dizionario giuridico - Ordine dei Dottori Commercialisti e degli
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Anno 11 – Numero 3 6 febbraio 2013 NORMATIVA, GIURISPRUDENZA, DOTTRINA E PRASSI IL NUOVO DIRITTO DELLE SOCIETÀ D IRETTA DA O RESTE C AGNASSO C OORDINATA DA E M AURIZIO I RRERA G ILBERTO G ELOSA IN QUESTO NUMERO: • CONCESSIONE E REVOCA “ABUSIVA” DEL CREDITO • AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE • PROFESSIONISTA DISTRATTARIO ItaliaOggi DIREZIONE SCIENTIFICA Oreste Cagnasso – Maurizio Irrera COORDINAMENTO SCIENTIFICO Gilberto Gelosa La Rivista è pubblicata con il supporto degli Ordini dei Dottori commercialisti e degli Esperti contabili di: Bergamo, Biella, Busto Arsizio, Casale Monferrato, Crema, Cremona, Lecco, Mantova, Monza e Brianza, Verbania NDS collabora con la rivista: SEZIONE DI DIRITTO FALLIMENTARE a cura di Luciano Panzani SEZIONE DI DIRITTO INDUSTRIALE a cura di Massimo Travostino e Luca Pecoraro SEZIONE DI DIRITTO TRIBUTARIO a cura di Gilberto Gelosa SEZIONE DI PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E IMPRESA a cura di Marco Casavecchia SEZIONE DI TRUST E NEGOZI FIDUCIARI a cura di Riccardo Rossotto e Anna Paola Tonelli COMITATO SCIENTIFICO DEI REFEREE Carlo Amatucci, Guido Bonfante, Mia Callegari, Oreste Calliano, Maura Campra, Matthias Casper, Stefano A. Cerrato, Mario Comba, Maurizio Comoli, Paoloefisio Corrias, Emanuele Cusa, Eva Desana, Francesco Fimmanò, Toni M. Fine, Patrizia Grosso, Javier Juste, Manlio Lubrano di Scorpaniello, Angelo Miglietta, Alberto Musy, Gabriele Racugno, Paolo Revigliono, Emanuele Rimini, Marcella Sarale, Giorgio Schiano di Pepe COMITATO DI INDIRIZZO Carlo Luigi Brambilla, Alberto Carrara, Paola Castiglioni, Luigi Gualerzi, Stefano Noro, Carlo Pessina, Ernesto Quinto, Mario Rovetti, Michele Stefanoni, Mario Tagliaferri, Maria Rachele Vigani, Ermanno Werthhammer REDAZIONE Maria Di Sarli (coordinatore) Paola Balzarini, Alessandra Bonfante, Maurizio Bottoni, Mario Carena, Marco Sergio Catalano, Alessandra Del Sole, Massimiliano Desalvi, Elena Fregonara, Sebastiano Garufi, Stefano Graidi, Alessandro Monteverde, Enrico Rossi, Cristina Saracino, Marina Spiotta, Maria Venturini HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO Luca Caravella, Marco Casavecchia, Giulia Garesio, Andrea Pessina, Mauro Pizzigati Errata Corrige del numero 2/2013 Il titolo corretto del contributo di Alessandro Bollettinari, pubblicato nel numero 2/2013, pag. 9 è: “Il crowdfunding: la raccolta del capitale tramite piattaforme online nella prassi e nella recente legislazione” SOMMARIO pag. DIZIONARIO GIURIDICO Brevi cenni sull'ordinamento giuridico inteso come un insieme strutturato di norme giuridiche. Parte prima di Marco Casavecchia 9 STUDI E OPINIONI Noterelle minime sulla concessione “abusiva” e sulla revoca “abusiva” del credito di Mauro Pizzigati 80 Lo stato dell’arte in tema di amministrazione di società semplice di Giulia Garesio 90 COMMENTI A SENTENZE Quando l’economia (anche) processuale si sposa con la volontà del legislatore di Luca Caravella 128 FISCALITÀ Il professionista distrattario non ha diritto all’IVA da parte del soccombente in giudizio di Andrea Pessina 144 SEGNALAZIONI DI DIRITTO COMMERCIALE 157 SEGNALAZIONI DI DIRITTO TRIBUTARIO 160 INFORMAZIONE CONVEGNI 162 MODALITÀ DI ABBONAMENTO 164 IL NUOVO DIRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 4 SOMMARIO DIZIONARIO GIURIDICO Brevi cenni sull'ordinamento giuridico inteso come un insieme strutturato di norme giuridiche. Parte prima L’Autore, facendo seguito al precedente scritto intitolato “L’Ordinamento giuridico. Introduzione”, pubblicato nel n 1 del 2013, riassume, in termini semplificati, la tesi per la quale il diritto in senso oggettivo può esser inteso come un “ordinamento strutturato di norme giuridiche”. Sono poi svolte alcune considerazioni aventi ad oggetto l’ordinamento giuridico italiano. di Marco Casavecchia STUDI E OPINIONI Noterelle minime sulla concessione “abusiva” e sulla revoca “abusiva” del credito L’Autore tratta il tema della “concessione abusiva di credito” nella prospettiva della eventuale responsabilità della banca che abbia concesso credito ad un imprenditore che versi in una situazione di grave difficoltà o di insolvenza, tenendolo artificiosamente “in vita”. di Mauro Pizzigati Lo stato dell’arte in tema di amministrazione di società semplice Le disposizioni codicistiche relative all’amministrazione della società semplice – immutate all’esito della riforma del diritto societario – offrono lo spunto per una disamina dell’evolversi delle decisioni giurisprudenziali e delle interpretazioni elaborate in dottrina, soffermandosi in particolare sulle questioni ancora aperte. di Giulia Garesio COMMENTI A SENTENZE Quando l’economia (anche) processuale si sposa con la volontà del legislatore L’Autore condivide la soluzione del Tribunale di Roma, ispirata al giusto compromesso tra la valutazione dei costi professionali e dei tempi processuali e, in mancanza di requisiti minimi della domanda, e la tutela dei creditori, proprio in osservanza del dato normativo valutato nel suo complesso. Infatti, sia l’inesistenza di una contraria regola giuridica e sia l’inesistenza di una qualche utilità impongono, in alcuni casi ossia laddove i fatti sconfessano ogni prognosi futura, una seria riflessione sull’applicazione formalistica della legge. Infine, l’autore critica la pronuncia della Corte capitolina sulle conseguenze processuali da essa generate. di Luca Caravella IL NUOVO DIRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 5 SOMMARIO FISCALITÀ Il professionista distrattario non ha diritto all’IVA da parte del soccombente in giudizio Con due recenti pronunce la Corte Suprema di Cassazione si è nuovamente espressa sul tema dell’obbligo di corresponsione dell’Iva esposta in parcella dal professionista distrattario che in forza della sentenza di condanna deve ottenere il rimborso delle spese e degli onorari di difesa direttamente dalla parte soccombente in giudizio ai sensi dell’art. 93 del Codice di Procedura Civile. Ai fini del tributo, la differente qualificazione soggettiva della parte vittoriosa in giudizio determina soluzioni operative che coinvolgono anche altri soggetti interessati dal procedimento in corso: il difensore con procura e il terzo soccombente. di Andrea Pessina IL NUOVO DIRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 6 INDEX-ABSTRACT Page DICTIONARY LAW S ome Insights about the Legal S ystem Understood as a S tructured S ystem of Legal Rules. Part One The Author, following the previous paper entitled “The Legal System. Introduction”, published in this Journal (issue No. 1, 2013), summarizes the argument for which the law can be understood as a “structured system of legal rules”. Some considerations concerning the Italian legal system are then carried out. by Marco Casavecchia STUDIES AND O PINIONS S ome Considerations about Giving and Revoking “Abusive” Credit The Author deals with the topic of “abusive issuance of credit” intended as the liability of the bank that has granted credit to a entrepreneur which is facing a situation of great difficulty or insolvency, keeping him artificially “alive”. by Mauro Pizzigati The S tate of the Art in the Discipline of the Administration of S imple Partnership The provisions of the Civil Code related to the administration of the simple partnership - unchanged by the reform of company law - may provide a starting point for a discussion of the evolution of case law and doctrine, with particular emphasis on some still outstanding issues. by Giulia Garesio COMMENTS ON JUDGMENTS The meeting between the lawmaker’s will and the principle of “economia processuale” The Author shares the decision issued by the Court of Rome, inspired to the compromise between an evaluation of the costs as well as the time of the proceedings and the creditors’ protection, considering the legal provision in its whole meaning. In some cases the lack of an adverse legal provision and the lack of any utility, requires a serious reflection about the law’s formal application. The Author criticizes the decision issued by the Court of Rome in the light of the procedural consequences that it generated. by Luca Caravella 8 79 89 127 IL NUOVO DIRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 7 INDEX-ABSTRACT TAX LAW The so-called “professionista distrattario” has no right to receive I.V.A. by the losing party The Supreme Court has recently decreed, with two important decisions, about the duty to remit the I.V.A. presented with the parcel by the “professionista distrattario”. by Andrea Pessina 143 IL NUOVO DIRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 8 DIZIONARIO GIURIDICO BREVI CENNI SULL'ORDINAMENTO GIURIDICO INTESO COME UN INSIEME STRUTTURATO DI NORME GIURIDICHE. PARTE PRIMA L’Autore, facendo seguito al precedente scritto intitolato “L’Ordinamento giuridico. Introduzione”, pubblicato nel n 1. del 2013, riassume, in termini semplificati, la tesi per la quale il diritto in senso oggettivo può esser inteso come un “ordinamento strutturato di norme giuridiche”. Sono poi svolte alcune considerazioni aventi ad oggetto l’ordinamento giuridico italiano. di MARCO CASAVECCHIA 1.1. Il diritto come insieme di disposizioni appartenenti al linguaggio prescrittivo. 1.1.1. Il diritto, come già detto, è un insieme di norme o "regole" dell’agire umano. Scrive, ad esempio, N. Bobbio sulle norme: “Un uomo passeggia in un giardino. S’imbatte in un cartello che reca scritto: “E’ proibito calpestare l’aiuola”. Si ferma un momento. Gli sarebbe stato comodo attraversarla per giungere più rapidamente dall’altra parte. M a non l’attraversa e allunga, se pure a malincuore, il cammino. Intanto, finito di leggere il giornale, sta per gettarlo in terra, quando ricorda di aver visto un cestino con su scritto: “Rifiuti”. Torna indietro a suo dispetto e ve lo butta dentro. In un brevissimo spazio di tempo il comportamento di quell’uomo è stato sottoposto a due modificazioni di segno opposto dovute ad un segnale esterno. Nel primo caso è stato indotto a fare quello che non avrebbe voluto. In entrambi i casi si dice che il comportamento è stato guidato o condizionato o limitato, o anche soltanto modificato, da una norma. Pur nella loro estrema semplicità, i due casi mostrano che una norma può modificare il comportamento principalmente in due modi: o ostacolando, cioè inducendo una persona a non fare quello che in assenza della norma avrebbe fatto, o sollecitandolo a fare quello che, in assenza della norma, non avrebbe fatto”1. 1 N. BOBBIO , Contributi ad un dizionario giuridico, v. “ NORMA”, Torino, 1994, p. 177-179. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 9 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO Le norme, lo si vedrà meglio in seguito, costituiscono il "significato" di un certo tipo di "discorso" denominato “linguaggio prescrittivo” che, in via prioritaria, il "potere legislativo" e, in via subordinata, il “potere esecutivo”, rivolgono a tutti o a parte dei "soggetti" di un determinato Stato: come tale il diritto è veicolato da leggi (emanate normalmente dal potere legislativo) e da regolamenti (emanati di regola dal potere esecutivo). Le norme sono altresì date da altre fonti: ad esempio dai Regolamenti e dalle direttive della Comunità europea (CE), dagli atti amministrativi, dalle consuetudini, dall’attività contrattuale e non (es. testamenti) dei privati, dalle sentenze dei giudici eccetera. Il che equivale a dire che il diritto, pur espresso (e, a volte, legittimato) dalle leggi e dai regolamenti, non coincide né con le leggi né con i regolamenti né con altra fonte. Le leggi e i regolamenti sono scritti in una certa lingua, in italiano per il nostro ordinamento: come tali sono costituiti da frasi costruite secondo le regole della grammatica e della sintassi. Tali frasi, normalmente raggruppate in titoli, capi, articoli e commi, costituiscono nel loro insieme e in quanto appartenenti a una certa legge o a un certo regolamento un testo normativo. Siccome i testi normativi sono emanati dal potere legislativo e, a volte, dal potere esecutivo, si asserisce che i medesimi sono il linguaggio con cui si esprime il legislatore (chi legifera, sia esso il potere legislativo o quello esecutivo): sono cioè il discorso di chi ha il potere di emanare norme. Però una cosa è il linguaggio come complesso di segni costruiti e coordinati secondo le regole della grammatica e della sintassi, altra cosa è il significato di tale linguaggio. Una cosa è la frase: “Chiudi la porta”, altra è la regola, la norma che da tale frase deriva. Quindi le leggi e i regolamenti sono testi normativi nel senso di insiemi di frasi scritte in una certa lingua, il diritto è il significato di tali testi. Siccome compito del legislatore è quello di dirigere la condotta degli uomini e cioè di dettare delle regole o norme con le quali “obbliga” a fare o “vieta” di fare, e quindi di “prescrivere” una certa condotta, si dice anche che il linguaggio (o discorso) del legislatore è di tipo “prescrittivo”. Stessa considerazione si può fare per i regolamenti e le direttive CE, per l’attività amministrativa delle Pubbliche Amministrazioni (PP.AA), per l’attività dei privati che creano regole tra di loro, eredi e terzi (si dice tra di loro, eredi ed aventi causa), per le sentenze eccetera. Il diritto è creato anche dagli usi. Questi non consistono in un linguaggio prescrittivo, ma in comportamenti segnici prescrittivi di eguale valenza: gli usi o consuetudini consistono nel fatto che gruppi di persone si comportano con regolarità in un certo modo in casi ben determinati (seguono regole di condotta non scritte) con la IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 10 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO convinzione che il comportarsi in quel modo significhi seguire regole o norme (non scritte) di diritto2. 1.1.2. Il diritto, come già detto, in quanto costituito da discorsi prescrittivi, è apparentato con la morale, con le disposizioni che impongono, in ciascun ambiente, certe regole di comportamento, di cortesia eccetera. Come tale si contrappone al linguaggio descrittivo tipico delle discipline scientifiche o comunque di ogni discorso che afferma o nega certi fatti del mondo, della realtà. Si contrappone, altresì, al linguaggio espressivo tipico dell'arte 3. 1.1.2.1. Il linguaggio descrittivo consiste in "proposizioni" rispetto alle quali è possibile asserire che le stesse sono "vere" o "non vere". Esempio: la proposizione (frase): "Oggi 20-3-2012 piove" afferma esservi un fatto che può essere "vero" o "falso". Quello prescrittivo consiste in enunciati rispetto ai quali la domanda precedente ("E' vero l'enunciato x?") non ha senso. Esempio: l'enunciato: "Se qualcuno uccide è punito con la pena di morte" non è né vero né falso. Può solo essere "valido" o non "valido" e cioè essere una disposizione di diritto in vigore oppure abrogata 4. 2 Il linguaggio fa parte dei comportamenti segnici. Un alieno, per capire le regole del diritto scritto di un dato popolo, deve imparare la lingua di quel popolo, interpretarla, e individuarne così le norme. Nel caso di usi, lo stesso alieno può capirne le norme dalla regolarità del comportamento di quel popolo in casi ben determinati. Esempio: se un gruppo di persone punisce sempre chi ruba con una pena proporzionata al furto, l’osservatore esterno può capire che la regola di quel gruppo di persone è questa: “ Chi ruba viene punito”. Quindi la medesima norma (“ Chi ruba viene punito”) può essere contenuta nella frase scritta in lingua italiana e della forma “ Chi ruba viene punito” ovvero nel comportamento ripetuto di punire chi ruba. 3 Il linguaggio espressivo delle opere d’arte letterarie, in una realtà fortemente fittizia, miscela vari tipi di linguaggio: consigli, comandi, preghiere, descrizioni ecc. Le asserzioni -ad esempio contenute nell’Amleto di Shakespeare per le quali Ofelia è figlia di Polonio- si prestano ad essere controllate secondo il criterio del “ vero” e del “falso”. E cioè, in quel “ mondo” (nel mondo in cui si svolge l’azione scenica della tragedia “ Amleto”) corrisponde a verità che Ofelia è figlia di Polonio (v.si: L. DOLOZEL , Heterocosmica. Fiction e mondi possibili, Bompiani 1999). 4 V.si, per la “ grande divisione” tra linguaggio descrittivo e prescrittivo, U. SCARPELLI, Scienza del diritto e analisi del linguaggio, Riv. dir. comm., 1948, pagg. 212-216 e L’etica senza verità, Il Mulino, 1982. Contesta tale distinzione H.P UTNAM in “ Fatto/valore”. Fine di una dicotomia, Fazi Editore, 2004. La grande divisione risale a D. HUME per il quale: “ Nessun deve può essere derivato da un è”. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 11 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO 1.2. Il diritto e le norme. Vari tipi di norme. I principi (nel nostro ordinamento e in quello comunitario). Le definizioni. 1.2.1. Il diritto, come insieme di disposizioni prescrittive (D), esprime delle regole, delle norme (N). Le norme sono il significato delle disposizioni prescrittive: come tali sono delle entità ideali, sono veicolate dalle frasi del discorso prescrittivo. Nel linguaggio descrittivo si ha una specie di triangolo semiotico: (1) una serie di segni (es.: la frase "Tutti gli uomini sono bipedi" è costituita da una serie di lettere o, se si vuole, di parole scritte in lingua italiana); (2) una serie di concetti o di significati (gli "uomini", l'avere "due piedi"); (3) un riferimento a una realtà concreta (gli uomini in carne ed ossa con i loro due piedi). Nel linguaggio descrittivo il mondo della natura, della realtà al di fuori di noi, potrebbe anche essere concepito, in una visione religiosa, come “linguaggio di Dio” (L1) e la scienza come “linguaggio sul linguaggio di Dio” (come L2). IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 12 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO Il triangolo semiotico, nel linguaggio de scrittivo, è costituito come segue: ↓ 1 significante o segno: es.: la parola mela 2 significato o concetto La parola mela veicola il concetto, l’immagine, di tutte le mele di questo mondo 2 1 3 refe rente: il significato di mela rimanda alle concrete mele come oggetto 3 Nel linguaggio prescrittivo sembra esserci solo: (1) una serie di segni (l'enunciato, ad esempio, che suona così: "Se qualcuno uccide è punito con la pena di morte"); (2) la regola o norma che, come significato della frase sopra trascritta, vieta di uccidere. La norma (N), quindi, è veicolata dalla disposizione prescrittiva (D). Per pervenire poi alla norma (N), occorre interpretare (I) la disposizione prescrittiva (D). Il viaggio da disposizioni (D) al loro significato (N) passa sempre attraverso l'interpretazione (I): quindi D I N. Nel linguaggio prescrittivo si “fanno cose (le norme) con le parole (le disposizioni)”: non si ha L2 su L1, bensì L (linguaggio) che crea N. 1.2.2. Le norme che costituiscono l'insieme del diritto sono di vari tipi. Si hanno le norme: (1) di condotta (es.: "Se rubi sarai punito con la pena x"); (2) di organizzazione o costitutive (tutte le norme che definiscono, costituiscono la struttura di uno Stato: es.: "L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro" [art. 1 della Costituzione]; "Il Parlamento si compone della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica" [art. 55 Cost.] eccetera)5; 5 La nozione di regole costitutive (constitutive rules) in contrapposizione alle regole regolanti o regolative (regulative rules) risale, in specifico, a G. SEARLE (v. Atti linguistici: saggio di filosofia del linguaggio, Torino, 1992, pagg. 61-71, 238 e segg.). In Italia si sono occupati di regole costitutive G.CARCATERRA (v.si nel volume "Il linguaggio del diritto" a cura di IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 13 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO U.SCARP ELLI e P. DI LUCIA , LED, 1994, il saggio Norme costitutive, pagg. 219 e segg.) e, soprattutto, A.G. CONTE . Quest'ultimo autore (in Regola costitutiva, condizione, autonomia, in AA.VV. a c ura di U.SCARP ELLI, La teoria del diritto: problemi e tendenze attuali, Milano, 1983) individua, nell'ambito delle regole costitutive contrapposte a quelle regolative: * una prima dicotomia, nel senso che apparterrebbero alla categoria delle regole costitutive, sia: (a) le regole eidetico-costitutive, che (b) le regole thetico-costitutive poi * una seconda dicotomia nel senso che le regole sub (a) si distinguerebbero in: (a.1) regole eidetico-costitutive deontiche e (a.2) regole eidetico-costitutive ontiche, successivamente: * una terza dicotomia nel senso che le regole sub (a.1) si distinguerebbero in (a.1.1) regole eidetico-costitutive deontiche paradigmatiche e (a.1.2) regole eidetico-costitutive deontiche sintagmatiche infine * una quarta dicotomia nel senso che anche la categoria delle regole sub (a.2) si suddividerebbero ulteriormente. Dice A.G. CONTE : «Entro le regole eidetico-costitutive ontiche quali sono trattate da John R.Searle, io ho segnalato una filosoficamente rilevante eterogeneità. Il test per rivelare la loro eterogeneità mi è stato ispirato da Searle stesso. Come è noto, le "constitutive rules" possono ultimamente ridursi alla forma standard 'X counts as Y' (in italiano: 'X ha valore di Y'). Ebbene, è proprio la traduzione in forma standard a rivelare che le "constitutive rules" di Searle non sono omogenee. Quella regola costitutiva della promessa della quale parla Searle ('To make a promise is to undertake an obligation) è regola sul valore (sul senso) dell'atto: promessa. Essa è regola sul valore di assunzione d'un obbligo che la promessa ha. La sua parafrasi nella forma standard ('X ha valore di Y') è: 'La promessa ha valore (senso) di assunzione d'un obbligo'. In questa parafrasi, il termine 'promessa' occupa la posizione X. Invece, quella regola costitutiva dello scacco matto della quale parla Searle ('A checkmate is made when the king is attacked in such a way that no move will leave it unattacked') non è una regola sul valore che lo scacco matto ha, ma è regola su che cosa ha valore di scacco matto. La sua parafrasi in forma standard è: 'Ogni scacco, al quale il re non possa sottrarsi attraverso alcuna mossa, ha valore di scacco matto'. In questa parafrasi, il termine 'scacco matto' occupa la posizione Y. Se ridotte in forma standard, queste due regole appaiono non omogenee. La prima è una Xregola; la seconda è una Y-regola. Questa mia distinzione tra X-regole ed Y-regole è una distinzione puramente strutturale. Infatti, è ovviamente possibile una regola, sullo scacco matto, nella quale 'scacco matto' occupi la posizione X (ad esempio, 'Lo scacco matto ha valore di sconfitta'). E, simmetricamente, è possibile un regola, sulla promessa, nella quale 'promessa' occupi la posizione Y (ad esempio, 'Dire 'Io prometto di fare p' ha valore di promessa') ». Nel par. 2 A.G. CONTE rielabora i concetti di regole costitutive (eidetico-costitutive e thetico costitutive) in "termini di condizione" (trattasi, se non erro, delle suddivisioni di G.M. AZZONI IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 14 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO (2.1) di riconoscimento (e cioè le norme che permettono di riconoscere che certe norme appartengono al diritto italiano. Es.: quelle che dicono come entrano in vigore le leggi [per l'art. 10 delle preleggi al c.c.: "Le leggi e i regolamenti divengono obbligatori nel decimo quinto giorno successivo a quello della loro pubblicazione"] o quelle che dicono come muoiono le leggi [per l'art. 15 delle preleggi al c.c.: "Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore"]); (2.2) di interpretazione di norme o metanorme (in quanto norme che hanno ad oggetto altre norme. Es.: per l'articolo 12 delle preleggi al c.c.: "Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore. Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i princìpi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato" eccetera). (Le norme di riconoscimento e di interpretazione appartengono latamente alle norme di organizzazione); (3) di azione (consistenti, ad esempio, in comandi o consigli che il potere legislativo rivolge al potere esecutivo) e di relazione (es.: le norme che disciplinano la condotta dei vari soggetti dell’ordinamento). (Le norme di azione appartengono, per certi versi, alle norme di organizzazione e, per altri, a quelle di condotta. Le norme di relazione sono tipicamente norme di condotta); elencate dalla MORTARA GARAVELLI nel volume “ Le parole e la giustizia – Divagazioni grammaticali e retoriche su testi giuridici italiani”, Einaudi, alle pagg. 74-75 e di quelle, applicate all'urbanistica, utilizzate da G.MORONI, Urbanistica e regolazione, Franco Angeli 1999, pagg. 129 e segg.). A.G.CONTE , nel saggio citato distingue ancora le regole anancastiche dalle regole eideticocostitutive deontiche. In un altro saggio (Fenomenologia del linguaggio deontico, in "Il linguaggio del diritto" cit., pag. 387 e segg.), A.G.CONTE , facendo la storia delle regole costitutive (v. par. 1.2) e dopo aver ribadito le tradizionali distinzioni nell'ambito delle regole eidetico-costitutive, a proposito delle regole anankastiche (qui si usa la "k"), parla di regole stocastiche, regole praxeologiche e regole praxeonomiche. Distingue, infine, le regole anankastico-costitutive da quelle semplicemente anankastiche, per poi contrapporre le regole anankastico-costitutive a quelle eidetico-costitutive (par. 3.3). (Per le problematiche sulle regole costitutive [e relativa bibliografia] si rinvia al volume di C. ROVERSI, Costituire. Uno studio di ontologia giuridica, Torino, 2012). IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 15 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO (4) primarie e secondarie (nell’ambito delle norme di condotta sarebbe primaria la prescrizione: “Non uccidere” e secondaria l’altra parte della prescrizione: “Se uccidi sarai punito”); (5) programmatiche e immediatamente precettive (le prime, normalmente di azione, abbisognano dell’intervento di qualche altro potere che provveda ad attuare il “programma” delineato –il più delle volte genericamente- in dette norme; le seconde già contengono, invece, un precetto che non ha bisogno di altre ulteriori norme per la sua applicabilità); (6) norme tecniche (di recepimento di regole tecniche nei più vari campi: es.: norme tecniche per l’edilizia) 6; (7) norme di semplice indirizzo o raccomandazioni (che costituiscono un “minus” rispetto alle stesse norme programmatiche di cui molte contenute, ad esempio, nella Costituzione italiana); (8) inclusive ed esclusive (se ne parlerà sub 1.5.3.). 1.2.3. Si è parlato, sin qui, di norme. Accanto a queste si collocano i “principi”. Questi, il più delle volte, sono norme inespresse le quali giustificano il ricorso all’analogia legis e/o iuris (art. 12 delle “preleggi” al c.c.). Come tali non sono che norme o metanorme. Vi sono però dei principi che costituiscono non delle norme o delle metanorme, bensì dei valori. Questi non consistono in regole che costituiscono delle entità o in regole che disciplinano una certa condotta: consistono in entità ideali che “informano” l’intero ordinamento giuridico. I valori di libertà, di giustizia -seppur dal significato vago- aiutano a interpretare le norme: si collocano, accanto alle metanorme, come criteri interpretativi delle norme e fondano l’equità, la “mitezza” dell’ordinamento giuridico. L’esistenza dei principi viene evidenziata, il più delle volte, allorquando si ha un caso concreto che deve essere inquadrato in una qualche norma giuridica. In tal caso è possibile riportare il caso concreto x nell’ambito di previsione della disposizione normativa D1 o di quella D2: non solo: normalmente, se si sceglie di riportare x nell’ambito di operatività di D1, rimane ancora da compiere un’operazione: quella di attribuire a D1 il significato S1 o S2 (e, quindi, costruire la regola N1 o quella N2). Nonostante le norme di interpretazione delle norme e/o dei contratti rimane normalmente dubbio se x va rapportato a D1 o D2, e se a D1, ancora se quest’ultima disposizione ha il significato S1 o S2. E’ ovvio come, in tali casi, la scelta avviene alla luce non di norme o di metanorme, bensì di principi (di libertà, di giustizia, di equità ecc.). Ciò è tanto vero da giustificare teorie generali del diritto che affermano essere il 6 Sulle regole tecniche, v.si G.P.M. AZIONI, Cognitivo e normativo; il paradosso delle regole tecniche, Angeli 1991, Regole tecniche, Digesto, IV, ed. UT ET , Torino, Vol. XVI, 1997; S. MORONI, Urbanistica e regolazione, Angeli 1999, 140 e segg. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 16 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO diritto oggettivo un insieme di regole strettamente collegate, da un parte, ai fatti economici e, dall’altra, all’ideologia. E l’ideologia -termine esso pure vago- può, a seconda dei casi, privilegiare i valori di libertà rispetto a quelli di giustizia (liberalismo e liberismo) o i valori di giustizia rispetto a quelli di libertà (socialismo e economia mista) o, ancora, altri valori (quelli religiosi, quelli laici di un certo tipo ecc.). I principi stanno apparentemente al di fuori dell’ordinamento giuridico in senso stretto, se questo viene inteso come un insieme strutturato di norme: appartengono all’ordinamento etico, religioso, culturale, ideologico: però collegano l’ordinamento giuridico al “resto” dell’attività umana e quindi ne fanno parte rendendo “impuro” l’ordinamento giuridico 7. Si può anche dire che i “principi” sono norme “aperte”, mentre le norme in senso stretto sono “chiuse”. Dal punto di vista funzionale, le regole giuridiche agiscono nel ragionamento pratico come ragioni perentorie e indipendenti dal contenuto (la caratterizzazione è ripresa da HART , 1982). Le regole sono ragioni perentorie (ragioni protette nelle terminologia di RAZ, 1979, 1990) nel duplice senso che sono ragioni di primo ordine per compiere l’azione prescritta e ragioni di secondo ordine (ragioni escludenti) per escludere qualsivoglia decisione del destinatario della norme intorno agli argomenti pro e contro il compimento dell’azione in questione. Sono inoltre ragioni indipendenti dal contenuto, poiché il loro carattere perentorio dipende dal fatto che hanno origine o fonte nell’autorità normativa che le ha promulgate. Per contro, i principi non sono ragioni perentorie, poiché non escludono ogni decisione da parte del destinatario della norma; sono solo ragioni di primo ordine, che indirizzano il corso di azione, ma entrano nella decisione dell’agente insieme con altre ragioni (altri principi), e che possono pertanto essere superate nel bilanciamento delle ragioni. Forse a questo proposito si potrebbe usare un’analogia (ALCHOURRÒN, 1993). Nell’ambito della filosofia morale, è stato sostenuto che una difficoltà notevole dell’etica kantiana giace nella sua configurazione dei doveri morali come doveri assoluti. Così, ad esempio, se c’è un dovere morale di dire la verità, allora in qualunque circostanza è moralmente obbligatorio dire la verità. In questo caso, il dovere morale di dire la verità si comporta come una regola, assolutamente opaca (per la distinzione tra opacità e trasparenza delle regole, si veda REGAN, 1989) di fronte ad altri doveri che possono entrare in conflitto con il dovere di dire la verità. Non importa ora che questo dovere sia configurato come categorico (nel particolare senso kantiano). E’ comunque possibile formulare una regola condizionale che dica pressappoco: “Ogniqualsivolta tu 7 Sui principi: v.nsi: G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, Torino, 1992, 147 e segg.; N. BOBBIO, Contributi ad un dizionario giuridico ... v. “PRINCIPI” 1994, 257 e segg.; G. ALPA , I principi generali, Milano Giuffrè, 1993. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 17 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO faccia un’osservazione, devi dire ciò che credi vero”. Dato che questa posizione pare insoddisfacente, alcuni filosofi morali (cfr. ROSS , 1930) hanno sostenuto che i doveri morali sono non doveri assoluti, bensì doveri prima facie, che possono cioè entrare in conflitto con -ed essere superati da- altri doveri morali. Per esempio: nel 1940, a Berlino, un tedesco benevolo di classe elevata nasconde in casa un amico ebreo; un giorno, egli prende il tè con un alto dirigente della Gestapo, e questi gli domanda se per caso egli sappia qualcosa proprio di quell’ebreo che nasconde; ebbene, una morale che esigesse dal nostro buon prussiano una risposta sincera ci parrebbe una morale spregevole. Per questa ragione, il dovere morale di dire la verità è non un dovere assoluto, ma un dovere prima facie, che si comporta come un principio, del tipo: “Ogniqualvolta tu faccia un’asserzione, e non vi sia un principio concorrente che superi il dovere morale di dire la verità (ad esempio, il principio secondo cui si deve proteggere la vita di un innocente) devi dire ciò che credi vero”. Questa analogia ci consente di approfondire meglio la differenza logica tra regole e principi. Le regole possono essere concepite come enunciati condizionali classici. I principi, invece, si comportano non come condizionali classici, bensì come condizionali superabili (defeasible conditionals) che offrono solo ragione di prima facie. Un sistema di regole è dunque, un sistema di doveri condizionali non superabili. Un sistema di principi, per contro, è un sistema di doveri condizionali superabili 8. 1.2.4. (a) I principi, nel nostro ordinamento giuridico, sono richiamati nell’articolo 12 delle “preleggi” al codice civile. Esempi di principi sono quelli della “intangibilità della persona”, della “tutela della salute”, del “valore della famiglia”, della “eguaglianza dei coniugi”, della “tutela dei minori”, della “tutela della proprietà”, della “libertà contrattuale”, del “rischio di impresa” eccetera. A volte i principi sono espressi con brocardi latini: “fraus omnia corrumpit”, “mala fides superveniens non nocet”, “servitus in faciendo consistere nequit”, “Pacta sunt servanda”, eccetera 9. (b) Nell’ordinamento comunitario, si possono menzionare i seguenti principi: (b.1) I principi generali di diritto relativi a ogni sistema giuridico, in particolare quelli comuni desunti dagli ordinamenti degli Stati membri e recepiti nell’ordinamento comunitario, che rappresentano il comune sostrato giuridico dell’ordinamento integrato: * principio di legalità, rispetto dei diritti della difesa e diritto al contraddittorio; * rispetto della riservatezza; * certezza del diritto (il quale impone che, tanto le norme comunitarie quanto le norme degli Stati membri, nelle materie disciplinate dal diritto comunitario, devono 8 J.J. MORESO, Come far combaciare i pezzi del diritto, in Analisi e diritto 1997, Torino, 1998, 81. 9 G. ALPA, op. cit. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 18 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO essere formulate in modo non equivoco al fine di consentire ai soggetti interessati di conoscere i loro diritti e obblighi in modo chiaro, preciso e prevedibile); * non retroattività degli atti amministrativi; * rispetto dei diritti quesiti; * buona fede (che si impone anche alle istituzioni); * legittimo affidamento (secondo cui gli amministrati devono poter contare sul mantenimento di una situazione giuridica di fronte a una sua modifica improvvisa che non potevano ragionevolmente aspettarsi, oppure quando il comportamento dell’istituzione ha fatto sorgere nell’interessato un’aspettativa ragionevolmente fondata o rispetto a una prassi nazionale non conforme al diritto comunitario); * arricchimento senza causa; * forza maggiore; * proporzionalità (per cui la sanzione di un obbligo comunitario deve essere appropriata e necessaria per raggiungere il fine perseguito; e in caso di misure alternative sia adottata quella che impone oneri minori). (b.2) I principi generali propri del diritto comunitario, attinenti in modo specifico a questo ordinamento, ricavati cioè in modo autonomo dal sistema dei testi scritti, in quanto ritenuti espressione di regole più generali, o desunti dalla stessa natura, struttura e finalità dell’Organizzazione: * solidarietà (che lega gli Stati membri e alla quale essi devono uniformare i loro comportamenti); * leale cooperazione (che impone agli Stati membri di assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dal diritto comunitario e astenersi da qualsiasi misura che possa compromettere la realizzazione degli scopi del Trattato); * responsabilità dello Stato membro (per danni derivanti agli individui dalla violazione ad esso imputabile di un obbligo comunitario); * preferenza comunitaria (che, tuttavia, trova applicazione solo nei limiti delle finalità del Trattato); * equilibrio istituzionale; * mutuo riconoscimento; * effetto diretto, effetto utile (che impone un’applicazione dell’atto comunitario funzionale al raggiungimento della finalità perseguita); * libertà di circolazione delle persone e libero esercizio delle attività professionali; * libertà di concorrenza e di esercizio delle attività economiche (che può tuttavia trovare limitazioni giustificate dal perseguimento di un interesse generale della Comunità); * non discriminazione e parità di trattamento, (definito “uno dei principi giuridici fondamentali della Comunità”, tanto in ragione della nazionalità, che del sesso); IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 19 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO * uguaglianza (che vieta di trattare in modo diverso situazioni simili o viceversa); * libertà di religione; * libertà di espressione e di informazione; * libertà di circolazione e di associazione; * inviolabilità del domicilio (che tuttavia non può essere invocato per tutelare l’inviolabilità dei locali commerciali); * diritto di proprietà (che può tuttavia incontrare dei limiti in funzione dell’interesse generale); * rispetto della vita privata e del segreto professionale; * diritto alla tutela giurisdizionale; * diritto a un giusto processo; * non retroattività delle norme penali e riserva della retroattività della legge penale più favorevole; * rispetto dei diritti della difesa; * non discriminazione in ragione del sesso10. 1.2.5. Il diritto comprende anche le definizioni. Queste possono atteggiarsi in due maniere: (1) o consistono in norme di condotta che rinviano a regole tecniche (es.: “Per costruire un ponte devi servirti delle regole tecnico-matematiche del tipo x”); (2) o consistono in regole convenzionali del tipo: “L’ente a è un ente pubblico economico”. Nel primo caso si ha una normale regola di condotta che incorpora una regola tecnica (es.: la normativa tecnica relativa alle varie costruzioni in cemento armato, in legno, in ferro eccetera). Nel secondo caso la definizione parrebbe essere una norma costitutiva del tipo: “L’ente pubblico economico è quell’ente pubblico con le proprietà x, y e z e l’ente a è un ente pubblico economico”. Se, allora, le definizioni giuridiche sono norme 11 non hanno una autonomia loro propria. 1.3. Il diritto e la sanzione Il diritto, per quanto concerne le norme di condotta, all’interno del linguaggio prescrittivo, si distingue dalla morale, dal costume eccetera, per la presenza di sanzioni. Potremmo dire “che carattere delle norme è di essere norme, in confronto di quelle morali e sociali, a efficacia rafforzata. Tanto è vero che le norme giuridiche per eccellenza sono considerate quelle statuali, che si distinguono da tutte le altre norme regolanti la nostra vita perché hanno il massimo di efficacia” 12. 10 da Trattato di diritto amministrativo europeo, diretto da M. CHITI e G. GRECO , Milano 1997, I, 49 e segg. 11 Ma la questione è molto dubbia: v.si: G. T ARELLO , L’interpretazione della legge, Milano, 1980, 153 e segg. 12 N. BOBBIO , Teoria della norma giuridica, Torino, p. 199-200. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 20 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO Normalmente le norme di condotta (e cioè le regole dell’agire umano) dicono che una certa azione (p) è “obbligatoria” (Op = è obbligatorio p), o è “vietata” (O non p = è obbligatorio che non sia p, o è vietato p) o è “permessa” (Pp = è permesso p o P non p = è permesso non fare p) o è giuridicamente “libera” (Pp e P non p = P e non p sono entrambi permessi, ovvero p è giuridicamente libero in quanto indifferente al mondo del diritto). Quando una norma “obbliga” a fare o “vieta” di fare, accompagna la prescrizione con una “sanzione”: es.: “Se non fai ciò che ti è comandato, subisci la sanzione x”, ovvero: “Se fai ciò ti è vietato fare, allora subisci la sanzione x”. (Da qui la struttura delle norme di condotta: “Se p [se non fai p “comandato” o se fai p “vietato”], allora q [subisci q come sanzione])”. Da qui, secondo alcuni teorici, il fatto che il diritto è costituito da norme primarie e secondarie. Ogni norma “di condotta ... parrebbe scindersi in due norme: la direttiva rivolta al privato di attenersi a un certo modello di comportamento e la direttiva rivolta al giudice di esercitare la propria autorità in caso di trasgressione del privato”13. 1.4. Vari punti di vista dai quali studiare il diritto Il diritto è oggetto di studi: (a) storici (es.: storia del diritto romano, italiano, continentale [civil law], anglosassone [common law], eccetera); (b) filosofici (ci si domanda se il diritto, ad esempio, appartiene alla categoria del “dover essere” [in contrapposizione a quella dell’”essere”], quali sono i criteri per giudicare se le norme del diritto sono “giuste” [teoria della giustizia]); (c) esegetici (si studia il diritto per quello che è a prescindere da “giudizi di valore”; si studia il diritto come prodotto, discorso, del “legislatore”); (d) così come può essere oggetto di teorie generali (si costruiscono delle teorie generali che avrebbero la pretesa di essere valide per ogni tipo di diritto. Es.: la teoria dell’ordinamento giuridico o, più in specifico, la teoria dell’atto giuridico, del negozio giuridico, del contratto, dell’atto amministrativo, del procedimento [negoziale o amministrativo]); (e) o di indagini sociologiche (si studia se e in che limiti un certo diritto viene applicato), eccetera 14. 13 E. PATTARO , Lineamenti per una teoria del diritto, CUEB Bologna, 1990, p. 362. (a) Per gli studi storici, a parte le varie storie del diritto romano, v.si: M.ELIA , Origini e funzione del diritto, ERI, 1972; F.SCHULTZ, Storia della giurisprudenza romana, Sansoni, 1953; G.ASTUTI, La formazione dello Stato moderno in Italia, Lezioni di storia del diritto italiano, Torino, I, 1967; R.DAVID , I grandi sistemi giuridici contemporanei, Padova, 1980; M.LOSANO, I grandi sistemi giuridici, Einaudi, 1978; G.MELIS, Storia dell'amministrazione italiana, Il Mulino 1996; A.WATSON, La formazione del diritto civile, Il Mulino 1986; S.M. KELLY, Storia del pensiero giuridico occidentale, Il Mulino 1996; A.CAVANNA , Storia del diritto moderno in Europa, 1, Giuffrè 1982; G.TARELLO , Storia della cultura giuridica moderna, Il Mulino 1976; G. GILMORE , Le grandi epoche del diritto americano, Giuffrè 1991; P.STEIN , I fondamenti del diritto europeo, Giuffrè, 1997. 14 IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 21 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO (b) Per i rapporti con la filosofia -a parte le opere più propriamente filosofiche, nelle quali, forse, non v'è pensatore che non si sia occupato del diritto (compreso M.HEIDEGGER: v.si, ad es.: S.BANCALARI, L'altro e l'esserci. Il problema del Mitsein nel pensiero di Heidegger, in Archivio di Filosofia, Cedam, 2000, pagg. 9 e segg.)- vi è da premettere che le tematiche più propriamente filosofiche sono costituite da teorie sulla giustizia e da teorie generali del diritto. (i) Sul primo versante, si segnalano: N.BOBBIO , Teoria della giustizia, Torino; H.KELSEN, Il problema della giustizia, Einaudi 1998; CH . P ERELMAN, La giustizia, T orino, 1959; A.ROSS, Diritto e giustizia, Einaudi 1958; J. RAWLS, Una teoria della Giustizia, Feltrinelli, 1984; B.BARRY , Teorie della giustizia, Il Saggiatore, 1996. (ii) Sul secondo versante, si segnalano: H.KELSEN , La dottrina pura del diritto, Einaudi, 1966; Teoria generale del diritto e dello Stato ETas Libri, 1966; Socialismo e Stato, De Donato, 1978; Teoria generale delle norme, Einaudi, 1985 (e su Kelsen: M. LOSANO , L'evoluzione della dottrina pura del diritto, Einaudi, 1966; A.CARRINO , Kelsen e il problema della scienza giuridica, ESI, 1987; V.FROSINI, Saggi su Kelsen e CapoGrassi, Giuffrè 1988; F.SCIACCa, Il mito della causalità normativa. Saggio su Kelsen, T orino Giappichelli, 1993; L.GIANFORMAGGIO , Hans Kelsens's legal theory. A diabronic point of wiew, Torino, 1990); H.L.A.HART, Il concetto di diritto, Einaudi 1965; W.H.HOHFELD , Concetti giuridici fondamentali, Einaudi, 1969); A.ROSS, Diritto e giustizia, cit. Critica del diritto e analisi del linguaggio, Il Mulino, 1982; H.KANTOROWICZ, La definizione del diritto, Torino, 1962; V.KNAPP, La scienza del diritto, Laterza, 1978; N.BOBBIO , Teoria della norma giuridica, Giappichelli 1958; Teoria dell'ordinamento giuridico, Giappichelli, 1960; Teoria della scienza giuridica, Giappichelli 1950; Studi per una teoria generale del diritto, Giappichelli 1970; Il positivismo giuridico, Giappichelli, 1979; Il naturalismo e positivismo giuridico, Ed. Comunità, 1984; Dalla struttura alla funzione Ed. Comunità, 1977; Contributi ad un dizionario giuridico, Giappichelli, 1994 (e su N.BOBBIO : AA.VV. [U.SCARP ELLI a cura di], La teoria generale del diritto. Problemi e tendenze attuali. Studi dedicati a N.Bobbio, Ed. Comunità, 1983); M.JORIA.P INTORE , Manuale di teoria generale del diritto, Giappichelli, 1988; S.COTTA , Prospettive di filosofia del diritto, Giappichelli, 1979; G.GAVAZZI, Elementi di teoria del diritto, Giappichelli, 1970, Studi di teoria del diritto, Giappichelli, 1993; F.MODUGNO, Appunti per una teoria generale del diritto, Giappichelli 1998; L.D 'AVACK , Ordine giuridico e ordine tecnologico, Giappichelli 1996; AA.VV. (R.CONTE a cura di), La norma. Mente e regolazione sociale, E.Riuniti, 1991; A.CATELANI, Il diritto come struttura e come forma, Giappichelli, 1998; A.COLONNA , Per la scienza del diritto, E.Arduini, 1938; V.VILLA , Costruttivismo e teorie del diritto, Giappichelli, 1999; Conoscenza giuridica e concetto di diritto positivo, Giappichelli, 1993; AA.VV. 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JORI a cura di], Ermeneutica e filosofia analitica. Due concezioni del diritto a confronto, Giappichelli, 1994). Si se gnalano, poi, i 10 volumi a cura di P.COMANDUCCI e R.GUASTINI, intitolati Analisi e diritto, ricerche di giurisprudenza analitica, Giappichelli (anni 1990-1999). (b.1) Per la storia della filosofia del diritto -a parte studi specialistici (O.VON GIERKE , Giovanni Althusins e lo sviluppo storico delle teorie politiche giusnaturalistiche, Einaudi, 1974; H.W ETZEL, La dottrina giusnaturalistica di Samuel Pufendorf, Giappichelli, 1993; N.BOBBIO, Studi Hegeliani, Einaudi, 1981; AA.VV. (STUCKA , PASUKANIS, VYSINSIKIJ, STROGOVIC), IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 23 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO Non solo: Il diritto è stato (e continua ad essere) studiato in paragone con la matematica (costruzione del diritto more geometrico), con l'informatica, con la logica (sotto il duplice aspetto della logica deontica o delle norme e della logica giuridica o del ragionamento giuridico), con la retorica, con l'economia (per il marxismo il diritto è un aspetto sovrastrutturale dei rapporti economici; attualmente, poi, i rapporti diritto vs. economia sono oggetto di particolari studi negli USA), con la fisica (in particolare con la termodinamica: come "l'entropia è solitamente concepita come una misura del disordine e la seconda legge della termodinamica stabilisce che i sistemi possono soltanto procedere a uno stato di crescente disordine, col passare del tempo l'entropia non può mai diminuire", così "la legislazione più si sviluppa e più diventa caotica"), con la letteratura (sotto il duplice aspetto di law in Literature e Law as Literature e cioè non solo come il diritto viene visto in opere letterarie [in Dickens, ad esempio], ma come insieme di testi interpretabili con gli stessi metodi con i quali si interpreta un testo letterario: negli USA, ad esempio, diversi autori "sottolineano il ruolo educativo della letteratura nella formazione dei giuristi e si pronunciano a favore dell'introduzione della materia del diritto e letteratura nel programma di studi della facoltà di giurisprudenza"), con il linguaggio (dal punto di vista sintattico, semantico e Teorie sovietiche del diritto, Giuffrè, 1964; U.CERRONI, Il pensiero giuridico sovietico, Ed. Riuniti, 1969; Marx e il diritto moderno, Ed. Riuniti, 1962; M.LOSANO , La teoria di Marx e Engels sul diritto e sullo Stato, CLUT, To 1969; G.GUASTINI, Marx dalla filosofia del diritto alla scienza della società, Il Mulino, 1974; D.CAMPANALE , Il diritto naturale tra metafisica e storia, Leibeniz e Vico, Giappichelli, 1988; D.COCCOP ALMERIO , Francesco Carnelutti. Il "realismo giuridico italiano", ESI, 1989; M.A.CATTANEO , Metafisica del diritto e ragione pura. Studio sul "platonismo giuridico" di Kant, Giuffrè, 1984; R.C.VAN CAENEGEM, I signori del diritto. Giuristi stranieri di oggi, Giuffrè, 1991; E.STEIN , Un nuovo diritto per l'Europa, Giuffrè, 1991 - v.nsi: G.FASSÒ, Storia della filosofia del diritto, 4 Volumi, Il Mulino, 1968; A.DE GENNARO , Introduzione alla storia del pensiero giuridico, Giappichelli, 1979. (b.2) Per il formarsi, in Italia, del paradigma pandettistico, v.nsi gli scritti contenuti nella Rivista trimestrale di diritto pubblico, Giuffrè 1989 (dedicati a Vittorio Emanuele Orlando) e P.GRASSI, Scienza giuridica italiana un profilo storico 1860-1950, Giuffrè, 2000. (c) Per la scuola dell'esegesi, v.si: G.T ARELLO, La "scuola dell'esegesi" e la sua diffusione in Italia, in Scritti per il XL della morte di P.E. Benso, Milano, 1969. (d) Per studi sociologici del diritto. V.si R.T REVES, Sociologia del diritto, Einaudi, 1987; CASTELLANO - E.RESTA , Le ipotesi della sociologia del diritto, Laterza 1972; R.BETTINI, Nel diritto amministrativo, F.Angeli, 2000; N.BOBBIO, Pareto e il sistema sociale , Sansoni 1973; P ACE – PALOMBA , L'efficienza della giustizia in Italia e i suoi aspetti economico-sociali, Laterza 1968; E.POGGI, La vicenda dello stato moderno. Profilo sociologico, Il Mulino, 1978, Sociologi; nonché la rivista "Sociologia del diritto", FAE Riviste Srl, Milano. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 24 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO pragmatico), con il denaro, con la teologia, con il gioco, con la morale, con la politica, eccetera 15. 