1. Fondamenti teorici della psicologia clinica

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1. Fondamenti teorici della psicologia clinica
1. Fondamenti teorici
della psicologia clinica
Definire
che cosa si intenda per psicologia clinica non è compito facile in
quanto essa è una materia poliedrica e relativamente recente, anche
se istituzionalmente riconosciuta. Nei corsi di laurea in Psicologia,
infatti, è contemplato l’indirizzo di Psicologia clinica e di comunità; per gli studi post lauream sono attivate scuole di specializzazione
in Psicologia clinica e Psicoterapia; gli psicologi italiani (e non solo
italiani) si riconoscono in gran parte come psicologi clinici ed esiste
di fatto una Società di psicologia clinica e psicoterapia; inoltre per
anni si è pubblicata regolarmente una “Rivista di Psicologia Clinica” e attualmente è in pubblicazione la “Rivista di Psicologia Clinica dello Sviluppo”. Eppure le definizioni presenti nei manuali sono
spesso generiche o parziali o generiche e parziali insieme, tanto che
ci si trova di fronte a un paradosso: di fatto si sa che cos’è la psicologia clinica ma non si sa come dirlo. La materia spazia infatti dalla
psicologia dinamica alla psicologia della personalità, alla psicologia
differenziale, alla psicologia evolutiva, alla psicologia sociale, alla
psicopatologia e psichiatria, alla medicina psicosomatica, alla psicometria, alla neuropsicologia, alla psicofisiologia, alla psicofarmacologia, alla metodologia ed epistemologia della ricerca; dalla descrizione degli interventi (la clinica psicologica) alle tecniche di intervento, alla loro giustificazione teorica, alla valutazione della loro efficacia, alla spiegazione dei problemi che gli interventi mirano a risolvere.
La psicologia clinica, infatti, è una branca disciplinare che trae la
sua origine da contributi provenienti dalla psicologia e dalla medicina; in particolare, per quanto riguarda la prima, dalla psicologia
differenziale (che si occupa dello studio delle caratteristiche e delle
differenze individuali) e sperimentale (che ha avviato lo studio delle
funzioni psichiche in maniera rigorosamente scientifica), e per
quanto riguarda la seconda, dalla psichiatria (a cui va fatta risalire la
1.1. Verso una definizione della psicologia clinica
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prospettiva psicodinamica, parte importante e feconda della psicologia clinica) e dalla fisiologia. Se da un lato la cultura medica e
quella psicologica costituiscono le matrici storiche e scientifiche
della disciplina, indicandone le competenze professionali e le aree
di intervento, la psicologia clinica sta cercando il suo statuto autonomo con una sua delimitazione, una sua metodologia e un suo dominio di applicazione ancora in via di definizione.
Nel testo curato da Trombini Introduzione alla clinica psicologica
l’intervento di Rossi reca una prima definizione dei termini “psicologia” e “clinica”. “Psicologia” è la scienza del comportamento
umano. In genere il termine è accompagnato da un aggettivo che
circoscrive l’oggetto di studio (ad esempio: psicologia dell’età evolutiva) o l’approccio metodologico d’elezione (psicologia sperimentale). “Clinico” è un aggettivo che esprime l’essenza stessa dell’operare medico direttamente a contatto con il malato. Si riferisce alla
sofferenza, a chi se ne fa carico, al luogo di cura e alla cura stessa,
alla scienza che se ne occupa, di cui esprime allo stesso tempo la dimensione applicativa e l’approccio metodologico. Secondo Rossi,
la psicologia clinica è la disciplina che fornisce alla figura professionale dello psicologo le competenze e conoscenze psicologiche che
gli permettono di affrontare i problemi di adattamento e i disturbi
del comportamento nell’ottica della ricerca, della prevenzione e della
valutazione psicodiagnostica, al fine di progettare un intervento che
sia psicoterapeutico. Essa costituirebbe la dimensione applicativa di
tipo clinico (la psicologia può avere altri versanti applicativi nel
campo del lavoro, dell’educazione ecc.) della scienza psicologica,
comprendendo competenze professionali, metodi di ricerca, strumenti di indagine, tecniche di intervento.
Le definizioni proposte di psicologia clinica concordano tutte nell’attribuire un carattere applicativo alla disciplina, ma tale attribuzione non può essere data per scontata. Può essere utile a tal fine rilevare alcune distinzioni e precisarne eventuali limiti:
• la “psicologia clinica” non è solo “clinica psicologica”;
• la “psicologia clinica” non si identifica solamente con la “psicoterapia”;
• la “psicologia clinica” è diversa dalla “psichiatria”.
