai regolamenti pena il loro
annullamento (su ricorso) da parte dei TAR; (f) che le sentenze siano conformi a leggi
e/o regolamenti, pena il loro annullamento e/o riforma da parte dei giudici di secondo o
terzo grado (una sentenza di un Tribunale può essere modificata dalla Corte d’Appello e
annullata, in ultima istanza, dalla Corte di Cassazione; una sentenza del TAR può essere
annullata dal Consiglio di Stato); (g) che gli atti negoziali non siano contrari a certe
norme di legge.
(Da notare che i limiti oltre i quali non si può andare sono dati: 1. dalle sentenze
della Corte costituzionale nei casi (a), (a.1), (b); 2. dalle sentenze del Consiglio di Stato
[giudice di appello rispetto ai TAR] e dalle sentenze della Corte di Cassazione nei casi
(c) e (d); 3. dalle sentenze del Consiglio di Stato nel caso (e); 4. dalle sentenze della
Corte di Cassazione o del Consiglio di Stato nel caso (f) e in quello (g); 5. dalle
sentenze della Corte di Cassazione quando annulla, per difetto di giurisdizione, le
sentenze del Consiglio di Stato a sensi dell’art. 111 Cost.).
1.5.2.2. Tra le norme di pari grado, al fine di risolvere il problema delle
antinomie (di norme tra di loro contrastanti), soccorrono il criterio cronologico (lex
posterior derogat priori: la legge posteriore abroga quella precedente: art. 15 preleggi al
c.c.) e il criterio della specialità (lex specialis derogat generali: tra due norme, di cui una
generale e l’altra speciale, si applica la seconda [tra genus e species, si applica la norma
specifica]).
Normalmente poi il criterio cronologico cede a quello della specialità (lex
posterior non derogat legi speciali priori: la legge posteriore non abroga la legge
speciale anteriore).
1.5.3. L’ordinamento giuridico è caratterizzato anche dalla completezza. Ciò
implica, come regola, che ogni tipo di condotta umana sia disciplinato da una certa
norma giuridica: se tale norma manca, la lacuna viene “riempita”, “saturata”, applicando
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DIZIONARIO GIURIDICO
ORDINAMENTO GIURIDICO
a quel tipo di condotta “senza norma” la norma che disciplina la condotta simile,
“analoga”. Il ragionamento dell’analogia (art 12 delle preleggi al c.c.) è il seguente:
* il caso x è disciplinato dalla norma A;
* il caso y è simile al caso x;
* il caso y è disciplinato dalla norma A.
La completezza dell’ordinamento giuridico evidenzia una ulteriore norma: la c.d.
norma generale inclusiva.
Questa include nell’ordinamento tutti i casi non espressamente disciplinati, ma
simili a quelli disciplinati espressamente.
1.5.3.1. Vi sono però delle eccezioni: nelle norme penali e in quelle appartenenti
al c.d. diritto eccezionale (v.si sub 2.2. la distinzione tra diritto “comune”, “speciale” e
“eccezionale”) il criterio dell’analogia non si applica.
Tale fatto evidenzia la c.d. norma generale esclusiva (l’art. 14 delle preleggi al
c.c. asserisce: “Le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre
leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”). In tali casi le condotte
umane non espressamente previste come reato (nel diritto penale) o non espressamente
previste da norme eccezionali sono escluse dall’ordinamento giuridico, sono “fuori” di
esso. In tal caso, ciò che non è vietato o comandato è “libero”, giuridicamente
indifferente (perché fuori dall’area di influenza del diritto). In tal caso si ha “Pp e P non
p” (= E’ permesso fare p e è permesso non fare p).
1.6. L’ordinamento giuridico è sempre dinamico
(a) Potrebbe sussistere, in ipotesi, una regola unica, fondamentale (es. “Ama Dio
e il prossimo tuo come te stesso”) dalla quale, per mero processo di deduzione logica,
derivino tutte le altre regole nella prima contenute (es.: “Non uccidere”, “Non rubare”
ecc.).
Questo sistema -supposto che esista- sarebbe tale per cui la norma fondamentale
(N1), genererebbe -per pura attività di ragione da parte dei “soggetti”- tutte le altre
regole.
Tale ordinamento statico è inesistente, se non per qualche aspetto che vedremo
in seguito. (L’inesistenza di un tale ordinamento è data dal fatto che non basta, ammesso
che possa esistere, un puro processo di deduzione dalla N1 per ricavare le norme
inferiori: occorrerà comunque “volerle” creare e applicarle; e tale attività non è un
processo puramente inferenziale).
(b) La dinamicità dell’ordinamento giuridico è data dal fatto che la creazione
delle norme è un processo continuo, autorizzato da metanorme (norme sulle norme) e
che ogni norma, generale o particolare che sia, non è dedotta per pura virtù logica da
N1, bensì generata da atti autoritativi di organi costituzionalmente autorizzati.
(a-b) L’aspetto dinamico non è però esclusivo.
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
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DIZIONARIO GIURIDICO
ORDINAMENTO GIURIDICO
Alcune norme costituzionali determinano anche il “contenuto” delle leggi
ordinarie: da qui la presenza (in alcuni ordinamenti democratici) di una Corte
Costituzionale che decide se le leggi ordinarie sono in contrasto con le leggi
costituzionali.
In tali casi l’elemento statico, se si vuole usare tale terminologia, è presente. Le
norme costituzionali che non si limitano ad autorizzare certi organi a emanare leggi
ordinarie, bensì predeterminano il contenuto delle emanande leggi ordinarie, delineano
una specie di quadro normativo all’interno del quale ogni norma ordinaria è legittima, e
al di fuori di questo è illegittima. La cornice di confine costituisce il criterio razionale (e
quindi statico), alla luce della quale un certo organo (la Corte Costituzionale) decide
circa la legittimità o meno delle leggi.
2. - Le fonti del diritto: fonti di produzione. Lo S tato: potere legislativo,
esecutivo, giudiziario secondo la nostra Costituzione. La giurisprudenza.
L'interpretazione. Le fonti di cognizione
- Diritto pubblico, diritto privato. Diritto comune, diritto speciale. Diritto
"comune-speciale" e diritto eccezionale. Diritto normale, comunitario,
internazionale.
- Gli istituti giuridici.
- Le posizioni giuridiche soggettive favorevoli e sfavorevoli. I soggetti, i beni,
le attività, il rapporto giuridico.
2.1. Le fonti del diritto: fonti di produzione. Lo S tato: potere legislativo,
esecutivo, giudiziario. L'interpretazione. Fonti di cognizione.
2.1.1. Le fonti di produzione.
La parola "fonte" è usata nell'articolo 1 delle preleggi al Codice civile per
indicare ciò che genera, crea, "produce", il diritto (v.si quanto già detto, in particolare, al
par. 1.2.).
Detto articolo asserisce:
Sono fonti del diritto:
1) le leggi;
2) i regolamenti;
3) gli usi.
In realtà è “fonte” tutto ciò che crea regole giuridiche: quindi sono “fonte” le
leggi, i regolamenti, le sentenze, gli atti negoziali menzionati nel “cono rovesciato” di
cui al par. 1.5.1.1.
2.1.1.1. Le leggi e gli usi
Attualmente le fonti si sono arricchite.
Come già visto al par. 1.5.1., abbiamo le seguenti fonti legislative (leggi):
(1) la Costituzione del 27-12-1947;
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
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DIZIONARIO GIURIDICO
ORDINAMENTO GIURIDICO
(2) le leggi costituzionali successive (ad esempio: tutte quelle che hanno
approvato gli "statuti" delle Regioni a statuto speciale; le leggi che hanno costituito la
Corte costituzionale [l. 9-1-48, n. 1, 11-3-53, n. 1 ecc.]; la legge del 24-1-1997, n. 1
istitutiva della c.d. bicamerale e la l. 18-10-2001, n. 3 che ha modificato e ridistribuito
poteri e competenze tra lo Stato e le Regioni]): dette leggi sono tali, in quanto emanate
con la procedura di cui all'art. 138 della Costituzione;
(3) le leggi ordinarie statali: sono quelle emanate dal Parlamento secondo la
procedura di cui agli artt. 70-81 della Costituzione (dette leggi vengono promulgate dal
Presidente della Repubblica [artt. 73 e 87 Cost.], pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale
della Repubblica italiana [art. 73 Cost.]);
(3.1) i decreti legislativi emanati dal Governo su legge delegante del Parlamento
(artt. 76-77 Cost. e 14 l. 400/88);
(3.2) i decreti legge emanati dal Governo in casi di necessità e urgenza (artt. 77
Cost. e 15 l. 400/88); questi devono essere convertiti in legge dal Parlamento entro 60
giorni, pena la loro inesistenza sin dall'inizio (quando il Parlamento non converte un
d.l., in genere, con apposita legge, ne fa salvi gli effetti [art. 77 Cost.]);
(4) le leggi delle regioni a statuto speciale (art. 116 Cost.);
(5) le leggi delle Province di Trento e Bolzano (l. Cost. 5/1948);
(6) le leggi delle regioni e statuto ordinario (artt. 117 Cost.).
Le fonti sub (3), (3.1) e (3.2) hanno pari efficacia; differiscono solo in questo: le
leggi devono essere conformi alla Costituzione. I decreti legislativi devono essere
conformi alle leggi deleganti e queste alla Costituzione. I decreti legge, se convertiti in
legge, costituiscono un unico insieme (d.l. e legge di conversione) che deve essere
conforme alla Costituzione. Normalmente avviene che la legge di conversione
modifichi il decreto legge: in tal caso la legge di conversione, per gli articoli modificati,
entra in vigore il giorno dopo della sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale (G.U.).
Gli articoli, invece, del decreto legge non modificati entrano in vigore prima: il giorno
dopo la pubblicazione del decreto legge sulla G.U..
Gli usi, come già detto, sono fonti di regole o norme. Il fenomeno è più vasto di
quanto non sembri. Non solo si hanno usi in campo “privatistico-pubblicistico” (ad es.:
il “legnatico” che limita i diritti di proprietà a favore di certe comunità), ma anche in
campo pubblicistico (si parla di usi in campo costituzionale, amministrativo, tributario,
internazionale eccetera).
2.1.1.2. Regolamenti e direttive CE
Attualmente si inseriscono tra le fonti i regolamenti e le direttive UE. Le
direttive, poi, se sufficientemente precise (se cioè non contengono solo dei "principi",
ma vere e proprie "norme"; se sono, si dice, self executing) sono immediatamente
operative e prevalgono sulle leggi dei vari Stati della Comunità Europea. Quindi sono
una fonte che, nella scala gerarchica, si inserisce tra quella sub (2) e quella sub (3) del
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paragrafo precedente. Ciò implica che le varie PP.AA. e i giudici nazionali, tra una
legge nazionale e una direttiva CE self executing, devono applicare quest'ultima.
Le direttive, quindi, in quanto prevalgono sulle leggi ordinarie (e regionali) degli
Stati aderenti alla CE contribuiscono a creare l'ordinamento comunitario.
2.1.1.3. I regolamenti
(0) I regolamenti si distinguono dalle leggi soprattutto per due dati, di cui uno di
sostanza e l'altro formale: (1) dal punto di vista sostanziale i regolamenti contengono
prescrizioni di dettaglio rispetto a una qualche legge; (2) dal punto di vista formale il
loro iter procedurale di formazione è diverso da quello delle leggi.
(1) I regolamenti statali (delegati, di organizzazione, esecutivi) sono disciplinati
dall’ art. 17 della l. 400/1988.
(2) I regolamenti degli altri enti (Regioni, enti locali, eccetera) sono emanati
sulla base di una qualche norma che attribuisce tale potere (regolamentare) a tali enti
(v.si l’art. 117 della Costituzione).
(1)-(2) I regolamenti, in quanto non sono leggi, non sono suscettibili di essere
annullati dalla Corte costituzionale. Possono essere, rispettivamente, annullati (su
ricorso) dagli organi di giustizia amministrativa (TAR e Consiglio di Stato) o
disapplicati sia dagli organi di giustizia amministrativa che dalla M agistratura ordinaria
(in ambito civile: giudice di pace, Tribunale, Corte di Appello, Corte di Cassazione; in
ambito penale: giudice di pace,Tribunale, Corte di Appello, Corte di Assise, Corte di
Assise di appello, Corte di Cassazione; in ambito tributario: Commissioni provinciali,
regionali, Corte di Cassazione, eccetera).
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2.1.1.4. Gli atti amministrativi
Le PP.AA., in quanto devono attuare le norme del potere legislativo e quindi
attuare le leggi statali, i Regolamenti e le direttive CE, i Regolamenti statali e quelli
regionali o di altri enti pubblici, emanano atti amministrativi con i quali dettano, a valle,
altre norme. Gli atti amministrativi, se ritenuti illegittimi, possono essere annullati dagli
organi di giustizia amministrativa. Detto annullamento è possibile solo dietro ricorso al
TAR (e, in sede di appello, avanti al Consiglio di Stato), su ricorso da presentarsi da chi
ne abbia interesse entro il termine decadenziale di 60 giorni, ovvero su ricorso al
Presidente della Repubblica entro il termine decadenziale di 120 giorni (v.si,
attualmente –e per quanto concerne altri termini più brevi- il nuovo Codice del processo
amministrativo approvato con il d.lg. 104/2010).
2.1.1.5. Le sentenze
Le sentenze definitive sono un formante del diritto in quanto contribuiscono ad
interpretarlo e quindi contribuiscono alla "formazione" finale del diritto come insieme
di "norme" (v.si sub 2.1.3). Non solo: le stesse, per i relativi destinatari contengono
norme vincolanti in maniera definitiva.
Le sentenze, allorquando sono divenute definitive (in genere le pronunce della
Corte di Cassazione [in sede civile e penale] o del Consiglio di Stato [in sede di
impugnativa di atti amministrativi]), costituiscono l’insieme delle norme o regole non
più modificabili per le parti coinvolte nelle relative liti. Le stesse, si dice, “fanno del
bianco il nero”, “del quadrato il rotondo”: si prescinde, cioè, dalla loro correttezza o
meno. Le sentenze definitive vanno accettate qualunque ne sia il loro contenuto.
Non solo: con l’art. 360 bis cpc, per il quale: “Il ricorso è inammissibile: 1)
quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme
alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare
o mutare l’orientamento della stessa”), le sentenze della Cassazione civile, se uniformi,
assumono lo stesso carattere di generalità e astrattezza di solito attribuito alle norme
statali.
La giurisprudenza è fonte di diritto anche in altro senso: molto spesso “crea”
norme che poi il legislatore recepisce in qualche testo normativo (es.: la norma sulla
risarcibilità degli interessi legittimi che si può far risalire a Cass. SS.UU. 500/1999; la
norma sull’avvalimento che si può fare risalire alla giurisprudenza comunitaria, poi
recepita dalla direttiva CE/18/2004 [artt. 47 e 48] e dagli artt. 49 e 50 del d.lg. 163/06
17
eccetera) .
17
V.nsi, sul punto: H. KELSEN , La dottrina pura del diritto, Einaudi, 1966, pagg. 267 e segg.;
ID ., Teoria generale del diritto e dello Stato, Etas libri, 1966, pagg. 166 e segg. e 448; H.L.A.
HART, Il concetto di diritto, Einaudi, 1965, pagg. 155-159 e 166-173; A. ROSS, Diritto e
Giustizia, Einaudi 1965, pagg. 81 e segg.; R. GUASTINI, Dalle fonti alle norme, Giappichelli,
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2.1.1.6. Gli atti negoziali
Anche gli atti negoziali (contratti, testamenti, delibere di società eccetera) creano
regole giuridiche. Gli stessi possono –in certi casi- essere dichiarati nulli dal potere
giudiziario ovvero essere annullati in altri casi meno gravi.
2.1.2. Lo S tato: potere legislativo, esecutivo, giudiziario
2.1.2.1. Il diritto è, attualmente, in massima parte di origine statale o comunque
di istituzioni statali (CE). Anche gli usi, in tanto sono fonti di diritto, in quanto, nelle
materie regolate da leggi e da regolamenti, siano richiamati dalle leggi o dai regolamenti
(art. 8 delle preleggi al c.c.).
2.1.2.2. Lo Stato è una realtà sociologica: è costituito da un gruppo, più o meno
vasto, di persone (il popolo) insediate stabilmente su un territorio e con una certa
organizzazione (potestà di imperio o sovranità). La sovranità consiste nel potere di
disciplinare la condotta delle persone che abitano su quel territorio. Da qui il fatto che lo
Stato può essere ridotto ad una organizzazione giuridica, a ordinamento giuridico: i tre
elementi dello Stato (popolo, territorio, potere) si riducono a uno (al potere giuridico
che trova nel territorio il proprio limite e nei soggetti costituenti il popolo i propri
destinatari, in quanto "cittadini" di quello Stato "territorialmente" delimitato).
Accanto alla concezione sociologica (la prima) e quella formalistica dello Stato
(la seconda), convivono altre concezioni di tipo più propriamente filosofico.
Vi è una concezione organicistica: lo Stato è come se fosse un uomo "in grande",
la massima "persona" da cui promanano tutti i diritti dei cittadini. Gli individui, secondo
tale concezione, sono nulla al di fuori dello Stato: è questo, tramite le leggi, che
attribuisce diritti ai cittadini ("La patria è un tutto di cui noi siam parte e al cittadino è
fallo considerar se stesso separato da lei": da "L'Attilio Regolo" di M etastasio).
All'opposto di tale concezione (assolutistica, antidemocratica), si pone la
concezione atomistica o contrattualistica: sono gli individui che, costituendo la società,
creano lo Stato. Lo Stato è effetto di una "volontà generale" degli individui i quali, con
una specie di "contratto sociale", creano lo Stato. Questo, in tale concezione, è un
posterius (viene dopo) rispetto agli individui. Vengono prima alcuni
diritti
fondamentali degli individui (i "diritti dell'uomo e del cittadino") che ogni Stato deve,
non "creare", ma semplicemente "riconoscere".
Anche la concezione formalistica (lo Stato si riduce all'ordinamento giuridico)
ha una sua filosofia: lo Stato è "puramente" ciò che è, organizzazione coattiva e quindi
1990, pagg. 139 e segg.; G. ALP A, Il metodo nel diritto civile, Contr. e impresa, 1/2000, pagg.
457 e segg. (par. 9.5); P.G. MONATERI, in Le fonti non scritte e l’interpretazione (a cura di
G.ALP A E ALTRI), UT ET, 1999, pagg. 491 e segg.
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giuridica: quindi, in tale concezione, possono convivere gli Stati antidemocratici come
quelli democratici.
2.1.2.3. Nell'ambito di una concezione liberal - democratica nata, nel continente
europeo, con la Rivoluzione francese, è stata elaborata la teoria della "divisione dei
18
poteri". Trattasi di una particolare forma di governo . L'elemento "sovranità", "potere",
"potestà di imperio", affinché non dia luogo al Governo di una sola persona (monarchia,
dittatura, tirannia) deve essere esercitato da tre organi diversi dello Stato: (1) dal
Parlamento (potere legislativo), dal Governo, dall'Esecutivo (potere esecutivo), dalla
M agistratura (potere giudiziario).
2.1.2.3.1. Secondo la nostra Costituzione (che si ispira al principio della
"divisione dei poteri") il potere è suddiviso come segue:
(1) potere legislativo: spetta, in via prioritaria, (1.1) al Parlamento (artt. 55 e
segg. Cost.), poi (1.2) al Governo (artt. 76-77 Cost.) e, infine (1.3), alle Regioni (a
statuto speciale [art. 116 Cost.] e a statuto ordinario [art. 117 Cost.]), nonché alle
Province di Trento e Bolzano;
(2) potere esecutivo: spetta al Governo (artt. 92 e segg. Cost.), alle Regioni, a
statuto speciale e ordinario, agli Enti locali (artt. 114 e segg. Cost.) e, in genere, a tutte
le Pubbliche Amministrazioni che abbiano potere regolamentare e di emanare atti
amministrativi;
(3) potere giudiziario: spetta alla M agistratura Ordinaria (A.G.O. = Autorità
giudiziaria ordinaria: artt. 101 e segg. Cost.), agli organi di giustizia amministrativa
18
Vanno poi distinte, nell’ambito dello Stato come organizzazione giuridica, le varie forme di
Governo: (a) governo di uno solo (monarchia), (b) di pochi (oligarchia), (c) di molti o di tutti
(democrazia). Ovviamente tali forme “pure” non si trovano quasi mai.
Una forma monarchica si può accompagnare a una forma democratica (es.: governo inglese). Il
governo democratico si attua attraverso delle regole.
“ Le regole sono su per giù per le seguenti: a) tutti di cittadini che abbiano raggiunto la maggiore
età senza distinzione di razza, di religione, di condizione economica, di sesso, ecc., debbono
godere dei diritti politici, cioè del diritto di esprimere col voto la propria opinione e/o di
eleggere chi la esprima per lui; b) il voto di tutti di cittadini deve avere peso eguale (cioè deve
contare per uno); c) tutti i cittadini che godono dei diritti politici debbono essere liberi di votare
secondo la propria opinione formatasi quanto più è possibile liberamente, cioè in una libera gara
fra gruppi politici organizzati che competono fra loro per aggregare le domande e trasformarle
in deliberazioni collettive; d) debbono essere liberi anche nel senso che debbono essere posti
nella condizione di avere reali alternative, cioè di scegliere fra soluzione diverse; e) sia per le
deliberazioni collettive sia per le elezioni dei rappresentanti vale il principio della maggioranza
numerica, anche se possono essere stabilite diverse forme di maggioranza (relativa, assoluta,
qualificata) in determinate circostanze preventivamente stabilite; f) nessuna decisione presa a
maggioranza deve limitare diritti della minoranza, in modo particolare il diritto di diventare, a
parità di condizioni, maggioranza” (N. BOBBIO , Quale socialismo?, Einaudi, pagg. 42-43).
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(TAR, Consiglio di Stato: art. 103 Cost.), alla Corte dei Conti (art. 103 Cost.), al
Tribunale ordinario e superiore delle Acque pubbliche, alle Commissioni tributarie (d.
lg. 31-12-1992, n. 545 e 31-12-1992, n. 546), eccetera.
2.1.3. L'interpretazione e il diritto. La certezza del diritto
2.1.3.1. Se è vero che le fonti del diritto sono costituite da leggi, direttive CE,
regolamenti e che tutti questi testi normativi sono scritti in una certa lingua (l'italiano,
nel caso nostro) e quindi consistono in un insieme di frasi, di disposizioni (D)
sintatticamente costruite secondo le regole della grammatica, allora è altrettanto vero
che vanno interpretate (I). Solo dopo l'interpretazione è possibile asserire quale è la
regola, la norma (N) veicolata dalla fonte, dalla disposizione (D): quindi solo dopo
l’interpretazione è possibile capire quali sono le regole del diritto e come è costituito
l'ordinamento giuridico. Il diritto non è, quindi, nelle fonti e cioè nelle disposizioni
scritte in una certa lingua contenuta nelle leggi e nei regolamenti, bensì in quelle fonti
interpretate.
Dalle fonti (D) si perviene al diritto (all'insieme strutturato di norme: N) solo
attraverso l'attività interpretativa o ermeneutica (I). Quindi, simbolicamente, il viaggio
dalle fonti al diritto è segnato dai seguenti passaggi:
D--------I-------N
Ovviamente, avendo presente tale schema, è facile arguire che non vi è
corrispondenza biunivoca tra D e N.
Supponiamo che D sia una legge di tre articoli con 2 commi per ciascun articolo
e che ciascun comma esprima una regola a sé stante. Scrivendo le D nella colonna di
sinistra, avremmo:
Legge X (D) \ Diritto da legge X (D + I = N)
(1) articolo 1, comma 1
(2) articolo 1, comma 2
(3) articolo 2, comma 1
(4) articolo 2, comma 2
(5) articolo 3, comma 1
(6) articolo 3, comma 2
Se vi fosse corrispondenza biunivoca tra D e N, se cioè vi fossero tante N quante
sono le D e viceversa, avremmo 6 Norme. In realtà abbiamo sì 6 norme ma non "certe",
bensì solo "probabili".
Scriviamo di nuovo, alla sinistra della nostra colonna, le D e a destra le N
attraverso I. Potremmo avere:
Legge X (D) \ Diritto da legge X (D+I = N)
(1) D1
N1
o
N1.1
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(2) D2
(3) D3
N2
N3
o
N3.1
(4) D4
N4
(5) D5
N5
(6) D6
N6
o
N6.1
A fronte di D1, D3, D6, l'interpretazione può condurre a dire, rispettivamente,
che sono possibili N1 o N1.1, N3 o N3.1, N6 o N6.1. La scelta tra N1 e N1.1, N3 e
N3.1, N6 e N6.1 è frutto di interpretazione dottrinale (certi giuristi, commentando la
legge X, ammettono le possibili N sopra trascritte: poi, però, asseriscono che
l'interpretazione "più corretta" è quella per cui a D1 corrisponde N1.1, a D3 corrisponde
D3, a D6 corrisponde N6.1) o di interpretazione giudiziale (le sentenze, come formante
del diritto, contribuiscono a chiarire quale è l'interpretazione più corretta).
A volte interviene lo stesso legislatore che, con legge (interpretazione autentica),
dice che, ad esempio, a D1 corrisponde N1.1. Accanto alle interpretazioni dottrinali e
giurisprudenziali, vi sono quelle date da circolari (ad esempio, a proposito della legge
M erloni, la c.d. circolare Di Pietro).
Vi è poi un tipo di interpretazione dato dalla prassi, dal comportamento: D1 si
interpreta nel senso di N1.1.
Di fronte a leggi recenti e in assenza di interpretazioni autentiche, prevalgono le
interpretazioni di prassi e quelle dottrinali: segue, a molta distanza di tempo,
l’interpretazione giurisprudenziale occasionata da vertenze (liti) in ordine al significato
di varie disposizioni normative.
Il diritto, quindi, per l’ambiguità del linguaggio in cui è espresso e per la
19
presenza, in tale linguaggio, di termini vaghi , è sempre un insieme di norme
(significati di disposizioni) con un certo grado di incertezza. Una relativa certezza si
acquisisce quando, dopo un lungo periodo di vigenza di una legge, questa viene
interpretata sempre in un certo modo dalla giurisprudenza dominante e cioè da una serie
19
Le ambiguità sintattiche degli enunciati linguistici danno luogo a interpretazioni diverse. I
termini “ vaghi”, pur essendo precisi, hanno un’estensione dai confini sfumati. Ad esempio i
termini: “calvo”, “mucchio” eccetera hanno confini sfumati perché è praticamente impossibile
asserire di quanti capelli deve essere carente un uomo per essere calvo, di quanti granelli di
sabbia deve essere composto un mucchio di sabbia (v.si, in punto: C. LUZZATI, La vaghezza
delle norme: un’analisi del linguaggio giuridico, Giuffrè, 1990).
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di sentenze dei massimi organismi giurisprudenziali (Corte di Cassazione, Consiglio di
Stato).
Ancora una precisazione: nel caso di D2, D4 e D5, i dubbi interpretativi non
sussistono.
In questi casi si asserisce che in claris non fit intepretatio. In realtà, anche in tali
ipotesi, v’è pur sempre un’attività interpretativa, solo che questa conduce a risultati
univoci.
In sintesi: il diritto come insieme di N non è mai “certo”. E’ solo certo l’insieme
delle disposizioni normative (D), escluse, anche qui, le norme derivate dalle
disposizioni normative attraverso la “interpretazione-integrazione analogica”. Queste
ultime si trovano nelle fonti di cognizione (v. sub. 2.1.4.).
2.1.3.2. Quanto sopra detto può essere ripetuto nei termini che seguono.
(a) L’ordinamento giudico è costituito da norme e da metanorme emanate dagli
organi costituzionalmente deputati a tale funzione. Accanto a queste si collocano i
principi. M a l'ordinamento giuridico non è solo questo. L'ordinamento, come insieme di
norme, è "certo" solo in questo senso: che qualsiasi soggetto, con un certo sforzo e
consultando certi documenti (G.U.C.E., G.U., raccolte di leggi, codici, raccolte di
regolamenti, B.U.R. ecc.), può sapere se una certa legge o un certo regolamento è valido
o no e cioè se è vigente o è stato abrogato. Da qui a conoscerne il significato il passo
non è breve. Sotto tale aspetto il termine "certezza" del diritto può voler dire poco o
nulla.
E allora si può asserire che l'ordinamento giuridico, inteso come insieme di
disposizioni normative e cioè come insieme di espressioni linguistiche di un certo tipo
(prescrittivo), è "certo" solo perché quel linguaggio, sia esso un insieme di frasi scritte
in una certa lingua o un insieme di frasi traducenti comportamenti (le raccolte di
consuetudini), è rintracciabile in qualche documento.
Possiamo qualificare tale insieme, come insieme di disposizioni normative,
come "D". "D" può -come qualsiasi linguaggio- non essere chiaro. La non chiarezza può
dipendere da errori imputabili al legislatore (e quindi da ambiguità di intere frasi o
insiemi di frasi), dal contenere dette frasi dei termini vaghi, da altri motivi quali
l'ignoranza dei destinatari delle disposizioni, eccetera.
L'ambiguità deriva dalla difficoltà, per il legislatore, di comunicare: tale
ambiguità aumenta se ogni nuovo messaggio, ogni nuova disposizione normativa si
inserisce in un vasto complesso di disposizioni precedenti con l'intento di modificarle in
tutto, ma generalmente solo in parte. I termini vaghi, quali "giustizia", "libertà",
"democrazia" e/o i sintagmi "modica quantità" quale criterio discriminante un
comportamento illecito da uno lecito ecc., non sono ambigui: denotano oggetti, entità,
nozioni, concetti che sono a cavallo tra oggetti, entità, nozioni, concetti tra di loro
diversi e distinti, così come il "grigio" che è a cavallo tra il "bianco" e il "nero" o come
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la nozione di "mucchio" che non è l'uno e non è il due . . . e non si può dire esattamente
da dove cominci.
L'ignoranza dei destinatari delle disposizioni giuoca un suo ulteriore ruolo nel
rendere incerto il significato delle disposizioni normative.
Per questi e/o per altri motivi, "D" può significare N1 o N2 o anche, a volte, N3
("norma uno" o "norma due" o norma tre"). Da qui l'esigenza che "D" venga interpretato
onde pervenire a "N" e ciò affinché dall'ordinamento giuridico come insieme di
disposizioni normative si possa pervenire all'ordinamento giuridico come insieme di
norme (o regole). (Viene impiegato "D" per denotare le norme ancora da interpretare e
"N" per individuare le norme interpretate e cioè le regole).
Come è facile immaginare l'ordinamento giuridico è costituito da "D"
interpretato e quindi da "N" quando vi è una certa unanimità di prassi interpretativa.
L'interpretazione -come è noto- è opera del Legislatore (interpretazione autentica) o dei
giudici (interpretazione giurisprudenziale). A queste attività primarie concorrono altri
tipi di interpretazione: quella dottrinaria (di per sé di poco valore se non nei limiti in cui
influenza e a volte determina quella giurisprudenziale), quella della pubblica
amministrazione (attraverso risoluzioni e/o circolari); quella consistente nella prassi
(qualora "D" venga interpretato come "N1" attraverso comportamenti concreti). Resta il
fatto che, in assenza di interpretazioni particolarmente autorevoli (quella autentica,
quella giurisprudenziale, quella che è opera dei vari M inisteri attraverso circolari e/o
risoluzioni), l'ordinamento rimane "D". Da qui il fatto che detto ordinamento è
perpetuamente parte "N" e parte "D": le metanorme tese a rendere coerente e completo
l'ordinamento hanno a che vedere con l'attività di interpretazione e quindi la fase di
passaggio da "D" a "N".
Prima, l'attività interpretativa è presente in chi deve emanare le disposizioni
normative. Il legislatore ordinario, quello regionale, la PA devono, rispettivamente,
interpretare le norme costituzionali, i principi di cui all'art. 117 Cost. (le c.d. leggicornice), le leggi ordinarie al fine di emanare leggi ordinarie e regionali
costituzionalmente legittime e atti amministrativi che non siano viziati da "violazione di
legge".
Quindi l'attività di interpretazione, permea l'intero ordinamento: il legislatore
interpreta le leggi costituzionali e il complesso delle disposizioni precedenti per
emanare le leggi ordinarie e quelle regionali. La PA interpreta la legge per emanare atti
amministrativi. I giudici interpretano, alla luce di certi criteri interpretativi (le
metanorme di cui agli artt. 12-14 delle "preleggi" al c.c.), le leggi ordinarie, quelle
costituzionali, quelle regionali, nonché gli atti amministrativi. I giudici, ancora,
interpretano i fatti e tutta l'attività privata alla luce di altri criteri interpretativi (artt.
1362-1371 c.c.).
La Corte Costituzionale interpreta le disposizioni costituzionali e quelle
ordinarie per decidere se le seconde sono coerenti con le prime e quindi legittime.
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Che "D", attraverso “I” (interpretazione) diventi "N" è un'eventualità, una
probabilità che diventa tanto più elevata quanto più è estesa nel tempo la durata di "D" e
quanto più "D" regola "casi concreti". Sono questi ultimi, in definitiva, che
costituiscono il motore di passaggio da "D" a "N".
(a.1) Le leggi in senso tecnico, nel nostro ordinamento, sono solo quelle
costituzionali (costituzione e leggi costituzionali), quelle ordinarie (emanate dal
Parlamento e dal Governo: leggi, decreti legislativi, decreti legge poi convertiti in
legge), quelle regionali (delle Regioni a statuto speciale o ordinario) e quelle delle
Province di Trento e Bolzano. Tali leggi sono dei testi normativi che, in quanto scritti
nella lingua italiana, contengono delle disposizioni normative e cioè delle disposizioni
appartenenti all'insieme "D". Anche gli "usi" (quelli di cui all'art. 8 delle "preleggi" al
c.c.), in quanto normalmente tradotti in disposizioni normative espresse e raccolti in
testi normativi, vanno ad arricchire "D". Le norme non sono solo prodotte da leggi e
consuetudini. Vi sono norme di rango inferiore che però appartengono latamente a "D":
si tratta dei regolamenti, degli atti amministrativi non così generali come i regolamenti,
delle stesse sentenze che contengono le regole di un caso controverso per le parti
litiganti e che poi contribuiscono a far passare da "D" a "N" le disposizioni implicate dal
caso deciso.
Detto questo e tornando all'attività di interpretazione si è visto che detta attività
permea l'intero ordinamento. Se vogliamo, la si può trovare a monte delle stesse
Costituzioni, laddove il legislatore costituente interpreta le esigenze sociali di quel dato
momento storico per emanare il "D" di rango costituzionale. Quindi elencando e
volendo attribuire un certo, seppur vago, contenuto all'attività di interpretazione,
possiamo asserire che:
a) il legislatore costituzionale (e, in tale nozione, può rientrare il legislatore CE
in quanto fonda un ordinamento comunitario) traduce in disposizioni normative
costituzionali le esigenze sociali e i valori espressi dalla società civile di quel dato
momento storico: tale attività è libera nei contenuti: quindi è attività "retorica", intesa
come attività di convincimento e autoconvincimento che quelle disposizioni
costituzionali sono la miglior traduzione possibile dei valori espressi dalla società civile
in quel momento);
b) il legislatore ordinario (Parlamento, Governo e, semplificando, le Regioni a
statuto speciale e ordinario, nonché le Province di Trento e Bolzano) interpreta le
disposizioni costituzionali per emanare il complesso delle leggi ordinarie.
Vi è una logica tra leggi costituzionali e leggi ordinarie? E cioè: può asserirsi
che le leggi costituzionali costituiscano un insieme di assiomi, rispetto ai quali il
legislatore ordinario, se intende pervenire alle leggi ordinarie, ha un solo percorso
obbligato: quello di emanare solo quel tipo di leggi ordinarie (limitate nel numero),
forzatamente di un solo e univoco significato, sì che le medesime, all'evidenza, siano un
insieme di regole senza bisogno di ulteriore attività interpretativa?
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ORDINAMENTO GIURIDICO
La risposta è negativa. Non vi è logica tra norme di rango superiore e inferiore.
Anche l'attività di normazione ordinaria implica un'interpretazione di tipo retorico. Vi è
però una differenza: qui il legislatore ordinario, almeno a livello formale, non media tra
esigenze e/o valori sociali e disposizioni normative, bensì tra disposizioni normative di
diverso rango. Tale attività presuppone un tipo di interpretazione diverso: il legislatore
ordinario non deve superare la cornice di confine posta dalle disposizioni costituzionali.
Se si pensa però che le leggi costituzionali vanno interpretate al fine di ricavarne la
cornice di confine, è da affermarsi che, anche in ordine a tale confine, non è mai
possibile una assoluta determinazione a priori.
Detto questo, l'attività di normazione ordinaria, pur libera nel senso su precisato,
è più vincolata di quella del legislatore costituzionale;
c) le pubbliche amministrazioni, nell'emanare atti amministrativi, interpretano le
leggi ordinarie dovendo tener conto di ulteriori limiti: nell'interpretare queste, devono
tener conto delle metanorme di cui agli artt. 12-14 delle "preleggi" al c.c., nonché delle
disposizioni costituzionali (nel dubbio le leggi ordinarie vanno interpretate nel senso
che non contrastino con le leggi costituzionali). L'interpretazione che costituisce il
medium tra leggi e atti amministrativi è, in tal caso, ancora "meno libera" (se tale
sintagma vuol dire qualcosa) di quanto non lo sia nel caso sub b). E il minor grado di
libertà che incontra l'attività interpretativa sembra essere dato da criteri razionali; in
sostanza, dall'applicazione al mondo delle regole precettive di principi propri delle
regole assertive (i principi di non contraddizione, del "tertium non datur");
d) l'autorità giudiziaria (ordinaria o amministrativa), nell'applicazione della
legge, deve: (a) ricostruire i fatti; (b) scegliere, tra le varie regole, quella o quelle
regolanti i fatti; (c) quindi decidere e cioè emanare una sentenza.
Di conseguenza i giudici interpretano i fatti e interpretano le disposizioni
normative: fanno cioè un "ragionamento giuridico" in ordine al quale si pone il
problema se il medesimo sia di tipo esso pure retorico ovvero logico e, in particolare, di
tipo sillogistico. Anche il ragionamento giuridico implicante scelte tra fatti e norme al
fine del decidere, viene ricondotto a un argomentare di convincimento (previo
autoconvincimento) e quindi di tipo retorico;
e) tutti i soggetti dell'ordinamento, infine, interpretano fatti e norme, a seconda
dei casi, tenendo conto delle precedenti attività illustrate sub a), b), c) e d). Nei casi
dubbi o comunque controversi (allorquando cioè pur essendo abbastanza chiaro che il
fatto x è regolato da "N1", ma vi è chi contesta ciò asserendo che "D" è, ad es., "N2),
non v'è altra possibilità che l'attivazione delle azioni processuali. In tali casi
l'ordinamento, a priori, offre "D" ma non "N": chi vuol sapere se il suo caso è regolato
da "N1" o da "N2" deve attivare il "giuoco" processuale: solo alla fine di tale giuoco
saprà se il fatto x è regolato da "N1" o "N2".
(a.2) Torniamo all'attività interpretativa. Di mano in mano che si passa
dall'attività sub a) a quella sub b) e, via via, sino a quella sub e), detta attività diventa
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ORDINAMENTO GIURIDICO
sempre più complessa: nel caso sub e) è, addirittura, impossibile rintracciare nel nostro
ordinamento, a diversità di quello a "Common Law" ove vige il principio "stare
decisis", la regola sicura.
Il "caso" controverso naviga nell'incerto e l'ordinamento non offre se non "D" o
un "N" contestato. La contestazione è, a volte, giustificata, visto che, ad esempio, la
Cassazione -oberata di lavoro- applica molto di frequente, in ordine allo stesso caso
concreto, una volta la norma "N1", altra volta quella "N2" e altre volte ancora, sempre
in ordine al medesimo caso concreto, applica "D" come "D1" interpretata come "N1" e
altre volte "D" come "D2" a sua volta interpretata come "N2".
A prova di ciò si può addurre il fatto, che la Cassazione, nel 1990, si è smentita
176 volte, seppure su un totale di 12.207 sentenze pubblicate. Analoghi contrasti si sono
verificati, per la Cassazione, nel 1988 e 1989 e si verificano presso tutti gli organi
giurisdizionali. Da qui il fatto che nessuno può dire con certezza che "D" è "N1": un
avvocato può sempre consigliare al cliente di iniziare una causa perché vi è una qualche
probabilità che la giurisprudenza cambi. Quindi, a rigore, l'ordinamento giuridico passa
da "D" a "N", ma in maniera provvisoria: è mai "N" definitivamente.
In tutti i casi esaminati l'interpretazione è attività retorica. Scelta di traduzione in
norme di certi valori, principi, esigenze sociali, nel caso a). Attribuzione di certi
significati alle norme costituzionali nel caso b); attribuzione che è, anche qui, una scelta
"a rischio" tra il significato 1 e il significato 2 delle disposizioni costituzionali (la scelta
è "a rischio" perché può essere smentita dalla Corte Costituzionale).
Lo stesso discorso può essere fatto per le ipotesi sub c) e d), in quanto le
interpretazioni ivi implicate sono sindacabili dai giudici (caso d). Nel caso d) si ha
"interpretazione forte", quella giurisprudenziale, perché oltre la medesima non c'è nulla:
è l'interpretazione che, in relazione a un certo caso, fa passare (provvisoriamente e
precariamente) l'ordinamento da "D" a "N".
In conclusione non vi è "logica" nel tradurre in norme le esigenze sociali nel
caso a): anche quando venga assunto come dato di partenza un certo principio sociale,
questo, proprio perché "vago", potrà essere tradotto in "D1" o “D2" o “D3". Lo stesso
può dirsi per il caso b): questo però pone problemi di superamento di confini. Anche in
tal caso però -visto che, a priori, può sempre argomentarsi che il confine non è stato
superato e la disputa sarebbe senza fine se non troncata, non da regole di inferenza
logica, ma dall'esercizio di un certo potere (quello della Corte Costituzionale)- non può
parlarsi di "logica tra norme": le norme ordinarie non sono conseguenza necessaria di
quelle costituzionali.
Nel caso d), ove tecnicamente si parla di "ragionamento giuridico", vi sono più
tesi: (a) quella del sillogismo giuridico: la norma x è la premessa maggiore; il fatto
regolato dalla norma x è la premessa minore; la sentenza è la conclusione (tutti i ladri
devono essere puniti; Tizio è un ladro; Tizio deve essere ed è punito; tutti gli X devono
essere Y; qualche Z è X, qualche Z deve ed è Y: sillogismo analogo a quello "DArII"
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per le proposizioni assertive); (b) quella dell'argomentazione di tipo retorico: il giudice
deve scegliere il fatto e decidere se Tizio è o no un ladro e poi scegliere tra più
disposizioni normative "D" per verificare quella che regola il caso, indi deve
interpretare "D" nel senso di "N"; infine emana la sentenza che è una decisione più o
meno "argomentata"; (c) quella che, pur aderendo alla tesi (b), non esclude un nucleo
logico del tipo (a). Si tratta di questo: l'attività del giudice è sempre di tipo retorico argomentativo. Una volta però che il giudice abbia chiarito il fatto x (Tizio ha sottratto
qualcosa a qualcun altro); abbia deciso che la norma regolante il caso è "D" interpretata
come "N1" (il fatto X è "furto" e "Tutti i ladri devono essere puniti") e, ancora, una
volta che abbia deciso di compiere i doveri connessi alla sua funzione di giudice (e
quindi deciso di decidere), allora non potrà sottrarsi a una operazione di pura deduzione
logica. Dovrà concludere che dalla norma prescelta e interpretata come "N1" discende
che Tizio deve essere punito e ciò in base al principio puramente logico per il quale la
norma astratta: "Tutti i ladri devono essere puniti" comprende e include la regola
concreta "Tizio, che è ladro, deve essere punito". L'enunciazione: "Tutti i ladri devono
essere puniti", una volta che, per il tramite dell'interpretazione, sia stata chiarita nel
senso che diventi una proposizione prescrittiva altrettanto chiara di una proposizione
descrittiva ("Tutti gli uomini sono mortali"), può essere riespressa così: "I ladri a, b, c . .
.n e quindi anche Tizio devono essere puniti". Diventa ovvio e tautologico allora
asserire -accertato che Tizio è un ladro (accertamento analogo a quello per il quale
"Socrate è un uomo" nel sillogismo DArII)- che Tizio deve essere punito. La
"conclusione" ("Tizio deve essere punito") è frutto, a questo punto, di un giudizio
analitico necessitato. L'intero processo è sì argomentativo e quindi retorico (si intende
per "retorica" ogni attività umana argomentata e ragionevole, escluse unicamente le
attività di tipo logico e matematico): includerà però un nucleo logico ineliminabile
basato sul fatto che una certa "D - N1", in quanto mai individuale e quindi quasi sempre
generale, include in sé tutte le regole individuali di cui quella generale è l'insieme o, se
si vuole, l'universale, esausistiva comunque dell'universo del discorso.
