commento di Giancarlo Savi - Osservatorio Diritto di Famiglia

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commento di Giancarlo Savi - Osservatorio Diritto di Famiglia
ISSN 0436-0230
direttore scientifico
Ciro Riviezzo
06 -2013
X L V — g i u g n o 2 01 3, n ° 0 6
| estratto
L'IMPUGNAZIONE DELLO STATUS FILIATIONIS
PER DIFETTO DI VERIDICITÀ DA PARTE
DELL'AUTORE DEL RICONOSCIMENTO IN
MALA FEDE
commento di
Giancarlo Savi
giurisprudenza civile
FILIAZIONE
184 RICONOSCIMENTO IN MALA FEDE:
INAMMISSIBILITÀ DELL’IMPUGNAZIONE
PER DIFETTO DI VERIDICITÀ
TRIBUNALE DI ROMA - SEZ. I - 17 OTTOBRE 2012, N. 19563 (SENT.) - PRES. CRESCENZI - EST. ALBANO A. (AVV. MARTIGNETTI) C/O B. (AVV. ROBIONOY)
Filiazione - Filiazione naturale - Riconoscimento - Autore del riconoscimento in mala fede Susseguente legittimazione per matrimonio - Impugnazione per difetto di veridicità (dello
stesso autore) - Inammissibilità.
(C.C., ART. 263)
L’autore in mala fede dell’atto di riconoscimento di figlio naturale, legittimato per susseguente matrimonio, non è ammesso all’esercizio dell’impugnazione per difetto di veridicità, ai sensi dell’art. 263 c.c.
RAGIONI DI FATTO E DIRITTO DELLA DECISIONE. - A. impugnava per difetto di
veridicità il riconoscimento di B., nata l’11 settembre 1967, effettuato in data 20 febbraio 1969, cui
è seguita la legittimazione per susseguente matrimonio con la madre della convenuta C., avvenuto
il 22 marzo 1969.
Si costituiva la convenuta B., anche nell’interesse della propria figlia minore X., chiedendo il
rigetto della domanda ed, in subordine, il risarcimento del danno per sé e per la figlia, essendo il
riconoscimento avvenuto nella piena consapevolezza della sua falsità.
È fatto incontestato e dichiarato dall’attore in tutti i suoi scritti difensivi che il riconoscimento
di B. sia avvenuto nella piena consapevolezza della sua falsità. L’attore afferma infatti che aveva
conosciuto la madre di B. quando quest’ultima aveva già sette mesi.
Ritiene il tribunale che l’autore del riconoscimento effettuato in mala fede non sia legittimato
ad impugnarlo successivamente per difetto di veridicità, restando, invece, tale legittimazione in
capo a tutti gli altri soggetti previsti dalla norma di cui all’art. 263 c.c.
Questo Collegio è consapevole che la tesi in questa sede sostenuta è stata negata in un
risalente precedente della Suprema Corte del 1991 (sent. n. 5886), ma ritiene che i principi ivi
affermati a favore dell’irrilevanza dello stato soggettivo di chi abbia effettuato il riconoscimento,
per la affermata prevalenza del favor veritatis in ordine agli stati personali e familiari, debba
essere rivisitata alla luce delle successive evoluzioni giurisprudenziali e normative, in relazione
sia al diritto interno che internazionale.
Già nella sentenza del 1991 la Suprema Corte affermava di essere ben consapevole che «un
tale sistema normativo rende in pratica possibile a chiunque di operare, eventualmente per motivi
non commendevoli, un riconoscimento non veridico di figlio naturale, sicuro di poterlo mettere
nel nulla ad libitum ed in qualsiasi momento, essendo accessibile agevolmente la prova della non
veridicità dello stato ed imperscrittibile la relativa azione, ai sensi del comma 3, dell’art. 263 c.p.c.,
con la conseguenza che una norma giuridica può pervenire in tal caso a rivestire di legalità un
comportamento indiscutibilmente illecito», ma riteneva che tale inconveniente avrebbe potuto
essere rimosso solo con l’intervento del legislatore.
Successivamente, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 2351 del 1999 negando l’azione di
disconoscimento di paternità a chi avesse dato il consenso alla fecondazione etorologa, ha in
sostanza superato tale orientamento, affermando principi che si ritiene abbiano valenza generale
e che hanno trovato conferma nel diritto positivo con l’entrata in vigore della l. n. 40 del 2004.
Si afferma, infatti, in relazione all’azione di disconoscimento di paternità (azione vicina a
quella di cui all’art 263 c.c.) ed agli interessi protetti dalla norma: «L’azione di disconoscimento
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della paternità compete al marito, alla madre ed al figlio, cioè ai tre protagonisti della vicenda
procreativa ricadente nella presunzione di legittimità ancorata al dato temporale del concepimento durante il matrimonio; non spetta a terzi, e nemmeno al pubblico ministero. Tale ristretto
ambito di titolarità dell’azione, coordinato con la tassatività dei casi in cui è esercitabile e con i
brevi termini di decadenza all’uopo stabiliti (art. 244 c. c.), indica che la preferenza e prevalenza
della realtà sulla presunzione non sono incondizionate, non rispondono ad un’esigenza pubblicistica, ma mirano a difendere esclusivamente le posizioni di quei soggetti, ai quali soltanto è
demandata la valutazione comparativa delle due situazioni in conflitto e la decisione di optare
per l’una o l’altra, facendo emergere la verità, ovvero mantenendo la fictio iuris della paternità
presunta».
In tale direzione è la regola affermata dalla Corte costituzionale, in materia di accertamento
della paternità o maternità naturale (sent. nn. 429 del 1991 e 341 del 1990), per cui, «se si tratta di
un minore di età inferiore ai sedici anni, la ricerca della paternità pur quando concorrono specifiche circostanze che la fanno apparire giustificata ai sensi degli artt. 235 o 274 comma 1, c.c., non
è ammessa ove risulti un interresse del minore contrario alla privazione dello stato di figlio
legittimo o, rispettivamente, all’assunzione dello stato di figlio naturale nei confronti di colui
contro il quale si intende promuovere l’azione: interesse che dovrà essere apprezzato dal giudice
soprattutto in funzione dell’esigenza di evitare che l’eventuale mutamento dello status familiare
del minore possa pregiudicarne gli equilibri affettivi e l’educazione. In questo caso la decisione
deve essere lasciata allo stesso figlio quando avrà compiuto i sedici anni».
Tali principi sono stati con più forza recentemente ribaditi dalla Corte costituzionale, con la
sentenza n. 31 del 2012 che, rivedendo un precedente orientamento in base al quale aveva
rigettato la medesima questione posta, ha dichiarato la parziale incostituzionalità della pena
accessoria al reato di alterazione di stato, laddove prevede l’automatica decadenza della potestà in
assenza di una valutazione caso per caso, fondata sull’accertamento della sua concreta corrispondenza agli interessi del minore.
Infatti, la Corte riconosce la necessità di bilanciare i diversi interessi che vengono in questione
in ordine alla fattispecie di reato ed afferma che alla luce di caratteri propri del delitto di cui all’art.
567 comma 2, c.p....«diversamente da altre ipotesi criminose in danno di minori, esso non reca in
sé una presunzione assoluta di pregiudizio per i loro interessi morali e materiali, tale da indurre a
ravvisare sempre l’inidoneità del genitore all’esercizio della potestà genitoriale», ed affermando la
centralità degli interessi del minore che prevalgono addirittura di fronte alla pretesa punitiva dello
Stato, e ciò sulla base del diritto interno ed internazionale (la Convenzione sui diritti del fanciullo
fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in Italia con l. 27 maggio 1991, n.