15 (a) Per i rapporti tra diritto e matematica, si riporta quanto scrive E.CASSIRER (La filosofia dell'illuminismo, La Nuova Italia, 1973, pagg. 329 e segg.): "Come per Platone la filosofia del diritto sorge da un reciproco rapporto di diritto ed etica, così il problema del diritto si congiunge nella mente di Ugo Grozio col problema della matematica. Questa sintesi è tipica delle direttive fondamentali del secolo XVII. La matematica costituisce sempre il tramite e lo strumento spirituale per la ricostruzione dell’ “ idea” platonica. Non solo la scienza naturale, ma anche le scienze dello spirito si sono incamminate per questa via. Certo però questo collegamento metodico contiene per la scienza del diritto una conseguenza a prima vista pericolosa e sommamente paradossale. Sembra infatti che ciò che il diritto acquista ora dal punto di vista puramente ideale, debba perdere in quanto riguarda la sua “realtà”, la sua applicazione empirica. Esso passa dall’effettivo, dal reale e attivo, al “possibile”. Il Leibniz non fece altro che trarre la precisa conseguenza da un pensiero fondamentale di Ugo Grozio, quando dichiarò che la scienza del diritto è tra quelle discipline che non dipendono da esperienze, ma da definizioni, non da fatti, ma da dimostrazioni puramente logiche. Infatti ciò che sono in sé il diritto e la giustizia non può esser desunto dall’esperienza. L’uno e l’altra contengono il concetto di una concordanza, di una proporzionalità, di un’armonia, che sarebbe valida, anche se non fosse mai realizzata concretamente in alcun singolo caso; anche se non esistesse nessuno che eserciti la giustizia e nessuno verso il quale sia esercitata. Il diritto è in questo riguardo pari all’aritmetica pura: ciò che questa ci insegna circa la natura dei numeri e le loro relazioni racchiude una verità eterna e necessaria, una verità che rimarrebbe intatta, anche se perisse tutto il mondo empirico, se esistesse quindi più nessuno che conta in realtà e non esistessero più oggetti da contare. Alla similitudine e alla medesima analogia metodica ricorre anche il Grozio nella prefazione della sua massima opera. Egli vi afferma esplicitamente che le sue deduzioni circa il diritto della guerra e della pace non mirano affatto a trovare una soluzione sicura soltanto per determinate questioni concrete, soltanto per problemi della politica attuale. In queste discussioni lasciò anzi da parte, dice, tutti i riguardi di questo genere: allo stesso modo che il matematico suol considerare le figure che sta esaminando del tutto separate da ogni materia corporea. Nel successivo sviluppo delle dottrine riguardanti il diritto naturale si acuisce ancora questa matematizzazione del diritto. Il Pufendorf sostiene che, per quanto l’applicazione dei principi del diritto naturale a determinate questioni concrete possa far sorgere parecchi dubbi, non se ne deve trarre la conclusione che questi principi, in quanto tali, includano qualche difetto di evidenza: essi sono invece suscettibili della stessa evidenza che hanno gli assiomi, puramente matematici. Se il diritto naturale mette così in relazione tra loro il diritto e la matematica, lo fa perché considera entrambi come simboli di una stessa facoltà fondamentale. Esso vede in loro le più importanti testimonianze della normatività e della spontaneità dello spirito. Come lo spirito è capace di edificare, con le proprie forze, in base alle proprie “ idee innate”, l’ambito della quantità e del numero, così ha anche la facoltà creatrice di costruire e di edificare sul terreno del diritto. Anche qui può e deve incominciare da norme originali che attinge da sè stesso e procedere da queste verso la formazione del particolare. Soltanto per questa via può infatti elevarsi al di sopra della contingenza, della dispersione e dell’esteriorità dei soli fatti, può IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 25 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO conquistare un sistema del diritto, nel quale ogni cosa contribuisce a formare l’intero e ogni risoluzione, riceve dall’intero la sua sanzione e la sua conferma. Perché questa tesi fondamentale del diritto naturale potesse imporsi, bisognava superare due ostacoli e abbattere due potenti avversari. Da un canto il diritto doveva mantenere la sua originalità e la sua autonomia spirituale di fronte al dogma teologico e sottrarsi alla sua stretta pericolosa; d’altra parte bisognava determinare e delimitare chiaramente la sfera del diritto da quella dello Stato e proteggerla nel suo carattere particolare e nel suo valore di fronte all’assolutismo statale. Su questi due fronti si combatte la guerra per i fondamenti dei diritto naturale moderno. E la si deve combattere tanto contro la concezione teocratica, contro la derivazione del diritto da una volontà divina semplicemente irrazionale, impenetrabile e inaccessibile alla ragione umana, quanto contro lo “ Stato Leviathano”. In tutti e due i casi si tratta di scalzare e superare il medesimo principio, la tesi dello «stat pro ratione voluntas». A questa tesi si era appellato Calvino per mostrare che ogni diritto si fonda infine sulla potenza divina, che questa stessa però è incondizionata, non soggetta a regole e norme limitative. Il nocciolo della dogmatica calvinistica, soprattutto il dogma centrale della predestinazione, è racchiuso in questo pensiero: esso contiene la salvezza e la dannazione. Non sì può indagare la ragione o il diritto della decisione divina la salute dell’anima: il solo quesito significherebbe un’arroganza delittuosa, un’elevazione della ragione umana al di sopra di Dio stesso. La potenza assoluta di Dio ripudia la maggior parte dell’umanità, mentre salva e innalza un piccolo numero di eletti; questo e quello avvengono senza alcun riguardo al merito o alla dignità morale. Da questo problema religioso si è sviluppato il problema filosofico del diritto naturale. Il Grozio è il vero precursore spirituale di quel movimento che, nei Paesi Bassi, sotto la guida del vescovo Arininio, si oppose al dogma calvinistico della predestinazione. Questa sua difesa degli Arminiani e dei “ Rimostranti” ebbe non solo gravi conseguenze per la sua vita personale (dopo la condanna della dottrina di Arminio nel Sinodo di Dordrecht egli fu spogliato delle sue cariche e gettato in carcere), ma segnò anche l’indirizzo di tutta la sua attività scientifica e letteraria. Egli si trova esattamente allo stesso punto si era trovato Erasmo: egli prende le difese dell’idea umanistica di libertà contro la tesi della “ non libertà della volontà”, propugnata nuovamente dai Riformatori, da Calvino e Lutero. Se non che si vede indotto a combattere contemporaneamente contro un altro avversario. Come si oppone all’onnipotenza di Dio, deve opporsi all’onnipotenza dello Stato, di questo “ Dio mortale”, come lo chiama con frase efficace e caratteristica il Hobbes. Il Grozio si trova qui di fronte ad una concezione specificamente moderna, la quale andava guada gnando terreno continuamente dal Rinascimento in poi. Dopo il “Principe” del Machiavelli e la “ Repubblica” del Bodin la teoria che il possessore del supremo potere statale non sia sottomesso ad alcuna condizione e limitazione giuridica, si era imposta sempre più. Di fronte alle due tendenze il diritto naturale propugna come suo principio supremo la tesi che esiste un diritto precedente ad ogni potere divino e umano, e da esso indipendente. Il contenuto del concetto di diritto in quanto tale non si fonda sulla sola sfera del potere e della volontà, ma sulla sfera della ragione pura. Nessuna sentenza autoritaria può modificare o togliere alcunché da ciò che questa ragione ha concepito come «esistente», da ciò che è dato nella sua pura essenza. La legge, nel suo significato primario e primitivo; nel senso di «lex naturalis», non è mai scindibile in una somma di meri atti arbitrari. Essa non è soltanto l’insieme delle prescrizioni, ma è ciò che prescrive in origine: è “ ordo ordinans», non “ ordo ordinatus». Non c’è IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 26 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO dubbio che il concetto perfetto della legge presupponga un comandamento rivolto alle singole volontà. Se non che questo comandamento non crea l’idea del diritto e della giustizia, ma sottostà a questa idea; la mette in esecuzione attuale; non si deve però confondere questa esecuzione con la motivazione dell’idea giuridica in quanto tale. Queste basi che il GROZIO stabilisce nei prolegomeni alla sua opera “De jure belli ac pacis” presentano con la massima purezza il platonismo del diritto naturale moderno. Come il demiurgo platonico non è il creatore delle idee, ma forma il mondo della realtà in base ad esse, in quanto originali eterni e non creati: così si dica, secondo l’idea del Grozio, per la formazione e l’ordine entro la comunità giuridicostatale. Promulgando i suoi singoli comandamenti positivi il legislatore ha di mira una norma che è di validità universale e impegnativa tanto per la sua propria volontà quanto per quella di tutti gli altri. In questo senso va inteso il celebre detto del Grozio che le tesi del diritto naturale conserverebbero il loro valore, anche se si supponesse che non esiste un Dio o che la divinità non si cura delle cose umane). Queste parole non intendono assolutamente scavare un abisso fra la religione da una parte e il diritto e la moralità dall’altra. Il Grozio infatti è con tutta la sua mentalità un pensatore profondamente religioso: il rinnovamento morale, la reformatio della religione non gli stanno a cuore meno che la motivazione spirituale e l’approfondimento dell’idea del diritto. Le parole che, anche senza ammettere l’esistenza divina, possa e debba esistere un diritto non vanno quindi intese come tesi, ma soltanto come ipotesi. Considerate infatti come affermazione significherebbero certamente, come il Grozio stesso soggiunge, un sacrilegio e un’assurdità. Come pura “ ipotesi”, nel senso platonico della parola, servono invece, entro la sfera religiosa, che il Grozio considera ancora come perfetta unità (è lontana da lui la separazione che vi compì più tardi il secolo XVIII), a delimitare tra loro con chiarezza le singole competenze. Il diritto non è valido perché esiste un Dio, né lo si può, appoggiare a una qualunque esistenza sia empirica sia assoluta. Esso proviene dalla pura idea del bene, da quell’idea che, come aveva detto Platone, sopravanza tutto il resto, per forza ed età. Questa “trascendenza” dell’idea dei diritto che innalza il bene e il giusto al di sopra di ogni essere, che non ci concede di fondare il suo significato su qualche essere, è predicata continuamente dal Grozio. E appunto in ciò, non già nella “ scoperta” del diritto naturale, consiste il suo vero merito storico e filosofico. Anche il Medio Evo cristiano aveva tenuto alto il pensiero del diritto naturale, preso nelle sue linee essenziali dalla Stoa. La teoria scolastica conosce accanto alla “ lex divina” una propria e relativamente autonoma sfera della «lex naturalis ». Il diritto non è subordinato interamente alla rivelazione né derivato da questa soltanto; si propugna invece una moralità naturale e una naturale conoscenza giuridica che la ragione avrebbe conservato anche dopo il peccato originale, e che si considera come la premessa necessaria e il punto di partenza della ricostruzione, soprannaturale e basata sulla grazia divina, della perfetta conoscenza dello stato primitivo. Ma ciò nonostante il Medio Evo non poteva ammettere un diritto proprio della “ lex naturalis”, come non poteva ammettere un diritto proprio della “ ragione naturale”. La ragione rimane l’ancella della rivelazione (tamquam famula et ministra). Nella cerchia delle energie naturali spirituali e psichiche essa deve avviare alla rivelazione e contribuire a prepararle il terreno. La legge naturale è quindi subordinata alla legge divina anche dove la si ammette su una scala relativamente vasta: Tommaso d’Aquino dichiara l’una e l’altra emani dell’essenza divina, l’una destinata a scopi terreni, l’altra fondata dalla rivelazione per scopi ultraterreni. Il Grozio supera in questo caso la scolastica più nel metodo che nel contenuto. Si IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 27 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO tratta di raggiungere nel campo del diritto ciò che il Galilei aveva raggiunto nel campo della conoscenza della natura. Si tratta di trovare una fonte della conoscenza giuridica che non scaturisca dalla rivelazione divina, ma si affermi in sé stessa, sua propria “ natura”, e in virtù di questa si tenga lontana da ogni turbamento e da ogni mistificazione. Come il Galilei afferma e propugna l’autonomia della conoscenza fisico-matematica, così il Grozio combatte per l’autarchia della conoscenza del diritto. Il Grozio stesso, a quanto pare, vide chiaramente questo nesso ideale: egli è pieno di ammirazione per il Galilei e in una lettera lo chiama il più grande genio del secolo. Nella vita spirituale del secolo XVII il concetto e la parola di “natura” comprendono due gruppi di problemi che oggi si sogliono considerare separati, e ne fanno un’unità. Le “ scienze naturali” non vengono ancora messe di fronte alle “ scienze dello spirito” e men che meno opposte a loro per quanto riguarda la qualità e il valore. “ Natura” non significa infatti l’ambito del mero essere « fisico », dal quale si debba distinguere ciò che è psichicospirituale; non indica il «materiale» rispetto allo «spirituale». Questa parola non riguarda un essere di cose, ma mira all’origine e alla motivazione di verità. Alla «natura» appartengono tutte le verità che sono suscettibili di una motivazione puramente immanente, che non hanno bisogno di una rivelazione trascendente, ma sono per sè certe ed evidenti. T ali verità non si chiedono ora, soltanto per il mondo fisico, ma anche per il mondo etico-spirituale: esse infatti fanno di entrambi un vero «mondo», un cosmo che ha le sue basi e il suo centro di gravità sè stesso. Anche il secolo XVIII si attiene scrupolosamente a questo pensiero. Il Montesquieu incomincia come empirico indagatore della natura, e per questa via si vede guidato verso il suo vero problema, verso l’analisi delle istituzioni giuridico-politiche. Come giurista egli formula la stessa questione che il Newton aveva formulato come fisico: non vuol accontentarsi delle leggi del cosmo politico conosciute soltanto empiricamente, ma limitare e riportare la molteplicità di queste leggi a pochi principi determinati. Il fatto che esiste un tale ordine, che esiste una tale sistematica dipendenza fra le singole norme, costituisce secondo lui lo «spirito delle leggi». Può quindi incominciare la sua opera con un’interpretazione del concetto di legge considerandolo in tutta la sua vastità, nel suo significato universale non limitato a nessun campo particolare di fatti. “ Les lois dans la signification la plus étendue», dichiara, “ sont les rapports nécessaires qui dérivent de la nature de choses”. Una tale “natura delle cose” esiste nel possibile come nel reale, nel pensato come nell’effettivamente esistente, nel fisico come nel morale. L’eterogeneità dei fatti non ci deve mai trattenere dal ricercare la nascosta uniformità; il contingente non ci deve mai far disperare del necessario nè chiuderci la via alla conoscenza del necessario. In base a questo pensiero il Montesquieu ripetè esplicitamente (già nelle «Lettres Persanes») il principio, sul quale il Grozio aveva fondato il diritto naturale. La giustizia è un determinato rapporto (un rapport de convenance): e questo rapporto rimane sempre uguale, non conta quale soggetto lo concepisca, non conta se sia contemplato da Dio o da un angelo o da un uomo. E siccome la volontà di Dio è sempre conforme alla sua conoscenza, è impossibile che egli pecchi contro le norme eterne del giusto da lui riconosciute. Anche se Dio non esistesse, dovremmo dunque amare la giustizia e far di tutto per essere uguali a un Ente, del quale abbiamo un’idea così elevata, a un Ente che, se esiste, dev’essere necessariamente giusto. Anche essendo liberi dal giogo della religione, saremmo ciò nonostante soggetti al dominio della giustizia. Il diritto ha la sua struttura oggettiva che nessun arbitrio può modificare, allo stesso modo che la matematica ha la sua. “ Avant qu’il y eut des lois faites, il y avait des rapports de justice possibles. Dire qu’il IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 28 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO n’y a rien de juste ni d’injuste que ce qu’ordonnent ou dèfendent le lois positives, c’est dire qu’avant qu’on eut tracé des cercles, tous les rayons n’étaient pas égaux”. A questo “ apriorismo” del diritto, a questo postulato che esista e debba esistere una quantità di norme giuridiche immutabili e universalmente impegnative, la filosofia dell’illuminismo si attiene, in un primo tempo, interamente. - (a1)Sempre in ordine ai rapporti tra diritto e matematica/logica, N.BOBBIO (Contributi ad un dizionario giuridico, v. "Logica giuridica", Giappichelli, 1994) asserisce: "Per mostrare quanto il destino della scienza giuridica sia stato connesso, nel pensiero occidentale, allo sviluppo della logica, mi limiterò ad esaminare qui tre momenti o concezioni giuridiche, in cui la stretta parentela tra diritto e logica, in varie combinazioni e significati, è un elemento essenziale per la individuazione del loro contenuto e del loro valore storico: 1) il giusnaturalismo moderno; 2) la giurisprudenza dei concetti, in cui talora si fa confluire l’intero movimento della pandettistica; 3) il formalismo neo-kantiano, di cui il normativismo è la più importante filiazione. L’ideale del giusnaturalismo moderno, che è un aspetto del generale movimento razionalistico in filosofia, è la costruzione di una giurisprudenza geometrico more demonstrata. Si pensi a Hobbes: sin dalle prime pagine del De cive, Hobbes contrappone gli studiosi della geometria che «hanno ben coltivato il loro campo» ai filosofi morali, i cui scritti sino ad oggi «sono serviti ben poco alla conoscenza della verità». Egli parte dal presupposto tipico di ogni razionalismo etico che i peggiori malanni di cui soffre l’uomo, come la guerra, sarebbero definitivamente debellati «se si conoscessero con egual certezza le regole delle azioni umane come si conoscono quelle delle grandezze in geometria». Il suo scopo è quello di costruire una teoria razionale del diritto, cioè una scienza, come egli si esprime, «derivata con nessi evidenti da princìpi veri». Vi è un curioso passo nel cap. XIV del De cive, in cui dopo aver definito la legge naturale, aggiunge: “ Questa è la legge che ho tentato di esaminare in tutto questo libro”. Si capisce da queste parole che Hobbes vuoi presentare la sua opera come un trattato di diritto naturale, perché solo partendo dalle leggi naturali, considerate come dettami della retta ragione, si può tentare di costruire un sistema razionale, in cui tutte le proposizioni del sistema siano riconducibili a d alcuni postulati iniziali. Non si può dire che Hobbes abbia condotto molto avanti questo tentativo e si sia data molta pena per derivare una legge dall’altra. Ma l’intenzione è chiara sin dalle prime battute: della ventina di leggi naturali che egli enuncia, ve n’è una fondamentale e le altre sono o pretendono di essere derivate da quella con metodo deduttivo. Alla fine della enumerazione, si esprime in questo modo: «Quelle che chiamiamo leggi di natura non sono altro che una specie di conclusione tratta dalla ragione in merito a quel che si deve fare o tralasciare». Nel Leviatano precisa «conclusioni o teoremi». E’ noto che Pufendorf, prima di scrivere l’opera maggiore (De iure naturae et gentium, 1672), aveva composto, per consiglio del suo maestro di matematica, Erhard Weigel (che fu anche maestro di Leibniz) un’opera, poi superata ma non ripudiata, che avrebbe dovuto esporre la materia del diritto naturale in forma dimostrativa, valendosi di queste partizioni: 1) Definitiones; 2) Principia; 3) Propositiones seu conclusiones. Ma anche nell’opera maggiore non rinuncia a questo ideale di matematizzazione Nel cap. II De certitudine disciplinarum, quae circa moralia versantur, prende netta posizione contro la tesi tramandata per l’autorità di Aristotele, secondo cui le scienze morali non sono scienze dimostrative. Dopo aver dato della dimostrazione la seguente definizione: «Rerum propositarum certitudinem necessariam e certis principiis tamquam suis causis indubitato cognoscendam syllogistice IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 29 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO deducere», afferma che la scienza morale, che si accinge a esporre, «omnino eiusmodi fundamentis nititur, ut exinde genuinae demonstrationes, quae solidam scientiam parere sint aptae, deduci queant». Qual fosse l’importanza che Leibniz annetteva alla logica per lo studio della giurisprudenza è stato detto e ripetuto, anche se questo settore delle ricerche leibniziane, nonostante la minuziosa opera di Grua, rimane quasi completamente inesplorato. Ci limitiamo a due citazioni, scelte in scritti di anni lontani, che ci sembrano tra le più significative e le più intransigenti nei confronti dell’ideale del sistema giuridico come sistema deduttivo: «Da qualsiasi definizione si possono trarre conseguenze sicure, impiegando le incontestabili regole della logica. Questo è precisamente quanto si fa costruendo le scienze necessarie e dimostrative, che non dipendono dai fatti, ma unicamente dalla ragione, quali la logica, la metafisica, l’aritmetica, la geometria, la scienza del movimento, nonché la scienza del diritto; le quali non sono punto fondate sull’esperienza e sui fatti, ma servono piuttosto a rendere ragione dei fatti e a regolarli in anticipo; ciò che varrebbe, per il diritto, quand’anche non esistesse al mondo neppure una legge». «La teoria del diritto è del numero di quelle che non dipendono da esperimenti, ma da definizioni; non da ciò che mostrano i sensi, ma da ciò che dimostra la ragione; e sono, per così dire, di diritto e non di fatto. Poiché infatti la giustizia consiste in una certa convenienza e proporzionalità, si può comprendere che qualcosa sia giusta quand’anche non esista alcuno che possa far valere la giustizia o su cui la si possa far valere; allo stesso modo che i rapporti aritmetici sono veri, anche se non vi sia chi numeri né vi siano cose da numerare ... per cui non c’è da stupirsi che i principi di queste scienze abbiano valore di verità eterne: poiché essi sono tutti condizionali, e non ci dicono che cosa esista, ma che cosa consegua, posta che sia l’esistenza». Questa idea dell’ordinamento giuridico come sistema di regole dedotte da alcuni princìpi evidenti o naturali e, con altre parole, di un legislatore razionale e universale, giunse sino alle soglie delle grandi codificazioni dell’età illuministica. L’idea stessa di una codificazione universale si ispirava al modello di un ordinamento giuridico come sistema deduttivo, i cui caratteri essenziali sarebbero dovuti essere l’unità, la semplicità, la completezza e la coerenza «Occorrono poche leggi — scriveva Saint-Just ripetendo una opinione assai diffusa —. Ove ve ne sono molte, il popolo è schiavo ... Colui che dà al popolo troppe leggi è un tiranno». Ma il sopravvento della Scuola storica del diritto, che considerò il diritto non più come prodotto di una natura umana sempre eguale ma delle mutevoli convinzioni popolari, mise definitivamente da parte l’idea della legislazione universale. Se, con terminologia kelseniana, chiamiamo sistema statico un ordinamento di regole costruito a immagine di un sistema deduttivo, nessuno, credo, sarebbe ancora disposto a chiamare sistema statico un ordinamento giuridico. Se possa poi dirsi un sistema, e in quale senso, è un’altra questione che qui possiamo tralasciare. Non per questo venne meno l’idea di una stretta connessione tra diritto e logica: solo che essa retrocesse, se possiamo esprimerci così, dalla sfera della produzione, delle regole giuridiche, o dalla legislazione, a quella della loro applicazione, cioè dall’attività del legislatore a quella del giudice e del giurista. Mentre il giusnasturalismo aveva creduto di poter ridurre a complesso di operazioni logiche l’attività stessa del legislatore, stringendo il nesso tra diritto e logica nel momento stesso della formazione dell’ordinamento, il positivismo giuridico, che tenne il campo nello sviluppo del pensiero giuridico del secolo XIX, abbandonò il momento della produzione giuridica, per esprimerci con una formula sintetica, anche se alquanto rozza, alle forze IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 30 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO irrazionali della storia, e restrinse il dominio della logica ad un campo subordinato ma non meno ben delimitato, e pur vasto e importante, quello dell’applicazione della legge al caso concreto. In altre parole, il positivismo giuridico rinunciò alle posizioni più avanzate del giusnaturalismo, che la critica storicistica aveva rese indifendibili, ma non rinunciò affatto all’idea che gran parte dell’attività mentale concernente il diritto fosse da intendersi sotto il segno della logica. Mi riferisco in particolare, per quel che riguarda l’attività del giudice, alla teoria cosiddetta dichiarativa del giudizio, che risolve la sentenza in un sillogismo; per quel che riguarda l’attività scientifica, all’insieme di teorie che costituirono il movimento noto col nome di giurisprudenza dei concetti. I possibili riferimenti storici sono molti; ma anche qui mi limito a qualche citazione essenziale. Per la formulazione della teoria del sillogismo è classica quella data dal Beccaria: «In ogni delitto si deve fare dal giudice un sillogismo perfetto: la maggiore dev’essere la legge generale; la minore l’azione conforme o no alla legge; la conseguenza la libertà o la pena. Quando il giudice sia costretto, o voglia fare anche solo due sillogismi, si apre la porta all’incertezza». L’idea che debbano essere distinti il metodo del legislatore dal metodo del giureconsulto o del giudice appare chiaramente e curiosamente, per esempio, nella dottrina di Matteo Pescatore, che, rispetto al legislatore, parla di «sistema della legalità», con ciò intendendo dire che il compito del legislatore è di fissare il diritto con regole generali; e poi, soltanto rispetto al giureconsulto e al giudice, parla di «logica del diritto», intendendo riferirsi a quella iuris ratio, a quella recta disputandi ratio, con cui si de ducono le conseguenze da un principio: essa «non è altro che la logica del diritto» senza la quale «il diritto perde, per così dire, ogni consistenza obbiettiva e sparisce». Per quel che riguarda l’importanza della logica nella scienza giuridica è molto significativo il fatto che, proprio nel più celebre scritto del fondatore della Scuola storica, si trovino quelle espressioni che servirono, se non ad alimentare, a giustificare retrospettivamente la giurisprudenza dei concetti. Volendo esprimere la sua ammirazione per i giureconsulti romani, Savigny scriveva che «il loro intero procedimento acquista una sicurezza che non si trova all’infuori della matematica, tanto che si può dire senza esagerazione che essi calcolano coi loro concetti». Qui il nostro pensiero corre ad un’altrettanto celebre frase di Leibniz: «Digestorum opus admiror: nec quidquam vidi, sive ratio num acumen, sive dicendi nervos spectes, quod magis accedat ad mathematicorum laudem». A proposito della irraggiungibile completezza dei codici, Savigny ancora commentava, nella stessa operetta, approfondendo l’analogia tra la scienza giuridica e la matematica: «In ogni triangolo si danno certi elementi, dalla connessione dei quali discendono necessariamente tutti gli altri ... Nello stesso modo, ogni parte del nostro diritto ha tali punti, attraverso i quali sono dati tutti gli altri: possiamo chiamarli i postulati fondamentali. Ricavarli e partendo da essi riconoscere l’intera connessione e il tipo di affinità di tutti i concetti e le forme giuridiche, è uno dei più difficili compiti della nostra scienza, ed è proprio quello che dà al nostro lavoro carattere scientifico». Probabilmente con riferimento a queste frasi del Savigny, spesso ripetute, lo Stammler, se pur con qualche esagerazione, poteva ripetere il luogo comune che la giurisprudenza dei concetti «tratta concetti che non sono altro che riproduzioni di materiale storicamente dato, come concetti puri quali i concetti della matematica». Dico «con qualche esagerazione», perché nel capitolo dedicato alla tecnica del diritto nel Geist des römischen Rechts di Ihering, che viene considerato di solito come la teorizzazione del concettualismo giuridico, il modello per la elaborazione del metodo delle scienze giuridiche non era la matematica, bensì la scienza IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 31 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO naturale, e la nozione fondamentale per caratterizzarne il metodo non era la deduzione, ma la costruzione, intesa come elaborazione del sistema dal basso, cioè partendo dall’isolamento prima e dal raggruppamento poi dei cosiddetti corpi giuridici. Il punto di rottura però, rispetto ai critici del concettualismo, stava pur sempre nel fatto che, giunto al sistema, anche Ihering — s’intende il Ihering della prima maniera— si fermava pieno di ammirazione, ed affermando che esso era «una fonte inesauribile di materia nuova», commentava: «Si può solo impropriamente parlare di materia nuova, dal momento che la giurisprudenza si limita a rendere esplicito ciò che il legislatore ha indirettamente stabilito e decretato. Essa non è tanto una creazione nuova quanto una rivelazione». Proprio erigendosi contro questa nozione di sistema, il Heck, sferrando un fortunato attacco alla giurisprudenza dei concetti, proclamava: «Noi sostituiamo l’ideale di un sistema deduttivo con un altro sistema che può essere chiamato induttivo o descrittivo». Almeno agli occhi degli avversari, sembrava dunque che il tenace ideale dell’ordinamento giuridico come sistema deduttivo, e quindi dell’opera della scienza giuridica come attività prevalentemente logica, fosse stato trasmesso dai giusnaturalisti del secolo XVII ai positivisti del secolo XIX. Il panorama non è destinato a cambiare, quando si passi dalla dottrina tedesca a quella francese della cosiddetta Scuola dell’esegesi. Uno dei maggiori rappresentanti della Sc uola scriveva: «... solo allo sviluppo logico delle conseguenze di ogni principio è possibile chiedere le verità di cui si vuole ottenere il trionfo». E così pure non è senza significato che il maggior elogio elevato ad uno dei monumenti della scienza giuridica ottocentesca, il Cours de droit civil français di Aubry e Rau, sia stato formulato in questi termini: «Ciò che costituisce il merito particolare dell’opera è la sicurezza della dottrina, la sobrietà dell’esposizione, la deduzione inflessibile di tutte le conseguenze giuridiche da un principio dato . . . T utte le soluzioni sono contenute in germe in un insieme di princìpi formulati con tal rigore matematico e così intimamente connessi gli uni agli altri che formano un vero edificio giuridico di cui si possono criticare senza dubbio i particolari, ma di cui è impossibile non riconoscere la solida costruzione». (V.si, altresì, M.MUGNAI, Introduzione alla filosofia di Leibniz, Einaudi, 2001, pagg. 205 e segg.). (b) Per i rapporti tra diritto e logica, v.si: N.BOBBIO, Contributi ad un dizionario giuridico, Giappichelli, 1994, v. Logica giuridica (I) e Logica giuridica (II); G.KALINOWSKI, Introduzione alla logica giuridica, Giuffrè, 1971; C.P ERELMANN , Logica giuridica. Nuova retorica, Giuffrè, 1979, T.MAZZARESE , Logica deontica e linguaggio giuridico, Cedam 1999; N.VASSALLO , La depsicologizzazione della logica: un confronto tra Boole e Fuge, F.Angeli 1995; E.BULIGYN, Norme, validità, sistemi normativi, Giappichelli 1995 (sono da leggere i capitoli "Norme e logica Kelsen e Weinberger sull'ontologia delle norme" e "Sul problema dell'applicabilità della logica al diritto"); H.KELSEN , Diritto e logica, in Problemi di teoria del diritto (a cura di R.GUASTINI), Il Mulino, pag. 173 e segg.; A.ROSS, Critica del diritto e analisi del linguaggio, Il Mulino, 1982; A.G.CONTE, Un saggio filosofico sulla logica deontica, in Filosofia del linguaggio normativo, I, 3 e segg.; C.E. ALCOURRON , Concezioni della logica, in Analisi e diritto 1994, Giappichelli, pag. 17 e segg.; U.SCARPELLI, L'etica senza verità, Il Mulino 1982; A.P INTORE , Il diritto senza verità, Giappichelli, 1996; AA.VV. (P.COMANDUCCI e R.GUASTINI), L'analisi del ragionamento giuridico, voll. I e II, Giappichelli, 1987 e 1989; IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 32 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO N.BOBBIO , Ragionamento giuridico, in contributi ad un dizionario giuridico (cit.); N.MAC CORMICK , Ragionamento giuridico e teoria del diritto, Giappichelli, 1978. (c) Per i rapporti tra diritto e informatica, v.si: V.KNAPP, L'applicabilità della cibernetica al diritto, Einaudi 1963; M.G. LOSANO , Giuscibernetica, Macchine e modelli cibernetici nel diritto, Einaudi, 1969; Il diritto privato dell'informatica. Corso di informatica giuridica, Einaudi 1986; AA.VV. (P.MARIANI E D.T ISCORNIA , a cura di), Sistemi esperti giuridici. L'Intelligenza artificiale applicata al diritto, F.Angeli, 1989. (d) Per i rapporti tra diritto e retorica, v.si C.PERELMAN e L.OLBRECHTS-TYTECA, Trattato dell'argomentazione. La nuova retorica (cit.); R.ALEXY , Teoria dell'argomentazione giuridica, Giuffrè, 1998; D.CARPONI SCHITTAR, La persuasione del giudice attraverso gli esami e i controesami, Giuffrè, 1998; E.BETTI, Teoria generale dell'interpretazione, voll. I e II, Giuffrè, 1990; B.MORTARA GARAVELLI, Manuale di retorica. (e) V.si, per il paragone con l'entropia: G.LAZZARO, Entropia della legge, Giappichelli, 1985. (f) Per i rapporti tra diritto e economia, v.si, a parte gli scritti di MARX, ENGELS, LENIN eccetera: P.I. STUCKA , La funzione rivoluzionaria del diritto, Einaudi 1967; N.BOBBIO, Marxismo e diritto, in Contributi ad un dizionario giuridico (cit.), pagg. 157 e segg.; P.CHIASSONI, Law and economics: l'analisi economica del diritto negli Stati Uniti, Giappichelli, 1992; M.R. FERRARESE, Diritto e mercato. Il caso degli Stati Uniti, Giappichelli, 1992; AA.VV., Studi economico-giuridici, Giappichelli, 1998; F.GALGANO , Diritto e economia alla soglia del nuovo millennio, in Contr. e Impresa, 2000, 189; F.DENOZZA , Norme efficienti. L’analisi economica delle regole giuridiche, Giuffrè 2002; AA.VV. (a cura di G. ALP A, P.L. CHIASSONI, A. PERICU , F. PULITINI, S. RODOTÀ, F. ROMANI), Analisi economica del diritto, Giuffrè, 1997. (g) Per i rapporti tra diritto e letteratura (sotto il duplice aspetto di law in literature e Law as Literature). V.si A.SANSONE , Diritto e letteratura, Giuffrè 2001 (da pag. 143 contiene una vastissima bibliografia). V.si, altresì, di G.ALP A , Law as 8or is) literature?, in Contratto e Impresa, 1999, 263 e segg. Da ultimo, v.si di G. NAP OLINANO E M. ABRESCIA , Analisi economica del diritto pubblico, Il Mulino, 2009. (h) Per i rapporti tra diritto e linguaggio, v.si, a parte il volume di B.MORTARA GARAVELLI (Le parole e la giustizia), la bibliografia citata in detto volume da pag. 229, nonché il volume di Autori vari (a cura di G. GARZONE E F. SANTULLI), intitolato Il linguaggio giuridico. Prospettive interdisciplinari, Giuffrè, 2008).. (i) Per i rapporti tra diritto e denaro, diritto e teologia, v.nsi le note 1 e 7. Per il diritto come gioco (e parte ogni riferimento a W ITTGENSTEIN), v.si: M.VAN DE KERCHOVE E F.OST, Il diritto ovvero i paradossi del gioco, Giuffrè, 1995. (l) Per i rapporti tra diritto e politica si potrebbe ripetere quanto detto circa i rapporti tra diritto e filosofia. Qui i rapporti sono talmente intrecciati e inevitabili da far dire che, praticamente, quando si parla di diritto si parla di politica (perché il diritto lo si interpreta da destra o da sinistra) e viceversa. Si segnalano, comunque: G.H. SABINE , Storia delle dottrine politiche, Etas Kompas, 1967; N.BOBBIO , Locke e il diritto naturale, Giappichelli 1963; Da Hobbes a Marx, Marano, 1965; Diritto e Stato nel pensiero di Emanuele Kant, Giappichelli, 1969; Politica e cultura, Einaudi 1955; Gramschi e la concezione della società civile, Feltrinelli, 1977; Quale socialismo?, IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 33 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO Uno degli esiti dello studio del diritto, concepito come linguaggio prescrittivo e dal punto di vista semantico, è la teoria delle norme e dell'ordinamento giuridico; e ciò senza dimenticare sul punto l'apporto della pandettistica tedesca. L'altro è quello che pone in rilievo come un certo tipo di linguaggio veicola la prescrittività o la normatività. Einaudi 1976; Saggi sulla scienza politica in Italia, Laterza, 1977; Destra e sinistra: ragioni e significati di una distinzione politica, Donzelli, 1994; Saggi sulla scienza politica in Italia, Laterza, 1996; L'età dei diritti, Einaudi, 1990; Democrazia, maggioranze minoranze (con C.OFFE E E G.LOMBARDINI), Il Mulino, 1981; Società e Stato nella filosofia politica moderna (con M.BOVERO), Il Saggiatore 1979; Elogio della mitezza, Linea d'ombra, 1994; De senectute, Einaudi, 1996; S.CASSESE , I diritti umani nel mondo contemporaneo; AA.VV. (CHITI a cura di), Cittadino e potere in Inghilterra, Giuffrè, 1990; AA.VV. (F.LORENZONI E A.SCHIAVONE a cura di), Democrazia e diritto, De Donato, 1975. (m) Per i rapporti diritto e morale, v.nsi C.S. Nino, Il diritto come morale applicata, Giuffrè, 1999; F.von Kutschera, Fondamenti dell'etica, F.Angeli, 1991; AA.VV. (L.Gianformaggio e E.Lecaldano a cura di), Etica e diritto, Laterza, 1986; G.Cosi, La responsabilità del giurista. Etica e professione legale, Giappichelli, 1998; F. Fagiani, Etica e teoria dei diritti; L. Gianformaggio, Rapporti tra etica e diritto; S. Castignone, La questione animale tra etica e diritto, tutti e tre in “Teorie etiche contemporanee, a cura di C.A. Viano, Bollati-Boringhieri, 1990; nonché (per la loro attuale rilevanza, soprattutto per chi abbia a cura le sorti del “ diritto penale”), M.D. Hauser, Menti morali. Le origini del bene e del male, Il saggiatore, 2006; A. Lavazza, Neuroscienze e filosofia morale, in Riv. di filosofia, Il Mulino, 3/2007, pagg. 327 e segg. [Nel par. 4 si legge: “Patricia S. Churchland, che sta conducendo un sistematico tentativo di rifondazione filosofica legato alle neuroscienze, propone un nuovo paradigma con cui concettualizzare l’identità personale. Si può sostenere che, quando si saranno compresi meglio i dettagli dei sistemi regolatori del nostro cervello e il modo in cui le decisioni emergono dalle reti neuronali (cosa che peraltro stiamo già facendo), risulterà sempre più evidente che gli standard morali, le pratiche e i comportamenti fino alle scelte pubbliche dipendono dalla neurobiologia. Approfondendo le conoscenze dello sviluppo neuronale, dell’evoluzione dei sistemi nervosi e del modo in cui avviene la regolazione genica, è diventato assai chiaro come il sistema nervoso sia profondamente plasmato dalla storia filogenetica. La nostra natura morale possiede l’attuale configurazione perché i cervelli sono ciò che sono; e questo vale anche per le capacità di imparare, ragionare, inventare e fare scienza. Il cervello è una macchina causale, passa da uno stato all’altro sulla base delle condizioni di attivazione precedenti. Scelte e valutazioni di opzioni sono processi che avvengono nel sistema nervoso e producono decisioni comportamentali. Esse sono il frutto di un’ampia gamma di condizioni antecedenti, alcune costituite da stimoli eterni, altre da mutamenti interni, come variazioni nei livelli ormonali del glucosio, della temperatura corporea…”). IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 34 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO 1.5. L’ordinamento giuridico. Punto di vista statico e dinamico 1.5.0. Il diritto come insieme di norme è strutturato , ha un certo ordine: si parla dell’insieme delle norme (delle quali alcune, ogni giorno, nascono, entrano in vigore [art. 10 preleggi al c.c.] e altre muoiono, sono abrogate [art. 15 preleggi al c.c.]), come di un ordinamento. 1.5.1. Concepire (o, se si vuole, costruire) un ordinamento (“fare, cioè cose, con le parole”)(11) significa aver a che fare con delle entità singole, atomiche (le norme, nel caso del diritto) e istituire delle relazioni d’ordine tra dette entità. Nel diritto le relazioni d’ordine tra le norme sono di tipo gerarchico: vi sono, a cascata, norme a più importanti di norme b, più importanti di norme c, eccetera. L’ordinamento è tale perché è costruito a gradini. Nell’ordinamento italiano: (1) alla base vi sono le norme costituzionali (Costituzione, leggi costituzionali); (2) le norme nazionali seguono le norme CE (Regolamenti, direttive CE); (3) poi vi sono le norme delle leggi statali (leggi, decreti legislativi, decreti legge convertiti in legge), (4) poi vi sono le norme delle leggi regionali (leggi delle Regioni a statuto speciale e a statuto ordinario [131 Cost.]). I gradini (1), (2), (3) e (4) sono costituiti da norme veicolate da leggi e cioè prodotte dal potere legislativo. Seguono altri piani o gradini. Vi sono norme prodotte: (5) da regolamenti emanati dal potere esecutivo e cioè da qualsiasi “Autorità” della Pubblica amministrazione (Governo, Regioni, Enti locali, altri enti); (6) da atti amministrativi emanati, sempre, dalle varie Pubbliche amministrazioni; (7) da sentenze del potere giudiziario (le sentenze, in quanto applicano norme del potere legislativo a casi concreti, costituiscono la “norma singola coattiva” per il destinatario delle sentenze)16. Infine vi sono le norme veicolate dagli atti negoziali (c.d. regno dell’autonomia privata). 16 Le sentenze parrebbero avere una forma del sillogismo (=ragionamento) pratico. Nel caso del discorso descrittivo, un tipo di sillogismo teorico è questo: * affermazione universale (premessa maggiore): “T utti gli uomini sono mortali” * affermazione particolare (premessa minore): “ Socrate è un uomo” * affermazione particolare (come conseguenza): “ Socrate è mortale”. Le sentenze parrebbero avere forma analoga: * norma generale (premessa maggiore): “T utti i ladri devono essere puniti”; * condotta particolare (premessa minore): “Mario è un ladro”; * sentenza (come conseguenza): “Mario viene punito”. In realtà, attualmente, si tende a dire che la sentenza appartiene, almeno nella premessa maggiore e in quella minore, a un tipo di discorso non meccanico, ma di convincimento argomentativo: non appartiene alla logica, ma alla retorica. Il giudice ha difficoltà ad accertare i fatti (se, ad esempio, tra due parti è stato o meno stipulato un contratto [che non esiga la forma scritta] con cui una parte concede all’altra di godere di un bene immobile dietro un certo compenso), così come ha difficoltà ad accertare quale siano le IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 35 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO 1.5.1.1. Le relazioni d’ordine tra le norme di cui sopra si è parlato non sono le sole che contribuiscono a creare l’ordinamento. Le norme di riconoscimento (quelle cioè che permettono di distinguere le norme giuridiche [perché entrate in vigore attraverso la procedura costituzionale sulla formazione delle leggi: artt. 70-82 Cost. per le leggi statali, artt. 116-117 per le leggi regionali] da quelle di altri ordinamenti [morali, di costume ecc.]) e, latamente, quelle di organizzazione contribuiscono a delineare un perimetro ideale che distingue l’ordinamento giuridico da altri ordinamenti. Quindi: (a) la relazione di gerarchia tra le norme di condotta e (b) le norme di organizzazione contribuiscono a far sì che l’insieme delle norme giuridiche sia unitario: sia costituito come un cono rovesciato e con un certo perimetro: alla base del cono vi sarebbe, secondo alcuni, una norma fondamentale, non scritta (di ordine puramente logico) del tipo: “Tutte le norme dell’ordinamento poggiano sul potere costituente”. norme che disciplinano quel contratto (se le norme sulla locazione di beni immobili [artt. 1571 e segg. c.c.] ovvero quelle sul comodato [artt. 1803 e segg. c.c.]). La conclusione (la sentenza) consiste in una soluzione solo “probabile”: ad esempio che quel contratto si è stipulato (ex art. 1326 c.c.) e che è disciplinato dalle norme sulla locazione. Proprio perché tale, detta sentenza (di 1° grado), sarà appellabile e soggetta a ricorso per Cassazione. Siccome non si può ricorrere all’infinito, vi è sempre una sentenza definitiva la quale, sia come sia, è quella che va accettata: non è né vera, né falsa. E’ la conclusione di un ragionamento argomentato, ma niente di più: tant’è che la sentenza definitiva, si asserisce, facit de quadrata rutundis, facit de albo nigrum (fa quadrate le cose rotonde, fa nero ciò che è bianco). V.si, sul punto, C. PERELMANN e L. OLBRECHTS TYTECA, T rattato dell’argomentazione, precedentemente citato in nota 7(d). IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 36 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO t1= tempo 1 t2= tempo (successivo) 2 1.5.2. L’unitarietà non è la sola caratteristica dell’ordinamento giuridico. Questo, per essere tale, abbisogna che nella scala gerarchica delle norme vi siano delle regole che permettano di evitare le antinomie (contraddizioni) tra norme di grado diverso e di pari grado e cioè delle regole logiche che ne permettano la coerenza. 1.5.2.1. Circa le norme di grado diverso la regola, come già detto prima, è quella per la quale lex superior derogat inferiori (criterio gerarchico). Tale regola, come principio generale, comporta: (a) che le leggi statali ordinarie devono essere conformi alla Costituzione, pena il loro annullamento da parte della Corte costituzionale (artt. 134-137 Cost.); (a.1) che i decreti legislativi (artt. 76-77 Cost.) devono essere conformi alle leggi deleganti emanate dal Parlamento e queste, a loro IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 37 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO volta, alla Costituzione; (b) che le leggi regionali siano conformi agli statuti delle Regioni a statuto speciale (che sono approvati da leggi costituzionali: artt. 115 e 138 Cost.) e che le leggi regionali delle regioni a statuto ordinario siano conformi alle leggi “cornice” dello Stato (almeno nei casi di c.d. “legislazione concorrente”: art. 117 Cost.) e queste, a loro volta, conformi alla Costituzione pena il loro annullamento da parte della Corte costituzionale; (c) che i regolamenti statali siano conformi alla legge, pena il loro annullamento da parte degli organi di giustizia amministrativa (su ricorso di chi ne abbia interesse e secondo quanto previsto dal d.lg. 104/2010 [“Codice del processo amministrativo”]) e la loro disapplicazione da parte della M agistratura ordinaria (ma, attualmente, anche da parte degli organi di giustizia amministrativa); (d) che i regolamenti delle PP.AA. locali siano conformi alla legge, pena il loro annullamento da parte dei vari TAR regionali e la loro disapplicazione da parte della M agistratura ordinaria (e, attualmente, anche da parte dei vari TAR); (e) che gli atti amministrativi delle varie PP.AA. siano conformi alle leggi e/o ai regolamenti pena il loro annullamento (su ricorso) da parte dei TAR; (f) che le sentenze siano conformi a leggi e/o regolamenti, pena il loro annullamento e/o riforma da parte dei giudici di secondo o terzo grado (una sentenza di un Tribunale può essere modificata dalla Corte d’Appello e annullata, in ultima istanza, dalla Corte di Cassazione; una sentenza del TAR può essere annullata dal Consiglio di Stato); (g) che gli atti negoziali non siano contrari a certe norme di legge. (Da notare che i limiti oltre i quali non si può andare sono dati: 1. dalle sentenze della Corte costituzionale nei casi (a), (a.1), (b); 2. dalle sentenze del Consiglio di Stato [giudice di appello rispetto ai TAR] e dalle sentenze della Corte di Cassazione nei casi (c) e (d); 3. dalle sentenze del Consiglio di Stato nel caso (e); 4. dalle sentenze della Corte di Cassazione o del Consiglio di Stato nel caso (f) e in quello (g); 5. dalle sentenze della Corte di Cassazione quando annulla, per difetto di giurisdizione, le sentenze del Consiglio di Stato a sensi dell’art. 111 Cost.). 1.5.2.2. Tra le norme di pari grado, al fine di risolvere il problema delle antinomie (di norme tra di loro contrastanti), soccorrono il criterio cronologico (lex posterior derogat priori: la legge posteriore abroga quella precedente: art. 15 preleggi al c.c.) e il criterio della specialità (lex specialis derogat generali: tra due norme, di cui una generale e l’altra speciale, si applica la seconda [tra genus e species, si applica la norma specifica]). Normalmente poi il criterio cronologico cede a quello della specialità (lex posterior non derogat legi speciali priori: la legge posteriore non abroga la legge speciale anteriore). 1.5.3. L’ordinamento giuridico è caratterizzato anche dalla completezza. Ciò implica, come regola, che ogni tipo di condotta umana sia disciplinato da una certa norma giuridica: se tale norma manca, la lacuna viene “riempita”, “saturata”, applicando IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 38 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO a quel tipo di condotta “senza norma” la norma che disciplina la condotta simile, “analoga”. Il ragionamento dell’analogia (art 12 delle preleggi al c.c.) è il seguente: * il caso x è disciplinato dalla norma A; * il caso y è simile al caso x; * il caso y è disciplinato dalla norma A. La completezza dell’ordinamento giuridico evidenzia una ulteriore norma: la c.d. norma generale inclusiva. Questa include nell’ordinamento tutti i casi non espressamente disciplinati, ma simili a quelli disciplinati espressamente. 1.5.3.1. Vi sono però delle eccezioni: nelle norme penali e in quelle appartenenti al c.d. diritto eccezionale (v.si sub 2.2. la distinzione tra diritto “comune”, “speciale” e “eccezionale”) il criterio dell’analogia non si applica. Tale fatto evidenzia la c.d. norma generale esclusiva (l’art. 14 delle preleggi al c.c. asserisce: “Le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”). In tali casi le condotte umane non espressamente previste come reato (nel diritto penale) o non espressamente previste da norme eccezionali sono escluse dall’ordinamento giuridico, sono “fuori” di esso. In tal caso, ciò che non è vietato o comandato è “libero”, giuridicamente indifferente (perché fuori dall’area di influenza del diritto). In tal caso si ha “Pp e P non p” (= E’ permesso fare p e è permesso non fare p). 1.6. L’ordinamento giuridico è sempre dinamico (a) Potrebbe sussistere, in ipotesi, una regola unica, fondamentale (es. “Ama Dio e il prossimo tuo come te stesso”) dalla quale, per mero processo di deduzione logica, derivino tutte le altre regole nella prima contenute (es.: “Non uccidere”, “Non rubare” ecc.). Questo sistema -supposto che esista- sarebbe tale per cui la norma fondamentale (N1), genererebbe -per pura attività di ragione da parte dei “soggetti”- tutte le altre regole. Tale ordinamento statico è inesistente, se non per qualche aspetto che vedremo in seguito. (L’inesistenza di un tale ordinamento è data dal fatto che non basta, ammesso che possa esistere, un puro processo di deduzione dalla N1 per ricavare le norme inferiori: occorrerà comunque “volerle” creare e applicarle; e tale attività non è un processo puramente inferenziale). (b) La dinamicità dell’ordinamento giuridico è data dal fatto che la creazione delle norme è un processo continuo, autorizzato da metanorme (norme sulle norme) e che ogni norma, generale o particolare che sia, non è dedotta per pura virtù logica da N1, bensì generata da atti autoritativi di organi costituzionalmente autorizzati. (a-b) L’aspetto dinamico non è però esclusivo. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 39 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO Alcune norme costituzionali determinano anche il “contenuto” delle leggi ordinarie: da qui la presenza (in alcuni ordinamenti democratici) di una Corte Costituzionale che decide se le leggi ordinarie sono in contrasto con le leggi costituzionali. In tali casi l’elemento statico, se si vuole usare tale terminologia, è presente. Le norme costituzionali che non si limitano ad autorizzare certi organi a emanare leggi ordinarie, bensì predeterminano il contenuto delle emanande leggi ordinarie, delineano una specie di quadro normativo all’interno del quale ogni norma ordinaria è legittima, e al di fuori di questo è illegittima. La cornice di confine costituisce il criterio razionale (e quindi statico), alla luce della quale un certo organo (la Corte Costituzionale) decide circa la legittimità o meno delle leggi. 2. - Le fonti del diritto: fonti di produzione. Lo S tato: potere legislativo, esecutivo, giudiziario secondo la nostra Costituzione. La giurisprudenza. L'interpretazione. Le fonti di cognizione - Diritto pubblico, diritto privato. Diritto comune, diritto speciale. Diritto "comune-speciale" e diritto eccezionale. Diritto normale, comunitario, internazionale. - Gli istituti giuridici. - Le posizioni giuridiche soggettive favorevoli e sfavorevoli. I soggetti, i beni, le attività, il rapporto giuridico. 2.1. Le fonti del diritto: fonti di produzione. Lo S tato: potere legislativo, esecutivo, giudiziario. L'interpretazione. Fonti di cognizione. 2.1.1. Le fonti di produzione. La parola "fonte" è usata nell'articolo 1 delle preleggi al Codice civile per indicare ciò che genera, crea, "produce", il diritto (v.si quanto già detto, in particolare, al par. 1.2.). Detto articolo asserisce: Sono fonti del diritto: 1) le leggi; 2) i regolamenti; 3) gli usi. In realtà è “fonte” tutto ciò che crea regole giuridiche: quindi sono “fonte” le leggi, i regolamenti, le sentenze, gli atti negoziali menzionati nel “cono rovesciato” di cui al par. 1.5.1.1. 2.1.1.1. Le leggi e gli usi Attualmente le fonti si sono arricchite. Come già visto al par. 1.5.1., abbiamo le seguenti fonti legislative (leggi): (1) la Costituzione del 27-12-1947; IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 40 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO (2) le leggi costituzionali successive (ad esempio: tutte quelle che hanno approvato gli "statuti" delle Regioni a statuto speciale; le leggi che hanno costituito la Corte costituzionale [l. 9-1-48, n. 1, 11-3-53, n. 1 ecc.]; la legge del 24-1-1997, n. 1 istitutiva della c.d. bicamerale e la l. 18-10-2001, n. 3 che ha modificato e ridistribuito poteri e competenze tra lo Stato e le Regioni]): dette leggi sono tali, in quanto emanate con la procedura di cui all'art. 138 della Costituzione; (3) le leggi ordinarie statali: sono quelle emanate dal Parlamento secondo la procedura di cui agli artt. 70-81 della Costituzione (dette leggi vengono promulgate dal Presidente della Repubblica [artt. 73 e 87 Cost.], pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana [art. 73 Cost.]); (3.1) i decreti legislativi emanati dal Governo su legge delegante del Parlamento (artt. 76-77 Cost. e 14 l. 400/88); (3.2) i decreti legge emanati dal Governo in casi di necessità e urgenza (artt. 77 Cost. e 15 l. 400/88); questi devono essere convertiti in legge dal Parlamento entro 60 giorni, pena la loro inesistenza sin dall'inizio (quando il Parlamento non converte un d.l., in genere, con apposita legge, ne fa salvi gli effetti [art. 77 Cost.]); (4) le leggi delle regioni a statuto speciale (art. 116 Cost.); (5) le leggi delle Province di Trento e Bolzano (l. Cost. 5/1948); (6) le leggi delle regioni e statuto ordinario (artt. 117 Cost.). Le fonti sub (3), (3.1) e (3.2) hanno pari efficacia; differiscono solo in questo: le leggi devono essere conformi alla Costituzione. I decreti legislativi devono essere conformi alle leggi deleganti e queste alla Costituzione. I decreti legge, se convertiti in legge, costituiscono un unico insieme (d.l. e legge di conversione) che deve essere conforme alla Costituzione. Normalmente avviene che la legge di conversione modifichi il decreto legge: in tal caso la legge di conversione, per gli articoli modificati, entra in vigore il giorno dopo della sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale (G.U.). Gli articoli, invece, del decreto legge non modificati entrano in vigore prima: il giorno dopo la pubblicazione del decreto legge sulla G.U.. Gli usi, come già detto, sono fonti di regole o norme. Il fenomeno è più vasto di quanto non sembri. Non solo si hanno usi in campo “privatistico-pubblicistico” (ad es.: il “legnatico” che limita i diritti di proprietà a favore di certe comunità), ma anche in campo pubblicistico (si parla di usi in campo costituzionale, amministrativo, tributario, internazionale eccetera). 2.1.1.2. Regolamenti e direttive CE Attualmente si inseriscono tra le fonti i regolamenti e le direttive UE. Le direttive, poi, se sufficientemente precise (se cioè non contengono solo dei "principi", ma vere e proprie "norme"; se sono, si dice, self executing) sono immediatamente operative e prevalgono sulle leggi dei vari Stati della Comunità Europea. Quindi sono una fonte che, nella scala gerarchica, si inserisce tra quella sub (2) e quella sub (3) del IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 41 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO paragrafo precedente. Ciò implica che le varie PP.AA. e i giudici nazionali, tra una legge nazionale e una direttiva CE self executing, devono applicare quest'ultima. Le direttive, quindi, in quanto prevalgono sulle leggi ordinarie (e regionali) degli Stati aderenti alla CE contribuiscono a creare l'ordinamento comunitario. 2.1.1.3. I regolamenti (0) I regolamenti si distinguono dalle leggi soprattutto per due dati, di cui uno di sostanza e l'altro formale: (1) dal punto di vista sostanziale i regolamenti contengono prescrizioni di dettaglio rispetto a una qualche legge; (2) dal punto di vista formale il loro iter procedurale di formazione è diverso da quello delle leggi. (1) I regolamenti statali (delegati, di organizzazione, esecutivi) sono disciplinati dall’ art. 17 della l. 400/1988. (2) I regolamenti degli altri enti (Regioni, enti locali, eccetera) sono emanati sulla base di una qualche norma che attribuisce tale potere (regolamentare) a tali enti (v.si l’art. 117 della Costituzione). (1)-(2) I regolamenti, in quanto non sono leggi, non sono suscettibili di essere annullati dalla Corte costituzionale. Possono essere, rispettivamente, annullati (su ricorso) dagli organi di giustizia amministrativa (TAR e Consiglio di Stato) o disapplicati sia dagli organi di giustizia amministrativa che dalla M agistratura ordinaria (in ambito civile: giudice di pace, Tribunale, Corte di Appello, Corte di Cassazione; in ambito penale: giudice di pace,Tribunale, Corte di Appello, Corte di Assise, Corte di Assise di appello, Corte di Cassazione; in ambito tributario: Commissioni provinciali, regionali, Corte di Cassazione, eccetera). IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 42 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO 2.1.1.4. Gli atti amministrativi Le PP.AA., in quanto devono attuare le norme del potere legislativo e quindi attuare le leggi statali, i Regolamenti e le direttive CE, i Regolamenti statali e quelli regionali o di altri enti pubblici, emanano atti amministrativi con i quali dettano, a valle, altre norme. Gli atti amministrativi, se ritenuti illegittimi, possono essere annullati dagli organi di giustizia amministrativa. Detto annullamento è possibile solo dietro ricorso al TAR (e, in sede di appello, avanti al Consiglio di Stato), su ricorso da presentarsi da chi ne abbia interesse entro il termine decadenziale di 60 giorni, ovvero su ricorso al Presidente della Repubblica entro il termine decadenziale di 120 giorni (v.si, attualmente –e per quanto concerne altri termini più brevi- il nuovo Codice del processo amministrativo approvato con il d.lg. 104/2010). 2.1.1.5. Le sentenze Le sentenze definitive sono un formante del diritto in quanto contribuiscono ad interpretarlo e quindi contribuiscono alla "formazione" finale del diritto come insieme di "norme" (v.si sub 2.1.3). Non solo: le stesse, per i relativi destinatari contengono norme vincolanti in maniera definitiva. Le sentenze, allorquando sono divenute definitive (in genere le pronunce della Corte di Cassazione [in sede civile e penale] o del Consiglio di Stato [in sede di impugnativa di atti amministrativi]), costituiscono l’insieme delle norme o regole non più modificabili per le parti coinvolte nelle relative liti. Le stesse, si dice, “fanno del bianco il nero”, “del quadrato il rotondo”: si prescinde, cioè, dalla loro correttezza o meno. Le sentenze definitive vanno accettate qualunque ne sia il loro contenuto. Non solo: con l’art. 360 bis cpc, per il quale: “Il ricorso è inammissibile: 1) quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa”), le sentenze della Cassazione civile, se uniformi, assumono lo stesso carattere di generalità e astrattezza di solito attribuito alle norme statali. La giurisprudenza è fonte di diritto anche in altro senso: molto spesso “crea” norme che poi il legislatore recepisce in qualche testo normativo (es.: la norma sulla risarcibilità degli interessi legittimi che si può far risalire a Cass. SS.UU. 500/1999; la norma sull’avvalimento che si può fare risalire alla giurisprudenza comunitaria, poi recepita dalla direttiva CE/18/2004 [artt. 47 e 48] e dagli artt. 49 e 50 del d.lg. 163/06 17 eccetera) . 17 V.nsi, sul punto: H. KELSEN , La dottrina pura del diritto, Einaudi, 1966, pagg. 267 e segg.; ID ., Teoria generale del diritto e dello Stato, Etas libri, 1966, pagg. 166 e segg. e 448; H.L.A. HART, Il concetto di diritto, Einaudi, 1965, pagg. 155-159 e 166-173; A. ROSS, Diritto e Giustizia, Einaudi 1965, pagg. 81 e segg.; R. GUASTINI, Dalle fonti alle norme, Giappichelli, IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 43 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO 2.1.1.6. Gli atti negoziali Anche gli atti negoziali (contratti, testamenti, delibere di società eccetera) creano regole giuridiche. Gli stessi possono –in certi casi- essere dichiarati nulli dal potere giudiziario ovvero essere annullati in altri casi meno gravi. 2.1.2. Lo S tato: potere legislativo, esecutivo, giudiziario 2.1.2.1. Il diritto è, attualmente, in massima parte di origine statale o comunque di istituzioni statali (CE). Anche gli usi, in tanto sono fonti di diritto, in quanto, nelle materie regolate da leggi e da regolamenti, siano richiamati dalle leggi o dai regolamenti (art. 8 delle preleggi al c.c.). 2.1.2.2. Lo Stato è una realtà sociologica: è costituito da un gruppo, più o meno vasto, di persone (il popolo) insediate stabilmente su un territorio e con una certa organizzazione (potestà di imperio o sovranità). La sovranità consiste nel potere di disciplinare la condotta delle persone che abitano su quel territorio. Da qui il fatto che lo Stato può essere ridotto ad una organizzazione giuridica, a ordinamento giuridico: i tre elementi dello Stato (popolo, territorio, potere) si riducono a uno (al potere giuridico che trova nel territorio il proprio limite e nei soggetti costituenti il popolo i propri destinatari, in quanto "cittadini" di quello Stato "territorialmente" delimitato). Accanto alla concezione sociologica (la prima) e quella formalistica dello Stato (la seconda), convivono altre concezioni di tipo più propriamente filosofico. Vi è una concezione organicistica: lo Stato è come se fosse un uomo "in grande", la massima "persona" da cui promanano tutti i diritti dei cittadini. Gli individui, secondo tale concezione, sono nulla al di fuori dello Stato: è questo, tramite le leggi, che attribuisce diritti ai cittadini ("La patria è un tutto di cui noi siam parte e al cittadino è fallo considerar se stesso separato da lei": da "L'Attilio Regolo" di M etastasio). All'opposto di tale concezione (assolutistica, antidemocratica), si pone la concezione atomistica o contrattualistica: sono gli individui che, costituendo la società, creano lo Stato. Lo Stato è effetto di una "volontà generale" degli individui i quali, con una specie di "contratto sociale", creano lo Stato. Questo, in tale concezione, è un posterius (viene dopo) rispetto agli individui. Vengono prima alcuni diritti fondamentali degli individui (i "diritti dell'uomo e del cittadino") che ogni Stato deve, non "creare", ma semplicemente "riconoscere". Anche la concezione formalistica (lo Stato si riduce all'ordinamento giuridico) ha una sua filosofia: lo Stato è "puramente" ciò che è, organizzazione coattiva e quindi 1990, pagg. 139 e segg.; G. ALP A, Il metodo nel diritto civile, Contr. e impresa, 1/2000, pagg. 457 e segg. (par. 9.5); P.G. MONATERI, in Le fonti non scritte e l’interpretazione (a cura di G.ALP A E ALTRI), UT ET, 1999, pagg. 491 e segg. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 44 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO giuridica: quindi, in tale concezione, possono convivere gli Stati antidemocratici come quelli democratici. 2.1.2.3. Nell'ambito di una concezione liberal - democratica nata, nel continente europeo, con la Rivoluzione francese, è stata elaborata la teoria della "divisione dei 18 poteri". Trattasi di una particolare forma di governo . L'elemento "sovranità", "potere", "potestà di imperio", affinché non dia luogo al Governo di una sola persona (monarchia, dittatura, tirannia) deve essere esercitato da tre organi diversi dello Stato: (1) dal Parlamento (potere legislativo), dal Governo, dall'Esecutivo (potere esecutivo), dalla M agistratura (potere giudiziario). 2.1.2.3.1. Secondo la nostra Costituzione (che si ispira al principio della "divisione dei poteri") il potere è suddiviso come segue: (1) potere legislativo: spetta, in via prioritaria, (1.1) al Parlamento (artt. 55 e segg. Cost.), poi (1.2) al Governo (artt. 76-77 Cost.) e, infine (1.3), alle Regioni (a statuto speciale [art. 116 Cost.] e a statuto ordinario [art. 117 Cost.]), nonché alle Province di Trento e Bolzano; (2) potere esecutivo: spetta al Governo (artt. 92 e segg. Cost.), alle Regioni, a statuto speciale e ordinario, agli Enti locali (artt. 114 e segg. Cost.) e, in genere, a tutte le Pubbliche Amministrazioni che abbiano potere regolamentare e di emanare atti amministrativi; (3) potere giudiziario: spetta alla M agistratura Ordinaria (A.G.O. = Autorità giudiziaria ordinaria: artt. 101 e segg. Cost.), agli organi di giustizia amministrativa 18 Vanno poi distinte, nell’ambito dello Stato come organizzazione giuridica, le varie forme di Governo: (a) governo di uno solo (monarchia), (b) di pochi (oligarchia), (c) di molti o di tutti (democrazia). Ovviamente tali forme “pure” non si trovano quasi mai. Una forma monarchica si può accompagnare a una forma democratica (es.: governo inglese). Il governo democratico si attua attraverso delle regole. “ Le regole sono su per giù per le seguenti: a) tutti di cittadini che abbiano raggiunto la maggiore età senza distinzione di razza, di religione, di condizione economica, di sesso, ecc., debbono godere dei diritti politici, cioè del diritto di esprimere col voto la propria opinione e/o di eleggere chi la esprima per lui; b) il voto di tutti di cittadini deve avere peso eguale (cioè deve contare per uno); c) tutti i cittadini che godono dei diritti politici debbono essere liberi di votare secondo la propria opinione formatasi quanto più è possibile liberamente, cioè in una libera gara fra gruppi politici organizzati che competono fra loro per aggregare le domande e trasformarle in deliberazioni collettive; d) debbono essere liberi anche nel senso che debbono essere posti nella condizione di avere reali alternative, cioè di scegliere fra soluzione diverse; e) sia per le deliberazioni collettive sia per le elezioni dei rappresentanti vale il principio della maggioranza numerica, anche se possono essere stabilite diverse forme di maggioranza (relativa, assoluta, qualificata) in determinate circostanze preventivamente stabilite; f) nessuna decisione presa a maggioranza deve limitare diritti della minoranza, in modo particolare il diritto di diventare, a parità di condizioni, maggioranza” (N. BOBBIO , Quale socialismo?, Einaudi, pagg. 42-43). IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 45 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO (TAR, Consiglio di Stato: art. 103 Cost.), alla Corte dei Conti (art. 103 Cost.), al Tribunale ordinario e superiore delle Acque pubbliche, alle Commissioni tributarie (d. lg. 31-12-1992, n. 545 e 31-12-1992, n. 546), eccetera. 2.1.3. L'interpretazione e il diritto. La certezza del diritto 2.1.3.1. Se è vero che le fonti del diritto sono costituite da leggi, direttive CE, regolamenti e che tutti questi testi normativi sono scritti in una certa lingua (l'italiano, nel caso nostro) e quindi consistono in un insieme di frasi, di disposizioni (D) sintatticamente costruite secondo le regole della grammatica, allora è altrettanto vero che vanno interpretate (I). Solo dopo l'interpretazione è possibile asserire quale è la regola, la norma (N) veicolata dalla fonte, dalla disposizione (D): quindi solo dopo l’interpretazione è possibile capire quali sono le regole del diritto e come è costituito l'ordinamento giuridico. Il diritto non è, quindi, nelle fonti e cioè nelle disposizioni scritte in una certa lingua contenuta nelle leggi e nei regolamenti, bensì in quelle fonti interpretate. Dalle fonti (D) si perviene al diritto (all'insieme strutturato di norme: N) solo attraverso l'attività interpretativa o ermeneutica (I). Quindi, simbolicamente, il viaggio dalle fonti al diritto è segnato dai seguenti passaggi: D--------I-------N Ovviamente, avendo presente tale schema, è facile arguire che non vi è corrispondenza biunivoca tra D e N. Supponiamo che D sia una legge di tre articoli con 2 commi per ciascun articolo e che ciascun comma esprima una regola a sé stante. Scrivendo le D nella colonna di sinistra, avremmo: Legge X (D) \ Diritto da legge X (D + I = N) (1) articolo 1, comma 1 (2) articolo 1, comma 2 (3) articolo 2, comma 1 (4) articolo 2, comma 2 (5) articolo 3, comma 1 (6) articolo 3, comma 2 Se vi fosse corrispondenza biunivoca tra D e N, se cioè vi fossero tante N quante sono le D e viceversa, avremmo 6 Norme. In realtà abbiamo sì 6 norme ma non "certe", bensì solo "probabili". Scriviamo di nuovo, alla sinistra della nostra colonna, le D e a destra le N attraverso I. Potremmo avere: Legge X (D) \ Diritto da legge X (D+I = N) (1) D1 N1 o N1.1 IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 46 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO (2) D2 (3) D3 N2 N3 o N3.1 (4) D4 N4 (5) D5 N5 (6) D6 N6 o N6.1 A fronte di D1, D3, D6, l'interpretazione può condurre a dire, rispettivamente, che sono possibili N1 o N1.1, N3 o N3.1, N6 o N6.1. La scelta tra N1 e N1.1, N3 e N3.1, N6 e N6.1 è frutto di interpretazione dottrinale (certi giuristi, commentando la legge X, ammettono le possibili N sopra trascritte: poi, però, asseriscono che l'interpretazione "più corretta" è quella per cui a D1 corrisponde N1.1, a D3 corrisponde D3, a D6 corrisponde N6.1) o di interpretazione giudiziale (le sentenze, come formante del diritto, contribuiscono a chiarire quale è l'interpretazione più corretta). A volte interviene lo stesso legislatore che, con legge (interpretazione autentica), dice che, ad esempio, a D1 corrisponde N1.1. Accanto alle interpretazioni dottrinali e giurisprudenziali, vi sono quelle date da circolari (ad esempio, a proposito della legge M erloni, la c.d. circolare Di Pietro). Vi è poi un tipo di interpretazione dato dalla prassi, dal comportamento: D1 si interpreta nel senso di N1.1. Di fronte a leggi recenti e in assenza di interpretazioni autentiche, prevalgono le interpretazioni di prassi e quelle dottrinali: segue, a molta distanza di tempo, l’interpretazione giurisprudenziale occasionata da vertenze (liti) in ordine al significato di varie disposizioni normative. Il diritto, quindi, per l’ambiguità del linguaggio in cui è espresso e per la 19 presenza, in tale linguaggio, di termini vaghi , è sempre un insieme di norme (significati di disposizioni) con un certo grado di incertezza. Una relativa certezza si acquisisce quando, dopo un lungo periodo di vigenza di una legge, questa viene interpretata sempre in un certo modo dalla giurisprudenza dominante e cioè da una serie 19 Le ambiguità sintattiche degli enunciati linguistici danno luogo a interpretazioni diverse. I termini “ vaghi”, pur essendo precisi, hanno un’estensione dai confini sfumati. Ad esempio i termini: “calvo”, “mucchio” eccetera hanno confini sfumati perché è praticamente impossibile asserire di quanti capelli deve essere carente un uomo per essere calvo, di quanti granelli di sabbia deve essere composto un mucchio di sabbia (v.si, in punto: C. LUZZATI, La vaghezza delle norme: un’analisi del linguaggio giuridico, Giuffrè, 1990). IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 47 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO di sentenze dei massimi organismi giurisprudenziali (Corte di Cassazione, Consiglio di Stato). Ancora una precisazione: nel caso di D2, D4 e D5, i dubbi interpretativi non sussistono. In questi casi si asserisce che in claris non fit intepretatio. In realtà, anche in tali ipotesi, v’è pur sempre un’attività interpretativa, solo che questa conduce a risultati univoci. In sintesi: il diritto come insieme di N non è mai “certo”. E’ solo certo l’insieme delle disposizioni normative (D), escluse, anche qui, le norme derivate dalle disposizioni normative attraverso la “interpretazione-integrazione analogica”. Queste ultime si trovano nelle fonti di cognizione (v. sub. 2.1.4.). 2.1.3.2. Quanto sopra detto può essere ripetuto nei termini che seguono. (a) L’ordinamento giudico è costituito da norme e da metanorme emanate dagli organi costituzionalmente deputati a tale funzione. Accanto a queste si collocano i principi. M a l'ordinamento giuridico non è solo questo. L'ordinamento, come insieme di norme, è "certo" solo in questo senso: che qualsiasi soggetto, con un certo sforzo e consultando certi documenti (G.U.C.E., G.U., raccolte di leggi, codici, raccolte di regolamenti, B.U.R. ecc.), può sapere se una certa legge o un certo regolamento è valido o no e cioè se è vigente o è stato abrogato. Da qui a conoscerne il significato il passo non è breve. Sotto tale aspetto il termine "certezza" del diritto può voler dire poco o nulla. E allora si può asserire che l'ordinamento giuridico, inteso come insieme di disposizioni normative e cioè come insieme di espressioni linguistiche di un certo tipo (prescrittivo), è "certo" solo perché quel linguaggio, sia esso un insieme di frasi scritte in una certa lingua o un insieme di frasi traducenti comportamenti (le raccolte di consuetudini), è rintracciabile in qualche documento. Possiamo qualificare tale insieme, come insieme di disposizioni normative, come "D". "D" può -come qualsiasi linguaggio- non essere chiaro. La non chiarezza può dipendere da errori imputabili al legislatore (e quindi da ambiguità di intere frasi o insiemi di frasi), dal contenere dette frasi dei termini vaghi, da altri motivi quali l'ignoranza dei destinatari delle disposizioni, eccetera. L'ambiguità deriva dalla difficoltà, per il legislatore, di comunicare: tale ambiguità aumenta se ogni nuovo messaggio, ogni nuova disposizione normativa si inserisce in un vasto complesso di disposizioni precedenti con l'intento di modificarle in tutto, ma generalmente solo in parte. I termini vaghi, quali "giustizia", "libertà", "democrazia" e/o i sintagmi "modica quantità" quale criterio discriminante un comportamento illecito da uno lecito ecc., non sono ambigui: denotano oggetti, entità, nozioni, concetti che sono a cavallo tra oggetti, entità, nozioni, concetti tra di loro diversi e distinti, così come il "grigio" che è a cavallo tra il "bianco" e il "nero" o come IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 48 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO la nozione di "mucchio" che non è l'uno e non è il due . . . e non si può dire esattamente da dove cominci. L'ignoranza dei destinatari delle disposizioni giuoca un suo ulteriore ruolo nel rendere incerto il significato delle disposizioni normative. Per questi e/o per altri motivi, "D" può significare N1 o N2 o anche, a volte, N3 ("norma uno" o "norma due" o norma tre"). Da qui l'esigenza che "D" venga interpretato onde pervenire a "N" e ciò affinché dall'ordinamento giuridico come insieme di disposizioni normative si possa pervenire all'ordinamento giuridico come insieme di norme (o regole). (Viene impiegato "D" per denotare le norme ancora da interpretare e "N" per individuare le norme interpretate e cioè le regole). Come è facile immaginare l'ordinamento giuridico è costituito da "D" interpretato e quindi da "N" quando vi è una certa unanimità di prassi interpretativa. L'interpretazione -come è noto- è opera del Legislatore (interpretazione autentica) o dei giudici (interpretazione giurisprudenziale). A queste attività primarie concorrono altri tipi di interpretazione: quella dottrinaria (di per sé di poco valore se non nei limiti in cui influenza e a volte determina quella giurisprudenziale), quella della pubblica amministrazione (attraverso risoluzioni e/o circolari); quella consistente nella prassi (qualora "D" venga interpretato come "N1" attraverso comportamenti concreti). Resta il fatto che, in assenza di interpretazioni particolarmente autorevoli (quella autentica, quella giurisprudenziale, quella che è opera dei vari M inisteri attraverso circolari e/o risoluzioni), l'ordinamento rimane "D". Da qui il fatto che detto ordinamento è perpetuamente parte "N" e parte "D": le metanorme tese a rendere coerente e completo l'ordinamento hanno a che vedere con l'attività di interpretazione e quindi la fase di passaggio da "D" a "N". Prima, l'attività interpretativa è presente in chi deve emanare le disposizioni normative. Il legislatore ordinario, quello regionale, la PA devono, rispettivamente, interpretare le norme costituzionali, i principi di cui all'art. 117 Cost. (le c.d. leggicornice), le leggi ordinarie al fine di emanare leggi ordinarie e regionali costituzionalmente legittime e atti amministrativi che non siano viziati da "violazione di legge". Quindi l'attività di interpretazione, permea l'intero ordinamento: il legislatore interpreta le leggi costituzionali e il complesso delle disposizioni precedenti per emanare le leggi ordinarie e quelle regionali. La PA interpreta la legge per emanare atti amministrativi. I giudici interpretano, alla luce di certi criteri interpretativi (le metanorme di cui agli artt. 12-14 delle "preleggi" al c.c.), le leggi ordinarie, quelle costituzionali, quelle regionali, nonché gli atti amministrativi. I giudici, ancora, interpretano i fatti e tutta l'attività privata alla luce di altri criteri interpretativi (artt. 1362-1371 c.c.). La Corte Costituzionale interpreta le disposizioni costituzionali e quelle ordinarie per decidere se le seconde sono coerenti con le prime e quindi legittime. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 49 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO Che "D", attraverso “I” (interpretazione) diventi "N" è un'eventualità, una probabilità che diventa tanto più elevata quanto più è estesa nel tempo la durata di "D" e quanto più "D" regola "casi concreti". Sono questi ultimi, in definitiva, che costituiscono il motore di passaggio da "D" a "N". (a.1) Le leggi in senso tecnico, nel nostro ordinamento, sono solo quelle costituzionali (costituzione e leggi costituzionali), quelle ordinarie (emanate dal Parlamento e dal Governo: leggi, decreti legislativi, decreti legge poi convertiti in legge), quelle regionali (delle Regioni a statuto speciale o ordinario) e quelle delle Province di Trento e Bolzano. Tali leggi sono dei testi normativi che, in quanto scritti nella lingua italiana, contengono delle disposizioni normative e cioè delle disposizioni appartenenti all'insieme "D". Anche gli "usi" (quelli di cui all'art. 8 delle "preleggi" al c.c.), in quanto normalmente tradotti in disposizioni normative espresse e raccolti in testi normativi, vanno ad arricchire "D". Le norme non sono solo prodotte da leggi e consuetudini. Vi sono norme di rango inferiore che però appartengono latamente a "D": si tratta dei regolamenti, degli atti amministrativi non così generali come i regolamenti, delle stesse sentenze che contengono le regole di un caso controverso per le parti litiganti e che poi contribuiscono a far passare da "D" a "N" le disposizioni implicate dal caso deciso. Detto questo e tornando all'attività di interpretazione si è visto che detta attività permea l'intero ordinamento. Se vogliamo, la si può trovare a monte delle stesse Costituzioni, laddove il legislatore costituente interpreta le esigenze sociali di quel dato momento storico per emanare il "D" di rango costituzionale. Quindi elencando e volendo attribuire un certo, seppur vago, contenuto all'attività di interpretazione, possiamo asserire che: a) il legislatore costituzionale (e, in tale nozione, può rientrare il legislatore CE in quanto fonda un ordinamento comunitario) traduce in disposizioni normative costituzionali le esigenze sociali e i valori espressi dalla società civile di quel dato momento storico: tale attività è libera nei contenuti: quindi è attività "retorica", intesa come attività di convincimento e autoconvincimento che quelle disposizioni costituzionali sono la miglior traduzione possibile dei valori espressi dalla società civile in quel momento); b) il legislatore ordinario (Parlamento, Governo e, semplificando, le Regioni a statuto speciale e ordinario, nonché le Province di Trento e Bolzano) interpreta le disposizioni costituzionali per emanare il complesso delle leggi ordinarie. Vi è una logica tra leggi costituzionali e leggi ordinarie? E cioè: può asserirsi che le leggi costituzionali costituiscano un insieme di assiomi, rispetto ai quali il legislatore ordinario, se intende pervenire alle leggi ordinarie, ha un solo percorso obbligato: quello di emanare solo quel tipo di leggi ordinarie (limitate nel numero), forzatamente di un solo e univoco significato, sì che le medesime, all'evidenza, siano un insieme di regole senza bisogno di ulteriore attività interpretativa? IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 50 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO La risposta è negativa. Non vi è logica tra norme di rango superiore e inferiore. Anche l'attività di normazione ordinaria implica un'interpretazione di tipo retorico. Vi è però una differenza: qui il legislatore ordinario, almeno a livello formale, non media tra esigenze e/o valori sociali e disposizioni normative, bensì tra disposizioni normative di diverso rango. Tale attività presuppone un tipo di interpretazione diverso: il legislatore ordinario non deve superare la cornice di confine posta dalle disposizioni costituzionali. Se si pensa però che le leggi costituzionali vanno interpretate al fine di ricavarne la cornice di confine, è da affermarsi che, anche in ordine a tale confine, non è mai possibile una assoluta determinazione a priori. Detto questo, l'attività di normazione ordinaria, pur libera nel senso su precisato, è più vincolata di quella del legislatore costituzionale; c) le pubbliche amministrazioni, nell'emanare atti amministrativi, interpretano le leggi ordinarie dovendo tener conto di ulteriori limiti: nell'interpretare queste, devono tener conto delle metanorme di cui agli artt. 12-14 delle "preleggi" al c.c., nonché delle disposizioni costituzionali (nel dubbio le leggi ordinarie vanno interpretate nel senso che non contrastino con le leggi costituzionali). L'interpretazione che costituisce il medium tra leggi e atti amministrativi è, in tal caso, ancora "meno libera" (se tale sintagma vuol dire qualcosa) di quanto non lo sia nel caso sub b). E il minor grado di libertà che incontra l'attività interpretativa sembra essere dato da criteri razionali; in sostanza, dall'applicazione al mondo delle regole precettive di principi propri delle regole assertive (i principi di non contraddizione, del "tertium non datur"); d) l'autorità giudiziaria (ordinaria o amministrativa), nell'applicazione della legge, deve: (a) ricostruire i fatti; (b) scegliere, tra le varie regole, quella o quelle regolanti i fatti; (c) quindi decidere e cioè emanare una sentenza. Di conseguenza i giudici interpretano i fatti e interpretano le disposizioni normative: fanno cioè un "ragionamento giuridico" in ordine al quale si pone il problema se il medesimo sia di tipo esso pure retorico ovvero logico e, in particolare, di tipo sillogistico. Anche il ragionamento giuridico implicante scelte tra fatti e norme al fine del decidere, viene ricondotto a un argomentare di convincimento (previo autoconvincimento) e quindi di tipo retorico; e) tutti i soggetti dell'ordinamento, infine, interpretano fatti e norme, a seconda dei casi, tenendo conto delle precedenti attività illustrate sub a), b), c) e d). Nei casi dubbi o comunque controversi (allorquando cioè pur essendo abbastanza chiaro che il fatto x è regolato da "N1", ma vi è chi contesta ciò asserendo che "D" è, ad es., "N2), non v'è altra possibilità che l'attivazione delle azioni processuali. In tali casi l'ordinamento, a priori, offre "D" ma non "N": chi vuol sapere se il suo caso è regolato da "N1" o da "N2" deve attivare il "giuoco" processuale: solo alla fine di tale giuoco saprà se il fatto x è regolato da "N1" o "N2". (a.2) Torniamo all'attività interpretativa. Di mano in mano che si passa dall'attività sub a) a quella sub b) e, via via, sino a quella sub e), detta attività diventa IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 51 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO sempre più complessa: nel caso sub e) è, addirittura, impossibile rintracciare nel nostro ordinamento, a diversità di quello a "Common Law" ove vige il principio "stare decisis", la regola sicura. Il "caso" controverso naviga nell'incerto e l'ordinamento non offre se non "D" o un "N" contestato. La contestazione è, a volte, giustificata, visto che, ad esempio, la Cassazione -oberata di lavoro- applica molto di frequente, in ordine allo stesso caso concreto, una volta la norma "N1", altra volta quella "N2" e altre volte ancora, sempre in ordine al medesimo caso concreto, applica "D" come "D1" interpretata come "N1" e altre volte "D" come "D2" a sua volta interpretata come "N2". A prova di ciò si può addurre il fatto, che la Cassazione, nel 1990, si è smentita 176 volte, seppure su un totale di 12.207 sentenze pubblicate. Analoghi contrasti si sono verificati, per la Cassazione, nel 1988 e 1989 e si verificano presso tutti gli organi giurisdizionali. Da qui il fatto che nessuno può dire con certezza che "D" è "N1": un avvocato può sempre consigliare al cliente di iniziare una causa perché vi è una qualche probabilità che la giurisprudenza cambi. Quindi, a rigore, l'ordinamento giuridico passa da "D" a "N", ma in maniera provvisoria: è mai "N" definitivamente. In tutti i casi esaminati l'interpretazione è attività retorica. Scelta di traduzione in norme di certi valori, principi, esigenze sociali, nel caso a). Attribuzione di certi significati alle norme costituzionali nel caso b); attribuzione che è, anche qui, una scelta "a rischio" tra il significato 1 e il significato 2 delle disposizioni costituzionali (la scelta è "a rischio" perché può essere smentita dalla Corte Costituzionale). Lo stesso discorso può essere fatto per le ipotesi sub c) e d), in quanto le interpretazioni ivi implicate sono sindacabili dai giudici (caso d). Nel caso d) si ha "interpretazione forte", quella giurisprudenziale, perché oltre la medesima non c'è nulla: è l'interpretazione che, in relazione a un certo caso, fa passare (provvisoriamente e precariamente) l'ordinamento da "D" a "N". In conclusione non vi è "logica" nel tradurre in norme le esigenze sociali nel caso a): anche quando venga assunto come dato di partenza un certo principio sociale, questo, proprio perché "vago", potrà essere tradotto in "D1" o “D2" o “D3". Lo stesso può dirsi per il caso b): questo però pone problemi di superamento di confini. Anche in tal caso però -visto che, a priori, può sempre argomentarsi che il confine non è stato superato e la disputa sarebbe senza fine se non troncata, non da regole di inferenza logica, ma dall'esercizio di un certo potere (quello della Corte Costituzionale)- non può parlarsi di "logica tra norme": le norme ordinarie non sono conseguenza necessaria di quelle costituzionali. Nel caso d), ove tecnicamente si parla di "ragionamento giuridico", vi sono più tesi: (a) quella del sillogismo giuridico: la norma x è la premessa maggiore; il fatto regolato dalla norma x è la premessa minore; la sentenza è la conclusione (tutti i ladri devono essere puniti; Tizio è un ladro; Tizio deve essere ed è punito; tutti gli X devono essere Y; qualche Z è X, qualche Z deve ed è Y: sillogismo analogo a quello "DArII" IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 52 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO per le proposizioni assertive); (b) quella dell'argomentazione di tipo retorico: il giudice deve scegliere il fatto e decidere se Tizio è o no un ladro e poi scegliere tra più disposizioni normative "D" per verificare quella che regola il caso, indi deve interpretare "D" nel senso di "N"; infine emana la sentenza che è una decisione più o meno "argomentata"; (c) quella che, pur aderendo alla tesi (b), non esclude un nucleo logico del tipo (a). Si tratta di questo: l'attività del giudice è sempre di tipo retorico argomentativo. Una volta però che il giudice abbia chiarito il fatto x (Tizio ha sottratto qualcosa a qualcun altro); abbia deciso che la norma regolante il caso è "D" interpretata come "N1" (il fatto X è "furto" e "Tutti i ladri devono essere puniti") e, ancora, una volta che abbia deciso di compiere i doveri connessi alla sua funzione di giudice (e quindi deciso di decidere), allora non potrà sottrarsi a una operazione di pura deduzione logica. Dovrà concludere che dalla norma prescelta e interpretata come "N1" discende che Tizio deve essere punito e ciò in base al principio puramente logico per il quale la norma astratta: "Tutti i ladri devono essere puniti" comprende e include la regola concreta "Tizio, che è ladro, deve essere punito". L'enunciazione: "Tutti i ladri devono essere puniti", una volta che, per il tramite dell'interpretazione, sia stata chiarita nel senso che diventi una proposizione prescrittiva altrettanto chiara di una proposizione descrittiva ("Tutti gli uomini sono mortali"), può essere riespressa così: "I ladri a, b, c . . .n e quindi anche Tizio devono essere puniti". Diventa ovvio e tautologico allora asserire -accertato che Tizio è un ladro (accertamento analogo a quello per il quale "Socrate è un uomo" nel sillogismo DArII)- che Tizio deve essere punito. La "conclusione" ("Tizio deve essere punito") è frutto, a questo punto, di un giudizio analitico necessitato. L'intero processo è sì argomentativo e quindi retorico (si intende per "retorica" ogni attività umana argomentata e ragionevole, escluse unicamente le attività di tipo logico e matematico): includerà però un nucleo logico ineliminabile basato sul fatto che una certa "D - N1", in quanto mai individuale e quindi quasi sempre generale, include in sé tutte le regole individuali di cui quella generale è l'insieme o, se si vuole, l'universale, esausistiva comunque dell'universo del discorso. Come nella logica delle proposizioni descrittive (o aletiche) non viene posto in dubbio che la proposizione: "Tutti gli uomini sono mortali" include Tizio, Caio, Sempronio e quindi anche Socrate come uomo mortale, così nella logica delle prescrizioni non pare possa essere posto in dubbio che la proposizione: "Tutti i ladri devono essere puniti" includa anche quella per la quale "Tizio, in quanto ladro, deve essere punito". Ciò che va negato è che l'intero ragionamento giuridico sia di tipo sillogistico: una parte dello stesso pare lo sia purché si accetti che: (a) le proposizioni prescrittive, pur non rispondendo al criterio del "vero-falso", rispondono al criterio del "valido-non valido" (valido nel senso di norma esistente, non abrogata) e quindi al criterio del "si-no"; (b) le proposizioni prescrittive generali includono le proposizioni prescrittive particolari come loro elementi permettendo quindi la deduzione di tipo analitico. D'altra parte negando un nucleo logico e quindi che un "sillogismo pratico" sia IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 53 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO presente nell'argomentare giuridico, non si saprebbe come giustificare il fatto che il Giudice, prima di decidere (sentenziare), deve riportare il fatto nell'ambito di una certa norma. Se si affermasse che la norma: "Tutti i ladri devono essere puniti" è la norma che regola il caso di Tizio che ha rubato e poi non si concludesse nel senso che la norma implica che "Tizio, in quanto ladro, deve essere punito", si troverebbe che detto ragionamento è contraddittorio. Il Giudice potrà anche assolvere Tizio, ma includendo nel ragionamento complessivo altri elementi che non infirmino però il nucleo logico di cui sopra si è parlato. Se infirma un tale modo di procedere compie un'operazione analoga a quella di chi affermasse che se 4 include 3 non include però 2. L'argomentazione giuridica dell'attività sub d) è quindi, nel suo complesso, retorica e frazionata in più attività: (a) esame - selezione dei fatti e loro interpretazione; (b) interpretazione di più norme e scelta di quella ritenuta disciplinare i fatti in contestazione; (c) giudizio analitico (quindi "logico giuridico); (d) decisione-sentenza. 2.1.3.3. Stesso discorso può essere ripetuto per le altri fonti di produzione del diritto (Regolamenti, direttive, usi, contratti, sentenze eccetera). Per comprendere quali sono le norme generate da tali fonti, occorre interpretare queste ultime. 2.1.3.4. Altra fonte del diritto sono le direttive. Il termine designa sia vere e proprie “leggi” (si parla di Regolamenti e direttive comunitarie come delle “leggi” in quanto di grado superiore a quelle nazionali [es.: le direttive 17 e 18/2004 a proposito di appalti pubblici di lavori, servizi e forniture]), che “consigli”, “raccomandazioni”, “linee programmatiche” più o meno vincolanti (si parla, ad esempio, nel diritto societario, di direttive da parte della “società madre” nei confronti di “società operative”). 2.1.4. Le fonti di cognizione. Per fonti di cognizione si intendono i documenti su cui sono scritte le leggi, i regolamenti, le direttive CE. Tali documenti sono: (1) per le leggi nazionali (leggi, decreti legislativi, decreti legge e relative leggi di conversione), la Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana (G.U.); (2) per i regolamenti statali, la G.U.; (3) per le direttive CE, la Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee (G.U.C.E.); (4) per le leggi e i regolamenti regionali; il Bollettino Ufficiale della Regione (B.U.R.). Le sentenze sono pubblicate su riviste specializzate. 2.2. Diritto privato e pubblico. Diritto comune, diritto speciale. Diritto “comune-speciale” e diritto eccezionale o singolare 2.2.1. L’insieme delle norme giuridiche (costituenti, come si è visto, l’ordinamento giuridico) contiene vari sottoinsiemi. I criteri per creare detti sottoinsiemi sono vari. Il più antico è quello che suddivide le norme a seconda che riguardino i “soggetti” dell’ordinamento e i loro particolari interessi ovvero la comunità dei soggetti nel suo insieme. Le prime appartengono al diritto privato, le seconde al diritto pubblico. (Alcuni giuristi romani asserivano: “Publicum ius est quod ad statum reipublicae spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem”). IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 54 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO (1) Il diritto privato è per gran parte contenuto nel codice civile. Questo testo normativo riguarda: (a) i diritti delle persone e della famiglia (Libro I); (b) le successioni (eredità, legati ecc.: Libro II); (c) i diritti reali (proprietà, enfiteusi, superficie, usufrutto, uso, abitazione, comunione, condominio, possesso: Libro III); (d) le obbligazioni e i contratti (Libro IV); (e) il lavoro, le imprese, le società (le società di persone e cioè: società semplici, in nome collettivo, in accomandita semplice; le cooperative a responsabilità illimitata; le società di capitali e cioè: le società a responsabilità limitata, le società per azioni, le società in accomandita per azioni, le cooperative a responsabilità limitata: Libro V) (e) le ipoteche, i privilegi, i pegni, la forma pubblica di certi contratti, la conservatoria dei registri immobiliari, i principi in tema di esecuzione forzata, le prescrizioni e le decadenze (Libro VI). (Da notare che, per effetto dell’articolo 11 del c.c., anche le varie Pubbliche amministrazioni possono essere “soggetti” che si avvalgono delle norme del diritto privato: lo vedremo meglio in seguito). (2) Il diritto pubblico (quod ad statum reipublicae spectat) si suddivide, a propria volta, in vari altri rami: (a) diritto costituzionale (si occupa delle norme costituzionali e, in genere, di come è costituito lo Stato, il Governo e le altre istituzioni pubbliche); (b) diritto amministrativo (si occupa principalmente di che cosa può fare l’esecutivo e quindi delle attività delle varie pubbliche amministrazioni [PP.AA.]: atti amministrativi, contratti delle PP.AA. ecc. nonché della giustizia amministrativa); (c) diritto tributario (si occupa delle imposte, delle tasse, dei tributi in genere e del contenzioso tributario), (d) diritto ecclesiastico (si occupa dei rapporti tra lo Stato e le varie istituzioni religiose); (e) diritto penale (si occupa dei reati); (f) diritto di procedura civile (studia come deve celebrarsi il processo civile); (g) diritto di procedura penale (si occupa del processo penale), eccetera. 2.2.2. Altra distinzione è quella tra diritto comune (o generale) e diritto speciale. Tra l’uno e l’altro corre un rapporto tra genus e species. Se una determinata condotta è disciplinata dal diritto comune e dal diritto speciale, si applica il diritto speciale (lex specialis derogat generali). Se un certo settore del diritto speciale presenta delle lacune, queste vengono colmate dal diritto comune (caso frequente nel campo dei contratti delle PP.AA.). 2.2.3. La distinzione tra “diritto comune-speciale” e diritto eccezionale (o singolare) attraversa ogni tipo di norme. Si rintracciano norme eccezionali sia nel campo del diritto privato (costituito dal diritto comune e dal diritto speciale) che in quello pubblico. M entre il rapporto che corre tra diritto comune e quello speciale è quello tra regola (genus) e sua specificazione (species), il rapporto che corre tra diritto “comunespeciale” e diritto eccezionale è quello tra “regola” e sua “eccezione”. Da qui il fatto che tra regola e eccezione vi è netta separazione: non si applicano norme del diritto comune al diritto eccezionale e questo non è suscettibile di applicazione analogica. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 55 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO 2.3. Diritto nazionale, comunitario, internazionale Ogni diritto nazionale, a propria volta, si contrappone al diritto internazionale (che disciplina i rapporti tra gli Stati: in pace e in guerra). Per diritto comunitario, invece, si intende il diritto comune agli Stati membri della Comunità Europea: come tale fa parte del diritto nazionale di ogni Stato della CE. 2.4. Gli istituti giuridici 20 Se è vero che nel discorso prescrittivo si “fanno cose con le parole” e se la parola “istituto” significa, tra l’altro, in campo giuridico, ciò che viene 20 La locuzione “ fare cose con le parole” risale a JOHN LAUGSHAW AUSTIN (autore del libro: “ Come fare cose con le parole” Marietti Editore, 1987). Per capire il pensiero di Austin, occorre -a mio parere- aver presente che il linguaggio umano è oggetto di studio, secondo diversi punti di vista, da parte di una particolare disciplina scientifica chiamata linguistica. Questa studia il linguaggio, tra l'altro, dal punto di vista sintattico (e cioè come le varie parole si combinano, si collegano tra di loro: in greco syntaxis significa "combinazione", "ordine", "disposizione"), semantico (e cioè dal punto di vista del significato delle parole: dal greco semainein = significare) e dal punto pragmatico (e cioè come il linguaggio è anche azione o un insieme di atti linguistici: in greco pragmatikos = relativo ai fatti). 1. Dal punto di vista semantico, i discorsi dei parlanti (o di coloro che scrivono), si distinguono in descrittivi, prescrittivi, espressivi eccetera. 1.1. I discorsi descrittivi (ma si dice anche le frasi, le proposizioni, gli enunciati) descrivono il reale (es.: "Fuori piove", "Oggi è l'11 marzo del 2002", "I pianeti si muovono attorno al sole secondo questa legge" ecc.). Essi appartengono sia al linguaggio ordinario, che a quello scientifico. Come tali essi sono o "veri" o "falsi". Non è data una terza possibilità (tertium non datur). La verità consiste nella corrispondenza del discorso descrittivo con la realtà ("La neve è bianca" è proposizione vera se e solo se la neve [quella naturale] è effettivamente bianca). (La verità, secondo altra teoria, è coerenza linguistica: ma è teoria che, se si vuole, è semplice variante della verità come corrispondenza). Le frasi del discorso descrittivo si dicono anche aletiche (dal gr. a-létheia = verità) o apofantiche (dal gr. apofantikós = enunciativo assertivo: secondo Aristotele gli enunciati apofantici, in quanto asseriscono che qualcosa è o non è, possono solo essere veri o falsi). Le proposizioni del discorso descrittivo attuano un c.d. triangolo semiotico (semiotico dal gr. séma = segno che, a sua volta, significa qualcosa). Nelle dette proposizioni vi sarebbero dei "segni" (le parole della proposizione); questi veicolerebbero uno o più pensieri (o "sensi" o "concetti" o "significati") e i pensieri (o concetti o significati) avrebbero una loro estensione o denotazione o riferimento (i segni veicolano pensieri che rappresentano un pezzo di realtà). IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 56 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO T utte le parole c si riferiscono al mondo della natura o comunque a un mondo oggetto del mondo b. Quindi il concetto o significato di "mela" (mondo b) ha una estensione o denotazione che lega (da lògos = legame, concetto) tutte le mele concrete di questo mondo: ha, si potrebbe dire, un suo "perimetro": ha, al contempo, una sua intensione o connotazione nella testa, nel cervello, del parlante, nel senso che il "concetto di mela" racchiude, nella testa di ognuno, tutte le caratteristiche per le quali chi dice "mela" e non "pera" spezza il "continuo" del reale in due settori: "mela" e "pera" e così via, tendenzialmente, all'infinito. (Adesso, tra l'altro, si può capire perché, forse, la verità come coerenza è teoria più corretta di quella della verità come corrispondenza. La seconda dice che le proposizioni del mondo a sono vere se corrispondono agli oggetti del mondo c, per il tramite del mondo b. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 57 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO Però siccome noi qualifichiamo il reale c per il tramite di parole, non è poi sbagliato dire che le proposizioni del mondo a sono vere se e solo coerenti con le parole che qualificano il mondo c. Es.: la proposizione "la neve è bianca" è vera se la neve concreta è bianca, in definitiva vuol dire che siccome, in italiano, conveniamo di qualificare la neve, "con parole" come oggetto naturale, come bianca, allora diciamo la verità quando diciamo che la "neve, è bianca" e il falso quando diciamo che "la neve è verde". La verità non starebbe nella corrispondenza tra la proposizione virgolettata e la realtà, ma tra la proposizione virgolettata e il comune modo di qualificare "con parole" il colore della neve. Quindi nella "coerenza" tra le parole tra virgolette [il dire "la neve è bianca"] e le parole della comunità italiana che qualifica il colore della neve come bianca). 1.2. Il discorso prescrittivo è, invece, tipico della morale (es. "Ama Tua madre, come Te stesso" ovvero "Ama Tua madre un pochino di più della sorella" eccetera), del diritto ("Non devi commettere reati, se li commetti sarai punito"), del costume (es.: "Se sei in una riunione tra amici, non devi sputare per terra"), eccetera. Gli enunciati prescrittivi non si possono inquadrare in un triangolo semiotico, perché: (1) le parole a non rinviano, per il tramite del mondo b a un mondo reale c: semplicemente le parole creano delle regole come norme di condotta dei consociati; (2) quindi le parole a non hanno un significato (o concetto, o idea, o senso) che rinvii al mondo c: il significato di un enunciato prescrittivo sta tutto nella regola di comportamento; (3) nel discorso prescrittivo non ha senso parlare di "verità" perché non esiste corrispondenza tra ciò che si asserisce e il mondo della natura (una norma giuridica sarà solo valida [= in vigore] o invalida [= abrogata]: non ha senso dire che è vera o falsa). 1.3. Il linguaggio espressivo è quello delle varie arti (letteratura, musica, pittura ecc.). 2. Veniamo a Austin. Questi chiama "constativi" o "constatativi" i discorsi descrittivi sub 1.1. e "performativi" (da performance) quelli "prescrittivi". Rileva che i secondi non hanno a che vedere con la "verità" e che quando un parlante pronuncia enunciati performativi "fa cose con le parole". E cioè quando il legislatore emana una legge compie un atto linguistico con il quale "fa cose" e cioè crea delle norme o regole. Gli enunciati performativi sono caratterizzati, proprio perché creano "cose", da una "forza" (creatrice). (Austin prosegue la filosofia del c.d. secondo Wittgenstein. Per il primo Wittgenstein [quello del "T ractatus logico-philosophicus] hanno "senso" solo i discorsi descrittivi. Gli altri non hanno "senso" [v. mondo b del triangolo semiotico]: al par. 7. del T ractatus Wittgenstein dice: "Di ciò di cui non si può parlare [con il criterio di verità] si deve tacere". Nell'opera "Le ricerche filosofiche" e altre Wittgenstein dice invece che, accanto al discorso descrittivo, ve ne sono tanti altri. I discorsi vengono da Wittgenstein chiamati "giochi linguistici": gli uomini giocano diversi "giochi", nel senso che si occupano di "descrivere", "conoscere in senso scientifico", "prescrivere", "scrivere romanzi", "dipingere", eccetera). 2.1.1. Ad un certo punto Austin si accorge che ogni dire è sempre anche un fare: quindi non solo con gli enunciati performativi si fa qualcosa, ma anche nei discorsi descrittivi. Anche questi ultimi sono atti linguistici. Perviene così a dire che ogni atto linguistico è esaminabile sotto tre aspetti: (1) quello locutorio (è l'aspetto puramente grammaticale-sintattico); (2) quello illocutorio (ogni atto linguistico, compreso quello "constatativo" o descrittivo, oltre avere un significato-riferimento, ha una certa forza); (3) quello perlocutorio (ogni atto linguistico influenza il destinatario dell'atto: con gli atti descrittivi, si informa, si danno notizie ecc.; con gli IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 58 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO “istituito”,“costituito” da norme (ma anche le norme stesse e i principi “istituiti” da chi ha il potere di crearli), allora la locuzione “istituto giuridico” include tutti i fenomeni, le entità, costituite o regolate da norme. Nel campo del diritto privato si parla di istituti giuridici a proposito, ad esempio, della famiglia, della proprietà, dei diritti reali, della successione ereditaria, delle società, eccetera. Nel campo del diritto pubblico si parla di istituti giuridici, allorquando si usa la parola istituzione (Stato, Regioni, Enti locali, ma anche M agistratura, Capo dello Stato, eccetera). Altre volte si parla dell’istituto della rappresentanza politica e ministeriale, dell’istituto dell’espropriazione eccetera. Se poi si pensa che la proprietà è, al contempo, anche un diritto soggettivo, che i soggetti giuridici sono creazione di norme, si può affermare che la parola “istituto” include tutto ciò che è costituito da norme. Quindi, partendo dal generale al particolare, si può asserire che sono “istituti giuridici”: (1) le norme create o che sono oggetto di altre norme; (2) l’organizzazione costituita da norme; (3) i soggetti dell’ordinamento che: (3.1) intrattengono determinati rapporti giuridici con dei beni; (3.2) godono di certi diritti soggettivi in ordine a detti beni o verso altri soggetti; (3.3) hanno certi obblighi (o doveri) in ordine a detti beni e verso soggetti terzi; (3.4) esplicano determinate attività (su detti beni e verso terzi). 2.5. Le situazioni giuridiche favorevoli (diritti soggettivi, potestativi, azioni, pretese, interessi legittimi) L’istituto giuridico più importante sembra essere quello di soggetto giuridico. Occorre distinguere l’individuo umano (donna, uomo) come essere biologico dal detto individuo come soggetto giuridico. Questo –che è tale, nel nostro ordinamento, sin dalla nascita (art. 1 c.c.) e che, in quanto soggetto, può essere titolare di beni e acquistare (con la maggiore età) la capacità di agire (art. 2 c.c.)- può compiere degli atti giuridici. La nozione di soggetto si è ampliata sino a comprendere dei gruppi di soggetti fisici considerati unitariamente da qualche norma (v. art. 11 c.c.). Detti gruppi (se ne parlerà più diffusamente al par. 3.1) sono essi pure dei “soggetti giuridici” (es.: le associazioni, le società, ma anche, nel caso del diritto amministrativo, lo Stato, le Regioni, gli enti locali, l’INPS, l’INAIL, eccetera). I gruppi –se caratterizzati dal fatto di avere un patrimonio proprio e dal fatto che, in caso di debiti, i soggetti fisici facenti parte del gruppo non rispondono (con i loro patrimoni individuali) dei debiti del “soggetto gruppo”- sono anche chiamati persone giuridiche (in contrapposizione alle persone fisiche) o enti. atti prescrittivi si dettano regole di comportamento che, necessariamente, indirizzano la condotta degli uomini). IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 59 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO Tutti i soggetti, poi, intrattengono dei rapporti giuridici o con i propri beni o con altri soggetti: quindi, per varie cause, sono titolari di posizioni giuridiche favorevoli (godono di diritti soggettivi, eccetera) o sfavorevoli. Le situazioni giuridiche favorevoli si sogliono distinguere in diritti soggettivi, diritti potestativi, azioni, pretese, interessi legittimi. 2.5.1. I diritti soggettivi I diritti soggettivi sono delle potestà che qualsiasi soggetto giuridico ha o può avere in ordine a certi beni (es.: diritto di proprietà, di usufrutto, diritto sulla propria persona) o verso altri (es.: diritti di credito). I diritti soggettivi o sono “ri-conosciuti” da certe norme costituzionali (es.: libertà di pensiero, di associazione eccetera) o sono accordati da certe norme. (Nel caso di diritti soggettivi costituzionali si può asserire che certe norme giuridiche non “creano” quei determinati diritti, bensì li riconoscono come già esistenti, come se fossero “diritti naturali”). I diritti soggettivi si sogliono distinguere in assoluti (se possono essere fatti valere verso “tutti”, erga omnes: es.: i diritti di libertà, i diritti sulla persona, i diritti di autore, i diritti reali) e relativi (se possono essere fatti valere solo verso certe persone: es.: i diritti di credito possono essere fatti valere solo verso il debitore). (Come si può vedere, nel caso di diritto soggettivo la parola diritto ha significato diverso dalla analoga parola quale viene utilizzata per parlare di diritto oggettivo del quale si è parlato precedentemente e si parlerà successivamente. Nel caso di diritto soggettivo il relativo significato è quello di potestà, nel caso di diritto oggettivo il significato è quello di un insieme di norme. Un terzo significato viene assunto dalla parola diritto, allorché si dice che qualcuno studia un libro di diritto amministrativo. In tal caso si designa un libro che ha per oggetto lo studio delle norme relative a ciò che è e ciò che può fare il potere esecutivo). 2.5.2. I diritti potestativi Variante dei diritti soggettivi sono i diritti potestativi caratterizzati dal fatto che chi li esercita determina nella controparte una situazione di soggezione, nel senso che tale situazione non può essere violata. Faremo un esempio. Se Tizio ha un diritto di credito, Caio (debitore) avrà l’obbligo di pagare quella somma di denaro di cui Tizio va creditore. Il diritto di credito può, però, essere violato. Caio può non pagare esponendosi all’azione giudiziaria di Tizio per ottenere il soddisfacimento del proprio diritto violato. Se, però, in un contratto si stabilisce che Tizio può recedere da quel contratto, Caio nulla può opporre all’esercizio del recesso e cioè all’esercizio di quello che viene denominato un diritto potestativo. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 60 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO 2.5.3. Le pretese Le pretese, pur nella vaghezza del concetto, esprimono qualcosa di meno del diritto soggettivo. Esprimono la situazione di chi non è ancora titolare di un diritto soggettivo ma è in attesa di divenirne titolare (esempi sono dati, in diritto privato, dagli artt. 492, 713, 874, 972, 1168 c.c., eccetera). Di pretese si può parlare allorquando si legge che qualcuno non può “far valere le proprie ragioni” (art. 1707 cc), “può far valere i propri diritti” (art. 38 cc), “può chiedere”, “può domandare” eccetera. 2.5.4. Le azioni Di azioni si parla a proposito di diritti soggettivi pubblici che abilitano qualcuno ad attivare un processo. (Chiunque può iniziare un’azione processuale per far valere un proprio diritto soggettivo: artt. 24 e 113 Cost.; al PM [Pubblico M inistero] spetta l’esercizio dell’azione penale, art. 112 Cost., eccetera). 2.5.5. Interessi legittimi Le pretese, nel caso del diritto amministrativo, si denominano interessi legittimi. Sono, essi pure, qualcosa di meno di un diritto soggettivo: consistono nella pretesa a che il potere esecutivo esegua correttamente “la legge” allorquando emana atti amministrativi che possono ledere gli interessi di qualche soggetto giuridico. Si distinguono interessi oppositivi (es.: chi ha ottenuto un permesso edilizio ha interesse a opporsi a chi glielo vuol annullare; chi ritiene che qualcuno abbia ottenuto un permesso edilizio illegittimo, può opporsi a tale permesso), interessi pretesivi (es.: chi è proprietario di un terreno edificabile secondo il prgc [piano regolatore generale comunale], ha la pretesa a che gli venga accordato il permesso edilizio), strumentali (in certi casi qualche soggetto ha interesse ad essere interpellato in ordine a un certo affare, eccetera). Gli interessi legittimi comportano, quindi, che gli atti amministrativi non devono essere illegittimi. E sono tali se emanati da un organo incompetente (es.: dalla Giunta comunale invece che dal Sindaco), se emanati in violazione di una qualche legge, se viziati da situazioni di eccesso di potere (es: emanati sulla base di una errata situazione di fatto; in contrasto con precedenti atti, eccetera). Gli atti amministrativi illegittimi possono essere autoannullati dalla stessa Autorità che li ha emanati, ovvero annullati dai TAR competenti se impugnati nel termine di 60 giorni (o in un termine più breve, a seconda dei casi disciplinati dal Codice sul processo amministrativo). 2.5.6. Esistono poi situazioni favorevoli “miste” che sono, al contempo, diritti soggettivi e interessi legittimi a seconda del punto di vista dal quale si osservano: il titolare di un bene immobiliare soggetto a esproprio (e sino a che il decreto di esproprio non è emanato) è, al contempo, titolare di un diritto soggettivo verso tutti i terzi eccezion fatta che per l’autorità espropriante e di un interesse legittimo verso IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 61 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO quest’ultima. Situazione che pare essere assimilata, concettualmente, a quella della dualità ”onda/corpuscolo”, “continuo/discreto” a proposito delle particelle elementari secondo la fisica quantistica. Stessa situazione si può presentare, in alcuni casi, per le situazioni giuridiche sfavorevoli. 2.6. Le situazioni giuridiche sfavorevoli (doveri, obblighi, soggezioni, poteridoveri) 2.6.1. I doveri, gli obblighi, le obbligazioni Le situazioni sfavorevoli sono date dai doveri giuridici. Nel linguaggio giuridico si suole distinguere tra doveri (o obblighi) e obbligazioni. I doveri implicano l’osservanza di qualsiasi norma giuridica. Le obbligazioni sono, invece, dei doveri particolari e sono disciplinate in specifico dagli articoli 1173 e segg. del codice civile. Quindi tra doveri e obbligazioni corre un rapporto da genere a specie. Le obbligazioni consistono in obbligazioni di dare (una somma denaro o altro bene) o di fare (es.: un appaltatore, con il contratto di appalto, assume, verso la stazione appaltante, l’obbligazione di costruire una certa opera). 2.6.2. Le soggezioni Le soggezioni sono quelle situazioni (passive) determinate dall’esercizio di un diritto potestativo. Se, per ricorrere all’esempio già fatto precedentemente, in un contratto tra Tizio e Caio è previsto che Tizio può recedere, Caio si trova a dover subire l’esercizio del recesso senza nulla poter opporre. Potrà, ovviamente, contestare che ricorrano le condizioni per l’esercizio del diritto potestativo di Tizio; ma se dette condizioni sussistono, nulla può opporre. Diverso è il caso di chi ha un debito verso Tizio di pagare 100 euro (obbligazione di dare): in tal caso Caio può adempiere o meno (salvo, ovviamente, esporsi, in caso di inadempimento, all’azione processuale con la quale Tizio tenterà di recuperare, con una sentenza, i 100 euro non corrisposti spontaneamente). 2.6.3. Poteri - doveri Si parla di poteri-doveri, soprattutto nel campo del diritto amministrativo, per denotare quelle situazioni nelle quali chi ha un certo potere pubblicistico ha anche il dovere di esercitarlo: il potere esecutivo ha il dovere, ad esempio, di attuare le leggi emanate dal potere legislativo; i giudici, che hanno il potere di risolvere delle vertenze giudiziarie, hanno al contempo il dovere di emanare le relative sentenze. Di poteridoveri si parla anche nel campo del diritto privato: i genitori hanno certi diritti sui figli, ma hanno anche il dovere di educarli (artt. 315 e segg. c.c.). IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 62 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO 2.7. Il rapporto giuridico. I beni. Le attività 2.7.1. Il rapporto giuridico Il rapporto giuridico è la relazione che intercorre tra più soggetti in ordine a certi beni. Tale rapporto sussiste anche a proposito dei diritti soggettivi assoluti: infatti i diritti di libertà, i diritti sul proprio corpo, i diritti reali (di proprietà, superficie, usufrutto, eccetera) non consistono solo nella potestà di utilizzare liberamente le proprie facoltà mentali, il proprio corpo, i propri beni, bensì anche nel dovere di tutti di non ledere detti diritti (v. art. 2043 cc). Il rapporto giuridico intercorre non solo tra tutti i soggetti dell’ordinamento ma anche tra gli Stati (in tal caso detto rapporto è disciplinato dal diritto internazionale). 2.7.2. I beni La nozione di bene giuridico è molto ampia: nel caso del diritto privato include tutte le cose, siano esse mobili o immobili (art. 810 e segg. cc). Nel campo del diritto amministrativo, i beni di cui godono gli enti pubblici sono distinti in beni demaniali (artt. 822-825 cc), beni patrimoniali indisponibili (artt. 826 e segg. cc) e beni patrimoniali disponibili. I beni patrimoniali disponibili non si distinguono da quelli privati: detti beni sono alienabili, pur con certe procedure (es., art. 12, secondo comma, della l. 127/97). 2.7.3. Le attività I soggetti giuridici, oltre che intrattenere rapporti con altri soggetti giuridici in merito a certi beni, sono abilitati (hanno cioè la capacità giuridica: artt. 2 e 11 c.c.) a compiere degli atti giuridici chiamati genericamente negozi giuridici. Particolari soggetti, o comunque particolari organi dello Stato, sono poi abilitati a emanare certi atti giuridici particolarmente qualificati: il Parlamento, il Governo, le Regioni e le Province di Trento e Bolzano sono abilitati a emanare degli atti normativi (cioè delle leggi); tutte le pubbliche amministrazioni sono abilitate ad emanare dei regolamenti e degli atti amministrativi. Come le persone giuridiche private, anche le pubbliche amministrazioni, ai sensi dell’art. 11 c.c., possono essere protagoniste dell’attività negoziale. 