Come nella logica delle proposizioni descrittive (o aletiche) non viene posto in
dubbio che la proposizione: "Tutti gli uomini sono mortali" include Tizio, Caio,
Sempronio e quindi anche Socrate come uomo mortale, così nella logica delle
prescrizioni non pare possa essere posto in dubbio che la proposizione: "Tutti i ladri
devono essere puniti" includa anche quella per la quale "Tizio, in quanto ladro, deve
essere punito". Ciò che va negato è che l'intero ragionamento giuridico sia di tipo
sillogistico: una parte dello stesso pare lo sia purché si accetti che: (a) le proposizioni
prescrittive, pur non rispondendo al criterio del "vero-falso", rispondono al criterio del
"valido-non valido" (valido nel senso di norma esistente, non abrogata) e quindi al
criterio del "si-no"; (b) le proposizioni prescrittive generali includono le proposizioni
prescrittive particolari come loro elementi permettendo quindi la deduzione di tipo
analitico. D'altra parte negando un nucleo logico e quindi che un "sillogismo pratico" sia
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presente nell'argomentare giuridico, non si saprebbe come giustificare il fatto che il
Giudice, prima di decidere (sentenziare), deve riportare il fatto nell'ambito di una certa
norma. Se si affermasse che la norma: "Tutti i ladri devono essere puniti" è la norma
che regola il caso di Tizio che ha rubato e poi non si concludesse nel senso che la norma
implica che "Tizio, in quanto ladro, deve essere punito", si troverebbe che detto
ragionamento è contraddittorio. Il Giudice potrà anche assolvere Tizio, ma includendo
nel ragionamento complessivo altri elementi che non infirmino però il nucleo logico di
cui sopra si è parlato. Se infirma un tale modo di procedere compie un'operazione
analoga a quella di chi affermasse che se 4 include 3 non include però 2.
L'argomentazione giuridica dell'attività sub d) è quindi, nel suo complesso,
retorica e frazionata in più attività: (a) esame - selezione dei fatti e loro interpretazione;
(b) interpretazione di più norme e scelta di quella ritenuta disciplinare i fatti in
contestazione; (c) giudizio analitico (quindi "logico giuridico); (d) decisione-sentenza.
2.1.3.3. Stesso discorso può essere ripetuto per le altri fonti di produzione del
diritto (Regolamenti, direttive, usi, contratti, sentenze eccetera). Per comprendere quali
sono le norme generate da tali fonti, occorre interpretare queste ultime.
2.1.3.4. Altra fonte del diritto sono le direttive. Il termine designa sia vere e
proprie “leggi” (si parla di Regolamenti e direttive comunitarie come delle “leggi” in
quanto di grado superiore a quelle nazionali [es.: le direttive 17 e 18/2004 a proposito di
appalti pubblici di lavori, servizi e forniture]), che “consigli”, “raccomandazioni”, “linee
programmatiche” più o meno vincolanti (si parla, ad esempio, nel diritto societario, di
direttive da parte della “società madre” nei confronti di “società operative”).
2.1.4. Le fonti di cognizione.
Per fonti di cognizione si intendono i documenti su cui sono scritte le leggi, i
regolamenti, le direttive CE. Tali documenti sono: (1) per le leggi nazionali (leggi,
decreti legislativi, decreti legge e relative leggi di conversione), la Gazzetta Ufficiale
della Repubblica italiana (G.U.); (2) per i regolamenti statali, la G.U.; (3) per le direttive
CE, la Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee (G.U.C.E.); (4) per le leggi e i
regolamenti regionali; il Bollettino Ufficiale della Regione (B.U.R.).
Le sentenze sono pubblicate su riviste specializzate.
2.2. Diritto privato e pubblico. Diritto comune, diritto speciale. Diritto
“comune-speciale” e diritto eccezionale o singolare
2.2.1. L’insieme delle norme giuridiche (costituenti, come si è visto,
l’ordinamento giuridico) contiene vari sottoinsiemi. I criteri per creare detti sottoinsiemi
sono vari. Il più antico è quello che suddivide le norme a seconda che riguardino i
“soggetti” dell’ordinamento e i loro particolari interessi ovvero la comunità dei soggetti
nel suo insieme. Le prime appartengono al diritto privato, le seconde al diritto pubblico.
(Alcuni giuristi romani asserivano: “Publicum ius est quod ad statum reipublicae
spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem”).
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ORDINAMENTO GIURIDICO
(1) Il diritto privato è per gran parte contenuto nel codice civile. Questo testo
normativo riguarda: (a) i diritti delle persone e della famiglia (Libro I); (b) le
successioni (eredità, legati ecc.: Libro II); (c) i diritti reali (proprietà, enfiteusi,
superficie, usufrutto, uso, abitazione, comunione, condominio, possesso: Libro III); (d)
le obbligazioni e i contratti (Libro IV); (e) il lavoro, le imprese, le società (le società di
persone e cioè: società semplici, in nome collettivo, in accomandita semplice; le
cooperative a responsabilità illimitata; le società di capitali e cioè: le società a
responsabilità limitata, le società per azioni, le società in accomandita per azioni, le
cooperative a responsabilità limitata: Libro V) (e) le ipoteche, i privilegi, i pegni, la
forma pubblica di certi contratti, la conservatoria dei registri immobiliari, i principi in
tema di esecuzione forzata, le prescrizioni e le decadenze (Libro VI).
(Da notare che, per effetto dell’articolo 11 del c.c., anche le varie Pubbliche
amministrazioni possono essere “soggetti” che si avvalgono delle norme del diritto
privato: lo vedremo meglio in seguito).
(2) Il diritto pubblico (quod ad statum reipublicae spectat) si suddivide, a propria
volta, in vari altri rami: (a) diritto costituzionale (si occupa delle norme costituzionali e,
in genere, di come è costituito lo Stato, il Governo e le altre istituzioni pubbliche); (b)
diritto amministrativo (si occupa principalmente di che cosa può fare l’esecutivo e
quindi delle attività delle varie pubbliche amministrazioni [PP.AA.]: atti amministrativi,
contratti delle PP.AA. ecc. nonché della giustizia amministrativa); (c) diritto tributario
(si occupa delle imposte, delle tasse, dei tributi in genere e del contenzioso tributario),
(d) diritto ecclesiastico (si occupa dei rapporti tra lo Stato e le varie istituzioni
religiose); (e) diritto penale (si occupa dei reati); (f) diritto di procedura civile (studia
come deve celebrarsi il processo civile); (g) diritto di procedura penale (si occupa del
processo penale), eccetera.
2.2.2. Altra distinzione è quella tra diritto comune (o generale) e diritto speciale.
Tra l’uno e l’altro corre un rapporto tra genus e species.
Se una determinata condotta è disciplinata dal diritto comune e dal diritto
speciale, si applica il diritto speciale (lex specialis derogat generali). Se un certo settore
del diritto speciale presenta delle lacune, queste vengono colmate dal diritto comune
(caso frequente nel campo dei contratti delle PP.AA.).
2.2.3. La distinzione tra “diritto comune-speciale” e diritto eccezionale (o
singolare) attraversa ogni tipo di norme. Si rintracciano norme eccezionali sia nel
campo del diritto privato (costituito dal diritto comune e dal diritto speciale) che in
quello pubblico.
M entre il rapporto che corre tra diritto comune e quello speciale è quello tra
regola (genus) e sua specificazione (species), il rapporto che corre tra diritto “comunespeciale” e diritto eccezionale è quello tra “regola” e sua “eccezione”. Da qui il fatto che
tra regola e eccezione vi è netta separazione: non si applicano norme del diritto comune
al diritto eccezionale e questo non è suscettibile di applicazione analogica.
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2.3. Diritto nazionale, comunitario, internazionale
Ogni diritto nazionale, a propria volta, si contrappone al diritto internazionale
(che disciplina i rapporti tra gli Stati: in pace e in guerra).
Per diritto comunitario, invece, si intende il diritto comune agli Stati membri
della Comunità Europea: come tale fa parte del diritto nazionale di ogni Stato della CE.
2.4. Gli istituti giuridici
20
Se è vero che nel discorso prescrittivo si “fanno cose con le parole” e se la
parola “istituto” significa, tra l’altro, in campo giuridico, ciò che viene
20
La locuzione “ fare cose con le parole” risale a JOHN LAUGSHAW AUSTIN (autore del libro:
“ Come fare cose con le parole” Marietti Editore, 1987).
Per capire il pensiero di Austin, occorre -a mio parere- aver presente che il linguaggio umano è
oggetto di studio, secondo diversi punti di vista, da parte di una particolare disciplina scientifica
chiamata linguistica. Questa studia il linguaggio, tra l'altro, dal punto di vista sintattico (e cioè
come le varie parole si combinano, si collegano tra di loro: in greco syntaxis significa
"combinazione", "ordine", "disposizione"), semantico (e cioè dal punto di vista del significato
delle parole: dal greco semainein = significare) e dal punto pragmatico (e cioè come il
linguaggio è anche azione o un insieme di atti linguistici: in greco pragmatikos = relativo ai
fatti).
1. Dal punto di vista semantico, i discorsi dei parlanti (o di coloro che scrivono), si distinguono
in descrittivi, prescrittivi, espressivi eccetera.
1.1. I discorsi descrittivi (ma si dice anche le frasi, le proposizioni, gli enunciati) descrivono il
reale (es.: "Fuori piove", "Oggi è l'11 marzo del 2002", "I pianeti si muovono attorno al sole
secondo questa legge" ecc.). Essi appartengono sia al linguaggio ordinario, che a quello
scientifico. Come tali essi sono o "veri" o "falsi". Non è data una terza possibilità (tertium non
datur).
La verità consiste nella corrispondenza del discorso descrittivo con la realtà ("La neve è bianca"
è proposizione vera se e solo se la neve [quella naturale] è effettivamente bianca). (La verità,
secondo altra teoria, è coerenza linguistica: ma è teoria che, se si vuole, è semplice variante
della verità come corrispondenza). Le frasi del discorso descrittivo si dicono anche aletiche (dal
gr. a-létheia = verità) o apofantiche (dal gr. apofantikós = enunciativo assertivo: secondo
Aristotele gli enunciati apofantici, in quanto asseriscono che qualcosa è o non è, possono solo
essere veri o falsi).
Le proposizioni del discorso descrittivo attuano un c.d. triangolo semiotico (semiotico dal gr.
séma = segno che, a sua volta, significa qualcosa).
Nelle dette proposizioni vi sarebbero dei "segni" (le parole della proposizione); questi
veicolerebbero uno o più pensieri (o "sensi" o "concetti" o "significati") e i pensieri (o concetti o
significati) avrebbero una loro estensione o denotazione o riferimento (i segni veicolano pensieri
che rappresentano un pezzo di realtà).
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T utte le parole c si riferiscono al mondo della natura o comunque a un mondo oggetto del
mondo b.
Quindi il concetto o significato di "mela" (mondo b) ha una estensione o denotazione che lega
(da lògos = legame, concetto) tutte le mele concrete di questo mondo: ha, si potrebbe dire, un
suo "perimetro": ha, al contempo, una sua intensione o connotazione nella testa, nel cervello, del
parlante, nel senso che il "concetto di mela" racchiude, nella testa di ognuno, tutte le
caratteristiche per le quali chi dice "mela" e non "pera" spezza il "continuo" del reale in due
settori: "mela" e "pera" e così via, tendenzialmente, all'infinito.
(Adesso, tra l'altro, si può capire perché, forse, la verità come coerenza è teoria più corretta di
quella della verità come corrispondenza.
La seconda dice che le proposizioni del mondo a sono vere se corrispondono agli oggetti del
mondo c, per il tramite del mondo b.
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ORDINAMENTO GIURIDICO
Però siccome noi qualifichiamo il reale c per il tramite di parole, non è poi sbagliato dire che le
proposizioni del mondo a sono vere se e solo coerenti con le parole che qualificano il mondo c.
Es.: la proposizione "la neve è bianca" è vera se la neve concreta è bianca, in definitiva vuol dire
che siccome, in italiano, conveniamo di qualificare la neve, "con parole" come oggetto naturale,
come bianca, allora diciamo la verità quando diciamo che la "neve, è bianca" e il falso quando
diciamo che "la neve è verde". La verità non starebbe nella corrispondenza tra la proposizione
virgolettata e la realtà, ma tra la proposizione virgolettata e il comune modo di qualificare "con
parole" il colore della neve. Quindi nella "coerenza" tra le parole tra virgolette [il dire "la neve è
bianca"] e le parole della comunità italiana che qualifica il colore della neve come bianca).
1.2. Il discorso prescrittivo è, invece, tipico della morale (es. "Ama Tua madre, come Te stesso"
ovvero "Ama Tua madre un pochino di più della sorella" eccetera), del diritto ("Non devi
commettere reati, se li commetti sarai punito"), del costume (es.: "Se sei in una riunione tra
amici, non devi sputare per terra"), eccetera.
Gli enunciati prescrittivi non si possono inquadrare in un triangolo semiotico, perché: (1) le
parole a non rinviano, per il tramite del mondo b a un mondo reale c: semplicemente le parole
creano delle regole come norme di condotta dei consociati; (2) quindi le parole a non hanno un
significato (o concetto, o idea, o senso) che rinvii al mondo c: il significato di un enunciato
prescrittivo sta tutto nella regola di comportamento; (3) nel discorso prescrittivo non ha senso
parlare di "verità" perché non esiste corrispondenza tra ciò che si asserisce e il mondo della
natura (una norma giuridica sarà solo valida [= in vigore] o invalida [= abrogata]: non ha senso
dire che è vera o falsa).
1.3. Il linguaggio espressivo è quello delle varie arti (letteratura, musica, pittura ecc.).
2. Veniamo a Austin. Questi chiama "constativi" o "constatativi" i discorsi descrittivi sub 1.1. e
"performativi" (da performance) quelli "prescrittivi". Rileva che i secondi non hanno a che
vedere con la "verità" e che quando un parlante pronuncia enunciati performativi "fa cose con le
parole". E cioè quando il legislatore emana una legge compie un atto linguistico con il quale "fa
cose" e cioè crea delle norme o regole. Gli enunciati performativi sono caratterizzati, proprio
perché creano "cose", da una "forza" (creatrice).
(Austin prosegue la filosofia del c.d. secondo Wittgenstein. Per il primo Wittgenstein [quello del
"T ractatus logico-philosophicus] hanno "senso" solo i discorsi descrittivi. Gli altri non hanno
"senso" [v. mondo b del triangolo semiotico]: al par. 7. del T ractatus Wittgenstein dice: "Di ciò
di cui non si può parlare [con il criterio di verità] si deve tacere". Nell'opera "Le ricerche
filosofiche" e altre Wittgenstein dice invece che, accanto al discorso descrittivo, ve ne sono tanti
altri. I discorsi vengono da Wittgenstein chiamati "giochi linguistici": gli uomini giocano diversi
"giochi", nel senso che si occupano di "descrivere", "conoscere in senso scientifico",
"prescrivere", "scrivere romanzi", "dipingere", eccetera).
2.1.1. Ad un certo punto Austin si accorge che ogni dire è sempre anche un fare: quindi non
solo con gli enunciati performativi si fa qualcosa, ma anche nei discorsi descrittivi. Anche
questi ultimi sono atti linguistici. Perviene così a dire che ogni atto linguistico è esaminabile
sotto tre aspetti: (1) quello locutorio (è l'aspetto puramente grammaticale-sintattico); (2) quello
illocutorio (ogni atto linguistico, compreso quello "constatativo" o descrittivo, oltre avere un
significato-riferimento, ha una certa forza); (3) quello perlocutorio (ogni atto linguistico
influenza il destinatario dell'atto: con gli atti descrittivi, si informa, si danno notizie ecc.; con gli
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“istituito”,“costituito” da norme (ma anche le norme stesse e i principi “istituiti” da chi
ha il potere di crearli), allora la locuzione “istituto giuridico” include tutti i fenomeni, le
entità, costituite o regolate da norme. Nel campo del diritto privato si parla di istituti
giuridici a proposito, ad esempio, della famiglia, della proprietà, dei diritti reali, della
successione ereditaria, delle società, eccetera. Nel campo del diritto pubblico si parla di
istituti giuridici, allorquando si usa la parola istituzione (Stato, Regioni, Enti locali, ma
anche M agistratura, Capo dello Stato, eccetera). Altre volte si parla dell’istituto della
rappresentanza politica e ministeriale, dell’istituto dell’espropriazione eccetera.
Se poi si pensa che la proprietà è, al contempo, anche un diritto soggettivo, che i
soggetti giuridici sono creazione di norme, si può affermare che la parola “istituto”
include tutto ciò che è costituito da norme. Quindi, partendo dal generale al particolare,
si può asserire che sono “istituti giuridici”:
(1) le norme create o che sono oggetto di altre norme; (2) l’organizzazione costituita da
norme; (3) i soggetti dell’ordinamento che: (3.1) intrattengono determinati rapporti
giuridici con dei beni; (3.2) godono di certi diritti soggettivi in ordine a detti beni o
verso altri soggetti; (3.3) hanno certi obblighi (o doveri) in ordine a detti beni e verso
soggetti terzi; (3.4) esplicano determinate attività (su detti beni e verso terzi).
2.5. Le situazioni giuridiche favorevoli (diritti soggettivi, potestativi, azioni,
pretese, interessi legittimi)
L’istituto giuridico più importante sembra essere quello di soggetto giuridico.
Occorre distinguere l’individuo umano (donna, uomo) come essere biologico dal detto
individuo come soggetto giuridico. Questo –che è tale, nel nostro ordinamento, sin dalla
nascita (art. 1 c.c.) e che, in quanto soggetto, può essere titolare di beni e acquistare (con
la maggiore età) la capacità di agire (art. 2 c.c.)- può compiere degli atti giuridici. La
nozione di soggetto si è ampliata sino a comprendere dei gruppi di soggetti fisici
considerati unitariamente da qualche norma (v. art. 11 c.c.). Detti gruppi (se ne parlerà
più diffusamente al par. 3.1) sono essi pure dei “soggetti giuridici” (es.: le associazioni,
le società, ma anche, nel caso del diritto amministrativo, lo Stato, le Regioni, gli enti
locali, l’INPS, l’INAIL, eccetera). I gruppi –se caratterizzati dal fatto di avere un
patrimonio proprio e dal fatto che, in caso di debiti, i soggetti fisici facenti parte del
gruppo non rispondono (con i loro patrimoni individuali) dei debiti del “soggetto gruppo”- sono anche chiamati persone giuridiche (in contrapposizione alle persone
fisiche) o enti.
atti prescrittivi si dettano regole di comportamento che, necessariamente, indirizzano la condotta
degli uomini).
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ORDINAMENTO GIURIDICO
Tutti i soggetti, poi, intrattengono dei rapporti giuridici o con i propri beni o con
altri soggetti: quindi, per varie cause, sono titolari di posizioni giuridiche favorevoli
(godono di diritti soggettivi, eccetera) o sfavorevoli.
Le situazioni giuridiche favorevoli si sogliono distinguere in diritti soggettivi,
diritti potestativi, azioni, pretese, interessi legittimi.
2.5.1. I diritti soggettivi
I diritti soggettivi sono delle potestà che qualsiasi soggetto giuridico ha o può
avere in ordine a certi beni (es.: diritto di proprietà, di usufrutto, diritto sulla propria
persona) o verso altri (es.: diritti di credito). I diritti soggettivi o sono “ri-conosciuti” da
certe norme costituzionali (es.: libertà di pensiero, di associazione eccetera) o sono
accordati da certe norme. (Nel caso di diritti soggettivi costituzionali si può asserire che
certe norme giuridiche non “creano” quei determinati diritti, bensì li riconoscono come
già esistenti, come se fossero “diritti naturali”).
I diritti soggettivi si sogliono distinguere in assoluti (se possono essere fatti
valere verso “tutti”, erga omnes: es.: i diritti di libertà, i diritti sulla persona, i diritti di
autore, i diritti reali) e relativi (se possono essere fatti valere solo verso certe persone:
es.: i diritti di credito possono essere fatti valere solo verso il debitore). (Come si può
vedere, nel caso di diritto soggettivo la parola diritto ha significato diverso dalla analoga
parola quale viene utilizzata per parlare di diritto oggettivo del quale si è parlato
precedentemente e si parlerà successivamente. Nel caso di diritto soggettivo il relativo
significato è quello di potestà, nel caso di diritto oggettivo il significato è quello di un
insieme di norme. Un terzo significato viene assunto dalla parola diritto, allorché si dice
che qualcuno studia un libro di diritto amministrativo. In tal caso si designa un libro che
ha per oggetto lo studio delle norme relative a ciò che è e ciò che può fare il potere
esecutivo).
2.5.2. I diritti potestativi
Variante dei diritti soggettivi sono i diritti potestativi caratterizzati dal fatto che
chi li esercita determina nella controparte una situazione di soggezione, nel senso che
tale situazione non può essere violata.
Faremo un esempio. Se Tizio ha un diritto di credito, Caio (debitore) avrà
l’obbligo di pagare quella somma di denaro di cui Tizio va creditore.
Il diritto di credito può, però, essere violato. Caio può non pagare esponendosi
all’azione giudiziaria di Tizio per ottenere il soddisfacimento del proprio diritto violato.
Se, però, in un contratto si stabilisce che Tizio può recedere da quel contratto, Caio
nulla può opporre all’esercizio del recesso e cioè all’esercizio di quello che viene
denominato un diritto potestativo.
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ORDINAMENTO GIURIDICO
2.5.3. Le pretese
Le pretese, pur nella vaghezza del concetto, esprimono qualcosa di meno del
diritto soggettivo. Esprimono la situazione di chi non è ancora titolare di un diritto
soggettivo ma è in attesa di divenirne titolare (esempi sono dati, in diritto privato, dagli
artt. 492, 713, 874, 972, 1168 c.c., eccetera). Di pretese si può parlare allorquando si
legge che qualcuno non può “far valere le proprie ragioni” (art. 1707 cc), “può far
valere i propri diritti” (art. 38 cc), “può chiedere”, “può domandare” eccetera.
2.5.4. Le azioni
Di azioni si parla a proposito di diritti soggettivi pubblici che abilitano qualcuno
ad attivare un processo. (Chiunque può iniziare un’azione processuale per far valere un
proprio diritto soggettivo: artt. 24 e 113 Cost.; al PM [Pubblico M inistero] spetta
l’esercizio dell’azione penale, art. 112 Cost., eccetera).
2.5.5. Interessi legittimi
Le pretese, nel caso del diritto amministrativo, si denominano interessi legittimi.
Sono, essi pure, qualcosa di meno di un diritto soggettivo: consistono nella pretesa a che
il potere esecutivo esegua correttamente “la legge” allorquando emana atti
amministrativi che possono ledere gli interessi di qualche soggetto giuridico. Si
distinguono interessi oppositivi (es.: chi ha ottenuto un permesso edilizio ha interesse a
opporsi a chi glielo vuol annullare; chi ritiene che qualcuno abbia ottenuto un permesso
edilizio illegittimo, può opporsi a tale permesso), interessi pretesivi (es.: chi è
proprietario di un terreno edificabile secondo il prgc [piano regolatore generale
comunale], ha la pretesa a che gli venga accordato il permesso edilizio), strumentali (in
certi casi qualche soggetto ha interesse ad essere interpellato in ordine a un certo affare,
eccetera).
Gli interessi legittimi comportano, quindi, che gli atti amministrativi non devono
essere illegittimi. E sono tali se emanati da un organo incompetente (es.: dalla Giunta
comunale invece che dal Sindaco), se emanati in violazione di una qualche legge, se
viziati da situazioni di eccesso di potere (es: emanati sulla base di una errata situazione
di fatto; in contrasto con precedenti atti, eccetera).
Gli atti amministrativi illegittimi possono essere autoannullati dalla stessa
Autorità che li ha emanati, ovvero annullati dai TAR competenti se impugnati nel
termine di 60 giorni (o in un termine più breve, a seconda dei casi disciplinati dal
Codice sul processo amministrativo).
2.5.6. Esistono poi situazioni favorevoli “miste” che sono, al contempo, diritti
soggettivi e interessi legittimi a seconda del punto di vista dal quale si osservano: il
titolare di un bene immobiliare soggetto a esproprio (e sino a che il decreto di esproprio
non è emanato) è, al contempo, titolare di un diritto soggettivo verso tutti i terzi
eccezion fatta che per l’autorità espropriante e di un interesse legittimo verso
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quest’ultima. Situazione che pare essere assimilata, concettualmente, a quella della
dualità ”onda/corpuscolo”, “continuo/discreto” a proposito delle particelle elementari
secondo la fisica quantistica. Stessa situazione si può presentare, in alcuni casi, per le
situazioni giuridiche sfavorevoli.
2.6. Le situazioni giuridiche sfavorevoli (doveri, obblighi, soggezioni, poteridoveri)
2.6.1. I doveri, gli obblighi, le obbligazioni
Le situazioni sfavorevoli sono date dai doveri giuridici.
Nel linguaggio giuridico si suole distinguere tra doveri (o obblighi) e
obbligazioni. I doveri implicano l’osservanza di qualsiasi norma giuridica.
Le obbligazioni sono, invece, dei doveri particolari e sono disciplinate in
specifico dagli articoli 1173 e segg. del codice civile. Quindi tra doveri e obbligazioni
corre un rapporto da genere a specie. Le obbligazioni consistono in obbligazioni di dare
(una somma denaro o altro bene) o di fare (es.: un appaltatore, con il contratto di
appalto, assume, verso la stazione appaltante, l’obbligazione di costruire una certa
opera).
2.6.2. Le soggezioni
Le soggezioni sono quelle situazioni (passive) determinate dall’esercizio di un
diritto potestativo. Se, per ricorrere all’esempio già fatto precedentemente, in un
contratto tra Tizio e Caio è previsto che Tizio può recedere, Caio si trova a dover subire
l’esercizio del recesso senza nulla poter opporre. Potrà, ovviamente, contestare che
ricorrano le condizioni per l’esercizio del diritto potestativo di Tizio; ma se dette
condizioni sussistono, nulla può opporre. Diverso è il caso di chi ha un debito verso
Tizio di pagare 100 euro (obbligazione di dare): in tal caso Caio può adempiere o meno
(salvo, ovviamente, esporsi, in caso di inadempimento, all’azione processuale con la
quale Tizio tenterà di recuperare, con una sentenza, i 100 euro non corrisposti
spontaneamente).
2.6.3. Poteri - doveri
Si parla di poteri-doveri, soprattutto nel campo del diritto amministrativo, per
denotare quelle situazioni nelle quali chi ha un certo potere pubblicistico ha anche il
dovere di esercitarlo: il potere esecutivo ha il dovere, ad esempio, di attuare le leggi
emanate dal potere legislativo; i giudici, che hanno il potere di risolvere delle vertenze
giudiziarie, hanno al contempo il dovere di emanare le relative sentenze. Di poteridoveri si parla anche nel campo del diritto privato: i genitori hanno certi diritti sui figli,
ma hanno anche il dovere di educarli (artt. 315 e segg. c.c.).
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2.7. Il rapporto giuridico. I beni. Le attività
2.7.1. Il rapporto giuridico
Il rapporto giuridico è la relazione che intercorre tra più soggetti in ordine a certi
beni. Tale rapporto sussiste anche a proposito dei diritti soggettivi assoluti: infatti i
diritti di libertà, i diritti sul proprio corpo, i diritti reali (di proprietà, superficie,
usufrutto, eccetera) non consistono solo nella potestà di utilizzare liberamente le proprie
facoltà mentali, il proprio corpo, i propri beni, bensì anche nel dovere di tutti di non
ledere detti diritti (v. art. 2043 cc).
Il rapporto giuridico intercorre non solo tra tutti i soggetti dell’ordinamento ma
anche tra gli Stati (in tal caso detto rapporto è disciplinato dal diritto internazionale).
2.7.2. I beni
La nozione di bene giuridico è molto ampia: nel caso del diritto privato include
tutte le cose, siano esse mobili o immobili (art. 810 e segg. cc).
Nel campo del diritto amministrativo, i beni di cui godono gli enti pubblici sono
distinti in beni demaniali (artt. 822-825 cc), beni patrimoniali indisponibili (artt. 826 e
segg. cc) e beni patrimoniali disponibili.
I beni patrimoniali disponibili non si distinguono da quelli privati: detti beni
sono alienabili, pur con certe procedure (es., art. 12, secondo comma, della l. 127/97).
2.7.3. Le attività
I soggetti giuridici, oltre che intrattenere rapporti con altri soggetti giuridici in
merito a certi beni, sono abilitati (hanno cioè la capacità giuridica: artt. 2 e 11 c.c.) a
compiere degli atti giuridici chiamati genericamente negozi giuridici.
Particolari soggetti, o comunque particolari organi dello Stato, sono poi abilitati
a emanare certi atti giuridici particolarmente qualificati: il Parlamento, il Governo, le
Regioni e le Province di Trento e Bolzano sono abilitati a emanare degli atti normativi
(cioè delle leggi); tutte le pubbliche amministrazioni sono abilitate ad emanare dei
regolamenti e degli atti amministrativi. Come le persone giuridiche private, anche le
pubbliche amministrazioni, ai sensi dell’art. 11 c.c., possono essere protagoniste
dell’attività negoziale.
3. Le varie PP.AA. come “Autorità” e come “soggetti” di diritto. Attività
delle PP.AA. Cenni sugli atti di scienza, sul negozio giuridico, sui procedimenti
amministrativi e negoziali, sui contratti privati e delle PP.AA.
3.1. Le varie PP.AA. come “Autorità” e come “soggetti di diritto”. Attività
delle PP.AA.
3.1.1. Le norme, come già detto, "fanno cose con le parole". Una delle "cose"
che fanno è quella di ampliare, estendere, la nozione di "soggetto", come parola
qualificante un'entità naturalistica e cioè la donna e l'uomo a delle realtà di "gruppo".
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Siccome non solo il soggetto "donna-uomo" gode di poteri e/o di diritti
soggettivi (es: diritti di proprietà, di credito eccetera) ovvero assume degli obblighi (di
rispettare la proprietà altrui, di pagare i debiti eccetera), ma tali diritti e tali obblighi
vengono, a volte, goduti e assunti da gruppi di persone, allora certe norme costituiscono
tali gruppi come "soggetti". O, se si vuole, estendono la nozione naturalistica di
soggetto (comprensiva, si ripete, della donna e dell'uomo) a realtà di gruppo, laddove il
"gruppo" gode autonomamente di poteri, di diritti e assume obblighi a prescindere dai
poteri, diritti e obblighi imputabili alle persone facenti parte del gruppo.
In sostanza, si potrebbe dire che mentre il "soggetto donna/uomo" è opera della
natura (e del legislatore), tutti gli ampliamenti di tale nozione sono opera dell'uomo (del
solo legislatore) attraverso le norme giuridiche e quindi attraverso il diritto.
La nozione di "soggetto" è talmente ampia da coprire qualsiasi realtà di gruppo,
compresa la comunità statale (lo stesso Stato è, cioè, esso pure un "soggetto").
Il concetto di "soggetto" comprende ogni entità che abbia poteri e obblighi
giuridici: comprende quindi sia la donna e l'uomo, che lo Stato.
Partendo dalla nozione minimale ("donna/uomo") per arrivare allo Stato si
hanno: (1) soggetti singoli; (2) "soggetti - gruppo" senza personalità giuridica (o gruppi
concepiti come soggetti non entificati); (3) "soggetti - gruppo" con personalità giuridica
(o gruppi entificati); (4) "soggetti pubblici" con personalità giuridica (o enti di diritto
pubblico).
I "soggetti - gruppo" senza personalità giuridica assumono obblighi assieme alle
persone che fanno parte del gruppo: si dice che tra il gruppo e le persone facenti parte
del gruppo v'è solidarietà (alle condizioni previste, normalmente, caso per caso) nelle
obbligazioni verso i soggetti che hanno un contrapposto diritto.
I "soggetti - gruppo" con personalità giuridica assumono diritti e obblighi in
maniera totalmente autonoma rispetto alle persone che fanno parte del gruppo: la
caratteristica della "personalità giuridica" comporta che degli obblighi del gruppo
risponda solo quest'ultimo (non v'è, cioè, solidarietà tra il gruppo e le persone che ne
fanno parte).
I soggetti pubblici hanno le stesse caratteristiche dei "soggetti - gruppo" con
personalità giuridica; in più godono di particolari poteri: quelli di emanare regolamenti e
atti amministrativi.
Cerchiamo, ora, di elencare, senza pretese di completezza, i vari soggetti
secondo i criteri sopra delineati: (1) soggetti naturalistici; (2) gruppi senza personalità
giuridica; (3) gruppi con personalità giuridica; (4) enti pubblici.
(1) Soggetti naturalistici: donna/uomo.
(2) Gruppi senza personalità giuridica: (2.1) le associazioni non riconosciute e i
comitati (artt. 36 e segg. c.c.); (2.2) le comunioni (artt. 1100 e segg. c.c.); (2.3) i
condòmini negli edifici (artt. 1117 e segg. c.c.); (2.4) le società di persone (2.4.1:
società semplici; 2.4.2.: società in nome collettivo; 2.4.3.: società in accomandita
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semplice: artt. 2251-2324 c.c.); (2.5) i consorzi tra imprenditori e altri tipi di consorzi
(artt. 2602 e segg. c.c.) 21.
(3) Gruppi con personalità giuridica: (3.1) le associazioni riconosciute (artt. 14 e
segg. c.c.); (3.2) le fondazioni (artt. 25 e segg. c.c.); (3.3) alcuni consorzi reali in
agricoltura (es.: consorzi per regolare il deflusso delle acque: art. 914 c.c.); (3.4) le
società di capitali (3.4.1.: società a responsabilità limitata; 3.4.2.: società per azioni;
3.4.3.: società in accomandita per azioni; artt. 2325-2506 quater c.c.); (3.5) le società
cooperative (art. 2511 e segg. c.c.); (3.6) le società con partecipazione dello Stato o di
enti pubblici (artt. 2449-2450 cc [e numerose norme speciali]); (3.7) le società di
interesse nazionale (art. 2451 cc [e,anche qui, numerose norme speciali]); (3.8) le
società costituite all’estero (artt. 2507-2510 cc); (3.9) le società holding(12); (3.10) i
consorzi di cooperative (che, a diversità degli altri consorzi, godono della personalità
giuridica);
(4) Enti pubblici: (4.1) lo Stato; (4.2) le Regioni a statuto speciale e ordinario;
(4.3) gli Enti locali (Province, Comuni, Consorzi di Comuni, Unioni di Comuni; Città
metropolitane; Aziende speciali: v.si TU 267/2000); (4.4) altri (numerosissimi) enti
pubblici istituzionali (INPS, INAIL ecc. e alcuni consorzi reali in agricoltura [consorzi
di bonifica: art. 862 c.c.; consorzi di miglioramento fondiario: art. 863 c.c.]).
I soggetti (1), (2) e (3) appartengono al diritto privato: quindi non fanno parte del
potere esecutivo se non tramite un atto di concessione da parte di un Ente pubblico, non
possono emanare né regolamenti contenenti "norme materiali", né atti amministrativi.
I soggetti (4) appartengono al diritto pubblico (sono studiati da vari rami del
diritto pubblico: costituzionale, amministrativo, tributario, giuscontabile, eccetera) e
godono delle prerogative sia dei soggetti (3), che del potere di emanare regolamenti e
atti amministrativi. I soggetti (4), nel loro insieme, costituiscono latamente il "potere
esecutivo" o, meglio ancora, la pubblica amministrazione. Siccome i "soggetti pubblici"
sono tanti, si parla di pubbliche amministrazioni (pp.aa.). Detti soggetti, con la loro
21
V.nsi: F. GALGANO , Qual è l’oggetto della società holding? In Contr. e Impresa, 1986, n. 47;
L’oggetto della holding è, dunque, l’esercizio mediato e indiretto dell’impresa di gruppo, Contr.
e Impresa, 1990, I, 401 (a commento di Cass. 26-2-1990, n. 1439); Direzione e coordinamento
di società, Comm. cc artt. 2497-2497 septies, Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 2005, 1 e segg.
V.nsi, altresì: Cass. 8-5-91, n. 5123; Cass. 24-3-2003, n. 4274. Comunque, a proposito delle
società di gruppo, vi sono tre tesi: (1) la concezione atomistica (es.: App. Roma, 1-7-85, Foro
it., 1986, I, 781); (2) la concezione per la quale vi è un’unica impresa e un unico soggetto
giuridico (es.: giurisprudenza giuslavoristica con assorbimento della “pluralità nell’unità”); (3)
la concezione per la quale occorrerebbe combinare l’unità (di impresa) con la pluralità (di
soggetti): la Cass. 1439/90 e 4274/03 seguirebbero, secondo Galgano, quest’ultima concezione.
V.si, altresì, sempre di F. GALGANO, Direzione e coordinamento di società, Zanichelli-Il Foro
italiano, 2005, pagg. 1-56.
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duplice capacità: (a) di emanare regolamenti e atti amministrativi; (b) di agire come
soggetti privati (art. 11 cc), vengono anche chiamati "Autorità pubbliche".
Vi sono, poi, situazioni soggettive che, concettualmente, presentano gli stessi
caratteri già evidenziati a proposito delle situazioni giuridiche favorevoli (ma anche
sfavorevoli) di cui al par. 2.5.6. Si tratta, ad esempio, delle “società-organo”
(tipicamente quelle in house): sono “organi” della PP.AA. titolari delle relative quote o
azioni e “soggetti-società” verso tutti gli altri terzi.
3.1.1.1. Ancora un'avvertenza. Si è detto che la nozione di "soggetto" è
generalissima. Da un certo punto di vista è la più generale che il diritto conosca,
assieme a quella di "bene" e di "rapporto". Secondo certi Autori, con le tre nozioni di
soggetto, di bene e di rapporto giuridico si potrebbe costruire l'intero mondo del diritto.
Se si pensa che è "soggetto" anche lo Stato da cui promana l'intero (o quasi)
corpo delle disposizioni normative (D) e che il diritto disciplina la condotta umana in
relazione a certi "beni" (alla libertà, al godimento dei beni economici, eccetera), è chiaro
che assume altrettanta centralità la nozione di "rapporto giuridico".
Infatti vi sono rapporti o relazioni tra i vari poteri dello Stato (legislativo,
esecutivo, giudiziario), rapporti tra lo Stato e i suoi sudditi, rapporti tra i cittadini (lo
Stato riconosce un'autonomia ai soggetti: quella di stipulare tra di loro contratti; v.si art.
1322 c.c.).
E' l'insieme delle norme giuridiche di cui consta lo Stato che, a sua volta,
qualifica lo Stato come soggetto. E', cioè, l'insieme delle norme di organizzazione e di
condotta a costituire lo "Stato - tutto" e lo "Stato - soggetto". E' ovvio, infatti, che lo
Stato e ogni altro ente pubblico, oltre che dettare le regole giuridiche per gli "altri"
soggetti, le detta anche per se stesso, sia nelle sue funzioni di tipo costituzionale (potere
legislativo, esecutivo, giudiziario), che nelle sue funzioni di "parte" e cioè di soggetto
che, come gli altri, deve stipulare contratti per costruire opere pubbliche, per le forniture
che gli sono necessarie, per alienare beni (privatizzare il patrimonio pubblico), eccetera.
3.2. Le attività delle PP.AA.
3.2.1. Riprendiamo il discorso dei soggetti pubblici, delle varie pp.aa..
Queste possono (art. 11 c.c.) sostanzialmente agire come "Autorità", come
potere pubblicistico, e come soggetti privatistici. Quindi possono:
(1) emanare (oltre ai regolamenti) atti di scienza e atti amministrativi;
(2) stipulare contratti come tutti gli altri soggetti dell'ordinamento giuridico;
(3) emanare atti amministrativi e stipulare contratti: un "misto" tra (1) e (2);
(4) stipulare convenzioni con altri enti pubblici non aventi natura contrattuale,
ma simili ai trattati internazionali. (Spiegheremo il significato di tali attività nel
successivo par. 3.3.).
Sono, poi, ammessi, attualmente, gli accordi di programma e i contratti ad
oggetto pubblico.
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3.3. Cenni sugli atti di scienza, sugli atti amministrativi, sui procedimenti
amministrativi e negoziali, sui negozi giuridici, sui contratti dei privati e delle
pp.aa. Cenni sulle concessioni e sulle convenzioni
3.3.0. Gli atti: atti di scienza, atti amministrativi, atti negoziali
Anche la categoria dell'atto è generalissima. Si potrebbe asserire che le leggi, i
regolamenti, gli atti di scienza, gli atti amministrativi, le sentenze, sono "atti linguistici"
con una loro "forza" e che detta forza è l'essenza della norma veicolata dagli atti
linguistici. Trattasi di un modo diverso forse per dire le stesse cose già dette sub 1.1. e
2.1.3..
(1) Si può, cioè, asserire che le disposizioni normative (D = leggi, regolamenti,
atti amministrativi, sentenze), una volta interpretate (I), danno luogo al diritto come N
(= norme come "significato" delle disposizioni normative).
(2) Si può, però, anche dire che tutte le "fonti" del diritto sopra menzionate
consistono in "atti linguistici" del potere legislativo, esecutivo e giudiziario, i quali atti
linguistici, una volta interpretati, danno luogo a norme come significato "degli atti
linguistici".
3.3.1. Quindi gli atti linguistici di tipo normativo (leggi e regolamenti)
permettono che i vari soggetti dell'ordinamento emanino, a loro volta, altri atti. Questi
ultimi possono essere di vari tipi.
Volessimo sintetizzare, potremmo dire che tutti i soggetti dell'ordinamento
possono emanare:
(1) atti di scienza e cioè atti attestativi di certi fatti, di certe situazioni (es.:
testimonianze nei processi da parte di privati; certificati [di nascita, di matrimonio, di
morte, urbanistici, eccetera] da parte di varie pp.aa.): trattasi di atti appartenenti al
linguaggio descrittivo, anche se fanno parte del mondo del diritto che è prescrittivo: di
fronte agli atti di scienza è possibile porre la domanda se i medesimi sono "veri" o
"falsi";
(2) atti di volontà; gli atti di volontà si distinguono, a loro volta in:
(2.1) atti amministrativi caratterizzati dal fatto di essere: (a) di numero chiuso
(gli atti amministrativi possono essere emanati solo in presenza di norme che ne
autorizzino l'emanazione); (b) autoritativi (sono l'espressione di un potere pubblicistico,
quindi consistono in comandi, ordini, divieti, permessi), (c) attributivi di diritti (per
esempio le concessioni); (d) estintivi di diritti (revoche, decadenze, eccetera); (c)
unilaterali (nel senso che -fatte le debite eccezioni di cui alla legge 241/1990- non sono
il frutto di un previo accordo con il destinatario dell'atto);
(2.2) atti negoziali: questi ultimi sono "dichiarazioni di volontà dirette a produrre
certe conseguenze giuridiche" e, rispetto agli atti amministrativi, sono: (a) di numero
aperto (il diritto accorda ai soggetti dell'ordinamento il potere di emanare tutti gli atti
negoziali che vogliono, con il solo limite di non violare alcune, poche, norme di legge
sulla nullità (artt. 1418, 1419 c.c.) e sulla annullabilità (artt. 1425-1446 c.c.); (b) liberi
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(è, si dice, il regno dell'autonomia privata nel senso che detti atti non solo possono
essere di numero indefinito, ma del contenuto più vario: essenziale, sul punto, è l'art.
1322 c.c.); (c) oggetto di eventuali accordi (sono, a diversità degli atti amministrativi, di
natura privatistica e quindi i vari negozi giuridici possono "fondersi" tra di loro e dar
luogo ad altre figure); come tali i negozi giuridici possono essere:
(2.2.1) negozi giuridici unilaterali: esempi: testamenti, proposte per concludere
un certo affare economico, accettazione di quelle proposte, eccetera;
(2.2.2) negozi giuridici bilaterali o contratti: una proposta, se accettata, dà luogo
a un contratto costituito, appunto, da due negozi giuridici unilaterali fusi tra di loro (artt.
1321 e 1326 c.c.);
(2.2.2.1) contratti unilaterali se, ad esempio, fanno sorgere obbligazioni a carico
di una sola "parte" (la nozione di "parte" coincide, in questo caso, con la nozione di
"soggetto") e diritti a favore dell'altra parte (es.: contratto di donazione ex artt. 769 e
segg. c.c.);
(2.2.2.2) contratti bilaterali o a obbligazioni contrapposte: la parte "a" assume
obblighi verso "b", ma anche "b" assume obblighi verso "a" con la conseguenza che "a"
e "b" sono al contempo obbligati e titolari di diritti vicendevolmente (tali contratti si
dicono anche sinallagmatici. Il contratto di appalto appartiene, ad esempio, a tale
categoria);
(2.2.3) negozi giuridici plurilaterali: ad esempio più proposte e più accettazioni
vicendevoli danno luogo ai c.d. contratti con comunione di scopo (contratti costitutivi di
comunione ex artt. 1350/3 c.c.; contratti associativi; contratti costitutivi di società: artt.
2247-2248 c.c.).
3.3.2. In particolare i procedimenti amministrativi e negoziali
(1) Si ha un procedimento amministrativo con un provvedimento finale
allorquando più atti amministrativi sono funzionalmente collegati l'uno con l'altro con
un provvedimento finale. Allorquando, ad esempio, si ha un atto a, poi un atto b, poi c,
poi..... n con un provvedimento finale p;
a, b, c, . . . n-------p
Esempio di procedimento si ha nelle gare di appalto. Si ha (nell'asta pubblica) : a
= delibera a contrattare, poi b = pubblicazione del bando di gara, poi c = scelta
dell'offerta migliore e quindi p = verbale di aggiudicazione come atto che enuncia l'iter
procedurale e il rispetto delle regole di gara contenute nel bando di gara.
(2) Si ha procedimento negoziale allorquando vi è una serie di atti negoziali che
si concludono, ad esempio, con il contratto. Riprendendo l'esempio della gara di appalto
per asta pubblica si ha:
atto a1 = delibera a contrattare che, nel richiamare il progetto e il capitolato
speciale, evidenzia quale è l'oggetto del contratto di appalto e poi b.1 = pubblicazione
del bando di gara come invito rivolto a tutti i soggetti idonei a partecipare alla gara
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perché presentino le offerte e poi c.1 = presentazioni delle offerte come proposte
contrattuali degli appaltatori e infine d.1 come accettazione, da parte della p.a., della
offerta migliore (il verbale di aggiudicazione, prima dell’entrata in vigore del d.lg.
163/2006, ex artt. 16 r.d. 2440/1923 e 1326 c.c. equivaleva a contratto).