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Per quanto riguarda il primo punto: la psicologia clinica non è solo
clinica psicologica, Battacchi e Codispoti, nel testo Psicologia clinica:
modelli, metodi, trattamenti, precisano che così come il medico, nel
suo intervento, possiede un sapere biologico, farmacologico, metodologico generale (conoscenze sulla morfologia, struttura e organizzazione funzionale del corpo, leggi fisiologiche, biochimiche, procedure e strumenti di diagnosi, regolarità di quadri sindromici
ecc.), anche lo psicologo clinico fa riferimento a un sapere specifico: nozioni di psicologia generale, di psicodinamica, di psicologia
differenziale, strumenti diagnostici validati, tecniche di intervento,
dati delle ricerche sull’efficacia dei tipi di intervento ecc. Un conto
è la clinica psicologica e un conto è la psicologia clinica. Se con clinica psicologica si intende l’insieme delle procedure e degli strumenti che lo psicologo clinico utilizza nei suoi interventi di tipo
psicodiagnostico e psicoterapeutico nei confronti dei “casi individuali”, la psicologia clinica, come assetto teorico, include anche gli
aspetti generali. Questa distinzione ne richiama una seconda, sempre molto controversa in campo psicologico, tra gli attributi “generale” e “applicato” e tra scienze nomotetiche (teoriche, finalizzate
alla ricerca delle regole generali) da un lato e idiografiche (storiche,
finalizzate alla ricerca della spiegazione dei fatti accaduti) dall’altro.
Già Bosinelli nel libro Metodi in psicologia clinica, del 1982, aveva
rilevato che pur essendo diretta per definizione al particolare, l’attività clinica non poteva prescindere da una nomotetica, cioè dall’insieme di regole della patologia, e in particolar modo dall’universo
dei quadri sindromici, le malattie. Secondo l’autore, il clinico, in
rapporto ad esse, dovrà esercitare compiti di interpretazione (dei
sintomi), di confronto (diagnosi differenziale) e di riconoscimento.
Dovrà inoltre lavorare sul caso (approccio idiografico) con un sistema generale di riferimento (nomotetico), in modo da integrare la
dimensione nosografico-descrittiva (cioè classificatoria dei disturbi
mentali) con quella dinamico-strutturale.
La clinica psicologica non si identifica solamente con la psicoterapia (e
qui passiamo al secondo punto). Tale identificazione, oltre a essere
riduttiva è anche in parte fuorviante, in quanto limita alla psicoterapia i possibili rimedi da adottare nei confronti del disagio psichi9
co (cosa ben lontana dalla pratica operativa dello psicologo clinico,
soprattutto in campo istituzionale), ma soprattutto occulta l’essenziale scopo diagnostico della psicologia clinica. Le competenze dello psicologo clinico sono di tipo psicodiagnostico, psicoterapeutico –
se con tale termine si intende la terapia con mezzi psichici di tutti i
disturbi trattabili in tal modo – e preventivo.
Il processo diagnostico, o “valutazione clinica”, è composto da un
momento descrittivo in cui i sintomi presentati dal paziente vengono rilevati, differenziati e raccolti in entità patologiche o sindromi
(diagnosi nosografico-descrittiva), e un momento di “ricerca di significato”, in cui la domanda diventa: “che cosa vuole dire, che
cosa significa questo comportamento?, che senso ha nell’adattamento emotivo, intrapsichico e relazionale del soggetto?”, nel tentativo di inserire il sintomo all’interno della vita del soggetto, nella
sua storia personale (diagnosi storico-motivazionale).
La psicoterapia, in quanto intervento attivo volto a modificare
una condizione psicologica, costituisce il momento finale dell’operare clinico, di cui la valutazione diagnostica rappresenta il momento conoscitivo preliminare, necessario per orientarlo in maniera corretta.
L’orientamento preventivo ha un suo campo d’azione privilegiato,
proprie modalità e strategie di intervento, sue finalità prioritarie.
L’attenzione viene posta sulle condizioni sia interne che esterne all’individuo rilevate come cause di disadattamento, individuando e
modificando le condizioni di vita (ambiente fisico, sociale, lavorativo) che svolgono un ruolo patogeno per la salute delle persone, privilegiando più la salute che la patologia. La prevenzione e la promozione della salute richiedono interventi attivi, che partono cioè per
iniziativa degli operatori, rivolti alle condizioni potenzialmente
problematiche, a differenza dei trattamenti terapeutici, che vengono forniti su richiesta delle persone sofferenti.