176; la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, adottata dal Consiglio d’Europa
a Strasburgo il 25 gennaio 1996, ratificata e resa esecutiva con l. 20 marzo 2003, n. 77; la Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione Europea del 7 dicembre 2000, adottata il 12 dicembre 2007 a
Strasburgo, non diverso è l’indirizzo dell’ordinamento interno, nel quale l’interesse morale e
materiale del minore ha assunto carattere di piena centralità, specialmente dopo la riforma attuata
con l. 19 maggio 1975, n. 151 (Riforma del diritto di famiglia), e dopo la riforma dell’adozione
realizzata con la l. 4 maggio 1983, n. 184 (Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori),
come modificata dalla l. 28 marzo 2001, n. 149, cui hanno fatto seguito una serie di leggi speciali che
hanno introdotto forme di tutela sempre più incisiva dei diritti del minore.
Pertanto la Corte afferma in generale e, non solo rispetto alla madre che abbia concorso nel
reato, ma anche nei confronti del padre, che chi ha effettuato il falso riconoscimento, commettendo il reato di cui all’art. 567 c.p., potrebbe non solo rimanere legalmente genitore (ove non fosse
esercitata la relativa azione in sede civile), ma nemmeno decadere dalla podestà genitoriale.
È chiaro che nell’evoluzione del diritto positivo e dalla sua interpretazione giurisprudenziale,
sempre meno rilievo assume il dato formale del rapporto familiare legato sul legame meramente
biologico, e la famiglia assume sempre di più la connotazione della prima comunità nella quale
effettivamente si svolge e si sviluppa la personalità del singolo e si fonda la sua identità.
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Tutto quanto sopra esposto comporta che la tutela del diritto allo status ed alla identità
personale può non identificarsi con la prevalenza della verità biologica.
L’interpretazione della norma di cui all’art. 263 c.c. alla luce dei principi fondamentali dell’ordinamento interno ed internazionale e del diritto fondamentale allo status e alla identità personale impone di considerare irretrattabile il riconoscimento avvenuto nella piena consapevolezza
della sua falsità.
Attribuire la legittimazione ad impugnare il riconoscimento a chi lo abbia in mala fede effettuato, o concorso ad effettuare, ha sul piano logico la stessa valenza di una revoca, vietata espressamente dalla legge (art. 256 c.c.).
È la stessa ratio della norma che prevede l’irrevocabilità del riconoscimento, che impone di
non riconoscere a tali soggetti la legittimazione ad impugnarlo.
Ed è anche la natura dell’azione di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità,
quale azione di accertamento di tipo costitutivo, esercizio di un diritto potestativo di ottenere una
pronuncia che modifichi la situazione giuridica in atto, con effetti retroattivi, uno status che
sussiste e persiste sino a che la domanda non sia accolta, che induce a ritenere che tale azione non
possa spettare proprio al soggetto che abbia posto in essere o concorso a porre in essere, la
situazione giuridica per cui la modificazione è apprestata, attribuendogli un potere ad libitum in
ordine allo status di un’altra persona che, oltre ad essergli stato falsamente attribuito, potrebbe
essergli tolto in ogni momento, anche contro l’interesse del titolare del diritto.
Tale principio, affermato dalla sentenza n. 2315 del 1999 della Corte di Cassazione citata, è
stato recepito dal legislatore con la l. n. 40 del 2004, che nel vietare la fecondazione eterologa ha nel
contempo vietato l’azione di disconoscimento o di impugnazione del riconoscimento, a chi avesse
prestato il consenso ad effettuarla.
La protezione dei diritti inviolabili della persona, ed in particolare del minore, nella società e
nel nucleo familiare in cui si trovi collocato per scelta altrui, sono le linee guida che devono
orientare, come considerato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 347 del 1998, non solo il
legislatore ordinario ma anche l’interprete in sede di «ricerca nel complessivo sistema normativo
dell’esegesi idonea ad assicurare il rispetto della dignità della persona umana» (cfr. Cass. n. 2315
del 1999, cit.).
Vale la pena di riportare i principi affermati nella sopra citata sentenza, senz’altro valevoli
anche nel caso di specie: «La norma che permettesse detta condizione, per mezzo di una statuizione giudiziale resa proprio su istanza del soggetto che abbia determinato o concorso a determinare la nascita con il personale impegno di svolgere il ruolo di padre, eluderebbe i menzionati
cardini dell’assetto costituzionale ed il principio di solidarietà cui gli stessi rispondono. Il frutto
dell’inseminazione infatti, verrebbe a perdere il diritto di essere assistito, mantenuto e curato da
parte di chi si sia liberamente e coscientemente obbligato ad accoglierlo quale padre «di diritto», in
ossequio ad un parametro di prevalenza del favor veritatis, che è privo, come si è detto, di valore
assoluto e non può comunque compromettere posizioni dotate di tutela prioritaria. Il sacrificio del
favor veritatis, a fronte di libere determinazioni dell’adulto che incidano sullo status del minore è
del resto regola portante dell’adozione legittimante, ove la decisione degli adottanti di acquisire
una veste genitoriale «legale», non coincidente con la maternità e la paternità effettive, è irrevocabile; la diversità del relativo istituto, non preclude di cogliere nella disciplina dell’adozione la
conferma della presenza nell’ordinamento di un canone d’irreversibilità degli effetti degli atti
determinativi dello status della persona rispetto allo stesso soggetto che li abbia compiuti (con
volontà non affetta da vizi). Infine, va considerato che buona fede, correttezza e lealtà nei rapporti
giuridici rispondono a doveri generali, non circoscritti agli atti o contratti per i quali sono richiamate da specifiche disposizioni di legge; questi doveri, nella particolare materia dei rapporti di
famiglia, assumono il significato della solidarietà e del reciproco affidamento».
L’ammissione dell’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità da parte di chi al
momento del riconoscimento fosse stato consapevole della sua falsità, entrerebbe in evidente
conflitto con quei doveri perché, come si è rilevato, determinerebbe l’esperibilità della relativa
azione indipendentemente dalla ragione del ripensamento, e quindi anche per motivi pretestuosi
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e non degni di tutela (cfr. Cass. cit., v. anche nel senso di non riconoscere la legittimazione
dell’autore in mala fede del riconoscimento, Trib. Civitavecchia 19 dicembre 2008 e Trib. Napoli 28
aprile 2000).
Ritiene pertanto il tribunale che la domanda proposta dall’attore debba essere rigettata.
La domanda di risarcimento del danno proposta dalla convenuta e dall’intervenuta solo in via
subordinata, per il caso di accoglimento della domanda principale, deve ritenersi assorbita.
Sussistono giusti motivi, in considerazione della natura controversa delle questioni trattate
per dichiarare le spese di lite integralmente compensate tra le parti.
P.Q.M. - definitivamente pronunciando:
- Rigetta la domanda proposta da A. nei confronti di B.;
- Dichiara le spese di lite integralmente compensate tra le parti.
L’IMPUGNAZIONE DELLO STATUS FILIATIONIS
PER DIFETTO DI VERIDICITÀ DA PARTE DELL’AUTORE
DEL RICONOSCIMENTO IN MALA FEDE
L’Autore analizza la pronuncia in commento che, proponendo una rilettura dell’art. 263 c.c.,
dichiara di porsi in contrasto con l’interpretazione consolidata della stessa norma ad opera della
Suprema Corte di legittimità, qualificandola risalente e da sottoporre ad opportuna rivisitazione
critica, giungendo a conclusioni dissenzienti.