(1) e (2) Gli atti (1) sono pubblicistici; quelli (2) sono privatistici. A volte gli
stessi documenti veicolano al contempo atti amministrativi e atti negoziali: nell'esempio
della gara per appalto a pubblico incanto la delibera a contrattare, il bando di gara il
verbale di aggiudicazione sono documenti che veicolano atti amministrativi (a, b, c ... n
e p) e negoziali (a.1, b.1, d.1).
L'atto c.1 è solo negoziale.
Ancora un'avvertenza. A sensi dell'art. 11 delle preleggi al c.c.: la legge non
dispone che per l'avvenire, essa non ha effetto retroattivo.
Nei procedimenti, amministrativi o negoziali che siano, e secondo la teoria del
fatto compiuto (oramai accettata dalla giurisprudenza), si applica la legge del tempo
degli atti a e/o a.1 se gli atti successivi sono logicamente consequenziali di a e a.1.
Esempio:
Lex 1
Lex 2
a, b, c
d...p
a.1, b.1, c.1
d.1 C
Se gli atti a, b, c e a.1, b.1 e c.1 sono stati compiuti sotto la Lex 1 e d, p, d.1 e C
sono stati compiuti sotto la Lex 2, si applicherà, per tutta la serie di atti e quindi per
l'intero procedimento, la Lex 1 se d, p, d.1 e C sono logicamente dipendenti,
rispettivamente, di a e a.1. Gli atti emessi sotto Lex 2 è come se fossero "fatti compiuti"
sotto la Lex 1 perché sviluppo, conseguenza, di a e a.1 compiuti sotto la Lex 1.
3.3.3. In particolare i contratti privati. Nullità, annullabilità, risoluzione. I
contratti privati della P.A. a evidenza pubblica. L’invalidità degli atti
amministrativi
3.3.3.1. L'articolo 1321 c.c. definisce il contratto come segue:
Il contratto è l'accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra
loro un rapporto giuridico patrimoniale.
(A titolo di esempio, possiamo dire che il contratto di appalto [art. 1655:
"L'appalto è il contratto col quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi
necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un'opera o di un servizio
verso un corrispettivo in danaro"] e il contratto d'opera intellettuale, quello, ad esempio,
con cui qualcuno incarica un geometra o un architetto o un ingegnere di redigere un
progetto ovvero di fare la direzione lavori per un'opera [art. 2230 c.c.: "Il contratto che
ha per oggetto una prestazione di opera intellettuale è regolato dalle norme seguenti e,
in quanto compatibili con queste e con la natura del rapporto, dalle disposizioni del capo
precedente"] sono sottospecie del contratto in genere).
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DIZIONARIO GIURIDICO
ORDINAMENTO GIURIDICO
Il contratto, in sostanza, è un accordo tra due o più parti per 'costituire, regolare
o estinguere un rapporto giuridico patrimoniale' (1321 c.c.).
Quindi non ogni accordo è un contratto: non lo è, ad esempio, il matrimonio
perché questo pur essendo un accordo non gode del requisito della 'patrimonialità'. Il
contratto, proprio in quanto accordo economico-patrimoniale, è costituito a propria volta
di sottoelementi.
Per cogliere tale fenomeno occorre considerare che l'ordinamento giuridico, e
cioè il complesso delle norme giuridiche che regolano la vita associata, prende in
considerazione sia 'fatti' involontari (es.: forza maggiore, stati di necessità, lo scorrere
del tempo ecc.), che fatti volontari in quanto opera dell'essere umano. Questi ultimi (i
fatti volontari), lo si è già visto, sono chiamati 'atti giuridici'. Gli atti, a loro volta,
vengono distinti in 'atti di scienza' (es.: atti di comunicazione, certificati ecc.) e atti di
disposizione ovvero 'negozi giuridici'.
Il negozio giuridico è quindi la categoria generalissima di manifestazione di
volontà unilaterale (es.. proposta contrattuale, offerta, accettazione ecc.). Quando
l'elemento 'negozio giuridico' unilaterale si congiunge, si salda, si fonde con un altro
elemento 'negozio giuridico' unilaterale, ambedue aventi il carattere della patrimonialità,
si ha la nascita di un contratto che a sua volta può costituirsi tra due parti (es.:
compravendita, locazione ecc.) ovvero tra più parti (contratti plurilaterali o con
comunione di scopo, contratti associativi ecc.).
In sintesi, e procedendo dal generale al particolare -si dice per genus et
differentiam specificam- si ha una sequenza di tal genere: 1) fatti; 2) atti; 2.1) atti di
scienza; 2.2) atti negoziali o negozi giuridici; 2.2.1) contratti.
Gli elementi negoziali, come se fossero due o più frecce che con la punta
convergente si incontrano, costituiscono il 'contratto'. Si ha contratto quando, dice
l'articolo 1326 c.c., la parte A che ha avanzato una certa proposta (consistente in un
negozio giuridico unilaterale avente un preciso contenuto; ad esempio di vendere un
bene a un determinato prezzo) ha notizia che la controparte B ha accettato la propria
proposta (accettazione che consiste in un altro negozio giuridico contrapposto al
precedente; nell'esempio fatto avente il contenuto di acquistare quel bene a quel prezzo).
Asserisce l'articolo 1326 c.c. (conclusione del contratto) che: 'Il contratto è
concluso nel momento in cui chi ha fatto la proposta ha conoscenza dell'accettazione
dell'altra parte'.
Se quindi indichiamo con A la parte che si fa protagonista di una proposta
qualificata (ad esempio, di conferire a un libero professionista l'incarico di progettare
una certa opera per un determinato compenso) e con B la parte che accetta (il libero
professionista nell'esempio di cui sopra), il contratto è costituito da due elementi (negozi
giuridici unilaterali) chiamati 'proposta' e 'accettazione' e il costituirsi del contratto
avviene quando detti due elementi si incontrano. Schematizzando, se A è la parte che
avanza una certa proposta 'ax' (essendo 'a' la proposta e 'x' il contenuto della proposta) e
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DIZIONARIO GIURIDICO
ORDINAMENTO GIURIDICO
B la controparte che manifesta l'intento di accettare 'bx' ('b' essendo l'accettazione) e (R)
la relazione di incontro tra 'ax' e 'bx', il contratto tra due parti può simbolizzarsi come A
'ax' (R) B 'bx'.
Il contratto quindi consiste: (1) in un 'accordo' di due o più parti simbolizzato
dalla relazione (R) a sensi dell'art. 1326 c.c., (2) in una 'causa' o funzione economicosociale del contratto (collegamento funzionale tra 'ax' e 'bx'); (3) in un 'oggetto' o
contenuto voluto dalle parti ('x'); (4) in una certa 'forma' quando questa risulta prescritta
dalla legge a pena di nullità: forma scritta o forma orale del contratto e quindi di A 'ax'
(R) B 'bx'.
Si può ancora dire, che ogni contratto può essere nullo ab origine (1418 c.c.),
parzialmente nullo (1419 c.c.), ovvero annullabile perché costituitosi (stipulato) con una
'parte' non avente la richiesta capacità di contrarre (in quanto minorenne o seppur
maggiorenne in situazione di contingente incapacità di intendere e di volere: artt. 1425 e
428 c.c.) o perché il consenso è viziato (per errore, dolo, violenza: artt. 1427 e seguenti
c.c.).
Può accadere poi che il contratto non sia ancora efficace perché sotto condizione
sospensiva (es.: la parte A affida a un libero professionista B l'incarico di progettazione,
se ed in quanto ottenga un certo mutuo per finanziare l'opera) o si risolva perché sotto
condizione risolutiva (es.: A incarica B di progettare una certa opera con la clausola che
il contratto che è alla base dell'incarico si risolve se entro una certa data A non ottiene
un mutuo per il finanziamento dell'opera).
Le condizioni del contratto sono disciplinate dagli articoli 1353-1361 del codice
civile.
Infine un contratto ab origine valido (e cioè né nullo, né annullabile), efficace
(perché non sottoposto a condizioni oppure perché la condizione sospensiva si è
verificata), può essere risolto per inadempimento di una delle due parti (1453 e seguenti
c.c.) ovvero ancora per impossibilità sopravvenuta (1463 c.c.) o per eccessiva onerosità
della prestazione (1467 e seguenti c.c.).
3.3.3.2. I contratti privati della P.A. a evidenza pubblica sono attualmente –e per
quanto concerne quelli di spesa- disciplinati dal d.lg. 163/06 (c.d. “Codice degli
appalti”).
Detti contratti, come si vedrà, sono caratterizzati dal fatto che la scelta del
contraente privato (appaltatore) non è libera, ma meccanica.
In sostanza vi è una gara aperta (pubblico incanto) o ristretta (licitazione privata,
appalto-concorso, trattativa privata negoziata) che accompagna la procedura negoziale,
la cui struttura è simile a quella privatistica.
Va detto, comunque, che i vizi della procedura amministrativa di gara inducono
normalmente l’inefficacia dei contratti (artt. 121 e 122 del Codice del processo
amministrativo). In pratica: ai vizi di nullità, annullabilità e inefficacia (ex artt. 1353 e
segg. cc o per non intervenuta approvazione [in tal caso si parla di contratto sub
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DIZIONARIO GIURIDICO
ORDINAMENTO GIURIDICO
condicione iuris]), si aggiungono i vizi della procedura amministrativa che possono
rendere il contratto, a certe condizioni, inefficace totalmente o parzialmente.
I primi vizi sono sindacati dal Giudice ordinario (GO): i casi di inefficacia di cui
ai citati artt. 121 e segg. del Codice del processo amministrativo sono, invece di
“competenza-giurisdizione” del Giudice Amministrativo (GA).
3.3.4. Le concessioni
Le concessioni (di servizi, di opere pubbliche, di beni demaniali) sono degli atti
amministrativi unilaterali ai quali si accompagna normalmente un contratto che
disciplina gli aspetti economici e di durata della concessione.
Si tratta, quindi, normalmente, di un "misto" tra atti amministrativi e contratti: da
qui la locuzione, che risale alla Cassazione (Cass. Roma 12-1-1990), di "concessionecontratto".
Nel 1910 - D'ALBERTI M . - la Cassazione di Roma, in tema di concessioni su
demanio marittimo per uso industriale, disse con chiarezza: 'le dottrine sono non sicure
e determinate e molto meno di accordo nella definizione giuridica dell'essenza di siffatte
concessioni. Sembra che sia più conforme alla loro nozione considerare l'atto di
concessione in due momenti giuridici. Nel primo momento può scorgersi la
determinazione della volontà dello Stato che, sottraendo all'uso pubblico un'area o una
pertinenza demaniale, la concede, per uno spazio più o meno lungo di tempo, o ad uso
di una industria marittima o per un uso industriale estraneo alle industrie marittime, a
una qualunque industria privata; è un atto di sovranità dello Stato che si concreta nella
concessione. M a in una secondo momento l'amministrazione dello Stato, regolando il
suo atto di concessione, entra in rapporti di obbligazione col concessionario; e fra l'uno
e l'altro si stabiliscono le condizioni, le modalità, il prezzo: si opera cioè una vera e
propria stipulazione di contratto.
Considerati analiticamente sono nella loro esattezza due negozi distinti, che si
congiungono: il primo si attua e si realizza nell'altro, ma può anche essere
accompagnato dalla stipulazione di un contratto. All'accettazione del concessionario,
che rappresenta rispetto all'atto amministrativo il verificarsi della condizione per la
quale esso consegue il suo effetto, si unisce il consenso delle due parti sopra un
regolamento convenzionale della concessione pel suo modo di attuarsi e di svolgersi.
Questo regolamento giuridico può essere costituito dal complesso delle modalità e delle
condizioni dettate dalla pubblica amministrazione, indipendentemente da ogni vincolo
convenzionale, ma può, senza ostacolo legale, formare obbietto di una stipulazione o di
un complesso di patti, in cui l'ente pubblico assume la figura di contraente. In questa
seconda ipotesi, certamente, possono aver luogo vere e proprie violazioni contrattuali e
azioni ex contractu per ripararle.
Sorgono obbligazioni e responsabilità, diritti e doveri giuridici le cui violazioni
possono dar luogo ad azioni giudiziarie.
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ORDINAMENTO GIURIDICO
Si ribadì, dunque, che la concessione era provvedimento amministrativo
unilaterale, ma si inventò un contratto di diritto privato da aggiungere al provvedimento.
La nuova figura concettuale fu denominata concessione-contratto. Nome
impreciso, poiché era stato adottato dalla giurisprudenza già in periodi precedenti per
indicare la vecchia costruzione integralmente privatistica delle concessioni. M a tale
costruzione non trovò più seguaci fra i giudici e il termine concessione-contratto, da
allora in avanti, verrà utilizzato in giurisprudenza soltanto come sinonimo breve
dell'espressione contratto privatistico accessivo a provvedimento concessorio
unilaterale.....
La 'concessione-contratto' ebbe un rapida estensione. Quanto alle materie, si
passò dai beni demaniali ai servizi pubblici alle opere pubbliche. In tutti questi settori,
se la figura concettuale nacque in relazione ai rapporti concessori patrimonialmente più
complessi e comunque più legati alle questioni dello sviluppo economico industriale,
essa fu gradualmente utilizzata anche per rapporti patrimoniali semplicissimi, divenendo
così una categoria generale, che designava la struttura della massima parte delle
concessioni amministrative a rilevanza patrimoniale.
Il nuovo concetto, diffondendosi, si precisò. In un primo tempo la
giurisprudenza disse che la concessione e il contratto formavano un unico atto giuridico:
già la Cassazione di Roma nel 1910 aveva parlato -come s'è visto- di 'due negozi distinti
che si congiungono'; di qui si passò a ragionamenti meglio definiti.
Così, si disse che le 'concessioni amministrative ... si differenziano dagli ordinari
e comuni contratti di appalto, sebbene accompagnate da un contratto, perché
costituiscono delle figure di diritto pubblico non aventi nulla di comune con i negozi di
diritto civile. Dette concessioni, perciò, qualunque ne sia l'oggetto, restano sempre
un'emanazione della pubblica potestà, la manifestazione del campo della personalità
giuridica, in guisa che, quando pure questa personalità dell'ente pubblico vi si innesti e
vi si accoppii, non ne resta snaturato il loro carattere sostanziale e prevalente dell'atto
autoritario, derivante all'ente dalla personalità politica. Ed è appunto le esposta natura
ed indole delle cennate concessioni quella che, rendendole atti di autorità
amministrativa e non contratti di diritto civile, porta seco una prima conseguenza: quella
cioè che, allorquando ad esse si accompagni un contratto, in tal caso l'atto di autorità
precede il contratto medesimo ed investe il concessionario dei diritti necessari al
servizio concessogli, mentre la figura contrattuale sussegue ed incede alla concessione,
ond'è che, pur diventando la concessione ed il contratto adietto un atto solo, in esso,
nondimeno, primeggia sempre ed avanza la pubblica potestà, a segno di assumere veste,
carattere e norme singolari di un negozio di diritto pubblico’.
In definitiva, l'immagine dei primi anni fu quella di un unico 'negozio', che era
considerato di natura pubblicistica, poiché nell'impatto fra l'elemento pubblicistico e
quello privatistico non poteva che attribuirsi -in base alla tradizione culturale- la
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DIZIONARIO GIURIDICO
ORDINAMENTO GIURIDICO
prevalenza al primo: si sostenne infatti in numerose pronunce giudiziali che il contratto
aggiunto svolgeva un ruolo 'accessorio', 'complementare', 'dipendente'.
In tal modo esteriormente era confermata la ormai solida costruzione
unilateralistica: le concessioni continuavano ad essere, fondamentalmente, rapporti di
diritto pubblico nascenti da atti amministrativi.
L'immagine dell'unico 'negozio di diritto pubblico' -come si vedràprogressivamente dovette cedere il passo a quella dei due atti separati e indipendenti sul
piano della validità e della efficacia giuridica: il contratto 'aggiunto' conquistò
gradualmente una sua rilevanza autonoma, che s'è andata sempre più rafforzando nel
tempo, finché si giunse a costruzioni che lo posero come l'elemento preminente della
fattispecie.
M a fin dalle prime pronunce sulle concessioni-contratto, quelle fondate
sull'immagine del 'negozio unico', il riconoscimento della presenza di un elemento
contrattuale, anche se accessorio, venne a svuotare e a vanificare nella sostanza la tesi
unilateralistica.
Infatti, l'innesto del contratto privatistico nell'atto amministrativo di concessione
servì, fondamentalmente, come mezzo al fine di giustificare la presenza di diritti
soggettivi perfetti in capo alle parti del rapporto: in particolare, in capo al
concessionario. Quest'ultimo, viceversa, in base alle precedenti costruzioni
unilateralpubblicistiche, era riconosciuto titolare di meri interessi legittimi, e non di
diritti pieni, verso l'amministrazione concedente.
La sussistenza di un vero e proprio contratto privatistico e, quindi, di diritti
soggettivi perfetti del concessionario verso la pubblica amministrazione, comportava
implicazioni rilevantissime d'ordine sostanziale e processuale, che stravolsero subito il
quadro proprio della costruzione unilateralistica" (Le concessioni amministrative,
Napoli 1981, pagg. 187-191).
Attualmente le concessioni si distinguono in due categorie: (a) quelle assimilate
ai contratti pubblici di lavori (artt. 142-160 del Codice degli appalti); (b) quelle di
servizi (art. 30 del medesimo testo normativo). In ambedue i casi, però, trattasi di
“contratti” (art. 3/12 del d.lg. 163/2006).
3.3.5. Le convenzioni pubblicistiche e gli accordi di programma
Le PP.AA., oltre ad: (a) emanare atti amministrativi (attività pubblicistica); (b)
stipulare contratti privati a evidenza pubblica (attività in parte pubblicistica e in gran
parte privatistica); (c) farsi promotrici di attività "miste" tra (a) e (b) (concessionicontratto), possono anche stipulare delle convenzioni o delle intese non aventi contenuto
patrimoniale, ma tese a coordinare l'attività amministrativa tra più enti pubblici. Tra tali
convenzioni rientrano le intese per redigere, ad esempio, un piano regolatore tra più
Comuni (convenzioni per formare strumenti urbanistici intercomunali), per delle
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DIZIONARIO GIURIDICO
ORDINAMENTO GIURIDICO
conferenze di servizi (artt. 14-15 della l. 241/1990), per degli accordi di programma
(artt. 34 del TU 267/2000, 246 del d.lg. 152/06; l. 241/90 eccetera).
3.3.6. Con l’art. 11 della l. 241/90 sono stati introdotti nel nostro ordinamento i
c.d. contratti ad oggetto pubblico. Trattasi di questo: soggetti privati e pubblici possono
addivenire a degli accordi (art. 1321 cc) con i quali i soggetti pubblici si impegnano a
un “facere” particolare: a emanare certi atti amministrativi.
L’art. 11 citato asserisce:
1. In accoglimento di osservazioni e proposte presentate a norma dell’articolo
10, l’amministrazione procedente può concludere, senza pregiudizio dei diritti dei terzi,
e in ogni caso nel perseguimento del pubblico interesse, accordi con gli interessati al
fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale ovvero, in
sostituzione di questo.
1-bis. Al fine di favorire la conclusione degli accordi di cui al comma 1, il
responsabile del procedimento può predisporre un calendario di incontri cui invita,
separatamente o contestualmente, il destinatario del provvedimento ed eventuali
controinteressati.
2. Gli accodi di cui al presente articolo debbono essere stipulati, a pena di
nullità, per atto scritto, salvo che la legge disponga altrimenti.
Ad essi si applicano, ove non diversamente previsto, i principi del codice civile
in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili.
3. Gli accordi sostitutivi di provvedimenti sono soggetti ai medesimi controlli
previsti per questi ultimi.
4. Per sopravvenuti motivi di pubblico interesse l’amministrazione recede
unilateralmente dall’accordo, salvo l’obbligo di provvedere alla liquidazione di un
indennizzo in relazione agli eventuali pregiudizi verificatisi in danno del privato.
4-bis. A garanzia dell’imparzialità e del buon andamento dell’azione
amministrativa, in tutti i casi in cui una pubblica amministrazione conclude accordi
nelle ipotesi previste al comma 1, la stipulazione dell’accordo è preceduta da una
determinazione dell’organo che sarebbe competente per l’adozione del provvedimento.
5. Le controversie in materia di formazione, conclusione ed esecuzione degli
accordi di cui al presente articolo sono riservate alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo.
3.4. Avvertenza finale in ordine alla presente “Parte prima”
Nell’Introduzione al presente scritto (v.si: “L’ordinamento giuridico.
Introduzione”, sub 0.6.) si era detto che la «…Prima parte era tesa a presentare la teoria
dell’ordinamento giuridico quale deducibile da alcuni scritti di N.Bobbio».
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DIZIONARIO GIURIDICO
ORDINAMENTO GIURIDICO
Si aggiunge e (chiarisce) che, grosso modo, tale teoria appartiene all’ambito
della filosofia analitica 22 e che tale avvertenza vale solo per quanto detto al par. 1. della
22
Per filosofia analitica o del linguaggio si intende, grosso modo, quella teoria che riduce il
diritto a un fenomeno linguistico. Si riporta quanto, ad esempio, asseriscono sul punto M. JORI e
A. P INTORE (in Manuale di teoria generale del diritto, Torino, 1988, pagg. 86-91):
“ L’atteggiamento filosofico analitico [......] è caratterizzato e definito dall’accoglimento di
alcuni principi o postulati filosofici, o almeno di alcuni di essi: si tratta soprattutto dei seguenti
principi o strumenti concettuali fondamentali: la separazione tra giudizio (e discorso) sintetico e
analitico, la Grande Divisione tra discorsi descrittivo e prescrittivo; la distinzione tra discorsi e
metadiscorsi, la distinzione tra contesto di controllo e contesto di scoperta. Potranno essere
considerate analitiche delle filosofie che respingano uno o più di questi principi, ma certamente
non potranno essere considerate tali le filosofie che non abbiano neppure considerato e
affrontato i problemi posti dai principi stessi.
Poiché (anche per questa ragione) gli approcci analitici alla filosofia sono diversi e non sempre
interamente compatibili è meglio parlare di filosofie analitiche al plurale. Certamente al plurale
è necessario si parli delle filosofie sintetiche.
La prima distinzione tra analitico e sintetico (che non va confusa con la distinzione tra filosofie
analitiche e sintetiche) coincide con la distinzione tra conoscenza logica e conoscenza empirica:
l’analista sostiene che solo l’esperienza empirica ci può dare informazioni nuove sui fatti, e che
queste non sono logicamente necessarie, cioè non possono essere ricavate con il solo
ragionamento logico dalle conoscenza già possedute; sostiene per converso che le conoscenze
della logica (ivi comprese la matematica e la geometria) sono puramente tautologiche,
consistono cioè nello sviluppo rigoroso delle premesse (assiomi, postulati) del discorso in
questione e di quanto è implicito nel già conosciuto.
La seconda distinzione tra discorsi e medatiscorsi spiega che i discorsi possono aver per oggetto
anche altri discorsi: si chiamano pertanto metadiscorsi i discorsi che vertono su altri discorsi
detti appunto discorsi oggetto. Il rapporto metadiscorsivo non è solo descrittivo (ad esempio il
linguista descrive una lingua naturale come l’italiano), ma può essere anche prescrittivo (il
grammatico prescrive come si deve parlare correttamente). Oppure ambedue i discorsi possono
essere composti di norme: ad esempio il discorso giuridico è fatto anche di metanorme (norme
che vertono su altre norme).
La relazione metadiscorsiva è di fondamentale importanza per trovare un posto alla filosofia
analitica rispetto alla distinzione tra sintetico e analitico: la filosofia analitica infatti ritiene di
non essere e di non poter essere una scienza che si occupi direttamente della realtà, ma piuttosto
di analizzare i vari tipi di discorso (anche di descrizione della realtà). Per questo le filosofie
analitiche vengono spesso chiamate filosofie linguistiche o (un po' impropriamente) filosofie del
linguaggio.
T uttavia, secondo le idee qui accolte l’aspetto fondamentale delle filosofie analitiche non è
l’attenzione per il linguaggio; tale attenzione risulta essere piuttosto un carattere derivato. Ciò si
accorda con l’idea che l’approccio analitico non è metafisicamente neutrale, cioè si basa su
principi, come i quattro qui esaminati, che non discendono semplicemente da una più
sistematica attenzione per il linguaggio in filosofia. Peraltro l’espressione ‘filosofia linguistica’
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DIZIONARIO GIURIDICO
ORDINAMENTO GIURIDICO
ad indicare questi tipi di filosofia rimane altamente opportuna, dal momento che su questo
punto, anche se logicamente non primitivo, confluiscono tutti gli analisti. Per questo si può
anche parlare al singolare di filosofia linguistica, che indica bene l’aspetto comune di tutte le
filosofie analitiche.
Poiché hanno per oggetto altri discorsi e discipline, le filosofie analitiche pertanto tendono per
ragioni di principio alla specializzazione, e si suddividono naturalmente, anzi si esauriscono
nelle diverse “ filosofie di”: si parla così di filosofia della scienza, filosofia della matematica,
filosofia della morale, filosofia del linguaggio o discorso ordinario, filosofia del diritto. Le
filosofie analitiche tendono dunque al discorso particolare e settoriale, piuttosto che alla grande
costruzione sistematica e globale, e sono assai caute nell’avanzare la pretesa che le proprie
considerazioni siano valide per ogni campo dello scibile (per ogni discorso e linguaggio
umano).
Non è detto tuttavia che gli strumenti concettuali sviluppati da una particolare versione e da
ciascun particolare ramo di tale filosofia non possano essere “ esportati” in altri settori. Del resto
questo avviene per ogni tipo di filosofia, e così è avvenuto anche per le filosofie del diritto
analitiche.
Il terzo principio fondamentale delle filosofie analitiche è quello della distinzione o separazione
tra essere e dover essere (principio chiamato, tra gli analisti, la Grande Divisione): per esso non
è possibile de durre logicamente un giudizio di valore o normativo da uno fattuale; non è
possibile fondare in modo conclusivo un discorso di dover essere su un discorso meramente
fattuale. Inoltre non è possibile neppure l’inverso: non si possono dedurre conclusioni di fatto da
prescrizioni (la c.d. scienza normativa): questa preclusione crea molti problemi per chi cerca di
giustificare analiticamente la scienza giuridica tradizionale, che sembra talora fare proprio
questo (..........). Chi cerca di superare queste barriere viene tacciato di fallacia naturalistica. E’
ovvia la rilevanza di un simile principio per la filosofia del diritto in particolare (.........).
Un quarto principio fondamentale delle filosofie analitiche è la distinzione tra contesto di
giustificazione e contesto sociologico. Per molti analisti va distinto tra il (meta)discorso che
descrive le regole di formazione, giustificazione e controllo di un discorso oggetto (discorso di
giustificazione, o discorso di controllo), e la descrizione del modo in cui di fatto viene usato il
discorso oggetto, lo studio della sua influenza sulla società, e delle condizioni fattuali che lo
determinano, lo studio della sua storia (discorso sociologico e storico, o di scoperta). Il discorso
di giustificazione è naturalmente un’astrazione; esso individua regole e strutture di regole
(ragioni) che possono anche non essere sempre effettivamente tra le cause che producono il
discorso stesso: le ragioni possono non essere i motivi che effettivamente muovono le persone
che fanno il discorso. Così una cosa sono le regole (astratte) della matematica, e un’altra i
motivi per cui una persona compie operazioni matematiche corrette o scorrette: si noti
comunque che la nozione di scorrettezza o errore dipende dalle regole e dal contesto di
giustificazione, non dai motivi e dal contesto sociologico delle operazioni.
L’applicazione di queste distinzioni, come si è accennato, ha spostato il centro dell’attenzione di
queste filosofie sul linguaggio; ciò implica che una loro caratteristica fondamentale è stata la
creazione di una semiotica filosofica assai sviluppata (......).
Le filosofie analitiche, specialmente al loro primo apparire, si sono spesso presentate come una
novità assoluta e radicali nella storia della filosofia (......). Ciò, naturalmente, è falso, e anche in
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DIZIONARIO GIURIDICO
ORDINAMENTO GIURIDICO
qualche misura ridicolo, se non altro perché moltissime filosofie hanno avanzato nella storia
questa pretesa. T uttavia è vero che lo filosofie analitiche meno di altre filosofie hanno bisogno
della storia nell’applicazione del proprio metodo: soprattutto quando accolgono la distinzione
tra contesto di giustificazione e sociologico e storico, che permette di fare astrazione, a certi
scopi, dal contesto storico dei discorsi studiati (ma non permette ovviamente di negarne
l’esistenza).
Se queste sono le caratteristiche di fondo delle filosofie analitiche, possiamo chiamare, molto
sommariamente, filosofie sintetiche quelle che non ammettono, per ragioni diverse, neppure la
rilevanza di tali principi e la importanza di tali distinzioni. Si diceva all’inizio della voce che
non è possibile un resoconto filosofico neutrale della natura della filosofia: questo reconto è
ovviamente condotto dal punto di vista della filosofia analitica stessa. Così nel descrivere la
natura delle filosofie sintetiche un elemento di non neutralità entra già nell’uso della distinzione
tra filosofia analitica e sintetica, che molte filosofie negano, o considerano non fondamentale.
Procedendo nella descrizione di filosofie diverse (...........) il filosofo analitico non può fare a
meno di lasciar trasparire la propria diversa (superiore?) impostazione: per esempio nella
descrizione di molti discorsi metafisici sintetici l’analista noterà che essi gli sembrano violare
contemporaneamente la distinzione tra sintetico e analitico e tra descrittivo e prescrittivo: infatti
molti sistemi metafisici tradizionali sembrano derivare conoscenza dai concetti, e inoltre
prescrivono inconsapevolmente nuovi significati ai termini ordinari.
Lo sfavore verso ogni forma di metafisica, che in alcuni momenti iniziali (“ eroici”) delle
filosofie analitiche giungeva fino al dileggio, si è alquanto attenuato in tempi più recenti. I
filosofi analitici si sono accorti allora che la propria opposizione andava indirizzata verso certi
tipi di metafisica, con un certo contenuto non compatibile con i principi analitici
Superata la fase eroica e più intensamente polemica verso approcci diversi, le filosofie
analitiche sono tornate al concetto pressoché originario di metafisica, come discorso che verte
sulle premesse della ricerca filosofica (premesse che non possono per definizione essere
dimostrate dall’interno della ricerca stessa). In questo senso, si è visto, ogni filosofia ha
necessariamente una metafisica (cioè un insieme di premesse indimostrate su cui si fonda la
ricerca e il discorso successivo). Così i principi fondamentali sopra esposti possono essere
considerati la metafisica (o una parte di essa) delle filosofie analitiche.
Pertanto, nella nuova prospettiva, il contrasto tra filosofie analitiche e sintetiche, non è un
contrasto tra filosofie non metafisiche e metafisiche, ma piuttosto tra metafisiche diverse. Anzi è
possibile applicare le distanze fondamentali delle filosofie analitiche a questo problema e
distinguere (certo, ancora una volta, non in modo neutrale) tra metafisiche descrittive e
metafisiche prescrittive. Le prime mirano a ricostruire presupposti del pensiero (filosofico)
esistenti e diffusi un una cultura; le seconde propongono, nella misura in cui questo è fattibile,
principi nuovi, cercando di innovare le abitudini fondamentali in un certo settore culturale.
La critica a certi grandi sistemi metafisici, in questo nuovo contesto, diviene allora non già
quella di fare metafisica (tutti la fanno necessariamente), ma di fare metafisica innovativa senza
dichiararlo e senza dichiarare i motivi dell’opportunità dell’innovazione.
Punto forte (per i loro critici è invece un punto debole) delle filosofie sintetiche sono le mancate
distinzioni, il converso esatto per quelle analitiche (e di importanza generale sono soprattutto le
quattro distinzioni sopra indicate): le filosofie analitiche sono irretite dalle distinzioni che
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
78
DIZIONARIO GIURIDICO
ORDINAMENTO GIURIDICO
presente Parte. Gli altri paragrafi possono ascriversi ad una comune e molto
semplificata (e, si spera, non troppo imprecisa) dogmatica giuridica relativa
all’ordinamento giuridico italiano.
costituiscono sovente gravi limiti alla possibilità di fondazione dei discorsi e alle dimostrazioni
(tuttavia le scienze naturali appaiono nella sostanza analitiche quanto al metodo, ed eccellono in
dimostrazioni). Le filosofie sintetiche permettono certamente in genere forme più “ potenti” di
conoscenza, e soprattutto conoscenza dei valori e conoscenza della realtà o essenza ontologica
al di là del contingente; e in genere ammettono maggiori possibilità di dimostrazione in ogni
campo. Queste forme di conoscenza e dimostrazione sintetiche, è inutile dirlo, paiono di
frequente non fondate e non fondabili agli analisti.
Va ricordato infine che, di recente, la teoria dell’argomentazione ha cercato di collocarsi in una
zona intermedia tra i due approcci sopra menzionati, cercando di fornire un’analisi che
contemporaneamente contenesse una descrizione del modo di ragionare dei giuristi e una
valutazione positiva di (alcuni aspetti) di tale modo di ragionare. Per l’analista questa strada è
tuttavia resa difficile dal sospetto che si passi in tal modo surrettiziamente dal descrittivo
(descrizione di come di fatto si argomenta) al prescrittivo (prescrizione che il metodo descritto è
lecito e buono)”.
Sui filosofi analitici contrapposti a quelli continentali, v.si, soprattutto, F.D’AGOSTINI, Analitici
e continentali. Guida alla filosofia degli ultimi trent’anni, Cortina, 1997.
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
79
STUDI E OPINIONI
NOTERELLE MINIME SULLA
CONCESSIONE “ABUSIVA” E
SULLA REVOCA “ABUSIVA” DEL
CREDITO
L’Autore tratta il tema della “concessione abusiva di credito” nella prospettiva della
eventuale responsabilità della banca che abbia concesso credito ad un imprenditore
che versi in una situazione di grave difficoltà o di insolvenza, tenendolo
artificiosamente “in vita”.
di MAURO PIZZIGATI
1. I presupposti e la fattispecie
La “concessione abusiva di credito” rappresenta, da tempo, un tema di assoluto
rilievo, per ciò che concerne l’eventuale responsabilità della banca e, con essa, si fa
riferimento alle varie ipotesi in cui viene da una banca concesso credito ad un
imprenditore che versi in una situazione di grave difficoltà o di insolvenza.
Più precisamente, con tale espressione, si è soliti fare riferimento al fenomeno
del sostegno dato dalla banca ad un imprenditore in crisi: vale a dire del sostegno dato
ad un imprenditore in stato, più o meno grave, di decozione e, quindi, volto a tenerlo
“artificiosamente” in vita, con il conseguente danno rappresentato dall’aggravamento
del dissesto e dall’induzione di altri creditori a proseguire i rapporti con l’impresa (e a
non attivare, per contro, i rimedi possibili per il recupero del loro credito o per
l’ottenimento di adeguate garanzie) oppure dall’induzione di nuovi creditori ad iniziare
nuovi rapporti, in quanto gli stessi, non conoscendo, con l’ordinaria diligenza, l’effettiva
situazione del debitore, hanno ritenuto, però, di poter fare affidamento sulla valutazione
1
positiva operata dalla banca .
1
Così, sul punto, Campolattaro, La concessione abusiva del credito, in Impresa, 2006, 1, p.
1369.
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
80
STUDI E OPINIONI
CONCESSIONE E REVOCA ABUSIVA DEL CREDITO
Un abuso nell’erogazione del credito può verificarsi sia nel corso di
concessione di nuova finanza che in sede di conservazione di affidamenti già esistenti
pur essendo palese il peggioramento della situazione dell’impresa cui fa capo il cliente
affidato2.
In questo contesto, dunque, assumono particolare importanza le ipotesi di
concessione del credito nei confronti dell’imprenditore in crisi, rispetto al quale non
paiono sussistere prospettive di risanamento3.
Si pensi alla concessione di nuovo credito, in una situazione in cui l’impresa sia
già precipitata in una crisi non più superabile.
Ciò che, come è noto, determina - nella sostanza - un ritardo anche significativo
nel ricorso al sistema concorsuale e consente di ottenere, così, il “consolidamento” delle
garanzie e dei pagamenti effettuati.
Vi è, pertanto, una condotta illegittima della banca, allorché la concessione di
nuovi affidamenti appaia ricollegabile all’obiettivo di non far decorrere i termini per
l’esercizio delle azioni revocatorie o di recuperare crediti connessi a precedenti
finanziamenti, la cui restituzione risulti improbabile.
È, del pari, fonte di possibile responsabilità per la banca la concessione di nuovi
affidamenti con il solo obiettivo “di costituire una garanzia formalmente contestuale alla
concessione del credito, ma che, in realtà, mira a garantire la pregressa esposizione
debitoria e ad escludere la revocatoria della garanzia come atto anormale, ai sensi
dell’art. 67, comma 1, l. fall.”.
“Vi è, poi, un abuso nella concessione del credito, anche nei casi in cui la banca
4
abbia erogato finanziamenti con un procedimento scorretto o, addirittura, fraudolento”
5
.
Per altro verso, la concessione abusiva del credito sussiste anche nel caso in cui,
di fronte ad un aggravamento della situazione dell’impresa, la banca, nondimeno, non
provveda a revocare le linee di fido già esistenti, oppure concede dilazioni 6.
2
Cfr. Piscitello, Concessione abusiva del credito e patrimonio dell’imprenditore, in
www.associazionepreite.it/scritti/piscitello001.php; Fortunato, La concessione abusiva del
credito dopo la riforma delle procedure concorsuali, in Fallim. 2009, p. 65 ss.
3
Piscitello, op. e loc. cit.
4
Così, pressoché letteralmente, Piscitello, op. e loc. cit.
5
Ad esempio: scontando ripetutamente effetti fittizi, poiché, in siffatta ipotesi, la stessa condotta
conferma la conoscenza delle gravi difficoltà del cliente, oppure quando il credito fosse
concesso a seguito di pressioni di varia natura, nonostante l’esito negativo dell’istruttoria: cfr.,
su questi temi, Miola, La banca tra concessione ed interruzione del credito, in Attività bancaria
e responsabilità, Atti del Convegno di Avellino, 2004, p. 221; Nigro, La responsabilità della
banca per concessione “abusiva” del credito, in Le operazioni bancarie, a cura di Portale,
Milano 1978, I, p. 299; Viscusi, Profili di responsabilità della banca nella concessione abusiva
del credito, Milano, 2004, p. 10 ss.
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
81
STUDI E OPINIONI
CONCESSIONE E REVOCA ABUSIVA DEL CREDITO
Vi è chi, correttamente, ha poi osservato che, “nelle ipotesi in cui le banche
rivestono la funzione di consulenti dell’imprenditore in difficoltà, nella predisposizione
dei piani di risanamento e svolgono, nell’ambito dei tentativi di soluzione delle crisi
d’impresa, un ruolo che va al di là della semplice erogazione del credito, condizionando
le scelte gestorie del management e, in alcuni casi, imponendo la nomina di
amministratori di proprio gradimento, non si può ritenere che assuma necessariamente
7
rilievo l’ingerenza, più o meno forte, nelle decisioni dell’impresa” .
La responsabilità per concessione abusiva del credito è, insomma, una
conseguenza del depauperamento del patrimonio dell’impresa, dipendente dalla
continuazione dell’attività, nonostante la crisi irreversibile e non postula,
necessariamente, il coinvolgimento della banca nelle scelte di gestione.
Sotto un altro profilo è stato rilevato che la responsabilità della banca sussiste
solo per le concessioni di credito effettuate quando la situazione risulti ormai
irreversibile e che, in tale prospettiva, se si deve accettare l’idea che lo stato di crisi non
è di per sé sufficiente per poter considerare come abusivo il finanziamento, anche alla
luce dell’obiettivo di favorire i rapporti con l’impresa in crisi (obiettivo che sta alla
base, come è già stato affermato, della nuova disciplina delle procedure concorsuali),
non sembra però necessario richiedere, a questi fini, che l’impresa finanziata sia già
insolvente8.
L’insolvenza, costituisce, come è noto, l’incapacità di adempiere con regolarità
alle proprie obbligazioni ed è complesso riscontrarla in molti casi in cui l’imprenditore
acquisisce un finanziamento, sia pure in violazione delle regole di corretta erogazione
9
del credito .
E, dunque, per l’individuazione della responsabilità della banca per concessione
abusiva del credito non paiono poter essere utili categorie quali lo stato di insolvenza o
lo stato di crisi, ma, ad avviso di chi scrive, deve essere condiviso, per contro, il
pensiero di chi ha osservato che si deve fare riferimento alla possibilità di risanamento
dell’impresa10.
È peraltro il caso di evidenziare che, onde non estendere, senza ragione, la sfera
di responsabilità della banca, l’indagine deve essere effettuata valutando ex post se, in
6
Ibidem.
Così, Piscitello, op. e loc. cit.
8
Cfr. Miola, op. cit., p. 222 e, in argomento, cfr. anche Castiello D’Antonio, Crisi d’impresa e
responsabilità della banca, revoca “brutale” del fido, concessione abusiva di credito, in Dir.
fall. 2009, I, p. 293.
9
Piscitello, loc. cit.
10
Cfr., in argomento, S. Rossi, in AA.VV., Diritto fallimentare. Manuale breve, Milano, 2008,
p. 28; Sandulli, Il nuovo diritto fallimentare, in Commentario diretto da Iorio e coordinato da
Fabiani, Bologna 2006, I, sub art. 5, p. 84 ss.
7
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
82
STUDI E OPINIONI
CONCESSIONE E REVOCA ABUSIVA DEL CREDITO
base alla situazione esistente al momento della concessione del credito, l’operazione
rispondeva (o meno) ai criteri normalmente seguiti nella prassi.
Ove vi sia un piano di risanamento gradito alla banca finanziatrice, anche se non
“attestato” [art. 67, comma 3°, lett d), l. fall.] è da ritenere – come altri hanno già
osservato – che “il criterio della ragionevolezza dell’operazione di ristrutturazione
aziendale, considerato rilevante al fine dell’esonero dall’azione revocatoria”, possa
assumere rilievo anche per la valutazione della responsabilità del finanziatore e che
complessa appare, invece, “l’individuazione delle condizioni dell’illegittimità della
concessione del credito, nelle ipotesi in cui non vi sia un piano di ristrutturazione
conosciuto dalla banca e ad essa gradito, in cui dovranno verificarsi le possibilità di
11
risanamento, alla luce dei dati aziendali esistenti al momento del finanziamento” .
Alla luce di tali rilievi si può concludere, ad avviso di chi scrive, che possa
essere fonte di responsabilità il sostegno ad un’impresa il cui stato di crisi appaia come
difficilmente superabile, anche ove non vi siano, ancora, manifestati indici rivelatori di
un vero e proprio stato di insolvenza12.
La concessione del credito ad un imprenditore che versa in crisi irrimediabile,
del resto, appare essere in conflitto con il principio di fondo che non può essere
ammessa la continuazione dell’attività di un’impresa ormai decotta.
Questo principio è desumibile da varie disposizioni, in diversi settori
dell’ordinamento, che tendono ad evitare che vi siano ritardi nel ricorso alle procedure
concorsuali: ciò che potrebbe facilmente determinare un aggravamento delle perdite e la
conseguente riduzione del patrimonio destinato al soddisfacimento del ceto creditorio.
In tale contesto, è anche più agevole comprendere perché, nelle società di
capitali, è previsto, nel caso in cui il patrimonio netto assuma valore negativo, l’obbligo,
per gli amministratori, di iscrivere la causa di scioglimento nel registro delle imprese, a
cui si ricollega l’obbligo, per gli stessi, di limitarsi a svolgere solo gli atti tendenti alla
13
conservazione del patrimonio sociale .
Del resto non può sfuggire che l’indicata limitazione ha, come obiettivo, quello
di far sì che non venga continuata l’ordinaria attività d’impresa, essendo a repentaglio
l’integrità del patrimonio sociale 14.
M a, a conferma di quanto appena sottolineato, val bene qui osservare che, anche
per ciò che concerne le società personali, pur non essendo previsto che, alla perdita del
11
Così, espressamente, Piscitello, op. cit., p. 10 s.
Ibidem
13
Così, pressoché letteralmente, Piscitello, op. cit., p. 11 s.
14
In argomento, cfr. anche Bonelli, Gli amministratori di S.p.a., Milano, 2004, p. 171 ss.;
Fabiani, L’azione di responsabilità per le operazioni successive allo scioglimento, nel
passaggio tra vecchio e nuovo diritto societario, in Fallim., 2004, p. 298; Rordorf, La
responsabilità degli amministratori di S.p.a. per operazioni successive alla perdita del capitale,
in Società, 2009, p. 277.
12
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83
STUDI E OPINIONI
CONCESSIONE E REVOCA ABUSIVA DEL CREDITO
capitale sociale, consegua lo scioglimento dell’ente sociale, è da ritenere, nondimeno,
che l’eventuale contenuto negativo del patrimonio netto determini, anche qui, lo
scioglimento della società, per impossibilità sopravvenuta dell’oggetto sociale 15, con
conseguente limitazione del potere degli amministratori ai soli atti urgenti ed a quelli
16
tesi alla conservazione del patrimonio .
L’illegittimità della continuazione dell’ordinaria attività d’impresa, in caso di
crisi irreversibile, è confermata, inoltre, dal fatto che sono previste sanzioni penali per
l’imprenditore fallito, ove emerga che lo stesso ha compiuto operazioni manifestamente
imprudenti per ritardare il fallimento [art. 2171, n. 3), l. fall.] o che ha aggravato il
dissesto, astenendosi dal richiedere il proprio fallimento (art. 2171, n. 4, l. fall.).
Norme, pure queste, che dimostrano che il legislatore ha inteso valutare in modo
del tutto negativo la condotta di chi tende ad evitare o a ritardare l’apertura delle
procedure concorsuali, ove ci si trovi di fronte ad imprese decotte17.