Il terzo punto riguarda la distinzione tra psicologia clinica e psichiatria. Le differenze tra le due discipline non sono, infatti, immediatamente evidenti, in quanto condividono aree di intervento e interesse comuni: sia l’oggetto di indagine (i disturbi comportamentali
e psichici dell’individuo), sia lo scopo diagnostico e terapeutico
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sembrerebbero gli stessi della psichiatria (almeno se si intende anche quest’ultima nel suo aspetto clinico, cioè di applicazione ai casi
singoli di conoscenze teoriche già stabilite). Rimandando al prossimo paragrafo per un approfondimento sull’oggetto della psicologia
clinica, basti dire qui che la loro distinzione si pone sul piano storico e accademico, toccando il problema della classificazione dei disturbi psichici, nonché la scelta delle teorie utilizzate per la diagnosi
e delle terapie impiegate per la cura. Inoltre risulta diverso il modo
in cui tradizionalmente si sono avvicinate alla patologia del comportamento. Mentre la psichiatria si è mossa in un’ottica decisamente medica, cercando di costruire entità psicologiche individuate secondo criteri prevalentemente descrittivi, a volte perdendo di
vista le singole persone, la psicologia clinica ha sempre privilegiato
un approccio personologico, idiografico.
Un tema di particolare importanza nella definizione di che cosa è
la psicologia clinica è appunto il modo in cui si ottiene il sapere
generale che viene utilizzato negli interventi individuali, cioè il
problema del metodo della ricerca clinica e della sua scientificità.
Mentre il sapere della psicologia generale si fonda sulla ricerca sperimentale, vi sono indicazioni metodologiche sufficienti per identificare un metodo di ricerca proprio della psicologia clinica: metodo
storico-clinico o storico-motivazionale. Tale metodo si differenzia dal
metodo sperimentale in quanto il primo utilizza la relazione, essa
stessa oggetto di osservazione, tra osservatore e osservato, sfruttando il coinvolgimento reciproco, anche emotivo, tra i due partecipanti all’interazione; mentre il secondo si fonda sulla neutralizzazione di questo coinvolgimento. Per il primo i comportamenti si
interpretano fornendo loro un significato, per l’altro si spiegano a
partire da leggi generali stabilite. Nella ricerca sperimentale la spiegazione può essere formalizzata secondo il modello ipotetico-deduttivo, mentre l’interpretazione propria del metodo clinico assume la forma di un racconto in cui non si costruiscono leggi generali, ma delle storie tipiche da una casistica (casi individuali) e non
per generalizzazione induttiva. Questo non significa che anche la
ricerca con il metodo storico-clinico non sia sottoposta a restrizioni e a controlli: i racconti in cui le interpretazioni sono oggettivate
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non devono essere contraddittori, possono essere più o meno completi, non devono contrastare con le leggi naturali, comprese le
leggi psicologiche e neuropsicologiche, e nemmeno con le testimonianze attendibili di osservatori indipendenti. Anch’essi quindi,
possono essere falsificabili.
Se, come abbiamo visto, le definizioni di psicologia clinica concordano nell’attribuire un carattere applicativo alla disciplina, si pone il
quesito sul rapporto tra momento teorico di ricerca e momento applicativo, tra teoria e pratica operativa. È possibile passare dai risultati della ricerca alla loro applicazione pratica senza una teoria dell’applicazione, sia pure implicita o appena abbozzata?
Un contributo in questo senso è dato da Carli e dai suoi collaboratori, in L’analisi della domanda in psicologia clinica, del 1993. Essi
hanno affrontato il problema di individuare la specificità della psicologia clinica, definita come la teoria della tecnica riabilitativa e
psicoterapeutica (e implicitamente preventiva) in opposizione alle
tecniche senza teoria e alle teorie senza tecnica.
Le prime sono fondate sul modello medico e presumono l’esistenza
di deviazioni rispetto a codici consensuali su cui si fondano le relazioni sociali, diagnosticabili in base a criteri nosografico-descrittivi
(facendo riferimento, ad esempio, alla quarta edizione del Diagnostic and Statistic Manual of Mental Disorders dell’American Psychiatric Association). Esse si pongono l’obiettivo della modificazione
del comportamento deviante con proprie tecniche e strumenti.
Le seconde, invece, fanno riferimento alle teorie psicogenetiche,
cioè le teorie che si pongono l’obiettivo di formulare ipotesi esplicative circa le cause del comportamento (motivi pulsionali, conflitti
inconsci, difetti di comunicazione tra i diversi “sistemi” che entrano in relazione tra loro ecc.); ogni teoria utilizza un suo proprio linguaggio e non elabora necessariamente delle tecniche di intervento,
che spesso hanno una loro evoluzione indipendente.