Sommario 1. Premessa. — 2. L’impugnazione della filiazione per difetto di veridicità. — 3. I tratti
motivi ed il dissenso da essi. — 4. Conclusioni.
1. PREMESSA
La pronuncia in commento esce dagli schemi e propone una rilettura dell’art. 263 c.c. di
Giancarlo Savi
che suscita rilevanti perplessità.
Il tribunale dichiara, peraltro, di porsi in consapevole contrasto anche con l’interpretazione consolidata della stessa norma ad opera della Suprema Corte di legittimità
e proprio sulla questione specifica (1), qualificandola oramai risalente e da sottoporre
ad opportuna rivisitazione critica.
Il dissenso attinge il canone di prevalenza della veridicità di status in fatto di
filiazione, che caratterizza l’azione, sempre confermato dalle riforme succedutesi in
materia di diritto delle persone e della famiglia, ed in particolare da quella di cui alla l.
19 maggio 1975, n. 151.
Afferma il collegio, che avendo il genitore A riconosciuto nell’anno 1969 come
propria figlia naturale B, nata nel 1967, cui conseguiva anche la legittimazione per
susseguente matrimonio con la madre C, ed avendo in tal senso scientemente agito,
(1)
Invero, il tribunale fa riferimento al solo precedente di Cass., sez. I, 24 maggio 1991, n. 5886,
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in Foro it., 1992, I, 449; ed in Giust. civ., 1992, I,
775.
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contrariamente al vero, non può essere successivamente ammesso ad impugnare tale
riconoscimento per difetto di veridicità: una tale filiazione è da intendersi irretrattabile!
Lo sforzo argomentativo del tribunale si fa guidare da profondo senso di esecrazione per il comportamento di quel genitore che attende ben quarant’anni per «cancellare» una filiazione non veridica, siccome frutto di un riconoscimento dolosamente
contrario alla effettiva procreazione biologica, quando addirittura la discendenza così
instaurata segnava la presenza della successiva generazione (una nipote che peraltro
raggiungeva la maggiore età in pendenza di giudizio).
Per quanto possa apparire umanamente comprensibile un tale sentire (d’altronde,
la gravità del delitto di alterazione di stato, di cui all’art. 567 comma 2, c.p., è fatta
evidente dalla previsione di una sanzione detentiva importante, ed altrettanto rilevanti
sono i profili di danno risarcibile, patrimoniali e non patrimoniali, prodotti da un tale
agire), il tribunale considera la «verità» un valore sacrificabile e recessivo, rispetto al
rapporto familiare comunque instauratosi, qualificato «prima comunità nella quale
effettivamente si svolge e si sviluppa la personalità del singolo e si fonda la sua identità»; in sostanza, «la tutela del diritto allo status ed alla identità personale può non
identificarsi con la prevalenza della verità biologica», di tal ché la corretta interpretazione dell’art. 263 c.c., impone «di considerare irretrattabile il riconoscimento avvenuto
nella piena consapevolezza della sua falsità», risolvendosi altrimenti in una sostanziale
potestà di «revoca» dello status, in principio inibita dalla legge, con la previsione di cui
all’art. 256 c.c.
Una sì perentoria affermazione, secondo cui una volta venuta ad esistenza l’affermazione volontaria di filiazione, la rivendicazione di «verità» possa risultare nel nostro
ordinamento un diritto recessivo, mette a disagio, anche ove ci si trovi al cospetto di
ipotesi meritevoli, la cui tutela non necessariamente postula il suo sacrificio.
Invero, il valore della «verità», omologo a quello di «autenticità» e di «certezza», non
è soltanto il miglior frutto della millenaria esperienza umana, in ogni settore, ma
costituisce il presupposto inalienabile a fondamento di diritti inviolabili dell’uomo (2), è
certo costituzionalmente rilevante (3), permeando l’ordinamento giuridico e l’attività
giurisdizionale.
E, mutuando magistrali parole, «la verità deve essere pura come l’acqua se no, non
è verità, sì che la sua ricerca ed infine il suo accertamento deve rispondere in ogni caso
all’interesse superiore di chi la dovrebbe ricevere negli effetti suoi propri». L’accertamento della verità in fatto di filiazione, attraverso gli strumenti scientifici oggi disponibili, raggiunge esattamente tale livello.
(2)
In punto, si impone, tra i tanti possibili, il richiamo di C. Eu. Dir. Uomo 13 luglio 2006, n. 58757,
in Fam. pers. succ., 2006, 959.
(3)
Oltre al richiamo scontato degli artt. 2, 3, 10
comma 1, 24, 29, 30 e 111 Cost., in materia, canoni
guida discendono dal riferimento ai «diritti inviolabili» ed alla «personalità» di cui all’art. 2 Cost, dal
riferimento alla «società naturale» di cui all’art. 29
comma 1, e dal riferimento alla legittima «ricerca» di
cui all’art. 30 comma 4 Cost. Il rilievo costituzionale
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della verità (testualmente definito «valore verità»)
risulta nitido nella giurisprudenza della Consulta, ed
in particolare nei precedenti di C. cost. 18 gennaio
2012, n. 7; C. cost. 25 novembre 2011, n. 322; C. cost. 6
luglio 2006, n. 266; C. cost. 10 febbraio 2006, n. 50; C.
cost. 14 maggio 1999, n. 170; C. cost. 3 luglio 1997, n.
216; C. cost. 22 aprile 1997, n. 112; C. cost. 6 maggio
1986, n. 134; rinvenibili nel sito ufficiale della Corte,
www.cortecostituzionale.it; oltre che negli altri riferimenti di cui infra o meglio evidenziati.
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Il commento di questa sentenza di merito, che ha inteso riscrivere la previsione di
cui all’art. 263 c.c., pur traendo occasione da un caso così eccezionale ed anomalo, non
può ovviamente esaurirsi in questa radicale contrapposizione valoriale, meritando
minuziosa considerazione in tutti i suoi passaggi logici.
2. L’IMPUGNAZIONE DELLA FILIAZIONE PER DIFETTO DI VERIDICITÀ
Secondo la consolidata interpretazione dell’art. 263 c.c., conforme al suo dato testuale
ed a quello logico e sistematico, l’impugnazione del riconoscimento del figlio è ammessa in ogni caso ove sussista un riconoscimento (4) obiettivamente non veridico, a nulla
rilevando neppure la mala fede dell’autore del riconoscimento nella consapevolezza
dell’altrui paternità (la buona fede rileva eventualmente solo ad escludere la responsabilità penale dello stesso autore); tale previsione consente cioè di porre nel nulla il
riconoscimento, ogni volta in cui la realtà apparente, documentata nel relativo atto,
risulti in contrasto con la realtà biologica del fatto di filiazione.
Dottrina e giurisprudenza convergono nella conclusione secondo cui il regime
dell’azione di contestazione di stato (5) in parola è ispirato al principio di corrispondenza tra «certezza formale» e «realtà naturale» del rapporto di filiazione (6).
Il tessuto normativo d’altronde è chiaro in tal senso ed anche il dubbio di costitu(4)
L’azione impugnatoria di contestazione dello
status filiationis in parola si diversifica da ogni altra;
l’esistenza di un anteriore atto di riconoscimento del
figlio nato fuori dal matrimonio (alla cui celebrazione
peraltro di norma consegue, secondo l’art. 280 c.c., la
sua legittimazione), nelle forme prefigurate dall’ordinamento, è il presupposto obiettivo del rimedio;
d’uopo richiamare in punto e comunque per un miglior quadro generale (anche in ordine al ricorrente
tema del necessario supporto probatorio), Cass., sez.