3. Le varie PP.AA. come “Autorità” e come “soggetti” di diritto. Attività delle PP.AA. Cenni sugli atti di scienza, sul negozio giuridico, sui procedimenti amministrativi e negoziali, sui contratti privati e delle PP.AA. 3.1. Le varie PP.AA. come “Autorità” e come “soggetti di diritto”. Attività delle PP.AA. 3.1.1. Le norme, come già detto, "fanno cose con le parole". Una delle "cose" che fanno è quella di ampliare, estendere, la nozione di "soggetto", come parola qualificante un'entità naturalistica e cioè la donna e l'uomo a delle realtà di "gruppo". IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 63 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO Siccome non solo il soggetto "donna-uomo" gode di poteri e/o di diritti soggettivi (es: diritti di proprietà, di credito eccetera) ovvero assume degli obblighi (di rispettare la proprietà altrui, di pagare i debiti eccetera), ma tali diritti e tali obblighi vengono, a volte, goduti e assunti da gruppi di persone, allora certe norme costituiscono tali gruppi come "soggetti". O, se si vuole, estendono la nozione naturalistica di soggetto (comprensiva, si ripete, della donna e dell'uomo) a realtà di gruppo, laddove il "gruppo" gode autonomamente di poteri, di diritti e assume obblighi a prescindere dai poteri, diritti e obblighi imputabili alle persone facenti parte del gruppo. In sostanza, si potrebbe dire che mentre il "soggetto donna/uomo" è opera della natura (e del legislatore), tutti gli ampliamenti di tale nozione sono opera dell'uomo (del solo legislatore) attraverso le norme giuridiche e quindi attraverso il diritto. La nozione di "soggetto" è talmente ampia da coprire qualsiasi realtà di gruppo, compresa la comunità statale (lo stesso Stato è, cioè, esso pure un "soggetto"). Il concetto di "soggetto" comprende ogni entità che abbia poteri e obblighi giuridici: comprende quindi sia la donna e l'uomo, che lo Stato. Partendo dalla nozione minimale ("donna/uomo") per arrivare allo Stato si hanno: (1) soggetti singoli; (2) "soggetti - gruppo" senza personalità giuridica (o gruppi concepiti come soggetti non entificati); (3) "soggetti - gruppo" con personalità giuridica (o gruppi entificati); (4) "soggetti pubblici" con personalità giuridica (o enti di diritto pubblico). I "soggetti - gruppo" senza personalità giuridica assumono obblighi assieme alle persone che fanno parte del gruppo: si dice che tra il gruppo e le persone facenti parte del gruppo v'è solidarietà (alle condizioni previste, normalmente, caso per caso) nelle obbligazioni verso i soggetti che hanno un contrapposto diritto. I "soggetti - gruppo" con personalità giuridica assumono diritti e obblighi in maniera totalmente autonoma rispetto alle persone che fanno parte del gruppo: la caratteristica della "personalità giuridica" comporta che degli obblighi del gruppo risponda solo quest'ultimo (non v'è, cioè, solidarietà tra il gruppo e le persone che ne fanno parte). I soggetti pubblici hanno le stesse caratteristiche dei "soggetti - gruppo" con personalità giuridica; in più godono di particolari poteri: quelli di emanare regolamenti e atti amministrativi. Cerchiamo, ora, di elencare, senza pretese di completezza, i vari soggetti secondo i criteri sopra delineati: (1) soggetti naturalistici; (2) gruppi senza personalità giuridica; (3) gruppi con personalità giuridica; (4) enti pubblici. (1) Soggetti naturalistici: donna/uomo. (2) Gruppi senza personalità giuridica: (2.1) le associazioni non riconosciute e i comitati (artt. 36 e segg. c.c.); (2.2) le comunioni (artt. 1100 e segg. c.c.); (2.3) i condòmini negli edifici (artt. 1117 e segg. c.c.); (2.4) le società di persone (2.4.1: società semplici; 2.4.2.: società in nome collettivo; 2.4.3.: società in accomandita IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 64 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO semplice: artt. 2251-2324 c.c.); (2.5) i consorzi tra imprenditori e altri tipi di consorzi (artt. 2602 e segg. c.c.) 21. (3) Gruppi con personalità giuridica: (3.1) le associazioni riconosciute (artt. 14 e segg. c.c.); (3.2) le fondazioni (artt. 25 e segg. c.c.); (3.3) alcuni consorzi reali in agricoltura (es.: consorzi per regolare il deflusso delle acque: art. 914 c.c.); (3.4) le società di capitali (3.4.1.: società a responsabilità limitata; 3.4.2.: società per azioni; 3.4.3.: società in accomandita per azioni; artt. 2325-2506 quater c.c.); (3.5) le società cooperative (art. 2511 e segg. c.c.); (3.6) le società con partecipazione dello Stato o di enti pubblici (artt. 2449-2450 cc [e numerose norme speciali]); (3.7) le società di interesse nazionale (art. 2451 cc [e,anche qui, numerose norme speciali]); (3.8) le società costituite all’estero (artt. 2507-2510 cc); (3.9) le società holding(12); (3.10) i consorzi di cooperative (che, a diversità degli altri consorzi, godono della personalità giuridica); (4) Enti pubblici: (4.1) lo Stato; (4.2) le Regioni a statuto speciale e ordinario; (4.3) gli Enti locali (Province, Comuni, Consorzi di Comuni, Unioni di Comuni; Città metropolitane; Aziende speciali: v.si TU 267/2000); (4.4) altri (numerosissimi) enti pubblici istituzionali (INPS, INAIL ecc. e alcuni consorzi reali in agricoltura [consorzi di bonifica: art. 862 c.c.; consorzi di miglioramento fondiario: art. 863 c.c.]). I soggetti (1), (2) e (3) appartengono al diritto privato: quindi non fanno parte del potere esecutivo se non tramite un atto di concessione da parte di un Ente pubblico, non possono emanare né regolamenti contenenti "norme materiali", né atti amministrativi. I soggetti (4) appartengono al diritto pubblico (sono studiati da vari rami del diritto pubblico: costituzionale, amministrativo, tributario, giuscontabile, eccetera) e godono delle prerogative sia dei soggetti (3), che del potere di emanare regolamenti e atti amministrativi. I soggetti (4), nel loro insieme, costituiscono latamente il "potere esecutivo" o, meglio ancora, la pubblica amministrazione. Siccome i "soggetti pubblici" sono tanti, si parla di pubbliche amministrazioni (pp.aa.). Detti soggetti, con la loro 21 V.nsi: F. GALGANO , Qual è l’oggetto della società holding? In Contr. e Impresa, 1986, n. 47; L’oggetto della holding è, dunque, l’esercizio mediato e indiretto dell’impresa di gruppo, Contr. e Impresa, 1990, I, 401 (a commento di Cass. 26-2-1990, n. 1439); Direzione e coordinamento di società, Comm. cc artt. 2497-2497 septies, Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 2005, 1 e segg. V.nsi, altresì: Cass. 8-5-91, n. 5123; Cass. 24-3-2003, n. 4274. Comunque, a proposito delle società di gruppo, vi sono tre tesi: (1) la concezione atomistica (es.: App. Roma, 1-7-85, Foro it., 1986, I, 781); (2) la concezione per la quale vi è un’unica impresa e un unico soggetto giuridico (es.: giurisprudenza giuslavoristica con assorbimento della “pluralità nell’unità”); (3) la concezione per la quale occorrerebbe combinare l’unità (di impresa) con la pluralità (di soggetti): la Cass. 1439/90 e 4274/03 seguirebbero, secondo Galgano, quest’ultima concezione. V.si, altresì, sempre di F. GALGANO, Direzione e coordinamento di società, Zanichelli-Il Foro italiano, 2005, pagg. 1-56. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 65 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO duplice capacità: (a) di emanare regolamenti e atti amministrativi; (b) di agire come soggetti privati (art. 11 cc), vengono anche chiamati "Autorità pubbliche". Vi sono, poi, situazioni soggettive che, concettualmente, presentano gli stessi caratteri già evidenziati a proposito delle situazioni giuridiche favorevoli (ma anche sfavorevoli) di cui al par. 2.5.6. Si tratta, ad esempio, delle “società-organo” (tipicamente quelle in house): sono “organi” della PP.AA. titolari delle relative quote o azioni e “soggetti-società” verso tutti gli altri terzi. 3.1.1.1. Ancora un'avvertenza. Si è detto che la nozione di "soggetto" è generalissima. Da un certo punto di vista è la più generale che il diritto conosca, assieme a quella di "bene" e di "rapporto". Secondo certi Autori, con le tre nozioni di soggetto, di bene e di rapporto giuridico si potrebbe costruire l'intero mondo del diritto. Se si pensa che è "soggetto" anche lo Stato da cui promana l'intero (o quasi) corpo delle disposizioni normative (D) e che il diritto disciplina la condotta umana in relazione a certi "beni" (alla libertà, al godimento dei beni economici, eccetera), è chiaro che assume altrettanta centralità la nozione di "rapporto giuridico". Infatti vi sono rapporti o relazioni tra i vari poteri dello Stato (legislativo, esecutivo, giudiziario), rapporti tra lo Stato e i suoi sudditi, rapporti tra i cittadini (lo Stato riconosce un'autonomia ai soggetti: quella di stipulare tra di loro contratti; v.si art. 1322 c.c.). E' l'insieme delle norme giuridiche di cui consta lo Stato che, a sua volta, qualifica lo Stato come soggetto. E', cioè, l'insieme delle norme di organizzazione e di condotta a costituire lo "Stato - tutto" e lo "Stato - soggetto". E' ovvio, infatti, che lo Stato e ogni altro ente pubblico, oltre che dettare le regole giuridiche per gli "altri" soggetti, le detta anche per se stesso, sia nelle sue funzioni di tipo costituzionale (potere legislativo, esecutivo, giudiziario), che nelle sue funzioni di "parte" e cioè di soggetto che, come gli altri, deve stipulare contratti per costruire opere pubbliche, per le forniture che gli sono necessarie, per alienare beni (privatizzare il patrimonio pubblico), eccetera. 3.2. Le attività delle PP.AA. 3.2.1. Riprendiamo il discorso dei soggetti pubblici, delle varie pp.aa.. Queste possono (art. 11 c.c.) sostanzialmente agire come "Autorità", come potere pubblicistico, e come soggetti privatistici. Quindi possono: (1) emanare (oltre ai regolamenti) atti di scienza e atti amministrativi; (2) stipulare contratti come tutti gli altri soggetti dell'ordinamento giuridico; (3) emanare atti amministrativi e stipulare contratti: un "misto" tra (1) e (2); (4) stipulare convenzioni con altri enti pubblici non aventi natura contrattuale, ma simili ai trattati internazionali. (Spiegheremo il significato di tali attività nel successivo par. 3.3.). Sono, poi, ammessi, attualmente, gli accordi di programma e i contratti ad oggetto pubblico. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 66 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO 3.3. Cenni sugli atti di scienza, sugli atti amministrativi, sui procedimenti amministrativi e negoziali, sui negozi giuridici, sui contratti dei privati e delle pp.aa. Cenni sulle concessioni e sulle convenzioni 3.3.0. Gli atti: atti di scienza, atti amministrativi, atti negoziali Anche la categoria dell'atto è generalissima. Si potrebbe asserire che le leggi, i regolamenti, gli atti di scienza, gli atti amministrativi, le sentenze, sono "atti linguistici" con una loro "forza" e che detta forza è l'essenza della norma veicolata dagli atti linguistici. Trattasi di un modo diverso forse per dire le stesse cose già dette sub 1.1. e 2.1.3.. (1) Si può, cioè, asserire che le disposizioni normative (D = leggi, regolamenti, atti amministrativi, sentenze), una volta interpretate (I), danno luogo al diritto come N (= norme come "significato" delle disposizioni normative). (2) Si può, però, anche dire che tutte le "fonti" del diritto sopra menzionate consistono in "atti linguistici" del potere legislativo, esecutivo e giudiziario, i quali atti linguistici, una volta interpretati, danno luogo a norme come significato "degli atti linguistici". 3.3.1. Quindi gli atti linguistici di tipo normativo (leggi e regolamenti) permettono che i vari soggetti dell'ordinamento emanino, a loro volta, altri atti. Questi ultimi possono essere di vari tipi. Volessimo sintetizzare, potremmo dire che tutti i soggetti dell'ordinamento possono emanare: (1) atti di scienza e cioè atti attestativi di certi fatti, di certe situazioni (es.: testimonianze nei processi da parte di privati; certificati [di nascita, di matrimonio, di morte, urbanistici, eccetera] da parte di varie pp.aa.): trattasi di atti appartenenti al linguaggio descrittivo, anche se fanno parte del mondo del diritto che è prescrittivo: di fronte agli atti di scienza è possibile porre la domanda se i medesimi sono "veri" o "falsi"; (2) atti di volontà; gli atti di volontà si distinguono, a loro volta in: (2.1) atti amministrativi caratterizzati dal fatto di essere: (a) di numero chiuso (gli atti amministrativi possono essere emanati solo in presenza di norme che ne autorizzino l'emanazione); (b) autoritativi (sono l'espressione di un potere pubblicistico, quindi consistono in comandi, ordini, divieti, permessi), (c) attributivi di diritti (per esempio le concessioni); (d) estintivi di diritti (revoche, decadenze, eccetera); (c) unilaterali (nel senso che -fatte le debite eccezioni di cui alla legge 241/1990- non sono il frutto di un previo accordo con il destinatario dell'atto); (2.2) atti negoziali: questi ultimi sono "dichiarazioni di volontà dirette a produrre certe conseguenze giuridiche" e, rispetto agli atti amministrativi, sono: (a) di numero aperto (il diritto accorda ai soggetti dell'ordinamento il potere di emanare tutti gli atti negoziali che vogliono, con il solo limite di non violare alcune, poche, norme di legge sulla nullità (artt. 1418, 1419 c.c.) e sulla annullabilità (artt. 1425-1446 c.c.); (b) liberi IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 67 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO (è, si dice, il regno dell'autonomia privata nel senso che detti atti non solo possono essere di numero indefinito, ma del contenuto più vario: essenziale, sul punto, è l'art. 1322 c.c.); (c) oggetto di eventuali accordi (sono, a diversità degli atti amministrativi, di natura privatistica e quindi i vari negozi giuridici possono "fondersi" tra di loro e dar luogo ad altre figure); come tali i negozi giuridici possono essere: (2.2.1) negozi giuridici unilaterali: esempi: testamenti, proposte per concludere un certo affare economico, accettazione di quelle proposte, eccetera; (2.2.2) negozi giuridici bilaterali o contratti: una proposta, se accettata, dà luogo a un contratto costituito, appunto, da due negozi giuridici unilaterali fusi tra di loro (artt. 1321 e 1326 c.c.); (2.2.2.1) contratti unilaterali se, ad esempio, fanno sorgere obbligazioni a carico di una sola "parte" (la nozione di "parte" coincide, in questo caso, con la nozione di "soggetto") e diritti a favore dell'altra parte (es.: contratto di donazione ex artt. 769 e segg. c.c.); (2.2.2.2) contratti bilaterali o a obbligazioni contrapposte: la parte "a" assume obblighi verso "b", ma anche "b" assume obblighi verso "a" con la conseguenza che "a" e "b" sono al contempo obbligati e titolari di diritti vicendevolmente (tali contratti si dicono anche sinallagmatici. Il contratto di appalto appartiene, ad esempio, a tale categoria); (2.2.3) negozi giuridici plurilaterali: ad esempio più proposte e più accettazioni vicendevoli danno luogo ai c.d. contratti con comunione di scopo (contratti costitutivi di comunione ex artt. 1350/3 c.c.; contratti associativi; contratti costitutivi di società: artt. 2247-2248 c.c.). 3.3.2. In particolare i procedimenti amministrativi e negoziali (1) Si ha un procedimento amministrativo con un provvedimento finale allorquando più atti amministrativi sono funzionalmente collegati l'uno con l'altro con un provvedimento finale. Allorquando, ad esempio, si ha un atto a, poi un atto b, poi c, poi..... n con un provvedimento finale p; a, b, c, . . . n-------p Esempio di procedimento si ha nelle gare di appalto. Si ha (nell'asta pubblica) : a = delibera a contrattare, poi b = pubblicazione del bando di gara, poi c = scelta dell'offerta migliore e quindi p = verbale di aggiudicazione come atto che enuncia l'iter procedurale e il rispetto delle regole di gara contenute nel bando di gara. (2) Si ha procedimento negoziale allorquando vi è una serie di atti negoziali che si concludono, ad esempio, con il contratto. Riprendendo l'esempio della gara di appalto per asta pubblica si ha: atto a1 = delibera a contrattare che, nel richiamare il progetto e il capitolato speciale, evidenzia quale è l'oggetto del contratto di appalto e poi b.1 = pubblicazione del bando di gara come invito rivolto a tutti i soggetti idonei a partecipare alla gara IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 68 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO perché presentino le offerte e poi c.1 = presentazioni delle offerte come proposte contrattuali degli appaltatori e infine d.1 come accettazione, da parte della p.a., della offerta migliore (il verbale di aggiudicazione, prima dell’entrata in vigore del d.lg. 163/2006, ex artt. 16 r.d. 2440/1923 e 1326 c.c. equivaleva a contratto). (1) e (2) Gli atti (1) sono pubblicistici; quelli (2) sono privatistici. A volte gli stessi documenti veicolano al contempo atti amministrativi e atti negoziali: nell'esempio della gara per appalto a pubblico incanto la delibera a contrattare, il bando di gara il verbale di aggiudicazione sono documenti che veicolano atti amministrativi (a, b, c ... n e p) e negoziali (a.1, b.1, d.1). L'atto c.1 è solo negoziale. Ancora un'avvertenza. A sensi dell'art. 11 delle preleggi al c.c.: la legge non dispone che per l'avvenire, essa non ha effetto retroattivo. Nei procedimenti, amministrativi o negoziali che siano, e secondo la teoria del fatto compiuto (oramai accettata dalla giurisprudenza), si applica la legge del tempo degli atti a e/o a.1 se gli atti successivi sono logicamente consequenziali di a e a.1. Esempio: Lex 1 Lex 2 a, b, c d...p a.1, b.1, c.1 d.1 C Se gli atti a, b, c e a.1, b.1 e c.1 sono stati compiuti sotto la Lex 1 e d, p, d.1 e C sono stati compiuti sotto la Lex 2, si applicherà, per tutta la serie di atti e quindi per l'intero procedimento, la Lex 1 se d, p, d.1 e C sono logicamente dipendenti, rispettivamente, di a e a.1. Gli atti emessi sotto Lex 2 è come se fossero "fatti compiuti" sotto la Lex 1 perché sviluppo, conseguenza, di a e a.1 compiuti sotto la Lex 1. 3.3.3. In particolare i contratti privati. Nullità, annullabilità, risoluzione. I contratti privati della P.A. a evidenza pubblica. L’invalidità degli atti amministrativi 3.3.3.1. L'articolo 1321 c.c. definisce il contratto come segue: Il contratto è l'accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale. (A titolo di esempio, possiamo dire che il contratto di appalto [art. 1655: "L'appalto è il contratto col quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un'opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro"] e il contratto d'opera intellettuale, quello, ad esempio, con cui qualcuno incarica un geometra o un architetto o un ingegnere di redigere un progetto ovvero di fare la direzione lavori per un'opera [art. 2230 c.c.: "Il contratto che ha per oggetto una prestazione di opera intellettuale è regolato dalle norme seguenti e, in quanto compatibili con queste e con la natura del rapporto, dalle disposizioni del capo precedente"] sono sottospecie del contratto in genere). IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 69 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO Il contratto, in sostanza, è un accordo tra due o più parti per 'costituire, regolare o estinguere un rapporto giuridico patrimoniale' (1321 c.c.). Quindi non ogni accordo è un contratto: non lo è, ad esempio, il matrimonio perché questo pur essendo un accordo non gode del requisito della 'patrimonialità'. Il contratto, proprio in quanto accordo economico-patrimoniale, è costituito a propria volta di sottoelementi. Per cogliere tale fenomeno occorre considerare che l'ordinamento giuridico, e cioè il complesso delle norme giuridiche che regolano la vita associata, prende in considerazione sia 'fatti' involontari (es.: forza maggiore, stati di necessità, lo scorrere del tempo ecc.), che fatti volontari in quanto opera dell'essere umano. Questi ultimi (i fatti volontari), lo si è già visto, sono chiamati 'atti giuridici'. Gli atti, a loro volta, vengono distinti in 'atti di scienza' (es.: atti di comunicazione, certificati ecc.) e atti di disposizione ovvero 'negozi giuridici'. Il negozio giuridico è quindi la categoria generalissima di manifestazione di volontà unilaterale (es.. proposta contrattuale, offerta, accettazione ecc.). Quando l'elemento 'negozio giuridico' unilaterale si congiunge, si salda, si fonde con un altro elemento 'negozio giuridico' unilaterale, ambedue aventi il carattere della patrimonialità, si ha la nascita di un contratto che a sua volta può costituirsi tra due parti (es.: compravendita, locazione ecc.) ovvero tra più parti (contratti plurilaterali o con comunione di scopo, contratti associativi ecc.). In sintesi, e procedendo dal generale al particolare -si dice per genus et differentiam specificam- si ha una sequenza di tal genere: 1) fatti; 2) atti; 2.1) atti di scienza; 2.2) atti negoziali o negozi giuridici; 2.2.1) contratti. Gli elementi negoziali, come se fossero due o più frecce che con la punta convergente si incontrano, costituiscono il 'contratto'. Si ha contratto quando, dice l'articolo 1326 c.c., la parte A che ha avanzato una certa proposta (consistente in un negozio giuridico unilaterale avente un preciso contenuto; ad esempio di vendere un bene a un determinato prezzo) ha notizia che la controparte B ha accettato la propria proposta (accettazione che consiste in un altro negozio giuridico contrapposto al precedente; nell'esempio fatto avente il contenuto di acquistare quel bene a quel prezzo). Asserisce l'articolo 1326 c.c. (conclusione del contratto) che: 'Il contratto è concluso nel momento in cui chi ha fatto la proposta ha conoscenza dell'accettazione dell'altra parte'. Se quindi indichiamo con A la parte che si fa protagonista di una proposta qualificata (ad esempio, di conferire a un libero professionista l'incarico di progettare una certa opera per un determinato compenso) e con B la parte che accetta (il libero professionista nell'esempio di cui sopra), il contratto è costituito da due elementi (negozi giuridici unilaterali) chiamati 'proposta' e 'accettazione' e il costituirsi del contratto avviene quando detti due elementi si incontrano. Schematizzando, se A è la parte che avanza una certa proposta 'ax' (essendo 'a' la proposta e 'x' il contenuto della proposta) e IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 70 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO B la controparte che manifesta l'intento di accettare 'bx' ('b' essendo l'accettazione) e (R) la relazione di incontro tra 'ax' e 'bx', il contratto tra due parti può simbolizzarsi come A 'ax' (R) B 'bx'. Il contratto quindi consiste: (1) in un 'accordo' di due o più parti simbolizzato dalla relazione (R) a sensi dell'art. 1326 c.c., (2) in una 'causa' o funzione economicosociale del contratto (collegamento funzionale tra 'ax' e 'bx'); (3) in un 'oggetto' o contenuto voluto dalle parti ('x'); (4) in una certa 'forma' quando questa risulta prescritta dalla legge a pena di nullità: forma scritta o forma orale del contratto e quindi di A 'ax' (R) B 'bx'. Si può ancora dire, che ogni contratto può essere nullo ab origine (1418 c.c.), parzialmente nullo (1419 c.c.), ovvero annullabile perché costituitosi (stipulato) con una 'parte' non avente la richiesta capacità di contrarre (in quanto minorenne o seppur maggiorenne in situazione di contingente incapacità di intendere e di volere: artt. 1425 e 428 c.c.) o perché il consenso è viziato (per errore, dolo, violenza: artt. 1427 e seguenti c.c.). Può accadere poi che il contratto non sia ancora efficace perché sotto condizione sospensiva (es.: la parte A affida a un libero professionista B l'incarico di progettazione, se ed in quanto ottenga un certo mutuo per finanziare l'opera) o si risolva perché sotto condizione risolutiva (es.: A incarica B di progettare una certa opera con la clausola che il contratto che è alla base dell'incarico si risolve se entro una certa data A non ottiene un mutuo per il finanziamento dell'opera). Le condizioni del contratto sono disciplinate dagli articoli 1353-1361 del codice civile. Infine un contratto ab origine valido (e cioè né nullo, né annullabile), efficace (perché non sottoposto a condizioni oppure perché la condizione sospensiva si è verificata), può essere risolto per inadempimento di una delle due parti (1453 e seguenti c.c.) ovvero ancora per impossibilità sopravvenuta (1463 c.c.) o per eccessiva onerosità della prestazione (1467 e seguenti c.c.). 3.3.3.2. I contratti privati della P.A. a evidenza pubblica sono attualmente –e per quanto concerne quelli di spesa- disciplinati dal d.lg. 163/06 (c.d. “Codice degli appalti”). Detti contratti, come si vedrà, sono caratterizzati dal fatto che la scelta del contraente privato (appaltatore) non è libera, ma meccanica. In sostanza vi è una gara aperta (pubblico incanto) o ristretta (licitazione privata, appalto-concorso, trattativa privata negoziata) che accompagna la procedura negoziale, la cui struttura è simile a quella privatistica. Va detto, comunque, che i vizi della procedura amministrativa di gara inducono normalmente l’inefficacia dei contratti (artt. 121 e 122 del Codice del processo amministrativo). In pratica: ai vizi di nullità, annullabilità e inefficacia (ex artt. 1353 e segg. cc o per non intervenuta approvazione [in tal caso si parla di contratto sub IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 71 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO condicione iuris]), si aggiungono i vizi della procedura amministrativa che possono rendere il contratto, a certe condizioni, inefficace totalmente o parzialmente. I primi vizi sono sindacati dal Giudice ordinario (GO): i casi di inefficacia di cui ai citati artt. 121 e segg. del Codice del processo amministrativo sono, invece di “competenza-giurisdizione” del Giudice Amministrativo (GA). 3.3.4. Le concessioni Le concessioni (di servizi, di opere pubbliche, di beni demaniali) sono degli atti amministrativi unilaterali ai quali si accompagna normalmente un contratto che disciplina gli aspetti economici e di durata della concessione. Si tratta, quindi, normalmente, di un "misto" tra atti amministrativi e contratti: da qui la locuzione, che risale alla Cassazione (Cass. Roma 12-1-1990), di "concessionecontratto". Nel 1910 - D'ALBERTI M . - la Cassazione di Roma, in tema di concessioni su demanio marittimo per uso industriale, disse con chiarezza: 'le dottrine sono non sicure e determinate e molto meno di accordo nella definizione giuridica dell'essenza di siffatte concessioni. Sembra che sia più conforme alla loro nozione considerare l'atto di concessione in due momenti giuridici. Nel primo momento può scorgersi la determinazione della volontà dello Stato che, sottraendo all'uso pubblico un'area o una pertinenza demaniale, la concede, per uno spazio più o meno lungo di tempo, o ad uso di una industria marittima o per un uso industriale estraneo alle industrie marittime, a una qualunque industria privata; è un atto di sovranità dello Stato che si concreta nella concessione. M a in una secondo momento l'amministrazione dello Stato, regolando il suo atto di concessione, entra in rapporti di obbligazione col concessionario; e fra l'uno e l'altro si stabiliscono le condizioni, le modalità, il prezzo: si opera cioè una vera e propria stipulazione di contratto. Considerati analiticamente sono nella loro esattezza due negozi distinti, che si congiungono: il primo si attua e si realizza nell'altro, ma può anche essere accompagnato dalla stipulazione di un contratto. All'accettazione del concessionario, che rappresenta rispetto all'atto amministrativo il verificarsi della condizione per la quale esso consegue il suo effetto, si unisce il consenso delle due parti sopra un regolamento convenzionale della concessione pel suo modo di attuarsi e di svolgersi. Questo regolamento giuridico può essere costituito dal complesso delle modalità e delle condizioni dettate dalla pubblica amministrazione, indipendentemente da ogni vincolo convenzionale, ma può, senza ostacolo legale, formare obbietto di una stipulazione o di un complesso di patti, in cui l'ente pubblico assume la figura di contraente. In questa seconda ipotesi, certamente, possono aver luogo vere e proprie violazioni contrattuali e azioni ex contractu per ripararle. Sorgono obbligazioni e responsabilità, diritti e doveri giuridici le cui violazioni possono dar luogo ad azioni giudiziarie. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 72 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO Si ribadì, dunque, che la concessione era provvedimento amministrativo unilaterale, ma si inventò un contratto di diritto privato da aggiungere al provvedimento. La nuova figura concettuale fu denominata concessione-contratto. Nome impreciso, poiché era stato adottato dalla giurisprudenza già in periodi precedenti per indicare la vecchia costruzione integralmente privatistica delle concessioni. M a tale costruzione non trovò più seguaci fra i giudici e il termine concessione-contratto, da allora in avanti, verrà utilizzato in giurisprudenza soltanto come sinonimo breve dell'espressione contratto privatistico accessivo a provvedimento concessorio unilaterale..... La 'concessione-contratto' ebbe un rapida estensione. Quanto alle materie, si passò dai beni demaniali ai servizi pubblici alle opere pubbliche. In tutti questi settori, se la figura concettuale nacque in relazione ai rapporti concessori patrimonialmente più complessi e comunque più legati alle questioni dello sviluppo economico industriale, essa fu gradualmente utilizzata anche per rapporti patrimoniali semplicissimi, divenendo così una categoria generale, che designava la struttura della massima parte delle concessioni amministrative a rilevanza patrimoniale. Il nuovo concetto, diffondendosi, si precisò. In un primo tempo la giurisprudenza disse che la concessione e il contratto formavano un unico atto giuridico: già la Cassazione di Roma nel 1910 aveva parlato -come s'è visto- di 'due negozi distinti che si congiungono'; di qui si passò a ragionamenti meglio definiti. Così, si disse che le 'concessioni amministrative ... si differenziano dagli ordinari e comuni contratti di appalto, sebbene accompagnate da un contratto, perché costituiscono delle figure di diritto pubblico non aventi nulla di comune con i negozi di diritto civile. Dette concessioni, perciò, qualunque ne sia l'oggetto, restano sempre un'emanazione della pubblica potestà, la manifestazione del campo della personalità giuridica, in guisa che, quando pure questa personalità dell'ente pubblico vi si innesti e vi si accoppii, non ne resta snaturato il loro carattere sostanziale e prevalente dell'atto autoritario, derivante all'ente dalla personalità politica. Ed è appunto le esposta natura ed indole delle cennate concessioni quella che, rendendole atti di autorità amministrativa e non contratti di diritto civile, porta seco una prima conseguenza: quella cioè che, allorquando ad esse si accompagni un contratto, in tal caso l'atto di autorità precede il contratto medesimo ed investe il concessionario dei diritti necessari al servizio concessogli, mentre la figura contrattuale sussegue ed incede alla concessione, ond'è che, pur diventando la concessione ed il contratto adietto un atto solo, in esso, nondimeno, primeggia sempre ed avanza la pubblica potestà, a segno di assumere veste, carattere e norme singolari di un negozio di diritto pubblico’. In definitiva, l'immagine dei primi anni fu quella di un unico 'negozio', che era considerato di natura pubblicistica, poiché nell'impatto fra l'elemento pubblicistico e quello privatistico non poteva che attribuirsi -in base alla tradizione culturale- la IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 73 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO prevalenza al primo: si sostenne infatti in numerose pronunce giudiziali che il contratto aggiunto svolgeva un ruolo 'accessorio', 'complementare', 'dipendente'. In tal modo esteriormente era confermata la ormai solida costruzione unilateralistica: le concessioni continuavano ad essere, fondamentalmente, rapporti di diritto pubblico nascenti da atti amministrativi. L'immagine dell'unico 'negozio di diritto pubblico' -come si vedràprogressivamente dovette cedere il passo a quella dei due atti separati e indipendenti sul piano della validità e della efficacia giuridica: il contratto 'aggiunto' conquistò gradualmente una sua rilevanza autonoma, che s'è andata sempre più rafforzando nel tempo, finché si giunse a costruzioni che lo posero come l'elemento preminente della fattispecie. M a fin dalle prime pronunce sulle concessioni-contratto, quelle fondate sull'immagine del 'negozio unico', il riconoscimento della presenza di un elemento contrattuale, anche se accessorio, venne a svuotare e a vanificare nella sostanza la tesi unilateralistica. Infatti, l'innesto del contratto privatistico nell'atto amministrativo di concessione servì, fondamentalmente, come mezzo al fine di giustificare la presenza di diritti soggettivi perfetti in capo alle parti del rapporto: in particolare, in capo al concessionario. Quest'ultimo, viceversa, in base alle precedenti costruzioni unilateralpubblicistiche, era riconosciuto titolare di meri interessi legittimi, e non di diritti pieni, verso l'amministrazione concedente. La sussistenza di un vero e proprio contratto privatistico e, quindi, di diritti soggettivi perfetti del concessionario verso la pubblica amministrazione, comportava implicazioni rilevantissime d'ordine sostanziale e processuale, che stravolsero subito il quadro proprio della costruzione unilateralistica" (Le concessioni amministrative, Napoli 1981, pagg. 187-191). Attualmente le concessioni si distinguono in due categorie: (a) quelle assimilate ai contratti pubblici di lavori (artt. 142-160 del Codice degli appalti); (b) quelle di servizi (art. 30 del medesimo testo normativo). In ambedue i casi, però, trattasi di “contratti” (art. 3/12 del d.lg. 163/2006). 3.3.5. Le convenzioni pubblicistiche e gli accordi di programma Le PP.AA., oltre ad: (a) emanare atti amministrativi (attività pubblicistica); (b) stipulare contratti privati a evidenza pubblica (attività in parte pubblicistica e in gran parte privatistica); (c) farsi promotrici di attività "miste" tra (a) e (b) (concessionicontratto), possono anche stipulare delle convenzioni o delle intese non aventi contenuto patrimoniale, ma tese a coordinare l'attività amministrativa tra più enti pubblici. Tra tali convenzioni rientrano le intese per redigere, ad esempio, un piano regolatore tra più Comuni (convenzioni per formare strumenti urbanistici intercomunali), per delle IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 74 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO conferenze di servizi (artt. 14-15 della l. 241/1990), per degli accordi di programma (artt. 34 del TU 267/2000, 246 del d.lg. 152/06; l. 241/90 eccetera). 3.3.6. Con l’art. 11 della l. 241/90 sono stati introdotti nel nostro ordinamento i c.d. contratti ad oggetto pubblico. Trattasi di questo: soggetti privati e pubblici possono addivenire a degli accordi (art. 1321 cc) con i quali i soggetti pubblici si impegnano a un “facere” particolare: a emanare certi atti amministrativi. L’art. 11 citato asserisce: 1. In accoglimento di osservazioni e proposte presentate a norma dell’articolo 10, l’amministrazione procedente può concludere, senza pregiudizio dei diritti dei terzi, e in ogni caso nel perseguimento del pubblico interesse, accordi con gli interessati al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale ovvero, in sostituzione di questo. 1-bis. Al fine di favorire la conclusione degli accordi di cui al comma 1, il responsabile del procedimento può predisporre un calendario di incontri cui invita, separatamente o contestualmente, il destinatario del provvedimento ed eventuali controinteressati. 2. Gli accodi di cui al presente articolo debbono essere stipulati, a pena di nullità, per atto scritto, salvo che la legge disponga altrimenti. Ad essi si applicano, ove non diversamente previsto, i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili. 3. Gli accordi sostitutivi di provvedimenti sono soggetti ai medesimi controlli previsti per questi ultimi. 4. Per sopravvenuti motivi di pubblico interesse l’amministrazione recede unilateralmente dall’accordo, salvo l’obbligo di provvedere alla liquidazione di un indennizzo in relazione agli eventuali pregiudizi verificatisi in danno del privato. 4-bis. A garanzia dell’imparzialità e del buon andamento dell’azione amministrativa, in tutti i casi in cui una pubblica amministrazione conclude accordi nelle ipotesi previste al comma 1, la stipulazione dell’accordo è preceduta da una determinazione dell’organo che sarebbe competente per l’adozione del provvedimento. 5. Le controversie in materia di formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi di cui al presente articolo sono riservate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. 3.4. Avvertenza finale in ordine alla presente “Parte prima” Nell’Introduzione al presente scritto (v.si: “L’ordinamento giuridico. Introduzione”, sub 0.6.) si era detto che la «…Prima parte era tesa a presentare la teoria dell’ordinamento giuridico quale deducibile da alcuni scritti di N.Bobbio». IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 75 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO Si aggiunge e (chiarisce) che, grosso modo, tale teoria appartiene all’ambito della filosofia analitica 22 e che tale avvertenza vale solo per quanto detto al par. 1. della 22 Per filosofia analitica o del linguaggio si intende, grosso modo, quella teoria che riduce il diritto a un fenomeno linguistico. Si riporta quanto, ad esempio, asseriscono sul punto M. JORI e A. P INTORE (in Manuale di teoria generale del diritto, Torino, 1988, pagg. 86-91): “ L’atteggiamento filosofico analitico [......] è caratterizzato e definito dall’accoglimento di alcuni principi o postulati filosofici, o almeno di alcuni di essi: si tratta soprattutto dei seguenti principi o strumenti concettuali fondamentali: la separazione tra giudizio (e discorso) sintetico e analitico, la Grande Divisione tra discorsi descrittivo e prescrittivo; la distinzione tra discorsi e metadiscorsi, la distinzione tra contesto di controllo e contesto di scoperta. Potranno essere considerate analitiche delle filosofie che respingano uno o più di questi principi, ma certamente non potranno essere considerate tali le filosofie che non abbiano neppure considerato e affrontato i problemi posti dai principi stessi. Poiché (anche per questa ragione) gli approcci analitici alla filosofia sono diversi e non sempre interamente compatibili è meglio parlare di filosofie analitiche al plurale. Certamente al plurale è necessario si parli delle filosofie sintetiche. La prima distinzione tra analitico e sintetico (che non va confusa con la distinzione tra filosofie analitiche e sintetiche) coincide con la distinzione tra conoscenza logica e conoscenza empirica: l’analista sostiene che solo l’esperienza empirica ci può dare informazioni nuove sui fatti, e che queste non sono logicamente necessarie, cioè non possono essere ricavate con il solo ragionamento logico dalle conoscenza già possedute; sostiene per converso che le conoscenze della logica (ivi comprese la matematica e la geometria) sono puramente tautologiche, consistono cioè nello sviluppo rigoroso delle premesse (assiomi, postulati) del discorso in questione e di quanto è implicito nel già conosciuto. La seconda distinzione tra discorsi e medatiscorsi spiega che i discorsi possono aver per oggetto anche altri discorsi: si chiamano pertanto metadiscorsi i discorsi che vertono su altri discorsi detti appunto discorsi oggetto. Il rapporto metadiscorsivo non è solo descrittivo (ad esempio il linguista descrive una lingua naturale come l’italiano), ma può essere anche prescrittivo (il grammatico prescrive come si deve parlare correttamente). Oppure ambedue i discorsi possono essere composti di norme: ad esempio il discorso giuridico è fatto anche di metanorme (norme che vertono su altre norme). La relazione metadiscorsiva è di fondamentale importanza per trovare un posto alla filosofia analitica rispetto alla distinzione tra sintetico e analitico: la filosofia analitica infatti ritiene di non essere e di non poter essere una scienza che si occupi direttamente della realtà, ma piuttosto di analizzare i vari tipi di discorso (anche di descrizione della realtà). Per questo le filosofie analitiche vengono spesso chiamate filosofie linguistiche o (un po' impropriamente) filosofie del linguaggio. T uttavia, secondo le idee qui accolte l’aspetto fondamentale delle filosofie analitiche non è l’attenzione per il linguaggio; tale attenzione risulta essere piuttosto un carattere derivato. Ciò si accorda con l’idea che l’approccio analitico non è metafisicamente neutrale, cioè si basa su principi, come i quattro qui esaminati, che non discendono semplicemente da una più sistematica attenzione per il linguaggio in filosofia. Peraltro l’espressione ‘filosofia linguistica’ IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 76 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO ad indicare questi tipi di filosofia rimane altamente opportuna, dal momento che su questo punto, anche se logicamente non primitivo, confluiscono tutti gli analisti. Per questo si può anche parlare al singolare di filosofia linguistica, che indica bene l’aspetto comune di tutte le filosofie analitiche. Poiché hanno per oggetto altri discorsi e discipline, le filosofie analitiche pertanto tendono per ragioni di principio alla specializzazione, e si suddividono naturalmente, anzi si esauriscono nelle diverse “ filosofie di”: si parla così di filosofia della scienza, filosofia della matematica, filosofia della morale, filosofia del linguaggio o discorso ordinario, filosofia del diritto. Le filosofie analitiche tendono dunque al discorso particolare e settoriale, piuttosto che alla grande costruzione sistematica e globale, e sono assai caute nell’avanzare la pretesa che le proprie considerazioni siano valide per ogni campo dello scibile (per ogni discorso e linguaggio umano). Non è detto tuttavia che gli strumenti concettuali sviluppati da una particolare versione e da ciascun particolare ramo di tale filosofia non possano essere “ esportati” in altri settori. Del resto questo avviene per ogni tipo di filosofia, e così è avvenuto anche per le filosofie del diritto analitiche. Il terzo principio fondamentale delle filosofie analitiche è quello della distinzione o separazione tra essere e dover essere (principio chiamato, tra gli analisti, la Grande Divisione): per esso non è possibile de durre logicamente un giudizio di valore o normativo da uno fattuale; non è possibile fondare in modo conclusivo un discorso di dover essere su un discorso meramente fattuale. Inoltre non è possibile neppure l’inverso: non si possono dedurre conclusioni di fatto da prescrizioni (la c.d. scienza normativa): questa preclusione crea molti problemi per chi cerca di giustificare analiticamente la scienza giuridica tradizionale, che sembra talora fare proprio questo (..........). Chi cerca di superare queste barriere viene tacciato di fallacia naturalistica. E’ ovvia la rilevanza di un simile principio per la filosofia del diritto in particolare (.........). Un quarto principio fondamentale delle filosofie analitiche è la distinzione tra contesto di giustificazione e contesto sociologico. Per molti analisti va distinto tra il (meta)discorso che descrive le regole di formazione, giustificazione e controllo di un discorso oggetto (discorso di giustificazione, o discorso di controllo), e la descrizione del modo in cui di fatto viene usato il discorso oggetto, lo studio della sua influenza sulla società, e delle condizioni fattuali che lo determinano, lo studio della sua storia (discorso sociologico e storico, o di scoperta). Il discorso di giustificazione è naturalmente un’astrazione; esso individua regole e strutture di regole (ragioni) che possono anche non essere sempre effettivamente tra le cause che producono il discorso stesso: le ragioni possono non essere i motivi che effettivamente muovono le persone che fanno il discorso. Così una cosa sono le regole (astratte) della matematica, e un’altra i motivi per cui una persona compie operazioni matematiche corrette o scorrette: si noti comunque che la nozione di scorrettezza o errore dipende dalle regole e dal contesto di giustificazione, non dai motivi e dal contesto sociologico delle operazioni. L’applicazione di queste distinzioni, come si è accennato, ha spostato il centro dell’attenzione di queste filosofie sul linguaggio; ciò implica che una loro caratteristica fondamentale è stata la creazione di una semiotica filosofica assai sviluppata (......). Le filosofie analitiche, specialmente al loro primo apparire, si sono spesso presentate come una novità assoluta e radicali nella storia della filosofia (......). Ciò, naturalmente, è falso, e anche in IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 77 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO qualche misura ridicolo, se non altro perché moltissime filosofie hanno avanzato nella storia questa pretesa. T uttavia è vero che lo filosofie analitiche meno di altre filosofie hanno bisogno della storia nell’applicazione del proprio metodo: soprattutto quando accolgono la distinzione tra contesto di giustificazione e sociologico e storico, che permette di fare astrazione, a certi scopi, dal contesto storico dei discorsi studiati (ma non permette ovviamente di negarne l’esistenza). Se queste sono le caratteristiche di fondo delle filosofie analitiche, possiamo chiamare, molto sommariamente, filosofie sintetiche quelle che non ammettono, per ragioni diverse, neppure la rilevanza di tali principi e la importanza di tali distinzioni. Si diceva all’inizio della voce che non è possibile un resoconto filosofico neutrale della natura della filosofia: questo reconto è ovviamente condotto dal punto di vista della filosofia analitica stessa. Così nel descrivere la natura delle filosofie sintetiche un elemento di non neutralità entra già nell’uso della distinzione tra filosofia analitica e sintetica, che molte filosofie negano, o considerano non fondamentale. Procedendo nella descrizione di filosofie diverse (...........) il filosofo analitico non può fare a meno di lasciar trasparire la propria diversa (superiore?) impostazione: per esempio nella descrizione di molti discorsi metafisici sintetici l’analista noterà che essi gli sembrano violare contemporaneamente la distinzione tra sintetico e analitico e tra descrittivo e prescrittivo: infatti molti sistemi metafisici tradizionali sembrano derivare conoscenza dai concetti, e inoltre prescrivono inconsapevolmente nuovi significati ai termini ordinari. Lo sfavore verso ogni forma di metafisica, che in alcuni momenti iniziali (“ eroici”) delle filosofie analitiche giungeva fino al dileggio, si è alquanto attenuato in tempi più recenti. I filosofi analitici si sono accorti allora che la propria opposizione andava indirizzata verso certi tipi di metafisica, con un certo contenuto non compatibile con i principi analitici Superata la fase eroica e più intensamente polemica verso approcci diversi, le filosofie analitiche sono tornate al concetto pressoché originario di metafisica, come discorso che verte sulle premesse della ricerca filosofica (premesse che non possono per definizione essere dimostrate dall’interno della ricerca stessa). In questo senso, si è visto, ogni filosofia ha necessariamente una metafisica (cioè un insieme di premesse indimostrate su cui si fonda la ricerca e il discorso successivo). Così i principi fondamentali sopra esposti possono essere considerati la metafisica (o una parte di essa) delle filosofie analitiche. Pertanto, nella nuova prospettiva, il contrasto tra filosofie analitiche e sintetiche, non è un contrasto tra filosofie non metafisiche e metafisiche, ma piuttosto tra metafisiche diverse. Anzi è possibile applicare le distanze fondamentali delle filosofie analitiche a questo problema e distinguere (certo, ancora una volta, non in modo neutrale) tra metafisiche descrittive e metafisiche prescrittive. Le prime mirano a ricostruire presupposti del pensiero (filosofico) esistenti e diffusi un una cultura; le seconde propongono, nella misura in cui questo è fattibile, principi nuovi, cercando di innovare le abitudini fondamentali in un certo settore culturale. La critica a certi grandi sistemi metafisici, in questo nuovo contesto, diviene allora non già quella di fare metafisica (tutti la fanno necessariamente), ma di fare metafisica innovativa senza dichiararlo e senza dichiarare i motivi dell’opportunità dell’innovazione. Punto forte (per i loro critici è invece un punto debole) delle filosofie sintetiche sono le mancate distinzioni, il converso esatto per quelle analitiche (e di importanza generale sono soprattutto le quattro distinzioni sopra indicate): le filosofie analitiche sono irretite dalle distinzioni che IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 78 DIZIONARIO GIURIDICO ORDINAMENTO GIURIDICO presente Parte. Gli altri paragrafi possono ascriversi ad una comune e molto semplificata (e, si spera, non troppo imprecisa) dogmatica giuridica relativa all’ordinamento giuridico italiano. costituiscono sovente gravi limiti alla possibilità di fondazione dei discorsi e alle dimostrazioni (tuttavia le scienze naturali appaiono nella sostanza analitiche quanto al metodo, ed eccellono in dimostrazioni). Le filosofie sintetiche permettono certamente in genere forme più “ potenti” di conoscenza, e soprattutto conoscenza dei valori e conoscenza della realtà o essenza ontologica al di là del contingente; e in genere ammettono maggiori possibilità di dimostrazione in ogni campo. Queste forme di conoscenza e dimostrazione sintetiche, è inutile dirlo, paiono di frequente non fondate e non fondabili agli analisti. Va ricordato infine che, di recente, la teoria dell’argomentazione ha cercato di collocarsi in una zona intermedia tra i due approcci sopra menzionati, cercando di fornire un’analisi che contemporaneamente contenesse una descrizione del modo di ragionare dei giuristi e una valutazione positiva di (alcuni aspetti) di tale modo di ragionare. Per l’analista questa strada è tuttavia resa difficile dal sospetto che si passi in tal modo surrettiziamente dal descrittivo (descrizione di come di fatto si argomenta) al prescrittivo (prescrizione che il metodo descritto è lecito e buono)”. Sui filosofi analitici contrapposti a quelli continentali, v.si, soprattutto, F.D’AGOSTINI, Analitici e continentali. Guida alla filosofia degli ultimi trent’anni, Cortina, 1997. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 79 STUDI E OPINIONI NOTERELLE MINIME SULLA CONCESSIONE “ABUSIVA” E SULLA REVOCA “ABUSIVA” DEL CREDITO L’Autore tratta il tema della “concessione abusiva di credito” nella prospettiva della eventuale responsabilità della banca che abbia concesso credito ad un imprenditore che versi in una situazione di grave difficoltà o di insolvenza, tenendolo artificiosamente “in vita”. di MAURO PIZZIGATI 1. I presupposti e la fattispecie La “concessione abusiva di credito” rappresenta, da tempo, un tema di assoluto rilievo, per ciò che concerne l’eventuale responsabilità della banca e, con essa, si fa riferimento alle varie ipotesi in cui viene da una banca concesso credito ad un imprenditore che versi in una situazione di grave difficoltà o di insolvenza. Più precisamente, con tale espressione, si è soliti fare riferimento al fenomeno del sostegno dato dalla banca ad un imprenditore in crisi: vale a dire del sostegno dato ad un imprenditore in stato, più o meno grave, di decozione e, quindi, volto a tenerlo “artificiosamente” in vita, con il conseguente danno rappresentato dall’aggravamento del dissesto e dall’induzione di altri creditori a proseguire i rapporti con l’impresa (e a non attivare, per contro, i rimedi possibili per il recupero del loro credito o per l’ottenimento di adeguate garanzie) oppure dall’induzione di nuovi creditori ad iniziare nuovi rapporti, in quanto gli stessi, non conoscendo, con l’ordinaria diligenza, l’effettiva situazione del debitore, hanno ritenuto, però, di poter fare affidamento sulla valutazione 1 positiva operata dalla banca . 1 Così, sul punto, Campolattaro, La concessione abusiva del credito, in Impresa, 2006, 1, p. 1369. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 80 STUDI E OPINIONI CONCESSIONE E REVOCA ABUSIVA DEL CREDITO Un abuso nell’erogazione del credito può verificarsi sia nel corso di concessione di nuova finanza che in sede di conservazione di affidamenti già esistenti pur essendo palese il peggioramento della situazione dell’impresa cui fa capo il cliente affidato2. In questo contesto, dunque, assumono particolare importanza le ipotesi di concessione del credito nei confronti dell’imprenditore in crisi, rispetto al quale non paiono sussistere prospettive di risanamento3. Si pensi alla concessione di nuovo credito, in una situazione in cui l’impresa sia già precipitata in una crisi non più superabile. Ciò che, come è noto, determina - nella sostanza - un ritardo anche significativo nel ricorso al sistema concorsuale e consente di ottenere, così, il “consolidamento” delle garanzie e dei pagamenti effettuati. Vi è, pertanto, una condotta illegittima della banca, allorché la concessione di nuovi affidamenti appaia ricollegabile all’obiettivo di non far decorrere i termini per l’esercizio delle azioni revocatorie o di recuperare crediti connessi a precedenti finanziamenti, la cui restituzione risulti improbabile. È, del pari, fonte di possibile responsabilità per la banca la concessione di nuovi affidamenti con il solo obiettivo “di costituire una garanzia formalmente contestuale alla concessione del credito, ma che, in realtà, mira a garantire la pregressa esposizione debitoria e ad escludere la revocatoria della garanzia come atto anormale, ai sensi dell’art. 67, comma 1, l. fall.”. “Vi è, poi, un abuso nella concessione del credito, anche nei casi in cui la banca 4 abbia erogato finanziamenti con un procedimento scorretto o, addirittura, fraudolento” 5 . Per altro verso, la concessione abusiva del credito sussiste anche nel caso in cui, di fronte ad un aggravamento della situazione dell’impresa, la banca, nondimeno, non provveda a revocare le linee di fido già esistenti, oppure concede dilazioni 6. 2 Cfr. Piscitello, Concessione abusiva del credito e patrimonio dell’imprenditore, in www.associazionepreite.it/scritti/piscitello001.php; Fortunato, La concessione abusiva del credito dopo la riforma delle procedure concorsuali, in Fallim. 2009, p. 65 ss. 3 Piscitello, op. e loc. cit. 4 Così, pressoché letteralmente, Piscitello, op. e loc. cit. 5 Ad esempio: scontando ripetutamente effetti fittizi, poiché, in siffatta ipotesi, la stessa condotta conferma la conoscenza delle gravi difficoltà del cliente, oppure quando il credito fosse concesso a seguito di pressioni di varia natura, nonostante l’esito negativo dell’istruttoria: cfr., su questi temi, Miola, La banca tra concessione ed interruzione del credito, in Attività bancaria e responsabilità, Atti del Convegno di Avellino, 2004, p. 221; Nigro, La responsabilità della banca per concessione “abusiva” del credito, in Le operazioni bancarie, a cura di Portale, Milano 1978, I, p. 299; Viscusi, Profili di responsabilità della banca nella concessione abusiva del credito, Milano, 2004, p. 10 ss. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 81 STUDI E OPINIONI CONCESSIONE E REVOCA ABUSIVA DEL CREDITO Vi è chi, correttamente, ha poi osservato che, “nelle ipotesi in cui le banche rivestono la funzione di consulenti dell’imprenditore in difficoltà, nella predisposizione dei piani di risanamento e svolgono, nell’ambito dei tentativi di soluzione delle crisi d’impresa, un ruolo che va al di là della semplice erogazione del credito, condizionando le scelte gestorie del management e, in alcuni casi, imponendo la nomina di amministratori di proprio gradimento, non si può ritenere che assuma necessariamente 7 rilievo l’ingerenza, più o meno forte, nelle decisioni dell’impresa” . La responsabilità per concessione abusiva del credito è, insomma, una conseguenza del depauperamento del patrimonio dell’impresa, dipendente dalla continuazione dell’attività, nonostante la crisi irreversibile e non postula, necessariamente, il coinvolgimento della banca nelle scelte di gestione. Sotto un altro profilo è stato rilevato che la responsabilità della banca sussiste solo per le concessioni di credito effettuate quando la situazione risulti ormai irreversibile e che, in tale prospettiva, se si deve accettare l’idea che lo stato di crisi non è di per sé sufficiente per poter considerare come abusivo il finanziamento, anche alla luce dell’obiettivo di favorire i rapporti con l’impresa in crisi (obiettivo che sta alla base, come è già stato affermato, della nuova disciplina delle procedure concorsuali), non sembra però necessario richiedere, a questi fini, che l’impresa finanziata sia già insolvente8. L’insolvenza, costituisce, come è noto, l’incapacità di adempiere con regolarità alle proprie obbligazioni ed è complesso riscontrarla in molti casi in cui l’imprenditore acquisisce un finanziamento, sia pure in violazione delle regole di corretta erogazione 9 del credito . E, dunque, per l’individuazione della responsabilità della banca per concessione abusiva del credito non paiono poter essere utili categorie quali lo stato di insolvenza o lo stato di crisi, ma, ad avviso di chi scrive, deve essere condiviso, per contro, il pensiero di chi ha osservato che si deve fare riferimento alla possibilità di risanamento dell’impresa10. È peraltro il caso di evidenziare che, onde non estendere, senza ragione, la sfera di responsabilità della banca, l’indagine deve essere effettuata valutando ex post se, in 6 Ibidem. Così, Piscitello, op. e loc. cit. 8 Cfr. Miola, op. cit., p. 222 e, in argomento, cfr. anche Castiello D’Antonio, Crisi d’impresa e responsabilità della banca, revoca “brutale” del fido, concessione abusiva di credito, in Dir. fall. 2009, I, p. 293. 