La teoria della tecnica, secondo gli stessi autori, ha come oggetto
specifico l’analisi della domanda che l’utente pone allo psicologo
clinico quando si rivolge a lui. L’analisi della domanda comporta
una teoria generale dell’intervento clinico e richiede un setting in
cui si attivi la relazione tra l’utente e l’operatore, una tecnica ade12
guata al porsi nella relazione, e un modello di analisi della relazione stessa.
Carli e i suoi collaboratori hanno avuto il grande merito di individuare la direzione in cui muoversi per fondare la psicologia clinica
come disciplina autonoma (la teoria della tecnica) individuando la
specifica competenza dello psicologo clinico (l’analisi della domanda), su cui si innestano altre competenze (diagnostiche, psicoterapeutiche ecc.), costruendo in tal modo la competenza complessiva
della psicologia clinica come disciplina autonoma, e cioè come teoria dell’intervento psicologico-clinico.
Sembra possibile avanzare, seguendo ancora Battacchi, Codispoti,
una definizione più ampia e operativa della psicologia clinica come
quella disciplina che, integrando tra loro le conoscenze derivate da
altre discipline (psicologia generale, psicologia dinamica, psicologia
della personalità, psicologia differenziale, psicopatologia) definisce
gli obiettivi degli interventi e conseguentemente elabora metodologie finalizzate:
• alla conoscenza degli individui (intesi sia come persone che come
famiglie, gruppi, organizzazioni) con cui si intraprende un lavoro
clinico, e alla relazione che con essi si instaura, cercando di comprendere sia il loro funzionamento adattivo che le disfunzioni;
• alla progettazione degli interventi, se e quando questi sono ritenuti necessari;
• alla verifica della loro efficacia.
I momenti fondamentali dell’intervento sono quattro:
• costruzione di una relazione personale autentica, che non riproduca cioè modelli relazionali preesistenti. A questo mira l’analisi
della domanda, cioè delle motivazioni, delle fantasie consce e inconsce attivate dal contesto relazionale in cui si pone la domanda. Essa
infatti è volta a comprendere le fantasie sul ruolo attribuito allo psicologo dall’utente o dal committente, che esulano dal “qui e ora”
della relazione, e che richiamano esperienze, aspettative, emozioni,
pregiudizi precedenti all’incontro, al fine di sospendere, sia nell’operatore che nell’utente, la “complicità” con esse;
• valutazione clinica della persona, del gruppo, dell’organizzazione che si presenta alla consultazione dello psicologo, tramite alcuni
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strumenti propri dello psicologo clinico, quali il colloquio, i test, i
questionari di personalità ecc.;
• progettazione di un intervento sulla base dell’esperienza acquisita e di ipotesi derivanti da assunzioni teoriche. L’intervento non
deve essere necessariamente di tipo strettamente terapeutico: si
può infatti decidere di non effettuare nessun intervento, inviare la
persona a un altro operatore, più idoneo a rispondere alle esigenze
e ai bisogni dell’utente, o svolgere un compito di semplice consulenza psicologica (counseling), o decidere un intervento terapeutico
che dovrà corrispondere al problema, alla struttura di personalità e
alle necessità dell’utente, e non fatto coincidere con il tipo di psicoterapia in cui lo psicologo clinico è eventualmente addestrato.
Esistono inoltre interventi che non vanno effettuati sulla base di
un disagio attuale, ma sono di carattere preventivo, e possono avere come oggetto l’ambiente, nel senso sia fisico che educativo, familiare e sociale;
• verifica dell’efficacia dell’intervento, sia attraverso dei test di
controllo (follow-up), sia attraverso una serie di strumenti di validazione forniti dai ricercatori, naturalmente ad opera di persone diverse dal clinico.
Lo psicologo come operatore di clinica psicologica è quindi un professionista con specifiche competenze e un’identità professionale
complessa ma abbastanza ben delineata, il cui compito fondamentale è quello di elaborare, scoprire e attivare interventi con valenze
terapeutiche, in modo da restituire all’individuo la capacità di dare
significato alla propria realtà psichica.
Strumento essenziale dello psicologo clinico è la relazione che si instaura tra osservatore e osservato, tra l’esperto e il profano, in cui si
mobilitano dinamiche interne sia sul versante dello psicologo, che
diventa anch’egli strumento della situazione conoscitiva, che sul
versante del soggetto. Questo implica che il clinico non cessi mai
anche di riflettere su se stesso e sul proprio lavoro, sviluppando,
come il ricercatore, conoscenza, in un’ottica di interscambiabilità
feconda tra pratica clinica e teoria. All’atto pratico lo psicologo clinico è di solito impegnato su tutti e tre i fronti della ricerca teorica,
della spiegazione diagnostica e dell’applicazione terapeutica.
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