I, 8 maggio 2009 n. 10585, in Banca dati Platinum
Utet; Cass., sez. I, 17 febbraio 2006 n. 3563, in Fam.
pers. succ., 2006, 557, con nota di SCARANO; Cass., sez.
I, 26 marzo 2003, n. 4462, in Giur. it., 2004, 53; Cass.,
sez. I, 19 marzo 2002, n. 3976, in Fam. e dir., 2002,
414, ed in Giur. it., 2002, 2048; Cass., sez. I, 13 aprile
2001 n. 5533, in Banca dati Il Foro it.; Cass., sez. I, 29
aprile 1999, n. 4325, in Mass. Giur. it., 1999; Cass.,
sez. I, 22 gennaio 1995 n. 12085, in Fam. e dir., 1996,
129, con nota di AMADIO; Cass., sez. I, 24 febbraio 1993
n. 2269, in Mass. Giur. it., 1993; Cass., sez. I, 10 agosto 1991, n. 8751, ivi, 1991; Cass., sez. I, 23 febbraio
1991, n. 1958, ivi, 1991; Cass., sez. II, 2 agosto 1990, n.
7770, ivi, 1990; Cass., sez. I, 26 giugno 1990, n. 6497,
in Arch. civ., 1990, 1131. Per la giurisprudenza di
merito, si cfr., Trib. Salerno 28 novembre 2011, in
Banca dati Platinum Utet; Trib. Salerno 14 novembre 2008, ivi; Trib. Genova 3 gennaio 2006, in Dir.
fam., 2006, 1192; Trb. Palmi 14 novembre 2005, in
Banca dati Juris Giuffrè; Trib. Lanciano 10 marzo
2005, ivi; App. Roma 5 luglio 2002, in Arch. civ., 2003,
giurisprudenza di merito – n. 6 – 2013
173, con nota di SANTARSIERE; Trib. Parma 19 maggio
1999, in Fam. e dir., 2000, 382, con nota di COPPOLA;
App. Roma 9 novembre 1993, in Dir. fam., 1995, 146;
App. Catania 18 dicembre 1984, ivi, 1986, 565. Giova
inoltre avere riguardo alla tralatizia massima di legittimità, in sede penale, secondo cui, la fattispecie delittuosa di cui al comma 2 dell’art. 567 c.p., ha lo scopo
di assicurare al figlio uno stato di famiglia corrispondente al rapporto di procreazione, affinché gli venga
attribuito lo stato di figlio di colui che lo ha effettivamente generato, a tutela della verità dell’attestazione
ufficiale di ascendenza.
(5)
Contestazione di «stato» che si differenzia
dalle azioni di contestazione del «titolo», quali sono
quelle ex artt. 265 e 266 c.c.; in punto, risultano tutt’oggi rilevanti le pagine di CICU, Filiazione, in Tratt.
dir. civ. it. diretto da VASSALLI, Torino, 1969, III, 4, 193
ss.
(6)
Quanto alla dottrina si rinvia a UBALDI, DI NARDO, UDA, La filiazione naturale, in Tratt. dir. fam.
Zatti, Milano, 2012, II, 306 ss.; PALAZZO, La filiazione,
in Tratt. dir. civ. comm. Cicu-Messineo-Mengoni
continuato da Schlesinger, Milano, 2007, in particolare 412 ss.; BASINI, La filiazione naturale, in Tratt.
Bonilini-Cattaneo, Torino, 2007, III, 142 ss.; BIANCA,
Diritto civile, La famiglia, 2, Milano, 2005, 364; SESTA,
La filiazione naturale, in Tratt. dir. priv. Bessone,
Torino, 2002, sub cap. III; FERRANDO, La filiazione
naturale, in Tratt. dir. priv. diretto da Rescigno, Torino, 1997, IV, 199 ss. Quanto alla giurisprudenza si
rimanda alle notazioni che precedono e seguono.
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zionalità, pur preso in compiuta considerazione dalla Suprema Corte di legittimità,
sotto vari profili, escluso (7).
La Corte delle leggi è stata infatti ripetutamente investita della questione ed ha
escluso ricorrere l’ipotesi di una qualche non conformità al dettato costituzionale (8).
Questa concisamente la risultante: A) con la tutela fondata sul difetto di veridicità il
legislatore riconosce prevalente l’interesse alla corrispondenza degli stati personali e
familiari alla realtà di fatto, privilegiando il rapporto procreativo biologico rispetto alla
finzione del mero rapporto giuridico formale; peculiare valore assume quindi il diritto
del riconosciuto come figlio alla verità della propria origine ed identità, ovvero, se si
vuole, a non vedersi attribuita una falsa paternità (o maternità), di tal ché la verità non
si pone neppure in conflitto con l’interesse dello stesso riconosciuto alla conservazione
di uno stato di filiazione solo apparente o fittizio, in quanto garantisce proprio il suo
diritto al vero stato filiale; oramai tralatizia l’affermazione della Corte delle leggi secondo cui non è neppure prospettabile un potenziale conflitto tra verità (o favor
veritatis) ed interesse dell’apparente figlio minore (o favor minoris); ammesso per
converso il risarcimento del danno ingiustamente arrecato al soggetto riconosciuto
come figlio da parte dell’autore del doloso atto contrario al vero (9); B) l’esperimento di
una tale azione, corrispondente ad un peculiare diritto potestativo, di natura costitutiva
necessaria, indisponibile alla regolamentazione pattizia quanto all’oggetto, è rimesso
però alla domanda degli interessati, quindi, disponibile solo con riguardo all’an ed al
quando del suo concreto esercizio; l’azione è peraltro rinunciabile (10); C) nel dispiegamento dell’azione, il difetto di veridicità assume una portata oggettiva, il che comporta
l’irrilevanza dello stato soggettivo in cui si trovava l’autore del riconoscimento al momento della formazione dell’atto dichiarativo (elemento che ha consentito di risolvere
agevolmente le ricorrenti ipotesi di mendacio «per compiacenza», manifestato da uomini legati sentimentalmente a donne già madri di un figlio procreato con altro uomo,
ovvero per eludere i rigori della disciplina sull’adozione, ovvero per porre in essere
similari dolose preordinazioni magari strumentali od ispirate da altri interessi); D)
legittimato ad esperire l’azione, oltre all’autore del riconoscimento ed a colui che è stato
riconosciuto, risulta «chiunque vi abbia interesse», sia questo di ordine soltanto morale
od anche patrimoniale; tra i quali soggetti si annoverano certamente l’altro genitore, il
vero genitore, i parenti, gli eredi, i legatari e donatari; esclusa invece la legittimazione
dell’organo requirente a proporre tale impugnazione, pur rivestendo la qualità di parte
che, a tenore dell’art. 70, n. 3, c.p.c., deve intervenire nel giudizio (11), sotto pena di
(7)
Ci si riferisce in particolare, oltre che a Cass.,
Sez. I, 24 maggio 1991, n. 5886, cit. in nt. 1, a: Cass.,
sez. I, 15 aprile 2005, n. 7924, in Fam. e dir., 2004, 436;
Cass., sez. I, 3 agosto 1990, n. 7798, in Mass. Giur. it.,
1990.