9 Piscitello, loc. cit. 10 Cfr., in argomento, S. Rossi, in AA.VV., Diritto fallimentare. Manuale breve, Milano, 2008, p. 28; Sandulli, Il nuovo diritto fallimentare, in Commentario diretto da Iorio e coordinato da Fabiani, Bologna 2006, I, sub art. 5, p. 84 ss. 7 IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 82 STUDI E OPINIONI CONCESSIONE E REVOCA ABUSIVA DEL CREDITO base alla situazione esistente al momento della concessione del credito, l’operazione rispondeva (o meno) ai criteri normalmente seguiti nella prassi. Ove vi sia un piano di risanamento gradito alla banca finanziatrice, anche se non “attestato” [art. 67, comma 3°, lett d), l. fall.] è da ritenere – come altri hanno già osservato – che “il criterio della ragionevolezza dell’operazione di ristrutturazione aziendale, considerato rilevante al fine dell’esonero dall’azione revocatoria”, possa assumere rilievo anche per la valutazione della responsabilità del finanziatore e che complessa appare, invece, “l’individuazione delle condizioni dell’illegittimità della concessione del credito, nelle ipotesi in cui non vi sia un piano di ristrutturazione conosciuto dalla banca e ad essa gradito, in cui dovranno verificarsi le possibilità di 11 risanamento, alla luce dei dati aziendali esistenti al momento del finanziamento” . Alla luce di tali rilievi si può concludere, ad avviso di chi scrive, che possa essere fonte di responsabilità il sostegno ad un’impresa il cui stato di crisi appaia come difficilmente superabile, anche ove non vi siano, ancora, manifestati indici rivelatori di un vero e proprio stato di insolvenza12. La concessione del credito ad un imprenditore che versa in crisi irrimediabile, del resto, appare essere in conflitto con il principio di fondo che non può essere ammessa la continuazione dell’attività di un’impresa ormai decotta. Questo principio è desumibile da varie disposizioni, in diversi settori dell’ordinamento, che tendono ad evitare che vi siano ritardi nel ricorso alle procedure concorsuali: ciò che potrebbe facilmente determinare un aggravamento delle perdite e la conseguente riduzione del patrimonio destinato al soddisfacimento del ceto creditorio. In tale contesto, è anche più agevole comprendere perché, nelle società di capitali, è previsto, nel caso in cui il patrimonio netto assuma valore negativo, l’obbligo, per gli amministratori, di iscrivere la causa di scioglimento nel registro delle imprese, a cui si ricollega l’obbligo, per gli stessi, di limitarsi a svolgere solo gli atti tendenti alla 13 conservazione del patrimonio sociale . Del resto non può sfuggire che l’indicata limitazione ha, come obiettivo, quello di far sì che non venga continuata l’ordinaria attività d’impresa, essendo a repentaglio l’integrità del patrimonio sociale 14. M a, a conferma di quanto appena sottolineato, val bene qui osservare che, anche per ciò che concerne le società personali, pur non essendo previsto che, alla perdita del 11 Così, espressamente, Piscitello, op. cit., p. 10 s. Ibidem 13 Così, pressoché letteralmente, Piscitello, op. cit., p. 11 s. 14 In argomento, cfr. anche Bonelli, Gli amministratori di S.p.a., Milano, 2004, p. 171 ss.; Fabiani, L’azione di responsabilità per le operazioni successive allo scioglimento, nel passaggio tra vecchio e nuovo diritto societario, in Fallim., 2004, p. 298; Rordorf, La responsabilità degli amministratori di S.p.a. per operazioni successive alla perdita del capitale, in Società, 2009, p. 277. 12 IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 83 STUDI E OPINIONI CONCESSIONE E REVOCA ABUSIVA DEL CREDITO capitale sociale, consegua lo scioglimento dell’ente sociale, è da ritenere, nondimeno, che l’eventuale contenuto negativo del patrimonio netto determini, anche qui, lo scioglimento della società, per impossibilità sopravvenuta dell’oggetto sociale 15, con conseguente limitazione del potere degli amministratori ai soli atti urgenti ed a quelli 16 tesi alla conservazione del patrimonio . L’illegittimità della continuazione dell’ordinaria attività d’impresa, in caso di crisi irreversibile, è confermata, inoltre, dal fatto che sono previste sanzioni penali per l’imprenditore fallito, ove emerga che lo stesso ha compiuto operazioni manifestamente imprudenti per ritardare il fallimento [art. 2171, n. 3), l. fall.] o che ha aggravato il dissesto, astenendosi dal richiedere il proprio fallimento (art. 2171, n. 4, l. fall.). Norme, pure queste, che dimostrano che il legislatore ha inteso valutare in modo del tutto negativo la condotta di chi tende ad evitare o a ritardare l’apertura delle procedure concorsuali, ove ci si trovi di fronte ad imprese decotte17. Ed invero, il finanziamento abusivo ad un imprenditore ormai insolvente, lede, come da altri è già stato correttamente osservato, “l’interesse dei creditori a che non venga menomata l’integrità del patrimonio di costui, che è destinato alla loro soddisfazione e, ove si realizzi una lesione della garanzia patrimoniale, colpisce tutti i creditori, indipendentemente dall’anteriorità (o meno) del credito rispetto al finanziamento abusivo”. “Il comportamento della banca è pertanto illecito, non solo in considerazione della circostanza che contribuisce a creare una falsa apparenza di solidità dell’impresa, ma anche perché il finanziamento comporta un ritardo nell’accertamento della crisi ed 18 un ulteriore depauperamento del patrimonio dell’imprenditore” . In altri termini, la banca, concedendo credito, nonostante l’assenza dei presupposti, consente il verificarsi di altre perdite e l’aggravamento della situazione negativa dell’impresa 19. Ed è sulla scorta di siffatta riflessione che si può confermare, ad avviso di chi scrive, che l’illegittimità dell’abusiva concessione del credito resta ferma anche nell’ambito della nuova disciplina delle procedure concorsuali. Riteniamo di dover precisare questo, perché vi è chi ha sostenuto, a seguito della riforma della legge fallimentare, che era forse opportuno riesaminare i termini del problema, in quanto, avendo le nuove norme l’obiettivo di consentire il superamento della crisi d’impresa, se possibile, attraverso soluzioni concordate, la responsabilità 15 Si rinvia, in particolare, sul punto a Ferri, Delle società, in Comm. Scaloja – Branca, Bologna – Roma 1981, p. 256. 16 Cfr, tra altri, Campobasso, Diritto Commerciale – Diritto delle società, Torino, 2009, II, p. 120 17 Così Viscusi, op. cit., p. 123 s. 18 V., con queste espressioni, Piscitello, op. e loc. cit. 19 Cfr. Viscusi, op. cit., p. 677. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 84 STUDI E OPINIONI CONCESSIONE E REVOCA ABUSIVA DEL CREDITO della banca (per concessione abusiva) non potrebbe più essere fondata sul fatto di avere concesso o mantenuto credito all’imprenditore, ma, invece, dovrebbe sussistere, a questi fini, un vero e proprio disegno volto a mascherare l’insolvenza del debitore, per conseguire dei vantaggi rispetto al resto dei creditori20. Sennonché, come abbiamo appena rilevato, la responsabilità della banca sembra affondare ragionevolmente le sue radici nelle regole che vietano la continuazione dell’attività d’impresa in ipotesi di crisi irreversibile e la violazione delle quali arrecherebbe gravi pregiudizi ai creditori dell’imprenditore insolvente. E, come è stato da altri posto in luce, “tale disciplina non pare modificata in alcun modo dalla riforma, che si è limitata a prevedere nuovi strumenti di soluzione delle crisi d’impresa, ma non ha influito, per nulla, né sulle regole che le banche debbono continuare a seguire nella concessione del credito, in considerazione del loro stato professionale, né sulla disciplina della vigilanza” 21. In ogni caso val bene precisare che va condiviso, senz’altro, il pensiero di chi ha evidenziato che, sia nei casi di erogazione di nuovo credito, che in quelli in cui la banca si è limitata a non recedere da precedenti affidamenti, non è necessario, per riscontrare una responsabilità della banca, una condotta tesa a perseguire dei vantaggi dalla conservazione del rapporto nei confronti di un imprenditore insolvente. La responsabilità della banca vi è, per contro, anche in ipotesi di comportamento colposo, in cui la concessione o il mantenimento del credito dovesse dipendere da un mero errore di valutazione dell’Istituto che, operando con maggiore prudenza e diligenza, ben avrebbe potuto pervenire alla conclusione che sussistevano buone ragioni per non erogare credito. 2. Comportamenti che possono integrare la fattispecie di concessione abusiva del credito Tra i comportamenti che possono integrare la fattispecie di concessione abusiva del credito, è bene qui ricordare l’ipotesi in cui la banca, pur consapevole dell’insolvenza o della potenziale insolvenza dell’imprenditore affidato, concede o continua ad erogare credito, sapendo di non correre alcun rischio, in quanto in possesso di garanzie personali o reali fornite da terzi o ottenute anche sui beni del debitore, con la conseguenza che, nel caso di fallimento dell’imprenditore, la banca è comunque in grado di soddisfare le proprie ragioni di credito. 20 Castiello D’Antonio, Crisi d’impresa e responsabilità della banca: “revoca brutale” del fido e concessione abusiva di credito, cit., p. 298 s.; Nigro, “Privatizzazione” delle procedure concorsuali e ruolo delle banche, in Banca, borsa, tit. cred., 2006, I, p. 359 ss. 21 Così Piscitello, op. cit., p. 14 e v. anche Di Marzio, Sulla fattispecie di “concessione abusiva di credito”, in Banca, borsa, tit. cred., 2009, II, p. 393 s. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 85 STUDI E OPINIONI CONCESSIONE E REVOCA ABUSIVA DEL CREDITO Altra tecnica cui sovente gli Istituti di credito ricorrono, nel caso di impresa in crisi e fortemente esposta nei confronti della banca, è quella della concessione di un mutuo ipotecario a favore del socio, garante della società – cliente della banca, in modo che questi possa pagare i debiti della società, trasformando, nella sostanza, un debito sociale chirografario in un debito personale del socio, garantito da ipoteca su beni 22 personali di quest’ultimo . 3. La di versa fattispecie del ricorso abusivo al credito: autonomia e concorrenzialità delle due fattispecie L’assunzione di un debito da parte di chi esercita un’attività d’impresa senza che sussistano le condizioni (finanziarie e patrimoniali) che possono consentire il futuro adempimento costituisce, certamente, una condotta economicamente rischiosa, sotto vari aspetti. Il rischio – come è stato da altri già osservato – non vi è solo per il patrimonio del concedente, che è chiamato a sopportare il costo dell’eventuale inadempimento, ma investe, altresì, gli interessi degli altri creditori, i quali, nel caso di insolvenza, sono chiamati a concorrere al passivo, una volta intervenuto il fallimento, con un numero maggiore di creditori. Ed infatti il credito abusivamente ottenuto finisce per “drogare” l’attività del debitore, aumentando, così, la probabilità che l’imprenditore insolvente contragga altri debiti, così da ridurre ulteriormente le possibilità di soddisfacimento dei creditori. “Senza considerare, poi, che il credito, in questo caso, anziché costituire un reale arricchimento per l’accipiens, pregiudica, non di rado, la stessa integrità patrimoniale dell’impresa finanziata, la quale, trovandosi già in uno stato di dissesto, difficilmente sarà in grado di utilizzare produttivamente il capitale ricevuto, finendo, invece, per accollarsi un ulteriore onere finanziario, che accelererà, così, l’erosione del 23 patrimonio aziendale” . Si ritiene, ormai diffusamente, che la condotta degli Istituti di credito, censurabile sotto il profilo della concessione abusiva di credito, non abbia connessioni con il reato di ricorso abusivo al credito di cui all’ art. 218 l. fall., il quale punisce l’ imprenditore che ricorre o continua a ricorrere al credito, dissimulando il proprio dissesto o lo stato di insolvenza24. 22 Per un’ampia disamina della casistica, Inzitari, La responsabilità della banca nell’esercizio del credito: abuso nella concessione e rottura del credito, in Banca, Borsa, tit. cred., 2001, p. 265 ss. 23 Così, espressamente, Micheletti, Il ricorso abusivo al credito come reato necessariamente. V condizionato, in www.unisi.it. V., altresì, in argomento, Di Marzio, Abuso e lesioni della libertà contrattuale nel finanziamento dell’impresa insolvente, in Riv. dir. civ., 2004, I, p. 145 ss. 24 V., sul punto, Circolare ABI – Serie legale n. 9, Settembre 2008: “La concessione abusiva del credito nella recente giurisprudenza”. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 86 STUDI E OPINIONI CONCESSIONE E REVOCA ABUSIVA DEL CREDITO Benché, in passato, non siano mancate opinioni diversificate in dottrina25, gran parte di essa, infatti, ritiene oggi che - nell’ ipotesi regolata dalla testé richiamata disposizione fallimentare - la banca che eroga il finanziamento possa essere solo il soggetto passivo del reato commesso dall’ imprenditore. Va infatti osservato, al riguardo, che la corretta valutazione del “merito creditizio” dell’ imprenditore in difficoltà può essere effettuata dalla banca finanziatrice solo di fronte ad una completezza delle informazioni da questi fornite, cosicché, in presenza di un’opera di dissimulazione, la situazione di insolvenza viene celata allo stesso soggetto cui è chiesto il finanziamento, che, dunque, viene indotto a concedere credito proprio sulla base delle false informazioni fornite dall’ imprenditore. Conformemente all’ orientamento da ultimo indicato, la Suprema Corte di 26 legittimità ha ritenuto che la norma di protezione dell’ interesse giuridicamente rilevante non possa essere rinvenuta nell’ art. 218 l. fall., in quanto "il ricorso abusivo al credito è un reato proprio dell’ imprenditore fallito, che, dissimulando lo stato di insolvenza, ottiene del credito, per cui non è ipotizzabile, in siffatto reato, il concorso del finanziatore il quale, per definizione, deve ignorare lo stato di insolvenza, essendo la dissimulazione un elemento essenziale per integrare il reato"27. Diverso ragionamento viene svolto, invece, circa la possibilità che la condotta della banca che eroga abusivamente credito ad un’imprenditore insolvente integri un’ ipotesi di concorso nel reato di bancarotta semplice di cui all’ art. 2171, n. 4, l. fall. È stato, infatti, correttamente osservato che, nella disposizione penale appena richiamata, “è individuabile una violazione che può essere indotta o favorita dalla concessione abusiva del credito, in cui si sostanzia l’ antigiuridicità del fatto costitutivo della relativa responsabilità aquiliana e la conseguente ingiustizia del danno in tal guisa arrecato ai creditori”: il che equivale a dire che “il fondamento della responsabilità aquiliana riposa anche sulla ricorrenza di una fattispecie di concorso della banca, che conceda o continui a concedere credito all’ imprenditore insolvente, nella violazione (penalmente sanzionata, nel caso in cui dall’ omessa manifestazione dello stato di insolvenza derivi un aggravamento del dissesto) dell’obbligo giuridico di costui di presentare istanza di fallimento in proprio”28. 25 Cfr., in tema, Nigro, La responsabilità della banca per concessione abusiva di credito, in Giur. Comm., 1979, I, p. 219 ss.; Inzitari, La responsabilità della banca nell’esercizio del credito, in Banca, Borsa, tit. cred., 2002, I, p. 272. 26 Cass. pen. 25 settembre 2003, n. 14234, in Contratti, 2004, p. 145, con nota di Franchi. 27 Nella stessa direzione, nella giurisprudenza di merito, cfr. Appello Milano 11 Maggio 2004 (in Banca, Borsa, tit. cred., 2004, II, p. 643 con nota di Viscusi), la quale ha escluso che si possa ipotizzare un concorso nel reato di cui all’art. 218 l. fall., a carico di chi ha erogato il finanziamento, che ne è, anzi, il soggetto passivo. 28 Così Franchi, Responsabilità della banca per concessione abusiva del credito, in Contratti, 2004, p. 154. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 87 STUDI E OPINIONI CONCESSIONE E REVOCA ABUSIVA DEL CREDITO La linea interpretativa testé prospettata ha trovato accoglimento anche in parte della giurisprudenza che, dopo avere negato, come sopra si è dato conto, la connessione della concessione abusiva di credito con il reato di cui all’ art. 218 l. fall., ha ammesso, però, la possibilità di ravvisare un concorso tra la banca che conceda abusivamente credito ed il fallito imputato del reato di cui all’ art. 2171, n. 4, l. fall., il quale contempla (per l’ appunto) l’ipotesi della bancarotta semplice per aggravamento, da parte del debitore, del proprio dissesto, in rapporto all’ essersi costui astenuto dal richiedere, per tempo, la dichiarazione del suo fallimento29. 4. La re voca illegittima del credito La fattispecie della rottura ingiustificata del rapporto di affidamento al cliente, vale a dire del traumatico ed ingiustificato recesso dall’apertura di credito concessa, con richiesta di immediato rientro, è ben nota 30. La disciplina codicistica, come si sa, prevede che, nell’apertura di credito a tempo determinato, la banca ben può recedere dal contratto, per giusta causa, ma deve concedere al cliente un termine di almeno quindici giorni per la restituzione delle somme utilizzate, salva, tuttavia, la possibilità di inserire nel contratto, in virtù della riserva di patto contrario prevista dall’art. 1845 c. c., la facoltà per la banca di recedere “in qualsiasi momento, anche con comunicazione verbale” e con l’obbligo, per il cliente, di restituzione immediata delle somme dovute, con un preavviso di un giorno. Sotto tale profilo si è notato che tale disposizione non serve alle banche, in realtà, per ottenere la pronta restituzione delle somme erogate e per evitare, quindi, il ritardo nell’adempimento, che riceve comunque adeguata protezione attraverso la capitalizzazione degli interessi e l’applicazione di commissioni di massimo scoperto, oltre che attraverso la produzione di interessi moratori. Una rapida restituzione, del resto, sarebbe quasi sempre impossibile, dato che il cliente normalmente non ha a disposizione la liquidità immediata che sarebbe necessaria. Pertanto l’utilizzo di tale strumento avviene, da parte della banca, soprattutto affinché essa possa porsi nella condizione di poter godere di una priorità di soddisfacimento nell’eventuale esecuzione, rispetto agli altri creditori (si pensi all’iscrizione di un’ipoteca giudiziale). Detto questo è bene sottolineare, però, che nell’ipotesi di un “brusco recesso” da parte della banca, si potrebbe configurare una rottura cd. “brutale” del credito, causando direttamente l’illiquidità dell’imprenditore e il suo inevitabile dissesto, con conseguente possibilità che la banca possa essere chiamata a rispondere, sotto il profilo del 29 30 Cfr. Appello Milano, 11 Maggio 2004, loc. cit. Sul tema cfr, diffusamente, Inzitari, op. cit., p. 277 ss. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 88 STUDI E OPINIONI CONCESSIONE E REVOCA ABUSIVA DEL CREDITO risarcimento del danno, non solo nei confronti del cliente, ma anche nei confronti dei terzi danneggiati, quando sia stato violato il principio di buona fede 31. In particolare si è anche affermato che, in caso di recesso di una banca dal rapporto di credito a tempo determinato, in presenza di una giusta causa tipizzata dalle parti del rapporto contrattuale, il giudice non deve limitarsi al riscontro obiettivo della sussistenza (o meno) dell'ipotesi tipica di giusta causa ma, alla stregua del principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede, deve spingersi ad accertare che il recesso non sia stato esercitato con modalità arbitrarie, tali, cioè, da contrastare con la ragionevole aspettativa di chi, in base ai rapporti usualmente tenuti dalla banca ed all'assoluta normalità dei rapporti in atto, abbia fatto affidamento sulla possibilità di disporre della provvista per il tempo previsto, cosicché non può pretendersi, in 32 qualsiasi momento, la restituzione delle somme utilizzate . Dunque, “nel caso in cui sussistano i presupposti per poter dimostrare un adeguato rapporto di causalità e il carattere abusivo (perché ingiustificato od anche eccessivo) del comportamento della banca, può derivare la responsabilità della medesima per i danni conseguenti e le dimensioni del danno possono sicuramente superare le dimensioni del credito vantato dalla banca, come pure estendersi al pregiudizio subito da terzi contraenti o investitori, i quali si trovino a perdere i capitali investiti nei rapporti contrattuali con l’impresa o che si vedano compromesse operazioni economiche che, altrimenti, avrebbero portato a termine o che, comunque, non sarebbero state travolte in modo così pregiudizievole 33. La risarcibilità di siffatto danno dipende strettamente, a sua volta, dalla prova che il cliente della banca o i terzi danneggiati sono in grado di fornire. Si tratta, ovviamente, di allegare elementi concreti, quali l’esistenza o meno di rapporti contrattuali in corso e, dall’altro, di fare ricorso a prove anche presuntive, sulla base delle quali cercare di dimostrare che il mantenimento del finanziamento avrebbe consentito il buon fine dell’operazione in corso, secondo un ragionevole giudizio di 34 normale prevedibilità . 31 Con la complessiva prospettazione di cui al testo, cfr. Inzitari, op. cit., p. 278 ss. V. con questa impostazione, in giurispr., Cass. 14 luglio 2000, n. 9321, in Foro It. 2000, I, p. 3495; Cass. 21 febbraio 2003, n. 2642, in Giust. Civ. Mass., 2003, p. 315. 33 Così, espressamente, Inzitari, op. cit., p. 278 ss. 34 Cfr, in giurispr., Cass. Sez. Un. 22 luglio 1999, n. 500, in Corr. Giur. 1999, p. 1369; Cass. 16 maggio 2000, n. 6257, in Danno e responsabilità, 2000, p. 1112 e, in dottrina, v. Inzitari, Profili del diritto delle obbligazioni: “Il mandato”, Padova, 2000, p. 73 ss. e 141. 32 IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 89 STUDI E OPINIONI LO STATO DELL’ARTE IN TEMA DI AMMINISTRAZIONE DI SOCIETÀ SEMPLICE Le disposizioni codicistiche relative all’amministrazione della società semplice – immutate all’esito della riforma del diritto societario – offrono lo spunto per una disamina dell’evolversi delle decisioni giurisprudenziali e delle interpretazioni elaborate in dottrina, soffermandosi in particolare sulle questioni ancora aperte. di GIULIA GARESIO 1. Premessa La disamina delle disposizioni codicistiche concernenti l’amministrazione della società semplice, aggiornata con l’evolversi giurisprudenziale sul tema, non può prescindere da alcune osservazioni introduttive che consentano di collocare le norme in commento nel più ampio contesto della governance delle società personali. Ed infatti, in dottrina si distingue 1 «la disciplina dei poteri di gestione attribuiti agli amministratori, dei poteri di gestione in senso lato spettanti ai soci e dei poteri di controllo propri dei soci non amministratori». Questa prima indicazione consente di comprendere come, nella società semplice, l’amministrazione stricto sensu possa essere attribuita solo ad alcuni soci, comportando, quale contrappeso di garanzia, il riconoscimento di specifici poteri di controllo in capo agli altri soci, non investiti della gestione operativa della società (art. 2261 c.c.), che si sostanziano nel diritto di informazione, di consultazione ed al rendiconto. Al fine di incasellare le diverse attribuzioni ora tra le competenze di tutti i soci ora in quelle dei soli soci-amministratori, risulta agevole individuare brevemente le prime, così da ottenere, in via residuale, le seconde. Ai soci, invero, spettano la decisione in merito all’opposizione sollevata da un amministratore avverso un’operazione in procinto di esser compiuta da altro amministratore; la nomina e la revoca degli amministratori; la nomina e la revoca dei 1 Cfr. CAGNASSO , La società semplice, in Tratt. Sacco, Torino, 1998, 127. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 90 STUDI E OPINIONI AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE liquidatori; l’approvazione del rendiconto; le modifiche al contratto sociale e, infine, l’esclusione del socio 2. Nella società semplice – e, conseguentemente, nelle società di persone in generale – non rileva la distinzione tra i cosiddetti atti di ordinaria e straordinaria amministrazione «rimanendo esclusa dall’amministrazione soltanto la modificazione 3 del contratto sociale» . Sul tema, la Corte di Cassazione4 ha rilevato che rientrano tra i compiti degli amministratori sia atti conservativi sia atti dispositivi, «se configurano strumenti per la realizzazione degli scopi perseguiti dalla società e siano di conseguenza riconducibili all’oggetto sociale» e non vi sia esplicita pattuizione in senso contrario. Una prima indicazione di massima circa i diversi regimi di amministrazione che possono configurarsi nell’ambito della società semplice si ricava dall’art. 2257, 1° co., c.c., laddove il legislatore attribuisce la scelta al volere dei soci – come sottintende l’incipit della norma «salvo diversa pattuizione» – ed introduce il regime legale predisposto in via suppletiva, ovverosia il regime di amministrazione disgiuntiva, nel quale «l’amministrazione della società spetta a ciascun socio disgiuntamente dagli altri». Tale impostazione, pertanto, costituisce il regime normale 5 e, con il modello di amministrazione congiuntiva di cui al successivo art. 2258 c.c., individua i due sistemi 2 Cfr. CAGNASSO , cit., 128. Cfr. COSTI, DI CHIO, Società in generale - Società di persone - Associazioni in partecipazione, in Giur. sist. Bigiavi, 3 a ed., Torino, 1991, 366. Recente conferma giurisprudenziale in Cass., 5.5.2004, n. 8538, in Giust. civ., 2005, 5, I, 1307 con nota di CAMELI. Orientamento costante della Suprema Corte, risalente a Id., 29.7.1942, n. 2269, in Rep. Foro it., voce Società, n. 80. Del medesimo avviso, inoltre, Id., 11.6.1968, n. 1846, in Dir. fall., 1969, II, 86; in Riv. notariato, 1969, II, 79; in Banca borsa, 1969, II, 219, in cui si è precisato come al summenzionato principio consegua «l’impossibilità per la società di respingere gli effetti dell’atto dell’amministratore, compiuto nell’esercizio del potere a lui attribuito ogni volta che l’atto (anche se, per essere rischioso e azzardato, ad altri effetti possa essere qualificato eccedente l’ordinaria amministrazione) sia esteriormente riconoscibile come rivolto a realizzare, senza deviazione o esorbitanza dal fine, gli scopi economici della società». 4 Cass., 26.8.1998, n. 8472, in Giur. it., 1999, 322. A titolo esemplificativo, nel caso sottoposto al vaglio della Suprema Corte, si è inclusa tra i menzionati atti dispositivi la concessione di fidejussione a garanzia dell’esposizione debitoria di altra società, con cui la società garante opera «in modo affiancato e coordinato nello stesso settore produttivo e commerciale, con partecipazioni in larga misura sovrapposte ed inoltre con fini convergenti, senza confronto concorrenziale». Viceversa, la medesima ipotesi ha assunto i connotati di un’operazione estranea all’oggetto sociale allorquando non si siano riscontrati tali elementi di raccordo tra i due soggetti economici. Cfr. in tal senso Trib. Latina, 19.1.1994, ivi, 1995, I, 2, 135, con nota di SCALIA ; in Giur. comm., 1995, II, 425, con nota di MASTROGIACOMO . 5 Cfr. CAGNASSO , cit., 146. 3 IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 91 STUDI E OPINIONI AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE di amministrazione ex lege, benché, superfluo sottolinearlo, il secondo sia al contempo una scelta pattizia dei soci, stante il tenore dell’art. 2257, 1° co., c.c. Ai due modelli legali devono poi aggiungersi le molteplici configurazioni gestionali di tipo convenzionale che si possono in concreto realizzare nell’amministrazione della società semplice, declinando sia il regime dis giuntivo sia il regime congiuntivo in ragione della partecipazione alla gestione di tutti i soci o di alcuni di essi soltanto. Inoltre, il modello congiuntivo può ulteriormente ramificarsi in base ai quorum necessari per le decisioni, le quali possono essere assunte solo all’unanimità oppure a maggioranza. Ed ancora, nella medesima società possono coesistere entrambi i regimi legali, adottati a seconda della materia oggetto della scelta gestionale da intraprendere, nonché può verificarsi l’attribuzione integrale dell’amministrazione ad un amministratore unico, come si evince dall’art. 2257, 2° co., c.c., laddove precisa «se l’amministrazione spetta disgiuntamente a più soci». Sulla scorta di queste prime annotazioni di massima, si delinea uno scenario quanto mai articolato e mutevole a seconda delle differenti esigenze dei soci – tradotte nelle previsioni del contratto sociale – ottenendo combinazioni di volta in volta diverse in ragione della numerosità dei soci coinvolti nell’amministrazione e delle modalità decisionali prescelte. In un tale contesto, deve collocarsi, infine, un’ulteriore distinzione, trasversale rispetto alle precedenti, ossia quella intercorrente tra la nozione di amministrazione e 6 quella di rappresentanza, laddove si è osservato che «amministratore è colui che, nei limiti della competenza risultante dalla legge e dal contratto sociale, dirige gli affari della società; rappresentante è colui per mezzo del quale la società acquista diritti e assume obbligazioni e nella cui persona essa sta in giudizio». 2. Il modello disgiuntivo 2.1. Per quanto attiene al regime normale di amministrazione, l’implicazione più evidente del disposto letterale dell’art. 2257, 1° co., c.c., consiste nel fatto che tutti i soci sono amministratori, salvo patto contrario. Qualora solo alcuni soci rivestano il ruolo di amministratori, ci si potrebbe interrogare sulla possibilità, per costoro, di conferire una procura ad amministrare. 7 In giurisprudenza, si è risposto in senso affermativo allorquando il preposto sia un socio-non amministratore, ed in senso negativo 8 se si tratta di un soggetto terzo ed il preponente non possa interferire con le operazioni da questi realizzate. 6 Cfr. COSTI, DI CHIO , cit., 367. In giurisprudenza, tra le altre, T rib. Parma, 9.11.1995, in Dir. e giur. agr. amb., 1996, 796; Id. Torino, 8.10.1984, in Soc., 1985, 494. 7 T rib. Torino, 8.10.1984, cit. 8 T rib. T orino, 5.8.1988, in Giur. comm., 1989, II, 89; Id. Milano, 22.5.1980, in Soc., 1983, 1115. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 92 STUDI E OPINIONI AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE Ulteriore profilo concerne la configurabilità del ruolo di amministratore della società semplice in termini di lavoratore subordinato. Ad un tale quesito non può esser data soluzione univoca, essendo necessario distinguere a seconda del modello di amministrazione scelto dai soci, ed in particolare, si verificano ipotesi di 9 incompatibilità ogniqualvolta «essendo determinante la volontà del socio amministratore, non è concepibile un rapporto di subordinazione verso se medesimo». Tra queste, invero, è compreso10 il caso di amministratore unico, di amministrazione congiuntiva all’unanimità e di amministrazione plurisoggettiva dis giuntiva, nella quale ogni socio può gestire autonomamente la società. E ciò in quanto il tratto distintivo del sistema di amministrazione in parola, è stato rilevato11, è costituito non tanto e non solo dalla circostanza che ogni socioamministratore possa agire in completa autonomia, senza il preventivo consenso degli altri amministratori, bensì anche in assenza di previa informazione circa gli atti gestionali che si andranno a compiere. È immediato constatare, pertanto, come l’indubbio vantaggio in termini di efficienza gestionale, costituito dalla celerità decisionale e dall’immediatezza di esecuzione 12, sopporti quale contrappeso la possibile mancanza di coordinamento da parte dei singoli amministratori, che potrebbe palesarsi all’esito di un’amministrazione troppo atomistica. 2.2. Il correttivo previsto dal legislatore consiste nell’introdurre – quale argine all’autonomia assoluta dell’amministratore – il diritto di veto in capo a ciascuno degli 9 Cfr. GHIDINI, Società personali, Padova, 1972, 389-390. Cass., sez. lav., 15.9.1979, n. 4779, in Arch. civ., 1980, 268; Id., sez. lav., 10.2.2000, n. 1490, in Giust. civ. mass., 2000, 292. 11 Cfr. GALGANO , Il principio di maggioranza nelle società personali, Padova, 1960, 72, per il quale «il criterio capace di distinguere l’amministrazione disgiuntiva da quella congiuntiva non risiede nel dato, che è comune ad entrambi i sistemi, per il quale i membri del gruppo possono agire isolatamente, ma risiede, al contrario, nella circostanza che, per il primo di tali sistemi, il singolo è integralmente investito dei poteri del gruppo, e, quindi, può agire all’insaputa del colleghi». Conforme CAGNASSO, ibidem. 12 In proposito, è stato acutamente osservato che nell’amministrazione disgiuntiva «si esprime pienamente quella compenetrazione fra la qualità di socio e il potere amministrativo che è nella natura delle società personali. Il sistema si è imposto storicamente come il più adatto alla conclusione rapida degli affari, in un mondo mercantile in cui le comunicazioni erano lente e difficili ed i soci dovevano agire in luoghi fra loro distanti. Esso ha nondimeno due inconvenienti: da un lato può mancare il coordinamento, dall’altro ogni socio subisce a cose fatte il rischio di operazioni che non ha contribuito a decidere». Cfr. COTTINO, W EIGMANN , Le società di persone, in Tratt. Dir. Comm. diretto da Cottino, III, Padova, 2004, 145. 10 IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 93 STUDI E OPINIONI AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE altri soci-amministratori, i quali possono, ai sensi dell’art. 2257, 2° co., c.c., «opporsi all’operazione che un altro voglia compiere, prima che sia compiuta». Il tenore letterale della norma fuga ab origine qualsiasi velleità di attribuire il predetto diritto di veto a soci che non siano anche amministratori13. La decisione in merito alla suddetta opposizione preventiva compete alla maggioranza di tutti i soci, amministratori e non, conteggiata in base alla partecipazione agli utili (art. 2257, 3° co., c.c.). Qualora si ritenga infondato il divieto sollevato, l’amministratore potrà compiere l’atto in un primo momento “bloccato”; in caso contrario, accogliendo le ragioni dell’opponente, l’operazione non potrà avere corso. Con riguardo al meccanismo di valutazione endosocietario dianzi descritto, si è precisato14 come esso venga meno allorquando l’amministratore che ha esercitato il proprio diritto di veto rinunci all’opposizione, privando conseguentemente la maggioranza dei soci del potere di decidere, venendo a mancare il presupposto previsto ex lege, ossia l’opposizione. Sul tema dell’opposizione, in giurisprudenza15, oltre ad evidenziare la necessità che si tratti di un veto posto esclusivamente ex ante rispetto all’operazione, si ritiene che esso possa «legittimamente investire una pluralità di atti di amministrazione, soprattutto se si tratta di una serie omogenea» e ciò al fine di «consentire che un sicuro dissenso di alcuni soci trovi effettiva e pronta salvaguardia e si intenda evitare una poco economica moltiplicazione di analoghi momenti conflittuali». Inoltre, è stato osservato16 che «se l’affare fosse già concluso, non può impedirsene l’esecuzione, essendo l’obbligazione sorta validamente a carico del gruppo: tuttavia se fosse suscettibile di vari svolgimenti l’opposizione potrebbe esercitarsi in ordine ai medesimi, in modo da evitare quelli dannosi alla società». Per quanto concerne la comunicazione dell’intervenuta opposizione, non vi è uniformità su quali debbano essere i destinatari, essendovi chi propende per la totalità dei soci e chi unicamente per l’amministratore promotore dell’operazione “congelata” e 17 la controparte terza con cui dovrebbe essere conclusa . In ogni caso, pare ragionevole informare tutti i soci-amministratori, affinché, ignari, non intraprendano inutilmente a loro volta il medesimo affare oggetto dell’opposizione. 13 Cfr. CAGNASSO , QUARANTA, La società semplice, in Tratt. Rescigno, 17, Torino, 2010, 43. Cfr. CAMPOBASSO , Diritto Commerciale, 2, Torino, 2012, 91; CAGNASSO , cit., 147. 15 Pret. Milano, 18.11.1988, in Giur. comm., 1989, II, 353. Maggiormente restrittiva Cass., 2.4.1992, n. 4018, in Giur. it., 1992, I, 1, 1678, per la quale la norma in commento «va intesa nel senso che il contrasto può appuntarsi soltanto su singole operazioni e deve trovare soluzione nell’ambito del sodalizio societario». 16 Cfr. FERRARA JR, CORSI, Gli imprenditori e le società, 14 a ed., Milano, 2009, 271, nt. 1. 17 Cfr., per la prima tesi, BOLAFFI, La società semplice, Milano, 1947, 315, e, per la seconda soluzione, GHIDINI, cit., 368. 14 IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 94 STUDI E OPINIONI AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE Da un punto di vista pratico, l’opposizione non richiede alcuna forma specifica 18 e non deve essere motivata19. Essa esplica i propri effetti20 tanto nei rapporti esterni – configurandosi come una limitazione successiva della rappresentanza – quanto nei rapporti interni. Conseguentemente, l’eventuale compimento dell’operazione, che prescinda dall’opposizione in corso, è fonte di responsabilità per il socio che l’ha realizzato nei confronti degli altri soci. La decisione in merito all’opposizione, come dispone linearmente la norma, 21 spetta ai soci in base alla rispettiva partecipazione agli utili e, inoltre, si è ritenuto 22 debba essere assunta adottando il metodo collegiale. Al riguardo, è stato precisato che «se la decisione della maggioranza è negativa, essa comporta il divieto definitivo di compiere l’operazione divisata; viceversa, una decisione positiva lascia intatto il potere del socio-amministratore di compiere oppur no l’operazione stessa». Alternativamente rispetto alla decisione da parte dell’intera compagine sociale, l’atto costitutivo può prevedere che la questione sia risolta da uno o più arbitratori, ai sensi dell’art. 37, d.lg. 17 gennaio 2003, n. 5, i quali, se sancito pattiziamente, possono «dare indicazioni vincolanti anche sulle questioni collegate con quelle espressamente deferite» 23. In conclusione, con riferimento al diritto di veto, pare potersi rilevare come un potenziale limite alla concreta applicazione di siffatto diritto derivi dall’intrecciarsi, da un lato, dell’assenza di un qualsivoglia esplicito obbligo di previa informazione per gli atti di gestione che andranno a compiersi da parte degli amministratori nel modello disgiuntivo, e, dall’altro lato, dalla necessità che l’opposizione venga esercitata anteriormente rispetto all’effettuazione dell’operazione. Pertanto, ben potrebbero gli amministratori ignorare l’affare che uno di essi si sta accingendo a concludere, con l’impossibilità, “a cose fatte”, di intervenire per la rimozione degli effetti reali ed obbligatori validamente prodottisi in capo alla società. In un tale scenario, nondimeno, possono opportunamente esser riportate le 24 considerazioni svolte da autorevole dottrina , laddove si è osservato che «oggi tutti si compiacciono di usare il telefonino e quindi dal dovere di diligenza […] si deve 18 Cfr. FERRARA JR, CORSI, cit., 272. Cfr. GHIDINI, ibidem. 20 Cfr. FERRARA JR, CORSI, cit., 271. 21 Cfr. DI SABATO , Diritto delle società, 3 a ed., Milano, 2011, 118. 22 Cfr. DI SABATO , ibidem. 23 Cfr. CAMP OBASSO , ibidem. L’Autore osserva come il contratto sociale possa altresì stabilire che – alternativamente – le decisioni dell’arbitratore siano reclamabili innanzi ad un collegio con determinate modalità e termini, oppure siano impugnabili ex art. 1349, 2° co., c.c. 24 Cfr. COTTINO, W EIGMANN, ibidem. 19 IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 95 STUDI E OPINIONI AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE desumere l’obbligo di darsi reciproco preavviso e di consultarsi in anticipo, ogni volta che sia possibile e ne valga la pena». 3. Il modello congiuntivo 3.1. Con riferimento al secondo regime di amministrazione legale, previsto all’art. 2258 c.c., si rileva innanzitutto come esso sia al contempo un modello “convenzionale”, dovendo essere esplicitamente adottato dai soci, così come del resto 25 confermato in giurisprudenza ove si è deciso che «a derogare al potere di gestione disgiunto è la diversa pattuizione che in concreto sia intervenuta e che l’amministrazione è congiuntiva solo ove tale fatto positivo sia stato dimostrato e non anche se sia mancata la prova del fatto negativo, cioè della inesistenza di pattuizioni derogatrici». Inoltre, è stato sostenuto26 che «qualora le parti del contratto sociale abbiano adottato il regime di amministrazione congiuntiva, la cessazione dall’incarico di uno degli amministratori, pur determinando la cessazione dall’incarico anche degli altri, non comporta la automatica reviviscenza del regime di amministrazione disgiuntiva». Il disposto letterale della norma prevede, in primo luogo, che la gestione spetti unicamente ad alcuni soci, e, in secondo luogo, che i soci-amministratori decidano all’unanimità. Di talché, il rifiuto espresso da uno solo degli amministratori avverso un’operazione di gestione ne preclude l’effettuazione. Qualora uno degli amministratori, che sia altresì investito del potere di rappresentanza, proceda al compimento di un atto di gestione senza il preventivo consenso degli altri soci-amministratori, l’operazione è valida ed efficace nei confronti del terzo, salvo che la società non provi la conoscenza da parte del terzo contraente tanto del regime di amministrazione congiunta quanto della mancanza del consenso 27 unanime degli amministratori . 25 Cass. 5.5.2004, n. 8538, cit. Cfr., in dottrina, A. VENDITTI, Collegialità e maggioranza nelle società di persone, Napoli, 1955, 83. 26 Trib. Torre Annunziata, 26.9.2002, in Giur. di Merito, 2003, 224. Ed ancora, nella parte motiva della sentenza si legge che «si deve ritenere che la scelta dell’amministrazione congiuntiva abbia carattere stabile e permanente e che le disfunzioni di tale regime (quali, nel caso di specie, la cessazione dall’incarico degli amministratori e le difficoltà di realizzare un accordo per nominare i nuovi) determinano non la reviviscenza dell’amministrazione disgiuntiva ma, eventualmente, o l’esclusione dei soci dissenzienti o lo scioglimento della società per impossibilità del suo funzionamento». Contra MORANO , Il consiglio di amministrazione nella società di persone, in Soc., 1987, 392. 27 Cfr. GHIDINI, cit., 371. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 96 STUDI E OPINIONI AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE Viceversa, allorquando il placet sia immotivatamente negato e dall’aver rinunciato all’affare sia derivato un pregiudizio per la società, l’amministratore dissenziente potrebbe incorrere in un’azione di responsabilità 28. Ulteriore profilo attiene alla morte del socio-amministratore, circostanza questa 29 che, in giurisprudenza , è stata ritenuta fonte dell’estinzione del mandato collettivo ad amministrare in via congiunta e che, parimenti, non consente ai soci di ratificare a maggioranza l’operato dei soci-amministratori superstiti, dovendo sussistere il consenso unanime della compagine sociale. 3.2. Il potenziale rischio di stallo a cui la gestione è esposta con il modello in parola, trova contemperamento con le indicazioni di cui all’art. 2258, 2° co., c.c., laddove si prevede un regime di amministrazione congiunta a maggioranza – determinata in base alla partecipazione agli utili, in forza del rinvio all’art. 2257, 3° co., c.c. – al quale la società può accedere, «se è convenuto», o per l’intera amministrazione oppure solo «per determinati atti». Trattasi, anche in questo caso, di un’ulteriore, esplicita, scelta dei soci scolpita nel contratto sociale, dovendosi viceversa applicare la votazione all’unanimità – propria del modello di amministrazione congiunta – qualora nulla sia convenuto in senso contrario, così come precisato dalla Suprema Corte30, per la quale «il principio maggioritario dettato dall’art. 2388 c.c. per le società per azioni non può, infatti, trovare applicazione in tale ipotesi, a meno di una espressa previsione pattizia autonoma o inclusa nell’atto costitutivo». La norma individua, pertanto, una regola suppletiva31 per il conteggio della maggioranza, laddove lo statuto non si esprima diversamente, potendosi stabilire pattiziamente che questa sia computata applicando anche altri metodi, quali il voto capitario o il voto parametrato ai conferimenti effettuati, se differenti rispetto alla partecipazione agli utili 32. Con riferimento alla determinazione della maggioranza, inoltre, vi sono posizioni contrastanti per quanto attiene ai soggetti legittimati al voto, essendovi 28 Cfr. GHIDINI, cit., 370. T rib Napoli, 7.10.1986, in Soc., 1987, 389. La decisione de qua stabilisce che, «poiché il mandato collettivo si estingue con la morte di uno dei mandatari, nel caso di decesso di un componente del consiglio di amministrazione di una società di persone, in assenza di deroghe pattizie, è invalida la deliberazione dei soci che ratifica a maggioranza l’operato degli amministratori superstiti, poiché non avendo tale atto un valore meramente formale, in quanto diretto ad approvare l’operato di soggetti non più amministratori, occorre l’unanime consenso dei componenti la compagine sociale». 30 Cass., 19.1.1985, n. 142, in Dir. fall., 1985, II, 407. 31 Cfr. COTTINO, W EIGMANN, cit., 147. 32 Cfr. SALAFIA, L’amministrazione delle società personali, in Soc., 1999, 1289; COTTINO, W EIGMANN , ibidem. 29 IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 97 STUDI E OPINIONI AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE dottrina prevalente che sostiene debbano esser considerati solamente i sociamministratori e altra parte della dottrina che ritiene sia necessario il coinvolgimento dell’intera compagine sociale 33. Al riguardo, pare potersi affermare che conteggiare i soli amministratori sia coerente con quanto testualmente disposto ex lege per l’amministrazione congiuntiva all’unanimità, in cui, come visto, unicamente gli amministratori sono chiamati a decidere l’operazione. A fortiori, ciò dovrebbe valere anche per il modello a maggioranza, di per sé volto ad incrementare la rapidità decisionale e applicabile, inoltre, solo ove pattuito. Ragionando a contrariis, infatti, si imporrebbe un fardello in termini di snellezza gestionale proprio laddove il legislatore ha inteso imprimere dinamicità al modello di amministrazione congiuntiva, introducendo il correttivo del voto per maggioranza. Sul punto l’autonomia statutaria potrebbe esprimersi tanto in un senso quanto nell’altro, risolvendo nel caso concreto i possibili conflitti di natura interpretativa. In proposito, ad ogni modo, l’amministratore che non si esprime sull’operazione, astenendosi dal voto, può esser compreso nel quorum costitutivo e considerato, ai fini 34 del quorum deliberativo, come voto contrario . 3.3. Infine, per ciò che concerne il regime di amministrazione congiunta, le disposizioni dell’art. 2258, 3° co., c.c., prevedono espressamente che, tanto nel modello con decisione all’unanimità quanto nel modello a maggioranza, «gli amministratori non possono compiere da soli nessun atto». Inoltre, la norma individua esplicitamente un’eccezione a tale regola, facendo salve le ipotesi in cui l’amministratore agisca individualmente qualora «vi sia urgenza di evitare un danno alla società». 35 Al riguardo, consta una pronuncia della Corte di legittimità in cui si ravvisa la ratio sottostante il dettato codicistico nel fatto che «la norma è diretta ad impedire che la società possa subire pregiudizi per il ritardo conseguente alla necessità di procedere a consultazione, per acquisire il consenso di tutti i soci o della maggioranza di essi». Pertanto, rileva la Suprema Corte, tale disposizione «presuppone che non si sia manifestato alcun dissenso, e che, al contrario, sia ancora possibile acquisire i consensi necessari, con la conseguenza che essa non è applicabile allorché sussista un grave disaccordo tra i soci». Le condizioni al ricorrere le quali può trovar applicazione l’eccezione legale sono a) il verificarsi di una situazione di urgenza, che, generalmente, si connota per l’impossibilità di previa consultazione dei soci-amministratori36, b) l’insorgere di un 33 Cfr., ex pluribus, per la prima tesi GHIDINI, cit., 373; per la seconda opinione BOLAFFI, cit., 322. 34 Cfr. GHIDINI, cit., 373-374. 35 Cass., 19.7.2000, n. 9464, in Giust. civ. mass., 2000, 1567. 36 Cfr. GHIDINI, cit., 375. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 98 STUDI E OPINIONI AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE danno per la società, non necessariamente grave ed irreparabile, ma tale da sostanziarsi in un pregiudizio al patrimonio sociale 37 e non nel semplice venir meno di un guadagno. La valutazione circa la sussistenza dello stato di urgenza e del possibile originarsi del danno in capo alla società è rimessa – di necessità – al giudizio del singolo amministratore, e, qualora questi dovesse commettere un errore scusabile nel considerare la situazione, l’atto gestorio compiuto sarebbe ad ogni conseguente effetto 38 dotato di legittimità , vincolando la società nei confronti dei terzi, anche nell’ipotesi in cui si dovesse riscontrare la mancanza tanto del requisito di urgenza quanto del possibile danno 39. 4. I modelli di amministrazione convenzionali Il legislatore attribuisce ai soci ampia libertà di definire il modello di amministrazione da adottare, tanto preordinando la possibilità di scegliere tra le configurazioni gestorie legali, quanto adattando le stesse alle esigenze concrete della singola compagine sociale. A titolo esemplificativo, i soci possono stabilire nel contratto sociale di diversificare il regime di amministrazione in ragione dell’atto gestorio che deve essere posto in essere 40, oppure il contratto sociale può prevedere che l’amministrazione disgiuntiva sia ripartita tra i soci-amministratori attribuendo a ciascheduno specifiche e delimitate aree di competenza, contemperando il rischio di una gestione strettamente individualista con il potere di informazione che spetta a tutti i soci-amministratori, stante la responsabilità solidale di cui sono gravati collettivamente per l’agire del 41 singolo, (art. 2260, 2° co., c.c.) . 37 Cfr. G. FERRI, Delle società, in Comm. Scialoja-Branca, Roma-Bologna, 1981, 159 e ss. L’Autore precisa, inoltre, che l’eccezione alla regola dell’amministrazione congiunta deve esser motivata dalla necessità di salvaguardare l’integrità del patrimonio sociale e non anche dall’esigenza di incrementarlo. Conformi in tal senso COSTI, DI CHIO , cit., 375. 38 Cfr. G. FERRI, ibidem. 39 T uttavia, è stato rilevato come la società possa liberarsi delle obbligazioni sorte a seguito dell’agire isolato del socio-amministratore laddove riesca a fornire la prova che il terzo era a conoscenza del regime di amministrazione congiuntiva, del mancato consenso da parte degli altri soci-amministratori, nonché dell’assenza dell’urgenza nel caso concreto. Cfr. GHIDINI, ibidem. 40 T ale ipotesi, invero, risulta «in qualche modo adombrata dallo stesso legislatore là dove, disciplinando il modello di amministrazione congiunta, prevede che sia richiesto il consenso unanime per determinati atti, la maggioranza per altri. In tal modo lo stesso legislatore consente l’applicazione di regole differenti in relazione a categorie differenziate di atti di gestione». Cfr. CAGNASSO, cit., 148. Conforme CAMPOBASSO , cit., 92. In giurisprudenza, T rib. Roma, 2.1.1987, in Soc., 1987, 431; Cass., 6.12.1984, n. 6419, ivi, 1985, 270. 41 Cfr. CAGNASSO , ibidem. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 99 STUDI E OPINIONI AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE Ulteriore possibilità, pienamente ipotizzabile nell’alveo dell’autonomia sociale, attiene all’introduzione delle regole della collegialità, delineando un organo gestorio assimilabile al consiglio di amministrazione proprio delle società di capitali, cui potrebbe affiancarsi, del pari, un organo assembleare deputato a decidere su quegli argomenti che, come visto, devono essere sottoposti al vaglio dell’intera compagine 42 sociale . Profilo di particolare interesse, inoltre, attiene alla possibilità per i soci-non amministratori di impartire direttive su questioni gestorie, facoltà pacificamente ammessa se pattiziamente prevista e – allo stesso tempo – circoscritta. Al contrario, in assenza di un’esplicita indicazione in tal senso nel contratto sociale, si ritiene che codesto potere non possa trovar luogo, in quanto, diversamente opinando, ci si scontrerebbe con il lineare disposto normativo di cui all’art. 2257, 2° co., c.c., il quale sancisce inequivocabilmente come il diritto di veto spetti unicamente ai sociamministratori43. Essendo impedito ai soci-non amministratori di limitare in negativo l’agire degli amministratori, del pari deve concludersi come non sia possibile unicamente ex lege limitare in positivo il loro operare. Nondimeno, sul punto esistono posizioni discordanti laddove la gestione sia attribuita ad «un amministratore unico nominato per atto separato e perciò revocato dai soci non amministratori anche senza giusta causa» 44. Da un lato, vi è chi osserva come il potere di revoca ad nutum implichi, a fortiori, il potere di impartire direttive vincolanti all’amministratore unico, il quale, per gli atti di gestione da queste scaturenti, andrebbe esente da responsabilità45. Dall’altro lato, non può non rilevarsi come un siffatto ragionamento collida 46 – in una prospettiva sistematica – con quanto sancito per le società per azioni all’art. 2364, 1° co., c.c., che, anche nella formulazione novellata dal d.lg. 17 gennaio 2003, n. 6, non prevede la facoltà per l’assemblea di disporre linee guida vincolanti per gli amministratori che essa stessa nomina e revoca, potendo solo concedere autorizzazioni se «eventualmente richieste dallo statuto per il compimento di atti degli amministratori, ferma in ogni caso la responsabilità di questi per gli atti compiuti». 5. Il rapporto di amministrazione. Profili generali 5.1. Per quanto concerne il rapporto di amministrazione, in primo luogo vi è la possibilità – nella società semplice – di attribuire il potere gestorio a soggetti che non 42 Cfr. CAGNASSO , cit., 148-149. Cfr. CAGNASSO , cit., 149-150. Conformi, in tal senso, COTTINO , W EIGMANN, cit., 139; GALGANO , Degli amministratori di società personali, Padova, 1963, 31. 44 Cfr. CAMPOBASSO , cit., 100. 45 Cfr. CAMPOBASSO , ibidem. 46 Cfr. CAGNASSO , cit., 150. 43 IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 100 STUDI E OPINIONI AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE siano al contempo soci. Se le opinioni espresse in dottrina paiono discordanti47, giurisprudenza risalente si è orientata recisamente in senso negativo 48. Ragione sottostante risiede nelle disposizioni di cui all’art. 2267 c.c., laddove si sancisce la possibilità di limitare la responsabilità per le obbligazioni sociali per quei soci che non abbiano agito in nome e per conto della società. Considerando congiuntamente tale previsione con il fatto che il potere di rappresentanza spetta ai soli soci-amministratori, si deve concludere che sarebbe perlomeno «singolare che si potesse nominare un amministratore non socio solo in presenza di amministratori soci, 49 con poteri di rappresentanza» . Ed inoltre, siffatta conclusione pare coerente con quanto stabilito per l’accomandita semplice, nella quale si possono configurare due tipologie di soci con differenti regimi di responsabilità e l’amministrazione della società può esser attribuita unicamente ai soci accomandatari 50. 47 In senso negativo, cfr., tra gli altri, AULETTA , Appunti di diritto commerciale, Napoli, 1946, 147; COTTINO , Diritto societario, Padova, 2011, 76 e ss., 116; GALGANO , Degli amministratori, cit., 30 e ss.; GHIDINI, cit., 418 e ss.; DI SABATO , cit., 120. Viceversa, hanno ritenuto ammissibile la figura dell’amministratore extraneus, BOLAFFI, cit., 330 e s.; A. VENDITTI, cit., 82; GRAZIANI, Diritto delle società, Napoli, 1962, 118; T ASSINARI, La rappresentanza nelle società di persone, Milano, 1993, 143 e ss.; CAMP OBASSO, cit., 100 e s., con riguardo alla sola società in nome collettivo. Quest’ultimo Autore osserva come nella collettiva non si ponga «l’unico significativo argomento che può ostacolare la soluzione permissiva nella società semplice. Il pericolo cioè che la nomina di un amministratore estraneo costituisca espediente per eludere il principio della responsabilità personale ed illimitata dei soci per le obbligazioni sociali», e ciò in quanto nella società in nome collettivo «tutti i soci sono sempre e comunque responsabili personalmente nei confronti dei creditori sociali, siano o meno investiti dell’amministrazione della società». 48 Cass., 25.1.1968, n. 128, in Giur. it., 1968, I, 1, 1202; Trib. Roma, 21.1.1983, in Soc., 83, 1153; Id. Biella, 23.10.1999, in Dir. fall., 9, II, 1250. Più recentemente, Id. Cagliari, 11.11.2005, in Riv. giur. sarda, 2006, 383, con nota di DESSÌ. Con precipuo riferimento alla società in nome collettivo, consta una pronuncia di Trib. Foggia, 29.2.2000, in Giur. it., 2001, 989, in cui si è affermato che «la diretta correlazione tra potere gestorio e rischio di impresa che connota la disciplina delle società di persone implica un nesso indissolubile tra lo "status" di socio e la funzione amministrativa. Deve pertanto essere rifiutata l’iscrizione nel Registro delle imprese dell’atto costitutivo di una s.n.c. che conferisca l’incarico di amministratore ad un soggetto estraneo alla compagine sociale, rimanendo a tale fine irrilevante la circostanza che egli rivesta la qualifica di accomandatario di una s.a.s. che di tale compagine fa parte». 49 Cfr. CAGNASSO, cit., 152. Sul punto, giunge ad una conclusione parzialmente differente GRAZIANI, ibidem, il quale ritiene sia possibile nominare un amministratore extraneus a condizione che non abbia poteri di rappresentanza. Contra, COTTINO, cit., 86. 50 Cfr. CAGNASSO , ibidem. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 101 STUDI E OPINIONI AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE A ben vedere, anche chi ammette la possibilità di un amministratore extraneus rispetto alla compagine sociale assimila questa figura a quella di un mandatario generale o di un institore, «sia pure con poteri estesi al compimento di tutti gli atti che rientrano nell’oggetto sociale» 51. 