Ed invero, il finanziamento abusivo ad un imprenditore ormai insolvente, lede,
come da altri è già stato correttamente osservato, “l’interesse dei creditori a che non
venga menomata l’integrità del patrimonio di costui, che è destinato alla loro
soddisfazione e, ove si realizzi una lesione della garanzia patrimoniale, colpisce tutti i
creditori, indipendentemente dall’anteriorità (o meno) del credito rispetto al
finanziamento abusivo”.
“Il comportamento della banca è pertanto illecito, non solo in considerazione
della circostanza che contribuisce a creare una falsa apparenza di solidità dell’impresa,
ma anche perché il finanziamento comporta un ritardo nell’accertamento della crisi ed
18
un ulteriore depauperamento del patrimonio dell’imprenditore” .
In altri termini, la banca, concedendo credito, nonostante l’assenza dei
presupposti, consente il verificarsi di altre perdite e l’aggravamento della situazione
negativa dell’impresa 19.
Ed è sulla scorta di siffatta riflessione che si può confermare, ad avviso di chi
scrive, che l’illegittimità dell’abusiva concessione del credito resta ferma anche
nell’ambito della nuova disciplina delle procedure concorsuali.
Riteniamo di dover precisare questo, perché vi è chi ha sostenuto, a seguito della
riforma della legge fallimentare, che era forse opportuno riesaminare i termini del
problema, in quanto, avendo le nuove norme l’obiettivo di consentire il superamento
della crisi d’impresa, se possibile, attraverso soluzioni concordate, la responsabilità
15
Si rinvia, in particolare, sul punto a Ferri, Delle società, in Comm. Scaloja – Branca, Bologna
– Roma 1981, p. 256.
16
Cfr, tra altri, Campobasso, Diritto Commerciale – Diritto delle società, Torino, 2009, II, p.
120
17
Così Viscusi, op. cit., p. 123 s.
18
V., con queste espressioni, Piscitello, op. e loc. cit.
19
Cfr. Viscusi, op. cit., p. 677.
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
84
STUDI E OPINIONI
CONCESSIONE E REVOCA ABUSIVA DEL CREDITO
della banca (per concessione abusiva) non potrebbe più essere fondata sul fatto di
avere concesso o mantenuto credito all’imprenditore, ma, invece, dovrebbe sussistere,
a questi fini, un vero e proprio disegno volto a mascherare l’insolvenza del debitore, per
conseguire dei vantaggi rispetto al resto dei creditori20.
Sennonché, come abbiamo appena rilevato, la responsabilità della banca sembra
affondare ragionevolmente le sue radici nelle regole che vietano la continuazione
dell’attività d’impresa in ipotesi di crisi irreversibile e la violazione delle quali
arrecherebbe gravi pregiudizi ai creditori dell’imprenditore insolvente.
E, come è stato da altri posto in luce, “tale disciplina non pare modificata in
alcun modo dalla riforma, che si è limitata a prevedere nuovi strumenti di soluzione
delle crisi d’impresa, ma non ha influito, per nulla, né sulle regole che le banche
debbono continuare a seguire nella concessione del credito, in considerazione del loro
stato professionale, né sulla disciplina della vigilanza” 21.
In ogni caso val bene precisare che va condiviso, senz’altro, il pensiero di chi ha
evidenziato che, sia nei casi di erogazione di nuovo credito, che in quelli in cui la banca
si è limitata a non recedere da precedenti affidamenti, non è necessario, per riscontrare
una responsabilità della banca, una condotta tesa a perseguire dei vantaggi dalla
conservazione del rapporto nei confronti di un imprenditore insolvente.
La responsabilità della banca vi è, per contro, anche in ipotesi di comportamento
colposo, in cui la concessione o il mantenimento del credito dovesse dipendere da un
mero errore di valutazione dell’Istituto che, operando con maggiore prudenza e
diligenza, ben avrebbe potuto pervenire alla conclusione che sussistevano buone ragioni
per non erogare credito.
2. Comportamenti che possono integrare la fattispecie di concessione
abusiva del credito
Tra i comportamenti che possono integrare la fattispecie di concessione abusiva
del credito, è bene qui ricordare l’ipotesi in cui la banca, pur consapevole
dell’insolvenza o della potenziale insolvenza dell’imprenditore affidato, concede o
continua ad erogare credito, sapendo di non correre alcun rischio, in quanto in possesso
di garanzie personali o reali fornite da terzi o ottenute anche sui beni del debitore, con la
conseguenza che, nel caso di fallimento dell’imprenditore, la banca è comunque in
grado di soddisfare le proprie ragioni di credito.
20
Castiello D’Antonio, Crisi d’impresa e responsabilità della banca: “revoca brutale” del fido
e concessione abusiva di credito, cit., p. 298 s.; Nigro, “Privatizzazione” delle procedure
concorsuali e ruolo delle banche, in Banca, borsa, tit. cred., 2006, I, p. 359 ss.
21
Così Piscitello, op. cit., p. 14 e v. anche Di Marzio, Sulla fattispecie di “concessione abusiva
di credito”, in Banca, borsa, tit. cred., 2009, II, p. 393 s.
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
85
STUDI E OPINIONI
CONCESSIONE E REVOCA ABUSIVA DEL CREDITO
Altra tecnica cui sovente gli Istituti di credito ricorrono, nel caso di impresa in
crisi e fortemente esposta nei confronti della banca, è quella della concessione di un
mutuo ipotecario a favore del socio, garante della società – cliente della banca, in modo
che questi possa pagare i debiti della società, trasformando, nella sostanza, un debito
sociale chirografario in un debito personale del socio, garantito da ipoteca su beni
22
personali di quest’ultimo .
3. La di versa fattispecie del ricorso abusivo al credito: autonomia e
concorrenzialità delle due fattispecie
L’assunzione di un debito da parte di chi esercita un’attività d’impresa senza che
sussistano le condizioni (finanziarie e patrimoniali) che possono consentire il futuro
adempimento costituisce, certamente, una condotta economicamente rischiosa, sotto
vari aspetti.
Il rischio – come è stato da altri già osservato – non vi è solo per il patrimonio
del concedente, che è chiamato a sopportare il costo dell’eventuale inadempimento, ma
investe, altresì, gli interessi degli altri creditori, i quali, nel caso di insolvenza, sono
chiamati a concorrere al passivo, una volta intervenuto il fallimento, con un numero
maggiore di creditori.
Ed infatti il credito abusivamente ottenuto finisce per “drogare” l’attività del
debitore, aumentando, così, la probabilità che l’imprenditore insolvente contragga altri
debiti, così da ridurre ulteriormente le possibilità di soddisfacimento dei creditori.
“Senza considerare, poi, che il credito, in questo caso, anziché costituire un
reale arricchimento per l’accipiens, pregiudica, non di rado, la stessa integrità
patrimoniale dell’impresa finanziata, la quale, trovandosi già in uno stato di dissesto,
difficilmente sarà in grado di utilizzare produttivamente il capitale ricevuto, finendo,
invece, per accollarsi un ulteriore onere finanziario, che accelererà, così, l’erosione del
23
patrimonio aziendale” .
Si ritiene, ormai diffusamente, che la condotta degli Istituti di credito,
censurabile sotto il profilo della concessione abusiva di credito, non abbia connessioni
con il reato di ricorso abusivo al credito di cui all’ art. 218 l. fall., il quale punisce l’
imprenditore che ricorre o continua a ricorrere al credito, dissimulando il proprio
dissesto o lo stato di insolvenza24.
22
Per un’ampia disamina della casistica, Inzitari, La responsabilità della banca nell’esercizio
del credito: abuso nella concessione e rottura del credito, in Banca, Borsa, tit. cred., 2001, p.
265 ss.
23
Così, espressamente, Micheletti, Il ricorso abusivo al credito come reato necessariamente. V
condizionato, in www.unisi.it. V., altresì, in argomento, Di Marzio, Abuso e lesioni della libertà
contrattuale nel finanziamento dell’impresa insolvente, in Riv. dir. civ., 2004, I, p. 145 ss.
24
V., sul punto, Circolare ABI – Serie legale n. 9, Settembre 2008: “La concessione abusiva del
credito nella recente giurisprudenza”.
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86
STUDI E OPINIONI
CONCESSIONE E REVOCA ABUSIVA DEL CREDITO
Benché, in passato, non siano mancate opinioni diversificate in dottrina25, gran
parte di essa, infatti, ritiene oggi che - nell’ ipotesi regolata dalla testé richiamata
disposizione fallimentare - la banca che eroga il finanziamento possa essere solo il
soggetto passivo del reato commesso dall’ imprenditore.
Va infatti osservato, al riguardo, che la corretta valutazione del “merito
creditizio” dell’ imprenditore in difficoltà può essere effettuata dalla banca finanziatrice
solo di fronte ad una completezza delle informazioni da questi fornite, cosicché, in
presenza di un’opera di dissimulazione, la situazione di insolvenza viene celata allo
stesso soggetto cui è chiesto il finanziamento, che, dunque, viene indotto a concedere
credito proprio sulla base delle false informazioni fornite dall’ imprenditore.
Conformemente all’ orientamento da ultimo indicato, la Suprema Corte di
26
legittimità ha ritenuto che la norma di protezione dell’ interesse giuridicamente
rilevante non possa essere rinvenuta nell’ art. 218 l. fall., in quanto "il ricorso abusivo al
credito è un reato proprio dell’ imprenditore fallito, che, dissimulando lo stato di
insolvenza, ottiene del credito, per cui non è ipotizzabile, in siffatto reato, il concorso
del finanziatore il quale, per definizione, deve ignorare lo stato di insolvenza, essendo la
dissimulazione un elemento essenziale per integrare il reato"27.
Diverso ragionamento viene svolto, invece, circa la possibilità che la condotta
della banca che eroga abusivamente credito ad un’imprenditore insolvente integri un’
ipotesi di concorso nel reato di bancarotta semplice di cui all’ art. 2171, n. 4, l. fall.
È stato, infatti, correttamente osservato che, nella disposizione penale appena
richiamata, “è individuabile una violazione che può essere indotta o favorita dalla
concessione abusiva del credito, in cui si sostanzia l’ antigiuridicità del fatto costitutivo
della relativa responsabilità aquiliana e la conseguente ingiustizia del danno in tal guisa
arrecato ai creditori”: il che equivale a dire che “il fondamento della responsabilità
aquiliana riposa anche sulla ricorrenza di una fattispecie di concorso della banca, che
conceda o continui a concedere credito all’ imprenditore insolvente, nella violazione
(penalmente sanzionata, nel caso in cui dall’ omessa manifestazione dello stato di
insolvenza derivi un aggravamento del dissesto) dell’obbligo giuridico di costui di
presentare istanza di fallimento in proprio”28.
25
Cfr., in tema, Nigro, La responsabilità della banca per concessione abusiva di credito, in
Giur. Comm., 1979, I, p. 219 ss.; Inzitari, La responsabilità della banca nell’esercizio del
credito, in Banca, Borsa, tit. cred., 2002, I, p. 272.
26
Cass. pen. 25 settembre 2003, n. 14234, in Contratti, 2004, p. 145, con nota di Franchi.
27
Nella stessa direzione, nella giurisprudenza di merito, cfr. Appello Milano 11 Maggio 2004
(in Banca, Borsa, tit. cred., 2004, II, p. 643 con nota di Viscusi), la quale ha escluso che si possa
ipotizzare un concorso nel reato di cui all’art. 218 l. fall., a carico di chi ha erogato il
finanziamento, che ne è, anzi, il soggetto passivo.
28
Così Franchi, Responsabilità della banca per concessione abusiva del credito, in Contratti,
2004, p. 154.
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STUDI E OPINIONI
CONCESSIONE E REVOCA ABUSIVA DEL CREDITO
La linea interpretativa testé prospettata ha trovato accoglimento anche in parte
della giurisprudenza che, dopo avere negato, come sopra si è dato conto, la
connessione della concessione abusiva di credito con il reato di cui all’ art. 218 l. fall.,
ha ammesso, però, la possibilità di ravvisare un concorso tra la banca che conceda
abusivamente credito ed il fallito imputato del reato di cui all’ art. 2171, n. 4, l. fall., il
quale contempla (per l’ appunto) l’ipotesi della bancarotta semplice per aggravamento,
da parte del debitore, del proprio dissesto, in rapporto all’ essersi costui astenuto dal
richiedere, per tempo, la dichiarazione del suo fallimento29.
4. La re voca illegittima del credito
La fattispecie della rottura ingiustificata del rapporto di affidamento al cliente,
vale a dire del traumatico ed ingiustificato recesso dall’apertura di credito concessa, con
richiesta di immediato rientro, è ben nota 30.
La disciplina codicistica, come si sa, prevede che, nell’apertura di credito a
tempo determinato, la banca ben può recedere dal contratto, per giusta causa, ma deve
concedere al cliente un termine di almeno quindici giorni per la restituzione delle
somme utilizzate, salva, tuttavia, la possibilità di inserire nel contratto, in virtù della
riserva di patto contrario prevista dall’art. 1845 c. c., la facoltà per la banca di recedere
“in qualsiasi momento, anche con comunicazione verbale” e con l’obbligo, per il
cliente, di restituzione immediata delle somme dovute, con un preavviso di un giorno.
Sotto tale profilo si è notato che tale disposizione non serve alle banche, in
realtà, per ottenere la pronta restituzione delle somme erogate e per evitare, quindi, il
ritardo nell’adempimento, che riceve comunque adeguata protezione attraverso la
capitalizzazione degli interessi e l’applicazione di commissioni di massimo scoperto,
oltre che attraverso la produzione di interessi moratori.
Una rapida restituzione, del resto, sarebbe quasi sempre impossibile, dato che il
cliente normalmente non ha a disposizione la liquidità immediata che sarebbe
necessaria.
Pertanto l’utilizzo di tale strumento avviene, da parte della banca, soprattutto
affinché essa possa porsi nella condizione di poter godere di una priorità di
soddisfacimento nell’eventuale esecuzione, rispetto agli altri creditori (si pensi
all’iscrizione di un’ipoteca giudiziale).
Detto questo è bene sottolineare, però, che nell’ipotesi di un “brusco recesso” da
parte della banca, si potrebbe configurare una rottura cd. “brutale” del credito, causando
direttamente l’illiquidità dell’imprenditore e il suo inevitabile dissesto, con conseguente
possibilità che la banca possa essere chiamata a rispondere, sotto il profilo del
29
30
Cfr. Appello Milano, 11 Maggio 2004, loc. cit.
Sul tema cfr, diffusamente, Inzitari, op. cit., p. 277 ss.
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
88
STUDI E OPINIONI
CONCESSIONE E REVOCA ABUSIVA DEL CREDITO
risarcimento del danno, non solo nei confronti del cliente, ma anche nei confronti dei
terzi danneggiati, quando sia stato violato il principio di buona fede 31.
In particolare si è anche affermato che, in caso di recesso di una banca dal
rapporto di credito a tempo determinato, in presenza di una giusta causa tipizzata dalle
parti del rapporto contrattuale, il giudice non deve limitarsi al riscontro obiettivo della
sussistenza (o meno) dell'ipotesi tipica di giusta causa ma, alla stregua del principio per
cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede, deve spingersi ad accertare che
il recesso non sia stato esercitato con modalità arbitrarie, tali, cioè, da contrastare con la
ragionevole aspettativa di chi, in base ai rapporti usualmente tenuti dalla banca ed
all'assoluta normalità dei rapporti in atto, abbia fatto affidamento sulla possibilità di
disporre della provvista per il tempo previsto, cosicché non può pretendersi, in
32
qualsiasi momento, la restituzione delle somme utilizzate .
Dunque, “nel caso in cui sussistano i presupposti per poter dimostrare un
adeguato rapporto di causalità e il carattere abusivo (perché ingiustificato od anche
eccessivo) del comportamento della banca, può derivare la responsabilità della
medesima per i danni conseguenti e le dimensioni del danno possono sicuramente
superare le dimensioni del credito vantato dalla banca, come pure estendersi al
pregiudizio subito da terzi contraenti o investitori, i quali si trovino a perdere i capitali
investiti nei rapporti contrattuali con l’impresa o che si vedano compromesse operazioni
economiche che, altrimenti, avrebbero portato a termine o che, comunque, non
sarebbero state travolte in modo così pregiudizievole 33.
La risarcibilità di siffatto danno dipende strettamente, a sua volta, dalla prova
che il cliente della banca o i terzi danneggiati sono in grado di fornire.
Si tratta, ovviamente, di allegare elementi concreti, quali l’esistenza o meno di
rapporti contrattuali in corso e, dall’altro, di fare ricorso a prove anche presuntive, sulla
base delle quali cercare di dimostrare che il mantenimento del finanziamento avrebbe
consentito il buon fine dell’operazione in corso, secondo un ragionevole giudizio di
34
normale prevedibilità .
31
Con la complessiva prospettazione di cui al testo, cfr. Inzitari, op. cit., p. 278 ss.
V. con questa impostazione, in giurispr., Cass. 14 luglio 2000, n. 9321, in Foro It. 2000, I, p.
3495; Cass. 21 febbraio 2003, n. 2642, in Giust. Civ. Mass., 2003, p. 315.
33
Così, espressamente, Inzitari, op. cit., p. 278 ss.
34
Cfr, in giurispr., Cass. Sez. Un. 22 luglio 1999, n. 500, in Corr. Giur. 1999, p. 1369; Cass. 16
maggio 2000, n. 6257, in Danno e responsabilità, 2000, p. 1112 e, in dottrina, v. Inzitari, Profili
del diritto delle obbligazioni: “Il mandato”, Padova, 2000, p. 73 ss. e 141.
32
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
89
STUDI E OPINIONI
LO STATO DELL’ARTE IN TEMA DI
AMMINISTRAZIONE DI SOCIETÀ
SEMPLICE
Le disposizioni codicistiche relative all’amministrazione della società semplice –
immutate all’esito della riforma del diritto societario – offrono lo spunto per una
disamina dell’evolversi delle decisioni giurisprudenziali e delle interpretazioni
elaborate in dottrina, soffermandosi in particolare sulle questioni ancora aperte.
di GIULIA GARESIO
1. Premessa
La disamina delle disposizioni codicistiche concernenti l’amministrazione della
società semplice, aggiornata con l’evolversi giurisprudenziale sul tema, non può
prescindere da alcune osservazioni introduttive che consentano di collocare le norme in
commento nel più ampio contesto della governance delle società personali.
Ed infatti, in dottrina si distingue 1 «la disciplina dei poteri di gestione attribuiti
agli amministratori, dei poteri di gestione in senso lato spettanti ai soci e dei poteri di
controllo propri dei soci non amministratori».
Questa prima indicazione consente di comprendere come, nella società semplice,
l’amministrazione stricto sensu possa essere attribuita solo ad alcuni soci, comportando,
quale contrappeso di garanzia, il riconoscimento di specifici poteri di controllo in capo
agli altri soci, non investiti della gestione operativa della società (art. 2261 c.c.), che si
sostanziano nel diritto di informazione, di consultazione ed al rendiconto.
Al fine di incasellare le diverse attribuzioni ora tra le competenze di tutti i soci
ora in quelle dei soli soci-amministratori, risulta agevole individuare brevemente le
prime, così da ottenere, in via residuale, le seconde.
Ai soci, invero, spettano la decisione in merito all’opposizione sollevata da un
amministratore avverso un’operazione in procinto di esser compiuta da altro
amministratore; la nomina e la revoca degli amministratori; la nomina e la revoca dei
1
Cfr. CAGNASSO , La società semplice, in Tratt. Sacco, Torino, 1998, 127.
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
90
STUDI E OPINIONI
AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE
liquidatori; l’approvazione del rendiconto; le modifiche al contratto sociale e, infine,
l’esclusione del socio 2.
Nella società semplice – e, conseguentemente, nelle società di persone in
generale – non rileva la distinzione tra i cosiddetti atti di ordinaria e straordinaria
amministrazione «rimanendo esclusa dall’amministrazione soltanto la modificazione
3
del contratto sociale» .
Sul tema, la Corte di Cassazione4 ha rilevato che rientrano tra i compiti degli
amministratori sia atti conservativi sia atti dispositivi, «se configurano strumenti per la
realizzazione degli scopi perseguiti dalla società e siano di conseguenza riconducibili
all’oggetto sociale» e non vi sia esplicita pattuizione in senso contrario.
Una prima indicazione di massima circa i diversi regimi di amministrazione che
possono configurarsi nell’ambito della società semplice si ricava dall’art. 2257, 1° co.,
c.c., laddove il legislatore attribuisce la scelta al volere dei soci – come sottintende
l’incipit della norma «salvo diversa pattuizione» – ed introduce il regime legale
predisposto in via suppletiva, ovverosia il regime di amministrazione disgiuntiva, nel
quale «l’amministrazione della società spetta a ciascun socio disgiuntamente dagli
altri».
Tale impostazione, pertanto, costituisce il regime normale 5 e, con il modello di
amministrazione congiuntiva di cui al successivo art. 2258 c.c., individua i due sistemi
2
Cfr. CAGNASSO , cit., 128.
Cfr. COSTI, DI CHIO, Società in generale - Società di persone - Associazioni in partecipazione,
in Giur. sist. Bigiavi, 3 a ed., Torino, 1991, 366. Recente conferma giurisprudenziale in Cass.,
5.5.2004, n. 8538, in Giust. civ., 2005, 5, I, 1307 con nota di CAMELI. Orientamento costante
della Suprema Corte, risalente a Id., 29.7.1942, n. 2269, in Rep. Foro it., voce Società, n. 80.
Del medesimo avviso, inoltre, Id., 11.6.1968, n. 1846, in Dir. fall., 1969, II, 86; in Riv.
notariato, 1969, II, 79; in Banca borsa, 1969, II, 219, in cui si è precisato come al
summenzionato principio consegua «l’impossibilità per la società di respingere gli effetti
dell’atto dell’amministratore, compiuto nell’esercizio del potere a lui attribuito ogni volta che
l’atto (anche se, per essere rischioso e azzardato, ad altri effetti possa essere qualificato
eccedente l’ordinaria amministrazione) sia esteriormente riconoscibile come rivolto a
realizzare, senza deviazione o esorbitanza dal fine, gli scopi economici della società».
4
Cass., 26.8.1998, n. 8472, in Giur. it., 1999, 322. A titolo esemplificativo, nel caso sottoposto
al vaglio della Suprema Corte, si è inclusa tra i menzionati atti dispositivi la concessione di
fidejussione a garanzia dell’esposizione debitoria di altra società, con cui la società garante
opera «in modo affiancato e coordinato nello stesso settore produttivo e commerciale, con
partecipazioni in larga misura sovrapposte ed inoltre con fini convergenti, senza confronto
concorrenziale». Viceversa, la medesima ipotesi ha assunto i connotati di un’operazione
estranea all’oggetto sociale allorquando non si siano riscontrati tali elementi di raccordo tra i
due soggetti economici. Cfr. in tal senso Trib. Latina, 19.1.1994, ivi, 1995, I, 2, 135, con nota di
SCALIA ; in Giur. comm., 1995, II, 425, con nota di MASTROGIACOMO .
5
Cfr. CAGNASSO , cit., 146.
3
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STUDI E OPINIONI
AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE
di amministrazione ex lege, benché, superfluo sottolinearlo, il secondo sia al contempo
una scelta pattizia dei soci, stante il tenore dell’art. 2257, 1° co., c.c.
Ai due modelli legali devono poi aggiungersi le molteplici configurazioni
gestionali di tipo convenzionale che si possono in concreto realizzare
nell’amministrazione della società semplice, declinando sia il regime dis giuntivo sia il
regime congiuntivo in ragione della partecipazione alla gestione di tutti i soci o di alcuni
di essi soltanto. Inoltre, il modello congiuntivo può ulteriormente ramificarsi in base ai
quorum necessari per le decisioni, le quali possono essere assunte solo all’unanimità
oppure a maggioranza. Ed ancora, nella medesima società possono coesistere entrambi i
regimi legali, adottati a seconda della materia oggetto della scelta gestionale da
intraprendere, nonché può verificarsi l’attribuzione integrale dell’amministrazione ad un
amministratore unico, come si evince dall’art. 2257, 2° co., c.c., laddove precisa «se
l’amministrazione spetta disgiuntamente a più soci».
Sulla scorta di queste prime annotazioni di massima, si delinea uno scenario
quanto mai articolato e mutevole a seconda delle differenti esigenze dei soci – tradotte
nelle previsioni del contratto sociale – ottenendo combinazioni di volta in volta diverse
in ragione della numerosità dei soci coinvolti nell’amministrazione e delle modalità
decisionali prescelte.
In un tale contesto, deve collocarsi, infine, un’ulteriore distinzione, trasversale
rispetto alle precedenti, ossia quella intercorrente tra la nozione di amministrazione e
6
quella di rappresentanza, laddove si è osservato che «amministratore è colui che, nei
limiti della competenza risultante dalla legge e dal contratto sociale, dirige gli affari
della società; rappresentante è colui per mezzo del quale la società acquista diritti e
assume obbligazioni e nella cui persona essa sta in giudizio».
2. Il modello disgiuntivo
2.1. Per quanto attiene al regime normale di amministrazione, l’implicazione più
evidente del disposto letterale dell’art. 2257, 1° co., c.c., consiste nel fatto che tutti i
soci sono amministratori, salvo patto contrario.
Qualora solo alcuni soci rivestano il ruolo di amministratori, ci si potrebbe
interrogare sulla possibilità, per costoro, di conferire una procura ad amministrare.
7
In giurisprudenza, si è risposto in senso affermativo allorquando il preposto sia
un socio-non amministratore, ed in senso negativo 8 se si tratta di un soggetto terzo ed il
preponente non possa interferire con le operazioni da questi realizzate.
6
Cfr. COSTI, DI CHIO , cit., 367. In giurisprudenza, tra le altre, T rib. Parma, 9.11.1995, in Dir. e
giur. agr. amb., 1996, 796; Id. Torino, 8.10.1984, in Soc., 1985, 494.
7
T rib. Torino, 8.10.1984, cit.
8
T rib. T orino, 5.8.1988, in Giur. comm., 1989, II, 89; Id. Milano, 22.5.1980, in Soc., 1983,
1115.
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92
STUDI E OPINIONI
AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE
Ulteriore profilo concerne la configurabilità del ruolo di amministratore della
società semplice in termini di lavoratore subordinato. Ad un tale quesito non può esser
data soluzione univoca, essendo necessario distinguere a seconda del modello di
amministrazione scelto dai soci, ed in particolare, si verificano ipotesi di
9
incompatibilità ogniqualvolta «essendo determinante la volontà del socio
amministratore, non è concepibile un rapporto di subordinazione verso se medesimo».
Tra queste, invero, è compreso10 il caso di amministratore unico, di amministrazione
congiuntiva all’unanimità e di amministrazione plurisoggettiva dis giuntiva, nella quale
ogni socio può gestire autonomamente la società.
E ciò in quanto il tratto distintivo del sistema di amministrazione in parola, è
stato rilevato11, è costituito non tanto e non solo dalla circostanza che ogni socioamministratore possa agire in completa autonomia, senza il preventivo consenso degli
altri amministratori, bensì anche in assenza di previa informazione circa gli atti
gestionali che si andranno a compiere.
È immediato constatare, pertanto, come l’indubbio vantaggio in termini di
efficienza gestionale, costituito dalla celerità decisionale e dall’immediatezza di
esecuzione 12, sopporti quale contrappeso la possibile mancanza di coordinamento da
parte dei singoli amministratori, che potrebbe palesarsi all’esito di un’amministrazione
troppo atomistica.
2.2. Il correttivo previsto dal legislatore consiste nell’introdurre – quale argine
all’autonomia assoluta dell’amministratore – il diritto di veto in capo a ciascuno degli
9
Cfr. GHIDINI, Società personali, Padova, 1972, 389-390.
Cass., sez. lav., 15.9.1979, n. 4779, in Arch. civ., 1980, 268; Id., sez. lav., 10.2.2000, n. 1490,
in Giust. civ. mass., 2000, 292.
11
Cfr. GALGANO , Il principio di maggioranza nelle società personali, Padova, 1960, 72, per il
quale «il criterio capace di distinguere l’amministrazione disgiuntiva da quella congiuntiva non
risiede nel dato, che è comune ad entrambi i sistemi, per il quale i membri del gruppo possono
agire isolatamente, ma risiede, al contrario, nella circostanza che, per il primo di tali sistemi, il
singolo è integralmente investito dei poteri del gruppo, e, quindi, può agire all’insaputa del
colleghi». Conforme CAGNASSO, ibidem.
12
In proposito, è stato acutamente osservato che nell’amministrazione disgiuntiva «si esprime
pienamente quella compenetrazione fra la qualità di socio e il potere amministrativo che è nella
natura delle società personali. Il sistema si è imposto storicamente come il più adatto alla
conclusione rapida degli affari, in un mondo mercantile in cui le comunicazioni erano lente e
difficili ed i soci dovevano agire in luoghi fra loro distanti. Esso ha nondimeno due
inconvenienti: da un lato può mancare il coordinamento, dall’altro ogni socio subisce a cose
fatte il rischio di operazioni che non ha contribuito a decidere». Cfr. COTTINO, W EIGMANN , Le
società di persone, in Tratt. Dir. Comm. diretto da Cottino, III, Padova, 2004, 145.
10
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STUDI E OPINIONI
AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE
altri soci-amministratori, i quali possono, ai sensi dell’art. 2257, 2° co., c.c., «opporsi
all’operazione che un altro voglia compiere, prima che sia compiuta».
Il tenore letterale della norma fuga ab origine qualsiasi velleità di attribuire il
predetto diritto di veto a soci che non siano anche amministratori13.
La decisione in merito alla suddetta opposizione preventiva compete alla
maggioranza di tutti i soci, amministratori e non, conteggiata in base alla partecipazione
agli utili (art. 2257, 3° co., c.c.). Qualora si ritenga infondato il divieto sollevato,
l’amministratore potrà compiere l’atto in un primo momento “bloccato”; in caso
contrario, accogliendo le ragioni dell’opponente, l’operazione non potrà avere corso.
Con riguardo al meccanismo di valutazione endosocietario dianzi descritto, si è
precisato14 come esso venga meno allorquando l’amministratore che ha esercitato il
proprio diritto di veto rinunci all’opposizione, privando conseguentemente la
maggioranza dei soci del potere di decidere, venendo a mancare il presupposto previsto
ex lege, ossia l’opposizione.
Sul tema dell’opposizione, in giurisprudenza15, oltre ad evidenziare la necessità
che si tratti di un veto posto esclusivamente ex ante rispetto all’operazione, si ritiene che
esso possa «legittimamente investire una pluralità di atti di amministrazione,
soprattutto se si tratta di una serie omogenea» e ciò al fine di «consentire che un sicuro
dissenso di alcuni soci trovi effettiva e pronta salvaguardia e si intenda evitare una
poco economica moltiplicazione di analoghi momenti conflittuali».
Inoltre, è stato osservato16 che «se l’affare fosse già concluso, non può
impedirsene l’esecuzione, essendo l’obbligazione sorta validamente a carico del
gruppo: tuttavia se fosse suscettibile di vari svolgimenti l’opposizione potrebbe
esercitarsi in ordine ai medesimi, in modo da evitare quelli dannosi alla società».
Per quanto concerne la comunicazione dell’intervenuta opposizione, non vi è
uniformità su quali debbano essere i destinatari, essendovi chi propende per la totalità
dei soci e chi unicamente per l’amministratore promotore dell’operazione “congelata” e
17
la controparte terza con cui dovrebbe essere conclusa . In ogni caso, pare ragionevole
informare tutti i soci-amministratori, affinché, ignari, non intraprendano inutilmente a
loro volta il medesimo affare oggetto dell’opposizione.
13
Cfr. CAGNASSO , QUARANTA, La società semplice, in Tratt. Rescigno, 17, Torino, 2010, 43.
Cfr. CAMPOBASSO , Diritto Commerciale, 2, Torino, 2012, 91; CAGNASSO , cit., 147.
15
Pret. Milano, 18.11.1988, in Giur. comm., 1989, II, 353. Maggiormente restrittiva Cass.,
2.4.1992, n. 4018, in Giur. it., 1992, I, 1, 1678, per la quale la norma in commento «va intesa
nel senso che il contrasto può appuntarsi soltanto su singole operazioni e deve trovare
soluzione nell’ambito del sodalizio societario».
16
Cfr. FERRARA JR, CORSI, Gli imprenditori e le società, 14 a ed., Milano, 2009, 271, nt. 1.
17
Cfr., per la prima tesi, BOLAFFI, La società semplice, Milano, 1947, 315, e, per la seconda
soluzione, GHIDINI, cit., 368.
14
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STUDI E OPINIONI
AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE
Da un punto di vista pratico, l’opposizione non richiede alcuna forma specifica 18
e non deve essere motivata19.
Essa esplica i propri effetti20 tanto nei rapporti esterni – configurandosi come
una limitazione successiva della rappresentanza – quanto nei rapporti interni.
Conseguentemente, l’eventuale compimento dell’operazione, che prescinda
dall’opposizione in corso, è fonte di responsabilità per il socio che l’ha realizzato nei
confronti degli altri soci.
La decisione in merito all’opposizione, come dispone linearmente la norma,
21
spetta ai soci in base alla rispettiva partecipazione agli utili e, inoltre, si è ritenuto
22
debba essere assunta adottando il metodo collegiale. Al riguardo, è stato precisato che
«se la decisione della maggioranza è negativa, essa comporta il divieto definitivo di
compiere l’operazione divisata; viceversa, una decisione positiva lascia intatto il potere
del socio-amministratore di compiere oppur no l’operazione stessa».
Alternativamente rispetto alla decisione da parte dell’intera compagine sociale,
l’atto costitutivo può prevedere che la questione sia risolta da uno o più arbitratori, ai
sensi dell’art. 37, d.lg. 17 gennaio 2003, n. 5, i quali, se sancito pattiziamente, possono
«dare indicazioni vincolanti anche sulle questioni collegate con quelle espressamente
deferite» 23.
In conclusione, con riferimento al diritto di veto, pare potersi rilevare come un
potenziale limite alla concreta applicazione di siffatto diritto derivi dall’intrecciarsi, da
un lato, dell’assenza di un qualsivoglia esplicito obbligo di previa informazione per gli
atti di gestione che andranno a compiersi da parte degli amministratori nel modello
disgiuntivo, e, dall’altro lato, dalla necessità che l’opposizione venga esercitata
anteriormente rispetto all’effettuazione dell’operazione. Pertanto, ben potrebbero gli
amministratori ignorare l’affare che uno di essi si sta accingendo a concludere, con
l’impossibilità, “a cose fatte”, di intervenire per la rimozione degli effetti reali ed
obbligatori validamente prodottisi in capo alla società.
In un tale scenario, nondimeno, possono opportunamente esser riportate le
24
considerazioni svolte da autorevole dottrina , laddove si è osservato che «oggi tutti si
compiacciono di usare il telefonino e quindi dal dovere di diligenza […] si deve
18
Cfr. FERRARA JR, CORSI, cit., 272.
Cfr. GHIDINI, ibidem.
20
Cfr. FERRARA JR, CORSI, cit., 271.
21
Cfr. DI SABATO , Diritto delle società, 3 a ed., Milano, 2011, 118.
22
Cfr. DI SABATO , ibidem.
23
Cfr. CAMP OBASSO , ibidem. L’Autore osserva come il contratto sociale possa altresì stabilire
che – alternativamente – le decisioni dell’arbitratore siano reclamabili innanzi ad un collegio
con determinate modalità e termini, oppure siano impugnabili ex art. 1349, 2° co., c.c.
24
Cfr. COTTINO, W EIGMANN, ibidem.
19
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STUDI E OPINIONI
AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE
desumere l’obbligo di darsi reciproco preavviso e di consultarsi in anticipo, ogni volta
che sia possibile e ne valga la pena».
3. Il modello congiuntivo
3.1. Con riferimento al secondo regime di amministrazione legale, previsto
all’art. 2258 c.c., si rileva innanzitutto come esso sia al contempo un modello
“convenzionale”, dovendo essere esplicitamente adottato dai soci, così come del resto
25
confermato in giurisprudenza ove si è deciso che «a derogare al potere di gestione
disgiunto è la diversa pattuizione che in concreto sia intervenuta e che
l’amministrazione è congiuntiva solo ove tale fatto positivo sia stato dimostrato e non
anche se sia mancata la prova del fatto negativo, cioè della inesistenza di pattuizioni
derogatrici».
Inoltre, è stato sostenuto26 che «qualora le parti del contratto sociale abbiano
adottato il regime di amministrazione congiuntiva, la cessazione dall’incarico di uno
degli amministratori, pur determinando la cessazione dall’incarico anche degli altri,
non comporta la automatica reviviscenza del regime di amministrazione disgiuntiva».
Il disposto letterale della norma prevede, in primo luogo, che la gestione spetti
unicamente ad alcuni soci, e, in secondo luogo, che i soci-amministratori decidano
all’unanimità. Di talché, il rifiuto espresso da uno solo degli amministratori avverso
un’operazione di gestione ne preclude l’effettuazione.
Qualora uno degli amministratori, che sia altresì investito del potere di
rappresentanza, proceda al compimento di un atto di gestione senza il preventivo
consenso degli altri soci-amministratori, l’operazione è valida ed efficace nei confronti
del terzo, salvo che la società non provi la conoscenza da parte del terzo contraente
tanto del regime di amministrazione congiunta quanto della mancanza del consenso
27
unanime degli amministratori .
25
Cass. 5.5.2004, n. 8538, cit. Cfr., in dottrina, A. VENDITTI, Collegialità e maggioranza nelle
società di persone, Napoli, 1955, 83.
26
Trib. Torre Annunziata, 26.9.2002, in Giur. di Merito, 2003, 224. Ed ancora, nella parte
motiva della sentenza si legge che «si deve ritenere che la scelta dell’amministrazione
congiuntiva abbia carattere stabile e permanente e che le disfunzioni di tale regime (quali, nel
caso di specie, la cessazione dall’incarico degli amministratori e le difficoltà di realizzare un
accordo per nominare i nuovi) determinano non la reviviscenza dell’amministrazione
disgiuntiva ma, eventualmente, o l’esclusione dei soci dissenzienti o lo scioglimento della
società per impossibilità del suo funzionamento». Contra MORANO , Il consiglio di
amministrazione nella società di persone, in Soc., 1987, 392.
27
Cfr. GHIDINI, cit., 371.
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
96
STUDI E OPINIONI
AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE
Viceversa, allorquando il placet sia immotivatamente negato e dall’aver
rinunciato all’affare sia derivato un pregiudizio per la società, l’amministratore
dissenziente potrebbe incorrere in un’azione di responsabilità 28.
Ulteriore profilo attiene alla morte del socio-amministratore, circostanza questa
29
che, in giurisprudenza , è stata ritenuta fonte dell’estinzione del mandato collettivo ad
amministrare in via congiunta e che, parimenti, non consente ai soci di ratificare a
maggioranza l’operato dei soci-amministratori superstiti, dovendo sussistere il consenso
unanime della compagine sociale.
3.2. Il potenziale rischio di stallo a cui la gestione è esposta con il modello in
parola, trova contemperamento con le indicazioni di cui all’art. 2258, 2° co., c.c.,
laddove si prevede un regime di amministrazione congiunta a maggioranza –
determinata in base alla partecipazione agli utili, in forza del rinvio all’art. 2257, 3° co.,
c.c. – al quale la società può accedere, «se è convenuto», o per l’intera amministrazione
oppure solo «per determinati atti». Trattasi, anche in questo caso, di un’ulteriore,
esplicita, scelta dei soci scolpita nel contratto sociale, dovendosi viceversa applicare la
votazione all’unanimità – propria del modello di amministrazione congiunta – qualora
nulla sia convenuto in senso contrario, così come precisato dalla Suprema Corte30, per la
quale «il principio maggioritario dettato dall’art. 2388 c.c. per le società per azioni non
può, infatti, trovare applicazione in tale ipotesi, a meno di una espressa previsione
pattizia autonoma o inclusa nell’atto costitutivo».
La norma individua, pertanto, una regola suppletiva31 per il conteggio della
maggioranza, laddove lo statuto non si esprima diversamente, potendosi stabilire
pattiziamente che questa sia computata applicando anche altri metodi, quali il voto
capitario o il voto parametrato ai conferimenti effettuati, se differenti rispetto alla
partecipazione agli utili 32.
Con riferimento alla determinazione della maggioranza, inoltre, vi sono
posizioni contrastanti per quanto attiene ai soggetti legittimati al voto, essendovi
28
Cfr. GHIDINI, cit., 370.
T rib Napoli, 7.10.1986, in Soc., 1987, 389. La decisione de qua stabilisce che, «poiché il
mandato collettivo si estingue con la morte di uno dei mandatari, nel caso di decesso di un
componente del consiglio di amministrazione di una società di persone, in assenza di deroghe
pattizie, è invalida la deliberazione dei soci che ratifica a maggioranza l’operato degli
amministratori superstiti, poiché non avendo tale atto un valore meramente formale, in quanto
diretto ad approvare l’operato di soggetti non più amministratori, occorre l’unanime consenso
dei componenti la compagine sociale».
30
Cass., 19.1.1985, n. 142, in Dir. fall., 1985, II, 407.
31
Cfr. COTTINO, W EIGMANN, cit., 147.
32
Cfr. SALAFIA, L’amministrazione delle società personali, in Soc., 1999, 1289; COTTINO,
W EIGMANN , ibidem.
29
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
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STUDI E OPINIONI
AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE
dottrina prevalente che sostiene debbano esser considerati solamente i sociamministratori e altra parte della dottrina che ritiene sia necessario il coinvolgimento
dell’intera compagine sociale 33. Al riguardo, pare potersi affermare che conteggiare i
soli amministratori sia coerente con quanto testualmente disposto ex lege per
l’amministrazione congiuntiva all’unanimità, in cui, come visto, unicamente gli
amministratori sono chiamati a decidere l’operazione. A fortiori, ciò dovrebbe valere
anche per il modello a maggioranza, di per sé volto ad incrementare la rapidità
decisionale e applicabile, inoltre, solo ove pattuito.
Ragionando a contrariis, infatti, si imporrebbe un fardello in termini di snellezza
gestionale proprio laddove il legislatore ha inteso imprimere dinamicità al modello di
amministrazione congiuntiva, introducendo il correttivo del voto per maggioranza.
Sul punto l’autonomia statutaria potrebbe esprimersi tanto in un senso quanto
nell’altro, risolvendo nel caso concreto i possibili conflitti di natura interpretativa.
In proposito, ad ogni modo, l’amministratore che non si esprime sull’operazione,
astenendosi dal voto, può esser compreso nel quorum costitutivo e considerato, ai fini
34
del quorum deliberativo, come voto contrario .
3.3. Infine, per ciò che concerne il regime di amministrazione congiunta, le
disposizioni dell’art. 2258, 3° co., c.c., prevedono espressamente che, tanto nel modello
con decisione all’unanimità quanto nel modello a maggioranza, «gli amministratori non
possono compiere da soli nessun atto». Inoltre, la norma individua esplicitamente
un’eccezione a tale regola, facendo salve le ipotesi in cui l’amministratore agisca
individualmente qualora «vi sia urgenza di evitare un danno alla società».
35
Al riguardo, consta una pronuncia della Corte di legittimità in cui si ravvisa la
ratio sottostante il dettato codicistico nel fatto che «la norma è diretta ad impedire che
la società possa subire pregiudizi per il ritardo conseguente alla necessità di procedere
a consultazione, per acquisire il consenso di tutti i soci o della maggioranza di essi».
Pertanto, rileva la Suprema Corte, tale disposizione «presuppone che non si sia
manifestato alcun dissenso, e che, al contrario, sia ancora possibile acquisire i consensi
necessari, con la conseguenza che essa non è applicabile allorché sussista un grave
disaccordo tra i soci».
Le condizioni al ricorrere le quali può trovar applicazione l’eccezione legale
sono a) il verificarsi di una situazione di urgenza, che, generalmente, si connota per
l’impossibilità di previa consultazione dei soci-amministratori36, b) l’insorgere di un
33
Cfr., ex pluribus, per la prima tesi GHIDINI, cit., 373; per la seconda opinione BOLAFFI, cit.,
322.
34
Cfr. GHIDINI, cit., 373-374.
35
Cass., 19.7.2000, n. 9464, in Giust. civ. mass., 2000, 1567.
36
Cfr. GHIDINI, cit., 375.
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
98
STUDI E OPINIONI
AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE
danno per la società, non necessariamente grave ed irreparabile, ma tale da sostanziarsi
in un pregiudizio al patrimonio sociale 37 e non nel semplice venir meno di un guadagno.
La valutazione circa la sussistenza dello stato di urgenza e del possibile
originarsi del danno in capo alla società è rimessa – di necessità – al giudizio del singolo
amministratore, e, qualora questi dovesse commettere un errore scusabile nel
considerare la situazione, l’atto gestorio compiuto sarebbe ad ogni conseguente effetto
38
dotato di legittimità , vincolando la società nei confronti dei terzi, anche nell’ipotesi in
cui si dovesse riscontrare la mancanza tanto del requisito di urgenza quanto del
possibile danno 39.
4. I modelli di amministrazione convenzionali
Il legislatore attribuisce ai soci ampia libertà di definire il modello di
amministrazione da adottare, tanto preordinando la possibilità di scegliere tra le
configurazioni gestorie legali, quanto adattando le stesse alle esigenze concrete della
singola compagine sociale.
A titolo esemplificativo, i soci possono stabilire nel contratto sociale di
diversificare il regime di amministrazione in ragione dell’atto gestorio che deve essere
posto in essere 40, oppure il contratto sociale può prevedere che l’amministrazione
disgiuntiva sia ripartita tra i soci-amministratori attribuendo a ciascheduno specifiche e
delimitate aree di competenza, contemperando il rischio di una gestione strettamente
individualista con il potere di informazione che spetta a tutti i soci-amministratori,
stante la responsabilità solidale di cui sono gravati collettivamente per l’agire del
41
singolo, (art. 2260, 2° co., c.c.) .