(8)
C. cost. 12 gennaio 2012, n. 7, in Banca dati
Platinum Utet; C. cost. 22 aprile 1997, n. 112, in Foro
it., 1999, I, 1764, in Dir. fam., 1997, 842, con nota di
Cosentino, ed in Fam. e dir., 1997, 411, con nota di
Figone; C. cost. 18 aprile 1991, n. 158, in Giust. civ.,
1991, I, 2550; C. cost. 30 dicembre 1987, n. 625, in
Foro it., 1988, I. 3535; C. cost. 6 maggio 1985, n. 134,
⎪ P. 1 2 8 8
ivi, 1985, I, 1905 e 2532, con nota di Amatucci e Adami, in Giur. it., 1985, I, 1, 1153, con nota di De Cupis,
ed in Giust. civ., 1985, I, 2142, con nota di Finocchiaro.
(9)
Trib. Torino 31 marzo 1992, in Dir. fam., 1993,
192, con nota di Di Chiara.
(10)
In tal senso, Cass., sez. I, 8 maggio 1992, n.
5506, in Giust. civ., 1992, I, 1448.
(11)
In tal senso Trib. Napoli 7 febbraio 2008, in
Corr. Merito, 2008, 278; Trib. Bologna 23 aprile 2007,
in banca dati Platinum Utet; Cass., sez. II, 16 marzo
1994, n. 2515, in banca dati Jus & Lex (quest’ultimo
giurisprudenza di merito – n. 6 – 2013
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nullità; E) l’azione è insensibile al decorso del tempo siccome dichiarata espressamente imprescrittibile (a differenza, ad esempio, dell’azione di disconoscimento soggetta a
termine decadenziale), ed è ammessa anche dopo l’eventuale legittimazione (12); F) la
prova della non veridicità del riconoscimento può essere fornita con ogni mezzo, anche
presuntivo, fatta eccezione per la confessione ed il giuramento (13), o con la prova
dell’altrui paternità (elemento distintivo importante rispetto ad altre azioni di disconoscimento, o di contestazione, o di reclamo di stato).
3. I TRATTI MOTIVI ED IL DISSENSO DA ESSI
Corrispondendo il quadro normativo appena riassunto al dettato legislativo vigente,
veniamo alla puntuale analisi delle motivazioni progressivamente addotte dal tribunale capitolino a sostegno del suo innovativo convincimento, che lo ha portato a reputare
superato lo stesso sistema che presiede all’azione di impugnazione dello status filiationis in questione.
Afferma in primo luogo quel collegio che «l’autore del riconoscimento effettuato in
mala fede non è legittimato ad impugnarlo successivamente per difetto di veridicità,
restando, invece, tale legittimazione in capo a tutti gli altri soggetti previsti dall’art. 263
c.c.»; il che equivale a dire che il falso padre rimarrà tale, salvo che la stessa impugnazione venga promossa da alcuno dei potenziali altri interessati ammessi ad esperirla.
Di una tale soluzione non può sfuggire con immediatezza il collegamento tra la
circostanza subiettiva della condizione di mala fede dell’autore del riconoscimento e la
sanzione, costituita dalla negazione del diritto di poter dar corso al giudizio ex art. 263
c.c. (14), per l’accertamento nel merito dell’insussistenza di una veritiera filiazione
naturale; come a dire, che l’iniziale atto illecito crea una situazione lecita in pregiudizio
del suo autore; la conseguenza è quella per cui il rapporto di filiazione insorto rimane
intangibile soltanto per l’autore dell’atto di riconoscimento.
Il principio giuridico si concreterebbe in una «trasformazione» del «falso» come
«vero», attraverso una doppia fictio, di cui l’ultima incarna la sanzione civile della
prima, anzi, l’ulteriore sanzione (rispetto a quella d’ordine penale).
Se si considera che il fine di privilegiare la veridicità al fatto di filiazione può essere
conseguito soltanto attraverso la garanzia, persino ovvia, del diritto di agire in giudizio
insegnamento è di particolare rilievo anche in ordine
alla natura dell’interesse che legittima all’impugnazione ex art. 263 c.c.); la dottrina sul punto è divisa:
conforme è MAJELLO, Della filiazione naturale e della
legittimazione, in Comm. cod. civ. SCIALOJA-BRANCA,
Bologna, 1982, 146; di contrario avviso l’opinione
prevalente, per tutti si cfr., PALAZZO, La filiazione, op.
cit. in nt. 6, 416, al richiamo di note 234 e 235.
(12)
Cass., sez. I, 15 aprile 2005, n. 7924, cit. in nt.
7, ed in Banca dati Il Foro it.
(13)
Cass., sez. I, 26 marzo 2003, n. 4462, cit. in nt.
4 (l’integrale motivazione è rinvenibile in Banca dati
Il Foro it.); Cass., sez. I, 11 dicembre 1995, n. 12642,
in Nuova giur. civ. comm., 1997, I, 266, con nota di
Frasson; Cass., sez. I, 26 febbraio 1993, n. 2465, in
Giur. it., 1994, I, 1, 466; Cass., sez. I, 18 novembre
1992, n. 12350, in Dir. fam., 1993, 477.
giurisprudenza di merito – n. 6 – 2013
(14)
Trattandosi di azione che si colloca nel genus
delle azioni costitutive ex art. 2908 c.c., la tassatività
della previsione e la peculiarità dell’accertamento è
al cuore della tutela, che come tale, non tollera alcuna forzatura interpretativa, né riduttiva, né estensiva, né analogica; di rilievo in tema le riflessioni di
PROTO PISANI, Appunti sulla tutela c.d. costitutiva (e
sulle tecniche di produzione degli effetti sostanziali), in Riv. dir. proc., 1991, 60, che qualifica anche
l’azione ex art. 263 c.c. tra le ipotesi eccezionali di
tutela necessariamente costitutiva. In generale, si
cfr., MANDRIOLI-CARRATTA, Diritto processuale civile,
Torino, 2012, I, 11. La sentenza che rimuove il rapporto di filiazione è poi soggetta a pubblicità mediante l’annotazione sull’atto di nascita, a tenore dell’art.
48 d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396.
P. 1 2 8 9 ⎪
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in capo a «chiunque» vi abbia interesse e la possibilità di affermarla, dimostrandola,
secondo la rafforzata ed inusuale espressione dell’art. 263 c.c., la conclusione del
tribunale, in realtà, cancella in radice proprio il criterio guida dettato dal legislatore;
infatti, non solo insorge una prima considerazione sistematica, potenzialmente dirompente, in ordine alla stessa mala fede che potrebbe accumunare (la compartecipazione
nello stesso reato di alterazione di stato è pressoché la norma) l’altro genitore, il vero
genitore e gli altri parenti, ma anche ammesso che soltanto l’autore della falsa dichiarazione di riconoscimento possa essere privato del diritto di agire in giudizio per il
ripristino della verità, in realtà la limpidezza dello stesso sistema normativo verrebbe
ad essere profondamente alterato proprio nel suo valore fondante; non è revocabile in
dubbio difatti che l’autore del riconoscimento in mala fede, potendo affermare e dimostrare la falsità dell’atto di filiazione, ma non volendo o non potendo coinvolgere altri,
arrecherà al contempo gravi pregiudizi a tutto il proprio ceto parentale, mentre, al
contrario, si troverà in balia di ogni altro interessato che può legittimamente agire, od
avvalersi strumentalmente di altro interessato per poter agire secondo verità; non può
così sfuggire come al valore della verità si sostituirebbe il valore della scelta di convenienza od addirittura del mercimonio del diritto di azione, come in una catena infinita
di potenziali illeciti o comunque di condotte non commendevoli; il disagio dell’interprete e la caduta precipitosa dello stesso senso etico, affermato dal tribunale come una
esigenza imprescindibile in materia, risulta evidente e l’argomentazione così contraddittoria da raggiungere il livello dell’autentico paradosso.