5.2. Differente è, invece, la possibilità di delegare a terzi il potere di amministrare, in un primo momento esclusa dalla giurisprudenza della Suprema Corte52 e, successivamente ritenuta ammissibile in quanto «l’amministratore ha tutti i poteri relativi alla gestione della società onde non solo egli può conferire a terzi o a soci collaboratori o a dipendenti dello stesso ente un mandato con rappresentanza; può concepirsi, inoltre, in via di mero fatto, la possibilità di un mandato tacito» 53. Nondimeno, giurisprudenza più recente 54 ha precisato come la facoltà di delega debba in ogni caso essere autorizzata dal contratto sociale e limitarsi a singoli atti, essendo «nulla la procura institoria conferita dall’amministratore di una società di persone […] che attribuisca al preposto il potere di compiere tutti gli atti relativi all’amministrazione senza che il preponente possa interferire o opporsi alle sue operazioni». Ed ancora, si è specificato 55 come permanga in capo all’amministratore delegante un potere di controllo e di revoca nei confronti del soggetto delegato, nonché – correlativamente – la responsabilità per non aver impedito a questi il compimento di atti dannosi per la società. Autorevole dottrina56 ha sottolineato come l’amministratore non può «nominare un institore se ciò implichi lo svuotamento dei propri attributi […] Egli può sempre 51 Cfr. CAMPOBASSO , cit., 101. L’Autore conclude osservando che «la nomina di un amministratore estraneo non priva i soci del potere di direzione dell’impresa comune. È solo un modo di esercitare tale potere di direzione, che può e deve ritenersi perfettamente legittimo in quanto non altera il principio della responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali». Nondimeno, l’Autore avverte che tale situazione può al più rivelarsi problematica per il terzo amministratore «data la nota propensione della giurisprudenza ad ammettere con larghezza la figura del socio apparente». 52 Cass., 5.5.1955, n. 1256, in Sett. Cass., 1955, 242; Id., 5.4.1966, n. 895, in Mass. Giust. civ., 1966, 508. La Suprema Corte motivava il diniego alla delega osservando che «in una società di persone, conferita ad uno dei soci una attività di specifico carattere personale, come la direzione tecnica dell’impresa, il socio impedito di esplicare l’attività lui demandata […] in mancanza di espressa disposizione del contratto di società, non può pretendere di sostituire a sé altra persona che spieghi in sua vece l’attività di cui trattasi». 53 Cass., 12.3.1964, n. 535, in Mass. Giur. it., 1964, 166. Conforme Id., 8.7.1963, n. 1833, ivi, 1963, 632; Trib. Torino, 8.10.1984, cit. 54 T rib. Milano, 22.12.1983, in Soc., 1984, 790. 55 T rib. Roma, 9.10.1987, in Soc., 1988, 248, con nota di MARCINKIEWICZ. 56 Cfr. COTTINO, cit., 86 e ss. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 102 STUDI E OPINIONI AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE valersi del contributo esecutivo di altre persone; così come è legittimato a conferire, nei limiti naturalmente dei poteri di cui è investito e in quanto ciò non implichi abdicazione dalle funzioni gestorie, procure a soci o a terzi». Tuttavia «non si può escludere che, di fatto, i soci si spoglino materialmente di mansioni amministrative scaricandole su terzi», anche se ciò non comporta che il terzo diventi amministratore «in senso tecnico» – essendo questa qualifica propriamente attribuibile ai soli soci – bensì egli «sarà di volta in volta un semplice procuratore o sostituto degli amministratori o institore 57 dell’impresa collettiva» . 5.3. La riforma del diritto societario del 2003 ha affacciato un’ulteriore quaestio di non poco momento, la quale scaturisce dalla novella introdotta all’art. 2361, 2° co., c.c., in forza della quale una società per azioni può assumere una partecipazione in un’altra impresa che comporti responsabilità illimitata per le obbligazioni di quest’ultima58. Sulla scorta delle osservazioni che precedono in tema di inscindibilità del binomio socio-amministratore, sorge spontaneo domandarsi se sia ammissibile che la gestione dell’ente partecipato sia affidata ad un socio persona giuridica. Risposta affermativa è stata sostenuta argomentando come l’art. 111 duodecies, disp. att. c.c. – nel prevedere che la collettiva o l’accomandita semplice esclusivamente partecipate da società di capitali debbano redigere il bilancio d’esercizio in conformità alle disposizioni vigenti per le s.p.a., nonché il bilancio consolidato ove ne sussistano i requisiti – implichi «l’ammissibilità di una società di persone, i cui amministratori 59 siano persone giuridiche» . Da un punto di vista strettamente applicativo, si è rilevato come la persona giuridica debba procedere alla nomina di un mandatario affinché si occupi dell’amministrazione della società di persone, potendo tanto nominarlo quanto revocarlo 57 Cfr. COTTINO, ibidem. La disposizione, introdotta per la s.p.a., è richiamata per la s.a.p.a. dall’art. 2454 c.c. e si ritiene sia applicabile anche con riferimento alla s.r.l., in ragione dell’art. 111 duodecies, disp. att. c.c. Cfr. COTTINO , WEIGMANN , cit., 140. Per i termini del dibattito anteriormente alla riforma del diritto societario, vds. COSTI, DI CHIO , cit., 175 e ss. 59 Cfr. COTTINO , WEIGMANN , cit., 90-91 e 141. Conformi, tra gli altri, ABRIANI, MONTALENTI, L’amministrazione; vicende del rapporto, poteri, deleghe e invalidità delle deliberazioni, in Tratt. Dir. Comm. diretto da Cottino, IV, 1, Padova, 2010, 574. Contra, GALGANO , Diritto commerciale. Le società, Bologna, 2005, 46, per il quale la carica di amministratore deve essere assunta dalla persona fisica designata dalla società di capitali socia, applicando in via analogica l’art. 2542, 2° co., c.c., riferito alle società cooperative. Del medesimo avviso LIBONATI, Diritto commerciale. Impresa e società, Milano, 2005, 174, il quale identifica l’amministratore della società personale non tanto nella società di capitali partecipante quanto piuttosto nel legale rappresentante di quest’ultima. 58 IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 103 STUDI E OPINIONI AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE ad libitum, «né gli altri soci si potranno opporre a questa sostituzione, salvo che si siano riservati una facoltà di assenso nell’atto costitutivo»60. Ed ancora, sul punto, autorevole dottrina61 ha precisato come il mandatario in parola, agendo in nome e per conto del socio, non incorra in responsabilità illimitata per le obbligazioni della società che egli gestisce e, pertanto, de jure condendo, si è proposto di imporre alla società di capitali «di indicare un suo rappresentante stabile e nel contempo rendere quest’ultimo corresponsabile, insieme con chi lo abbia prescelto, dei danni causati alla società con una negligente gestione». Conclusivamente, è stato acutamente osservato che, «con riferimento all’assunzione della qualifica di amministratore, le alternative non possono che essere o l’assunzione di tale veste da parte dei soci società di capitali (e quindi concretamente dei loro amministratori) o da parte di non soci. L’una e l’altra alternativa presentano ovviamente rilevanti conseguenze sotto il profilo sistematico: in particolare la seconda 62 apre la strada alla possibilità di nomina in via generale di amministratori non soci» . 6. Fonte e natura giuridica del rapporto di amministrazione 6.1. Il rapporto di amministrazione può sorgere ex lege – ed allora amministratori saranno tutti i soci, giusta il dettato dell’art. 2257, 1° co., c.c. – oppure avere origine contrattuale63, derivando da esplicita pattuizione del contratto sociale o da un atto separato successivo rispetto alla costituzione della società. 60 Cfr. COTTINO, W EIGMANN, cit., 141. Cfr. COTTINO , W EIGMANN, ibidem. Giova riportare il commento degli Autori all’innovazione introdotta con la riforma del 2003, laddove essi osservano «con il che, però, si rompe quell’immedesimazione fra potere di gestione e qualità di socio illimitatamente responsabile su cui si è finora fondato il sistema vigente […] c’è quindi da rammaricarsi di questo improvviso sconvolgimento, non tanto per il ribaltamento del principio […] quanto per la mancata valutazione delle conseguenze che se ne devono trarre e che, per non pregiudicare l’equilibrio sistematico delle regole, sarebbero dovute essere accompagnate per legge da talune cautele». Conforme REGOLI, L’organizzazione delle società di persone, in AA.VV., Diritto delle società. Manuale breve, Milano, 2008, 57 e s. 62 Cfr. CAGNASSO , QUARANTA, cit., 44. 63 Sul punto, GRAZIANI, cit., 120, ritiene che il rapporto di amministrazione abbia in ogni caso natura contrattuale, ancorché non vi sia alcuna previsione statutaria, e ciò in quanto il rapporto di amministrazione discende come elemento naturale dal contratto sociale. Ed ancora, al riguardo, cfr. VISENTINI, Imprenditore - Società di persone, in Diritto commerciale, II, Padova, 2011, 191, ove l’Autore precisa che «quando si dice incaricati con il contratto sociale si intende dire che la carica di amministratore è richiesta ed accettata come condizione dell’accordo societario, sì da essere radicata nel contratto di società, come clausola dello stesso. Invece l’incarico con atto separato è da intendere che la nomina dell’amministratore rientri nelle vicende esecutive del contratto di società, quando i soci preferiscono affidare la gestione ad uno di loro, senza alcun impegno contrattuale con la persona». 61 IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 104 STUDI E OPINIONI AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE Stante il silenzio del legislatore, ci si è interrogati se, in quest’ultima ipotesi, la nomina debba essere approvata all’unanimità o sia sufficiente il placet della maggioranza dei soci, propendendo per la prima soluzione64. Tale conclusione risulta preferibile in cons iderazione del fatto che la decisione totalitaria prevale nelle società personali in assenza di precise deroghe. 6.2. M aggiormente dibattuta, in dottrina, la natura del rapporto di 65 amministrazione – «rapporto autonomo e distinto dal rapporto sociale» – il quale, tra le varie posizioni sostenute al riguardo 66, è stato assimilato ad a) il mandato, tout court; b) il mandato, nei limiti della compatibilità con il rapporto di gestione; c) un rapporto speciale sui generis, definibile come rapporto di amministrazione; d) una peculiare riserva di dirigere l’impresa sociale, propria di alcuni soci; e) un organo sociale. Per quanto concerne l’opinione indicata sub a), questa è, invero, maggioritaria in dottrina ed ha incontrato il favor della giurisprudenza di legittimità, poiché trae il proprio fondamento dalle previsioni di cui all’art. 2260, 1° co., c.c., che, nel disciplinare diritti e obblighi degli amministratori, precisa che essi «sono regolati dalle norme sul mandato». Tale impostazione corrobora la distinzione sussistente tra la posizione di socio e quella di amministratore, cui consegue che «l’inadempimento agli obblighi che si impongono al socio come amministratore, potrà portare alla revoca del socio da tale ufficio, ma non anche alla sua esclusione dalla società e, d’altra parte, l’esclusione dalla società, di per sé non dovrebbe legittimare la revoca dall’amministrazione» 67. Analogamente si è espressa la Suprema Corte68 che, in proposito, ha affermato che «l’attribuzione della qualità di amministratore ad uno dei soci non comporta una rinuncia al potere originario di direzione da parte del socio non amministratore, ma 64 Cfr. FERRARA JR, CORSI, cit., 279; GHIDINI, cit., 379. In giurisprudenza, Trib Napoli, 7.10.1986, cit. In senso contrario, GRAZIANI, cit., 123; A. VENDITTI, cit., 84 e ss. Per questi ultimi Autori, l’unanimità non costituisce il principio decisionale generale nelle società di persone. 65 Cfr. CAMPOBASSO , cit., 96. 66 Per la disamina delle diverse posizioni espresse anteriormente alla riforma del diritto societario, cfr. COSTI, DI CHIO , cit., 375 e ss. Recentemente, cfr. CONFORTI, Le società di persone. Amministrazione e controlli, Milano, 2009, 47 e ss. 67 Cfr. COSTI, DI CHIO , cit., 376. La tesi del rapporto di amministrazione come mandato è stata sostenuta, tra gli altri, da SERRA , Unanimità e maggioranza nelle società di persone, Milano, 1980, 235; DI SABATO , cit., 122. 68 Cass., 28.5.1985, n. 3236, in Foro it., 1986, I, 158. Conformi Id., 13.11.1984, n. 5747, in Giur. it., 1986, I, 1, 482; Id., 5.5.1980, n. 2935, ivi, 1980, I, 1, 1558. Ed ancora Id., 23.2.1990, n. 1349, in Soc., 1990, 891, con nota di BUGANI, ove si è ribadito che «il socio amministratore – e tale è nella società semplice, salva diversa pattuizione, ciascuno dei soci – ha, rispetto agli altri soci (artt. 1706, 2257 e 2260 c.c.) la veste di mandatario ex lege». IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 105 STUDI E OPINIONI AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE trova sempre la sua fonte nel mandato, che nel caso di amministrazione disgiunta sarà reciproco ed invece esclusivo nel caso di conferimento ad uno solo del compito di amministrazione. Non fa eccezione la nomina dell’amministratore contenuta nel patto sociale, trovando anche in tal caso applicazione l’art. 2260 c.c., il quale attribuisce in ogni ipotesi piena autonomia al rapporto di amministrazione rispetto al rapporto sociale». In relazione alla tesi sostenuta sub b), l’identificazione tra rapporto di amministrazione e mandato non può dirsi perfetta poiché, come osservato da autorevole 69 dottrina , il legislatore ha previsto norme di carattere speciale che, ove presenti, impediscono il ricorso alle disposizioni generali sul mandato. Conseguentemente, è stato notato come siano applicabili – a ben vedere – unicamente gli artt. 1710 c.c. in tema di diligenza nell’adempimento del proprio incarico; 1711, 1° co, c.c., coordinando la norma con i limiti statuiti all’art. 2266 c.c.; 1714 c.c., concernente l’obbligo di corresponsione degli interessi sulle somme riscosse dal mandatario; 1722 c.c., in relazione ad alcune delle ipotesi di estinzione del mandato, da integrarsi con le previsioni speciali individuate per le società personali; 1727 c.c., riguardo alla rinuncia ex abrupto senza giusta causa oppure senza adeguato preavviso ed alla correlata, eventuale, responsabilità; 1730 c.c., sull’estinzione del rapporto per le società che adottano il regime congiuntivo. Tale interpretazione, inoltre, è stata cristallizzata in una pronuncia del Tribunale di Cassino 70, che ha precisato che, stante il rinvio effettuato dall’art. 2260 c.c., «nelle 69 Cfr. COTTINO , cit., 84 e ss. L’Autore afferma che «presumibilmente si è parlato di mandato perché era questo l’istituto che meglio si adattava ad inquadrare nelle linee portanti il rapporto di amministrazione: un rapporto che pure non si risolve nell’espletamento di atti giuridici nell’interesse del mandante». Conforme CAMP OBASSO, ibidem, il quale rileva che «non bisogna però cadere nel facile equivoco di ritenere che il rapporto di amministrazione sia un rapporto di mandato e che perciò agli amministratori di società per azioni sia senz’altro e direttamente applicabile tutta la disciplina del mandato. Gli è, infatti, che i poteri e i doveri degli amministratori sono, sotto più profili, diversi e più ampi di quelli di un mandatario generale o dell’institore, pur non potendo essere identificati con quelli dell’imprenditore». Analoga opinione in CAGNASSO , QUARANTA , cit., 41, ove gli Autori osservano che «il rapporto di amministrazione non sembra riconducibile ad alcun rapporto tipico, ed in particolare a quello di mandato. Ed invero lo stesso Legislatore si limita a richiamare alcune norme in tema di mandato. Ciò posto, ulteriori regole relative al mandato potrebbero trovare applicazione in via analogica. […] Qualora si ritenga che la disciplina del mandato – o alcuni segmenti della stessa – siano espressione di regole e principi di portata più ampia, applicabili in tutte le ipotesi di contratti aventi per oggetto la gestione per conto altrui, sarà possibile applicare tali regole e tali principi, anche in via diretta, in un ambito più vasto di quello segnato dai confini del contratto di mandato». 70 T rib. Cassino, 13.8.1997, in Soc., 1998, 411, con nota di FABRIZIO . IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 106 STUDI E OPINIONI AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE società di persone trovano applicazione le norme sul mandato compatibilmente con la disciplina dell’ente societario». I sostenitori71 della posizione dianzi indicata sub c) riconoscono una «qualifica giuridica omogenea» per gli amministratori, a prescindere dal fatto che essi operino in una società personale o di capitali, ancorché le rilevanti differenze che sussistono tra i tipi sociali impediscano il «costruirsi di una disciplina unitaria del rapporto di amministrazione», fortemente condizionato dalle norme sul mandato nelle società di persone. Per quanto attiene alla prospettiva sub d), questa prende le mosse dall’inscindibilità logico-giuridica, nelle società di persone, della qualità di socio e di amministratore, sigillata dalla responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali che – come osserva la dottrina fautrice di tale teoria – non può esser accollata ad un extraneus. Ed infatti, i soci che attribuiscano competenze gestorie a terzi non si spogliano della veste di amministratori in senso tecnico, dovendosi qualificare i soggetti delegati come 72 meri institori . Infine, l’opinione 73 elencata sub e), per la quale l’amministratore della società semplice si configurerebbe come un organo sociale, affonda le proprie radici nel riconoscimento della personalità giuridica anche per codesto tipo societario. A prescindere dalle varie teorizzazioni che si sono altalenate nel corso del tempo, in conclusione, il rapporto di amministrazione è – e deve essere – tenuto distinto rispetto al rapporto sociale, come del resto sostenuto dalla Corte di Cassazione74, che, con riferimento ad un’ipotesi di revoca, ha statuito che «una volta revocato giudizialmente dalla carica di amministratore ai sensi dell’art. 2259 c.c., per 71 Cfr. GHIDINI, cit., 417. Conforme, in tal senso, MINERVINI, Gli amministratori di società per azioni, Milano, 1956, 56 e ss.; REGOLI, cit., 54. 72 Cfr. GALGANO , Degli amministratori, cit., 30 e ss.; ID ., Il principio di maggioranza, cit., 63 e ss. L’Autore rovescia la prospettiva per la quale alcuni soci sono nominati amministratori, rilevando come, a ben vedere, siano gli altri soci che rinunciano al proprio potere di direzione dell’impresa. 73 Cfr. BOLAFFI, cit., 406, per il quale «la società semplice come ogni altra persona giuridica possiede propri organi amministrativi, allo stesso modo che essa acquista diritti ed obbligazioni e sta in giudizio per mezzo di propri organi». 74 Cass., 9.7.1994, n. 6524, in Giur. comm., 1995, II, 821, con nota di P AP ETTI. In dottrina, tra gli altri, CAMPOBASSO , ibidem; CAGNASSO, cit., 143, per il quale «tale conclusione trova fondamento nel diverso contenuto dei due rapporti, dovendosi distinguere i diritti, i poteri, gli obblighi facenti capo al socio dai diritti, dai poteri e dagli obblighi facenti capo all’amministratore. Tale conclusione trova altresì fondamento nella diversità delle vicende riguardanti i due rapporti, per cui può, ad esempio, cessare il rapporto di amministrazione, ma non quello sociale. Tale conclusione trova ancora fondamento nella circostanza che possono esservi soci non amministratori». IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 107 STUDI E OPINIONI AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE inadempienza agli obblighi a lui imposti, l’amministratore deve necessariamente essere privato della facoltà di amministrare ai sensi dell’art. 2259, 3° co., c.c., dovendosi considerare autonoma la condizione di amministratore da quella di socio». 7. I diritti e doveri posti in capo agli amministratori L’art. 2260 c.c. stabilisce testualmente al 1° co. che «i diritti e gli obblighi degli amministratori sono regolati dalle norme sul mandato» e, nondimeno, siffatta previsione deve essere opportunamente letta alla luce delle osservazioni dianzi svolte con riferimento alla natura del rapporto di amministrazione. 7.1. Tra i “diritti” dei gestori di una società semplice e, per estensione, di una società personale, vi è, in primo luogo, il diritto-potere di amministrare, ovverosia di «compiere tutti gli atti che rientrano nell’oggetto sociale; che si pongono cioè in 75 rapporto di mezzo a fine rispetto all’attività di impresa dedotta in contratto» . Specularmente, sono esclusi dalla disponibilità degli amministratori quegli atti che comportano una modifica del contratto sociale, trattandosi di decisioni ex lege vincolate al consenso unanime di tutta la compagine sociale, ancorché sia consentita diversa pattuizione al riguardo (art. 2252 c.c.). Nello stesso solco devono collocarsi alcune pronunce giurisprudenziali che hanno definito l’impossibilità, per gli amministratori, di compiere atti che – di fatto – determinano una sostanziale modifica strutturale dell’impresa, tra i quali una risalente sentenza del Tribunale di Caltanisetta76 ha annoverato l’affitto d’azienda. 75 Cfr. CAMP OBASSO , cit., 90. L’Autore rileva come per l’amministratore della società semplice non sussistano i limiti di cui all’art. 1708, 2° co., c.c., laddove si sancisce che «il mandato generale non comprende gli atti che eccedono l’ordinaria amministrazione, se non sono indicati espressamente»; nonché le restrizioni poste in capo all’institore ex art. 2204 c.c., ove si precisa che questi «non può alienare o ipotecare i beni immobili del preponente, se non è stato a ciò espressamente autorizzato». In giurisprudenza, Cass., 21.5.1983, n. 3524, in Giust. civ. mass., 1983, fasc. 5, ove, benché con riferimento ad una società di capitali, la Suprema Corte ha affermato che «poiché gli utili, prima della distribuzione, appartengono alla società e non ai soci, deve escludersi che un contratto che comporti disposizione degli utili medesimi, prima di detta distribuzione, integri di per sé un atto esorbitante dai poteri degli amministratori, occorrendo a tal fine accertare, secondo i principi generali in tema di attribuzioni degli amministratori, se si verta o meno in tema di negozi strumentali rispetto all’oggetto sociale e rientranti nei compiti conferiti dallo statuto agli amministratori stessi». 76 T rib. Caltanisetta, 12.7.1947, in Foro it., 1948, I, 351, in cui si è stabilito, ancorché con riferimento ad una società in nome collettivo, che qualora questa sia stata costituita per l’esercizio di un’azienda «il socio amministratore […] non può cedere in affitto l’azienda stessa». IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 108 STUDI E OPINIONI AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE Sul punto, la Suprema Corte77 ha precisato come «in tema di società, competa agli amministratori anche il potere di alienare beni sociali se questa attività rientra nell’oggetto sociale. In altre parole, se trattasi di società aventi per scopo la compravendita di beni immobili l’amministratore, anche senza il conferimento dello specifico incarico, ha il potere di acquistare e vendere beni della società (oggetto sociale che, per incidenza, appare incompatibile con la società semplice); se invece si tratta di alienare beni che costituiscono il patrimonio della società, cioè beni il cui commercio non rientra nell’oggetto sociale, non può sostenersi che un mandato generale a compiere, indifferentemente, tutti gli atti di ordinaria e straordinaria amministrazione legittimi l’amministratore anche a cedere beni sociali. Consegue che, a questo effetto, deve ritenersi necessaria, nel mandato generale, l’espressa indicazione degli atti, eccedenti l’ordinaria amministrazione, che il mandatario può compiere, "espressa indicazione" a sua volta da intendersi con riferimento al tipo di negozio che il mandatario può compiere, senza necessità di ulteriori specificazioni». In secondo luogo, stante il menzionato rinvio operato dall’art. 2260 c.c. alle 78 disposizioni sul mandato, si ritiene che gli amministratori possano rinunciare all’incarico, così come previsto dall’art. 1727 c.c., e, parimenti, debbano essere ristorati delle eventuali anticipazioni compiute o danni subiti a causa dello stesso, ai sensi dell’art. 1720 c.c. 7.2. Strettamente correlato a quest’ultimo profilo è il tema, alquanto dibattuto, della sussistenza di un diritto al compenso in capo all’amministratore, in assenza di un’esplicita previsione in tal senso nel contratto sociale ovvero in pattuizioni successive. 79 Sul punto, in passato la giurisprudenza si è espressa difformemente distinguendo la nomina dell’amministratore che tragga origine dal contratto sociale, ed allora questi non avrebbe alcun diritto ad una remunerazione per la propria attività 77 Cass., 14.12.1989, n. 5621, in Dir. e giur. agr. amb., 1990, 417. Conforme, Id. 13.2.1998, n. 1550, in Giur. comm., 1998, 779; in Riv. notariato, 1999, 494; nonché, in relazione ad una società in accomandita semplice, Id., 9.11.1994, n. 9296, in Riv. dir. comm., 1995, II, 129; in Soc., 1995, 368, con nota di BATTI. 78 Cfr. G. FERRI, Le società, in Tratt. Vassalli, vol. X, tomo III, 3 a ed., T orino, 1987, 240. 79 Cass., 7.6.1947, n. 873, in Giur. it., 1948, I, 1, 115; Id., 21.3.1955, n. 828, in Dir. fall., 1955, II, 422. Consta una pronuncia della Suprema Corte che disconosce il diritto al compenso in entrambe le ipotesi di nomina dell’amministratore, motivando che «le quote conferite determinano gli utili ed ogni socio ha il diritto e l’obbligo di prestare la sua attività in corrispondenza dello scopo sociale […] sotto forma di stipendio, provvigione sugli incassi o partecipazione maggiore agli utili, spesso la rimunerazione è prevista nell’atto costitutivo o è concessa con atto posteriore quando l’attività di altri soci in altro campo o sia maggiore o diversa da quella ordinaria». Si veda Id., 15.4.1947, n. 561, in Riv. dir. comm., 1948, II, 297. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 109 STUDI E OPINIONI AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE gestoria, da quella che scaturisca da accordi posteriori, ammettendo, in tal caso, la debenza di una retribuzione. La ratio di una siffatta posizione risiede 80 nel fatto che «nelle società in nome collettivo anche se irregolari, il socio amministratore che derivi il proprio potere di amministrare dal contratto sociale, non ha diritto a compenso per l’opera che presta la società, quando né il contratto né ulteriori accordi prevedano tale remunerazione», sebbene «qualora il potere di amministrazione derivi da un mandato, successivamente conferito dagli altri soci, tale mandato si presume oneroso, salva, sempre la prova della contraria volontà delle parti», laddove, viceversa, «quando il socio deriva il suo potere di amministrare direttamente dal contratto sociale, si è in presenza di un mandato che trova la sua origine direttamente nel patto sociale e nell’assetto attraverso di esso dato dai soci all’ente costituito, cosicché il socio che accetta di amministrare, già conosce che troverà il proprio compenso nella quota di utili che a lui potrà derivare in sede di ripartizione, per effetto del contratto sociale medesimo». Ed ancora, chiosa la Corte, «riconoscendogli il diritto a compenso si finirebbe, in definitiva, per compensarlo due volte». 81 Più recentemente, la Corte di Appello di M ilano ha ribadito che «nelle società di persone, in presenza di un potere gestorio originario e derivante direttamente dal contratto sociale, senza il conferimento di uno specifico mandato da questo separato, non è ravvisabile in capo al socio amministratore un diritto al compenso per l’attività di gestione prestata dal medesimo». Nondimeno, l’orientamento giurisprudenziale attualmente prevalente riconosce la sussistenza di un diritto al compenso sulla scorta del disposto di cui all’art. 1709 c.c., il quale sancisce una presunzione di onerosità per il contratto di mandato, così come 82 emerge da una pronuncia del Supremo Collegio , in cui si legge che, «poiché l’art. 2260 c.c. determina l’equiparazione degli amministratori ai mandatari, anche per quanto attiene alla presunzione di onerosità di cui all’art. 1709 c.c., senza possibilità di distinguere l’ipotesi della nomina contenuta nell’atto costitutivo dall’ipotesi di nomina fatta successivamente, l’amministratore di società in nome collettivo – sia essa regolarmente costituita oppure irregolare o di fatto – ha diritto al compenso in entrambe le ipotesi anzidette, salvo che vi sia una pattuizione di gratuità idonea a superare l’indicata presunzione di onerosità ovvero risulti che del diritto al compenso per la prestazione dell’attività amministrativa si sia tenuto conto con l’attribuzione di una speciale partecipazione agli utili». La questione è stata variamente risolta in dottrina. 80 81 82 Cass., 21.3.1955, n. 828, cit. App. Milano, 17.1.2003, in Giur. comm., 2004, II, 668, con nota di T INO. Cass., 28.5.1985, n. 3236, cit. Conforme Id., 13.11.1984, n. 5747, cit. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 110 STUDI E OPINIONI AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE Vi sono Autori83 che negano recisamente la sussistenza di un diritto al compenso, qualora questo non sia espressamente convenuto tra i soci, laddove altri interpreti84, accogliendo il più risalente orientamento giurisprudenziale, ritengono che esso si configuri unicamente qualora la nomina ad amministratore avvenga con atto separato. 85 Altra dottrina ancora , prescindendo dalla fonte dell’investitura e prendendo le mosse dalla presunzione di onerosità di cui all’art. 1709 c.c., individua alcune ipotesi nelle quali quest’ultima è «destinata a cadere», vale a dire «quando l’esercizio dell’amministrazione sia oggetto di conferimento da parte del socio d’opera, ovvero quando tutti i soci siano amministratori, o infine quando risulti che della specifica attività amministrativa di alcuni soci si è già tenuto conto nell’atto costitutivo, con il riconoscimento di una più elevata partecipazione agli utili». In relazione al diritto al compenso, infine, la Corte di Cassazione 86 ha stabilito, ancorché in una sentenza avente ad oggetto una società di capitali, che si «riconosce alla pretesa degli amministratori al compenso la natura di diritto soggettivo perfetto», da cui consegue la titolarità in capo all’amministratore di «una specifica azione giudiziaria al fine di ottenere l’adeguamento del compenso previsto dagli art. 2364 e 2389 c.c., ove ritenga insufficiente il compenso stesso avuto riguardo alla crescente entità ed importanza dell’opera prestata». 7.3. Per quanto concerne gli obblighi posti in capo agli amministratori di una società di persone, autorevole dottrina ha osservato, in primo luogo, come essi 87 debbano «compiere tutta l’attività necessaria per il conseguimento dell’oggetto sociale, nel rispetto della legge e del contratto e con la diligenza del mandatario», ovverosia del buon padre di famiglia stando al dettato dell’art. 1710 c.c., in ciò profilandosi «una significativa differenza rispetto a quanto disposto per gli amministratori di società per azioni dall’art. 2392, 1° co., c.c., che introduce canoni di valutazione ben più rigorosi e specifici». 83 Cfr. GALGANO , Diritto commerciale. Le società, Bologna, 2009, 65. Cfr. DI SABATO , cit., 124, per il quale, poiché, in ipotesi di nomina nel contratto sociale, «al socio amministratore non spetta alcun compenso: l’attività di amministrazione trova la sua giustificazione patrimoniale nelle pattuizioni stesse del contratto che definiscono anche l’entità dei conferimenti, la misura della partecipazione agli utili e alle perdite. Viceversa, nel caso di nomina con atto separato: l’ufficio si presume oneroso e il compenso deve essere determinato a norma dell’art. 1709 in base alle tariffe professionali o agli usi e, in mancanza, dal giudice». Conforme, GHIDINI, cit., 389. 85 Cfr. CAMPOBASSO , cit., 98. Del medesimo avviso CAGNASSO , cit., 145. 86 Cass., 24.2.1997, n. 1657, in Fallimento, 1997, 1008. 87 Cfr. DI SABATO , cit., 125. 84 IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 111 STUDI E OPINIONI AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE In secondo luogo, addentrandosi nella concretizzazione di tale principio generale, possono individuarsi alcuni obblighi specifici, tanto positivi quanto negativi, gravanti sui gestori di società personali. In prima battuta si può affermare come gli amministratori debbano consentire ai soci non investiti della gestione di dispiegare i poteri a loro riservati dall’art. 2261 c.c., ossia il diritto di essere informati sullo svolgimento degli affari sociali e di consultare i documenti concernenti l’amministrazione, nonché il diritto al rendiconto al compimento degli affari per cui è stata costituita la società, ovvero con cadenza annuale qualora la durata complessiva dell’attività sia pluriennale. In relazione all’onere per gli amministratori di comunicare ai soci il rendiconto, è stato osservato in giurisprudenza come a questa circostanza debba correlarsi la necessità – per i soci – di rivolgersi direttamente ai gestori per ottenerne l’adempimento 88 e non tanto alla società . Disattendere ad un siffatto obbligo costituisce per gli amministratori giusta causa di revoca, come rilevato dal Tribunale di M ilano 89 che ha deciso che «la predisposizione del bilancio di esercizio e la presentazione di esso ai soci, che ne hanno diritto per legge o per statuto, costituisce uno dei più significativi obblighi dell’amministratore, la cui inosservanza legittima la richiesta di revoca per giusta causa dall’ufficio amministrativo». Gli amministratori devono provvedere alla custodia dei beni di proprietà della società, nonché tutelare i diritti di quest’ultima 90. Nel rispetto delle disposizioni di cui all’art. 1706, 2° co, c.c., concernenti il mandato, essi sono tenuti a rimettere alla società i beni immobili acquisiti in nome proprio per conto della società, cosi come del resto ha ribadito la Cassazione affermando che «in tema di società semplice, qualora uno dei soci acquisti in nome proprio un immobile, solo se l’acquisto sia stato fatto per conto della società, egli è obbligato a ritrasferire l’immobile agli altri soci, ancorché un 91 mandato ad acquistare non risulti da atto scritto» . Inoltre, essi non devono ripartire somme tra i soci se non riferite a utili effettivamente conseguiti ovvero restituire conferimenti; del pari, non possono porre in essere nuove operazioni al palesarsi di una causa di scioglimento e devono consegnare ai liquidatori i beni sociali unitamente al conto della gestione 92. Controverso93 se gli amministratori debbano astenersi dall’effettuare operazioni in concorrenza con la società, laddove è pacifico che essi non debbano agire in conflitto 88 App. Torino, 26.1.1983, in Giur. piemontese, 1984, 696. T rib. Milano, 16.4.1986, in Soc., 1984, 1150. 90 G. FERRI, Delle società, in Comm. Scialoja-Branca, cit., 175. 91 Cass., 23.2.1990, n. 1349, cit. Conforme Id., 30.3.1985, n. 2235, in Foro it., 1986, I, 167. 92 Cfr. DI SABATO , ibidem. 93 T ale tesi è sostenuta da DI SABATO , ibidem. Contra CAGNASSO , ibidem, il quale osserva che «per gli amministratori di società semplice non vale il divieto di concorrenza previsto, dall’art. 2301 c.c., per gli amministratori di società in nome collettivo e per gli accomandatari». 89 IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 112 STUDI E OPINIONI AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE di interessi94, ancorché consti una pronuncia del Tribunale di Genova con cui si precisa come tale situazione non si configuri nel caso in cui tutti i soci partecipino alla realizzazione di un’operazione nella quale ciascheduno detiene un interesse personale 95. Viceversa, la Corte di Appello di Roma 96 ha stabilito che «il contratto di fidejussione omnibus stipulato dall’amministratore e rappresentante di una s.n.c. con una banca a garanzia delle obbligazioni di una s.r.l., nella quale egli rivesta la carica di amministratore ed abbia rilevanti interessi di natura personale, è stipulato in una situazione di conflitto di interessi con la società». 8. Responsabilità degli amministratori 8.1. L’art. 2260, 2° co., c.c., individua i principi generali che regolano il regime di responsabilità che grava sui gestori dell’impresa sociale, stabilendo che costoro «sono solidalmente responsabili verso la società per l’adempimento degli obblighi ad essi imposti dalla legge o dal contratto sociale», salvo dimostrare di essere esenti da colpa. Dalla mera lettura del disposto normativo, si constata agevolmente come il legislatore non abbia inteso differenziare la tipologia di responsabilità in relazione al regime amministrativo prescelto in concreto dalla società, tanto che si tratti di regime disgiuntivo o congiuntivo ovvero misto. Tale scelta, invero, si pone in deroga rispetto alle corrispondenti disposizioni che regolano la disciplina del mandato, ove – all’art. 1716, 3° co., c.c. – si precisa che la responsabilità solidale nei confronti del mandante si configura unicamente qualora più mandatari abbiano operato congiuntamente. Al contrario, nella società semplice gli amministratori rispondono in ogni caso, circostanza questa conseguente al fatto che ogni amministratore, prescindendo dal sistema gestionale adottato, «ha comunque un obbligo di vigilanza e di controllo 97 sull’operato altrui» . Se tanto vale in via generale, con particolare riferimento al modello di amministrazione congiuntiva, la Suprema Corte 98 ha espressamente negato valenza esimente all’eventuale ripartizione interna dei compiti gestionali tra gli amministratori, affermando che «sulla base del disposto dell’art. 2260 c.c., la responsabilità dei soci nei confronti della società per gli atti di gestione (da esercitarsi congiuntamente ad opera dei due soci) è paritaria e la ripartizione dei compiti nell’ambito della detta attività ha una esclusiva rilevanza tecnico logistica, e non solleva quindi i soci dal loro 94 Cfr. GHIDINI, cit., 409 e ss. T rib. Genova, 10.12.1986, in Soc., 1987, 597. 96 App. Roma, 22.2.1996, in Banca borsa, 1996, II, 530; in Giur. it., 1996, I, 2, 643. 97 Cfr. COTTINO , cit., 85. Conformi CAGNASSO, cit., 156; GALGANO, Diritto commerciale, cit., 74. 98 Cass., 5.5.2010, n. 10910, in Soc., 2010, 907. 95 IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 113 STUDI E OPINIONI AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE potere-dovere di esercitare congiuntamente la signoria decisionale e la relativa responsabilità ad ogni effetto, interno ed esterno». I presupposti necessari affinché possa instaurarsi un’azione di responsabilità nei confronti di un amministratore consistono a) nell’inadempimento degli obblighi sanciti ex lege o dal contratto sociale e b) nell’insorgenza di un danno per la società, 99 causalmente scaturente da tale comportamento inadempiente . In proposito, pare di interesse quanto rilevato dalla Corte di Cassazione 100 in una recente pronuncia relativa ad una società per azioni, laddove si è affermato che «sull’attore incombe la prova dell’illiceità dei comportamenti degli amministratori medesimi. Allorquando tali comportamenti non siano in sé vietati dalla legge o dallo statuto e l’obbligo di astenersi dal porli in essere discenda dal dovere di lealtà, coincidente col precetto di non agire in conflitto di interessi con la società amministrata, o dal dovere di diligenza, consistente nell’adottare tutte le misure necessarie alla cura degli interessi sociali a lui affidati, l’illecito è integrato dal compimento dell’atto in violazione di uno dei menzionati doveri. In tal caso l’onere della prova dell’attore non si esaurisce nella prova dell’atto compiuto dall’amministratore ma investe anche quegli elementi di contesto dai quali è possibile dedurre che lo stesso implica violazione del dovere di lealtà o di diligenza». 8.2. Tuttavia, il disposto normativo prevede l’esenzione da responsabilità allorquando l’amministratore provi di esser senza colpa, dimostrazione questa che in dottrina è stata differentemente connotata in ragione del regime di amministrazione adottato dalla società. 101 In relazione alla gestione dis giuntiva, invero, è stato osservato che la prova liberatoria può esser fornita dalla mancata conoscenza dell’operazione effettuata da un altro amministratore – fermo restando l’aver ottemperato al cennato dovere di vigilanza – oppure dall’aver proposto opposizione ex art. 2257 c.c., rigettata dalla maggioranza della compagine sociale. Con riferimento all’amministrazione congiuntiva, sono state individuate 102 quali possibili cause di esonero l’aver compiuto uno degli amministratori un atto urgente senza darne informazione agli altri, i quali, pertanto, andrebbero esenti da 99 Cfr. GALGANO , ibidem. Cass., 17.1.2007, n. 1045, in Mass. Giur. it., 2007. 101 Cfr. G. FERRI, Le società, in Tratt. Vassalli, cit., 243; CAGNASSO , ibidem. T ra le possibili situazioni idonee ad esonerare gli amministratori da responsabilità, parte della dottrina annovera l’ipotesi in cui l’operazione rivelatasi dannosa rientri nell’esclusiva competenza di un altro amministratore. In tal senso BUONOCORE , La società in nome collettivo. Artt. 2291-2312, in Comm. Schlesinger, Milano, 1995, 128. 102 Cfr. BUONOCORE , cit., 127. 100 IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 114 STUDI E OPINIONI AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE responsabilità, o, in alternativa, la prova di aver manifestato il proprio dissenso al compimento dell’atto gestorio dannoso. Far constare il proprio dissenso – esprimendo voto contrario alla realizzazione dell’operazione – si ritiene costituisca prova liberatoria anche qualora il regime di amministrazione prescelto sia a maggioranza, non essendo per converso sufficiente la 103 semplice astensione . 8.3. L’azione di responsabilità è volta a reintegrare il patrimonio della società depauperato dalla condotta illecita104. Con riferimento al termine di prescrizione di siffatta azione, la Suprema Corte105 ha recentemente rilevato che «non può applicarsi alle società semplici la prescrizione breve in materia di società stabilita dall’art. 2949 c.c. che è applicabile esclusivamente alle società commerciali e, cioè, alle società per le quali è prevista l'iscrizione nella sezione ordinaria del Registro delle imprese, restando escluso che l’introduzione di sezioni speciali del Registro stesso per gli imprenditori agricoli, i piccoli imprenditori e le società semplici abbia reso applicabile anche a queste ultime l’art. 2949 c.c. citato». Profilo dibattuto, invero, concerne la legittimazione ad esercitare la suddetta azione risarcitoria, dovendosi distinguere diverse posizioni a seconda che si consideri legittimata a) unicamente la società tramite il proprio legale rappresentante, b) la società e, nell’interesse sociale, i singoli soci, c) la maggioranza dei soci-non amministratori. La prima soluzione è stata, tra l’altro, affermata dalla Suprema Corte106, che ha precisato come nelle società personali «i singoli soci […] che abbiano dovuto pagare una somma per la responsabilità della società dovuta a fatto imputabile ad un altro socio amministratore, non possono rivalersi su questo poiché privi di legittimazione a far valere nei confronti dell’amministratore l’azione di responsabilità, spettando questa unicamente alla società: in una società di persone infatti l’amministratore risponde solo verso la società e non già verso i singoli soci che siano stati danneggiati da atti dolosi dell’amministratore stesso». Conseguentemente, tale azione può esser promossa 103 Cfr. GHIDINI, cit., 427 e ss. In tal senso CAMP OBASSO , cit., 97. 105 Cass., 16.2.2012, n. 2286, in Soc., 2012, 458. Conforme Id., 31.8.2005, n. 17587, in banca dati Pluris. 106 Cass., 9.6.1981, n. 3719, in Giur. comm., 1982, II, 15. Conformi Trib. Napoli, 19.11.1984, in Dir. e giur., 1996, 430, con nota di P APA ; Id. Milano, 16.4.1992, in Giur. it., 1993, I, 2, 98; Id., 2.2.2006, in Soc., 2006, 1002, con nota di SALAFIA ; Id. Novara, 21.4.2010, in NovaraIUS.it, 2010. 104 IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 115 STUDI E OPINIONI AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE soltanto dalla società e, più precisamente, da colui il quale ne rivesta il ruolo di rappresentante legale, qualifica che spetta ai soli amministratori107. Accedere ad una tale interpretazione, nondimeno, crea una situazione di indiscutibile empasse allorquando tutti i soci-amministratori siano responsabili dell’atto gestorio dannoso, venendosi a configurare un “vuoto” di soggetti legittimati ad agire per via giudiziaria in nome della società. Ed è un siffatto scenario ad orientare verso la legittimazione di ogni socio a promuovere l’azione sociale di responsabilità. In questa direzione constano alcune 108 recenti decisioni di merito , ove si è statuito che «dal momento che i diritti e gli obblighi degli amministratori nelle società di persone sono regolati dalle norme sul mandato, in virtù del richiamo operato dall’art. 2260, 1° co., c.c., sussiste la legittimazione di ciascun socio a proporre, in nome e per conto della società, l’azione di responsabilità nei confronti dell’ex amministratore, a nulla rilevando la mancanza di una apposita delibera assembleare in merito all’azione sociale». In dottrina109, si è osservato come tale soluzione possa beneficiare – a seguito della riforma del diritto societario del 2003 – della «espressa previsione della legittimazione del singolo socio di s.r.l.» all’esercizio dell’azione sociale di responsabilità. Infine, pare dotata di minor consenso la tesi sostenuta in una risalente sentenza del Tribunale di M ilano 110, laddove la legittimazione ad agire si ritiene rimessa alla decisione a maggioranza dei soci-non amministratori. La suddetta pronuncia pare 107 Cfr. COTTINO , W EIGMANN , cit., 150; BUONOCORE, cit., 129; CAMPOBASSO , cit., 97, il quale precisa che l’azione sociale di responsabilità può esser esercitata «dagli altri soci amministratori disgiuntamente o congiuntamente, non invece dai soci non amministratori». 108 T rib. Milano, 9.6.2005, in Corr. merito, 2005, 883; Id., 11.9.2003, in Impresa, 2004, 1045, con nota di BOLOGNESI; Id. Alba, 10.2.1995, in Soc., 1995, 828, con nota di T ERENGHI. Di interesse quanto stabilito da Id. Napoli, 17.4.1998, ivi., 1998, 1324, con nota di DI CHIO, dove si legge che «ciascun socio di società di persone, anche quando non rivesta la qualifica di legale rappresentante, non già uti singulus, ma uti socius, è legittimato ad agire in nome proprio e nell’interesse sostanziale della società al fine di ottenere la reintegrazione del patrimonio sociale leso dagli atti di mala gestio del socio amministratore». Medesima posizione sostenuta recentemente da Id., 3.3.2008, ivi, 2009, 889, con nota di MALAVASI. In dottrina, GALGANO , ibidem; GHIDINI, cit., 430; DI CHIO , L’azione sociale di responsabilità nelle società personali: legittimazione del singolo socio ad esperirla?, in Giur. comm., 1981, II, 89; SALAFIA , L’azione di responsabilità contro gli amministratori di società personali, in Soc., 1992, 1483 e ss. 109 Cfr. COTTINO , cit., 85 e s. L’Autore osserva come tale estensione della disciplina prevista per la società a responsabilità limitata alle società personali possa attuarsi «considerando sia l’accresciuto parallelismo e interazione strutturale tra i due tipi sociali, sia il rischio in queste personalmente assunto dal socio». 110 T rib. Milano, 21.4.1977, in Giur. comm., 1978, II, 770. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 116 STUDI E OPINIONI AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE superata alla luce di quanto recentemente stabilito dal Tribunale di Novara 111, per il quale «ai singoli soci non amministratori di società personali sono riservati altri mezzi [rispetto all’esercizio dell’azione di responsabilità sociale, n.d.a.], di non meno penetrante tutela, potendo essi ottenere la revoca della facoltà di amministratore ex art. 2259 c.c., anche in via d’urgenza, o conseguire l’esclusione dalla società del socio amministratore che si sia macchiato di gravi inadempienze». In ultimo, per quanto concerne l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori, in giurisprudenza si è precisato che essa può esser fatta valere anche verso l’amministratore di fatto, come stabilito, tra l’altro, in una pronuncia della Corte 112 di Appello di Torino , laddove si è affermato che «nella società di persone il socio, cui sia attribuita, anche soltanto di fatto, la funzione di amministratore, è tenuto a sopportare personalmente le conseguenze economicamente pregiudizievoli dipendenti dalla violazione di norme di legge sulle assicurazioni sociali per i dipendenti». 8.4. Se tanto vale con riferimento all’azione sociale nei confronti dell’amministratore, volta all’accertamento di una responsabilità avente natura contrattuale, stante il silenzio del legislatore civilistico sul punto, tanto la giurisprudenza quanto la dottrina si sono interrogate circa la configurabilità – anche nell’alveo delle società personali – di una responsabilità in capo agli amministratori nei confronti dei singoli soci per i danni direttamente causati al loro patrimonio individuale. Al riguardo, la giurisprudenza si è pronunciata in senso affermativo, ed in particolare la Corte di Cassazione 113 ha ultimamente sostenuto che «l’art. 2260 c.c., nel concedere alla società di persone la facoltà di agire contro gli amministratori, per rivalersi del danno subito a causa del loro inadempimento ai doveri fissati dalla legge o dall’atto costitutivo, non esclude, in difetto di previsione derogativa, il diritto di ciascun 111 T rib. Novara, 21.4.2010, cit. App. Torino, 7.2.1984, in Soc., 1984, 997. Conforme Trib. Catania, 19.10.1987, ivi, 1988, 171, ove si è deciso che «nelle società in nome collettivo l’ingerenza di un terzo nell’amministrazione della società comporta la responsabilità di quest’ultimo, nei confronti della società medesima, per l’adempimento degli obblighi posti a carico degli amministratori». In dottrina, BUONOCORE , cit., 128. 113 Cass., 25.7.2007, n. 16416, in Soc., 2008, 45. Conformi Id., 17.1.2007, cit.; Id., 7.7.2004, n. 12415, in Guida dir., 2004, 35, 54; Id., 13.12.1995, n. 12772, in Mass. Giur. it., 1995; Id., 10.3.1992, n. 2872, ivi., 1992, ove, tra l’altro, si è stabilito che, in caso di liquidazione della società, l’azione sociale di responsabilità spetti al liquidatore. Nella giurisprudenza di merito, Trib. Campobasso, 18.4.2009, in Soc., 2009, 881, con nota di LA PORTA ; Id. Milano, 11.9.2003, cit.; Id. Napoli, 17.4.1998, cit., in cui si è, inoltre, precisato che «può essere devoluta al giudizio arbitrale la controversia tra il socio amministratore ed i soci per i danni direttamente ed immediatamente cagionati a questi ultimi dall’amministratore»; Id. Alba, 10.2.1995, cit.; Id. Milano, 16.4.1992, cit. In senso difforme Id., 2.2.2006, cit. 112 IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 117 STUDI E OPINIONI AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE socio di pretendere il ristoro del pregiudizio direttamente ricevuto in dipendenza del comportamento doloso o colposo degli amministratori medesimi, in applicazione analogica dell’art. 2395 c.c. e in base alle disposizioni generali dell’art. 2043 c.c. Tuttavia, l’azione individualmente concessa ai soci per il risarcimento dei danni loro cagionati dagli atti dolosi o colposi degli amministratori, di natura extracontrattuale, presuppone che i danni suddetti non siano solo il riflesso di quelli arrecati eventualmente al patrimonio sociale, ma siano direttamente cagionati al socio come conseguenza immediata del comportamento degli amministratori». In dottrina, del pari, si ritiene ammissibile siffatta azione risarcitoria, in quanto essa «trova fondamento nei principi generali in tema di responsabilità per fatto 114 illecito» . 9. L’estinzione del rapporto di amministrazione Il legislatore codicistico ha espressamente previsto un’unica causa di estinzione del rapporto di amministrazione tra le disposizioni dettate per la società semplice, ovverosia la revoca, disciplinata all’art. 2259 c.c. Tuttavia, si ritengono del pari configurabili a) le ulteriori ipotesi di cessazione individuate normativamente per il mandato all’art. 1722 c.c., in quanto compatibili, vale a dire per scadenza del termine, per rinuncia, per morte, interdizione o inabilitazione dell’amministratore115, nonché b) le diverse fattispecie attinenti più strettamente al rapporto sociale, ossia il verificarsi di una causa di scioglimento della società, a motivo della quale gli amministratori permangono in carica fintantoché non sia stato nominato un liquidatore, così come 116 affermato, tra l’altro, da una pronuncia del Tribunale di M ilano . In essa si è deciso che «in presenza di una causa di scioglimento o di messa in liquidazione di una società (nel caso di specie fallimento) gli amministratori rimangono in carica fino a quando non si sia operata la loro sostituzione con uno o più liquidatori». 10. Un’ipotesi particolare di estinzione: la revoca 10.1. L’art. 2259 c.c. distingue nettamente due differenti situazioni in ragione della diversa fonte del rapporto di amministrazione: nomina nel contratto sociale oppure nomina con atto separato. 114 Cfr. CAGNASSO , cit., 157. Concordi COTTINO , cit., 86; CAMP OBASSO , cit., 98. Cfr. GHIDINI, cit., 405 e ss; COSTI, DI CHIO , cit., 389. In giurisprudenza, giova rilevare quanto sancito da Cass., 14.2.2000, n. 1602, in Giur. it., 2000, 1659, per la quale «la dichiarazione di dimissioni di un amministratore di una società di persone nominato nell’atto costitutivo, produce comunque i suoi effetti dal momento in cui perviene a conoscenza del destinatario, quale atto unilaterale recettizio; e, se priva di giusta causa, comporta l’obbligo del risarcimento del danno». 116 T rib. Milano, 2.3.1981, in Foro padano, I, 162. 115 IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 118 STUDI E OPINIONI AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE Nel primo caso, l’art. 2259, 1° co., c.c., prevede letteralmente che «la revoca dell’amministratore nominato con il contratto sociale non ha effetto se non ricorre una giusta causa». La ratio sottostante siffatta disposizione, per il vero, è stata variamente 117 individuata , ed in particolare si è argomentato come essa scaturisca dal fatto che le modifiche del contratto sociale debbono esser approvate dall’intera compagine sociale, stante il disposto dell’art. 2252 c.c. Tale posizione è stata parzialmente sfumata da altra dottrina, sostenendo come alla decisione in parola non possano partecipare l’amministratore revocando ed i soci eventualmente in conflitto di interessi. Diversamente, vi è chi ha sostenuto118 come essa derivi dalle previsioni di cui all’art. 1723 c.c., in tema di irrevocabilità, da parte del mandante, del mandato in rem propriam. In giurisprudenza si ritiene che tale decisione debba esser approvata all’unanimità, così come da ultimo affermato dalla Suprema Corte 119, per la quale «ai sensi del combinato disposto degli artt. 2252 e 2259 c.c., la revoca dell’amministratore di società di persone, la cui nomina sia contenuta nell’atto costitutivo, postula l’esistenza congiunta dei presupposti dell’unanimità dei consensi e della giusta causa, mentre questi possono sussistere in via alternativa, ove la nomina sia avvenuta con atto separato. Peraltro, allorché l’amministratore sia socio, non è richiesto il consenso del medesimo al fine della sua revoca, avendo portata generale il principio del divieto di voto in conflitto di interessi con la società, ai sensi dell’art. 2373 c.c., del quale costituisce applicazione anche l’art. 2287 c.c, che impone di non considerare il socio da escludere nel computo della maggioranza necessaria per l’esclusione». Tale conclusione è condivisa dalla dottrina prevalente, ancorché alcuni interpreti ritengano sufficiente il consenso della maggioranza dei soci, come postulato 120 dell’ammissibilità del principio di collegialità anche per le società personali . 117 Cfr. per la prima tesi BOLAFFI, cit., 346; per la seconda opinione vds. GHIDINI, cit., 393; COTTINO , cit., 93, ove l’Autore osserva che «non si richiede invece, ovviamente, il consenso dell’amministratore da revocare; e neppure, direi, quello dei soci che si trovassero sull’oggetto della delibera in posizione di conflitto di interessi. Il caso è ipotizzabile. Due amministratori possono essere revocati per le stesse ragioni. È sufficiente che l’uno esprima voto contrario sulla proposta concernente l’altro, e viceversa, per paralizzare entrambe le possibilità di revoca». 118 Cfr. FERRARA JR, CORSI, ibidem; GRECO, Le società nel sistema legislativo italiano. Lineamenti generali, T orino, 1959, 328. 119 Cass., 12.6.2009, n. 13761, in Foro it., 2010, 3, 1, 959. Nella giurisprudenza di merito, Trib. Milano, 7.1.2010, in Giur. it., 2010, 2366; Id. Catania, 19.4.1984, in Soc., 1985, 413. 120 Per la tesi prevalente cfr. CAGNASSO, cit., 153; GALGANO , Diritto commerciale, cit., 69; CAMPOBASSO , cit., 95; FERRARA JR, CORSI, ibidem. La tesi minoritaria è sostenuta, tra l’altro, da BOLAFFI, cit., 348. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 119 STUDI E OPINIONI AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE In riferimento all’efficacia della revoca, consta una risalente pronuncia della Suprema Corte 121, con cui si è affermato che la cessazione dalla carica di amministratore ha effetto ex nunc. L’amministratore revocato, dal canto suo, può richiedere al tribunale – anche mediante provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c. – di accertare l’insussistenza della 122 giusta causa e dichiarare, conseguentemente, il reintegro nell’attività gestoria . 