37
Cfr. G. FERRI, Delle società, in Comm. Scialoja-Branca, Roma-Bologna, 1981, 159 e ss.
L’Autore precisa, inoltre, che l’eccezione alla regola dell’amministrazione congiunta deve esser
motivata dalla necessità di salvaguardare l’integrità del patrimonio sociale e non anche
dall’esigenza di incrementarlo. Conformi in tal senso COSTI, DI CHIO , cit., 375.
38
Cfr. G. FERRI, ibidem.
39
T uttavia, è stato rilevato come la società possa liberarsi delle obbligazioni sorte a seguito
dell’agire isolato del socio-amministratore laddove riesca a fornire la prova che il terzo era a
conoscenza del regime di amministrazione congiuntiva, del mancato consenso da parte degli
altri soci-amministratori, nonché dell’assenza dell’urgenza nel caso concreto. Cfr. GHIDINI,
ibidem.
40
T ale ipotesi, invero, risulta «in qualche modo adombrata dallo stesso legislatore là dove,
disciplinando il modello di amministrazione congiunta, prevede che sia richiesto il consenso
unanime per determinati atti, la maggioranza per altri. In tal modo lo stesso legislatore
consente l’applicazione di regole differenti in relazione a categorie differenziate di atti di
gestione». Cfr. CAGNASSO, cit., 148. Conforme CAMPOBASSO , cit., 92. In giurisprudenza, T rib.
Roma, 2.1.1987, in Soc., 1987, 431; Cass., 6.12.1984, n. 6419, ivi, 1985, 270.
41
Cfr. CAGNASSO , ibidem.
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
99
STUDI E OPINIONI
AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE
Ulteriore possibilità, pienamente ipotizzabile nell’alveo dell’autonomia sociale,
attiene all’introduzione delle regole della collegialità, delineando un organo gestorio
assimilabile al consiglio di amministrazione proprio delle società di capitali, cui
potrebbe affiancarsi, del pari, un organo assembleare deputato a decidere su quegli
argomenti che, come visto, devono essere sottoposti al vaglio dell’intera compagine
42
sociale .
Profilo di particolare interesse, inoltre, attiene alla possibilità per i soci-non
amministratori di impartire direttive su questioni gestorie, facoltà pacificamente
ammessa se pattiziamente prevista e – allo stesso tempo – circoscritta. Al contrario, in
assenza di un’esplicita indicazione in tal senso nel contratto sociale, si ritiene che
codesto potere non possa trovar luogo, in quanto, diversamente opinando, ci si
scontrerebbe con il lineare disposto normativo di cui all’art. 2257, 2° co., c.c., il quale
sancisce inequivocabilmente come il diritto di veto spetti unicamente ai sociamministratori43. Essendo impedito ai soci-non amministratori di limitare in negativo
l’agire degli amministratori, del pari deve concludersi come non sia possibile
unicamente ex lege limitare in positivo il loro operare.
Nondimeno, sul punto esistono posizioni discordanti laddove la gestione sia
attribuita ad «un amministratore unico nominato per atto separato e perciò revocato dai
soci non amministratori anche senza giusta causa» 44.
Da un lato, vi è chi osserva come il potere di revoca ad nutum implichi, a
fortiori, il potere di impartire direttive vincolanti all’amministratore unico, il quale, per
gli atti di gestione da queste scaturenti, andrebbe esente da responsabilità45. Dall’altro
lato, non può non rilevarsi come un siffatto ragionamento collida 46 – in una prospettiva
sistematica – con quanto sancito per le società per azioni all’art. 2364, 1° co., c.c., che,
anche nella formulazione novellata dal d.lg. 17 gennaio 2003, n. 6, non prevede la
facoltà per l’assemblea di disporre linee guida vincolanti per gli amministratori che essa
stessa nomina e revoca, potendo solo concedere autorizzazioni se «eventualmente
richieste dallo statuto per il compimento di atti degli amministratori, ferma in ogni caso
la responsabilità di questi per gli atti compiuti».
5. Il rapporto di amministrazione. Profili generali
5.1. Per quanto concerne il rapporto di amministrazione, in primo luogo vi è la
possibilità – nella società semplice – di attribuire il potere gestorio a soggetti che non
42
Cfr. CAGNASSO , cit., 148-149.
Cfr. CAGNASSO , cit., 149-150. Conformi, in tal senso, COTTINO , W EIGMANN, cit., 139;
GALGANO , Degli amministratori di società personali, Padova, 1963, 31.
44
Cfr. CAMPOBASSO , cit., 100.
45
Cfr. CAMPOBASSO , ibidem.
46
Cfr. CAGNASSO , cit., 150.
43
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
100
STUDI E OPINIONI
AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE
siano al contempo soci. Se le opinioni espresse in dottrina paiono discordanti47,
giurisprudenza risalente si è orientata recisamente in senso negativo 48.
Ragione sottostante risiede nelle disposizioni di cui all’art. 2267 c.c., laddove si
sancisce la possibilità di limitare la responsabilità per le obbligazioni sociali per quei
soci che non abbiano agito in nome e per conto della società. Considerando
congiuntamente tale previsione con il fatto che il potere di rappresentanza spetta ai soli
soci-amministratori, si deve concludere che sarebbe perlomeno «singolare che si
potesse nominare un amministratore non socio solo in presenza di amministratori soci,
49
con poteri di rappresentanza» .
Ed inoltre, siffatta conclusione pare coerente con quanto stabilito per
l’accomandita semplice, nella quale si possono configurare due tipologie di soci con
differenti regimi di responsabilità e l’amministrazione della società può esser attribuita
unicamente ai soci accomandatari 50.
47
In senso negativo, cfr., tra gli altri, AULETTA , Appunti di diritto commerciale, Napoli, 1946,
147; COTTINO , Diritto societario, Padova, 2011, 76 e ss., 116; GALGANO , Degli amministratori,
cit., 30 e ss.; GHIDINI, cit., 418 e ss.; DI SABATO , cit., 120. Viceversa, hanno ritenuto
ammissibile la figura dell’amministratore extraneus, BOLAFFI, cit., 330 e s.; A. VENDITTI, cit.,
82; GRAZIANI, Diritto delle società, Napoli, 1962, 118; T ASSINARI, La rappresentanza nelle
società di persone, Milano, 1993, 143 e ss.; CAMP OBASSO, cit., 100 e s., con riguardo alla sola
società in nome collettivo. Quest’ultimo Autore osserva come nella collettiva non si ponga
«l’unico significativo argomento che può ostacolare la soluzione permissiva nella società
semplice. Il pericolo cioè che la nomina di un amministratore estraneo costituisca espediente
per eludere il principio della responsabilità personale ed illimitata dei soci per le obbligazioni
sociali», e ciò in quanto nella società in nome collettivo «tutti i soci sono sempre e comunque
responsabili personalmente nei confronti dei creditori sociali, siano o meno investiti
dell’amministrazione della società».
48
Cass., 25.1.1968, n. 128, in Giur. it., 1968, I, 1, 1202; Trib. Roma, 21.1.1983, in Soc., 83,
1153; Id. Biella, 23.10.1999, in Dir. fall., 9, II, 1250. Più recentemente, Id. Cagliari, 11.11.2005,
in Riv. giur. sarda, 2006, 383, con nota di DESSÌ. Con precipuo riferimento alla società in nome
collettivo, consta una pronuncia di Trib. Foggia, 29.2.2000, in Giur. it., 2001, 989, in cui si è
affermato che «la diretta correlazione tra potere gestorio e rischio di impresa che connota la
disciplina delle società di persone implica un nesso indissolubile tra lo "status" di socio e la
funzione amministrativa. Deve pertanto essere rifiutata l’iscrizione nel Registro delle imprese
dell’atto costitutivo di una s.n.c. che conferisca l’incarico di amministratore ad un soggetto
estraneo alla compagine sociale, rimanendo a tale fine irrilevante la circostanza che egli
rivesta la qualifica di accomandatario di una s.a.s. che di tale compagine fa parte».
49
Cfr. CAGNASSO, cit., 152. Sul punto, giunge ad una conclusione parzialmente differente
GRAZIANI, ibidem, il quale ritiene sia possibile nominare un amministratore extraneus a
condizione che non abbia poteri di rappresentanza. Contra, COTTINO, cit., 86.
50
Cfr. CAGNASSO , ibidem.
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
101
STUDI E OPINIONI
AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE
A ben vedere, anche chi ammette la possibilità di un amministratore extraneus
rispetto alla compagine sociale assimila questa figura a quella di un mandatario generale
o di un institore, «sia pure con poteri estesi al compimento di tutti gli atti che rientrano
nell’oggetto sociale» 51.
5.2. Differente è, invece, la possibilità di delegare a terzi il potere di
amministrare, in un primo momento esclusa dalla giurisprudenza della Suprema Corte52
e, successivamente ritenuta ammissibile in quanto «l’amministratore ha tutti i poteri
relativi alla gestione della società onde non solo egli può conferire a terzi o a soci
collaboratori o a dipendenti dello stesso ente un mandato con rappresentanza; può
concepirsi, inoltre, in via di mero fatto, la possibilità di un mandato tacito» 53.
Nondimeno, giurisprudenza più recente 54 ha precisato come la facoltà di delega
debba in ogni caso essere autorizzata dal contratto sociale e limitarsi a singoli atti,
essendo «nulla la procura institoria conferita dall’amministratore di una società di
persone […] che attribuisca al preposto il potere di compiere tutti gli atti relativi
all’amministrazione senza che il preponente possa interferire o opporsi alle sue
operazioni». Ed ancora, si è specificato 55 come permanga in capo all’amministratore
delegante un potere di controllo e di revoca nei confronti del soggetto delegato, nonché
– correlativamente – la responsabilità per non aver impedito a questi il compimento di
atti dannosi per la società.
Autorevole dottrina56 ha sottolineato come l’amministratore non può «nominare
un institore se ciò implichi lo svuotamento dei propri attributi […] Egli può sempre
51
Cfr. CAMPOBASSO , cit., 101. L’Autore conclude osservando che «la nomina di un
amministratore estraneo non priva i soci del potere di direzione dell’impresa comune. È solo un
modo di esercitare tale potere di direzione, che può e deve ritenersi perfettamente legittimo in
quanto non altera il principio della responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali».
Nondimeno, l’Autore avverte che tale situazione può al più rivelarsi problematica per il terzo
amministratore «data la nota propensione della giurisprudenza ad ammettere con larghezza la
figura del socio apparente».
52
Cass., 5.5.1955, n. 1256, in Sett. Cass., 1955, 242; Id., 5.4.1966, n. 895, in Mass. Giust. civ.,
1966, 508. La Suprema Corte motivava il diniego alla delega osservando che «in una società di
persone, conferita ad uno dei soci una attività di specifico carattere personale, come la
direzione tecnica dell’impresa, il socio impedito di esplicare l’attività lui demandata […] in
mancanza di espressa disposizione del contratto di società, non può pretendere di sostituire a sé
altra persona che spieghi in sua vece l’attività di cui trattasi».
53
Cass., 12.3.1964, n. 535, in Mass. Giur. it., 1964, 166. Conforme Id., 8.7.1963, n. 1833, ivi,
1963, 632; Trib. Torino, 8.10.1984, cit.
54
T rib. Milano, 22.12.1983, in Soc., 1984, 790.
55
T rib. Roma, 9.10.1987, in Soc., 1988, 248, con nota di MARCINKIEWICZ.
56
Cfr. COTTINO, cit., 86 e ss.
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
102
STUDI E OPINIONI
AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE
valersi del contributo esecutivo di altre persone; così come è legittimato a conferire, nei
limiti naturalmente dei poteri di cui è investito e in quanto ciò non implichi abdicazione
dalle funzioni gestorie, procure a soci o a terzi». Tuttavia «non si può escludere che, di
fatto, i soci si spoglino materialmente di mansioni amministrative scaricandole su
terzi», anche se ciò non comporta che il terzo diventi amministratore «in senso tecnico»
– essendo questa qualifica propriamente attribuibile ai soli soci – bensì egli «sarà di
volta in volta un semplice procuratore o sostituto degli amministratori o institore
57
dell’impresa collettiva» .
5.3. La riforma del diritto societario del 2003 ha affacciato un’ulteriore quaestio
di non poco momento, la quale scaturisce dalla novella introdotta all’art. 2361, 2° co.,
c.c., in forza della quale una società per azioni può assumere una partecipazione in
un’altra impresa che comporti responsabilità illimitata per le obbligazioni di
quest’ultima58.
Sulla scorta delle osservazioni che precedono in tema di inscindibilità del
binomio socio-amministratore, sorge spontaneo domandarsi se sia ammissibile che la
gestione dell’ente partecipato sia affidata ad un socio persona giuridica.
Risposta affermativa è stata sostenuta argomentando come l’art. 111 duodecies,
disp. att. c.c. – nel prevedere che la collettiva o l’accomandita semplice esclusivamente
partecipate da società di capitali debbano redigere il bilancio d’esercizio in conformità
alle disposizioni vigenti per le s.p.a., nonché il bilancio consolidato ove ne sussistano i
requisiti – implichi «l’ammissibilità di una società di persone, i cui amministratori
59
siano persone giuridiche» .
Da un punto di vista strettamente applicativo, si è rilevato come la persona
giuridica debba procedere alla nomina di un mandatario affinché si occupi
dell’amministrazione della società di persone, potendo tanto nominarlo quanto revocarlo
57
Cfr. COTTINO, ibidem.
La disposizione, introdotta per la s.p.a., è richiamata per la s.a.p.a. dall’art. 2454 c.c. e si
ritiene sia applicabile anche con riferimento alla s.r.l., in ragione dell’art. 111 duodecies, disp.
att. c.c. Cfr. COTTINO , WEIGMANN , cit., 140. Per i termini del dibattito anteriormente alla
riforma del diritto societario, vds. COSTI, DI CHIO , cit., 175 e ss.
59
Cfr. COTTINO , WEIGMANN , cit., 90-91 e 141. Conformi, tra gli altri, ABRIANI, MONTALENTI,
L’amministrazione; vicende del rapporto, poteri, deleghe e invalidità delle deliberazioni, in
Tratt. Dir. Comm. diretto da Cottino, IV, 1, Padova, 2010, 574. Contra, GALGANO , Diritto
commerciale. Le società, Bologna, 2005, 46, per il quale la carica di amministratore deve essere
assunta dalla persona fisica designata dalla società di capitali socia, applicando in via analogica
l’art. 2542, 2° co., c.c., riferito alle società cooperative. Del medesimo avviso LIBONATI, Diritto
commerciale. Impresa e società, Milano, 2005, 174, il quale identifica l’amministratore della
società personale non tanto nella società di capitali partecipante quanto piuttosto nel legale
rappresentante di quest’ultima.
58
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
103
STUDI E OPINIONI
AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE
ad libitum, «né gli altri soci si potranno opporre a questa sostituzione, salvo che si
siano riservati una facoltà di assenso nell’atto costitutivo»60.
Ed ancora, sul punto, autorevole dottrina61 ha precisato come il mandatario in
parola, agendo in nome e per conto del socio, non incorra in responsabilità illimitata per
le obbligazioni della società che egli gestisce e, pertanto, de jure condendo, si è
proposto di imporre alla società di capitali «di indicare un suo rappresentante stabile e
nel contempo rendere quest’ultimo corresponsabile, insieme con chi lo abbia prescelto,
dei danni causati alla società con una negligente gestione».
Conclusivamente, è stato acutamente osservato che, «con riferimento
all’assunzione della qualifica di amministratore, le alternative non possono che essere
o l’assunzione di tale veste da parte dei soci società di capitali (e quindi concretamente
dei loro amministratori) o da parte di non soci. L’una e l’altra alternativa presentano
ovviamente rilevanti conseguenze sotto il profilo sistematico: in particolare la seconda
62
apre la strada alla possibilità di nomina in via generale di amministratori non soci» .
6. Fonte e natura giuridica del rapporto di amministrazione
6.1. Il rapporto di amministrazione può sorgere ex lege – ed allora
amministratori saranno tutti i soci, giusta il dettato dell’art. 2257, 1° co., c.c. – oppure
avere origine contrattuale63, derivando da esplicita pattuizione del contratto sociale o da
un atto separato successivo rispetto alla costituzione della società.
60
Cfr. COTTINO, W EIGMANN, cit., 141.
Cfr. COTTINO , W EIGMANN, ibidem. Giova riportare il commento degli Autori all’innovazione
introdotta con la riforma del 2003, laddove essi osservano «con il che, però, si rompe
quell’immedesimazione fra potere di gestione e qualità di socio illimitatamente responsabile su
cui si è finora fondato il sistema vigente […] c’è quindi da rammaricarsi di questo improvviso
sconvolgimento, non tanto per il ribaltamento del principio […] quanto per la mancata
valutazione delle conseguenze che se ne devono trarre e che, per non pregiudicare l’equilibrio
sistematico delle regole, sarebbero dovute essere accompagnate per legge da talune cautele».
Conforme REGOLI, L’organizzazione delle società di persone, in AA.VV., Diritto delle società.
Manuale breve, Milano, 2008, 57 e s.
62
Cfr. CAGNASSO , QUARANTA, cit., 44.
63
Sul punto, GRAZIANI, cit., 120, ritiene che il rapporto di amministrazione abbia in ogni caso
natura contrattuale, ancorché non vi sia alcuna previsione statutaria, e ciò in quanto il rapporto
di amministrazione discende come elemento naturale dal contratto sociale. Ed ancora, al
riguardo, cfr. VISENTINI, Imprenditore - Società di persone, in Diritto commerciale, II, Padova,
2011, 191, ove l’Autore precisa che «quando si dice incaricati con il contratto sociale si intende
dire che la carica di amministratore è richiesta ed accettata come condizione dell’accordo
societario, sì da essere radicata nel contratto di società, come clausola dello stesso. Invece
l’incarico con atto separato è da intendere che la nomina dell’amministratore rientri nelle
vicende esecutive del contratto di società, quando i soci preferiscono affidare la gestione ad
uno di loro, senza alcun impegno contrattuale con la persona».
61
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104
STUDI E OPINIONI
AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE
Stante il silenzio del legislatore, ci si è interrogati se, in quest’ultima ipotesi, la
nomina debba essere approvata all’unanimità o sia sufficiente il placet della
maggioranza dei soci, propendendo per la prima soluzione64. Tale conclusione risulta
preferibile in cons iderazione del fatto che la decisione totalitaria prevale nelle società
personali in assenza di precise deroghe.
6.2. M aggiormente dibattuta, in dottrina, la natura del rapporto di
65
amministrazione – «rapporto autonomo e distinto dal rapporto sociale» – il quale, tra
le varie posizioni sostenute al riguardo 66, è stato assimilato ad a) il mandato, tout court;
b) il mandato, nei limiti della compatibilità con il rapporto di gestione; c) un rapporto
speciale sui generis, definibile come rapporto di amministrazione; d) una peculiare
riserva di dirigere l’impresa sociale, propria di alcuni soci; e) un organo sociale.
Per quanto concerne l’opinione indicata sub a), questa è, invero, maggioritaria in
dottrina ed ha incontrato il favor della giurisprudenza di legittimità, poiché trae il
proprio fondamento dalle previsioni di cui all’art. 2260, 1° co., c.c., che, nel disciplinare
diritti e obblighi degli amministratori, precisa che essi «sono regolati dalle norme sul
mandato». Tale impostazione corrobora la distinzione sussistente tra la posizione di
socio e quella di amministratore, cui consegue che «l’inadempimento agli obblighi che
si impongono al socio come amministratore, potrà portare alla revoca del socio da tale
ufficio, ma non anche alla sua esclusione dalla società e, d’altra parte, l’esclusione
dalla società, di per sé non dovrebbe legittimare la revoca dall’amministrazione» 67.
Analogamente si è espressa la Suprema Corte68 che, in proposito, ha affermato che
«l’attribuzione della qualità di amministratore ad uno dei soci non comporta una
rinuncia al potere originario di direzione da parte del socio non amministratore, ma
64
Cfr. FERRARA JR, CORSI, cit., 279; GHIDINI, cit., 379. In giurisprudenza, Trib Napoli,
7.10.1986, cit. In senso contrario, GRAZIANI, cit., 123; A. VENDITTI, cit., 84 e ss. Per questi
ultimi Autori, l’unanimità non costituisce il principio decisionale generale nelle società di
persone.
65
Cfr. CAMPOBASSO , cit., 96.
66
Per la disamina delle diverse posizioni espresse anteriormente alla riforma del diritto
societario, cfr. COSTI, DI CHIO , cit., 375 e ss. Recentemente, cfr. CONFORTI, Le società di
persone. Amministrazione e controlli, Milano, 2009, 47 e ss.
67
Cfr. COSTI, DI CHIO , cit., 376. La tesi del rapporto di amministrazione come mandato è stata
sostenuta, tra gli altri, da SERRA , Unanimità e maggioranza nelle società di persone, Milano,
1980, 235; DI SABATO , cit., 122.
68
Cass., 28.5.1985, n. 3236, in Foro it., 1986, I, 158. Conformi Id., 13.11.1984, n. 5747, in
Giur. it., 1986, I, 1, 482; Id., 5.5.1980, n. 2935, ivi, 1980, I, 1, 1558. Ed ancora Id., 23.2.1990, n.
1349, in Soc., 1990, 891, con nota di BUGANI, ove si è ribadito che «il socio amministratore – e
tale è nella società semplice, salva diversa pattuizione, ciascuno dei soci – ha, rispetto agli altri
soci (artt. 1706, 2257 e 2260 c.c.) la veste di mandatario ex lege».
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
105
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AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE
trova sempre la sua fonte nel mandato, che nel caso di amministrazione disgiunta sarà
reciproco ed invece esclusivo nel caso di conferimento ad uno solo del compito di
amministrazione. Non fa eccezione la nomina dell’amministratore contenuta nel patto
sociale, trovando anche in tal caso applicazione l’art. 2260 c.c., il quale attribuisce in
ogni ipotesi piena autonomia al rapporto di amministrazione rispetto al rapporto
sociale».
In relazione alla tesi sostenuta sub b), l’identificazione tra rapporto di
amministrazione e mandato non può dirsi perfetta poiché, come osservato da autorevole
69
dottrina , il legislatore ha previsto norme di carattere speciale che, ove presenti,
impediscono il ricorso alle disposizioni generali sul mandato. Conseguentemente, è
stato notato come siano applicabili – a ben vedere – unicamente gli artt. 1710 c.c. in
tema di diligenza nell’adempimento del proprio incarico; 1711, 1° co, c.c., coordinando
la norma con i limiti statuiti all’art. 2266 c.c.; 1714 c.c., concernente l’obbligo di
corresponsione degli interessi sulle somme riscosse dal mandatario; 1722 c.c., in
relazione ad alcune delle ipotesi di estinzione del mandato, da integrarsi con le
previsioni speciali individuate per le società personali; 1727 c.c., riguardo alla rinuncia
ex abrupto senza giusta causa oppure senza adeguato preavviso ed alla correlata,
eventuale, responsabilità; 1730 c.c., sull’estinzione del rapporto per le società che
adottano il regime congiuntivo.
Tale interpretazione, inoltre, è stata cristallizzata in una pronuncia del Tribunale
di Cassino 70, che ha precisato che, stante il rinvio effettuato dall’art. 2260 c.c., «nelle
69
Cfr. COTTINO , cit., 84 e ss. L’Autore afferma che «presumibilmente si è parlato di mandato
perché era questo l’istituto che meglio si adattava ad inquadrare nelle linee portanti il rapporto
di amministrazione: un rapporto che pure non si risolve nell’espletamento di atti giuridici
nell’interesse del mandante». Conforme CAMP OBASSO, ibidem, il quale rileva che «non bisogna
però cadere nel facile equivoco di ritenere che il rapporto di amministrazione sia un rapporto
di mandato e che perciò agli amministratori di società per azioni sia senz’altro e direttamente
applicabile tutta la disciplina del mandato. Gli è, infatti, che i poteri e i doveri degli
amministratori sono, sotto più profili, diversi e più ampi di quelli di un mandatario generale o
dell’institore, pur non potendo essere identificati con quelli dell’imprenditore». Analoga
opinione in CAGNASSO , QUARANTA , cit., 41, ove gli Autori osservano che «il rapporto di
amministrazione non sembra riconducibile ad alcun rapporto tipico, ed in particolare a quello
di mandato. Ed invero lo stesso Legislatore si limita a richiamare alcune norme in tema di
mandato. Ciò posto, ulteriori regole relative al mandato potrebbero trovare applicazione in via
analogica. […] Qualora si ritenga che la disciplina del mandato – o alcuni segmenti della
stessa – siano espressione di regole e principi di portata più ampia, applicabili in tutte le
ipotesi di contratti aventi per oggetto la gestione per conto altrui, sarà possibile applicare tali
regole e tali principi, anche in via diretta, in un ambito più vasto di quello segnato dai confini
del contratto di mandato».
70
T rib. Cassino, 13.8.1997, in Soc., 1998, 411, con nota di FABRIZIO .
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
106
STUDI E OPINIONI
AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE
società di persone trovano applicazione le norme sul mandato compatibilmente con la
disciplina dell’ente societario».
I sostenitori71 della posizione dianzi indicata sub c) riconoscono una «qualifica
giuridica omogenea» per gli amministratori, a prescindere dal fatto che essi operino in
una società personale o di capitali, ancorché le rilevanti differenze che sussistono tra i
tipi sociali impediscano il «costruirsi di una disciplina unitaria del rapporto di
amministrazione», fortemente condizionato dalle norme sul mandato nelle società di
persone.
Per quanto attiene alla prospettiva sub d), questa prende le mosse
dall’inscindibilità logico-giuridica, nelle società di persone, della qualità di socio e di
amministratore, sigillata dalla responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali che –
come osserva la dottrina fautrice di tale teoria – non può esser accollata ad un extraneus.
Ed infatti, i soci che attribuiscano competenze gestorie a terzi non si spogliano della
veste di amministratori in senso tecnico, dovendosi qualificare i soggetti delegati come
72
meri institori .
Infine, l’opinione 73 elencata sub e), per la quale l’amministratore della società
semplice si configurerebbe come un organo sociale, affonda le proprie radici nel
riconoscimento della personalità giuridica anche per codesto tipo societario.
A prescindere dalle varie teorizzazioni che si sono altalenate nel corso del
tempo, in conclusione, il rapporto di amministrazione è – e deve essere – tenuto distinto
rispetto al rapporto sociale, come del resto sostenuto dalla Corte di Cassazione74, che,
con riferimento ad un’ipotesi di revoca, ha statuito che «una volta revocato
giudizialmente dalla carica di amministratore ai sensi dell’art. 2259 c.c., per
71
Cfr. GHIDINI, cit., 417. Conforme, in tal senso, MINERVINI, Gli amministratori di società per
azioni, Milano, 1956, 56 e ss.; REGOLI, cit., 54.
72
Cfr. GALGANO , Degli amministratori, cit., 30 e ss.; ID ., Il principio di maggioranza, cit., 63 e
ss. L’Autore rovescia la prospettiva per la quale alcuni soci sono nominati amministratori,
rilevando come, a ben vedere, siano gli altri soci che rinunciano al proprio potere di direzione
dell’impresa.
73
Cfr. BOLAFFI, cit., 406, per il quale «la società semplice come ogni altra persona giuridica
possiede propri organi amministrativi, allo stesso modo che essa acquista diritti ed obbligazioni
e sta in giudizio per mezzo di propri organi».
74
Cass., 9.7.1994, n. 6524, in Giur. comm., 1995, II, 821, con nota di P AP ETTI. In dottrina, tra
gli altri, CAMPOBASSO , ibidem; CAGNASSO, cit., 143, per il quale «tale conclusione trova
fondamento nel diverso contenuto dei due rapporti, dovendosi distinguere i diritti, i poteri, gli
obblighi facenti capo al socio dai diritti, dai poteri e dagli obblighi facenti capo
all’amministratore. Tale conclusione trova altresì fondamento nella diversità delle vicende
riguardanti i due rapporti, per cui può, ad esempio, cessare il rapporto di amministrazione, ma
non quello sociale. Tale conclusione trova ancora fondamento nella circostanza che possono
esservi soci non amministratori».
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
107
STUDI E OPINIONI
AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE
inadempienza agli obblighi a lui imposti, l’amministratore deve necessariamente essere
privato della facoltà di amministrare ai sensi dell’art. 2259, 3° co., c.c., dovendosi
considerare autonoma la condizione di amministratore da quella di socio».
7. I diritti e doveri posti in capo agli amministratori
L’art. 2260 c.c. stabilisce testualmente al 1° co. che «i diritti e gli obblighi degli
amministratori sono regolati dalle norme sul mandato» e, nondimeno, siffatta
previsione deve essere opportunamente letta alla luce delle osservazioni dianzi svolte
con riferimento alla natura del rapporto di amministrazione.
7.1. Tra i “diritti” dei gestori di una società semplice e, per estensione, di una
società personale, vi è, in primo luogo, il diritto-potere di amministrare, ovverosia di
«compiere tutti gli atti che rientrano nell’oggetto sociale; che si pongono cioè in
75
rapporto di mezzo a fine rispetto all’attività di impresa dedotta in contratto» .
Specularmente, sono esclusi dalla disponibilità degli amministratori quegli atti
che comportano una modifica del contratto sociale, trattandosi di decisioni ex lege
vincolate al consenso unanime di tutta la compagine sociale, ancorché sia consentita
diversa pattuizione al riguardo (art. 2252 c.c.).
Nello stesso solco devono collocarsi alcune pronunce giurisprudenziali che
hanno definito l’impossibilità, per gli amministratori, di compiere atti che – di fatto –
determinano una sostanziale modifica strutturale dell’impresa, tra i quali una risalente
sentenza del Tribunale di Caltanisetta76 ha annoverato l’affitto d’azienda.
75
Cfr. CAMP OBASSO , cit., 90. L’Autore rileva come per l’amministratore della società semplice
non sussistano i limiti di cui all’art. 1708, 2° co., c.c., laddove si sancisce che «il mandato
generale non comprende gli atti che eccedono l’ordinaria amministrazione, se non sono indicati
espressamente»; nonché le restrizioni poste in capo all’institore ex art. 2204 c.c., ove si precisa
che questi «non può alienare o ipotecare i beni immobili del preponente, se non è stato a ciò
espressamente autorizzato». In giurisprudenza, Cass., 21.5.1983, n. 3524, in Giust. civ. mass.,
1983, fasc. 5, ove, benché con riferimento ad una società di capitali, la Suprema Corte ha
affermato che «poiché gli utili, prima della distribuzione, appartengono alla società e non ai
soci, deve escludersi che un contratto che comporti disposizione degli utili medesimi, prima di
detta distribuzione, integri di per sé un atto esorbitante dai poteri degli amministratori,
occorrendo a tal fine accertare, secondo i principi generali in tema di attribuzioni degli
amministratori, se si verta o meno in tema di negozi strumentali rispetto all’oggetto sociale e
rientranti nei compiti conferiti dallo statuto agli amministratori stessi».
76
T rib. Caltanisetta, 12.7.1947, in Foro it., 1948, I, 351, in cui si è stabilito, ancorché con
riferimento ad una società in nome collettivo, che qualora questa sia stata costituita per
l’esercizio di un’azienda «il socio amministratore […] non può cedere in affitto l’azienda
stessa».
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
108
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AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE
Sul punto, la Suprema Corte77 ha precisato come «in tema di società, competa
agli amministratori anche il potere di alienare beni sociali se questa attività rientra
nell’oggetto sociale. In altre parole, se trattasi di società aventi per scopo la
compravendita di beni immobili l’amministratore, anche senza il conferimento dello
specifico incarico, ha il potere di acquistare e vendere beni della società (oggetto
sociale che, per incidenza, appare incompatibile con la società semplice); se invece si
tratta di alienare beni che costituiscono il patrimonio della società, cioè beni il cui
commercio non rientra nell’oggetto sociale, non può sostenersi che un mandato
generale a compiere, indifferentemente, tutti gli atti di ordinaria e straordinaria
amministrazione legittimi l’amministratore anche a cedere beni sociali. Consegue che,
a questo effetto, deve ritenersi necessaria, nel mandato generale, l’espressa indicazione
degli atti, eccedenti l’ordinaria amministrazione, che il mandatario può compiere,
"espressa indicazione" a sua volta da intendersi con riferimento al tipo di negozio che il
mandatario può compiere, senza necessità di ulteriori specificazioni».
In secondo luogo, stante il menzionato rinvio operato dall’art. 2260 c.c. alle
78
disposizioni sul mandato, si ritiene che gli amministratori possano rinunciare
all’incarico, così come previsto dall’art. 1727 c.c., e, parimenti, debbano essere ristorati
delle eventuali anticipazioni compiute o danni subiti a causa dello stesso, ai sensi
dell’art. 1720 c.c.
7.2. Strettamente correlato a quest’ultimo profilo è il tema, alquanto dibattuto,
della sussistenza di un diritto al compenso in capo all’amministratore, in assenza di
un’esplicita previsione in tal senso nel contratto sociale ovvero in pattuizioni successive.
79
Sul punto, in passato la giurisprudenza si è espressa difformemente
distinguendo la nomina dell’amministratore che tragga origine dal contratto sociale, ed
allora questi non avrebbe alcun diritto ad una remunerazione per la propria attività
77
Cass., 14.12.1989, n. 5621, in Dir. e giur. agr. amb., 1990, 417. Conforme, Id. 13.2.1998, n.
1550, in Giur. comm., 1998, 779; in Riv. notariato, 1999, 494; nonché, in relazione ad una
società in accomandita semplice, Id., 9.11.1994, n. 9296, in Riv. dir. comm., 1995, II, 129; in
Soc., 1995, 368, con nota di BATTI.
78
Cfr. G. FERRI, Le società, in Tratt. Vassalli, vol. X, tomo III, 3 a ed., T orino, 1987, 240.
79
Cass., 7.6.1947, n. 873, in Giur. it., 1948, I, 1, 115; Id., 21.3.1955, n. 828, in Dir. fall., 1955,
II, 422. Consta una pronuncia della Suprema Corte che disconosce il diritto al compenso in
entrambe le ipotesi di nomina dell’amministratore, motivando che «le quote conferite
determinano gli utili ed ogni socio ha il diritto e l’obbligo di prestare la sua attività in
corrispondenza dello scopo sociale […] sotto forma di stipendio, provvigione sugli incassi o
partecipazione maggiore agli utili, spesso la rimunerazione è prevista nell’atto costitutivo o è
concessa con atto posteriore quando l’attività di altri soci in altro campo o sia maggiore o
diversa da quella ordinaria». Si veda Id., 15.4.1947, n. 561, in Riv. dir. comm., 1948, II, 297.
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
109
STUDI E OPINIONI
AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE
gestoria, da quella che scaturisca da accordi posteriori, ammettendo, in tal caso, la
debenza di una retribuzione.
La ratio di una siffatta posizione risiede 80 nel fatto che «nelle società in nome
collettivo anche se irregolari, il socio amministratore che derivi il proprio potere di
amministrare dal contratto sociale, non ha diritto a compenso per l’opera che presta la
società, quando né il contratto né ulteriori accordi prevedano tale remunerazione»,
sebbene «qualora il potere di amministrazione derivi da un mandato, successivamente
conferito dagli altri soci, tale mandato si presume oneroso, salva, sempre la prova della
contraria volontà delle parti», laddove, viceversa, «quando il socio deriva il suo potere
di amministrare direttamente dal contratto sociale, si è in presenza di un mandato che
trova la sua origine direttamente nel patto sociale e nell’assetto attraverso di esso dato
dai soci all’ente costituito, cosicché il socio che accetta di amministrare, già conosce
che troverà il proprio compenso nella quota di utili che a lui potrà derivare in sede di
ripartizione, per effetto del contratto sociale medesimo». Ed ancora, chiosa la Corte,
«riconoscendogli il diritto a compenso si finirebbe, in definitiva, per compensarlo due
volte».
81
Più recentemente, la Corte di Appello di M ilano ha ribadito che «nelle società
di persone, in presenza di un potere gestorio originario e derivante direttamente dal
contratto sociale, senza il conferimento di uno specifico mandato da questo separato,
non è ravvisabile in capo al socio amministratore un diritto al compenso per l’attività
di gestione prestata dal medesimo».
Nondimeno, l’orientamento giurisprudenziale attualmente prevalente riconosce
la sussistenza di un diritto al compenso sulla scorta del disposto di cui all’art. 1709 c.c.,
il quale sancisce una presunzione di onerosità per il contratto di mandato, così come
82
emerge da una pronuncia del Supremo Collegio , in cui si legge che, «poiché l’art.
2260 c.c. determina l’equiparazione degli amministratori ai mandatari, anche per
quanto attiene alla presunzione di onerosità di cui all’art. 1709 c.c., senza possibilità di
distinguere l’ipotesi della nomina contenuta nell’atto costitutivo dall’ipotesi di nomina
fatta successivamente, l’amministratore di società in nome collettivo – sia essa
regolarmente costituita oppure irregolare o di fatto – ha diritto al compenso in
entrambe le ipotesi anzidette, salvo che vi sia una pattuizione di gratuità idonea a
superare l’indicata presunzione di onerosità ovvero risulti che del diritto al compenso
per la prestazione dell’attività amministrativa si sia tenuto conto con l’attribuzione di
una speciale partecipazione agli utili».
La questione è stata variamente risolta in dottrina.
80
81
82
Cass., 21.3.1955, n. 828, cit.
App. Milano, 17.1.2003, in Giur. comm., 2004, II, 668, con nota di T INO.
Cass., 28.5.1985, n. 3236, cit. Conforme Id., 13.11.1984, n. 5747, cit.
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
110
STUDI E OPINIONI
AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE
Vi sono Autori83 che negano recisamente la sussistenza di un diritto al
compenso, qualora questo non sia espressamente convenuto tra i soci, laddove altri
interpreti84, accogliendo il più risalente orientamento giurisprudenziale, ritengono che
esso si configuri unicamente qualora la nomina ad amministratore avvenga con atto
separato.
85
Altra dottrina ancora , prescindendo dalla fonte dell’investitura e prendendo le
mosse dalla presunzione di onerosità di cui all’art. 1709 c.c., individua alcune ipotesi
nelle quali quest’ultima è «destinata a cadere», vale a dire «quando l’esercizio
dell’amministrazione sia oggetto di conferimento da parte del socio d’opera, ovvero
quando tutti i soci siano amministratori, o infine quando risulti che della specifica
attività amministrativa di alcuni soci si è già tenuto conto nell’atto costitutivo, con il
riconoscimento di una più elevata partecipazione agli utili».
In relazione al diritto al compenso, infine, la Corte di Cassazione 86 ha stabilito,
ancorché in una sentenza avente ad oggetto una società di capitali, che si «riconosce
alla pretesa degli amministratori al compenso la natura di diritto soggettivo perfetto»,
da cui consegue la titolarità in capo all’amministratore di «una specifica azione
giudiziaria al fine di ottenere l’adeguamento del compenso previsto dagli art. 2364 e
2389 c.c., ove ritenga insufficiente il compenso stesso avuto riguardo alla crescente
entità ed importanza dell’opera prestata».
7.3. Per quanto concerne gli obblighi posti in capo agli amministratori di una
società di persone, autorevole dottrina ha osservato, in primo luogo, come essi
87
debbano «compiere tutta l’attività necessaria per il conseguimento dell’oggetto
sociale, nel rispetto della legge e del contratto e con la diligenza del mandatario»,
ovverosia del buon padre di famiglia stando al dettato dell’art. 1710 c.c., in ciò
profilandosi «una significativa differenza rispetto a quanto disposto per gli
amministratori di società per azioni dall’art. 2392, 1° co., c.c., che introduce canoni di
valutazione ben più rigorosi e specifici».
83
Cfr. GALGANO , Diritto commerciale. Le società, Bologna, 2009, 65.
Cfr. DI SABATO , cit., 124, per il quale, poiché, in ipotesi di nomina nel contratto sociale, «al
socio amministratore non spetta alcun compenso: l’attività di amministrazione trova la sua
giustificazione patrimoniale nelle pattuizioni stesse del contratto che definiscono anche l’entità
dei conferimenti, la misura della partecipazione agli utili e alle perdite. Viceversa, nel caso di
nomina con atto separato: l’ufficio si presume oneroso e il compenso deve essere determinato a
norma dell’art. 1709 in base alle tariffe professionali o agli usi e, in mancanza, dal giudice».
Conforme, GHIDINI, cit., 389.
85
Cfr. CAMPOBASSO , cit., 98. Del medesimo avviso CAGNASSO , cit., 145.
86
Cass., 24.2.1997, n. 1657, in Fallimento, 1997, 1008.
87
Cfr. DI SABATO , cit., 125.
84
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
111
STUDI E OPINIONI
AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE
In secondo luogo, addentrandosi nella concretizzazione di tale principio
generale, possono individuarsi alcuni obblighi specifici, tanto positivi quanto negativi,
gravanti sui gestori di società personali.
In prima battuta si può affermare come gli amministratori debbano consentire ai
soci non investiti della gestione di dispiegare i poteri a loro riservati dall’art. 2261 c.c.,
ossia il diritto di essere informati sullo svolgimento degli affari sociali e di consultare i
documenti concernenti l’amministrazione, nonché il diritto al rendiconto al compimento
degli affari per cui è stata costituita la società, ovvero con cadenza annuale qualora la
durata complessiva dell’attività sia pluriennale.
In relazione all’onere per gli amministratori di comunicare ai soci il rendiconto,
è stato osservato in giurisprudenza come a questa circostanza debba correlarsi la
necessità – per i soci – di rivolgersi direttamente ai gestori per ottenerne l’adempimento
88
e non tanto alla società . Disattendere ad un siffatto obbligo costituisce per gli
amministratori giusta causa di revoca, come rilevato dal Tribunale di M ilano 89 che ha
deciso che «la predisposizione del bilancio di esercizio e la presentazione di esso ai
soci, che ne hanno diritto per legge o per statuto, costituisce uno dei più significativi
obblighi dell’amministratore, la cui inosservanza legittima la richiesta di revoca per
giusta causa dall’ufficio amministrativo».
Gli amministratori devono provvedere alla custodia dei beni di proprietà della
società, nonché tutelare i diritti di quest’ultima 90. Nel rispetto delle disposizioni di cui
all’art. 1706, 2° co, c.c., concernenti il mandato, essi sono tenuti a rimettere alla società
i beni immobili acquisiti in nome proprio per conto della società, cosi come del resto ha
ribadito la Cassazione affermando che «in tema di società semplice, qualora uno dei
soci acquisti in nome proprio un immobile, solo se l’acquisto sia stato fatto per conto
della società, egli è obbligato a ritrasferire l’immobile agli altri soci, ancorché un
91
mandato ad acquistare non risulti da atto scritto» .
Inoltre, essi non devono ripartire somme tra i soci se non riferite a utili
effettivamente conseguiti ovvero restituire conferimenti; del pari, non possono porre in
essere nuove operazioni al palesarsi di una causa di scioglimento e devono consegnare
ai liquidatori i beni sociali unitamente al conto della gestione 92.
Controverso93 se gli amministratori debbano astenersi dall’effettuare operazioni
in concorrenza con la società, laddove è pacifico che essi non debbano agire in conflitto
88
App. Torino, 26.1.1983, in Giur. piemontese, 1984, 696.
T rib. Milano, 16.4.1986, in Soc., 1984, 1150.
90
G. FERRI, Delle società, in Comm. Scialoja-Branca, cit., 175.
91
Cass., 23.2.1990, n. 1349, cit. Conforme Id., 30.3.1985, n. 2235, in Foro it., 1986, I, 167.
92
Cfr. DI SABATO , ibidem.
93
T ale tesi è sostenuta da DI SABATO , ibidem. Contra CAGNASSO , ibidem, il quale osserva che
«per gli amministratori di società semplice non vale il divieto di concorrenza previsto, dall’art.
2301 c.c., per gli amministratori di società in nome collettivo e per gli accomandatari».
89
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STUDI E OPINIONI
AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE
di interessi94, ancorché consti una pronuncia del Tribunale di Genova con cui si precisa
come tale situazione non si configuri nel caso in cui tutti i soci partecipino alla
realizzazione di un’operazione nella quale ciascheduno detiene un interesse personale 95.
Viceversa, la Corte di Appello di Roma 96 ha stabilito che «il contratto di fidejussione
omnibus stipulato dall’amministratore e rappresentante di una s.n.c. con una banca a
garanzia delle obbligazioni di una s.r.l., nella quale egli rivesta la carica di
amministratore ed abbia rilevanti interessi di natura personale, è stipulato in una
situazione di conflitto di interessi con la società».
8. Responsabilità degli amministratori
8.1. L’art. 2260, 2° co., c.c., individua i principi generali che regolano il regime
di responsabilità che grava sui gestori dell’impresa sociale, stabilendo che costoro «sono
solidalmente responsabili verso la società per l’adempimento degli obblighi ad essi
imposti dalla legge o dal contratto sociale», salvo dimostrare di essere esenti da colpa.
Dalla mera lettura del disposto normativo, si constata agevolmente come il
legislatore non abbia inteso differenziare la tipologia di responsabilità in relazione al
regime amministrativo prescelto in concreto dalla società, tanto che si tratti di regime
disgiuntivo o congiuntivo ovvero misto. Tale scelta, invero, si pone in deroga rispetto
alle corrispondenti disposizioni che regolano la disciplina del mandato, ove – all’art.
1716, 3° co., c.c. – si precisa che la responsabilità solidale nei confronti del mandante si
configura unicamente qualora più mandatari abbiano operato congiuntamente.
Al contrario, nella società semplice gli amministratori rispondono in ogni caso,
circostanza questa conseguente al fatto che ogni amministratore, prescindendo dal
sistema gestionale adottato, «ha comunque un obbligo di vigilanza e di controllo
97
sull’operato altrui» .