Se si ha cura di procedere per esemplificazioni, tra le tante possibili, ed ipotizzando
le due ricorrenti condizioni economico/patrimoniali del fittizio genitore in mala fede
(quello privo e quello dotato di sostanze), in tema di successione ereditaria, il «non
figlio» potrà essere utilizzato per alterare l’ordine successorio, od al contrario lo stesso
ordine successorio potrebbe risultare alterato a favore del soggetto disponibile ad agire
in giudizio in luogo del fittizio genitore.
Portandoci su altro piano, che dire poi dell’ipotesi inerente il caso del fittizio genitore che dopo aver mantenuto, istruito ed educato come proprio figlio, e magari in via
esemplare, sino al raggiungimento della sua maturità adulta, trascorsi quarant’anni
(ipotesi identica e rovesciata a quella esaminata dal tribunale), nel momento del bisogno (malattia, vecchiaia, fallimento, etc.), si veda attinto dalla stessa azione ex art. 263
c.c., promossa dal figlio, nella piena consapevolezza della falsità dell’atto di propria
filiazione e, quindi, in similare (seppur qui solo medio tempore sopraggiunta) mala
fede, per sottrarsi all’obbligo di prestare gli alimenti ? Da un tale esempio, che invero
non si ha difficoltà a riconoscere che può sempre ricorrere come evenienza fisiologica
della mala fede iniziale, deriva però la preconizzazione in nuce della consequenziale
futura ipotesi della sopravvenuta mala fede filiale, che potrebbe anch’essa risultare
meritevole di similare sanzione (ove, ad esempio, protrattasi consapevolmente per un
lungo arco temporale, per meri scopi utilitaristici, di strumentale vantaggio od aspettativa di vantaggio), risultando l’astratto precetto giuridico ispirato di certo ad un
tendenziale equilibrio almeno quanto alla pari dignità tra la figura del figlio e quella
genitoriale (importanti in punto le riflessioni che induce l’art. 315, ora sostituito dal
nuovo art. 315-bis c.c.).
⎪ P. 1 2 9 0
giurisprudenza di merito – n. 6 – 2013
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E poi, avuto riguardo al piano strettamente processuale, altro interrogativo insorge
con forza: può inibirsi al soggetto che abbia il libero esercizio dei propri diritti, con le
note garanzie costituzionalmente presidiate, la legittimazione a promuovere una certa
azione, mentre al contempo, rivestendo comunque le vesti del contraddittore necessario (15), deve esservi convenuto ove la stessa azione venga esercitata da altri legittimati ?
Appare anche qui l’evidenza del paradosso: il fittizio genitore in mala fede deve
essere convenuto in giudizio come contraddittore necessario ma non è legittimato a
dispiegare domanda in merito e, quindi, non potrebbe neppure essere ammesso alla
sede probatoria.
D’altro canto, il tribunale trascura di prendere in considerazione non solo che la
legittimazione ad agire è prefigurata espressamente dall’art. 263 c.c. come la più ampia
possibile, ma che l’azione è ammessa anche dopo conseguita l’eventuale legittimazione del figlio nato fuori dal matrimonio ed è imprescrittibile; ma il silenzio serbato su tali
elementi è totale.
Ed allora, non v’è solo lo stupore per la stridente violazione del tenore e della ratio
espressa dalla norma, come sopra evidenziata, che in realtà si traduce in opera di vera
e propria legislazione (per di più in materia disagevole ove dovrebbe regnare la cautela
dell’interprete ed ove la volontà popolare espressa attraverso il potere legislativo deve
ritenersi assolutamente sovrana nelle scelte), ma colpisce, da un lato, l’infima considerazione del «non genitore» totalmente avulsa dall’analisi del moto originario (al
momento del riconoscimento costitutivo del legame giuridico di filiazione impugnato),
come dall’altro lato, il potere esclusivo così introdotto in mani del «non figlio», dell’altro
genitore o degli altri soggetti (ivi compreso il vero genitore e gli eredi); un tale potere
incondizionato anche nel tempo, può finire per assumere connotati inquietanti e va
ben oltre le sanzioni riservate dall’ordinamento al genitore che dolosamente formula il
riconoscimento alterando il vero.
Prosegue il tribunale affermando che il suo convincimento è in consapevole contrasto con la descritta tesi «ortodossa», rinvenibile nella giurisprudenza della Corte di
Cassazione, identificando però l’insegnamento dell’organo nomofilattico nel solo precedente di Cass., sez. I, 24 maggio 1991, n. 5886 (16), qualificato vetusto e da superare; di
questo insegnamento viene stigmatizzata soltanto la considerazione secondaria che la
Corte aveva ivi espresso in ordine alla «possibilità pratica che un riconoscimento non
veridico di figlio naturale può trovare motivazioni non commendevoli, nella sicurezza
di poterlo mettere nel nulla ad libitum, sia per l’agevole prova della non veridicità dello
stato, sia per l’imprescrittibilità dell’azione a tenore del terzo comma dell’art. 263 c.c.;
con la conseguenza che una norma giuridica può pervenire a rivestire di legalità un
(15)
Non si dubita che la costante minima del necessario contraddittorio nel giudizio ex art. 263 c.c.,
sia ovviamente corrispondente a quello dello stesso
rapporto genitore-figlio oggetto dell’impugnazione;
per maggiori ragguagli, in dottrina, UBALDI, La filiazione naturale, op. cit. in nt. 6, 365; PALAZZO, La filiazione, op. cit. in nt. 6, 318; ed in generale, MANDRIOLICARRATTA, Diritto processuale civile, op. cit. in nt.
giurisprudenza di merito – n. 6 – 2013
precedente, I, 133; in giurisprudenza, cfr., tra altre,
Cass., sez. I, 13 aprile 2001, n. 5533, cit. in nt. 4; Trib.
Catania 21 ottobre 1988, in questa Rivista, 1990, 802,
con nota di Pirrone; Trib. Napoli 20 luglio 1988, in
Giust. civ., 1989, I, 235; Trib. Parma 5 maggio 1987, in
Giur. it., 1988, I, 2, 276, con nota di Vignali.
(16)
Cit. in nt. 1.
P. 1 2 9 1 ⎪
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comportamento indiscutibilmente illecito; ma ritenendo che tali potenziali inconvenienti non possono che essere rimossi dall’intervento del legislatore».
Invero, i precedenti conformi della Corte di legittimità e delle Corti di merito sono
numerosi e recenti (17), ma quel che colpisce dell’interpretazione data dal tribunale al
materiale giurisprudenziale è la circostanza per cui anche non ammettendo l’autore in
mala fede del riconoscimento non veridico all’impugnazione di stato de qua, si produrrebbe lo stesso inconveniente rimarcato ed anzi, in misura ancor più grave; infatti, quel
comportamento indiscutibilmente illecito verrebbe rivestito di un maggior livello, se
così ci è consentito dire, di legalità formale, escludendo proprio l’attore principe di
quella ipotesi di impugnazione, il quale, è bene rimarcarlo, è anche il primo dei soggetti
cui l’art. 263 comma 1 c.c., si riferisce, e non casualmente, poiché di norma depositario
anche della relativa prova.
Ma sono soprattutto i precedenti specifici della Corte costituzionale (18) ad essere
trascurati dal tribunale, nonostante essi assumano un valore dirimente per la corretta
interpretazione, costituzionalmente orientata, dell’art. 263 c.c., mentre quelli analizzati
non sono affatto pertinenti all’azione de qua, come si vedrà appena oltre.