10.2. Tanto la giurisprudenza quanto la dottrina si sono interrogate sul contenuto concreto che può assumere l’indicazione normativa astratta di “giusta causa”, definibile 123 come un «qualsiasi evento che renda impossibile il naturale svolgimento del rapporto di gestione e che sia tale da integrare violazione degli obblighi propri dell’amministratore». In dettaglio, può sostanziarsi124 tanto in «una singola violazione di notevole portata (ad esempio, un unico, ma consistente ammanco nelle casse sociali)», quanto in «una stessa violazione, di minore impatto, ma protratta nel tempo e ripetuta (come l’autoerogazione di compensi periodici da parte dell’amministratore non previsti dall’atto costitutivo né dalle pattuizioni successive tra i soci», ovvero in «violazioni afferenti una considerevole varietà di norme che, complessivamente ponderate, si traducono nel venir meno della fiducia del socio nei confronti dell’operato dell’amministratore (in via esemplificativa, svolgimento di attività concorrenziali, con diffusione di notizie false e di inveritiere situazioni contabili sull’andamento della società per sviarne la clientela)». 121 Cass., 30.3.1951, n. 703, in Giur. it., 1951, I, 1, 387. In dottrina, CONFORTI, cit., 486 e ss; CAMP OBASSO, ibidem. Nella giurisprudenza di merito, Trib. Piacenza, 28.2.1995, in Gius, 1995, 803. Consta, per il vero, una pronuncia della Corte di Appello torinese di segno contrario, in cui si è affermato che «nelle società di persone l’accertamento giudiziale dell’insussistenza della giusta causa di revoca dell’amministratore nominato con il contratto sociale non comporta l’annullamento della delibera di revoca e la reintegrazione dell’amministratore nella carica». Vds. App. Torino, 19.7.1983, in Giur. comm., 1984, II, 434. Ad ogni buon conto, T rib. Ascoli Piceno, 5.5.1988, in Soc., 1988, 725, ha precisato che «nel corso del giudizio promosso dall’amministratore di una società di persone per conseguire la dichiarazione di nullità dell’atto di revoca del mandato ad amministrare, l’istanza di sospensione dell’efficacia dell’atto di revoca risulta improponibile». 123 T rib. Bari, (ord.), 26.6.2008, in Soc., 2009, 989, con nota di SEPE . Conformi Id. Napoli, 22.10.2002, in Giur. di Merito, 2003, 465; Id. Milano, 3.2.1983, in Soc., 1983, 1146. In dottrina, tra gli altri, GALGANO , ibidem. 124 Cfr. CONFORTI, cit., 431 e s. Pare di interesse, inoltre, la nozione delineata in COSTI, DI CHIO , cit., 390, ove si legge che «concretano ipotesi di giusta causa in particolare due serie di eventi: quelli che integrano la violazione degli obblighi che si impongono all’amministratore in quanto tale e quelli che determinano la materiale impossibilità per l’amministratore di adempiere ai compiti che l’amministrazione comporta». 122 IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 120 STUDI E OPINIONI AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE L’onere della prova della sussistenza di una giusta causa grava sulla società 125, laddove l’accertamento è rimesso al vaglio del giudice, così come affermato in una pronuncia126 del Tribunale di Verona, con cui si è deciso che «la valutazione, da farsi caso per caso, della giusta causa per la revoca degli amministratori di società semplice è rimessa all’apprezzamento del giudice». In proposito, vale la pena riportare alcune situazioni che, di volta in volta, sono state ritenute passibili di configurare una giusta causa di revoca, tra cui «l’utilizzo che il 127 socio amministratore faccia di fondi sociali per fini personali» , nonché l’appropriazione illecita di utili 128; la redazione del rendiconto annuale ex art. 2261 c.c., da parte dell’amministratore a ciò preposto, «senza il rispetto dei criteri di verità, precisione e chiarezza propri di ogni bilancio» 129; l’intraprendere una attività concorrente con quella della società e la cessione dell’azienda all’insaputa degli altri soci130; nonché «il compimento da parte di uno degli amministratori di attività di amministrazione della società in forma disgiuntiva […] in quanto costituisce una grave violazione degli obblighi derivanti dallo statuto della società, che prevede l’amministrazione in forma congiuntiva, e dei doveri di correttezza e diligenza che incombono sull’amministratore ai sensi dell’art. 2260, 1° co., c.c., ed è tale da incidere negativamente sul carattere fiduciario del rapporto che intercorre fra lo stesso amministratore e i soci, a prescindere dal risultato economico che, ex post, potrà risultare a seguito dell’operazione gestoria» 131. 125 T rib. Milano, 15.11.1984, in Soc., 1985, 403, laddove si è deciso che «la prova della giusta causa, posta a base della revoca di un socio preposto all’amministrazione di una società personale, deve essere data dalla società». In dottrina, GHIDINI, cit., 396. Opinione contraria è stata sostenuta da COTTINO , cit., 96, per il quale nella fattispecie di cui all’art. 2259, 1° co., c.c., spetta all’amministratore «opporsi ed eccepire la mancanza della giusta causa, secondo quella che è del resto la costante disciplina di ipotesi siffatte (dal mandato al condominio all’esclusione del socio). Altrimenti, oltretutto, non si vedrebbe quale differenza sostanziale residui tra le fattispecie del primo e del 3° co. dell’art. 2259». 126 T rib. Verona, 19.11.1971, in Giur. it., 1972, I, 2, 774. In dottrina, G. FERRI, Le società, in Tratt. Vassalli, cit., 227 e ss. 127 Trib. Perugia, 2.8.1994, in Rass. giur. umbra, 1995, 81; Id. Milano, 22.3.1990, in Soc., 1990, 915. 128 Cass., 30.1.1980, n. 710, in Giur. it., 1980, 1 , 1476. La medesima sentenza, invero, ha ritenuto che tale atto sia «in contrasto non soltanto con i doveri inerenti al mandato conferitogli, ma anche con gli obblighi a lui derivanti dalla qualità di socio, e ciò può comportare per detto socio-amministratore, oltre che la revoca del mandato, anche l’esclusione dalla società, ai sensi dell’art. 2286 c.c.». 129 Cass., 9.7.1994, n. 6524, cit. 130 T rib. Torino, (ord.), 10.5.2004, in Giur. it., 2004, 1684, con nota di SP IOTTA . 131 T rib. Ancona, 11.11.1999, in Soc., 2000, 736, con nota di CUP IDO . Del medesimo tenore quanto affermato da Id. Milano, 14.2.2004, in Giur. it., 2004, 1210, con nota di CAGNASSO, IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 121 STUDI E OPINIONI AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE Analoga conclusione è stata sostenuta dalla Corte di Cassazione132, la quale ha precisato che «la giusta causa di revoca dell’amministratore può derivare anche da fatti che, pur non integrando inadempimento dei suoi obblighi di gestione, minino il pactum fiduciae tra essi e la società». 10.3. Per quanto concerne l’ipotesi di revoca dell’amministratore nominato con atto separato, l’art. 2259, 2° co., c.c., dispone testualmente che «l’amministratore nominato con atto separato è revocabile secondo le norme sul mandato», prescindendo, 133 pertanto, dalla sussistenza o meno di una giusta causa . 134 Tuttavia, si ritiene che la società, qualora la revoca i) sia decisa in assenza di congruo preavviso, in caso di rapporto a tempo indeterminato, ovvero ii) sia disposta anteriormente rispetto alla scadenza del termine, in presenza di rapporto a tempo determinato, debba provvedere al risarcimento dei danni causati dall’interruzione ex abrupto del rapporto di amministrazione, salvo consti una giusta causa. La dottrina135 non è concorde nel ritenere che, in assenza di giusta causa, la decisione di revoca debba essere assunta all’unanimità da tutti gli altri soci, soluzione questa desunta dall’art. 1726 c.c. in tema di revoca del mandato collettivo. Propende per siffatta soluzione una pronuncia136 del Tribunale di Napoli, in cui si è affermato che «se il mandato è stato conferito da più persone con unico atto e per un affare d’interesse comune, la revoca non ha effetto qualora non sia stata fatta da tutti i mandanti, salvo che ricorra una giusta causa». 10.4. Infine, l’art. 2259, 3° co., c.c., stabilisce expressis verbis che «la revoca per giusta causa può in ogni caso essere chiesta giudizialmente da ciascun socio», di talché introducendo la fattispecie della revoca giudiziale, azionabile da qualsiasi socio laddove si sostiene che «la giusta causa di revoca dell’amministratore di società di persone sussiste nel caso di situazioni sopravvenute (provocate o meno dall’amministratore stesso) che minino il pactum fiduciae, elidendo l’affidamento inizialmente riposto sull’idoneità dell’organo di gestione». 132 Cass., 21.11.1998, n. 11801, in Giur. it., 1992, 562. 133 Cfr. CAMPOBASSO , ibidem. Concordi CAGNASSO , QUARANTA, cit., 46, che sul punto precisano che «le norme in tema di mandato che vengono – o possono venire – in considerazione al proposito sono quelle contenute negli artt. 1725 e 1726 c.c.». 134 Cfr. FERRARA JR, CORSI, cit., 279, nt. 3. Sul tema, pare di interesse quanto stabilito da Cass., 21.11.1998, n. 11801, cit., ove si è deciso che «non può trovare ingresso nel giudizio di risarcimento del danno per revoca senza giusta causa di un amministratore il pregiudizio arrecato alla sua reputazione sociale e professionale da iniziative giornalistiche collaterali». 135 In senso affermativo, GALGANO , Diritto commerciale, cit., 67. Dubbiosi CAMP OBASSO, ibidem; CAGNASSO, cit., 154. 136 T rib. Napoli, 7.10.1986, cit. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 122 STUDI E OPINIONI AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE avverso l’amministratore, quale che sia la fonte della sua nomina, come ha sostenuto la Corte di Cassazione 137, precisando che «il diritto di chiedere la revoca giudiziale per giusta causa dell’amministratore di società di persone sussiste anche quando l’amministratore non sia stato nominato né con il contratto sociale, né con atto separato, ma derivi i suoi poteri direttamente dalla legge». 138 La ratio di siffatta ipotesi residuale è stata individuata nella possibilità che essa offre nel «risolvere situazioni in cui gli equilibri interni alla società impediscono in pratica deliberazioni di revoca. Si pensi a una società di tre soci di cui uno solo sia rimasto estraneo all’amministrazione ed abbia buone ragioni per revocare i due soci amministratori ma non possa farlo perché il suo voto singolo sarebbe insufficiente». L’azione giudiziale in parola «deve essere chiesta in sede contenziosa e non nelle forme della volontaria giurisdizione con il rito camerale» 139; inoltre, essa «rappresentando un’ipotesi residuale, è proponibile solo a condizione che sia quantomeno dedotta l’inerzia della società o il disaccordo dei soci a provvedere in merito; oppure nel caso in cui la società è formata da due soci soltanto» 140. La revoca è decisa con sentenza costitutiva141 e, in pendenza di giudizio, l’amministratore revocando «conserva i poteri attribuitigli dalla legge e dall’atto costitutivo fino alla sua effettiva rimozione», ragion per cui, onde evitare che il suo permanere in carica possa arrecare nocumento alla società, si ritiene ammissibile proporre istanza in via d’urgenza ai sensi dell’art. 700 c.p.c.142. Potrebbe, del pari, 137 Cass., 10.3.1975, n. 879, in Giur. comm., 1975, II, 584. Concorde la dottrina, tra cui, in particolare, COTTINO, cit., 94; CAGNASSO , cit., 154 e s. L’Autore rileva come l’ipotesi di cui all’art. 2259, 3° co., c.c., sia l’unica configurabile allorquando valga la regola suppletiva di cui all’art. 2257 c.c., in forza della quale – nel silenzio delle previsioni pattizie – tutti i soci sono amministratori, e ciò in quanto le indicazioni letterali di cui al primo e secondo comma dell’art. 2259 c.c. prevedono rispettivamente che l’amministratore revocando sia nominato nel contratto sociale o con atto separato. Viceversa, App. Catania, 24.5.1967, in Dir. fall., 1968, II, 72, nega che la revoca giudiziale possa essere richiesta nei confronti dell’amministratore nominato ex lege. Si ritiene di interesse osservare, en passant, come in suddetta pronuncia i giudici catanesi abbiano altresì stabilito che la revoca dell’amministratore nelle società personali non è subordinata all’esito del giudizio di responsabilità instaurato avverso l’amministratore, concernendo tale azione il risarcimento dei danni da questi causati con la propria condotta. 138 Cfr. COTTINO, cit., 95. 139 Trib. Lecce, 29.11.1989, in Soc., 1990, 516, con nota di PATELLI. Contra, VISENTINI, cit., 194. 140 T rib. Cassino, 28.10.2000, in Soc., 2001, 476, con nota di FABRIZIO ; Id. Catania, 19.4.1984, cit. In dottrina, vds. CAMPOBASSO , ibidem. 141 Cfr. G. FERRI, Delle società, in Comm. Scialoja-Branca, cit., 169. 142 Pret. Genova, 19.4.1989, in Foro it., 1990, I, 2373; Trib. Napoli, 17.6.1992, in Soc.,1992, 1386; Id. Prato, 26.4.1995, ivi, 1995, 1349, con nota di MACRÌ, laddove si è sancito che «la revoca per giusta causa di un amministratore di una società di persone è suscettiva di tutela IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 123 STUDI E OPINIONI AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE richiedersi l’intervento d’urgenza anche qualora, intervenuta la revoca, l’amministratore continui di fatto a gestire l’attività societaria 143. L’amministratore revocato, correlativamente, è legittimato ad impugnare la sentenza con cui viene decisa la sua revoca 144. 10.5. Per quanto attiene ai profili più strettamente procedurali, si rileva come l’unico contraddittore sia l’amministratore revocando, ragion per cui non si instaura un litisconsorzio necessario ex art. 102 c.p.c. tra i soci, così come deciso dalla Suprema Corte145, laddove ha affermato che «poiché le parti necessarie del processo si identificano in funzione della domanda e non in base all’esito della prova relativa ai fatti costitutivi, quando la domanda sia intesa ad ottenere la revoca dell’amministratore di società di persone ex art. 2259, 3° co., c.c. […], l’accertamento giudiziale dell’inesistenza della giusta causa determina solo il r igetto della domanda nel merito, ma non implica il venir meno dell’autonomia dell’azione che, essendo proponibile da ciascun socio, esclude l’esistenza di un litisconsorzio ex art. 102, c.p.c., con gli altri soci». cautelare in via d’urgenza ex art. 700 c.p.c., ricorrendone il limite interno (cioè la residualità della misura, essendo inapplicabile, in quanto dettato per le sole società di capitali, il procedimento cautelare di cui all’art. 2409 c.c.) e il limite esterno (cioè l’astratta non incompatibilità fra assicurazione in via d’urgenza ed azione costitutiva)». Difforme Pret. Acqui T erme, 31.7.1990, ivi, 1991, 54, con nota di MARCINKIEWICZ. 143 Pret. Piombino, 5.10.1979, in Giur. comm., 1980, II, 765. 144 Cass., 19.12.2008, n. 29776, in Soc., 2009, 286. 145 Cass., 8.11.1986, n. 5479, in Soc., 1987, 15, ove si legge inoltre che «nella controversia promossa dal socio di una società di persone nei confronti dell’amministratore, per farne valere l’obbligo di presentazione del rendiconto e di corresponsione della quota di utili, nonché per ottenerne la revoca dalla carica per giusta causa, non insorge necessità di integrazione del contraddittorio nei riguardi degli altri soci, vertendosi in tema di azioni spettanti al singolo socio nel rapporto con l’amministratore (art. 2259, 3° co. e 2262, richiamati dai successivi artt. 2293 e 2315 c.c.), mentre resta in proposito irrilevante che, in ordine alla suddetta domanda di revoca, sia oggetto di contestazione la sussistenza in concreto della giusta causa, trattandosi di circostanza influente solo al diverso fine del fondamento nel merito della relativa pretesa, non anche per l’individuazione dei legittimi contraddittori, da effettuarsi alla stregua dell’istanza formulata con la domanda medesima e delle ragioni indicate a suo fondamento». Medesima conclusione nella giurisprudenza di merito, tra cui Trib. Milano, 22.3.1990, cit.; Id. Monza, 14.12.2001, in Soc., 2002, 1019, con nota di CUP IDO , ove si è stabilito che «il procedimento di revoca dell’amministratore di una società di persone, ai sensi dell’art. 2259, 3° co., c.c., si svolge nei soli confronti del socio amministratore, senza alcuna necessità di evocare in giudizio né la società, né gli altri soci non direttamente coinvolti nell’azione». IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 124 STUDI E OPINIONI AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE Inoltre, consta una pronuncia146 della Corte d’Appello torinese per cui «l’accertamento giudiziale dell’insussistenza della giusta causa di revoca dell’amministratore nominato con il contratto sociale non comporta l’annullamento della delibera di revoca e la reintegrazione dell’amministratore nella carica», permanendo, pertanto, la possibilità di procedere alla destituzione dalla carica gestoria per consenso unanime di tutti i soci. In relazione alla revoca dell’amministratore di società semplice, in 147 giurisprudenza si è deciso che, allorquando sia revocato l’unico socio amministratore, «l’amministrazione non spetta a tutti i soci, ma alla nomina del nuovo amministratore deve provvedere unicamente l’assemblea». Con riferimento all’azione di revoca per giusta causa, in ultimo, una quaestio dibattuta in dottrina e variamente risolta in giurisprudenza consiste nella compromettibilità in arbitri o meno delle controversie eventualmente scaturenti da siffatta azione. La soluzione positiva è sostenuta, in giurisprudenza, osservando148 che «è compromettibile in arbitri l’azione di revoca per giusta causa di un amministratore di società di persone, trattandosi di controversia che ha ad oggetto diritti di natura disponibili». La tesi avversa è stata tra l’altro accolta dalla Suprema Corte149, che ha stabilito non possa esser deferita ad arbitri la controversia de quo, concernendo «interessi della società o la violazione di norme poste a tutela dell’interesse collettivo dei soci o dei terzi in quanto trattasi di accertamenti sottratti all’autonomia delle parti». 10.6. Ulteriore profilo strettamente correlato alla revoca attiene alla possibilità di nominare – in via d’urgenza – un amministratore giudiziario che sostituisca il precedente revocato, soluzione, questa, non unanimemente ammessa tanto in giurisprudenza quanto in dottrina. 146 App. Torino, 19.7.1983, cit. T rib. Napoli, 12.1.1987, in Soc., 1987, 635. 148 T rib. Monza, 14.12.2001, cit. Conformi Id. Bari, 7.2.2007, Giur. di Merito, 2007, 7, 39; Id. Catania, 28.3.1998, in Giur. comm., 2000, II, 507, con nota di MIRONE . 149 Cass., 18.12.1988, n. 1739, in Soc., 1988, 476; T rib. Biella, 8.1.2001, in Giur. it., 2001, 978, con nota di BERTOLOTTI; Id. Napoli, 14.3.1996, in Soc., 1996, 712, con nota di IANNIELLO ; Id. Vicenza, 7.10.1982, ivi, 1983, 1488, ove si è deciso che la domanda di revoca proposta da un altro socio non può esser devoluta ad un collegio arbitrale – ancorché vi sia una clausola in tal senso nel contratto sociale – in quanto non attiene ad una controversia tra soci. In dottrina, negano la compromettibilità COTTINO, cit., 94; COSTI, DI CHIO , ibidem. 147 IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 125 STUDI E OPINIONI AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE Ed infatti, a pronunce di merito in cui si è sostenuto150 – con riferimento ad una società in accomandita semplice – che «quando il tribunale su richiesta del socio accomandante provvede in via d’urgenza a revocare l’amministratore per giusta causa può nominare anche un amministratore giudiziario», si contrappongono sentenze151 in cui si è stabilito perentoriamente che «nelle società di persone non è ammissibile la nomina di un amministratore giudiziario». In dottrina152, quest’ultima posizione è stata – condivisibilmente – argomentata a partire dalla constatazione che nelle società personali, come visto, il ruolo di amministratore è inscindibile rispetto alla qualifica di socio. Del pari, si esclude 153 l’applicabilità alle società personali del disposto dell’art. 2409 c.c., individuando il fondamento di siffatta tesi «sia nel carattere eccezionale della norma, sia nel fatto che non sussistono i presupposti per l’applicazione analogica. Infatti, con riferimento a tali modelli societari, sussiste la responsabilità personale dei soci e i soci di minoranza (non amministratori) possono avvalersi di penetranti ed estesi poteri di controllo. D’altro lato, non è dato riscontrare, nell’ambito delle società di persone, neppure una lacuna che giustifichi l’applicazione analogica». 10.7. In chiusura, pare opportuno accennare ad una questione piuttosto dibattuta, ovverosia se la giusta causa che consente di revocare l’amministratore possa de plano esser considerata idonea ad integrare quel grave inadempimento che permette di escludere il socio ex art. 2286 c.c. La risposta prevalente a tale interrogativo è negativa, in quanto gli obblighi posti in capo all’amministratore sono autonomi e distinti rispetto a quelli che caratterizzano la posizione del socio, «essendo rappresentati, gli uni, dalla violazione dei doveri propri degli amministratori, gli altri, dal grave inadempimento dei doveri dei soci nascenti 154 dalla legge o dall’atto costitutivo» . Di talché, ben si comprende come possano verificarsi situazioni in cui una giusta causa di revoca non sia tale da costituire un grave 150 T rib. Roma, 24.7.1997, in Gius, 1998, 130. Conforme, di recente, Id. Padova, 13.7.2003, in Giur. comm., 2005, II, 662; App. Napoli, 31.3.1987, in Dir. fall., 1987, II, 705, laddove si è statuito che la sostituzione con un amministratore giudiziario è ammissibile applicando in via analogica il dettato dell’art. 1105, 4° co., c.c., in tema di comunione. In dottrina, vds. G. FERRI, Le società, in Tratt. Vassalli, cit., 227. 151 Trib. Milano, 14.2.2004, cit.; Id. Roma, 22.5.1997, in Gius, 1998, 130; Id. Lecce, 29.11.1989, cit., ove, all’opposto rispetto alla citata pronuncia della Corte di appello partenopea, si è sancita l’inapplicabilità del disposto dell’art. 1105, 4° co., c.c. 152 Cfr. CAGNASSO , cit., 155; CAMPOBASSO , cit., 95, nt. 79. 153 Cfr. CAGNASSO , cit., 156; CAMPOBASSO , ibidem. Nella giurisprudenza di merito, Trib. Milano, 14.2.2004, cit.; Trib. Catania, (ord.), 19.12.2003, in Soc., 2004, 882, con nota di FUMAGALLI. 154 Cfr. CAGNASSO , cit., 154 e s., nt. 31. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 126 STUDI E OPINIONI AMMINISTRAZIONE DELLA SOCIETÀ SEMPLICE inadempimento, come del resto affermato dal Tribunale di M ilano155, che ha stabilito che «l’esclusione del socio non costituisce una conseguenza automatica della revoca dello stesso dalla carica di amministratore ai sensi dell’art. 2259 c.c.». Nondimeno, constano altresì alcune pronunce 156 – più risalenti – che ammettono l’esclusione del socio amministratore per ragioni connesse ad atti di mala gestio della società, tra cui una sentenza della Suprema Corte che ha affermato che «il socioamministratore di una società di persone, il quale si appropri degli utili, compie un atto in contrasto non soltanto con i doveri inerenti al mandato conferitogli, ma anche con gli obblighi a lui derivanti dalla qualità di socio, e ciò può comportare per detto socioamministratore, oltre che la revoca del mandato, anche l’esclusione dalla società, ai sensi dell’art. 2286 c.c.». Viceversa, l’ipotesi opposta – ovverosia l’automaticità della revoca dalla carica gestoria allorquando il socio-amministratore sia stato escluso dalla compagine sociale – è condivisa in dottrina in ragione dell’impossibilità di un amministratore extraneus nelle società personali157. 155 T rib. Milano, 3.2.1983, cit.; Id. Verona, 9.6.1994, in Soc., 1994, 1399; Id. Catania, 19.12.2003, (ord.), cit. Conforme, inoltre, Cass., 29.11.2001, n. 15197, in Giur. it., 2002, 778. In dottrina, cfr. COTTINO , cit., 95; GHIDINI, cit., 558. 156 Cass., 30.1.1980, n. 710, cit.; App. T orino, 16.3.1979, in Giur. comm., 1980, II, 470. In dottrina, COTTINO , ibidem; GALGANO , Le società di persone, in Tratt. Cicu-Messineo, XXVIII, Milano, 1972, 328. 157 Cfr. COTTINO, ibidem. CAGNASSO, cit., 155, nt. 31. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 127 COMMENTI A SENTENZE QUANDO L’ECONOMIA [ANCHE] PROCESSUALE SI SPOSA CON LA VOLONTÀ DEL LEGISLATORE L’Autore condivide la soluzione del Tribunale di Roma, ispirata al giusto compromesso tra la valutazione dei costi professionali e dei tempi processuali e, in mancanza di requisiti minimi della domanda, e la tutela dei creditori, proprio in osservanza del dato normativo valutato nel suo complesso. Infatti, sia l’inesistenza di una contraria regola giuridica e sia l’inesistenza di una qualche utilità impongono, in alcuni casi ossia laddove i fatti sconfessano ogni prognosi futura, una seria riflessione sull’applicazione formalistica della legge. Infine, l’autore critica la pronuncia della Corte capitolina sulle conseguenze processuali da essa generate. di LUCA CARAVELLA 1. La fattispecie Con distinti atti la D.C. s.p.a. - in liquidazione proponeva reclamo innanzi alla Corte di appello di Roma avverso il decreto (emesso il 29/3/2011) con il quale il Tribunale capitolino, sezione fallimentare, aveva respinto il proprio ricorso per la dichiarazione dello stato di insolvenza ai sensi dell’art. 1 e segg. d. lgs. 270/1999, nonché avverso la sentenza dichiarativa di fallimento (n. 170/2011) emesso dal medesimo giudice in pari data. La curatela fallimentare, costituitasi in giudizio, ne invocava la conferma, mentre il M inistero per lo Sviluppo Economico, invece, aderiva ai reclami ed il Procuratore Generale concludeva per la conferma della sentenza dichiarativa di fallimento. La Corte di appello, con sentenza depositata il 25 luglio 2011, accoglieva i reclami sostenendo, sostanzialmente, che il Tribunale aveva “anticipato il proprio giudizio omettendo di rispettare la fase di osservazione prevista dalla legge – il Tribunale entro trenta giorni dal deposito della relazione, tenuto conto del parere e delle osservazioni depositate, nonché degli ulteriori accertamenti eventualmente disposti …(art. 30, I co.,) – ed avocando a sé le competenze che il legislatore ha ritenuto di subordinare invece ad una fase successiva della procedura al fine precipuo di verificare la presenza di concrete prospettive di recupero dell’impresa dichiarata insolvente”. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 128 COMMENTI A SENTENZE ECONOMIA PROCESSUALE La sezione fallimentare del Tribunale di Roma, nuovamente investita della vicenda, in seguito alla relazione del commissario giudiziale dichiarava definitivamente il fallimento della società istante con sentenza del 23 gennaio 2012. 2. La decisione del Tribunale di Roma La sentenza dichiarativa di fallimento del 29 marzo 2011, ovvero il decreto di rigetto del ricorso per la dichiarazione dello stato d’insolvenza di cui all’art. 5 del d.lgs. 270/99, del Tribunale di Roma rispondeva ad una esigenza oggettiva dell’ordinamento, utilizzando il combinato disposto normativo in modo efficace a tutela dei creditori e del mercato. L’istante risultava interamente e direttamente controllata da altra società (capogruppo), anch’essa in palesi difficoltà finanziarie, la quale congiuntamente alle altre società del gruppo, tentava un accordo con gli istituti di credito per la ristrutturazione del debito accumulato e depositava ricorso per l’omologazione ex art. 182 bis l.f.. Il Tribunale ne dichiarava l’inammissibilità, rilevando sia il mancato raggiungimento della percentuale minima di soddisfacimento prescritta del 60% dei crediti e sia la mancata attestazione della veridicità dei dati aziendali. Il decreto non veniva reclamato. Il Tribunale disponeva, altresì, la trasmissione degli atti al Procuratore della Repubblica e l’Ufficio decideva di depositare il ricorso per la dichiarazione di fallimento della società istante. Precedentemente, la nuova governance della società, valutata la irreversibilità della crisi e l’impraticabilità della soluzione concordataria, convocava l’assemblea straordinaria, per la copertura delle perdite e necessaria ricapitalizzazione. Dall’assemblea dei soci della istante e della capogruppo ne veniva fuori l’indisponibilità a qualsiasi finanziamento alle rispettive imprese, anche a copertura delle perdite. In definitiva, lo scenario che si era delineato, anche a seguito che tutti i cantieri erano stati chiusi progressivamente ben prima del fallimento, era tale da pregiudicare in via diretta ed immediata la capacità della stessa di provvedere con regolarità ai propri obblighi nei confronti dei creditori sociali, con conseguente ricadute sulle possibilità di sviluppo dei cantieri e delle opere in corso di realizzazione. Una volta rigettata la istanza per la dichiarazione d’insolvenza la sentenza dichiarativa di fallimento ha semplicemente rilevato l’esistenza di un ricorso per la pronuncia in tal senso e dei relativi requisiti soggettivi ed oggettivi. 3. La soluzione del Tribunale La ratio decidendi del Tribunale è compiutamente sintetizzata nel passaggio del decreto allorquando afferma che “è irrinunciabile che il risanamento dell’impresa, e gli strumenti attraverso cui allo stesso dovrebbe pervenirsi, debbano essere enunciati nel IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 129 COMMENTI A SENTENZE ECONOMIA PROCESSUALE ricorso e debbano emergere dagli atti, come passi operativi di un percorso plausibile e realizzabile: diversamente, contrasterebbe con i principi di economia processuale, di buona e corretta amministrazione, e con l’interesse della collettività (lavoratori e creditori), dare corso, inutilmente, a un procedimento che, comunque, provocherà la dilazione di ogni pronuncia definitiva; allorquando è assolutamente evidente, come nella fattispecie in argomento, che non ricorra alcuna prospettiva diversa dalla liquidazione fallimentare….” e che “lo stato di criticità economica del bene – impresa deve presentare un quid pluris determinato, secondo l’art. 27, dal requisito della recuperabilità: requisito non rinvenibile in discussione”. Preliminarmente, va ricordato il principio fondamentale in forza del quale l’accertamento delle condizioni per l’applicabilità delle procedure concorsuali, di qualsivoglia procedura concorsuale, deve effettuarsi con riferimento all’effettiva 1 situazione esistente al momento della decisione giudiziale . La disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, contenuta nel d. lgs. 8 luglio 1999 n. 270 (c.d. Prodi - bis), propone un modello di procedura concorsuale flessibile, atto a valorizzare attraverso la scelta delle modalità giuridiche più adeguate, in rapporto alla natura e alla gravità della crisi, il patrimonio dell’impresa. Veniva, in tal modo, meno il rigido automatismo che, nel precedente quadro normativo, contraddistingueva l’accesso all’amministrazione straordinaria: la scelta tra i diversi tipi di soluzione della crisi non spetta più ex ante al legislatore e, quindi, non discende sic et simpliciter dall’accertamento dello stato di insolvenza dell’imprenditore e dei limiti economici e dimensionali, ma è concretamente rimessa ad una valutazione dell’autorità giudiziaria che decide, anche preventivamente, sulla base di una verifica della reale situazione economica dell’impresa. L’attuale amministrazione straordinaria, quindi, pur presentando una natura mista, amministrativa e giurisdizionale, prevede, un sistema prevalentemente giurisdizionalizzato, in cui sono riservate al tribunale le principali e fondamentali decisioni in tema di dichiarazione dello stato d’insolvenza, accesso, proseguibilità e cessazione della procedura. Poi, ai sensi dell’art. 27 d.lgs. 270/99, l’amministrazione straordinaria presuppone per la sua apertura la presenza di “concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico delle attività imprenditoriali”: risultato questo realizzabile in via alternativa attraverso la cessione dei complessi aziendali o attraverso la ristrutturazione economica e finanziaria dell’impresa sulla base di un programma di risanamento. 1 (cfr., con espresso riferimento all’amministrazione straordinaria, ex plurimis, T rib. Napoli, 13 febbraio 1982, in Il fallimento, n. 6, 1982, 1559; Trib. Bari, 21 luglio 1981, in Il fallimento, n. 2, 1982, 260; Trib. Milano, 26 marzo 1980, in Il fallimento, n. 3, 1980, 545). IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 130 COMMENTI A SENTENZE ECONOMIA PROCESSUALE Questa delicata valutazione delle concrete prospettive di recupero spetta all’autorità giudiziaria. La legge prevede, infatti, che sia il tribunale a decidere se dichiarare lo stato d’insolvenza e, poi, se avviare la procedura di amministrazione straordinaria o quella di fallimento. Per il suo giudizio il tribunale, quindi, intervenendo in una fase del procedimento in cui ancora difetta l’esistenza di un vero e proprio programma di ristrutturazione/cessione, di pertinenza esclusiva del commissario straordinario, può avvalersi delle prospettazioni economiche e imprenditoriali e finanziarie, contenute prima in un eventuale piano per la soluzione della crisi predisposto dallo stesso imprenditore o che comunque individui con sufficiente chiarezza le concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico delle attività imprenditoriali, e, una volta dichiarato lo stato d’insolvenza, nella relazione del commissario giudiziale. Infatti, il dettato normativo contenuto nell’art. 5 stabilisce che “L’imprenditore che chiede la dichiarazione del proprio stato di insolvenza deve esporre, nel ricorso, le cause che lo hanno determinato, segnalando ogni elemento utile ai fini della valutazione dell’esistenza dei requisiti e delle condizioni indicati negli articoli 2 e 27”. Quindi, a nostro avviso, sarebbe errato sostenere che il Tribunale, avendo accertato l’esistenza dei requisiti dimensionali in capo alla ricorrente, avrebbe violato gli artt. 2 e 3 del d. lgs. n. 270/99 in quanto, nella prima fase, sarebbe stato precluso ogni giudizio prognostico [anche] in assenza degli elementi su cui fondarlo. Pertanto, il Tribunale, nella prima fase, ha semplicemente accertato, alla luce dei dati così come rappresentati, fin dalla richiesta di omologazione del piano di ristrutturazione, la mancanza di concrete prospettive di recupero. Infatti, come già ha 2 avuto modo di dichiarare altro Tribunale , dopo l’accertamento della sussistenza dei requisiti soggettivi, “resta sempre da valutare il requisito indicato dall’art. 27, d. lgs. n. 270/1999, ovvero la sussistenza di concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico delle attività imprenditoriali.”. Ebbene, dalla lettura complessiva della norma non è assolutamente inibito al giudice, al quale il ricorso, ai sensi dell’art. 3 del d. lgs. 270/99, viene presentato per la dichiarazione dello stato di insolvenza, la valutazione immediata di sussistenza delle condizioni ulteriori di proponibilità dell’istanza, oltre quelle previste dall’art. 2 dello stesso d. lgs. il cui esame la legge riserva, nella seconda fase del procedimento (e facendo salva la successiva verifica da parte del giudice), al Commissario giudiziale. Tale principio generale è stato anche ribadito dalla Corte fiorentina, in riferimento alla legge “M arzano”, con il decreto di rigetto del 6-8.4.20113. In definitiva, in presenza dei soli presupposti soggettivi, di cui all’art. 2 del d. lgs. 270/99, il decreto di rigetto dell’istanza della dichiarazione dell’insolvenza ha 2 3 Cfr. Tribunale Vibo Valentia 2010. Su www.ilcaso.it. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 131 COMMENTI A SENTENZE ECONOMIA PROCESSUALE tenuto, al contrario, in dovuta considerazione [anche] il principio dell’economia processuale e, soprattutto, la regola giuridica del simultaneo esame degli obblighi di cui all’art. 5 del citato decreto, ritenendo la carenza di uno di quelli da solo sufficiente ad indurre al rigetto della domanda in parola. Il giudizio di concretezza delle prospettive di recupero dell’equilibrio economico, di cui all’art. 27, ai fini della dichiarazione d’insolvenza non risulta condizionato dalla necessaria definizione, in termini di assoluta precisione operativa, dei passaggi essenziali del programma di ristrutturazione/cessione dei complessi aziendali, ma è sufficiente che già in questa fase, prodromica alla concreta ammissione e, poi, predisposizione del piano, siano individuabili, “con argomenti concreti”, quei presupposti economici, imprenditoriali e finanziari su cui il predetto piano dovrà inevitabilmente fondarsi. In sostanza, il Tribunale ha ritenuto che, agli effetti del giudizio prognostico, sia sufficiente che, al momento di questa delicata decisione, gli elementi desumibili dall’analisi economica e finanziaria dell’attività imprenditoriale, nonché la prospettazione, in termini di concreta fattibilità, di una serie di interventi gestionali, faccia ritenere, con un serio margine di affidabilità, la realizzabilità dell’obiettivo del recupero attraverso una o entrambe le soluzioni, di cui all’art. 27 d. lgs.. In tal senso anche il Tribunale di Rimini il quale “Sulla base del parere espresso dal Ministero delle attività produttive, può essere dichiarato lo stato di insolvenza, ai sensi degli artt. 3 segg. d. lgs. n. 270 del 1999, delle società facenti parte di un «gruppo» di imprese insolventi, quale previsto dagli artt. 80 segg. dello stesso decreto, quando risulta il possesso dei requisiti di cui all'art. 2 lett. a) del decreto ed un giudizio prognostico di 4 assoggettamento ad amministrazione straordinaria ex art. 27 s.d.” . 4. I principi fondamentali e la finalità dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi A questo punto occorre ripercorre brevemente le finalità della “nuova” procedura di amministrazione straordinaria, nonché il significato della situazione di insolvenza che ne costituisce il presupposto primo d’applicabilità. La norma d’esordio del citato decreto legislativo di riforma definisce l’amministrazione straordinaria quale “procedura concorsuale relativa alla grande impresa commerciale insolvente, volta alla conservazione del patrimonio produttivo, mediante prosecuzione, riattivazione o riconversione delle attività imprenditoriali” (art. 1). La Prodi bis, a differenza della prima versione della legge 5, non è più l’unica 4 T ribunale Rimini, 9.10.2003, Giacomelli Sport s.p.a. e altri, in Dir. Fall., 2003, 2, 999. La legge Prodi risale ad un periodo in cui la crescita del sistema industriale italiano si era arrestata di fronte alle prime gravi crisi internazionali, quando ancora si pensava che l’intervento diretto o mediato dello Stato nell’economia privata fosse uno strumento di possibile 5 IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 132 COMMENTI A SENTENZE ECONOMIA PROCESSUALE procedura della grande impresa insolvente, ma concorre con il fallimento, a seconda che esista o meno l’ulteriore presupposto delle “concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico della attività imprenditoriale” 6, nell’ottica di una conservazione “non forzata” del patrimonio produttivo7. Collegandosi strettamente al presupposto delle concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico di cui all’art. 27, l’insolvenza non identifica qui una situazione di liquidazione dis gregratrice, di dissoluzione del complesso aziendale o cessazione dell’attività, ma va valutata in relazione alla capacità dell’impresa di rimanere utilmente nel contesto economico produttivo. Si tratta, perciò, più propriamente, di uno stato di crisi reversibile e superabile attraverso un adeguato piano di risanamento volto al ripristino dell’equilibrio economico e finanziario che possa garantire un ritorno dell’impresa sul mercato in condizioni di normalità dell’attività imprenditoriale. La condizione “insolvenza” non avrebbe più un significato prettamente giuridico, come espressione di una patologia nel rapporto, soggettivisticamente considerato, fra imprenditori e creditori, ma una valenza essenzialmente economica che nei testi di legge e nelle parole di molti studiosi viene espresso con la locuzione “crisi d’impresa”. Si comprende, allora, facilmente perché la legge riferisca lo stato di insolvenza all’impresa e non più all’imprenditore: la nuova legge mira alla tutela non tanto degli interessi dei creditori, dell’imprenditore e dei lavoratori, quanto dell’interesse più generale della collettività al recupero e alla conservazione delle unità produttive. Coerentemente a tale finalità, l’art. 27 impernia il presupposto per l’ammissione alla procedura su un parametro meramente economico, richiedendo che sussistano “concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico delle attività imprenditoriali”. soluzione dei disse sti. Si è poi percepito che quelle norme erano del tutto inidonee a favorire il risanamento, visto allora come mera diluizione nel tempo della crisi, con lo spostamento in avanti della questione occupazionale. Per vent’anni non si è mai assistito a ritorni in bonis dell’impresa decotta, ma al contrario alla creazione di debiti prededucibili di proporzioni così devastanti da erodere sempre più le aspettative di soddisfazione dei creditori, del tutto emarginati dalle scelte commissariali e dell’autorità amministrativa (così FABIANI, Dai pomodorini ai latticini, ovvero dalla regola all’eccezione: un testo unico per l’amministrazione straordinaria e la gestione di gruppi transnazionali, in Foro it., 2004, 1571). 6 Come testualmente recita l’art. 27 1, del d. lgs. 270 del 1999. 7 La l. n. 95 del 1979 era ispirata alla logica della conservazione forzata dell’impresa, anche decotta sul piano della capacità di generare reddito, funzionale al mantenimento dell’occupazione attraverso aiuti di stato. E proprio dal divieto di questi ultimi trova ispirazione la nuova l. Prodi. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 133 COMMENTI A SENTENZE ECONOMIA PROCESSUALE Ben si comprende, quindi, la scelta operata dal legislatore per il quale l’amministrazione straordinaria non risulta finalizzata, almeno in via principale e diretta, al recupero della solvibilità dell’imprenditore, ossia della capacità dell’imprenditore di far fronte, in modo tempestivo e con mezzi normali, alle proprie obbligazioni, bensì alla riallocazione, in termini di normalità, sul mercato dell’attività imprenditoriale, attraverso il recupero di un rapporto fisiologico tra costi e ricavi. A tal fine, e in maniera coerente con questa impostazione realistica, si può optare per la strada del salvataggio della sola azienda, mediante la cessione delle unità produttive o, in alternativa, anche del ripristino, in termini di funzionalità economica e finanziaria, dell’impresa, attraverso un piano di risanamento. La sussistenza di un residuo fabbisogno finanziario non è affatto da interpretarsi come segnale del permanere di una condizione di insolvenza, anche al termine della fase di ristrutturazione. D’altronde l’equilibrio economico di cui parla l’art. 27, se sufficientemente solido, può permettere nel tempo di migliorare la propria situazione finanziaria, anche se non necessariamente portare all’estinzione di tutti i pregressi debiti. Operativamente e secondo il dettato normativo, agli effetti dell’accertamento delle capacità di recupero dell’equilibrio economico e, quindi, del venir meno della situazione di insolvenza è, invece, necessario soltanto verificare: - che i cash flow gestionali riescano a ridurre l’indebitamento, soprattutto finanziario, entro livelli ritenuti accettabili; - che il fabbisogno residuo da finanziare sia inferiore al valore degli assets non realizzabili; un’eventuale differenza positiva tra il valore dell’attivo non realizzabile e i fabbisogni residui rappresenta una garanzia concreta per eventuali finanziatori, a titolo sia di capitale di rischio che di capitale di credito. Condizioni minime queste che la ricorrente non ha dimostrato di avere e di voler e poter soddisfare per il tramite neanche di un [ipotetico] programma di ristrutturazione. Tuttavia, l’illustrazione appena svolta viene messa in crisi dal confronto sia con il dato normativo che con l’intelaiatura complessiva della procedura oggetto di recente rivisitazione. Dall’uno e dall’altra emerge, difatti e in modo affatto equivoco, come - in accordo con il dato nominale - lo stato di insolvenza, a fronte del quale prende avvio il procedimento bifasico delineato dal d. lgs. 270/1999, sia (tipologicamente parlando) esattamente lo stesso che assurge a presupposto oggettivo della procedura fallimentare: 8 la crisi si parametra sull’imprenditore e non sull’impresa , e consiste proprio nella 9 caduta della relativa capacità solutoria . 8 LO CASCIO , La prima applicazione della nuova legge sull’amministrazione straordinaria, in Il Fallimento 2000, 453). 9 Cfr., nel senso che la nozione di insolvenza conservi carattere unitario nel fallimento e nell’amministrazione straordinaria, CANDELARIO MACIAS, L’amministrazione straordinaria: uno sguardo nel contesto del diritto concorsuale europeo, in La riforma della amministrazione IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 134 COMMENTI A SENTENZE ECONOMIA PROCESSUALE In favore sovviene l’art. 74, primo comma, lett. b), d. lgs. 270/1999 che annovera, tra i casi generali di chiusura dell’amministrazione straordinaria (valevoli, cioè, a prescindere dal tipo di indirizzo adottato, sia esso di cessione dei complessi aziendali o di ristrutturazione) il recupero, da parte dell’“imprenditore insolvente” - si badi bene: imprenditore, non impresa – “anche prima del termine di scadenza del programma”, della “capacità di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”. Non può sfuggire come tale enunciato - che ricalca pedissequamente la locuzione terminale dell’art. 5 legge fallimentare - rappresenti la cartina tornasole del concetto di insolvenza adottato dal legislatore. Nell’ipotesi del citato art. 74 la procedura è destinata, infatti, ad interrompersi proprio perché viene rimosso il presupposto dell’insolvenza: e, d’altra parte, quando l’imprenditore si mostri nuovamente in grado di adempiere con regolarità, la chiusura è evento indefettibile, abbia o non abbia l’impresa recuperato la capacità di stare sul mercato (si ipotizzi, ad esempio, la robusta ricapitalizzazione d’una impresa sociale decotta da parte dei soci). A contrariis qualora una situazione del genere - id est, imprenditore che conserva come che sia la capacità di adempiere alla scadenza e con mezzi normali, a dispetto della crisi, anche profonda, della sua impresa - sussistesse ab origine, la procedura non potrebbe prendere avvio. L’enunciato testé ricordato trova, peraltro, un ripetizione nell’art. 70, primo comma, lett. b), d. lgs. 270/1999, che - considerando il fenomeno dall’angolazione inversa - prevede la conversione dell’amministrazione straordinaria in fallimento quante volte, alla scadenza del programma di ristrutturazione, l’imprenditore (sempre lui, non l’impresa) “non abbia recuperato la capacità di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”: e ciò a conferma del fatto che l’elemento oggettivo di partenza è la perdita di detta capacità. straordinaria, a cura di Bonfatti e Falcone, 342 (ove riferimenti comparatistici); FABIANI, Il rapporto fra la nuova amministrazione straordinaria e le procedure concorsuali minori, in Foro it. 2000, IV, 24; FIENGO , Lo stato d’insolvenza quale concetto “neutro”, in La riforma della amministrazione straordinaria, a cura di Bonfatti e Falcone, 400; LO CASCIO , Commentario alla legge sull’amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi, Milano, 2000, 50 s.; MAFFEI ALBERTI, I presupposti della procedura di amministrazione straordinaria, in La riforma dell’amministrazione straordinaria, atti del convegno S.I.S.CO. di Milano, 11 novembre 2000, Milano, 2001, 52; MUCCIARELLI, Impresa e impresa del gruppo nella nuova legge sull’amministrazione straordinaria, in Riv. soc. 2000, 876; T EDESCHI, Manuale di diritto fallimentare, Padova, 2001, 869); caduta che deve d’altro canto emergere dai consueti indici esteriori (in questa prospettiva, LO CASCIO , Commentario, cit., 28, 50 ss., il quale ritiene senz’altro estensibili alla nozione di insolvenza ex art. 3 d. lgs. 270/1999 le risultanze del dibattito dottrinale e giurisprudenziale relativo all’insolvenza ex art. 5 legge fallimentare). IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 135 COMMENTI A SENTENZE ECONOMIA PROCESSUALE M a più in generale, poi, è la continua osmosi tra fallimento e amministrazione straordinaria, prefigurata dalla nuova disciplina, che rende critico il tentativo di lettura differenziata del concetto di insolvenza nei sensi dianzi richiamati: l’una e l’altra procedura, nell’idea del legislatore, fronteggiano in maniera diversa - a seconda delle condizioni più o meno propizie - un fenomeno patologico comune. Precisamente, data la nozione generale di insolvenza, l’amministrazione straordinaria si apre qualora la situazione rientrante in detta nozione presenti determinate caratteristiche: il presupposto oggettivo della (seconda fase della) procedura speciale si presenta, in termini concettuali, come un cerchio di minori dimensioni, ma interamente compreso all’interno del cerchio maggiore disegnato dalla nozione generale. Tale interpretazione assume che la dichiarazione di insolvenza ex art. 3 d. lgs. 270/1999, quando non abbia luogo o non abbia successo la procedura di amministrazione straordinaria, è destinata indefettibilmente a preludere all’apertura della procedura fallimentare: laddove, al contrario, si individui un tratto differenziale che trasforma l’insolvenza di cui al citato art. 3 in un qualcosa a sé stante o solo parzialmente sovrapposto a quello dell’insolvenza “ordinaria” - nel senso che le fattispecie che rientrano nella prima nozione non ricadono, o non ricadono necessariamente, nella seconda - il ragionamento non regge più. Al riguardo, basti pensare all’alternativa “secca” tra fallimento ed amministrazione straordinaria (tertium non datur) che fa da epilogo alla fase c.d. “di osservazione” inaugurata con la dichiarazione dello stato di insolvenza. E ancora, si valutino le plurime ipotesi di passaggio automatico e senza soluzione di continuità dall’una all’altra procedura: conversione dell’amministrazione straordinaria in fallimento per mancato conseguimento degli obiettivi, tanto in pendenza del termine del programma che alla scadenza di esso (artt. 69 e 70); riapertura della procedura di amministrazione straordinaria già chiusa, con contestuale sua conversione in fallimento, a seguito della sopravvenienza di attivo (art. 77); conversione del fallimento dell’impresa del gruppo in amministrazione straordinaria e viceversa (artt. 84 e 87). Nella soluzione prospettata si rivela, peraltro, significativa la previsione dell’automatica trasformazione dell’amministrazione straordinaria in fallimento nel caso di accertamento, in sede di opposizione alla dichiarazione dello stato di insolvenza, della mancanza dei requisiti dimensionali dell’impresa stabiliti dall’art. 2 (art. 11): previsione che dimostra come il discrimen tra la dichiarazione di insolvenza ex art. 3 d. lgs. 270/1999 e l’ordinaria dichiarazione di fallimento si radichi esclusivamente nel presupposto soggettivo, non in quello oggettivo. L’equivoco che alita alla radice della tesi contrastata fonda nella pretesa di traslare sulla nozione dell’insolvenza, rilevante ai fini della dichiarazione d’insolvenza e dell’apertura della prima fase della procedura, considerazioni valevoli solo in rapporto al concetto di “recupero dell’equilibrio economico delle attività imprenditoriali”, che entra in giuoco ai fini dell’avvio della seconda fase. L’insolvenza - si è detto - va IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 136 COMMENTI A SENTENZE ECONOMIA PROCESSUALE rapportata necessariamente all’imprenditore ed alla relativa capacità solutoria: così come bisogna convenire, amplius, che, a dispetto del lessico legislativo, soggetto passivo della procedura speciale (in entrambe le fasi) è parimenti l’imprenditore, e non l’impresa, il quale (piaccia o no) rimane, tra i due, il solo dotato, nel nostro 10 ordinamento, di capacità giuridica e patrimoniale . L’attenzione per l’impresa in sé, quale valore-entità che merita di essere salvaguardato a prescindere dalla sorte dell’imprenditore e, correlativamente, per le ragioni del dissesto - attenzione che rappresenta indubbiamente l’elemento qualificante della procedura in questione - affiora viceversa nell’ambito della eventuale seconda fase. “Recupero dell’equilibrio economico delle attività imprenditoriali” significa, sostanzialmente ripristino di un rapporto non deficitario (ergo, almeno paritetico) tra ricavi e costi dell’impresa: un concetto, dunque, certamente distinto da quello del recupero, ad opera dell’imprenditore, della capacità di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni. Ora, nella visione del legislatore, il primo risultato può, a seconda dei casi, andare o meno congiunto all’altro: ed è proprio su questa linea di confine che sarà sviscerata l’opzione - concretamente riservata, peraltro, agli organi amministrativi preposti alla seconda fase, dopo la prognosi favorevole “di massima” dell’autorità giudiziaria - tra i due indirizzi della cessione dei complessi aziendali, sulla base di un programma di prosecuzione dell’esercizio dell’impresa di durata non superiore ad un anno; ovvero della ristrutturazione economico-finanziaria dell’impresa, sulla base di un programma di durata non superiore a due anni volto al suo risanamento. Nel primo caso, si suppone infatti che sia possibile ripristinare de futuro l’equilibrio tra costi e ricavi, ma senza che ciò consenta di sanare per integrum anche le passività precedentemente accumulate: la conservazione del patrimonio produttivo si attua, pertanto, tramite un mutamento della titolarità dell’impresa, della quale viene evitata nelle more la dissoluzione (si salva la sola impresa, lasciando l’imprenditore insolvente al suo destino). Nel secondo caso, invece - come attesta a contrario il già ricordato disposto dell’art. 70, primo comma, lett. b, d. lgs. 270/1999 – l’amministrazione straordinaria prelude, nelle aspettative, al contemporaneo ripristino della capacità di adempiere dell’imprenditore e, dunque, al suo ritorno in bonis: si salverebbe, pertanto, tanto l’impresa che il suo titolare. Le considerazioni ora esposte valgono, mutatis mutandis, a controbattere anche la versione, per dir così, più “moderata” della tesi della nozione differenziata dell’insolvenza, che punta su una diversità, non di species, ma di grado: versione alla 10 Nel senso che, mentre la nozione di insolvenza resta qualitativamente unitaria, la vera novità risiede proprio nel rilievo accordato alle ragioni dell’insolvenza e ai tempi del suo eventuale superamento, FABIANI, op. cit., 24. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 137 COMMENTI A SENTENZE ECONOMIA PROCESSUALE stregua della quale l’amministrazione straordinaria costituirebbe la risposta ad una insolvenza “buona”, caratterizzata da aspettative di reversibilità; mentre la dichiarazione di fallimento sanzionerebbe l’insolvenza “cattiva”, vale a dire il dissesto irreversibile. Il presupposto oggettivo delle due procedure si radicherebbe, in altre parole, in stadi distinti e successivi nella progressione tipologica della crisi imprenditoriale: avendo, in sostanza, il legislatore del ‘99 (inopportunamente) qualificato come insolvenza quella che, in realtà - avuto riguardo alla tradizionale nozione “fallimentare” - sarebbe soltanto una situazione, sia pur avanzata, di “rischio d’insolvenza”. La prospettiva di salvataggio, dunque, condiziona la dichiarazione di insolvenza: se anche risulti istruttoriamente conseguita la certezza che nessun programma di risanamento di cui all’art. 27 d.lgs. n. 270/1999 sarà mai esperibile quale mezzo per il recupero dell’equilibrio economico delle attività imprenditoriali ivi menzionate o che comunque (per queste ultime e laddove bastasse - in ipotesi, ma è tesi estrema - in tale fase la loro non implausibile mera prospettazione, cioè a prescindere dal tradursi nelle modalità operative che l’art. 27, comma 2, sembra indicare come indefettibili) il tribunale potrà dichiarare il fallimento. In questo quadro così delineato, il tribunale deve essere messo nelle condizioni, poiché la legge glielo consente, di esprimere anche e solo una valutazione di natura prognostica, ancorata alle documentate prospettazioni di parte ricorrente. 