Se tanto vale in via generale, con particolare riferimento al modello di
amministrazione congiuntiva, la Suprema Corte 98 ha espressamente negato valenza
esimente all’eventuale ripartizione interna dei compiti gestionali tra gli amministratori,
affermando che «sulla base del disposto dell’art. 2260 c.c., la responsabilità dei soci
nei confronti della società per gli atti di gestione (da esercitarsi congiuntamente ad
opera dei due soci) è paritaria e la ripartizione dei compiti nell’ambito della detta
attività ha una esclusiva rilevanza tecnico logistica, e non solleva quindi i soci dal loro
94
Cfr. GHIDINI, cit., 409 e ss.
T rib. Genova, 10.12.1986, in Soc., 1987, 597.
96
App. Roma, 22.2.1996, in Banca borsa, 1996, II, 530; in Giur. it., 1996, I, 2, 643.
97
Cfr. COTTINO , cit., 85. Conformi CAGNASSO, cit., 156; GALGANO, Diritto commerciale, cit.,
74.
98
Cass., 5.5.2010, n. 10910, in Soc., 2010, 907.
95
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STUDI E OPINIONI
AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE
potere-dovere di esercitare congiuntamente la signoria decisionale e la relativa
responsabilità ad ogni effetto, interno ed esterno».
I presupposti necessari affinché possa instaurarsi un’azione di responsabilità nei
confronti di un amministratore consistono a) nell’inadempimento degli obblighi sanciti
ex lege o dal contratto sociale e b) nell’insorgenza di un danno per la società,
99
causalmente scaturente da tale comportamento inadempiente .
In proposito, pare di interesse quanto rilevato dalla Corte di Cassazione 100 in una
recente pronuncia relativa ad una società per azioni, laddove si è affermato che
«sull’attore incombe la prova dell’illiceità dei comportamenti degli amministratori
medesimi. Allorquando tali comportamenti non siano in sé vietati dalla legge o dallo
statuto e l’obbligo di astenersi dal porli in essere discenda dal dovere di lealtà,
coincidente col precetto di non agire in conflitto di interessi con la società
amministrata, o dal dovere di diligenza, consistente nell’adottare tutte le misure
necessarie alla cura degli interessi sociali a lui affidati, l’illecito è integrato dal
compimento dell’atto in violazione di uno dei menzionati doveri. In tal caso l’onere
della prova dell’attore non si esaurisce nella prova dell’atto compiuto
dall’amministratore ma investe anche quegli elementi di contesto dai quali è possibile
dedurre che lo stesso implica violazione del dovere di lealtà o di diligenza».
8.2. Tuttavia, il disposto normativo prevede l’esenzione da responsabilità
allorquando l’amministratore provi di esser senza colpa, dimostrazione questa che in
dottrina è stata differentemente connotata in ragione del regime di amministrazione
adottato dalla società.
101
In relazione alla gestione dis giuntiva, invero, è stato osservato che la prova
liberatoria può esser fornita dalla mancata conoscenza dell’operazione effettuata da un
altro amministratore – fermo restando l’aver ottemperato al cennato dovere di vigilanza
– oppure dall’aver proposto opposizione ex art. 2257 c.c., rigettata dalla maggioranza
della compagine sociale.
Con riferimento all’amministrazione congiuntiva, sono state individuate 102 quali
possibili cause di esonero l’aver compiuto uno degli amministratori un atto urgente
senza darne informazione agli altri, i quali, pertanto, andrebbero esenti da
99
Cfr. GALGANO , ibidem.
Cass., 17.1.2007, n. 1045, in Mass. Giur. it., 2007.
101
Cfr. G. FERRI, Le società, in Tratt. Vassalli, cit., 243; CAGNASSO , ibidem. T ra le possibili
situazioni idonee ad esonerare gli amministratori da responsabilità, parte della dottrina annovera
l’ipotesi in cui l’operazione rivelatasi dannosa rientri nell’esclusiva competenza di un altro
amministratore. In tal senso BUONOCORE , La società in nome collettivo. Artt. 2291-2312, in
Comm. Schlesinger, Milano, 1995, 128.
102
Cfr. BUONOCORE , cit., 127.
100
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
114
STUDI E OPINIONI
AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE
responsabilità, o, in alternativa, la prova di aver manifestato il proprio dissenso al
compimento dell’atto gestorio dannoso.
Far constare il proprio dissenso – esprimendo voto contrario alla realizzazione
dell’operazione – si ritiene costituisca prova liberatoria anche qualora il regime di
amministrazione prescelto sia a maggioranza, non essendo per converso sufficiente la
103
semplice astensione .
8.3. L’azione di responsabilità è volta a reintegrare il patrimonio della società
depauperato dalla condotta illecita104. Con riferimento al termine di prescrizione di
siffatta azione, la Suprema Corte105 ha recentemente rilevato che «non può applicarsi
alle società semplici la prescrizione breve in materia di società stabilita dall’art. 2949
c.c. che è applicabile esclusivamente alle società commerciali e, cioè, alle società per le
quali è prevista l'iscrizione nella sezione ordinaria del Registro delle imprese, restando
escluso che l’introduzione di sezioni speciali del Registro stesso per gli imprenditori
agricoli, i piccoli imprenditori e le società semplici abbia reso applicabile anche a
queste ultime l’art. 2949 c.c. citato».
Profilo dibattuto, invero, concerne la legittimazione ad esercitare la suddetta
azione risarcitoria, dovendosi distinguere diverse posizioni a seconda che si consideri
legittimata a) unicamente la società tramite il proprio legale rappresentante, b) la società
e, nell’interesse sociale, i singoli soci, c) la maggioranza dei soci-non amministratori.
La prima soluzione è stata, tra l’altro, affermata dalla Suprema Corte106, che ha
precisato come nelle società personali «i singoli soci […] che abbiano dovuto pagare
una somma per la responsabilità della società dovuta a fatto imputabile ad un altro
socio amministratore, non possono rivalersi su questo poiché privi di legittimazione a
far valere nei confronti dell’amministratore l’azione di responsabilità, spettando questa
unicamente alla società: in una società di persone infatti l’amministratore risponde
solo verso la società e non già verso i singoli soci che siano stati danneggiati da atti
dolosi dell’amministratore stesso». Conseguentemente, tale azione può esser promossa
103
Cfr. GHIDINI, cit., 427 e ss.
In tal senso CAMP OBASSO , cit., 97.
105
Cass., 16.2.2012, n. 2286, in Soc., 2012, 458. Conforme Id., 31.8.2005, n. 17587, in banca
dati Pluris.
106
Cass., 9.6.1981, n. 3719, in Giur. comm., 1982, II, 15. Conformi Trib. Napoli, 19.11.1984, in
Dir. e giur., 1996, 430, con nota di P APA ; Id. Milano, 16.4.1992, in Giur. it., 1993, I, 2, 98; Id.,
2.2.2006, in Soc., 2006, 1002, con nota di SALAFIA ; Id. Novara, 21.4.2010, in NovaraIUS.it,
2010.
104
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
115
STUDI E OPINIONI
AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE
soltanto dalla società e, più precisamente, da colui il quale ne rivesta il ruolo di
rappresentante legale, qualifica che spetta ai soli amministratori107.
Accedere ad una tale interpretazione, nondimeno, crea una situazione di
indiscutibile empasse allorquando tutti i soci-amministratori siano responsabili dell’atto
gestorio dannoso, venendosi a configurare un “vuoto” di soggetti legittimati ad agire per
via giudiziaria in nome della società.
Ed è un siffatto scenario ad orientare verso la legittimazione di ogni socio a
promuovere l’azione sociale di responsabilità. In questa direzione constano alcune
108
recenti decisioni di merito , ove si è statuito che «dal momento che i diritti e gli
obblighi degli amministratori nelle società di persone sono regolati dalle norme sul
mandato, in virtù del richiamo operato dall’art. 2260, 1° co., c.c., sussiste la
legittimazione di ciascun socio a proporre, in nome e per conto della società, l’azione
di responsabilità nei confronti dell’ex amministratore, a nulla rilevando la mancanza di
una apposita delibera assembleare in merito all’azione sociale».
In dottrina109, si è osservato come tale soluzione possa beneficiare – a seguito
della riforma del diritto societario del 2003 – della «espressa previsione della
legittimazione del singolo socio di s.r.l.» all’esercizio dell’azione sociale di
responsabilità.
Infine, pare dotata di minor consenso la tesi sostenuta in una risalente sentenza
del Tribunale di M ilano 110, laddove la legittimazione ad agire si ritiene rimessa alla
decisione a maggioranza dei soci-non amministratori. La suddetta pronuncia pare
107
Cfr. COTTINO , W EIGMANN , cit., 150; BUONOCORE, cit., 129; CAMPOBASSO , cit., 97, il quale
precisa che l’azione sociale di responsabilità può esser esercitata «dagli altri soci
amministratori disgiuntamente o congiuntamente, non invece dai soci non amministratori».
108
T rib. Milano, 9.6.2005, in Corr. merito, 2005, 883; Id., 11.9.2003, in Impresa, 2004, 1045,
con nota di BOLOGNESI; Id. Alba, 10.2.1995, in Soc., 1995, 828, con nota di T ERENGHI. Di
interesse quanto stabilito da Id. Napoli, 17.4.1998, ivi., 1998, 1324, con nota di DI CHIO, dove si
legge che «ciascun socio di società di persone, anche quando non rivesta la qualifica di legale
rappresentante, non già uti singulus, ma uti socius, è legittimato ad agire in nome proprio e
nell’interesse sostanziale della società al fine di ottenere la reintegrazione del patrimonio
sociale leso dagli atti di mala gestio del socio amministratore». Medesima posizione sostenuta
recentemente da Id., 3.3.2008, ivi, 2009, 889, con nota di MALAVASI.
In dottrina, GALGANO , ibidem; GHIDINI, cit., 430; DI CHIO , L’azione sociale di responsabilità
nelle società personali: legittimazione del singolo socio ad esperirla?, in Giur. comm., 1981, II,
89; SALAFIA , L’azione di responsabilità contro gli amministratori di società personali, in Soc.,
1992, 1483 e ss.
109
Cfr. COTTINO , cit., 85 e s. L’Autore osserva come tale estensione della disciplina prevista per
la società a responsabilità limitata alle società personali possa attuarsi «considerando sia
l’accresciuto parallelismo e interazione strutturale tra i due tipi sociali, sia il rischio in queste
personalmente assunto dal socio».
110
T rib. Milano, 21.4.1977, in Giur. comm., 1978, II, 770.
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
116
STUDI E OPINIONI
AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE
superata alla luce di quanto recentemente stabilito dal Tribunale di Novara 111, per il
quale «ai singoli soci non amministratori di società personali sono riservati altri mezzi
[rispetto all’esercizio dell’azione di responsabilità sociale, n.d.a.], di non meno
penetrante tutela, potendo essi ottenere la revoca della facoltà di amministratore ex art.
2259 c.c., anche in via d’urgenza, o conseguire l’esclusione dalla società del socio
amministratore che si sia macchiato di gravi inadempienze».
In ultimo, per quanto concerne l’azione di responsabilità nei confronti degli
amministratori, in giurisprudenza si è precisato che essa può esser fatta valere anche
verso l’amministratore di fatto, come stabilito, tra l’altro, in una pronuncia della Corte
112
di Appello di Torino , laddove si è affermato che «nella società di persone il socio,
cui sia attribuita, anche soltanto di fatto, la funzione di amministratore, è tenuto a
sopportare personalmente le conseguenze economicamente pregiudizievoli dipendenti
dalla violazione di norme di legge sulle assicurazioni sociali per i dipendenti».
8.4. Se tanto vale con riferimento all’azione sociale nei confronti
dell’amministratore, volta all’accertamento di una responsabilità avente natura
contrattuale, stante il silenzio del legislatore civilistico sul punto, tanto la giurisprudenza
quanto la dottrina si sono interrogate circa la configurabilità – anche nell’alveo delle
società personali – di una responsabilità in capo agli amministratori nei confronti dei
singoli soci per i danni direttamente causati al loro patrimonio individuale.
Al riguardo, la giurisprudenza si è pronunciata in senso affermativo, ed in
particolare la Corte di Cassazione 113 ha ultimamente sostenuto che «l’art. 2260 c.c., nel
concedere alla società di persone la facoltà di agire contro gli amministratori, per
rivalersi del danno subito a causa del loro inadempimento ai doveri fissati dalla legge o
dall’atto costitutivo, non esclude, in difetto di previsione derogativa, il diritto di ciascun
111
T rib. Novara, 21.4.2010, cit.
App. Torino, 7.2.1984, in Soc., 1984, 997. Conforme Trib. Catania, 19.10.1987, ivi, 1988,
171, ove si è deciso che «nelle società in nome collettivo l’ingerenza di un terzo
nell’amministrazione della società comporta la responsabilità di quest’ultimo, nei confronti
della società medesima, per l’adempimento degli obblighi posti a carico degli amministratori».
In dottrina, BUONOCORE , cit., 128.
113
Cass., 25.7.2007, n. 16416, in Soc., 2008, 45. Conformi Id., 17.1.2007, cit.; Id., 7.7.2004, n.
12415, in Guida dir., 2004, 35, 54; Id., 13.12.1995, n. 12772, in Mass. Giur. it., 1995; Id.,
10.3.1992, n. 2872, ivi., 1992, ove, tra l’altro, si è stabilito che, in caso di liquidazione della
società, l’azione sociale di responsabilità spetti al liquidatore. Nella giurisprudenza di merito,
Trib. Campobasso, 18.4.2009, in Soc., 2009, 881, con nota di LA PORTA ; Id. Milano, 11.9.2003,
cit.; Id. Napoli, 17.4.1998, cit., in cui si è, inoltre, precisato che «può essere devoluta al giudizio
arbitrale la controversia tra il socio amministratore ed i soci per i danni direttamente ed
immediatamente cagionati a questi ultimi dall’amministratore»; Id. Alba, 10.2.1995, cit.; Id.
Milano, 16.4.1992, cit. In senso difforme Id., 2.2.2006, cit.
112
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
117
STUDI E OPINIONI
AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE
socio di pretendere il ristoro del pregiudizio direttamente ricevuto in dipendenza del
comportamento doloso o colposo degli amministratori medesimi, in applicazione
analogica dell’art. 2395 c.c. e in base alle disposizioni generali dell’art. 2043 c.c.
Tuttavia, l’azione individualmente concessa ai soci per il risarcimento dei danni loro
cagionati dagli atti dolosi o colposi degli amministratori, di natura extracontrattuale,
presuppone che i danni suddetti non siano solo il riflesso di quelli arrecati
eventualmente al patrimonio sociale, ma siano direttamente cagionati al socio come
conseguenza immediata del comportamento degli amministratori».
In dottrina, del pari, si ritiene ammissibile siffatta azione risarcitoria, in quanto
essa «trova fondamento nei principi generali in tema di responsabilità per fatto
114
illecito» .
9. L’estinzione del rapporto di amministrazione
Il legislatore codicistico ha espressamente previsto un’unica causa di estinzione
del rapporto di amministrazione tra le disposizioni dettate per la società semplice,
ovverosia la revoca, disciplinata all’art. 2259 c.c. Tuttavia, si ritengono del pari
configurabili a) le ulteriori ipotesi di cessazione individuate normativamente per il
mandato all’art. 1722 c.c., in quanto compatibili, vale a dire per scadenza del termine,
per rinuncia, per morte, interdizione o inabilitazione dell’amministratore115, nonché b)
le diverse fattispecie attinenti più strettamente al rapporto sociale, ossia il verificarsi di
una causa di scioglimento della società, a motivo della quale gli amministratori
permangono in carica fintantoché non sia stato nominato un liquidatore, così come
116
affermato, tra l’altro, da una pronuncia del Tribunale di M ilano . In essa si è deciso
che «in presenza di una causa di scioglimento o di messa in liquidazione di una società
(nel caso di specie fallimento) gli amministratori rimangono in carica fino a quando
non si sia operata la loro sostituzione con uno o più liquidatori».
10. Un’ipotesi particolare di estinzione: la revoca
10.1. L’art. 2259 c.c. distingue nettamente due differenti situazioni in ragione
della diversa fonte del rapporto di amministrazione: nomina nel contratto sociale oppure
nomina con atto separato.
114
Cfr. CAGNASSO , cit., 157. Concordi COTTINO , cit., 86; CAMP OBASSO , cit., 98.
Cfr. GHIDINI, cit., 405 e ss; COSTI, DI CHIO , cit., 389. In giurisprudenza, giova rilevare
quanto sancito da Cass., 14.2.2000, n. 1602, in Giur. it., 2000, 1659, per la quale «la
dichiarazione di dimissioni di un amministratore di una società di persone nominato nell’atto
costitutivo, produce comunque i suoi effetti dal momento in cui perviene a conoscenza del
destinatario, quale atto unilaterale recettizio; e, se priva di giusta causa, comporta l’obbligo
del risarcimento del danno».
116
T rib. Milano, 2.3.1981, in Foro padano, I, 162.
115
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
118
STUDI E OPINIONI
AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE
Nel primo caso, l’art. 2259, 1° co., c.c., prevede letteralmente che «la revoca
dell’amministratore nominato con il contratto sociale non ha effetto se non ricorre una
giusta causa».
La ratio sottostante siffatta disposizione, per il vero, è stata variamente
117
individuata , ed in particolare si è argomentato come essa scaturisca dal fatto che le
modifiche del contratto sociale debbono esser approvate dall’intera compagine sociale,
stante il disposto dell’art. 2252 c.c. Tale posizione è stata parzialmente sfumata da altra
dottrina, sostenendo come alla decisione in parola non possano partecipare
l’amministratore revocando ed i soci eventualmente in conflitto di interessi.
Diversamente, vi è chi ha sostenuto118 come essa derivi dalle previsioni di cui all’art.
1723 c.c., in tema di irrevocabilità, da parte del mandante, del mandato in rem
propriam.
In giurisprudenza si ritiene che tale decisione debba esser approvata
all’unanimità, così come da ultimo affermato dalla Suprema Corte 119, per la quale «ai
sensi del combinato disposto degli artt. 2252 e 2259 c.c., la revoca dell’amministratore
di società di persone, la cui nomina sia contenuta nell’atto costitutivo, postula
l’esistenza congiunta dei presupposti dell’unanimità dei consensi e della giusta causa,
mentre questi possono sussistere in via alternativa, ove la nomina sia avvenuta con atto
separato. Peraltro, allorché l’amministratore sia socio, non è richiesto il consenso del
medesimo al fine della sua revoca, avendo portata generale il principio del divieto di
voto in conflitto di interessi con la società, ai sensi dell’art. 2373 c.c., del quale
costituisce applicazione anche l’art. 2287 c.c, che impone di non considerare il socio da
escludere nel computo della maggioranza necessaria per l’esclusione».
Tale conclusione è condivisa dalla dottrina prevalente, ancorché alcuni interpreti
ritengano sufficiente il consenso della maggioranza dei soci, come postulato
120
dell’ammissibilità del principio di collegialità anche per le società personali .
117
Cfr. per la prima tesi BOLAFFI, cit., 346; per la seconda opinione vds. GHIDINI, cit., 393;
COTTINO , cit., 93, ove l’Autore osserva che «non si richiede invece, ovviamente, il consenso
dell’amministratore da revocare; e neppure, direi, quello dei soci che si trovassero sull’oggetto
della delibera in posizione di conflitto di interessi. Il caso è ipotizzabile. Due amministratori
possono essere revocati per le stesse ragioni. È sufficiente che l’uno esprima voto contrario
sulla proposta concernente l’altro, e viceversa, per paralizzare entrambe le possibilità di
revoca».
118
Cfr. FERRARA JR, CORSI, ibidem; GRECO, Le società nel sistema legislativo italiano.
Lineamenti generali, T orino, 1959, 328.
119
Cass., 12.6.2009, n. 13761, in Foro it., 2010, 3, 1, 959. Nella giurisprudenza di merito, Trib.
Milano, 7.1.2010, in Giur. it., 2010, 2366; Id. Catania, 19.4.1984, in Soc., 1985, 413.
120
Per la tesi prevalente cfr. CAGNASSO, cit., 153; GALGANO , Diritto commerciale, cit., 69;
CAMPOBASSO , cit., 95; FERRARA JR, CORSI, ibidem. La tesi minoritaria è sostenuta, tra l’altro,
da BOLAFFI, cit., 348.
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
119
STUDI E OPINIONI
AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE
In riferimento all’efficacia della revoca, consta una risalente pronuncia della
Suprema Corte 121, con cui si è affermato che la cessazione dalla carica di
amministratore ha effetto ex nunc.
L’amministratore revocato, dal canto suo, può richiedere al tribunale – anche
mediante provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c. – di accertare l’insussistenza della
122
giusta causa e dichiarare, conseguentemente, il reintegro nell’attività gestoria .
10.2. Tanto la giurisprudenza quanto la dottrina si sono interrogate sul contenuto
concreto che può assumere l’indicazione normativa astratta di “giusta causa”,
definibile 123 come un «qualsiasi evento che renda impossibile il naturale svolgimento
del rapporto di gestione e che sia tale da integrare violazione degli obblighi propri
dell’amministratore».
In dettaglio, può sostanziarsi124 tanto in «una singola violazione di notevole
portata (ad esempio, un unico, ma consistente ammanco nelle casse sociali)», quanto in
«una stessa violazione, di minore impatto, ma protratta nel tempo e ripetuta (come
l’autoerogazione di compensi periodici da parte dell’amministratore non previsti
dall’atto costitutivo né dalle pattuizioni successive tra i soci», ovvero in «violazioni
afferenti una considerevole varietà di norme che, complessivamente ponderate, si
traducono nel venir meno della fiducia del socio nei confronti dell’operato
dell’amministratore (in via esemplificativa, svolgimento di attività concorrenziali, con
diffusione di notizie false e di inveritiere situazioni contabili sull’andamento della
società per sviarne la clientela)».
121
Cass., 30.3.1951, n. 703, in Giur. it., 1951, I, 1, 387.
In dottrina, CONFORTI, cit., 486 e ss; CAMP OBASSO, ibidem. Nella giurisprudenza di merito,
Trib. Piacenza, 28.2.1995, in Gius, 1995, 803. Consta, per il vero, una pronuncia della Corte di
Appello torinese di segno contrario, in cui si è affermato che «nelle società di persone
l’accertamento giudiziale dell’insussistenza della giusta causa di revoca dell’amministratore
nominato con il contratto sociale non comporta l’annullamento della delibera di revoca e la
reintegrazione dell’amministratore nella carica». Vds. App. Torino, 19.7.1983, in Giur. comm.,
1984, II, 434. Ad ogni buon conto, T rib. Ascoli Piceno, 5.5.1988, in Soc., 1988, 725, ha
precisato che «nel corso del giudizio promosso dall’amministratore di una società di persone
per conseguire la dichiarazione di nullità dell’atto di revoca del mandato ad amministrare,
l’istanza di sospensione dell’efficacia dell’atto di revoca risulta improponibile».
123
T rib. Bari, (ord.), 26.6.2008, in Soc., 2009, 989, con nota di SEPE . Conformi Id. Napoli,
22.10.2002, in Giur. di Merito, 2003, 465; Id. Milano, 3.2.1983, in Soc., 1983, 1146. In dottrina,
tra gli altri, GALGANO , ibidem.
124
Cfr. CONFORTI, cit., 431 e s. Pare di interesse, inoltre, la nozione delineata in COSTI, DI
CHIO , cit., 390, ove si legge che «concretano ipotesi di giusta causa in particolare due serie di
eventi: quelli che integrano la violazione degli obblighi che si impongono all’amministratore in
quanto tale e quelli che determinano la materiale impossibilità per l’amministratore di
adempiere ai compiti che l’amministrazione comporta».
122
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
120
STUDI E OPINIONI
AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE
L’onere della prova della sussistenza di una giusta causa grava sulla società 125,
laddove l’accertamento è rimesso al vaglio del giudice, così come affermato in una
pronuncia126 del Tribunale di Verona, con cui si è deciso che «la valutazione, da farsi
caso per caso, della giusta causa per la revoca degli amministratori di società semplice
è rimessa all’apprezzamento del giudice».
In proposito, vale la pena riportare alcune situazioni che, di volta in volta, sono
state ritenute passibili di configurare una giusta causa di revoca, tra cui «l’utilizzo che il
127
socio amministratore faccia di fondi sociali per fini personali» , nonché
l’appropriazione illecita di utili 128; la redazione del rendiconto annuale ex art. 2261 c.c.,
da parte dell’amministratore a ciò preposto, «senza il rispetto dei criteri di verità,
precisione e chiarezza propri di ogni bilancio» 129; l’intraprendere una attività
concorrente con quella della società e la cessione dell’azienda all’insaputa degli altri
soci130; nonché «il compimento da parte di uno degli amministratori di attività di
amministrazione della società in forma disgiuntiva […] in quanto costituisce una grave
violazione degli obblighi derivanti dallo statuto della società, che prevede
l’amministrazione in forma congiuntiva, e dei doveri di correttezza e diligenza che
incombono sull’amministratore ai sensi dell’art. 2260, 1° co., c.c., ed è tale da incidere
negativamente sul carattere fiduciario del rapporto che intercorre fra lo stesso
amministratore e i soci, a prescindere dal risultato economico che, ex post, potrà
risultare a seguito dell’operazione gestoria» 131.
125
T rib. Milano, 15.11.1984, in Soc., 1985, 403, laddove si è deciso che «la prova della giusta
causa, posta a base della revoca di un socio preposto all’amministrazione di una società
personale, deve essere data dalla società». In dottrina, GHIDINI, cit., 396. Opinione contraria è
stata sostenuta da COTTINO , cit., 96, per il quale nella fattispecie di cui all’art. 2259, 1° co., c.c.,
spetta all’amministratore «opporsi ed eccepire la mancanza della giusta causa, secondo quella
che è del resto la costante disciplina di ipotesi siffatte (dal mandato al condominio
all’esclusione del socio). Altrimenti, oltretutto, non si vedrebbe quale differenza sostanziale
residui tra le fattispecie del primo e del 3° co. dell’art. 2259».
126
T rib. Verona, 19.11.1971, in Giur. it., 1972, I, 2, 774. In dottrina, G. FERRI, Le società, in
Tratt. Vassalli, cit., 227 e ss.
127
Trib. Perugia, 2.8.1994, in Rass. giur. umbra, 1995, 81; Id. Milano, 22.3.1990, in Soc., 1990,
915.
128
Cass., 30.1.1980, n. 710, in Giur. it., 1980, 1 , 1476. La medesima sentenza, invero, ha
ritenuto che tale atto sia «in contrasto non soltanto con i doveri inerenti al mandato
conferitogli, ma anche con gli obblighi a lui derivanti dalla qualità di socio, e ciò può
comportare per detto socio-amministratore, oltre che la revoca del mandato, anche l’esclusione
dalla società, ai sensi dell’art. 2286 c.c.».
129
Cass., 9.7.1994, n. 6524, cit.
130
T rib. Torino, (ord.), 10.5.2004, in Giur. it., 2004, 1684, con nota di SP IOTTA .
131
T rib. Ancona, 11.11.1999, in Soc., 2000, 736, con nota di CUP IDO . Del medesimo tenore
quanto affermato da Id. Milano, 14.2.2004, in Giur. it., 2004, 1210, con nota di CAGNASSO,
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
121
STUDI E OPINIONI
AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE
Analoga conclusione è stata sostenuta dalla Corte di Cassazione132, la quale ha
precisato che «la giusta causa di revoca dell’amministratore può derivare anche da fatti
che, pur non integrando inadempimento dei suoi obblighi di gestione, minino il pactum
fiduciae tra essi e la società».
10.3. Per quanto concerne l’ipotesi di revoca dell’amministratore nominato con
atto separato, l’art. 2259, 2° co., c.c., dispone testualmente che «l’amministratore
nominato con atto separato è revocabile secondo le norme sul mandato», prescindendo,
133
pertanto, dalla sussistenza o meno di una giusta causa .
134
Tuttavia, si ritiene che la società, qualora la revoca i) sia decisa in assenza di
congruo preavviso, in caso di rapporto a tempo indeterminato, ovvero ii) sia disposta
anteriormente rispetto alla scadenza del termine, in presenza di rapporto a tempo
determinato, debba provvedere al risarcimento dei danni causati dall’interruzione ex
abrupto del rapporto di amministrazione, salvo consti una giusta causa.
La dottrina135 non è concorde nel ritenere che, in assenza di giusta causa, la
decisione di revoca debba essere assunta all’unanimità da tutti gli altri soci, soluzione
questa desunta dall’art. 1726 c.c. in tema di revoca del mandato collettivo. Propende per
siffatta soluzione una pronuncia136 del Tribunale di Napoli, in cui si è affermato che «se
il mandato è stato conferito da più persone con unico atto e per un affare d’interesse
comune, la revoca non ha effetto qualora non sia stata fatta da tutti i mandanti, salvo
che ricorra una giusta causa».
10.4. Infine, l’art. 2259, 3° co., c.c., stabilisce expressis verbis che «la revoca
per giusta causa può in ogni caso essere chiesta giudizialmente da ciascun socio», di
talché introducendo la fattispecie della revoca giudiziale, azionabile da qualsiasi socio
laddove si sostiene che «la giusta causa di revoca dell’amministratore di società di persone
sussiste nel caso di situazioni sopravvenute (provocate o meno dall’amministratore stesso) che
minino il pactum fiduciae, elidendo l’affidamento inizialmente riposto sull’idoneità dell’organo
di gestione».
132
Cass., 21.11.1998, n. 11801, in Giur. it., 1992, 562.
133
Cfr. CAMPOBASSO , ibidem. Concordi CAGNASSO , QUARANTA, cit., 46, che sul punto
precisano che «le norme in tema di mandato che vengono – o possono venire – in
considerazione al proposito sono quelle contenute negli artt. 1725 e 1726 c.c.».
134
Cfr. FERRARA JR, CORSI, cit., 279, nt. 3. Sul tema, pare di interesse quanto stabilito da Cass.,
21.11.1998, n. 11801, cit., ove si è deciso che «non può trovare ingresso nel giudizio di
risarcimento del danno per revoca senza giusta causa di un amministratore il pregiudizio
arrecato alla sua reputazione sociale e professionale da iniziative giornalistiche collaterali».
135
In senso affermativo, GALGANO , Diritto commerciale, cit., 67. Dubbiosi CAMP OBASSO,
ibidem; CAGNASSO, cit., 154.
136
T rib. Napoli, 7.10.1986, cit.
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
122
STUDI E OPINIONI
AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE
avverso l’amministratore, quale che sia la fonte della sua nomina, come ha sostenuto la
Corte di Cassazione 137, precisando che «il diritto di chiedere la revoca giudiziale per
giusta causa dell’amministratore di società di persone sussiste anche quando
l’amministratore non sia stato nominato né con il contratto sociale, né con atto
separato, ma derivi i suoi poteri direttamente dalla legge».
138
La ratio di siffatta ipotesi residuale è stata individuata nella possibilità che
essa offre nel «risolvere situazioni in cui gli equilibri interni alla società impediscono in
pratica deliberazioni di revoca. Si pensi a una società di tre soci di cui uno solo sia
rimasto estraneo all’amministrazione ed abbia buone ragioni per revocare i due soci
amministratori ma non possa farlo perché il suo voto singolo sarebbe insufficiente».
L’azione giudiziale in parola «deve essere chiesta in sede contenziosa e non
nelle forme della volontaria giurisdizione con il rito camerale» 139; inoltre, essa
«rappresentando un’ipotesi residuale, è proponibile solo a condizione che sia
quantomeno dedotta l’inerzia della società o il disaccordo dei soci a provvedere in
merito; oppure nel caso in cui la società è formata da due soci soltanto» 140.
La revoca è decisa con sentenza costitutiva141 e, in pendenza di giudizio,
l’amministratore revocando «conserva i poteri attribuitigli dalla legge e dall’atto
costitutivo fino alla sua effettiva rimozione», ragion per cui, onde evitare che il suo
permanere in carica possa arrecare nocumento alla società, si ritiene ammissibile
proporre istanza in via d’urgenza ai sensi dell’art. 700 c.p.c.142. Potrebbe, del pari,
137
Cass., 10.3.1975, n. 879, in Giur. comm., 1975, II, 584. Concorde la dottrina, tra cui, in
particolare, COTTINO, cit., 94; CAGNASSO , cit., 154 e s. L’Autore rileva come l’ipotesi di cui
all’art. 2259, 3° co., c.c., sia l’unica configurabile allorquando valga la regola suppletiva di cui
all’art. 2257 c.c., in forza della quale – nel silenzio delle previsioni pattizie – tutti i soci sono
amministratori, e ciò in quanto le indicazioni letterali di cui al primo e secondo comma dell’art.
2259 c.c. prevedono rispettivamente che l’amministratore revocando sia nominato nel contratto
sociale o con atto separato. Viceversa, App. Catania, 24.5.1967, in Dir. fall., 1968, II, 72, nega
che la revoca giudiziale possa essere richiesta nei confronti dell’amministratore nominato ex
lege. Si ritiene di interesse osservare, en passant, come in suddetta pronuncia i giudici catanesi
abbiano altresì stabilito che la revoca dell’amministratore nelle società personali non è
subordinata all’esito del giudizio di responsabilità instaurato avverso l’amministratore,
concernendo tale azione il risarcimento dei danni da questi causati con la propria condotta.
138
Cfr. COTTINO, cit., 95.
139
Trib. Lecce, 29.11.1989, in Soc., 1990, 516, con nota di PATELLI. Contra, VISENTINI, cit.,
194.
140
T rib. Cassino, 28.10.2000, in Soc., 2001, 476, con nota di FABRIZIO ; Id. Catania, 19.4.1984,
cit. In dottrina, vds. CAMPOBASSO , ibidem.
141
Cfr. G. FERRI, Delle società, in Comm. Scialoja-Branca, cit., 169.
142
Pret. Genova, 19.4.1989, in Foro it., 1990, I, 2373; Trib. Napoli, 17.6.1992, in Soc.,1992,
1386; Id. Prato, 26.4.1995, ivi, 1995, 1349, con nota di MACRÌ, laddove si è sancito che «la
revoca per giusta causa di un amministratore di una società di persone è suscettiva di tutela
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
123
STUDI E OPINIONI
AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE
richiedersi l’intervento d’urgenza anche qualora, intervenuta la revoca, l’amministratore
continui di fatto a gestire l’attività societaria 143.
L’amministratore revocato, correlativamente, è legittimato ad impugnare la
sentenza con cui viene decisa la sua revoca 144.
10.5. Per quanto attiene ai profili più strettamente procedurali, si rileva come
l’unico contraddittore sia l’amministratore revocando, ragion per cui non si instaura un
litisconsorzio necessario ex art. 102 c.p.c. tra i soci, così come deciso dalla Suprema
Corte145, laddove ha affermato che «poiché le parti necessarie del processo si
identificano in funzione della domanda e non in base all’esito della prova relativa ai
fatti costitutivi, quando la domanda sia intesa ad ottenere la revoca dell’amministratore
di società di persone ex art. 2259, 3° co., c.c. […], l’accertamento giudiziale
dell’inesistenza della giusta causa determina solo il r igetto della domanda nel merito,
ma non implica il venir meno dell’autonomia dell’azione che, essendo proponibile da
ciascun socio, esclude l’esistenza di un litisconsorzio ex art. 102, c.p.c., con gli altri
soci».
cautelare in via d’urgenza ex art. 700 c.p.c., ricorrendone il limite interno (cioè la residualità
della misura, essendo inapplicabile, in quanto dettato per le sole società di capitali, il
procedimento cautelare di cui all’art. 2409 c.c.) e il limite esterno (cioè l’astratta non
incompatibilità fra assicurazione in via d’urgenza ed azione costitutiva)». Difforme Pret. Acqui
T erme, 31.7.1990, ivi, 1991, 54, con nota di MARCINKIEWICZ.
143
Pret. Piombino, 5.10.1979, in Giur. comm., 1980, II, 765.
144
Cass., 19.12.2008, n. 29776, in Soc., 2009, 286.
145
Cass., 8.11.1986, n. 5479, in Soc., 1987, 15, ove si legge inoltre che «nella controversia
promossa dal socio di una società di persone nei confronti dell’amministratore, per farne
valere l’obbligo di presentazione del rendiconto e di corresponsione della quota di utili, nonché
per ottenerne la revoca dalla carica per giusta causa, non insorge necessità di integrazione del
contraddittorio nei riguardi degli altri soci, vertendosi in tema di azioni spettanti al singolo
socio nel rapporto con l’amministratore (art. 2259, 3° co. e 2262, richiamati dai successivi artt.
2293 e 2315 c.c.), mentre resta in proposito irrilevante che, in ordine alla suddetta domanda di
revoca, sia oggetto di contestazione la sussistenza in concreto della giusta causa, trattandosi di
circostanza influente solo al diverso fine del fondamento nel merito della relativa pretesa, non
anche per l’individuazione dei legittimi contraddittori, da effettuarsi alla stregua dell’istanza
formulata con la domanda medesima e delle ragioni indicate a suo fondamento». Medesima
conclusione nella giurisprudenza di merito, tra cui Trib. Milano, 22.3.1990, cit.; Id. Monza,
14.12.2001, in Soc., 2002, 1019, con nota di CUP IDO , ove si è stabilito che «il procedimento di
revoca dell’amministratore di una società di persone, ai sensi dell’art. 2259, 3° co., c.c., si
svolge nei soli confronti del socio amministratore, senza alcuna necessità di evocare in giudizio
né la società, né gli altri soci non direttamente coinvolti nell’azione».
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
124
STUDI E OPINIONI
AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE
Inoltre, consta una pronuncia146 della Corte d’Appello torinese per cui
«l’accertamento giudiziale dell’insussistenza della giusta causa di revoca
dell’amministratore nominato con il contratto sociale non comporta l’annullamento
della delibera di revoca e la reintegrazione dell’amministratore nella carica»,
permanendo, pertanto, la possibilità di procedere alla destituzione dalla carica gestoria
per consenso unanime di tutti i soci.
In relazione alla revoca dell’amministratore di società semplice, in
147
giurisprudenza si è deciso che, allorquando sia revocato l’unico socio amministratore,
«l’amministrazione non spetta a tutti i soci, ma alla nomina del nuovo amministratore
deve provvedere unicamente l’assemblea».
Con riferimento all’azione di revoca per giusta causa, in ultimo, una quaestio
dibattuta in dottrina e variamente risolta in giurisprudenza consiste nella
compromettibilità in arbitri o meno delle controversie eventualmente scaturenti da
siffatta azione.
La soluzione positiva è sostenuta, in giurisprudenza, osservando148 che «è
compromettibile in arbitri l’azione di revoca per giusta causa di un amministratore di
società di persone, trattandosi di controversia che ha ad oggetto diritti di natura
disponibili». La tesi avversa è stata tra l’altro accolta dalla Suprema Corte149, che ha
stabilito non possa esser deferita ad arbitri la controversia de quo, concernendo
«interessi della società o la violazione di norme poste a tutela dell’interesse collettivo
dei soci o dei terzi in quanto trattasi di accertamenti sottratti all’autonomia delle
parti».
10.6. Ulteriore profilo strettamente correlato alla revoca attiene alla possibilità di
nominare – in via d’urgenza – un amministratore giudiziario che sostituisca il
precedente revocato, soluzione, questa, non unanimemente ammessa tanto in
giurisprudenza quanto in dottrina.
146
App. Torino, 19.7.1983, cit.
T rib. Napoli, 12.1.1987, in Soc., 1987, 635.
148
T rib. Monza, 14.12.2001, cit. Conformi Id. Bari, 7.2.2007, Giur. di Merito, 2007, 7, 39; Id.
Catania, 28.3.1998, in Giur. comm., 2000, II, 507, con nota di MIRONE .
149
Cass., 18.12.1988, n. 1739, in Soc., 1988, 476; T rib. Biella, 8.1.2001, in Giur. it., 2001, 978,
con nota di BERTOLOTTI; Id. Napoli, 14.3.1996, in Soc., 1996, 712, con nota di IANNIELLO ; Id.
Vicenza, 7.10.1982, ivi, 1983, 1488, ove si è deciso che la domanda di revoca proposta da un
altro socio non può esser devoluta ad un collegio arbitrale – ancorché vi sia una clausola in tal
senso nel contratto sociale – in quanto non attiene ad una controversia tra soci. In dottrina,
negano la compromettibilità COTTINO, cit., 94; COSTI, DI CHIO , ibidem.
147
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
125
STUDI E OPINIONI
AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE
Ed infatti, a pronunce di merito in cui si è sostenuto150 – con riferimento ad una
società in accomandita semplice – che «quando il tribunale su richiesta del socio
accomandante provvede in via d’urgenza a revocare l’amministratore per giusta causa
può nominare anche un amministratore giudiziario», si contrappongono sentenze151 in
cui si è stabilito perentoriamente che «nelle società di persone non è ammissibile la
nomina di un amministratore giudiziario».
In dottrina152, quest’ultima posizione è stata – condivisibilmente – argomentata a
partire dalla constatazione che nelle società personali, come visto, il ruolo di
amministratore è inscindibile rispetto alla qualifica di socio.
Del pari, si esclude 153 l’applicabilità alle società personali del disposto dell’art.
2409 c.c., individuando il fondamento di siffatta tesi «sia nel carattere eccezionale della
norma, sia nel fatto che non sussistono i presupposti per l’applicazione analogica.
Infatti, con riferimento a tali modelli societari, sussiste la responsabilità personale dei
soci e i soci di minoranza (non amministratori) possono avvalersi di penetranti ed estesi
poteri di controllo. D’altro lato, non è dato riscontrare, nell’ambito delle società di
persone, neppure una lacuna che giustifichi l’applicazione analogica».
10.7. In chiusura, pare opportuno accennare ad una questione piuttosto dibattuta,
ovverosia se la giusta causa che consente di revocare l’amministratore possa de plano
esser considerata idonea ad integrare quel grave inadempimento che permette di
escludere il socio ex art. 2286 c.c.
La risposta prevalente a tale interrogativo è negativa, in quanto gli obblighi posti
in capo all’amministratore sono autonomi e distinti rispetto a quelli che caratterizzano la
posizione del socio, «essendo rappresentati, gli uni, dalla violazione dei doveri propri
degli amministratori, gli altri, dal grave inadempimento dei doveri dei soci nascenti
154
dalla legge o dall’atto costitutivo» . Di talché, ben si comprende come possano
verificarsi situazioni in cui una giusta causa di revoca non sia tale da costituire un grave
150
T rib. Roma, 24.7.1997, in Gius, 1998, 130. Conforme, di recente, Id. Padova, 13.7.2003, in
Giur. comm., 2005, II, 662; App. Napoli, 31.3.1987, in Dir. fall., 1987, II, 705, laddove si è
statuito che la sostituzione con un amministratore giudiziario è ammissibile applicando in via
analogica il dettato dell’art. 1105, 4° co., c.c., in tema di comunione. In dottrina, vds. G. FERRI,
Le società, in Tratt. Vassalli, cit., 227.
151
Trib. Milano, 14.2.2004, cit.; Id. Roma, 22.5.1997, in Gius, 1998, 130; Id. Lecce,
29.11.1989, cit., ove, all’opposto rispetto alla citata pronuncia della Corte di appello partenopea,
si è sancita l’inapplicabilità del disposto dell’art. 1105, 4° co., c.c.
152
Cfr. CAGNASSO , cit., 155; CAMPOBASSO , cit., 95, nt. 79.
153
Cfr. CAGNASSO , cit., 156; CAMPOBASSO , ibidem. Nella giurisprudenza di merito, Trib.
Milano, 14.2.2004, cit.; Trib. Catania, (ord.), 19.12.2003, in Soc., 2004, 882, con nota di
FUMAGALLI.
154
Cfr. CAGNASSO , cit., 154 e s., nt. 31.
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
126
STUDI E OPINIONI
AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE
inadempimento, come del resto affermato dal Tribunale di M ilano155, che ha stabilito
che «l’esclusione del socio non costituisce una conseguenza automatica della revoca
dello stesso dalla carica di amministratore ai sensi dell’art. 2259 c.c.».
Nondimeno, constano altresì alcune pronunce 156 – più risalenti – che ammettono
l’esclusione del socio amministratore per ragioni connesse ad atti di mala gestio della
società, tra cui una sentenza della Suprema Corte che ha affermato che «il socioamministratore di una società di persone, il quale si appropri degli utili, compie un atto
in contrasto non soltanto con i doveri inerenti al mandato conferitogli, ma anche con
gli obblighi a lui derivanti dalla qualità di socio, e ciò può comportare per detto socioamministratore, oltre che la revoca del mandato, anche l’esclusione dalla società, ai
sensi dell’art. 2286 c.c.».
Viceversa, l’ipotesi opposta – ovverosia l’automaticità della revoca dalla carica
gestoria allorquando il socio-amministratore sia stato escluso dalla compagine sociale –
è condivisa in dottrina in ragione dell’impossibilità di un amministratore extraneus nelle
società personali157.
155
T rib. Milano, 3.2.1983, cit.; Id. Verona, 9.6.1994, in Soc., 1994, 1399; Id. Catania,
19.12.2003, (ord.), cit. Conforme, inoltre, Cass., 29.11.2001, n. 15197, in Giur. it., 2002, 778. In
dottrina, cfr. COTTINO , cit., 95; GHIDINI, cit., 558.
156
Cass., 30.1.1980, n. 710, cit.; App. T orino, 16.3.1979, in Giur. comm., 1980, II, 470. In
dottrina, COTTINO , ibidem; GALGANO , Le società di persone, in Tratt. Cicu-Messineo, XXVIII,
Milano, 1972, 328.
157
Cfr. COTTINO, ibidem. CAGNASSO, cit., 155, nt. 31.