Nel suo percorso motivo il tribunale prosegue infatti con l’affermazione che successivamente all’insegnamento ridetto del 1991, lo stesso organo nomofilattico avrebbe mutato orientamento, a proposito di fecondazione eterologa, negando l’azione di
disconoscimento della paternità di cui all’art. 235 c.c., a chi ne avesse dato il preventivo
consenso; l’insegnamento richiamato è quello di Cass., sez. I, 16 marzo 1999, n. 2315 (19).
Invero, tale insegnamento era stato preceduto da C. cost. 26 settembre 1998, n.
347 (20), e di poi sopravvenuto l’intervento del legislatore con la specifica previsione di
cui all’art. 9 l. 19 febbraio 2004, n. 40 (21), che ne recepiva il risultato sostanziale.
(17)
In realtà tutti i precedenti enumerati nelle
notazioni che precedono, sia della Corte di legittimità che delle Corti di merito, costituiscono un corpus
di tutto rilievo che rende ben consolidata ed attuale
la lineare tesi espressa in Cass., sez. I, 24 maggio
1991, n. 5886, cit. in nt. 1; indirizzo cui da ultimo si è
uniformato Trib. Genova 26 aprile 2012, in Banca
dati Platinum Utet. Il tribunale capitolino ha posto
inoltre riferimento ai due conformi precedenti di
Trib. Civitavecchia 19 dicembre 2008, in questa Rivista, 2010, 1250, con nota di Di Nardo e di Trib. Napoli
28 aprile 2000, in Giur. napoletana, 2000, 277; invero,
le tre pronunce costituiscono una sorta di progressiva motivazione, man mano affinata negli argomenti
motivi; la sentenza del tribunale napoletano segna
l’intuizione iniziale, quella di Civitavecchia ne ha migliorato la struttura ed infine quella in commento si
pone come la risultante finale; si ignora se le due
precedenti sentenze siano state o meno sottoposte
ad impugnazione, come pure l’eventuale esito; ad
ogni modo, a quanto consta, sono le uniche voci dissonanti di cui si ha notizia. Invero, Trib. Bologna 18
febbraio 2010, annotata da GALGANO, Azioni di status
ed abuso del diritto, in Contr. impresa, 2010, 547, pur
in fattispecie non sovrapponibile, desta rilevante in-
⎪ P. 1 2 9 2
teresse in ordine alla ponderata valutazione dei “valori” collidenti, con peculiare riguardo alla legittimità
del rifiuto all’indagine genetica da parte del figlio
evocato in giudizio ex art. 263 c.c., da un successibile
del genitore, dopo la morte di questi ed a distanza di
ben 52 anni dal riconoscimento, peraltro, in prosecuzione di altre azioni “persecutorie” proposte in vita
del de cuius.
(18)
Ci si riferisce in particolare a quelli cit. in nt.
8, che senza ombre o perplessità confermano la tesi
«ortodossa» di Cass., sez. I, 24 maggio 1991, n. 5886,
cit. in nt. 1.
(19)
Rinvenibile in Foro it., 1999, I, 1834, con note
di Scoditti, e Di Ciommo; in Giust. civ., 1999, I, 1317,
con note di Bianca, e Morelli; in Fam. e dir., 1999,
233, con nota di Sesta; in Dir. fam., 1999, 622, con
note di D’Avack, Ciani, Cassano e Prandini; in Giur.
it, 2000, 275, con note di Sciso, e Caggia.
(20)
Rinvenibile in Giur. it., 1999, 461, con nota di
Balestra e Uccella, e 681 nota di Cossu; in Foro it.,
1998, I, 3042, con nota di Romboli; ed in Giust. civ.,
1998, I, 2409, con nota di Morelli.
(21)
(Divieto del disconoscimento della paternità
e dell’anonimato della madre) - 1. Qualora si ricorra
a tecniche di procreazione medicalmente assistita di
giurisprudenza di merito – n. 6 – 2013
giurisprudenza civile
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Logico osservare, di contro, che l’ipotesi eccezionale della fecondazione eterologa
medicalmente assistita non è soltanto estranea alla previsione di cui all’art. 235 c.c.
(l’unica analizzata sia da Cass. n. 2315 del 1999 che da C. cost. n. 347 del 1998), ma è
ipotesi di filiazione, per sua ontologica natura, non fondata sull’apporto genetico, e la
stessa anomalia è di per sé eccezionale; come tale, non può qualificarsi altrimenti che
di strettissima interpretazione.
Basta d’altronde riflettere sulle nette differenze che corrono tra le due ipotesi: il
rapporto di filiazione fondato sulla dichiarazione dell’autore del riconoscimento in
mala fede, che si attribuisce una discendenza che non gli appartiene (art. 263 c.c.), non
costituisce una diversa modalità di procreazione, né presuppone un consenso manifestato al momento della fecondazione; di tal ché, dalla soluzione di quella eccezionale
ipotesi di assunzione del ruolo e della responsabilità genitoriale, non può certo farsi
derivare alcun insegnamento di principio a valenza generale (22); ed una tale obiettività
è stata poi esattamente confermata dal dettato legislativo intervenuto con la l. 19
dicembre 2004, n. 40, proprio a colmare il vuoto normativo che si era creato, siccome è
stata configurata come ipotesi di intangibilità ex lege dello status del nato, quindi,
espressamente derogatorio rispetto a tutti i pochi criteri che accomunano le azioni di
cui agli artt. 235 e 263 c.c.
Ciò non di meno il tribunale capitolino osserva come i presupposti dell’azione di
disconoscimento della paternità (confusamente qualificata «vicina» a quella di cui
all’art. 263 c.c.), desumibili dalla ristretta legittimazione ad agire, dalla tassatività dei
casi in cui è esercitabile, in uno ai termini brevi di decadenza prefigurati, dimostrerebbe che la preferenza della realtà sulla presunzione, non essendo incondizionata, non
risponde ad esigenze pubblicistiche, ma mira ad una tutela basata sulla valutazione
comparativa delle situazioni in conflitto, consentendo di optare, a seconda dei casi, o
per far emergere la verità, ovvero per mantenere la fictio iuris della paternità presunta
in costanza del vincolo di coniugio.
Difficile trovare parole migliori per dimostrare l’erroneo procedimento ermeneutico seguito dal collegio: intanto, anche il tradizionale favor legitimitatis, cioè quel noto
sistema di presunzioni e preclusioni attraverso le quali si privilegia la conservazione
dello stato acquisito dai figli nati in costanza del vincolo matrimoniale, sin dalla riforma
del diritto di famiglia del 1975, ha visto importanti limitazioni, proprio attraverso l’estensione del favor veritatis nella definizione dei rapporti di filiazione, che seppure
non ha sovvertito in via assoluta il sistema, certamente consente di affermare che il
principio della verità ha recuperato il suo valore morale ed umano e la linea tendenziale dell’ordinamento (23) volge a far coincidere la realtà naturale del legame di protipo eterologo in violazione del divieto di cui all’art. 4
comma 3, il coniuge o il convivente il cui consenso è
ricavabile da atti concludenti non può esercitare l’azione di disconoscimento della paternità nei casi
previsti dall’art. 235 comma 1, nn. 1) e 2), del codice
civile, né l’impugnazione di cui all’art. 263 dello stesso codice. 2. La madre del nato a seguito dell’applicazione di tecniche di procreazione medicalmente
assistita non può dichiarare la volontà di non essere
nominata, ai sensi dell’art. 30 comma 1 del regola-
giurisprudenza di merito – n. 6 – 2013
mento di cui al d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396. 3. In
caso di applicazione di tecniche di tipo eterologo in
violazione del divieto di cui all’art. 4 comma 3, il donatore di gameti non acquisisce alcuna relazione
giuridica parentale con il nato e non può far valere
nei suoi confronti alcun diritto né essere titolare di
obblighi.