5. Il giusto compromesso Tanto premesso, con il decreto reclamato il Collegio del Tribunale romano, ha ritenuto neanche prospettata una [compiuta] ristrutturazione economica e finanziaria dell’impresa, sulla base del ricorso depositato. Peraltro, anche l’interessata ha affermato che il Tribunale non avrebbe avuto a disposizione elementi idonei ad effettuare una valutazione, sia pure probabilistica, sulla possibilità che l’impresa potesse ritrovare un equilibrio economico tramite la cessione di uno o più rami aziendali ovvero all’esito di un programma di ristrutturazione economico-finanziaria: in tal modo ha dichiarato la violazione dell’obbligo di cui all’art. 5 d. lgs. 270/99. Quindi, ogni critica all’approccio del primo giudice appare nominalistica, legata com’è solo ad alcune espressioni verbali utilizzate, ma non al contenuto effettivo della motivazione del decreto, la quale illustra chiaramente, anche con i ripetuti testuali riferimenti all’art. 27, di essere pervenuta ad una decisione negativa non perché il “programma”, che non esisteva e continuava a non esistere, fosse incompleto o carente di dettagli o quantitativamente impreciso, ma perché, ancor prima, l’impresa dell’istante, così come l’intero gruppo, non aveva alcuna concreta prospettiva di recupero. Sui dati e con le previsioni economiche ed imprenditoriali che si potevano fare, qualsiasi programma sarebbe stato, insomma, infruttuoso (e non sarebbe “concreto” immaginare un programma che trascuri i dati reali o faccia non realistiche previsioni). IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 138 COMMENTI A SENTENZE ECONOMIA PROCESSUALE Gli elementi a disposizione del Tribunale sono stati indubbiamente idonei in se stessi ad assumere la rilevanza probatoria che è stata loro attribuita, anche perché non contraddetti da risultanze (rectius, prove) di segno contrario. Il tutto è stato poi confermato dalla “seconda” pronuncia di fallimento la quale ha accertato l’impossibilità del commissario giudiziale di offrire un quadro ragionevolmente esaustivo sullo stato dell’impresa, con specifico riguardo alle prospettive di concreta riattivazione delle attività produttive e di reimpiego della forza lavoro nonché della possibilità di cessione dell’impresa sul mercato secondo le condizioni legali imposte dalla speciale normativa. La sentenza impugnata, ovvero il suo presupposto decreto di rigetto, è pervenuta, quindi, in modo logico e corretto a ritenere l’imprenditore istante, manchevole, ai sensi dell’art. 5 d. lgs. 270/99 nel segnalare un seppur “minimo” elemento utile ai fini della valutazione dell’esistenza dei requisiti e delle condizioni indicati [anche] nell’articolo 27 s.d. e, quindi, non meritevoli, sin da subito, dell’ammissione all’amministrazione straordinaria, sulla base di una valutazione complessiva ed unitaria dei fatti indiziari accertati, non contrastati se non in base ad astratte supposizioni o a una diversa soggettiva interpretazione dei fatti medesimi. Nel ricorso per la dichiarazione d’insolvenza, alcun accenno è stato fatto sulle concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico delle attività imprenditoriali: il Tribunale di Roma ha dichiarato inammissibile l’istanza di omologa per l’accordo di ristrutturazione, accertando, tra l’altro, il mancato raggiungimento della percentuale minima di soddisfacimento prescritta del 60% dei crediti e la mancata attestazione della veridicità dei dati aziendali nella relazione predisposta dall’esperto. Inoltre, in tale istanza la società aveva allegato un piano industriale e un piano finanziario di fatto bocciato, per cui già in quella sede era stata verificata la mancanza di qualsiasi concreta possibilità di recupero dell’equilibrio economico del progetto imprenditoriale, non potendo così avviare alcun processo di ristrutturazione e mai raggiungendo un sufficiente risultato commerciale. La domanda a questo punto sorge spontanea: come può esser concepibile chiedere poi di valersi della speciale procedura - e delle condizioni di favore - della legge 270 non per ritornare a quell’utile gestione ormai passato (giacché non ha mai avuto un bilancio positivo), ma per tentare un obiettivo d’impresa insperabile e inattuabile, neppure in situazioni e forme diverse ? La distinzione - come ben si comprende - non introduce una questione meramente teorica, poiché si tratta dell’ossequio alla ratio legis; ed ha poi una pratica ricaduta sull’applicazione dei già esposti criteri di valutazione. Se può essere verosimile, infatti, ritenere “concrete” le prospettive di un ritorno ad equilibri imprenditoriali in passato eventualmente realizzati, assai più difficile è dotare della stessa concretezza ipotesi di scenari mai visti: nuove commesse, nuove tipologie di prodotti, nuovi procedimenti produttivi, nuovi fornitori, IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 139 COMMENTI A SENTENZE ECONOMIA PROCESSUALE nuovi finanziamenti, nuovi acquirenti. Giacché è su tali previsioni - tutte insieme e tutte indispensabili - che si fonda la prospettiva di recupero da rappresentarsi al tribunale. Quanto al merito economico della vicenda, lo scenario che si era delineato per i nuovi amministratori era tale da pregiudicare in via diretta ed immediata la capacità della stessa di provvedere con regolarità ai propri obblighi nei confronti dei creditori sociali con conseguente ricadute sulle possibilità di sviluppo dei cantieri e delle opere in corso di realizzazione. Pertanto, va sottolineato che il risultato di recupero richiesto dalla legge al termine dell’amministrazione straordinaria non può limitarsi al mero conto economico della gestione, lasciando invariata la pregressa situazione debitoria: la legge richiede un riequilibrio “economico”, cioè complessivo, dell’attività imprenditoriale, mentre certo non è economica, anche per il liquidatore, la prosecuzione di un’attività che non abbia alcuna concreta prospettiva di pagare i creditori (o con la vendita dei beni o con gli utili della ristrutturata gestione dell’azienda). Nulla del genere è stato previsto nel caso della società istante e addirittura era venuto meno l’esercizio dell’impresa ossia il presupposto necessario e indeffettibile su cui ogni soggetto economico possa ragionevolamente fondare, secondo l’art. 27 d. lgs. 270/99, l’istanza di ammissione alla procedura de quo. Alcuna promessa, ad abundantiam, di finanziamento in varie forme da parte del socio di riferimento era stata prospettata, anzi su di esse non poteva in alcun modo farsi affidamento e ancor più suscettibile di valutazione risultava poi la presa di posizione del sistema bancario. In conclusione, dunque, l’ipotesi di cessione dei complessi aziendali ovvero di un’efficace ristrutturazione, economica e finanziaria, dell’impresa della ricorrente nel termine di due anni (art. 27, lett. b), qualora nell’allegazione delle commesse si volesse intravedere un programma in tal senso, risulta[va] del tutto improbabile per non dire irrealistico e/o impossibile. Ora, se per assurdo e solo per assurdo volessimo aderire alle tesi favorevoli alla funzione notarile del Tribunale, proprio l’art. 35 d. lgs. 270/99 stabilisce che “quando è passata in giudicato la sentenza che accoglie per tale motivo l’opposizione prevista dall’articolo 18 della legge fallimentare, il tribunale che ha dichiarato il fallimento, ove non sia esaurita la liquidazione dell’attivo, invita con decreto il curatore a depositare in cancelleria ed a trasmettere al Ministro dell'industria entro trenta giorni una relazione contenente una valutazione motivata circa l’es istenza delle condizioni previste dall’articolo 27 ai fini dell’ammissione dell’impresa fallita alla procedura di amministrazione straordinaria.”. E’ evidente, quindi, che, innanzitutto, la disposizione espressamente subordina la ipotesi di conversione del fallimento in amministrazione straordinaria al passaggio in giudicato della sentenza di opposizione a fallimento. Inoltre, proprio per quanto illustrato e documentato nei fatti, una volta cessato l’esercizio dell’impresa, l’amministrazione straordinaria diverrebbe una procedura concorsuale liquidatoria, in IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 140 COMMENTI A SENTENZE ECONOMIA PROCESSUALE ciò assimilabile perfettamente al fallimento ossia perché la conversione del fallimento in amministrazione straordinaria apparirebbe inammissibile, ormai priva di qualsiasi significato, venendo a mancare in radice e ab initio le condizioni e l’opportunità di una tale procedura, poiché non si ravviserebbe alcuna utilità di un’eventuale conversione al raggiungimento degli obiettivi della procedura in sé. E’ quanto mai ovvio che il curatore fallimentare in carica, alla luce dei fatti e delle circostanze, per come rappresentate, descritte e documentate, non potrebbe relazionare sull’assoluta mancanza delle condizioni di ammissibilità dell’amministrazione straordinaria. Per l’effetto, la riforma della Corte d’appello si è risolta in un inutile e costosissima appendice rappresentata dalla relazione estesa dal curatore. Si badi bene che il compenso per tale attività, normalmente svolta dal commissario giudiziale designato dal M inistro e nominato dal Tribunale, è determinato nella misura del 50 per 11 cento di quello spettante al curatore fallimentare per tutta la sua attività . Quindi, l’inutile appendice costa alla procedura un terzo in più dei normali compensi del curatore. In definitiva, il decreto di rigetto e la sentenza di fallimento rispondevano non solo a principi di economia processuale, ma anche a principi di economia reale, e la riforma della sentenza ha prodotto, come in realtà, l’unico effetto di aggravare di spese la procedura, senza alcun vantaggio competitivo, avendo potuto già rilevare l’assoluta evidenza dell’impostazione del Tribunale sulla mancanza delle condizioni di ammissibilità alla procedura di amministrazione straordinaria. Inoltre, alcuna norma esclude che il Tribunale possa anticipare il giudizio che normalmente rende a seguito della relazione del commissario giudiziale quando appaia evidente per tabulas il quadro che dovrebbe emergere dalla stessa relazione. 6. La soluzione della Corte capitolina A nostro avviso la sentenza della Corte capitolina presenta diversi profili di erroneità o falsa applicazione delle norme, anche sotto il profilo strettamente processuale. La sentenza in questione revocava il fallimento dichiarato dal Tribunale: come noto, avverso la sentenza di revoca del fallimento, che non è esecutiva, è ammissibile il ricorso per cassazione. La Corte di appello ha erroneamente applicato nella fattispecie l’art. 12. del d. lgs. 270 del 1999 che si riferisce al caso in cui il Tribunale non abbia dichiarato l’insolvenza e non al caso in cui abbia scelto, al contrario, di dichiarare il fallimento. Il d. lgs. 270 del 1999 disciplina, infatti, tale ipotesi all’art. 35 in merito al quale si potrebbe però obiettare che fa riferimento alla non revocabilità della sentenza 11 Cass., 22 gennaio 2009, n. 1602, in Il Fallimento, 2009, 3, 274. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 141 COMMENTI A SENTENZE ECONOMIA PROCESSUALE dichiarativa di fallimento a seguito dell’accertamento del possesso dei requisiti di cui all’art. 2. Nel nostro caso si potrebbe eccepire che il Tribunale ha dichiarato il fallimento dopo aver accertato la mancanza del requisito delle condizioni di prosecuzione e riequilibrio, non previste dall’art. 2 e non accertabili in quella fase (in tal senso la Corte d’appello). In realtà l’art. 35, come lo stesso articolo 12, sono norme di sistema dirette a far funzionare complessivamente il rapporto tra amministrazione straordinaria e fallimento e tra dichiarazione di insolvenza e dichiarazione di fallimento, nell’unico modo possibile. E’ ovvio che l’art. 2 non preveda “espressamente” il requisito delle “concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico delle attività imprenditoriali”, la cui mancanza ha accertato il Tribunale, altrimenti non ci sarebbe stata materia del contendere né il giudizio. M a è altrettanto ovvio che quanto accaduto trovi comunque l’unica soluzione sistematica possibile nella previsione dell’art. 35. Il legislatore, sulla base di una tecnica normativa puntuale, si preoccupa che in caso di dichiarazione di fallimento in luogo della dichiarazione di insolvenza e viceversa, non ci siano soluzioni di continuità, tenuto conto che gli effetti delle statuizioni sono identiche. Non c’è dunque ragione nell’ordinamento che possano essere staccate sul piano logico e cronologico. E ciò attenzione trova precisa conferma in una terza norma (che non è né l’art. 12 né il 35), ma è l’art. 11 del d. lgs. 270 del 1999 (Accoglimento dell’opposizione per mancanza dei requisiti per l'ammissione all'amministrazione straordinaria). Il quadro sistematico è chiarissimo ed ineccepibile: o il fallimento non viene revocato oppure l’insolvenza viene convertita. Fuori da queste ipotesi contenute in tutta la legge (art. 11, 35, 30, 69, 70) c’è soltanto il caso in cui il Tribunale rigetti la richiesta di insolvenza (art. 12), ma se c’è insolvenza questa non può più venir meno. E’ un quadro perfettamente congegnato al fine di evitare quella situazione “antigiuridica” che oggettivamente ha creato la sentenza della Corte capitolina. Infatti, quella statuizione ha provocato comunque soluzione di continuità e nella migliore delle ipotesi una sovrapposizione inammissibile di procedure: dalla decisione, infatti, la revoca della sentenza di fallimento non poteva esser esecutiva e non lo sarebbe stato fino alla sua definitività. Nelle more il Tribunale avrebbe dovuto fissare l’udienza per la dichiarazione di insolvenza. Di certo il Tribunale non può dichiarare l’insolvenza di una società ancora fallita, con sovrapposizione di organi e procedure. Allora quale alternativa aveva ? Non poteva certo organizzare la propria giurisdizione in modo da dichiarare il fallimento il giorno stesso del passaggio in giudicato della sentenza dichiarativa di fallimento, incerto, e peraltro termine è nella disposizione delle parti e non del Tribunale. M a seppure per assurdo - e solo per assurdo - il Tribunale si fosse messo col cronometro dichiarando l’insolvenza nel momento esatto in cui la revoca del fallimento diventasse definitiva, ci sarebbe comunque sul piano logico e cronologico, una soluzione di continuità con effetti dirompenti sul funzionamento del sistema. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 142 COMMENTI A SENTENZE ECONOMIA PROCESSUALE Per queste evidenti ragioni, quindi, la sentenza della Corte, al di là della ricorribilità in Cassazione, a nostro avviso era allo stato ineseguibile dal Tribunale, che, peraltro, in quella fase aveva margini interpretativi del provvedimento. Dalla lettura del sistema, congegnato in modo logico e coerente, dal legislatore del d. lgs. 270 del 1999, risulta insomma l’evidente errore di diritto della Corte e la falsa applicazione delle norme. Ci troviamo in ogni caso, ed a prescindere dalle singole norme, di fronte ad un caso in cui il legislatore non vuole soluzioni di continuità. E la ragione è facilmente immaginabile: la mancata conversione di una procedura nell’altra impedisce la naturale ed indispensabile applicazione dei medesimi effetti delle procedure. Si porrebbe altrimenti il gravissimo ed irrisolvibile problema dell’interruzione della continuità. Ad esempio, se per assurdo tra il passaggio in giudicato della sentenza di revoca e la dichiarazione di fallimento, il debitore presentasse una proposta di concordato o ricapitalizzasse per milioni di Euro, quid iuris ? Queste considerazioni fanno comprendere che la Corte d’appello ha errato anche nella prima statuizione di natura processuale in quanto i due gravami non potevano essere riuniti in un unico giudizio. Nella fattispecie l’opponente avrebbe dovuto optare per uno dei due, la revoca del fallimento se non riteneva sussistere l’insolvenza, oppure l’accertamento dei requisiti se riteneva sussistere l’insolvenza, ma sussistere anche i requisiti per l’ammissione all’amministrazione straordinaria. La Corte per l’effetto avrebbe dovuto perseguire una delle due strade, o meglio l’unica corretta, l’accertamento dell’esistenza dei requisiti con invito con decreto al curatore a depositare in cancelleria ed a trasmettere al M inistro dello Sviluppo entro trenta giorni una relazione contenente una valutazione motivata circa l’esistenza delle condizioni previste dall’articolo 27 ai fini dell’ammissione dell’impresa fallita alla procedura di 12 amministrazione straordinaria. Il tutto senza revocare il fallimento . 12 Circa i rimedi offerti dalla norma su accoglimento del reclamo, v. anche Corte appello Torino, 20 gennaio 2012, su www.ilcaso.it. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 143 FISCALITÀ IL PROFESSIONISTA DISTRATTARIO NON HA DIRITTO ALL’IVA DA PARTE DEL SOCCOMBENTE IN GIUDIZIO Con due recenti pronunce la Corte Suprema di Cassazione si è nuovamente espressa sul tema dell’obbligo di corresponsione dell’Iva esposta in parcella dal professionista distrattario che in forza della sentenza di condanna deve ottenere il rimborso delle spese e degli onorari di difesa direttamente dalla parte soccombente in giudizio ai sensi dell’art. 93 del Codice di Procedura Civile. Ai fini del tributo, la differente qualificazione soggettiva della parte vittoriosa in giudizio determina soluzioni operative che coinvolgono anche altri soggetti interessati dal procedimento in corso: il difensore con procura e il terzo soccombente. di ANDREA PESSINA 1. I di versi istituti applicabili La possibilità del difensore con procura di richiedere, in fase processuale, l’applicazione dell’istituto previsto dall’art. 93 del Codice di Procedura Civile, genera ripercussioni di tipo fiscale da tempo oggetto di numerosi interventi giurisprudenziali. Da ultimo, la sentenza n. 2474 del 21 febbraio 2012 e la successiva n. 13659 del 31 luglio 2012, entrambe emesse dalla Corte di Cassazione, confermano l’orientamento espresso dall’Amministrazione Finanziaria in tema di Iva. 1 E’ dalle previsioni contenute nel Codice di Procedura Civile che deve muoversi l’analisi delle diverse situazioni che possono verificarsi in tema di liquidazione delle spese e degli onorari dovuti al professionista (avvocato o commercialista) che rappresenta e difende il proprio cliente all’interno del giudizio in cui è risultato vincente in uno dei gradi previsti. Due sono gli articoli di interesse ivi contenuti: • l’art. 91 del C.P.C. che prevede l’obbligo del Giudice, competente per grado di giudizio, di condannare la parte soccombente, nella sentenza emananda, al rimborso delle spese e degli onorari di difesa in favore dell’altra parte, individuandone l’ammontare da liquidare; 1 Regio Decreto n. 1443 del 28 ottobre 1940. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 144 FISCALITÀ PROFESSIONISTA DISTRATTARIO • l’art. 93 del C.P.C. che concede al difensore della parte vittoriosa in giudizio la facoltà di chiedere che la sentenza di condanna emessa dal Giudice stabilisca che la corresponsione degli onorari e delle spese in suo favore avvenga direttamente dalla parte soccombente. La sentenza, in assenza di previa espressa richiesta del difensore, determina l’ammontare delle spese e degli onorari da liquidare alla parte vittoriosa a titolo di rimborso degli oneri processuali sostenuti dalla stessa, oneri che dovranno essere corrisposti dal soccombente in esecuzione dell’obbligazione di pagamento contenuta nella sentenza stessa. E’ oltremodo ricorrente l’ulteriore casistica consistente nella corresponsione delle spese e degli onorari di difesa direttamente dalla parte soccombente al difensore della controparte vittoriosa (c.d. distrazione delle spese), situazione praticabile solo su specifica richiesta del difensore vittorioso, ai sensi del citato art. 93 del C.P.C.. Il professionista può proporre, per atto scritto oppure oralmente nel corso dell’udienza, che il Giudice, nel pronunciare la condanna alle spese, le indirizzi a suo favore. E’ da rilevare che le norme sopra richiamate, seppur contenute nel comparto legislativo del Codice di Procedura Civile, trovano applicazione anche nel processo tributario, in 2 virtù dell’espresso richiamo operato dall’art. 1, comma 2 del D.Lgs. 546/1992. Tuttavia, ad oggi restano ancora poco chiare le modalità operative con cui il difensore tributario possa richiedere la distrazione delle spese in suo favore, in applicazione del citato art. 93 del C.P.C.. Volendo rappresentare sinteticamente quanto finora argomentato in merito al ventaglio di situazioni verificabili, si formulano i seguenti grafici: Il Giudice agisce d’ufficio ex art. 91 C.P.C. PARTE VITTORIOSA Emissione parcella professionale (3) Liquidazione oneri di difesa indicati in sentenza (1) PARTE SOCCOMBENTE Liquidazione onorari professionali condannati e ulteriori pattuiti (2) DIFENSORE VITTORIOSO 2 In tal senso la sentenza della Corte di Cassazione n. 22787 del 3 novembre 2011, la Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 25/E del 19 giugno 2012 e la Risoluzione n. 91/E del 24 luglio 1998. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 145 FISCALITÀ PROFESSIONISTA DISTRATTARIO Il Giudice ammette la richiesta di distrazione delle spese ex art. 93 C.P.C. PARTE SOCCOMBENTE PARTE VITTORIOSA Emissione parcella professionale (2) Liquidazione ulteriori onorari professionali pattuiti (3) DIFENSORE VITTORIOSO Liquidazione oneri di difesa individuati in sentenza (1) In entrambi i casi si possono individuare due autonomi rapporti sinallagmatici: (i) l’obbligo della parte soccombente al pagamento degli oneri di difesa (al soggetto vittorioso o direttamente al di lui difensore) in esecuzione della sentenza di condanna; (ii) l’obbligo della parte vittoriosa al pagamento degli onorari stabiliti nel disciplinare di incarico sottoscritto con il professionista per l’assistenza e la rappresentanza in giudizio. Nel caso di distrazione delle spese, l’obbligazione è riferibile ai soli compensi che il difensore vanta nei confronti del cliente vittorioso per la parte non liquidatagli dal soccombente. Il trattamento fiscale applicabile è differente, come vedremo, soprattutto in relazione alle condizioni soggettive delle parti interessate. 2. Profili operativi e trattamento fiscale L’individuazione del corretto comportamento da tenere nel caso in cui un soggetto (soccombente in giudizio, sia esso titolare di attività di impresa o privato consumatore) venga condannato al rimborso delle spese di difesa sostenute dalla parte vittoriosa, comporta non poche difficoltà operative in merito: • all’individuazione del soggetto tenuto al pagamento dell’Iva esposta dal professionista nella parcella; • all’individuazione del soggetto tenuto ad operare e versare la ritenuta d’acconto Irpef per conto del professionista; • all’individuazione del soggetto tenuto al versamento del contributo previdenziale esposto dal professionista nella parcella. In questa sede ci concentreremo sulle problematiche riscontrabili in tema di Iva, soffermandoci sui risvolti operativi causati dall’applicazione delle differenti fattispecie di condanna degli oneri processuali previsti nella sentenza emessa dal Giudice. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 146 FISCALITÀ PROFESSIONISTA DISTRATTARIO I Giudici di legittimità, prima con la sentenza n. 2474 del 21 febbraio 2012 e poi con la n. 13659 del 31 luglio 2012, si sono pronunciati cassando il seguente principio: “L’avvocato distrattario può richiedere alla parte soccombente solamente l’importo dovuto a titolo di onorario e spese processuali e non anche l’importo dell’Iva che gli sarebbe dovuta, a titolo di rivalsa, dal proprio cliente, abilitato a detrarla.”. La Cassazione pone dunque l’accento sulla soggettività passiva Iva in capo al soggetto vittorioso, dalla quale fa discendere la natura accessoria dell’Iva stessa che, il linea generale, ai sensi dell’art. 91 del C.P.C., consegue al pagamento degli onorari al difensore, stabiliti dal Giudice nella sentenza di condanna. Nella fattispecie di cui all’art. 91 del C.P.C. trovano concretezza due fasi consequenziali che ingenerano incertezze operative in ambito Iva: (i) il Giudice, agendo d’ufficio, emette la propria sentenza di condanna stabilendo l’ammontare degli oneri processuali che la parte soccombente deve rimborsare in favore della parte vittoriosa; (ii) successivamente, la parte vittoriosa, in forza dell’autonomo rapporto contrattuale instaurato con il professionista, liquida gli onorari al proprio difensore. Il punto di partenza necessario a porre chiarezza, è il principio stabilito dall’art. 21 del DPR 633/1972 il quale prescrive che l’adempimento formale correlato alla prestazione del servizio reso, riguarda l’obbligo del prestatore del servizio (nel caso di specie il difensore vittorioso) di emettere la fattura (parcella) al proprio cliente (parte vittoriosa) per l’importo dovuto a titolo di onorario con indicazione dell’Iva addebitata in via di rivalsa. Ciò detto, è da subito evincibile come in capo al soggetto vittorioso sorge l’onere del pagamento dell’Iva esposta in parcella dal professionista, essendo la medesima a carico del soggetto verso il quale è stata prestata l’attività professionale (appunto la parte vittoriosa), nel pieno rispetto della disposizione normativa di cui all’art. 18 del DPR 633/1972, che prevede l’obbligo del soggetto prestatore del servizio (imponibile Iva ovviamente) di addebitare la relativa imposta, a titolo di rivalsa, al cessionario/committente. M entre fin qui detto a nulla rileva la qualificazione soggettiva delle parti interessate (siano esse titolari o meno di partita Iva), nella prima delle due fasi sopra elencate, consistente nell’addebito delle spese di difesa dal soggetto vittorioso in giudizio al terzo soccombente, ai fini dell’inquadramento Iva assume invece notevole importanza la condizione in cui esse si trovano. Qualora, infatti, la parte vittoriosa fosse soggetto non titolare di partita Iva (operando in qualità di privato consumatore), accadrebbe che, da un lato sorgerebbe in capo alla stessa l’obbligo al pagamento dell’Iva esposta nella parcella del professionista e, dall’altro, sarebbe impossibilitata a recuperare l’Iva addebitatagli, non potendo avvalersi del meccanismo della rivalsa-detrazione previsto dall’art. 18 del più volte citato DPR 633/1972. Con la conseguenza che, in tal modo, l’Iva rappresenta a tutti gli effetti parte degli oneri processuali per i quali il soggetto IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 147 FISCALITÀ PROFESSIONISTA DISTRATTARIO vittorioso ha diritto ad ottenere il rimborso dal terzo soccombente: assume cioè la natura di “onere accessorio” strettamente correlato al concetto di oneri di difesa rifusi dal Giudice nella sentenza di condanna. Questo in quanto tra gli oneri processuali da cui deve essere tenuta indenne la parte vittoriosa, deve trovare spazio anche il rimborso dell’Iva versata, in via di rivalsa, al proprio legale, rappresentando una delle componenti 3 del costo del processo che non può ricadere sul vincitore della lite. D’altro canto, qualora la parte vittoriosa sia soggetto titolare di partita Iva, avrà diritto di portare in detrazione, nelle liquidazioni periodiche, l’Iva corrisposta al proprio difensore e, perciò, non rimanere in tal modo inciso di alcun “onere accessorio” all’onorario di difesa; l’Iva, non costituendo così una componente di costo per il soggetto vittorioso, non potrà dallo stesso essere chiesta a rimborso al terzo soccombente in esecuzione della sentenza di condanna, perché non rappresenta una spesa rimasta a suo carico. La condizione soggettiva in cui si trova la parte vittoriosa risulta pertanto determinante per la quantificazione degli oneri processuali effettivamente a carico del terzo soccombente. Per quest’ultimo, al contrario, a nulla conta che intervenga come soggetto passivo Iva o privato consumatore in quanto egli non corrisponde il tributo a titolo di rivalsa (ex. art. 18 del DPR 633/1972) ma a titolo di condanna, cioè come componente di costo di cui deve rendere indenne la controparte per effetto della sentenza; pertanto, quand’anche la parte soccombente agisse in qualità di soggetto Iva, il medesimo non potrebbe portare in detrazione l’Iva corrisposta sugli onorari di difesa individuati nella sentenza (sia che questi vengano corrisposti alla parte vittoriosa, ex art. 91 del C.P.C., sia, come vedremo, che questi vengano corrisposti direttamente al professionista, ex art. 93 del C.P.C.). Un’ulteriore situazione che potrebbe verificarsi, è quella per cui il soggetto vittorioso titolare di partita Iva non abbia diritto di richiedere al terzo soccombente la corresponsione dell’Iva sugli oneri processuali in virtù di una certa condizione in cui versa, diversa dalla qualificazione soggettiva con cui interviene. Si tratta in particolar modo della natura della vertenza oggetto del giudizio in corso, sia essa inerente all’attività (di impresa o professionale) esercitata dal soggetto vittorioso oppure totalmente estranea; invero, non è sufficiente la sola titolarità passiva Iva ma è oltremodo essenziale la qualificazione oggettiva della materia oggetto del contendere per la quale devono essere corrisposte le spese e gli onorari di difesa rifusi dal Giudice. Nel caso di totale estraneità queste le conseguenze che ne deriverebbero: 3 Cfr, tra le altre, sentenze della Cassazione n. 3025 del 25 maggio 1979 e n. 5027 del 29 maggio 1990. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 148 FISCALITÀ PROFESSIONISTA DISTRATTARIO (i) equiparazione del soggetto vittorioso (Iva) alla stregua di un privato consumatore sprovvisto di partita Iva4; (ii) diritto del soggetto vittorioso di richiedere al terzo soccombente il rimborso degli oneri processuali quantificati nella sentenza con addebito di Iva (questo perché per il vittorioso l’Iva rappresenta un costo processuale, non potendo detrarla nelle liquidazioni periodiche). Altro caso particolare da evidenziare è quello in cui il soggetto vittorioso (i) è titolare di partita Iva, (ii) la vertenza del giudizio rientra nella sua attività di impresa (o professionale) ma (iii) si trova nella situazione soggettiva di una limitazione della detraibilità dell’Iva in forza di un pro-rata di indetraibilità parziale o totale. In tale ipotesi, la quota di Iva che non può essere detratta dalla parte vittoriosa costituirà per lei un costo, di talché per la predetta quota avrà diritto ad ottenere il rimborso dalla parte soccombente. Art. 91 C.P.C. Parte vittoriosa Soggetto non titolare di partita Iva Soggetto titolare di partita Iva (giudizio inerente all’attività dallo stesso esercitata) Soggetto titolare di partita Iva (giudizio non inerente all’attività dallo stesso esercitata) Soggetto titolare di partita Iva (pro-rata di indetraibilità Iva parzial e o totale) Parte soccombente Soggetto titolare/non titolare di partita Iva Soggetto titolare/non titolare di partita Iva Oneri di difesa condannati Onorari e spese individuati nella sentenza con addebito di Iva. Onorari e spese individuati nella sentenza sen za addebito di Iva. Soggetto titolare/non titolare Onorari e spese individuati nella di partita Iva sentenza con addebito di Iva. Soggetto titolare/non titolare Onorari e spese individuati nella di partita Iva sentenza con addebito di Iva (totale o parziale 5 ) Restando fermo quanto detto fino ad ora, è del tutto evidente che al professionista rimanga comunque la facoltà di rivalersi nei confronti del proprio cliente allo scopo di 4 5 Infatti, come noto, il comma 1 dell’art. 19 del DPR 633/1972 prescrive che “[…] è detraibile dall’ammontare dell’imposta relativa alle operazioni effettuate, quello dell’imposta assolta o dovuta dal soggetto passivo o a lui addebitata a titolo di rivalsa in relazione ai beni ed ai servizi importati o acquistati nell’esercizio dell’impresa, arte o professione […]”. Operativamente possono presentarsi difficoltà nell’individuazione della quota non detratta dalla parte vittoriosa in virtù della natura provvisoria del pro-rata annuale, che trova la sua definizione solo alla fine dell’esercizio fiscale. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 149 FISCALITÀ PROFESSIONISTA DISTRATTARIO ottenere il pagamento della parte di onorario (a lui spettante in forza degli accordi contrattuali intercorsi con il cliente stesso) eccedente la somma liquidata dal Giudice. 6 Al fine di meglio comprendere dal punto di vista operativo gli adempimenti di carattere documentale e finanziario, rappresentiamo di seguito alcune 7 esemplificazioni : Cliente vittorioso titolare di partita Iva Parcella del professionista Onorario Spese anticipate € 3.000 € 250 Cassa previdenza 4% Iva 21% Totale parziale Ritenuta d’acconto 20% Totale parcella € 120 € 655 € 4.025 (€ 600) € 3.425 Parte vittoriosa: corrisponde € 3.425 al professionista, € 600 all’Erario a titolo di ritenuta d’acconto, detrae l’Iva di € 655 e successivamente ottiene il rimborso di € 3.370 dalla parte soccombente (€ 3.425 + € 600 – € 655 – € 3.370 = 0); Parte soccombente: corrisponde € 3.370 alla parte vittoriosa (€ 3.000 + € 250 + € 120). Cliente vittorioso non titolare di partita Iva ovvero titolare di partita Iva ma non inerente Parcella del professionista Onorario Spese anticipate Cassa previdenza 4% Iva 21% Totale parcella € 3.000 € 250 € 120 € 655 € 4.025 Parte vittoriosa: corrisponde € 4.025 al professionista e successivamente ottiene integrale rimborso dal terzo soccombente (€ 4.025 - € 4.025 = 0); 6 7 Cfr sentenza della Corte di Cassazione n. 9097 del 7 luglio 2000. Come anticipato, in questa sede non viene trattato l’argomento relativo all’individuazione del soggetto tenuto al versamento della ritenuta d’acconto Irpef e della Cassa professionale di appartenenza del difensore; per correttezza espositiva, nelle esemplificazioni proposte vengono evidenziate sia le ritenute che la Cassa di previdenza. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 150 FISCALITÀ PROFESSIONISTA DISTRATTARIO Parte soccombente: corrisponde € 4.025 alla parte vittoriosa. M aggiori problematiche sono riscontrabili nell’applicazione dell’istituto della distrazione delle spese previsto dall’art. 93 del C.P.C., dove vengono ad esistere le seguenti fasi consequenziali: (i) il Giudice, a fronte di specifica richiesta del difensore della parte vittoriosa, emette la propria sentenza di condanna stabilendo che gli oneri processuali siano rimborsati, dalla parte soccombente, direttamente in favore del difensore di controparte; (ii) il terzo soccombente liquida al difensore gli oneri di difesa rifusigli; (iii) la parte vittoriosa, in forza dell’autonomo rapporto contrattuale instaurato con il professionista, liquida gli eventuali ulteriori onorari al proprio difensore, in esecuzione dell’incarico a lui conferito. E’ su questa fattispecie dell’art. 93 del C.P.C. che la Suprema Corte si è pronunciata 8 con le citate sentenze n. 2474 del 21 febbraio 2012 e n. 13659 del 31 luglio 2012 , mostrandosi in linea anche con quanto sostenuto dall’Amministrazione finanziaria nella Circolare n. 203/E del 6 dicembre 1994 e nella Risoluzione n. 91/E del 24 luglio 1998. Il primo importante aspetto da cui deve partire l’analisi è, anche qui, l’obbligo del professionista di emettere la parcella nei confronti del cliente da lui incaricato a difenderlo in giudizio; la parte vittoriosa. Come già argomentato nelle considerazioni fatte per la fattispecie di cui all’art. 91 del C.P.C., la prestazione del servizio viene resa dal difensore nei confronti del proprio committente soggetto vittorioso e pertanto unico legittimato a ricevere la parcella; l’art. 18 del DPR 633/1972, al comma 1, prescrive, a tal proposito, che “Il soggetto che effettua la cessione o prestazione di servizi imponibile deve addebitare la relativa imposta, a titolo di rivalsa, al cessionario o al committente.” Nulla viene detto in merito all’individuazione del soggetto che effettua il pagamento del servizio, motivo per cui la regolamentazione finanziaria non inficia in alcun modo sull’individuazione del soggetto destinatario delle fatture emesse. Sul punto, la Corte di Cassazione si è espressa con la sentenza n. 440 del 19 gennaio 1981 affermando che “nel sistema della legge sull’Iva, in tutte le ipotesi in cui il committente non si identifichi con il soggetto che materialmente estingue il credito del prestatore di servizi imponibili o con l’utente o beneficiario del servizio, è sempre al primo che occorre far capo per individuare il soggetto passivo”. Al riguardo, l’Amministrazione finanziaria, nel confermare che l’intervento del terzo “pagatore” non muta in alcun modo gli obblighi documentali e soprattutto i relativi 8 T uttavia i principi ivi contenuti trovano applicazione anche al verificarsi della situazione in cui all’art. 91 del C.P.C., nella fattispecie in cui il soggetto vittorioso interviene come soggetto titolare di partita Iva, con possibilità di detrazione dell’Iva stessa. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 151 FISCALITÀ PROFESSIONISTA DISTRATTARIO destinatari degli stessi, con la citata Circolare n. 6/1994, ha diramato opportune istruzioni operative da seguire per garantire la totale correttezza e trasparenza dell’operazione. Viene previsto l’onere in capo al professionista di esporre in parcella apposita dicitura ad evidenza che il pagamento (dell’onorario e dell’Iva o solo dell’Iva) è avvenuto dalla controparte (soccombente), per effetto del provvedimento di 9 distrazione delle spese contenuto nella sentenza di condanna emessa da Giudice . Cosa può accadere precisamente: • il terzo soccombente paga onorari e Iva: parte vittoriosa non titolare di partita Iva; • il terzo soccombente paga solo onorari e la parte vittoriosa (titolare di partita Iva) paga solo Iva. Sempre in tema di distrazione delle spese, è rilevante precisare che l’Avvocatura dello Stato, con il parere n. 4332 del 5 ottobre 1992, ha confermato che il difensore distrattario deve addebitare l’Iva solo nei confronti del proprio cliente, atteso che l’obbligo di adempimento degli oneri di difesa per il soggetto soccombente trova titolo esclusivamente nella statuizione di condanna contenuta nella sentenza, anche in assenza di espressa pronuncia in ordine al tributo. Nonostante sia pacifico che la palesata discrasia tra la figura del soggetto destinatario della parcella e colui che effettivamente estingue il debito, tipica dell’istituto della distrazione delle spese di cui all’art. 93 del C.P.C., non sia ostativa degli obblighi imposti dall’art. 18 del DPR 633/1972, tale fattispecie provoca dubbi operativi in merito a quale sia il reale onere che deve rimanere in capo al terzo soccombente in qualità di obbligato a rimborsare il costo sostenuto dal soggetto vittorioso. Ritorna con ciò ad essere rilevante la qualificazione soggettiva della parte vittoriosa: Art. 93 C.P.C. Parte vittoriosa Soggetto non titolare di partita Iva Soggetto titolare di partita Iva (giudizio inerente all’attività dallo stesso esercitata) Soggetto titolare di partita Iva (giudizio non inerente all’attività dallo stesso esercitata) 9 Parte soccombente Esborso finanziario parte vittoriosa Soggetto titolare/non Nullo titolare di partita Iva Soggetto titolare/non titolare di partita Iva Corrisponde solo Iva al difensore Soggetto titolare/non titolare di partita Iva Nullo Esborso finanziario parte soccombente Corrisponde onorari e Iva al difensore Corrisponde solo onorari al di fensore (no Iva) Corrisponde onorari e Iva al difensore In tal senso anche la Cassazione con la sentenza n. 3544 del 12 giugno 1982. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 152 FISCALITÀ PROFESSIONISTA DISTRATTARIO Soggetto titolare di partita Iva (pro-rata di indetraibilità Iva parzial e o totale) Soggetto titolare/non titolare di partita Iva Corrisponde solo Iva (parziale, non detratta dal vittorioso) al difensore Corrisponde onorari e Iva (totale o parzial e10 , a seconda della % di detraibilità del vittorioso) al difensore Riprendendo le esemplificazioni proposte in precedenza si verificano le seguenti situazioni: Distrazione delle spese - cliente vittorioso titolare di partita Iva Parcella del professionista Onorario Spese anticipate Cassa previdenza 4% Iva 21% Totale parziale Ritenuta d’acconto 20% Totale parcella € 3.000 € 250 € 120 € 655 € 4.025 (€ 600) € 3.425 Parte vittoriosa: corrisponde € 655 al professionista, detrae l’Iva di € 655 (€ 655 - € 655 = 0); Parte soccombente: corrisponde € 3.370 al professionista, € 600 all’Erario a titolo di ritenuta d’acconto (€ 3.000 + € 250 + € 120 + € 600 = € 3.970); Distrazione delle spese - cliente vittorioso non titolare di partita Iva ovvero titolare di partita Iva ma non inerente Parcella del professionista Onorario Spese anticipate Cassa previdenza 4% Iva 21% Totale parziale Ritenuta d’acconto 20% Totale parcella 10 € 3.000 € 250 € 120 € 655 € 4.025 (€ 600) € 3.425 Operativamente si possono presentare difficoltà nell’individuazione della quota non detratta dalla parte vittoriosa in virtù della natura provvisoria del pro-rata annuale, che trova la sua definizione solo alla fine dell’esercizio fiscale. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 153 FISCALITÀ PROFESSIONISTA DISTRATTARIO Parte vittoriosa: non effettua nessun pagamento; Parte soccombente: corrisponde € 3.425 al professionista, € 600 all’Erario a titolo di ritenuta d’acconto (€ 3.425 + € 600 = € 4.025) Anche nella casistica in esame vale la stessa facoltà in capo al professionista di rivalersi nei confronti del proprio cliente allo scopo di ottenere il pagamento della parte di onorario (a lui spettante in forza degli accordi contrattuali intercorsi con il cliente stesso) eccedente la somma liquidata dal Giudice e a lui corrisposta dalla parte soccombente. 3. La recente giurisprudenza Il principio espresso dai Giudici di legittimità nella sentenza n. 2474 del 21 febbraio 2012 (richiamato successivamente dalla sentenza n. 13659 del 31 luglio 2012) non presenta particolari profili di novità rispetto alle precedenti pronunce della Cassazione11, piuttosto rafforza il presupposto che “[…] la addebitabilità di una spesa al debitore […]” è ammessa “[…] solo se sussista il costo corrispondente e non anche qualora detto costo venga normalmente recuperato.” Il tenore letterale del suddetto principio comporta l’immediato richiamo all’istituto della rivalsa dell’Iva, linea guida di tutto il sistema Iva e in stretta correlazione con il diritto alla detrazione dell’imposta stessa, esercitabile dal soggetto che acquista i beni o i servizi operando nell’esercizio di impresa (arte o professione). Va da sé che esiste una stringente simmetria tra rivalsa e detrazione del tributo che, se non rispettata, genera un’alterazione dell’equilibrio tra i soggetti economici interessati; è di questa alterazione a cui fanno riferimento i Giudici, rappresentando che è fondato principio informatore il diritto di gravare il debitore del costo dell’Iva solamente quand’anche per il creditore l’Iva stessa costituisca una componente di costo, in virtù di condizioni soggettive a lui proprie che ne caratterizzano la detraibilità. Altro principio confermato dalla Cassazione nelle sentenze in oggetto è che non può “[…] essere considerata legittima una locupletazione da parte di un soggetto abilitato a conseguire due volte la medesima somma di denaro.” Si tratta del professionista distrattario che percependo l’Iva sia dal terzo soccombente (in forza della rifusione degli oneri di difesa nella sentenza di condanna), sia dal cliente vittorioso (qualora quest’ultimo sia soggetto titolare di partita Iva), verrebbe a godere di un ingiustificato beneficio fiscale. L’illegittimità deve essere pertanto evitata, a detta dei giudici, avendo il difensore il solo diritto di richiedere al soccombente l’importo di quanto 11 Cfr., tra le altre, sentenze n. 3843/95, n. 10023/97 e n. 1688/10. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 154 FISCALITÀ PROFESSIONISTA DISTRATTARIO dovutogli a titolo di onorario e spese processuali e non anche di Iva, essendo l’imposta dovuta per rivalsa dal proprio cliente. Ipotesi a) (operativamente non corretta) Sentenza di condanna con distrazione delle spese ex. art. 93 C.P.C. P ARTE SOCCOMBENTE Liquida onorari, spese e Iva DIFENSORE VITTORIOSO Emette parcella P ARTE VITTORIOSA Liquida solo Iva Il difensore incasserebbe così l’Iva sia dal cliente vittorioso (titolare di partita Iva) che dal terzo soccombente: fattispecie condivisibilmente ritenuta non praticabile dalla Cassazione. Ipotesi b) (operativamente corretta) IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 155 FISCALITÀ PROFESSIONISTA DISTRATTARIO Sentenza di condanna con distrazione delle spese ex. art. 93 C.P.C. P ARTE SOCCOMBENTE Liquida solo onorari e spese DIFENSORE VITTORIOSO Emette parcella P ARTE VITTORIOSA Liquida solo Iva Così facendo, la parte soccombente non rimane incisa dell’Iva per la quale il vittorioso ha il diritto alla detrazione e il difensore, con specifica annotazione in parcella sulla regolamentazione finanziaria, incassa l’Iva dal vittorioso in via di rivalsa. 4. Conclusioni Le pronunce giurisprudenziali susseguitesi nel tempo ed il condiviso orientamento dell’Amministrazione finanziaria, riconducono inevitabilmente ad una distinzione fra obbligazione di natura tributaria ed obbligazione di natura processuale, fra credito tributario e credito da condanna. Invero, in capo ai soggetti interessati sorgono due distinti diritti: • il diritto di credito di origine tributaria vantato dal difensore nei confronti del cliente vittorioso per l'ammontare dell'Iva esposta in parcella; • il diritto di credito di origine processuale vantato dal cliente vincitore nei confronti della parte soccombente, per lo stesso importo dell’Iva. Nel momento in cui il soccombente effettua il pagamento degli oneri di difesa rifusigli dal Giudice, preliminarmente adempie all’obbligazione processuale che trova fonte nella condanna e, indirettamente, all’obbligazione tributaria del cliente vincitore che trova fonte nella rivalsa. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 156 SEGNALAZIONI DIRITTO COMMERCIALE SEGNALAZIONI DI DIRITTO COMMERCIALE NO RMATIVA L. 31 dicembre 2012, n. 247 – Dal 2 febbraio 2013 entra in vigore la nuova disciplina dell’ordinamento forense, che, tra le altre innovazioni, permette la possibilità di esercitare la professione di avvocato sia in forma individuale sia tramite associazioni (art. 4), delegando inoltre il Governo a disciplinare la società tra avvocati, la quale può essere una società di persone o di capitali, nonché una società cooperativa (art. 5). La L. 31 dicembre 2012, n. 247 è stata pubblicata su Gazzetta ufficiale del 18 gennaio 2013, n. 15. GIURISPRUDENZA Relazione ex art. 182 quinquies L.F. – Il Tribunale di Terni ritiene si possa autorizzare, in pendenza del termine posto ex art. 161, 6° co., L.F., la società debitrice a contrarre finanziamenti ai sensi dell’art. 182 quinquies, 1° co., L.F. I Giudici, inoltre, hanno stabilito che nonostante non vi sia espressa indicazione in quest’ultima disposizione, “l’attestazione della veridicità dei dati aziendali costituisce un passaggio implicito ed imprescindibile dell’attestazione richiesta [dalla norma, n.d.r.], la quale risulterebbe altrimenti viziata, a monte, da un difetto di attendibilità tale da inficiare qualsivoglia – per quanto ineccepibile – argomentazione logica e tecnica di supporto alle conclusioni rassegnate”. Con riferimento all’attestazione in parola, il Collegio rileva che “l’aspetto, fondamentale, della funzionalità dei finanziamenti alla migliore soddisfazione dei creditori, non può limitarsi ad una generica dichiarazione che una «liquidazione per stralcio dei beni» successiva alla cessazione dell’attività […] determinerebbe “«una indubbia riduzione del valore di trasferimento dell’azienda» […] non tanto perché si abbia fondato motivo di dubitarne […] ma perché, oltre ad una più circostanziata indagine comparativa, idonea a proporre una adeguata proiezione, anche numerica, degli scenari praticabili, ciò che occorre soprattutto attestare è che, nella prospettiva alternativa a quella voluta dal debitore, i creditori riceverebbero una soddisfazione inferiore; ma, per far ciò, l’attestatore deve ovviamente considerare anIL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 157 SEGNALAZIONI DIRITTO COMMERCIALE che il peso finanziario della prededuz ione spettante agli istituti di credito, specie a fronte di erogazioni di tanto elevato importo, che potrebbero in ipotesi precludere o ridurre grandemente la soddisfazione degli altri creditori, magari più di quanto non avverrebbe con una ordinaria cessione liquidatoria”. Il decreto del Tribunale di Terni del 14 gennaio 2013 è reperibile sul sito www.ilcaso.it. Azione revocatoria fallimentare – Il Tribunale di Salerno ha precisato che non ricorre la “dispensa dalla revocatoria per essere avvenuti i pagamenti revocabili in termini d’uso” qualora si tratti, come nel caso di specie, di “pagamenti palesemente preferenziali (idonei a configurare, addirittura, ipotesi di reato)” e “sicuramente non volti meramente a rafforzare la fiducia del fornitore nell’impresa debitrice, secondo la ratio dell’esenzione” prevista dall’art. 67, 3° co., lett. a), L.F. La sentenza del Tribunale di Salerno del 14 gennaio 2013 è disponibile sul sito www.ilcaso.it. Concordato preventivo – Le Sezioni Unite si sono espresse su alcuni profili concernenti la procedura di concordato preventivo. Tra le altre statuizioni, i Giudici di legittimità hanno chiarito “il perimetro di intervento assegnato al giudice al fine di stabilire se sia stato o meno soddisfatto il requisito di fattibilità del piano” previsto dall’art. 161 L.F. Sul punto, le Sezioni Unite hanno stabilito che “certamente il controllo del giudice non è di secondo grado, destinato cioè a realizzarsi soltanto sulla completezza e congruità logica dell’attestato del professionista”, osservando che “non è dubbio che spetti al giudice verificare la fattibilità giuridica del concordato e quindi esprimere un giudizio negativo in ordine all’ammissibilità quando modalità attuative risultino incompatibili con norme inderogabili”, così come è di sua competenza “una delibazione in ordine alla correttezza delle argomentazioni svolte e delle motivazioni addotte dal professionista a sostegno del formulato giudizio di fattibilità del piano”, nonché sulla “coerenza complessiva delle conclusioni finali prospettate”. Viceversa, esula dal controllo del giudice “un sindacato sull’aspetto pratico-economico della proposta, e quindi sulla correttezza della indicazione della misura di soddisfacimento percentuale offerta dal debitore ai creditori”. La sentenza delle Sezioni Unite Civili del 23 gennaio 2013, n. 1521, è integralmente consultabile sul sito www.ilcaso.it. False comunicazioni sociali – La Corte di Cassazione ha stabilito che al fine di integrare il reato di false comunicazioni sociali occorre siano superate tutte le soglie di punibilità previste dall’art. 2621 c.c. Nondimeno, qualora il giudice attesti “la non pertinenza di una o più delle soglie al caso concreto” si rende “sufficiente, per la punibilità, la prova del superamento anche di una soltanto delle soglie”. Corte di Cassazione penale, 22 gennaio 2013, n. 3229. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 158 SEGNALAZIONI DIRITTO COMMERCIALE Distrazione dell’avviamento – La Suprema Corte è intervenuta sulla configurabilità del reato di bancarotta fraudolenta per distrazione dell’avviamento commerciale di un’azienda, precisando che “in quanto autonoma componente del valore dell’azienda, dunque, l’avviamento presenta una indubbia natura patrimoniale ed è suscettibile di quantificazione economica, ma non per questo può costituire oggetto di autonoma disposizione, risultando inscindibile dall’azienda medesima”. Tuttavia, aggiunge la Corte, è “ipotizzabile l’intenzionale dispersione da parte dell’imprenditore dell’avviamento commerciale anche in assenza di alienazione od eterodestinazione dei beni aziendali. E la mancata conservazione dell’avviamento costituisce certamente una lesione della garanzia patrimoniale, frustrando l’interesse del ceto creditorio alla potenziale realizzazione di quel plusvalore impresso dal medesimo all’azienda all’atto della liquidazione dell’attivo fallimentare”. Corte di Cassazione penale, 24 gennaio 2013, n. 3817. IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 159 SEGNALAZIONI DIRITTO TRIBUTARIO SEGNALAZIONI DI DIRITTO TRIBUTARIO INDICAZIONI INTERPRETATIVE E APPLICATIVE Consulenza giuridica – Imposta di registro Le operazioni inventariali di apertura delle cassette di sicurezza devono essere assolte da un funzionario dell’Amministrazione finanziaria o da un notaio, entrambi tenuti alla redazione di un verbale di inventario. Detto documento concretizza un atto pubblico e in quanto tale sarebbe soggetto a registrazione in termine fisso. Tuttavia, nell’ipotesi di specie, il verbale redatto in caso di apertura di una cassetta di sicurezza è previsto da disposizioni tributarie ed ha la precipua finalità di assolvere una funzione di natura fiscale consistente nella certificazione dell’esatta individuazione delle cose mobili o dei valori contenuti nella cassetta e quindi l’applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni. Tenuto conto che gli effetti giuridici dell’atto redatto dal notaio o dal funzionario dell’amministrazione fiscale rilevano nell’ambito di un procedimento finalizzato alla corretta applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni, deve ritenersi che, nel caso in esame, per il verbale de quo non vi è obbligo di chiedere la registrazione. (Agenzia delle entrate risoluzione 24 gennaio 2013 n. 2/E) Fatturazione – Chiarimenti in materia di numerazione A decorrere dal 1° gennaio 2013, per la fatturazione può essere adottata una numerazione progressiva che, partendo dal numero 1, prosegua ininterrottamente per tutti gli anni solari di attività del contribuente, fino alla cessazione dell’attività stessa. Questa tipologia di numerazione progressiva è, di per sé, idonea ad identificare in modo univoco la fattura, in cons iderazione della irripetibilità del numero di volta in volta attribuito al documento fiscale. (Agenzia delle entrate, risoluzione 10 gennaio 2013, n. 1/E) G IURISPRUDENZA Redditometro: è una presunzione semplice Il redditometro è da inquadrare tra le presunzioni semplici, per cui non viene invertito l’onere probatorio nei confronti del contribuente. (Corte di Cassazione, sentenza n. 23554 del 20 dicembre 2012 ) IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 160 SEGNALAZIONI DIRITTO TRIBUTARIO Due imposte scaturenti da un solo PVC: le rispettive liti e pronunce restano indipendenti. La sentenza passata in giudicato, con la quale si annulla la pretesa del Fisco in materia di IVA, non produce automaticamente i suoi effetti nel giudizio concernente le imposte dirette, anche se i diversi avvisi di accertamento, notificati allo stesso contribuente, riguardano il medesimo periodo d’imposta e scaturiscono dal medesimo PVC. (Corte di Cassazione, sentenza n. 21781) Contenzioso: le dichiarazioni del terzo hanno un semplice valore indiziario A parere dei giudici della Suprema Corte, nel processo tributario, le dichiarazioni del terzo, acquisite dalla G.d.F. e trasfuse a loro volta nel PVC hanno valore indiziario, concorrendo a formare il convincimento del giudice. Il tutto, dà luogo a presunzioni semplici, generalmente ammissibili nel processo tributario, nonostante il divieto di prova testimoniale. (Corte di Cassazione, sentenza n. 21803 del 5 dicembre 2012) Accertamento: legittimo in casi di gravi anomalie tra costi e ricavi La suprema Corte di Cassazione ha stabilito che è legittimo l’accertamento induttivo nei confronti della s.r.l. che presenta per anni bilanci in perdita ma ha un ottimo andamento aziendale, suffragato dalla consistenza degli acquisti delle merci destinate alla rivendita o dagli oneri sostenuti per il personale dipendente. (Corte di Cassazione, sentenza n. 21810 del 5 dicembre 2012) Cooperative: legittimo l’induttivo se mancano le distinte inventariali E’ legittimo l’accertamento induttivo nei confronti di società cooperative con contabilità inattendibile, a causa della mancata esibizione al Fisco delle distinte inventariali. Il carattere mutualistico delle stesse società, non prevede speciali limitazioni presuntive in caso di accertamento, né tanto meno, autorizza l’applicazione di ricarichi inferiori rispetto al valore di mercato. (Corte di Cassazione, sentenza n. 21785 del 5 dicembre 2012) Accertamento: nel caso di s.r.l. unipersonale, sono del socio gli extrautili accertati L’accertamento a carico di una s.r.l. a socio unico, divenuto definitivo a causa della mancata impugnazione, pregiudica l’esito del giudizio pendente nei confronti del socio, a cui vengono imputati i redditi accertati dal Fisco alla società. Il socio dunque non può contestare il merito della pretesa erariale relativa alla società; inoltre, non può nemmeno lamentare che, l’avviso notificatogli, non abbia in allegato l’avviso redatto a carico della stessa società di cui egli è il solo rappresentante. (Corte di Cassazione, sentenza n. 441 del 10 gennaio 2013) IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 161 INFORMAZIONE CONVEGNI 8 febbraio 2013 dalle 14:00 - Circolo dei lettori - Via Bogino, 9 – Torino I Love Trademarks. Il marchio tra diritto ed economia IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 162 INFORMAZIONE CONVEGNI 14 febbraio 2013 dalle 10:00 alle 13:00 Le ristrutturazioni aziendali come strumento per tornare al valore Università Commerciale Luigi Bocconi Aula Magna via Gobbi, 5 - Milano Programma 15 febbraio 2013 dalle 09:00 alle 17:30 Selected Topics on Corporate Income Taxpayers Università Commerciale Luigi Bocconi Room N06, Piazza Sraffa, 13 - Milano Programma IL N UOVO D IRITTO DELLE SOCIETÀ – N. 3/2013 163 MODALITÀ DI ABBONAMENTO La rivista Il Nuovo Diritto delle Società viene distrubuita previa sottoscrizione di un abbonamento annuale, che comprende 24 numeri al costo di 120,00 euro. 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NORMATIVA, GIURISPRUDENZA, DOTTRINA E PRASSI IL NUOVO DIRITTO DELLE SOCIETÀ ItaliaOggi ItaliaOggi Editori - Erinne srl – Via Marco Burigozzo 5 – 20122 Milano Telefono 02/58219.1 – Telefax 02/58317598 – email: [email protected] Direttore responsabile ed editore Paolo Panerai (02/58219209) Tariffe abbonamenti: euro 120, 00 (abbonamento annuale 24 numeri) Per la sottoscrizione di nuovi abbonamenti telefonare al numero verde 800-822195 oppure inviare un fax al numero verde 800822196 allegando, oltre alla richiesta di abbonamento con i propri dati anagrafici, fotocopia dell’assegno non trasferi bile intestato a: ItaliaOggi Editori - Erinne srl – via Marco Burigozzo 5 - 20122 Milano, oppure fotocopia del bonific o bancario intestato a Banca Popolare di Milano, agenzia 500, via M azzini 9/11 Milano – IBAN IT58N0558401700000000047380 Distribuzione: ItaliaOggi Editori - Erinne srl – via Marco Burigozzo 5 – 20122 Milano, numero verde 800-822195. Vendita esclusiva per abbonamento. 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