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
127
COMMENTI A SENTENZE
QUANDO L’ECONOMIA [ANCHE]
PROCESSUALE SI SPOSA
CON LA VOLONTÀ DEL LEGISLATORE
L’Autore condivide la soluzione del Tribunale di Roma, ispirata al giusto compromesso
tra la valutazione dei costi professionali e dei tempi processuali e, in mancanza di
requisiti minimi della domanda, e la tutela dei creditori, proprio in osservanza del dato
normativo valutato nel suo complesso. Infatti, sia l’inesistenza di una contraria regola
giuridica e sia l’inesistenza di una qualche utilità impongono, in alcuni casi ossia
laddove i fatti sconfessano ogni prognosi futura, una seria riflessione sull’applicazione
formalistica della legge. Infine, l’autore critica la pronuncia della Corte capitolina
sulle conseguenze processuali da essa generate.
di LUCA CARAVELLA
1. La fattispecie
Con distinti atti la D.C. s.p.a. - in liquidazione proponeva reclamo innanzi alla
Corte di appello di Roma avverso il decreto (emesso il 29/3/2011) con il quale il
Tribunale capitolino, sezione fallimentare, aveva respinto il proprio ricorso per la
dichiarazione dello stato di insolvenza ai sensi dell’art. 1 e segg. d. lgs. 270/1999,
nonché avverso la sentenza dichiarativa di fallimento (n. 170/2011) emesso dal
medesimo giudice in pari data. La curatela fallimentare, costituitasi in giudizio, ne
invocava la conferma, mentre il M inistero per lo Sviluppo Economico, invece, aderiva
ai reclami ed il Procuratore Generale concludeva per la conferma della sentenza
dichiarativa di fallimento.
La Corte di appello, con sentenza depositata il 25 luglio 2011, accoglieva i
reclami sostenendo, sostanzialmente, che il Tribunale aveva “anticipato il proprio
giudizio omettendo di rispettare la fase di osservazione prevista dalla legge – il
Tribunale entro trenta giorni dal deposito della relazione, tenuto conto del parere e
delle osservazioni depositate, nonché degli ulteriori accertamenti eventualmente
disposti …(art. 30, I co.,) – ed avocando a sé le competenze che il legislatore ha
ritenuto di subordinare invece ad una fase successiva della procedura al fine precipuo
di verificare la presenza di concrete prospettive di recupero dell’impresa dichiarata
insolvente”.
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ
– N. 3/2013
128
COMMENTI A SENTENZE
ECONOMIA PROCESSUALE
La sezione fallimentare del Tribunale di Roma, nuovamente investita della
vicenda, in seguito alla relazione del commissario giudiziale dichiarava definitivamente
il fallimento della società istante con sentenza del 23 gennaio 2012.
2. La decisione del Tribunale di Roma
La sentenza dichiarativa di fallimento del 29 marzo 2011, ovvero il decreto di
rigetto del ricorso per la dichiarazione dello stato d’insolvenza di cui all’art. 5 del d.lgs.
270/99, del Tribunale di Roma rispondeva ad una esigenza oggettiva dell’ordinamento,
utilizzando il combinato disposto normativo in modo efficace a tutela dei creditori e del
mercato.
L’istante risultava interamente e direttamente controllata da altra società
(capogruppo), anch’essa in palesi difficoltà finanziarie, la quale congiuntamente alle
altre società del gruppo, tentava un accordo con gli istituti di credito per la
ristrutturazione del debito accumulato e depositava ricorso per l’omologazione ex art.
182 bis l.f..
Il Tribunale ne dichiarava l’inammissibilità, rilevando sia il mancato
raggiungimento della percentuale minima di soddisfacimento prescritta del 60% dei
crediti e sia la mancata attestazione della veridicità dei dati aziendali. Il decreto non
veniva reclamato.
Il Tribunale disponeva, altresì, la trasmissione degli atti al Procuratore della
Repubblica e l’Ufficio decideva di depositare il ricorso per la dichiarazione di
fallimento della società istante.
Precedentemente, la nuova governance della società, valutata la irreversibilità
della crisi e l’impraticabilità della soluzione concordataria, convocava l’assemblea
straordinaria, per la copertura delle perdite e necessaria ricapitalizzazione.
Dall’assemblea dei soci della istante e della capogruppo ne veniva fuori l’indisponibilità
a qualsiasi finanziamento alle rispettive imprese, anche a copertura delle perdite.
In definitiva, lo scenario che si era delineato, anche a seguito che tutti i cantieri
erano stati chiusi progressivamente ben prima del fallimento, era tale da pregiudicare in
via diretta ed immediata la capacità della stessa di provvedere con regolarità ai propri
obblighi nei confronti dei creditori sociali, con conseguente ricadute sulle possibilità di
sviluppo dei cantieri e delle opere in corso di realizzazione.
Una volta rigettata la istanza per la dichiarazione d’insolvenza la sentenza
dichiarativa di fallimento ha semplicemente rilevato l’esistenza di un ricorso per la
pronuncia in tal senso e dei relativi requisiti soggettivi ed oggettivi.
3. La soluzione del Tribunale
La ratio decidendi del Tribunale è compiutamente sintetizzata nel passaggio del
decreto allorquando afferma che “è irrinunciabile che il risanamento dell’impresa, e gli
strumenti attraverso cui allo stesso dovrebbe pervenirsi, debbano essere enunciati nel
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ
– N. 3/2013
129
COMMENTI A SENTENZE
ECONOMIA PROCESSUALE
ricorso e debbano emergere dagli atti, come passi operativi di un percorso plausibile e
realizzabile: diversamente, contrasterebbe con i principi di economia processuale, di
buona e corretta amministrazione, e con l’interesse della collettività (lavoratori e
creditori), dare corso, inutilmente, a un procedimento che, comunque, provocherà la
dilazione di ogni pronuncia definitiva; allorquando è assolutamente evidente, come
nella fattispecie in argomento, che non ricorra alcuna prospettiva diversa dalla
liquidazione fallimentare….” e che “lo stato di criticità economica del bene – impresa
deve presentare un quid pluris determinato, secondo l’art. 27, dal requisito della
recuperabilità: requisito non rinvenibile in discussione”.
Preliminarmente, va ricordato il principio fondamentale in forza del quale
l’accertamento delle condizioni per l’applicabilità delle procedure concorsuali, di
qualsivoglia procedura concorsuale, deve effettuarsi con riferimento all’effettiva
1
situazione esistente al momento della decisione giudiziale .
La disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di
insolvenza, contenuta nel d. lgs. 8 luglio 1999 n. 270 (c.d. Prodi - bis), propone un
modello di procedura concorsuale flessibile, atto a valorizzare attraverso la scelta delle
modalità giuridiche più adeguate, in rapporto alla natura e alla gravità della crisi, il
patrimonio dell’impresa. Veniva, in tal modo, meno il rigido automatismo che, nel
precedente quadro normativo, contraddistingueva l’accesso all’amministrazione
straordinaria: la scelta tra i diversi tipi di soluzione della crisi non spetta più ex ante al
legislatore e, quindi, non discende sic et simpliciter dall’accertamento dello stato di
insolvenza dell’imprenditore e dei limiti economici e dimensionali, ma è concretamente
rimessa ad una valutazione dell’autorità giudiziaria che decide, anche preventivamente,
sulla base di una verifica della reale situazione economica dell’impresa.
L’attuale amministrazione straordinaria, quindi, pur presentando una natura
mista, amministrativa e giurisdizionale, prevede, un sistema prevalentemente
giurisdizionalizzato, in cui sono riservate al tribunale le principali e fondamentali
decisioni in tema di dichiarazione dello stato d’insolvenza, accesso, proseguibilità e
cessazione della procedura.
Poi, ai sensi dell’art. 27 d.lgs. 270/99, l’amministrazione straordinaria
presuppone per la sua apertura la presenza di “concrete prospettive di recupero
dell’equilibrio economico delle attività imprenditoriali”: risultato questo realizzabile in
via alternativa attraverso la cessione dei complessi aziendali o attraverso la
ristrutturazione economica e finanziaria dell’impresa sulla base di un programma di
risanamento.
1
(cfr., con espresso riferimento all’amministrazione straordinaria, ex plurimis, T rib. Napoli, 13
febbraio 1982, in Il fallimento, n. 6, 1982, 1559; Trib. Bari, 21 luglio 1981, in Il fallimento, n. 2,
1982, 260; Trib. Milano, 26 marzo 1980, in Il fallimento, n. 3, 1980, 545).
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– N. 3/2013
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ECONOMIA PROCESSUALE
Questa delicata valutazione delle concrete prospettive di recupero spetta
all’autorità giudiziaria. La legge prevede, infatti, che sia il tribunale a decidere se
dichiarare lo stato d’insolvenza e, poi, se avviare la procedura di amministrazione
straordinaria o quella di fallimento. Per il suo giudizio il tribunale, quindi, intervenendo
in una fase del procedimento in cui ancora difetta l’esistenza di un vero e proprio
programma di ristrutturazione/cessione, di pertinenza esclusiva del commissario
straordinario, può avvalersi delle prospettazioni economiche e imprenditoriali e
finanziarie, contenute prima in un eventuale piano per la soluzione della crisi
predisposto dallo stesso imprenditore o che comunque individui con sufficiente
chiarezza le concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico delle attività
imprenditoriali, e, una volta dichiarato lo stato d’insolvenza, nella relazione del
commissario giudiziale. Infatti, il dettato normativo contenuto nell’art. 5 stabilisce che
“L’imprenditore che chiede la dichiarazione del proprio stato di insolvenza deve
esporre, nel ricorso, le cause che lo hanno determinato, segnalando ogni elemento utile
ai fini della valutazione dell’esistenza dei requisiti e delle condizioni indicati negli
articoli 2 e 27”.
Quindi, a nostro avviso, sarebbe errato sostenere che il Tribunale, avendo
accertato l’esistenza dei requisiti dimensionali in capo alla ricorrente, avrebbe violato
gli artt. 2 e 3 del d. lgs. n. 270/99 in quanto, nella prima fase, sarebbe stato precluso
ogni giudizio prognostico [anche] in assenza degli elementi su cui fondarlo.
Pertanto, il Tribunale, nella prima fase, ha semplicemente accertato, alla luce dei
dati così come rappresentati, fin dalla richiesta di omologazione del piano di
ristrutturazione, la mancanza di concrete prospettive di recupero. Infatti, come già ha
2
avuto modo di dichiarare altro Tribunale , dopo l’accertamento della sussistenza dei
requisiti soggettivi, “resta sempre da valutare il requisito indicato dall’art. 27, d. lgs. n.
270/1999, ovvero la sussistenza di concrete prospettive di recupero dell’equilibrio
economico delle attività imprenditoriali.”.
Ebbene, dalla lettura complessiva della norma non è assolutamente inibito al
giudice, al quale il ricorso, ai sensi dell’art. 3 del d. lgs. 270/99, viene presentato per la
dichiarazione dello stato di insolvenza, la valutazione immediata di sussistenza delle
condizioni ulteriori di proponibilità dell’istanza, oltre quelle previste dall’art. 2 dello
stesso d. lgs. il cui esame la legge riserva, nella seconda fase del procedimento (e
facendo salva la successiva verifica da parte del giudice), al Commissario giudiziale.
Tale principio generale è stato anche ribadito dalla Corte fiorentina, in
riferimento alla legge “M arzano”, con il decreto di rigetto del 6-8.4.20113.
In definitiva, in presenza dei soli presupposti soggettivi, di cui all’art. 2 del d.
lgs. 270/99, il decreto di rigetto dell’istanza della dichiarazione dell’insolvenza ha
2
3
Cfr. Tribunale Vibo Valentia 2010.
Su www.ilcaso.it.
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COMMENTI A SENTENZE
ECONOMIA PROCESSUALE
tenuto, al contrario, in dovuta considerazione [anche] il principio dell’economia
processuale e, soprattutto, la regola giuridica del simultaneo esame degli obblighi di cui
all’art. 5 del citato decreto, ritenendo la carenza di uno di quelli da solo sufficiente ad
indurre al rigetto della domanda in parola.
Il giudizio di concretezza delle prospettive di recupero dell’equilibrio
economico, di cui all’art. 27, ai fini della dichiarazione d’insolvenza non risulta
condizionato dalla necessaria definizione, in termini di assoluta precisione operativa,
dei passaggi essenziali del programma di ristrutturazione/cessione dei complessi
aziendali, ma è sufficiente che già in questa fase, prodromica alla concreta ammissione
e, poi, predisposizione del piano, siano individuabili, “con argomenti concreti”, quei
presupposti economici, imprenditoriali e finanziari su cui il predetto piano dovrà
inevitabilmente fondarsi.
In sostanza, il Tribunale ha ritenuto che, agli effetti del giudizio prognostico, sia
sufficiente che, al momento di questa delicata decisione, gli elementi desumibili
dall’analisi economica e finanziaria dell’attività imprenditoriale, nonché la
prospettazione, in termini di concreta fattibilità, di una serie di interventi gestionali,
faccia ritenere, con un serio margine di affidabilità, la realizzabilità dell’obiettivo del
recupero attraverso una o entrambe le soluzioni, di cui all’art. 27 d. lgs.. In tal senso
anche il Tribunale di Rimini il quale “Sulla base del parere espresso dal Ministero delle
attività produttive, può essere dichiarato lo stato di insolvenza, ai sensi degli artt. 3
segg. d. lgs. n. 270 del 1999, delle società facenti parte di un «gruppo» di imprese
insolventi, quale previsto dagli artt. 80 segg. dello stesso decreto, quando risulta il
possesso dei requisiti di cui all'art. 2 lett. a) del decreto ed un giudizio prognostico di
4
assoggettamento ad amministrazione straordinaria ex art. 27 s.d.” .
4. I principi fondamentali e la finalità dell’amministrazione straordinaria
delle grandi imprese in crisi
A questo punto occorre ripercorre brevemente le finalità della “nuova”
procedura di amministrazione straordinaria, nonché il significato della situazione di
insolvenza che ne costituisce il presupposto primo d’applicabilità.
La norma d’esordio del citato decreto legislativo di riforma definisce
l’amministrazione straordinaria quale “procedura concorsuale relativa alla grande
impresa commerciale insolvente, volta alla conservazione del patrimonio produttivo,
mediante prosecuzione, riattivazione o riconversione delle attività imprenditoriali” (art.
1). La Prodi bis, a differenza della prima versione della legge 5, non è più l’unica
4
T ribunale Rimini, 9.10.2003, Giacomelli Sport s.p.a. e altri, in Dir. Fall., 2003, 2, 999.
La legge Prodi risale ad un periodo in cui la crescita del sistema industriale italiano si era
arrestata di fronte alle prime gravi crisi internazionali, quando ancora si pensava che
l’intervento diretto o mediato dello Stato nell’economia privata fosse uno strumento di possibile
5
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COMMENTI A SENTENZE
ECONOMIA PROCESSUALE
procedura della grande impresa insolvente, ma concorre con il fallimento, a seconda che
esista o meno l’ulteriore presupposto delle “concrete prospettive di recupero
dell’equilibrio economico della attività imprenditoriale” 6, nell’ottica di una
conservazione “non forzata” del patrimonio produttivo7.
Collegandosi strettamente al presupposto delle concrete prospettive di recupero
dell’equilibrio economico di cui all’art. 27, l’insolvenza non identifica qui una
situazione di liquidazione dis gregratrice, di dissoluzione del complesso aziendale o
cessazione dell’attività, ma va valutata in relazione alla capacità dell’impresa di
rimanere utilmente nel contesto economico produttivo. Si tratta, perciò, più
propriamente, di uno stato di crisi reversibile e superabile attraverso un adeguato piano
di risanamento volto al ripristino dell’equilibrio economico e finanziario che possa
garantire un ritorno dell’impresa sul mercato in condizioni di normalità dell’attività
imprenditoriale.
La condizione “insolvenza” non avrebbe più un significato prettamente
giuridico, come espressione di una patologia nel rapporto, soggettivisticamente
considerato, fra imprenditori e creditori, ma una valenza essenzialmente economica che
nei testi di legge e nelle parole di molti studiosi viene espresso con la locuzione “crisi
d’impresa”. Si comprende, allora, facilmente perché la legge riferisca lo stato di
insolvenza all’impresa e non più all’imprenditore: la nuova legge mira alla tutela non
tanto degli interessi dei creditori, dell’imprenditore e dei lavoratori, quanto
dell’interesse più generale della collettività al recupero e alla conservazione delle unità
produttive.
Coerentemente a tale finalità, l’art. 27 impernia il presupposto per l’ammissione
alla procedura su un parametro meramente economico, richiedendo che sussistano
“concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico delle attività
imprenditoriali”.
soluzione dei disse sti. Si è poi percepito che quelle norme erano del tutto inidonee a favorire il
risanamento, visto allora come mera diluizione nel tempo della crisi, con lo spostamento in
avanti della questione occupazionale. Per vent’anni non si è mai assistito a ritorni in bonis
dell’impresa decotta, ma al contrario alla creazione di debiti prededucibili di proporzioni così
devastanti da erodere sempre più le aspettative di soddisfazione dei creditori, del tutto
emarginati dalle scelte commissariali e dell’autorità amministrativa (così FABIANI, Dai
pomodorini ai latticini, ovvero dalla regola all’eccezione: un testo unico per l’amministrazione
straordinaria e la gestione di gruppi transnazionali, in Foro it., 2004, 1571).
6
Come testualmente recita l’art. 27 1, del d. lgs. 270 del 1999.
7
La l. n. 95 del 1979 era ispirata alla logica della conservazione forzata dell’impresa, anche
decotta sul piano della capacità di generare reddito, funzionale al mantenimento
dell’occupazione attraverso aiuti di stato. E proprio dal divieto di questi ultimi trova ispirazione
la nuova l. Prodi.
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ECONOMIA PROCESSUALE
Ben si comprende, quindi, la scelta operata dal legislatore per il quale
l’amministrazione straordinaria non risulta finalizzata, almeno in via principale e
diretta, al recupero della solvibilità dell’imprenditore, ossia della capacità
dell’imprenditore di far fronte, in modo tempestivo e con mezzi normali, alle proprie
obbligazioni, bensì alla riallocazione, in termini di normalità, sul mercato dell’attività
imprenditoriale, attraverso il recupero di un rapporto fisiologico tra costi e ricavi.
A tal fine, e in maniera coerente con questa impostazione realistica, si può
optare per la strada del salvataggio della sola azienda, mediante la cessione delle unità
produttive o, in alternativa, anche del ripristino, in termini di funzionalità economica e
finanziaria, dell’impresa, attraverso un piano di risanamento. La sussistenza di un
residuo fabbisogno finanziario non è affatto da interpretarsi come segnale del permanere
di una condizione di insolvenza, anche al termine della fase di ristrutturazione.
D’altronde l’equilibrio economico di cui parla l’art. 27, se sufficientemente solido, può
permettere nel tempo di migliorare la propria situazione finanziaria, anche se non
necessariamente portare all’estinzione di tutti i pregressi debiti.
Operativamente e secondo il dettato normativo, agli effetti dell’accertamento
delle capacità di recupero dell’equilibrio economico e, quindi, del venir meno della
situazione di insolvenza è, invece, necessario soltanto verificare:
- che i cash flow gestionali riescano a ridurre l’indebitamento, soprattutto
finanziario, entro livelli ritenuti accettabili;
- che il fabbisogno residuo da finanziare sia inferiore al valore degli assets non
realizzabili; un’eventuale differenza positiva tra il valore dell’attivo non realizzabile e i
fabbisogni residui rappresenta una garanzia concreta per eventuali finanziatori, a titolo
sia di capitale di rischio che di capitale di credito.
Condizioni minime queste che la ricorrente non ha dimostrato di avere e di voler
e poter soddisfare per il tramite neanche di un [ipotetico] programma di ristrutturazione.
Tuttavia, l’illustrazione appena svolta viene messa in crisi dal confronto sia con
il dato normativo che con l’intelaiatura complessiva della procedura oggetto di recente
rivisitazione. Dall’uno e dall’altra emerge, difatti e in modo affatto equivoco, come - in
accordo con il dato nominale - lo stato di insolvenza, a fronte del quale prende avvio il
procedimento bifasico delineato dal d. lgs. 270/1999, sia (tipologicamente parlando)
esattamente lo stesso che assurge a presupposto oggettivo della procedura fallimentare:
8
la crisi si parametra sull’imprenditore e non sull’impresa , e consiste proprio nella
9
caduta della relativa capacità solutoria .
8
LO CASCIO , La prima applicazione della nuova legge sull’amministrazione straordinaria, in Il
Fallimento 2000, 453).
9
Cfr., nel senso che la nozione di insolvenza conservi carattere unitario nel fallimento e
nell’amministrazione straordinaria, CANDELARIO MACIAS, L’amministrazione straordinaria:
uno sguardo nel contesto del diritto concorsuale europeo, in La riforma della amministrazione
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ECONOMIA PROCESSUALE
In favore sovviene l’art. 74, primo comma, lett. b), d. lgs. 270/1999 che
annovera, tra i casi generali di chiusura dell’amministrazione straordinaria (valevoli,
cioè, a prescindere dal tipo di indirizzo adottato, sia esso di cessione dei complessi
aziendali o di ristrutturazione) il recupero, da parte dell’“imprenditore insolvente” - si
badi bene: imprenditore, non impresa – “anche prima del termine di scadenza del
programma”, della “capacità di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”. Non
può sfuggire come tale enunciato - che ricalca pedissequamente la locuzione terminale
dell’art. 5 legge fallimentare - rappresenti la cartina tornasole del concetto di insolvenza
adottato dal legislatore.
Nell’ipotesi del citato art. 74 la procedura è destinata, infatti, ad interrompersi
proprio perché viene rimosso il presupposto dell’insolvenza: e, d’altra parte, quando
l’imprenditore si mostri nuovamente in grado di adempiere con regolarità, la chiusura è
evento indefettibile, abbia o non abbia l’impresa recuperato la capacità di stare sul
mercato (si ipotizzi, ad esempio, la robusta ricapitalizzazione d’una impresa sociale
decotta da parte dei soci). A contrariis qualora una situazione del genere - id est,
imprenditore che conserva come che sia la capacità di adempiere alla scadenza e con
mezzi normali, a dispetto della crisi, anche profonda, della sua impresa - sussistesse ab
origine, la procedura non potrebbe prendere avvio.
L’enunciato testé ricordato trova, peraltro, un ripetizione nell’art. 70, primo
comma, lett. b), d. lgs. 270/1999, che - considerando il fenomeno dall’angolazione
inversa - prevede la conversione dell’amministrazione straordinaria in fallimento quante
volte, alla scadenza del programma di ristrutturazione, l’imprenditore (sempre lui, non
l’impresa) “non abbia recuperato la capacità di soddisfare regolarmente le proprie
obbligazioni”: e ciò a conferma del fatto che l’elemento oggettivo di partenza è la
perdita di detta capacità.
straordinaria, a cura di Bonfatti e Falcone, 342 (ove riferimenti comparatistici); FABIANI, Il
rapporto fra la nuova amministrazione straordinaria e le procedure concorsuali minori, in
Foro it. 2000, IV, 24; FIENGO , Lo stato d’insolvenza quale concetto “neutro”, in La riforma
della amministrazione straordinaria, a cura di Bonfatti e Falcone, 400; LO CASCIO ,
Commentario alla legge sull’amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi,
Milano, 2000, 50 s.; MAFFEI ALBERTI, I presupposti della procedura di amministrazione
straordinaria, in La riforma dell’amministrazione straordinaria, atti del convegno S.I.S.CO. di
Milano, 11 novembre 2000, Milano, 2001, 52; MUCCIARELLI, Impresa e impresa del gruppo
nella nuova legge sull’amministrazione straordinaria, in Riv. soc. 2000, 876; T EDESCHI,
Manuale di diritto fallimentare, Padova, 2001, 869); caduta che deve d’altro canto emergere dai
consueti indici esteriori (in questa prospettiva, LO CASCIO , Commentario, cit., 28, 50 ss., il
quale ritiene senz’altro estensibili alla nozione di insolvenza ex art. 3 d. lgs. 270/1999 le
risultanze del dibattito dottrinale e giurisprudenziale relativo all’insolvenza ex art. 5 legge
fallimentare).
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COMMENTI A SENTENZE
ECONOMIA PROCESSUALE
M a più in generale, poi, è la continua osmosi tra fallimento e amministrazione
straordinaria, prefigurata dalla nuova disciplina, che rende critico il tentativo di lettura
differenziata del concetto di insolvenza nei sensi dianzi richiamati: l’una e l’altra
procedura, nell’idea del legislatore, fronteggiano in maniera diversa - a seconda delle
condizioni più o meno propizie - un fenomeno patologico comune. Precisamente, data
la nozione generale di insolvenza, l’amministrazione straordinaria si apre qualora la
situazione rientrante in detta nozione presenti determinate caratteristiche: il presupposto
oggettivo della (seconda fase della) procedura speciale si presenta, in termini
concettuali, come un cerchio di minori dimensioni, ma interamente compreso all’interno
del cerchio maggiore disegnato dalla nozione generale. Tale interpretazione assume che
la dichiarazione di insolvenza ex art. 3 d. lgs. 270/1999, quando non abbia luogo o non
abbia successo la procedura di amministrazione straordinaria, è destinata
indefettibilmente a preludere all’apertura della procedura fallimentare: laddove, al
contrario, si individui un tratto differenziale che trasforma l’insolvenza di cui al citato
art. 3 in un qualcosa a sé stante o solo parzialmente sovrapposto a quello dell’insolvenza
“ordinaria” - nel senso che le fattispecie che rientrano nella prima nozione non
ricadono, o non ricadono necessariamente, nella seconda - il ragionamento non regge
più.
Al riguardo, basti pensare all’alternativa “secca” tra fallimento ed
amministrazione straordinaria (tertium non datur) che fa da epilogo alla fase c.d. “di
osservazione” inaugurata con la dichiarazione dello stato di insolvenza. E ancora, si
valutino le plurime ipotesi di passaggio automatico e senza soluzione di continuità
dall’una all’altra procedura: conversione dell’amministrazione straordinaria in
fallimento per mancato conseguimento degli obiettivi, tanto in pendenza del termine del
programma che alla scadenza di esso (artt. 69 e 70); riapertura della procedura di
amministrazione straordinaria già chiusa, con contestuale sua conversione in fallimento,
a seguito della sopravvenienza di attivo (art. 77); conversione del fallimento
dell’impresa del gruppo in amministrazione straordinaria e viceversa (artt. 84 e 87).
Nella soluzione prospettata si rivela, peraltro, significativa la previsione
dell’automatica trasformazione dell’amministrazione straordinaria in fallimento nel caso
di accertamento, in sede di opposizione alla dichiarazione dello stato di insolvenza,
della mancanza dei requisiti dimensionali dell’impresa stabiliti dall’art. 2 (art. 11):
previsione che dimostra come il discrimen tra la dichiarazione di insolvenza ex art. 3 d.
lgs. 270/1999 e l’ordinaria dichiarazione di fallimento si radichi esclusivamente nel
presupposto soggettivo, non in quello oggettivo.
L’equivoco che alita alla radice della tesi contrastata fonda nella pretesa di
traslare sulla nozione dell’insolvenza, rilevante ai fini della dichiarazione d’insolvenza e
dell’apertura della prima fase della procedura, considerazioni valevoli solo in rapporto
al concetto di “recupero dell’equilibrio economico delle attività imprenditoriali”, che
entra in giuoco ai fini dell’avvio della seconda fase. L’insolvenza - si è detto - va
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COMMENTI A SENTENZE
ECONOMIA PROCESSUALE
rapportata necessariamente all’imprenditore ed alla relativa capacità solutoria: così
come bisogna convenire, amplius, che, a dispetto del lessico legislativo, soggetto
passivo della procedura speciale (in entrambe le fasi) è parimenti l’imprenditore, e non
l’impresa, il quale (piaccia o no) rimane, tra i due, il solo dotato, nel nostro
10
ordinamento, di capacità giuridica e patrimoniale .
L’attenzione per l’impresa in sé, quale valore-entità che merita di essere
salvaguardato a prescindere dalla sorte dell’imprenditore e, correlativamente, per le
ragioni del dissesto - attenzione che rappresenta indubbiamente l’elemento qualificante
della procedura in questione - affiora viceversa nell’ambito della eventuale seconda
fase. “Recupero dell’equilibrio economico delle attività imprenditoriali” significa,
sostanzialmente ripristino di un rapporto non deficitario (ergo, almeno paritetico) tra
ricavi e costi dell’impresa: un concetto, dunque, certamente distinto da quello del
recupero, ad opera dell’imprenditore, della capacità di adempiere regolarmente le
proprie obbligazioni.
Ora, nella visione del legislatore, il primo risultato può, a seconda dei casi,
andare o meno congiunto all’altro: ed è proprio su questa linea di confine che sarà
sviscerata l’opzione - concretamente riservata, peraltro, agli organi amministrativi
preposti alla seconda fase, dopo la prognosi favorevole “di massima” dell’autorità
giudiziaria - tra i due indirizzi della cessione dei complessi aziendali, sulla base di un
programma di prosecuzione dell’esercizio dell’impresa di durata non superiore ad un
anno; ovvero della ristrutturazione economico-finanziaria dell’impresa, sulla base di un
programma di durata non superiore a due anni volto al suo risanamento.
Nel primo caso, si suppone infatti che sia possibile ripristinare de futuro
l’equilibrio tra costi e ricavi, ma senza che ciò consenta di sanare per integrum anche le
passività precedentemente accumulate: la conservazione del patrimonio produttivo si
attua, pertanto, tramite un mutamento della titolarità dell’impresa, della quale viene
evitata nelle more la dissoluzione (si salva la sola impresa, lasciando l’imprenditore
insolvente al suo destino).
Nel secondo caso, invece - come attesta a contrario il già ricordato disposto
dell’art. 70, primo comma, lett. b, d. lgs. 270/1999 – l’amministrazione straordinaria
prelude, nelle aspettative, al contemporaneo ripristino della capacità di adempiere
dell’imprenditore e, dunque, al suo ritorno in bonis: si salverebbe, pertanto, tanto
l’impresa che il suo titolare.
Le considerazioni ora esposte valgono, mutatis mutandis, a controbattere anche
la versione, per dir così, più “moderata” della tesi della nozione differenziata
dell’insolvenza, che punta su una diversità, non di species, ma di grado: versione alla
10
Nel senso che, mentre la nozione di insolvenza resta qualitativamente unitaria, la vera novità
risiede proprio nel rilievo accordato alle ragioni dell’insolvenza e ai tempi del suo eventuale
superamento, FABIANI, op. cit., 24.
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ECONOMIA PROCESSUALE
stregua della quale l’amministrazione straordinaria costituirebbe la risposta ad una
insolvenza “buona”, caratterizzata da aspettative di reversibilità; mentre la dichiarazione
di fallimento sanzionerebbe l’insolvenza “cattiva”, vale a dire il dissesto irreversibile. Il
presupposto oggettivo delle due procedure si radicherebbe, in altre parole, in stadi
distinti e successivi nella progressione tipologica della crisi imprenditoriale: avendo, in
sostanza, il legislatore del ‘99 (inopportunamente) qualificato come insolvenza quella
che, in realtà - avuto riguardo alla tradizionale nozione “fallimentare” - sarebbe soltanto
una situazione, sia pur avanzata, di “rischio d’insolvenza”.
La prospettiva di salvataggio, dunque, condiziona la dichiarazione di insolvenza:
se anche risulti istruttoriamente conseguita la certezza che nessun programma di
risanamento di cui all’art. 27 d.lgs. n. 270/1999 sarà mai esperibile quale mezzo per il
recupero dell’equilibrio economico delle attività imprenditoriali ivi menzionate o che
comunque (per queste ultime e laddove bastasse - in ipotesi, ma è tesi estrema - in tale
fase la loro non implausibile mera prospettazione, cioè a prescindere dal tradursi nelle
modalità operative che l’art. 27, comma 2, sembra indicare come indefettibili) il
tribunale potrà dichiarare il fallimento.
In questo quadro così delineato, il tribunale deve essere messo nelle condizioni,
poiché la legge glielo consente, di esprimere anche e solo una valutazione di natura
prognostica, ancorata alle documentate prospettazioni di parte ricorrente.
5. Il giusto compromesso
Tanto premesso, con il decreto reclamato il Collegio del Tribunale romano, ha
ritenuto neanche prospettata una [compiuta] ristrutturazione economica e finanziaria
dell’impresa, sulla base del ricorso depositato. Peraltro, anche l’interessata ha affermato
che il Tribunale non avrebbe avuto a disposizione elementi idonei ad effettuare una
valutazione, sia pure probabilistica, sulla possibilità che l’impresa potesse ritrovare un
equilibrio economico tramite la cessione di uno o più rami aziendali ovvero all’esito di
un programma di ristrutturazione economico-finanziaria: in tal modo ha dichiarato la
violazione dell’obbligo di cui all’art. 5 d. lgs. 270/99.
Quindi, ogni critica all’approccio del primo giudice appare nominalistica, legata
com’è solo ad alcune espressioni verbali utilizzate, ma non al contenuto effettivo della
motivazione del decreto, la quale illustra chiaramente, anche con i ripetuti testuali
riferimenti all’art. 27, di essere pervenuta ad una decisione negativa non perché il
“programma”, che non esisteva e continuava a non esistere, fosse incompleto o carente
di dettagli o quantitativamente impreciso, ma perché, ancor prima, l’impresa
dell’istante, così come l’intero gruppo, non aveva alcuna concreta prospettiva di
recupero. Sui dati e con le previsioni economiche ed imprenditoriali che si potevano
fare, qualsiasi programma sarebbe stato, insomma, infruttuoso (e non sarebbe
“concreto” immaginare un programma che trascuri i dati reali o faccia non realistiche
previsioni).
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COMMENTI A SENTENZE
ECONOMIA PROCESSUALE
Gli elementi a disposizione del Tribunale sono stati indubbiamente idonei in se
stessi ad assumere la rilevanza probatoria che è stata loro attribuita, anche perché non
contraddetti da risultanze (rectius, prove) di segno contrario.
Il tutto è stato poi confermato dalla “seconda” pronuncia di fallimento la quale
ha accertato l’impossibilità del commissario giudiziale di offrire un quadro
ragionevolmente esaustivo sullo stato dell’impresa, con specifico riguardo alle
prospettive di concreta riattivazione delle attività produttive e di reimpiego della forza
lavoro nonché della possibilità di cessione dell’impresa sul mercato secondo le
condizioni legali imposte dalla speciale normativa.
La sentenza impugnata, ovvero il suo presupposto decreto di rigetto, è
pervenuta, quindi, in modo logico e corretto a ritenere l’imprenditore istante,
manchevole, ai sensi dell’art. 5 d. lgs. 270/99 nel segnalare un seppur “minimo”
elemento utile ai fini della valutazione dell’esistenza dei requisiti e delle condizioni
indicati [anche] nell’articolo 27 s.d. e, quindi, non meritevoli, sin da subito,
dell’ammissione all’amministrazione straordinaria, sulla base di una valutazione
complessiva ed unitaria dei fatti indiziari accertati, non contrastati se non in base ad
astratte supposizioni o a una diversa soggettiva interpretazione dei fatti medesimi.
Nel ricorso per la dichiarazione d’insolvenza, alcun accenno è stato fatto sulle
concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico delle attività imprenditoriali:
il Tribunale di Roma ha dichiarato inammissibile l’istanza di omologa per l’accordo di
ristrutturazione, accertando, tra l’altro, il mancato raggiungimento della percentuale
minima di soddisfacimento prescritta del 60% dei crediti e la mancata attestazione della
veridicità dei dati aziendali nella relazione predisposta dall’esperto. Inoltre, in tale
istanza la società aveva allegato un piano industriale e un piano finanziario di fatto
bocciato, per cui già in quella sede era stata verificata la mancanza di qualsiasi concreta
possibilità di recupero dell’equilibrio economico del progetto imprenditoriale, non
potendo così avviare alcun processo di ristrutturazione e mai raggiungendo un
sufficiente risultato commerciale.
La domanda a questo punto sorge spontanea: come può esser concepibile
chiedere poi di valersi della speciale procedura - e delle condizioni di favore - della
legge 270 non per ritornare a quell’utile gestione ormai passato (giacché non ha mai
avuto un bilancio positivo), ma per tentare un obiettivo d’impresa insperabile e
inattuabile, neppure in situazioni e forme diverse ? La distinzione - come ben si
comprende - non introduce una questione meramente teorica, poiché si tratta
dell’ossequio alla ratio legis; ed ha poi una pratica ricaduta sull’applicazione dei già
esposti criteri di valutazione. Se può essere verosimile, infatti, ritenere “concrete” le
prospettive di un ritorno ad equilibri imprenditoriali in passato eventualmente realizzati,
assai più difficile è dotare della stessa concretezza ipotesi di scenari mai visti: nuove
commesse, nuove tipologie di prodotti, nuovi procedimenti produttivi, nuovi fornitori,
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– N. 3/2013
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COMMENTI A SENTENZE
ECONOMIA PROCESSUALE
nuovi finanziamenti, nuovi acquirenti. Giacché è su tali previsioni - tutte insieme e tutte
indispensabili - che si fonda la prospettiva di recupero da rappresentarsi al tribunale.
Quanto al merito economico della vicenda, lo scenario che si era delineato per i
nuovi amministratori era tale da pregiudicare in via diretta ed immediata la capacità
della stessa di provvedere con regolarità ai propri obblighi nei confronti dei creditori
sociali con conseguente ricadute sulle possibilità di sviluppo dei cantieri e delle opere in
corso di realizzazione.
Pertanto, va sottolineato che il risultato di recupero richiesto dalla legge al
termine dell’amministrazione straordinaria non può limitarsi al mero conto economico
della gestione, lasciando invariata la pregressa situazione debitoria: la legge richiede un
riequilibrio “economico”, cioè complessivo, dell’attività imprenditoriale, mentre certo
non è economica, anche per il liquidatore, la prosecuzione di un’attività che non abbia
alcuna concreta prospettiva di pagare i creditori (o con la vendita dei beni o con gli utili
della ristrutturata gestione dell’azienda).
Nulla del genere è stato previsto nel caso della società istante e addirittura era
venuto meno l’esercizio dell’impresa ossia il presupposto necessario e indeffettibile su
cui ogni soggetto economico possa ragionevolamente fondare, secondo l’art. 27 d. lgs.
270/99, l’istanza di ammissione alla procedura de quo. Alcuna promessa, ad
abundantiam, di finanziamento in varie forme da parte del socio di riferimento era stata
prospettata, anzi su di esse non poteva in alcun modo farsi affidamento e ancor più
suscettibile di valutazione risultava poi la presa di posizione del sistema bancario.
In conclusione, dunque, l’ipotesi di cessione dei complessi aziendali ovvero di
un’efficace ristrutturazione, economica e finanziaria, dell’impresa della ricorrente nel
termine di due anni (art. 27, lett. b), qualora nell’allegazione delle commesse si volesse
intravedere un programma in tal senso, risulta[va] del tutto improbabile per non dire
irrealistico e/o impossibile.
Ora, se per assurdo e solo per assurdo volessimo aderire alle tesi favorevoli alla
funzione notarile del Tribunale, proprio l’art. 35 d. lgs. 270/99 stabilisce che “quando è
passata in giudicato la sentenza che accoglie per tale motivo l’opposizione prevista
dall’articolo 18 della legge fallimentare, il tribunale che ha dichiarato il fallimento, ove
non sia esaurita la liquidazione dell’attivo, invita con decreto il curatore a depositare
in cancelleria ed a trasmettere al Ministro dell'industria entro trenta giorni una
relazione contenente una valutazione motivata circa l’es istenza delle condizioni
previste dall’articolo 27 ai fini dell’ammissione dell’impresa fallita alla procedura di
amministrazione straordinaria.”.
E’ evidente, quindi, che, innanzitutto, la disposizione espressamente subordina
la ipotesi di conversione del fallimento in amministrazione straordinaria al passaggio in
giudicato della sentenza di opposizione a fallimento. Inoltre, proprio per quanto
illustrato e documentato nei fatti, una volta cessato l’esercizio dell’impresa,
l’amministrazione straordinaria diverrebbe una procedura concorsuale liquidatoria, in
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ
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140
COMMENTI A SENTENZE
ECONOMIA PROCESSUALE
ciò assimilabile perfettamente al fallimento ossia perché la conversione del fallimento in
amministrazione straordinaria apparirebbe inammissibile, ormai priva di qualsiasi
significato, venendo a mancare in radice e ab initio le condizioni e l’opportunità di una
tale procedura, poiché non si ravviserebbe alcuna utilità di un’eventuale conversione al
raggiungimento degli obiettivi della procedura in sé.
E’ quanto mai ovvio che il curatore fallimentare in carica, alla luce dei fatti e
delle circostanze, per come rappresentate, descritte e documentate, non potrebbe
relazionare
sull’assoluta
mancanza
delle
condizioni
di
ammissibilità
dell’amministrazione straordinaria.
Per l’effetto, la riforma della Corte d’appello si è risolta in un inutile e
costosissima appendice rappresentata dalla relazione estesa dal curatore. Si badi bene
che il compenso per tale attività, normalmente svolta dal commissario giudiziale
designato dal M inistro e nominato dal Tribunale, è determinato nella misura del 50 per
11
cento di quello spettante al curatore fallimentare per tutta la sua attività . Quindi,
l’inutile appendice costa alla procedura un terzo in più dei normali compensi del
curatore.
In definitiva, il decreto di rigetto e la sentenza di fallimento rispondevano non
solo a principi di economia processuale, ma anche a principi di economia reale, e la
riforma della sentenza ha prodotto, come in realtà, l’unico effetto di aggravare di spese
la procedura, senza alcun vantaggio competitivo, avendo potuto già rilevare l’assoluta
evidenza dell’impostazione del Tribunale sulla mancanza delle condizioni di
ammissibilità alla procedura di amministrazione straordinaria. Inoltre, alcuna norma
esclude che il Tribunale possa anticipare il giudizio che normalmente rende a seguito
della relazione del commissario giudiziale quando appaia evidente per tabulas il quadro
che dovrebbe emergere dalla stessa relazione.
6. La soluzione della Corte capitolina
A nostro avviso la sentenza della Corte capitolina presenta diversi profili di
erroneità o falsa applicazione delle norme, anche sotto il profilo strettamente
processuale.
La sentenza in questione revocava il fallimento dichiarato dal Tribunale: come
noto, avverso la sentenza di revoca del fallimento, che non è esecutiva, è ammissibile il
ricorso per cassazione. La Corte di appello ha erroneamente applicato nella fattispecie
l’art. 12. del d. lgs. 270 del 1999 che si riferisce al caso in cui il Tribunale non abbia
dichiarato l’insolvenza e non al caso in cui abbia scelto, al contrario, di dichiarare il
fallimento.
Il d. lgs. 270 del 1999 disciplina, infatti, tale ipotesi all’art. 35 in merito al quale
si potrebbe però obiettare che fa riferimento alla non revocabilità della sentenza
11
Cass., 22 gennaio 2009, n. 1602, in Il Fallimento, 2009, 3, 274.
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141
COMMENTI A SENTENZE
ECONOMIA PROCESSUALE
dichiarativa di fallimento a seguito dell’accertamento del possesso dei requisiti di cui
all’art. 2. Nel nostro caso si potrebbe eccepire che il Tribunale ha dichiarato il
fallimento dopo aver accertato la mancanza del requisito delle condizioni di
prosecuzione e riequilibrio, non previste dall’art. 2 e non accertabili in quella fase (in tal
senso la Corte d’appello). In realtà l’art. 35, come lo stesso articolo 12, sono norme di
sistema dirette a far funzionare complessivamente il rapporto tra amministrazione
straordinaria e fallimento e tra dichiarazione di insolvenza e dichiarazione di fallimento,
nell’unico modo possibile. E’ ovvio che l’art. 2 non preveda “espressamente” il
requisito delle “concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico delle attività
imprenditoriali”, la cui mancanza ha accertato il Tribunale, altrimenti non ci sarebbe
stata materia del contendere né il giudizio. M a è altrettanto ovvio che quanto accaduto
trovi comunque l’unica soluzione sistematica possibile nella previsione dell’art. 35.
Il legislatore, sulla base di una tecnica normativa puntuale, si preoccupa che in
caso di dichiarazione di fallimento in luogo della dichiarazione di insolvenza e
viceversa, non ci siano soluzioni di continuità, tenuto conto che gli effetti delle
statuizioni sono identiche. Non c’è dunque ragione nell’ordinamento che possano essere
staccate sul piano logico e cronologico.
E ciò attenzione trova precisa conferma in una terza norma (che non è né l’art.
12 né il 35), ma è l’art. 11 del d. lgs. 270 del 1999 (Accoglimento dell’opposizione per
mancanza dei requisiti per l'ammissione all'amministrazione straordinaria).
Il quadro sistematico è chiarissimo ed ineccepibile: o il fallimento non viene
revocato oppure l’insolvenza viene convertita. Fuori da queste ipotesi contenute in tutta
la legge (art. 11, 35, 30, 69, 70) c’è soltanto il caso in cui il Tribunale rigetti la richiesta
di insolvenza (art. 12), ma se c’è insolvenza questa non può più venir meno.
E’ un quadro perfettamente congegnato al fine di evitare quella situazione
“antigiuridica” che oggettivamente ha creato la sentenza della Corte capitolina. Infatti,
quella statuizione ha provocato comunque soluzione di continuità e nella migliore delle
ipotesi una sovrapposizione inammissibile di procedure: dalla decisione, infatti, la
revoca della sentenza di fallimento non poteva esser esecutiva e non lo sarebbe stato
fino alla sua definitività. Nelle more il Tribunale avrebbe dovuto fissare l’udienza per la
dichiarazione di insolvenza. Di certo il Tribunale non può dichiarare l’insolvenza di una
società ancora fallita, con sovrapposizione di organi e procedure. Allora quale
alternativa aveva ? Non poteva certo organizzare la propria giurisdizione in modo da
dichiarare il fallimento il giorno stesso del passaggio in giudicato della sentenza
dichiarativa di fallimento, incerto, e peraltro termine è nella disposizione delle parti e
non del Tribunale. M a seppure per assurdo - e solo per assurdo - il Tribunale si fosse
messo col cronometro dichiarando l’insolvenza nel momento esatto in cui la revoca del
fallimento diventasse definitiva, ci sarebbe comunque sul piano logico e cronologico,
una soluzione di continuità con effetti dirompenti sul funzionamento del sistema.
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ
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142
COMMENTI A SENTENZE
ECONOMIA PROCESSUALE
Per queste evidenti ragioni, quindi, la sentenza della Corte, al di là della
ricorribilità in Cassazione, a nostro avviso era allo stato ineseguibile dal Tribunale, che,
peraltro, in quella fase aveva margini interpretativi del provvedimento. Dalla lettura del
sistema, congegnato in modo logico e coerente, dal legislatore del d. lgs. 270 del 1999,
risulta insomma l’evidente errore di diritto della Corte e la falsa applicazione delle
norme.
Ci troviamo in ogni caso, ed a prescindere dalle singole norme, di fronte ad un
caso in cui il legislatore non vuole soluzioni di continuità. E la ragione è facilmente
immaginabile: la mancata conversione di una procedura nell’altra impedisce la naturale
ed indispensabile applicazione dei medesimi effetti delle procedure. Si porrebbe
altrimenti il gravissimo ed irrisolvibile problema dell’interruzione della continuità. Ad
esempio, se per assurdo tra il passaggio in giudicato della sentenza di revoca e la
dichiarazione di fallimento, il debitore presentasse una proposta di concordato o
ricapitalizzasse per milioni di Euro, quid iuris ?
Queste considerazioni fanno comprendere che la Corte d’appello ha errato anche
nella prima statuizione di natura processuale in quanto i due gravami non potevano
essere riuniti in un unico giudizio. Nella fattispecie l’opponente avrebbe dovuto optare
per uno dei due, la revoca del fallimento se non riteneva sussistere l’insolvenza, oppure
l’accertamento dei requisiti se riteneva sussistere l’insolvenza, ma sussistere anche i
requisiti per l’ammissione all’amministrazione straordinaria. La Corte per l’effetto
avrebbe dovuto perseguire una delle due strade, o meglio l’unica corretta,
l’accertamento dell’esistenza dei requisiti con invito con decreto al curatore a depositare
in cancelleria ed a trasmettere al M inistro dello Sviluppo entro trenta giorni una
relazione contenente una valutazione motivata circa l’esistenza delle condizioni previste
dall’articolo 27 ai fini dell’ammissione dell’impresa fallita alla procedura di
12
amministrazione straordinaria. Il tutto senza revocare il fallimento .
12
Circa i rimedi offerti dalla norma su accoglimento del reclamo, v. anche Corte appello Torino,
20 gennaio 2012, su www.ilcaso.it.
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ
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FISCALITÀ
IL PROFESSIONISTA DISTRATTARIO
NON HA DIRITTO ALL’IVA DA PARTE
DEL SOCCOMBENTE IN GIUDIZIO
Con due recenti pronunce la Corte Suprema di Cassazione si è nuovamente espressa sul
tema dell’obbligo di corresponsione dell’Iva esposta in parcella dal professionista
distrattario che in forza della sentenza di condanna deve ottenere il rimborso delle
spese e degli onorari di difesa direttamente dalla parte soccombente in giudizio ai sensi
dell’art. 93 del Codice di Procedura Civile. Ai fini del tributo, la differente
qualificazione soggettiva della parte vittoriosa in giudizio determina soluzioni operative
che coinvolgono anche altri soggetti interessati dal procedimento in corso: il difensore
con procura e il terzo soccombente.
di ANDREA PESSINA
1. I di versi istituti applicabili
La possibilità del difensore con procura di richiedere, in fase processuale,
l’applicazione dell’istituto previsto dall’art. 93 del Codice di Procedura Civile, genera
ripercussioni di tipo fiscale da tempo oggetto di numerosi interventi giurisprudenziali.
Da ultimo, la sentenza n. 2474 del 21 febbraio 2012 e la successiva n. 13659 del 31
luglio 2012, entrambe emesse dalla Corte di Cassazione, confermano l’orientamento
espresso dall’Amministrazione Finanziaria in tema di Iva.
1
E’ dalle previsioni contenute nel Codice di Procedura Civile che deve muoversi
l’analisi delle diverse situazioni che possono verificarsi in tema di liquidazione delle
spese e degli onorari dovuti al professionista (avvocato o commercialista) che
rappresenta e difende il proprio cliente all’interno del giudizio in cui è risultato vincente
in uno dei gradi previsti.
Due sono gli articoli di interesse ivi contenuti:
• l’art. 91 del C.P.C. che prevede l’obbligo del Giudice, competente per grado di
giudizio, di condannare la parte soccombente, nella sentenza emananda, al rimborso
delle spese e degli onorari di difesa in favore dell’altra parte, individuandone
l’ammontare da liquidare;
1
Regio Decreto n. 1443 del 28 ottobre 1940.
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
144
FISCALITÀ
PROFESSIONISTA DISTRATTARIO
• l’art. 93 del C.P.C. che concede al difensore della parte vittoriosa in giudizio la
facoltà di chiedere che la sentenza di condanna emessa dal Giudice stabilisca che
la corresponsione degli onorari e delle spese in suo favore avvenga direttamente
dalla parte soccombente.
La sentenza, in assenza di previa espressa richiesta del difensore, determina
l’ammontare delle spese e degli onorari da liquidare alla parte vittoriosa a titolo di
rimborso degli oneri processuali sostenuti dalla stessa, oneri che dovranno essere
corrisposti dal soccombente in esecuzione dell’obbligazione di pagamento contenuta
nella sentenza stessa.
E’ oltremodo ricorrente l’ulteriore casistica consistente nella corresponsione delle spese
e degli onorari di difesa direttamente dalla parte soccombente al difensore della
controparte vittoriosa (c.d. distrazione delle spese), situazione praticabile solo su
specifica richiesta del difensore vittorioso, ai sensi del citato art. 93 del C.P.C.. Il
professionista può proporre, per atto scritto oppure oralmente nel corso dell’udienza,
che il Giudice, nel pronunciare la condanna alle spese, le indirizzi a suo favore.
E’ da rilevare che le norme sopra richiamate, seppur contenute nel comparto legislativo
del Codice di Procedura Civile, trovano applicazione anche nel processo tributario, in
2
virtù dell’espresso richiamo operato dall’art. 1, comma 2 del D.Lgs. 546/1992.
Tuttavia, ad oggi restano ancora poco chiare le modalità operative con cui il difensore
tributario possa richiedere la distrazione delle spese in suo favore, in applicazione del
citato art. 93 del C.P.C..
Volendo rappresentare sinteticamente quanto finora argomentato in merito al ventaglio
di situazioni verificabili, si formulano i seguenti grafici:
Il Giudice agisce d’ufficio ex art. 91 C.P.C.
PARTE
VITTORIOSA
Emissione
parcella
professionale
(3)
Liquidazione oneri di difesa indicati in
sentenza (1)
PARTE
SOCCOMBENTE
Liquidazione onorari professionali condannati
e ulteriori pattuiti (2)
DIFENSORE
VITTORIOSO
2
In tal senso la sentenza della Corte di Cassazione n. 22787 del 3 novembre 2011, la Circolare
dell’Agenzia delle Entrate n. 25/E del 19 giugno 2012 e la Risoluzione n. 91/E del 24 luglio
1998.
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
145
FISCALITÀ
PROFESSIONISTA DISTRATTARIO
Il Giudice ammette la richiesta di distrazione delle spese ex art. 93 C.P.C.
PARTE
SOCCOMBENTE
PARTE
VITTORIOSA
Emissione
parcella
professionale
(2)
Liquidazione ulteriori onorari professionali pattuiti
(3)
DIFENSORE
VITTORIOSO
Liquidazione oneri di difesa individuati in
sentenza (1)
In entrambi i casi si possono individuare due autonomi rapporti sinallagmatici:
(i) l’obbligo della parte soccombente al pagamento degli oneri di difesa (al soggetto
vittorioso o direttamente al di lui difensore) in esecuzione della sentenza di
condanna;
(ii) l’obbligo della parte vittoriosa al pagamento degli onorari stabiliti nel disciplinare
di incarico sottoscritto con il professionista per l’assistenza e la rappresentanza in
giudizio. Nel caso di distrazione delle spese, l’obbligazione è riferibile ai soli
compensi che il difensore vanta nei confronti del cliente vittorioso per la parte non
liquidatagli dal soccombente.
Il trattamento fiscale applicabile è differente, come vedremo, soprattutto in relazione
alle condizioni soggettive delle parti interessate.
2. Profili operativi e trattamento fiscale
L’individuazione del corretto comportamento da tenere nel caso in cui un soggetto
(soccombente in giudizio, sia esso titolare di attività di impresa o privato consumatore)
venga condannato al rimborso delle spese di difesa sostenute dalla parte vittoriosa,
comporta non poche difficoltà operative in merito:
• all’individuazione del soggetto tenuto al pagamento dell’Iva esposta dal
professionista nella parcella;
• all’individuazione del soggetto tenuto ad operare e versare la ritenuta d’acconto
Irpef per conto del professionista;
• all’individuazione del soggetto tenuto al versamento del contributo previdenziale
esposto dal professionista nella parcella.
In questa sede ci concentreremo sulle problematiche riscontrabili in tema di Iva,
soffermandoci sui risvolti operativi causati dall’applicazione delle differenti fattispecie
di condanna degli oneri processuali previsti nella sentenza emessa dal Giudice.
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
146
FISCALITÀ
PROFESSIONISTA DISTRATTARIO
I Giudici di legittimità, prima con la sentenza n. 2474 del 21 febbraio 2012 e poi con la
n. 13659 del 31 luglio 2012, si sono pronunciati cassando il seguente principio:
“L’avvocato distrattario può richiedere alla parte soccombente solamente l’importo
dovuto a titolo di onorario e spese processuali e non anche l’importo dell’Iva che gli
sarebbe dovuta, a titolo di rivalsa, dal proprio cliente, abilitato a detrarla.”. La
Cassazione pone dunque l’accento sulla soggettività passiva Iva in capo al soggetto
vittorioso, dalla quale fa discendere la natura accessoria dell’Iva stessa che, il linea
generale, ai sensi dell’art. 91 del C.P.C., consegue al pagamento degli onorari al
difensore, stabiliti dal Giudice nella sentenza di condanna.
Nella fattispecie di cui all’art. 91 del C.P.C. trovano concretezza due fasi consequenziali
che ingenerano incertezze operative in ambito Iva:
(i) il Giudice, agendo d’ufficio, emette la propria sentenza di condanna stabilendo
l’ammontare degli oneri processuali che la parte soccombente deve rimborsare in
favore della parte vittoriosa;
(ii) successivamente, la parte vittoriosa, in forza dell’autonomo rapporto contrattuale
instaurato con il professionista, liquida gli onorari al proprio difensore.
Il punto di partenza necessario a porre chiarezza, è il principio stabilito dall’art. 21 del
DPR 633/1972 il quale prescrive che l’adempimento formale correlato alla prestazione
del servizio reso, riguarda l’obbligo del prestatore del servizio (nel caso di specie il
difensore vittorioso) di emettere la fattura (parcella) al proprio cliente (parte vittoriosa)
per l’importo dovuto a titolo di onorario con indicazione dell’Iva addebitata in via di
rivalsa. Ciò detto, è da subito evincibile come in capo al soggetto vittorioso sorge
l’onere del pagamento dell’Iva esposta in parcella dal professionista, essendo la
medesima a carico del soggetto verso il quale è stata prestata l’attività professionale
(appunto la parte vittoriosa), nel pieno rispetto della disposizione normativa di cui
all’art. 18 del DPR 633/1972, che prevede l’obbligo del soggetto prestatore del servizio
(imponibile Iva ovviamente) di addebitare la relativa imposta, a titolo di rivalsa, al
cessionario/committente.
M entre fin qui detto a nulla rileva la qualificazione soggettiva delle parti interessate
(siano esse titolari o meno di partita Iva), nella prima delle due fasi sopra elencate,
consistente nell’addebito delle spese di difesa dal soggetto vittorioso in giudizio al terzo
soccombente, ai fini dell’inquadramento Iva assume invece notevole importanza la
condizione in cui esse si trovano. Qualora, infatti, la parte vittoriosa fosse soggetto non
titolare di partita Iva (operando in qualità di privato consumatore), accadrebbe che, da
un lato sorgerebbe in capo alla stessa l’obbligo al pagamento dell’Iva esposta nella
parcella del professionista e, dall’altro, sarebbe impossibilitata a recuperare l’Iva
addebitatagli, non potendo avvalersi del meccanismo della rivalsa-detrazione previsto
dall’art. 18 del più volte citato DPR 633/1972. Con la conseguenza che, in tal modo,
l’Iva rappresenta a tutti gli effetti parte degli oneri processuali per i quali il soggetto
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147
FISCALITÀ
PROFESSIONISTA DISTRATTARIO
vittorioso ha diritto ad ottenere il rimborso dal terzo soccombente: assume cioè la
natura di “onere accessorio” strettamente correlato al concetto di oneri di difesa rifusi
dal Giudice nella sentenza di condanna. Questo in quanto tra gli oneri processuali da cui
deve essere tenuta indenne la parte vittoriosa, deve trovare spazio anche il rimborso
dell’Iva versata, in via di rivalsa, al proprio legale, rappresentando una delle componenti
3
del costo del processo che non può ricadere sul vincitore della lite.
D’altro canto, qualora la parte vittoriosa sia soggetto titolare di partita Iva, avrà diritto
di portare in detrazione, nelle liquidazioni periodiche, l’Iva corrisposta al proprio
difensore e, perciò, non rimanere in tal modo inciso di alcun “onere accessorio”
all’onorario di difesa; l’Iva, non costituendo così una componente di costo per il
soggetto vittorioso, non potrà dallo stesso essere chiesta a rimborso al terzo
soccombente in esecuzione della sentenza di condanna, perché non rappresenta una
spesa rimasta a suo carico.
La condizione soggettiva in cui si trova la parte vittoriosa risulta pertanto determinante
per la quantificazione degli oneri processuali effettivamente a carico del terzo
soccombente. Per quest’ultimo, al contrario, a nulla conta che intervenga come soggetto
passivo Iva o privato consumatore in quanto egli non corrisponde il tributo a titolo di
rivalsa (ex. art. 18 del DPR 633/1972) ma a titolo di condanna, cioè come componente
di costo di cui deve rendere indenne la controparte per effetto della sentenza; pertanto,
quand’anche la parte soccombente agisse in qualità di soggetto Iva, il medesimo non
potrebbe portare in detrazione l’Iva corrisposta sugli onorari di difesa individuati nella
sentenza (sia che questi vengano corrisposti alla parte vittoriosa, ex art. 91 del C.P.C.,
sia, come vedremo, che questi vengano corrisposti direttamente al professionista, ex art.
93 del C.P.C.).
Un’ulteriore situazione che potrebbe verificarsi, è quella per cui il soggetto vittorioso
titolare di partita Iva non abbia diritto di richiedere al terzo soccombente la
corresponsione dell’Iva sugli oneri processuali in virtù di una certa condizione in cui
versa, diversa dalla qualificazione soggettiva con cui interviene. Si tratta in particolar
modo della natura della vertenza oggetto del giudizio in corso, sia essa inerente
all’attività (di impresa o professionale) esercitata dal soggetto vittorioso oppure
totalmente estranea; invero, non è sufficiente la sola titolarità passiva Iva ma è
oltremodo essenziale la qualificazione oggettiva della materia oggetto del contendere
per la quale devono essere corrisposte le spese e gli onorari di difesa rifusi dal Giudice.
Nel caso di totale estraneità queste le conseguenze che ne deriverebbero:
3
Cfr, tra le altre, sentenze della Cassazione n. 3025 del 25 maggio 1979 e n. 5027 del 29
maggio 1990.
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148
FISCALITÀ
PROFESSIONISTA DISTRATTARIO
(i) equiparazione del soggetto vittorioso (Iva) alla stregua di un privato consumatore
sprovvisto di partita Iva4;
(ii) diritto del soggetto vittorioso di richiedere al terzo soccombente il rimborso degli
oneri processuali quantificati nella sentenza con addebito di Iva (questo perché per
il vittorioso l’Iva rappresenta un costo processuale, non potendo detrarla nelle
liquidazioni periodiche).
Altro caso particolare da evidenziare è quello in cui il soggetto vittorioso (i) è titolare di
partita Iva, (ii) la vertenza del giudizio rientra nella sua attività di impresa (o
professionale) ma (iii) si trova nella situazione soggettiva di una limitazione della
detraibilità dell’Iva in forza di un pro-rata di indetraibilità parziale o totale. In tale
ipotesi, la quota di Iva che non può essere detratta dalla parte vittoriosa costituirà per lei
un costo, di talché per la predetta quota avrà diritto ad ottenere il rimborso dalla parte
soccombente.
Art. 91 C.P.C.
Parte vittoriosa
Soggetto non titolare di
partita Iva
Soggetto titolare di partita Iva
(giudizio inerente all’attività
dallo stesso esercitata)
Soggetto titolare di partita Iva
(giudizio
non
inerente
all’attività
dallo
stesso
esercitata)
Soggetto titolare di partita Iva
(pro-rata di indetraibilità Iva
parzial e o totale)
Parte soccombente
Soggetto titolare/non titolare
di partita Iva
Soggetto titolare/non titolare
di partita Iva
Oneri di difesa condannati
Onorari e spese individuati nella
sentenza con addebito di Iva.
Onorari e spese individuati nella
sentenza sen za addebito di Iva.
Soggetto titolare/non titolare Onorari e spese individuati nella
di partita Iva
sentenza con addebito di Iva.
Soggetto titolare/non titolare Onorari e spese individuati nella
di partita Iva
sentenza con addebito di Iva
(totale o parziale 5 )
Restando fermo quanto detto fino ad ora, è del tutto evidente che al professionista
rimanga comunque la facoltà di rivalersi nei confronti del proprio cliente allo scopo di
4
5
Infatti, come noto, il comma 1 dell’art. 19 del DPR 633/1972 prescrive che “[…] è detraibile
dall’ammontare dell’imposta relativa alle operazioni effettuate, quello dell’imposta assolta o
dovuta dal soggetto passivo o a lui addebitata a titolo di rivalsa in relazione ai beni ed ai
servizi importati o acquistati nell’esercizio dell’impresa, arte o professione […]”.
Operativamente possono presentarsi difficoltà nell’individuazione della quota non detratta
dalla parte vittoriosa in virtù della natura provvisoria del pro-rata annuale, che trova la sua
definizione solo alla fine dell’esercizio fiscale.
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
149
FISCALITÀ
PROFESSIONISTA DISTRATTARIO
ottenere il pagamento della parte di onorario (a lui spettante in forza degli accordi
contrattuali intercorsi con il cliente stesso) eccedente la somma liquidata dal Giudice. 6
Al fine di meglio comprendere dal punto di vista operativo gli adempimenti di
carattere documentale e finanziario, rappresentiamo di seguito alcune
7
esemplificazioni :
Cliente vittorioso titolare di partita Iva
Parcella del professionista
Onorario
Spese anticipate
€ 3.000
€ 250
Cassa previdenza 4%
Iva 21%
Totale parziale
Ritenuta d’acconto 20%
Totale parcella
€ 120
€ 655
€ 4.025
(€ 600)
€ 3.425
Parte vittoriosa: corrisponde € 3.425 al professionista, € 600 all’Erario a titolo di ritenuta
d’acconto, detrae l’Iva di € 655 e successivamente ottiene il rimborso di € 3.370 dalla parte
soccombente (€ 3.425 + € 600 – € 655 – € 3.370 = 0);
Parte soccombente: corrisponde € 3.370 alla parte vittoriosa (€ 3.000 + € 250 + € 120).
Cliente vittorioso non titolare di partita Iva ovvero titolare di partita Iva ma non inerente
Parcella del professionista
Onorario
Spese anticipate
Cassa previdenza 4%
Iva 21%
Totale parcella
€ 3.000
€ 250
€ 120
€ 655
€ 4.025
Parte vittoriosa: corrisponde € 4.025 al professionista e successivamente ottiene integrale
rimborso dal terzo soccombente (€ 4.025 - € 4.025 = 0);
6
7
Cfr sentenza della Corte di Cassazione n. 9097 del 7 luglio 2000.
Come anticipato, in questa sede non viene trattato l’argomento relativo all’individuazione del
soggetto tenuto al versamento della ritenuta d’acconto Irpef e della Cassa professionale di
appartenenza del difensore; per correttezza espositiva, nelle esemplificazioni proposte
vengono evidenziate sia le ritenute che la Cassa di previdenza.
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
150
FISCALITÀ
PROFESSIONISTA DISTRATTARIO
Parte soccombente: corrisponde € 4.025 alla parte vittoriosa.
M aggiori problematiche sono riscontrabili nell’applicazione dell’istituto della
distrazione delle spese previsto dall’art. 93 del C.P.C., dove vengono ad esistere le
seguenti fasi consequenziali:
(i) il Giudice, a fronte di specifica richiesta del difensore della parte vittoriosa,
emette la propria sentenza di condanna stabilendo che gli oneri processuali siano
rimborsati, dalla parte soccombente, direttamente in favore del difensore di
controparte;
(ii) il terzo soccombente liquida al difensore gli oneri di difesa rifusigli;
(iii) la parte vittoriosa, in forza dell’autonomo rapporto contrattuale instaurato con il
professionista, liquida gli eventuali ulteriori onorari al proprio difensore, in
esecuzione dell’incarico a lui conferito.
E’ su questa fattispecie dell’art. 93 del C.P.C. che la Suprema Corte si è pronunciata
8
con le citate sentenze n. 2474 del 21 febbraio 2012 e n. 13659 del 31 luglio 2012 ,
mostrandosi in linea anche con quanto sostenuto dall’Amministrazione finanziaria
nella Circolare n. 203/E del 6 dicembre 1994 e nella Risoluzione n. 91/E del 24 luglio
1998.
Il primo importante aspetto da cui deve partire l’analisi è, anche qui, l’obbligo del
professionista di emettere la parcella nei confronti del cliente da lui incaricato a
difenderlo in giudizio; la parte vittoriosa. Come già argomentato nelle considerazioni
fatte per la fattispecie di cui all’art. 91 del C.P.C., la prestazione del servizio viene resa
dal difensore nei confronti del proprio committente soggetto vittorioso e pertanto
unico legittimato a ricevere la parcella; l’art. 18 del DPR 633/1972, al comma 1,
prescrive, a tal proposito, che “Il soggetto che effettua la cessione o prestazione di
servizi imponibile deve addebitare la relativa imposta, a titolo di rivalsa, al
cessionario o al committente.” Nulla viene detto in merito all’individuazione del
soggetto che effettua il pagamento del servizio, motivo per cui la regolamentazione
finanziaria non inficia in alcun modo sull’individuazione del soggetto destinatario
delle fatture emesse. Sul punto, la Corte di Cassazione si è espressa con la sentenza n.
440 del 19 gennaio 1981 affermando che “nel sistema della legge sull’Iva, in tutte le
ipotesi in cui il committente non si identifichi con il soggetto che materialmente
estingue il credito del prestatore di servizi imponibili o con l’utente o beneficiario del
servizio, è sempre al primo che occorre far capo per individuare il soggetto passivo”.
Al riguardo, l’Amministrazione finanziaria, nel confermare che l’intervento del terzo
“pagatore” non muta in alcun modo gli obblighi documentali e soprattutto i relativi
8
T uttavia i principi ivi contenuti trovano applicazione anche al verificarsi della situazione in cui
all’art. 91 del C.P.C., nella fattispecie in cui il soggetto vittorioso interviene come soggetto
titolare di partita Iva, con possibilità di detrazione dell’Iva stessa.
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
151
FISCALITÀ
PROFESSIONISTA DISTRATTARIO
destinatari degli stessi, con la citata Circolare n. 6/1994, ha diramato opportune
istruzioni operative da seguire per garantire la totale correttezza e trasparenza
dell’operazione. Viene previsto l’onere in capo al professionista di esporre in parcella
apposita dicitura ad evidenza che il pagamento (dell’onorario e dell’Iva o solo
dell’Iva) è avvenuto dalla controparte (soccombente), per effetto del provvedimento di
9
distrazione delle spese contenuto nella sentenza di condanna emessa da Giudice . Cosa
può accadere precisamente:
• il terzo soccombente paga onorari e Iva: parte vittoriosa non titolare di partita Iva;
• il terzo soccombente paga solo onorari e la parte vittoriosa (titolare di partita Iva)
paga solo Iva.
Sempre in tema di distrazione delle spese, è rilevante precisare che l’Avvocatura dello
Stato, con il parere n. 4332 del 5 ottobre 1992, ha confermato che il difensore
distrattario deve addebitare l’Iva solo nei confronti del proprio cliente, atteso che
l’obbligo di adempimento degli oneri di difesa per il soggetto soccombente trova titolo
esclusivamente nella statuizione di condanna contenuta nella sentenza, anche in
assenza di espressa pronuncia in ordine al tributo.
Nonostante sia pacifico che la palesata discrasia tra la figura del soggetto destinatario
della parcella e colui che effettivamente estingue il debito, tipica dell’istituto della
distrazione delle spese di cui all’art. 93 del C.P.C., non sia ostativa degli obblighi
imposti dall’art. 18 del DPR 633/1972, tale fattispecie provoca dubbi operativi in
merito a quale sia il reale onere che deve rimanere in capo al terzo soccombente in
qualità di obbligato a rimborsare il costo sostenuto dal soggetto vittorioso. Ritorna con
ciò ad essere rilevante la qualificazione soggettiva della parte vittoriosa:
Art. 93 C.P.C.
Parte vittoriosa
Soggetto non titolare di
partita Iva
Soggetto titolare di
partita Iva (giudizio
inerente
all’attività
dallo stesso esercitata)
Soggetto titolare di
partita Iva (giudizio non
inerente
all’attività
dallo stesso esercitata)
9
Parte soccombente
Esborso finanziario
parte vittoriosa
Soggetto titolare/non Nullo
titolare di partita Iva
Soggetto titolare/non
titolare di partita Iva
Corrisponde solo Iva
al difensore
Soggetto titolare/non
titolare di partita Iva
Nullo
Esborso finanziario
parte soccombente
Corrisponde onorari e
Iva al difensore
Corrisponde
solo
onorari al di fensore
(no Iva)
Corrisponde onorari e
Iva al difensore
In tal senso anche la Cassazione con la sentenza n. 3544 del 12 giugno 1982.
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
152
FISCALITÀ
PROFESSIONISTA DISTRATTARIO
Soggetto titolare di
partita Iva (pro-rata di
indetraibilità
Iva
parzial e o totale)
Soggetto titolare/non
titolare di partita Iva
Corrisponde solo Iva
(parziale,
non
detratta
dal
vittorioso)
al
difensore
Corrisponde onorari e
Iva (totale o parzial e10 ,
a seconda della % di
detraibilità
del
vittorioso) al difensore
Riprendendo le esemplificazioni proposte in precedenza si verificano le seguenti
situazioni:
Distrazione delle spese - cliente vittorioso titolare di partita Iva
Parcella del professionista
Onorario
Spese anticipate
Cassa previdenza 4%
Iva 21%
Totale parziale
Ritenuta d’acconto 20%
Totale parcella
€ 3.000
€ 250
€ 120
€ 655
€ 4.025
(€ 600)
€ 3.425
Parte vittoriosa: corrisponde € 655 al professionista, detrae l’Iva di € 655 (€ 655 - € 655 = 0);
Parte soccombente: corrisponde € 3.370 al professionista, € 600 all’Erario a titolo di ritenuta
d’acconto (€ 3.000 + € 250 + € 120 + € 600 = € 3.970);
Distrazione delle spese - cliente vittorioso non titolare di partita Iva ovvero titolare di partita
Iva ma non inerente
Parcella del professionista
Onorario
Spese anticipate
Cassa previdenza 4%
Iva 21%
Totale parziale
Ritenuta d’acconto 20%
Totale parcella
10
€ 3.000
€ 250
€ 120
€ 655
€ 4.025
(€ 600)
€ 3.425
Operativamente si possono presentare difficoltà nell’individuazione della quota non detratta
dalla parte vittoriosa in virtù della natura provvisoria del pro-rata annuale, che trova la sua
definizione solo alla fine dell’esercizio fiscale.
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
153
FISCALITÀ
PROFESSIONISTA DISTRATTARIO
Parte vittoriosa: non effettua nessun pagamento;
Parte soccombente: corrisponde € 3.425 al professionista, € 600 all’Erario a titolo di ritenuta
d’acconto (€ 3.425 + € 600 = € 4.025)
Anche nella casistica in esame vale la stessa facoltà in capo al professionista di
rivalersi nei confronti del proprio cliente allo scopo di ottenere il pagamento della
parte di onorario (a lui spettante in forza degli accordi contrattuali intercorsi con il
cliente stesso) eccedente la somma liquidata dal Giudice e a lui corrisposta dalla parte
soccombente.
3. La recente giurisprudenza
Il principio espresso dai Giudici di legittimità nella sentenza n. 2474 del 21 febbraio
2012 (richiamato successivamente dalla sentenza n. 13659 del 31 luglio 2012) non
presenta particolari profili di novità rispetto alle precedenti pronunce della
Cassazione11, piuttosto rafforza il presupposto che “[…] la addebitabilità di una spesa
al debitore […]” è ammessa “[…] solo se sussista il costo corrispondente e non anche
qualora detto costo venga normalmente recuperato.”
Il tenore letterale del suddetto principio comporta l’immediato richiamo all’istituto
della rivalsa dell’Iva, linea guida di tutto il sistema Iva e in stretta correlazione con il
diritto alla detrazione dell’imposta stessa, esercitabile dal soggetto che acquista i beni
o i servizi operando nell’esercizio di impresa (arte o professione). Va da sé che esiste
una stringente simmetria tra rivalsa e detrazione del tributo che, se non rispettata,
genera un’alterazione dell’equilibrio tra i soggetti economici interessati; è di questa
alterazione a cui fanno riferimento i Giudici, rappresentando che è fondato principio
informatore il diritto di gravare il debitore del costo dell’Iva solamente quand’anche
per il creditore l’Iva stessa costituisca una componente di costo, in virtù di condizioni
soggettive a lui proprie che ne caratterizzano la detraibilità.
Altro principio confermato dalla Cassazione nelle sentenze in oggetto è che non può
“[…] essere considerata legittima una locupletazione da parte di un soggetto abilitato
a conseguire due volte la medesima somma di denaro.” Si tratta del professionista
distrattario che percependo l’Iva sia dal terzo soccombente (in forza della rifusione
degli oneri di difesa nella sentenza di condanna), sia dal cliente vittorioso (qualora
quest’ultimo sia soggetto titolare di partita Iva), verrebbe a godere di un ingiustificato
beneficio fiscale. L’illegittimità deve essere pertanto evitata, a detta dei giudici,
avendo il difensore il solo diritto di richiedere al soccombente l’importo di quanto
11
Cfr., tra le altre, sentenze n. 3843/95, n. 10023/97 e n. 1688/10.
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
154
FISCALITÀ
PROFESSIONISTA DISTRATTARIO
dovutogli a titolo di onorario e spese processuali e non anche di Iva, essendo l’imposta
dovuta per rivalsa dal proprio cliente.
Ipotesi a) (operativamente non corretta)
Sentenza di condanna
con distrazione delle
spese ex. art. 93 C.P.C.
P ARTE
SOCCOMBENTE
Liquida onorari, spese e
Iva
DIFENSORE
VITTORIOSO
Emette parcella
P ARTE
VITTORIOSA
Liquida solo Iva
Il difensore incasserebbe così l’Iva sia dal cliente vittorioso (titolare di partita Iva) che
dal terzo soccombente: fattispecie condivisibilmente ritenuta non praticabile dalla
Cassazione.
Ipotesi b) (operativamente corretta)
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
155
FISCALITÀ
PROFESSIONISTA DISTRATTARIO
Sentenza di condanna
con distrazione delle
spese ex. art. 93 C.P.C.
P ARTE
SOCCOMBENTE
Liquida solo onorari e
spese
DIFENSORE
VITTORIOSO
Emette parcella
P ARTE
VITTORIOSA
Liquida solo Iva
Così facendo, la parte soccombente non rimane incisa dell’Iva per la quale il vittorioso
ha il diritto alla detrazione e il difensore, con specifica annotazione in parcella sulla
regolamentazione finanziaria, incassa l’Iva dal vittorioso in via di rivalsa.
4. Conclusioni
Le pronunce giurisprudenziali susseguitesi nel tempo ed il condiviso orientamento
dell’Amministrazione finanziaria, riconducono inevitabilmente ad una distinzione fra
obbligazione di natura tributaria ed obbligazione di natura processuale, fra credito
tributario e credito da condanna. Invero, in capo ai soggetti interessati sorgono due
distinti diritti:
• il diritto di credito di origine tributaria vantato dal difensore nei confronti del
cliente vittorioso per l'ammontare dell'Iva esposta in parcella;
• il diritto di credito di origine processuale vantato dal cliente vincitore nei confronti
della parte soccombente, per lo stesso importo dell’Iva.
Nel momento in cui il soccombente effettua il pagamento degli oneri di difesa rifusigli
dal Giudice, preliminarmente adempie all’obbligazione processuale che trova fonte
nella condanna e, indirettamente, all’obbligazione tributaria del cliente vincitore che
trova fonte nella rivalsa.
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
156
SEGNALAZIONI
DIRITTO COMMERCIALE
SEGNALAZIONI DI
DIRITTO COMMERCIALE
NO RMATIVA
L. 31 dicembre 2012, n. 247 – Dal 2 febbraio 2013 entra in vigore la nuova disciplina
dell’ordinamento forense, che, tra le altre innovazioni, permette la possibilità di esercitare la professione di avvocato sia in forma individuale sia tramite associazioni (art. 4),
delegando inoltre il Governo a disciplinare la società tra avvocati, la quale può essere
una società di persone o di capitali, nonché una società cooperativa (art. 5).
La L. 31 dicembre 2012, n. 247 è stata pubblicata su Gazzetta ufficiale del 18 gennaio
2013, n. 15.
GIURISPRUDENZA
Relazione ex art. 182 quinquies L.F. – Il Tribunale di Terni ritiene si possa autorizzare, in pendenza del termine posto ex art. 161, 6° co., L.F., la società debitrice a contrarre
finanziamenti ai sensi dell’art. 182 quinquies, 1° co., L.F.
I Giudici, inoltre, hanno stabilito che nonostante non vi sia espressa indicazione in
quest’ultima disposizione, “l’attestazione della veridicità dei dati aziendali costituisce
un passaggio implicito ed imprescindibile dell’attestazione richiesta [dalla norma,
n.d.r.], la quale risulterebbe altrimenti viziata, a monte, da un difetto di attendibilità tale da inficiare qualsivoglia – per quanto ineccepibile – argomentazione logica e tecnica
di supporto alle conclusioni rassegnate”. Con riferimento all’attestazione in parola, il
Collegio rileva che “l’aspetto, fondamentale, della funzionalità dei finanziamenti alla
migliore soddisfazione dei creditori, non può limitarsi ad una generica dichiarazione
che una «liquidazione per stralcio dei beni» successiva alla cessazione dell’attività […]
determinerebbe “«una indubbia riduzione del valore di trasferimento dell’azienda» […]
non tanto perché si abbia fondato motivo di dubitarne […] ma perché, oltre ad una più
circostanziata indagine comparativa, idonea a proporre una adeguata proiezione, anche numerica, degli scenari praticabili, ciò che occorre soprattutto attestare è che, nella prospettiva alternativa a quella voluta dal debitore, i creditori riceverebbero una
soddisfazione inferiore; ma, per far ciò, l’attestatore deve ovviamente considerare anIL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
157
SEGNALAZIONI
DIRITTO COMMERCIALE
che il peso finanziario della prededuz ione spettante agli istituti di credito, specie a fronte di erogazioni di tanto elevato importo, che potrebbero in ipotesi precludere o ridurre
grandemente la soddisfazione degli altri creditori, magari più di quanto non avverrebbe
con una ordinaria cessione liquidatoria”.
Il decreto del Tribunale di Terni del 14 gennaio 2013 è reperibile sul sito www.ilcaso.it.
Azione revocatoria fallimentare – Il Tribunale di Salerno ha precisato che non ricorre
la “dispensa dalla revocatoria per essere avvenuti i pagamenti revocabili in termini
d’uso” qualora si tratti, come nel caso di specie, di “pagamenti palesemente preferenziali (idonei a configurare, addirittura, ipotesi di reato)” e “sicuramente non volti meramente a rafforzare la fiducia del fornitore nell’impresa debitrice, secondo la ratio
dell’esenzione” prevista dall’art. 67, 3° co., lett. a), L.F.
La sentenza del Tribunale di Salerno del 14 gennaio 2013 è disponibile sul sito
www.ilcaso.it.
Concordato preventivo – Le Sezioni Unite si sono espresse su alcuni profili concernenti la procedura di concordato preventivo. Tra le altre statuizioni, i Giudici di legittimità hanno chiarito “il perimetro di intervento assegnato al giudice al fine di stabilire
se sia stato o meno soddisfatto il requisito di fattibilità del piano” previsto dall’art. 161
L.F. Sul punto, le Sezioni Unite hanno stabilito che “certamente il controllo del giudice
non è di secondo grado, destinato cioè a realizzarsi soltanto sulla completezza e congruità logica dell’attestato del professionista”, osservando che “non è dubbio che spetti
al giudice verificare la fattibilità giuridica del concordato e quindi esprimere un giudizio negativo in ordine all’ammissibilità quando modalità attuative risultino incompatibili con norme inderogabili”, così come è di sua competenza “una delibazione in ordine
alla correttezza delle argomentazioni svolte e delle motivazioni addotte dal professionista a sostegno del formulato giudizio di fattibilità del piano”, nonché sulla “coerenza
complessiva delle conclusioni finali prospettate”. Viceversa, esula dal controllo del giudice “un sindacato sull’aspetto pratico-economico della proposta, e quindi sulla correttezza della indicazione della misura di soddisfacimento percentuale offerta dal debitore
ai creditori”.
La sentenza delle Sezioni Unite Civili del 23 gennaio 2013, n. 1521, è integralmente
consultabile sul sito www.ilcaso.it.
False comunicazioni sociali – La Corte di Cassazione ha stabilito che al fine di integrare il reato di false comunicazioni sociali occorre siano superate tutte le soglie di punibilità previste dall’art. 2621 c.c. Nondimeno, qualora il giudice attesti “la non pertinenza
di una o più delle soglie al caso concreto” si rende “sufficiente, per la punibilità, la
prova del superamento anche di una soltanto delle soglie”.
Corte di Cassazione penale, 22 gennaio 2013, n. 3229.
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
158
SEGNALAZIONI
DIRITTO COMMERCIALE
Distrazione dell’avviamento – La Suprema Corte è intervenuta sulla configurabilità
del reato di bancarotta fraudolenta per distrazione dell’avviamento commerciale di
un’azienda, precisando che “in quanto autonoma componente del valore dell’azienda,
dunque, l’avviamento presenta una indubbia natura patrimoniale ed è suscettibile di
quantificazione economica, ma non per questo può costituire oggetto di autonoma disposizione, risultando inscindibile dall’azienda medesima”. Tuttavia, aggiunge la Corte,
è “ipotizzabile l’intenzionale dispersione da parte dell’imprenditore dell’avviamento
commerciale anche in assenza di alienazione od eterodestinazione dei beni aziendali. E
la mancata conservazione dell’avviamento costituisce certamente una lesione della garanzia patrimoniale, frustrando l’interesse del ceto creditorio alla potenziale realizzazione di quel plusvalore impresso dal medesimo all’azienda all’atto della liquidazione
dell’attivo fallimentare”.
Corte di Cassazione penale, 24 gennaio 2013, n. 3817.
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
159
SEGNALAZIONI
DIRITTO TRIBUTARIO
SEGNALAZIONI DI DIRITTO
TRIBUTARIO
INDICAZIONI INTERPRETATIVE E APPLICATIVE
Consulenza giuridica – Imposta di registro
Le operazioni inventariali di apertura delle cassette di sicurezza devono essere assolte
da un funzionario dell’Amministrazione finanziaria o da un notaio, entrambi tenuti alla
redazione di un verbale di inventario. Detto documento concretizza un atto pubblico e in
quanto tale sarebbe soggetto a registrazione in termine fisso. Tuttavia, nell’ipotesi di
specie, il verbale redatto in caso di apertura di una cassetta di sicurezza è previsto da
disposizioni tributarie ed ha la precipua finalità di assolvere una funzione di natura
fiscale consistente nella certificazione dell’esatta individuazione delle cose mobili o dei
valori contenuti nella cassetta e quindi l’applicazione dell’imposta sulle successioni e
donazioni. Tenuto conto che gli effetti giuridici dell’atto redatto dal notaio o dal
funzionario dell’amministrazione fiscale rilevano nell’ambito di un procedimento
finalizzato alla corretta applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni, deve
ritenersi che, nel caso in esame, per il verbale de quo non vi è obbligo di chiedere la
registrazione.
(Agenzia delle entrate risoluzione 24 gennaio 2013 n. 2/E)
Fatturazione – Chiarimenti in materia di numerazione
A decorrere dal 1° gennaio 2013, per la fatturazione può essere adottata una
numerazione progressiva che, partendo dal numero 1, prosegua ininterrottamente per
tutti gli anni solari di attività del contribuente, fino alla cessazione dell’attività stessa.
Questa tipologia di numerazione progressiva è, di per sé, idonea ad identificare in modo
univoco la fattura, in cons iderazione della irripetibilità del numero di volta in volta
attribuito al documento fiscale.
(Agenzia delle entrate, risoluzione 10 gennaio 2013, n. 1/E)
G IURISPRUDENZA
Redditometro: è una presunzione semplice
Il redditometro è da inquadrare tra le presunzioni semplici, per cui non viene invertito
l’onere probatorio nei confronti del contribuente.
(Corte di Cassazione, sentenza n. 23554 del 20 dicembre 2012 )
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
160
SEGNALAZIONI
DIRITTO TRIBUTARIO
Due imposte scaturenti da un solo PVC: le rispettive liti e pronunce restano
indipendenti.
La sentenza passata in giudicato, con la quale si annulla la pretesa del Fisco in materia
di IVA, non produce automaticamente i suoi effetti nel giudizio concernente le imposte
dirette, anche se i diversi avvisi di accertamento, notificati allo stesso contribuente,
riguardano il medesimo periodo d’imposta e scaturiscono dal medesimo PVC.
(Corte di Cassazione, sentenza n. 21781)
Contenzioso: le dichiarazioni del terzo hanno un semplice valore indiziario
A parere dei giudici della Suprema Corte, nel processo tributario, le dichiarazioni del
terzo, acquisite dalla G.d.F. e trasfuse a loro volta nel PVC hanno valore indiziario,
concorrendo a formare il convincimento del giudice. Il tutto, dà luogo a presunzioni
semplici, generalmente ammissibili nel processo tributario, nonostante il divieto di
prova testimoniale.
(Corte di Cassazione, sentenza n. 21803 del 5 dicembre 2012)
Accertamento: legittimo in casi di gravi anomalie tra costi e ricavi
La suprema Corte di Cassazione ha stabilito che è legittimo l’accertamento induttivo nei
confronti della s.r.l. che presenta per anni bilanci in perdita ma ha un ottimo andamento
aziendale, suffragato dalla consistenza degli acquisti delle merci destinate alla rivendita
o dagli oneri sostenuti per il personale dipendente.
(Corte di Cassazione, sentenza n. 21810 del 5 dicembre 2012)
Cooperative: legittimo l’induttivo se mancano le distinte inventariali
E’ legittimo l’accertamento induttivo nei confronti di società cooperative con contabilità
inattendibile, a causa della mancata esibizione al Fisco delle distinte inventariali. Il
carattere mutualistico delle stesse società, non prevede speciali limitazioni presuntive in
caso di accertamento, né tanto meno, autorizza l’applicazione di ricarichi inferiori
rispetto al valore di mercato.
(Corte di Cassazione, sentenza n. 21785 del 5 dicembre 2012)
Accertamento: nel caso di s.r.l. unipersonale, sono del socio gli extrautili accertati
L’accertamento a carico di una s.r.l. a socio unico, divenuto definitivo a causa della
mancata impugnazione, pregiudica l’esito del giudizio pendente nei confronti del socio,
a cui vengono imputati i redditi accertati dal Fisco alla società. Il socio dunque non può
contestare il merito della pretesa erariale relativa alla società; inoltre, non può nemmeno
lamentare che, l’avviso notificatogli, non abbia in allegato l’avviso redatto a carico della
stessa società di cui egli è il solo rappresentante.
(Corte di Cassazione, sentenza n. 441 del 10 gennaio 2013)
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
161
INFORMAZIONE CONVEGNI
8 febbraio 2013 dalle 14:00 - Circolo dei lettori - Via Bogino, 9 – Torino
I Love Trademarks. Il marchio tra diritto ed economia
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
162
INFORMAZIONE CONVEGNI
14 febbraio 2013 dalle 10:00 alle 13:00
Le ristrutturazioni aziendali come strumento per tornare al valore
Università Commerciale Luigi Bocconi
Aula Magna via Gobbi, 5 - Milano
Programma
15 febbraio 2013 dalle 09:00 alle 17:30
Selected Topics on Corporate Income Taxpayers
Università Commerciale Luigi Bocconi
Room N06, Piazza Sraffa, 13 - Milano
Programma
IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013
163
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