(22)
D’uopo peraltro il richiamo della recente
Cass., sez. I, 11 luglio 2012, n. 11644, in Guida dir.,
2012, 41, 46, con nota di Fiorini.
(23)
Una tale opinione prevale anche in dottrina;
P. 1 2 9 3 ⎪
giurisprudenza civile
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FILIAZIONE
creazione con la qualificazione formale di genitura; e non è certo da trascurare che la
Costituzione impone, in fatto di filiazione, un sistema di valutazione non discriminatorio (24), che solo oggi, con la recente l. 10 dicembre 2012, n. 219, appare in dirittura di
arrivo; ad ogni modo, le due azioni in questione (artt. 235 e 263 c.c.) sono diversificate
praticamente in tutto, e cioè, quanto ai soggetti legittimati ad esercitarla, quanto al
presupposto obiettivo, quanto alla ricorrenza stessa del conflitto tra posizioni soggettive e quanto al termine temporale per il suo valido esercizio; ed a ben riflettere, non è
che l’evenienza della paternità meramente formale (fictio) sia totalmente estranea alla
previsione di cui all’art. 263 c.c., in quanto, come si è evidenziato, sia pure per il solo
effetto del suo mancato esercizio, non viene meno il rapporto di filiazione, e ciò nonostante ricorra anche la certezza subiettiva in ordine alla sua non veridicità, in chiunque
vi abbia interesse.
Casualmente, ci troviamo di nuovo a toccare con mano quale sia il concreto pericolo
che può discendere dalla mancata e sicura conoscenza delle diverse tipologie e modi di
accertamento degli status di filiazione, secondo il vigente sistema sostanziale e processuale (25); confondere i termini e la funzione di questa o quella azione od i suoi
presupposti, pur a fronte di un modello di tecnica legislativa certamente non mirabile (26), finisce soltanto per indurre in errore; di tal ché quella ricerca del tribunale di
trovare un conforto argomentativo in correlazione con questo o quell’elemento delle
diverse azioni di status o con le forme dell’adozione legittimante, in realtà comporta
solo inutile confusione.
oltre che nelle citazioni poste in nt. 6, diffusi rilievi in
tal senso si rinvengono in BONILINI, Manuale di diritto
di famiglia, Torino, 2002, 247; DE FILIPPIS, CASABURI,
La Filiazione, Padova, 2000, 18 ss.; COSSU, Filiazione
legittima e naturale, in CENDON, Il diritto privato nella giurisprudenza-La famiglia, Torino, 2000, III, 37
ss.
(24)
Tra le innumerevoli citazioni possibili, oltre
quelle che precedono, si richiamano, BONILINI, La famiglia, in Diritto civile, diretto da Lipari e Rescigno,
Milano, 2009, II, La famiglia, 70; MORRONE, in Codice
della famiglia, a cura di SESTA, Milano, 2009, I, sub
art. 2 Cost.; GALGANO, Trattato di diritto civile, Padova, 2009, I, 537; FERRANDO, La filiazione: problemi
attuali e prospettive di riforma, in Fam. e dir., 2008,
635; DOGLIOTTI, Affidamento condiviso e diritto dei
minori, Torino, 2008, 25; PALAZZO, La filiazione, op.
cit. in nt. 6, 239; DOSSETTI, La disciplina unitaria dello
status di figlio: un adempimento che non può essere
rinviato, in Fam. pers. succ., 2006, 418; GIACOBBE,
Famiglia: molteplicità di modelli o unità categoriale,
in Dir. fam., 2006, 1219; SESTA, Diritto di famiglia,
Padova, 2005, II, 470; BALESTRA, La famiglia di fatto,
Padova, 2004, 1; D’AURIA, Il rapporto di filiazione e la
filiazione legittima, in Manuale del nuovo diritto di
famiglia, a cura di Cassano, Piacenza, 2003, 1102;
PERLINGIERI-PISACANE, Commento alla Costituzione
⎪ P. 1 2 9 4
italiana, Napoli, 2001, 191; RESCIGNO, Matrimonio e
famiglia, Torino, 2000, 282; PROSPERI, La famiglia non
fondata sul matrimonio, Camerino-Napoli, 1980, 74.
(25)
Si impone a questo punto una precisazione:
la recente «parificazione» degli status filiationis ad
opera del novellato art. 315 c.c. (Stato giuridico della
filiazione), che proclama come «Tutti i figli hanno lo
stesso stato giuridico», si riferisce al contenuto sostanziale dei diritti e dei doveri; logico dedurne che
questa unificazione del rapporto di filiazione non risente della conservazione di modalità di accertamento, contestazione, reclamo, impugnazione, etc.,
differenziate a seconda se la filiazione è insorta o
meno in costanza del vincolo di coniugio (la nuova
residuale terminologia distintiva tra figli matrimoniali e non, di cui alla delega legislativa ex art. 2
comma 1, lett. a), l. 10 dicembre 2012, n. 219, appare
scevra da quell’anteriore carica di negativa contrapposizione degli status filiali e conforme al dettato di
cui all’art. 30 Cost.); invero, tali diversi modelli di
azione e modi di procedere, ancorché il principio di
uguaglianza ne possa consigliare almeno una tendenziale uniformità, non scalfiscono certo l’odierno
statuto che presiede al rapporto di filiazione.
(26)
Il rilievo è assai risalente; per tutti, si cfr. il
duro commento di CARNELUTTI, Istituzioni del processo civile italiano, Roma, 1956, III, 196.
giurisprudenza di merito – n. 6 – 2013
giurisprudenza civile
FILIAZIONE
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Anche il richiamo delle altre pronunce della C. cost. 27 novembre 1991, n. 429 (27), e
20 luglio 1990, n. 341 (28), appare obiettivamente ininfluente e fallace ai fini che qui ci
occupano, anzi, confermano la tesi contraria a quella in commento, trattandosi di
ipotesi del tutto incomparabili. Infatti, all’esame della prima statuizione (reputata
infondata) era giunta la valutazione da parte del P. M. prima e del tribunale poi,
dell’interesse concreto del minore, prima e dopo il compimento degli anni sedici,
nell’esercizio dell’azione di disconoscimento di paternità di cui all’art. 244 comma 4 c.c.,
cioè ad istanza o nell’interesse del minore stesso; all’esame della seconda (reputata
fondata) era invece giunto il quesito del se ricorresse o meno l’esigenza di una preventiva valutazione a riscontro del positivo interesse del minore infrasedicenne, in ipotesi
di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale ex art. 274 comma 1 c.c.,
promossa dal genitore esercente la potestà.
Prosegue il tribunale con l’argomento secondo cui, l’opzione decisoria volta alla
conservazione del rapporto di filiazione, fondato sulla fictio iuris della genitorialità
formale, contraria a verità, e sulla tutela dell’interesse del figlio minore, qualificato
configgente, sarebbe stato ribadito con più forza, ancora dalla recente C. cost. 23
febbraio 2012, n. 31 (29), siccome ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 569
c.p., nel momento in cui prevede sempre l’applicazione di diritto della pena accessoria
della decadenza dalla potestà genitoriale, in capo al genitore condannato per il delitto
di alterazione di stato, precludendo al giudice ogni possibilità di valutazione dell’effettivo interesse del minore nel caso concreto.
Anche questo richiamo risulta obiettivamente fallace, nel momento in cui non
considera come risulti pacifico, anche in presenza di condanna del genitore per il
delitto di alterazione di stato, che il rapporto di filiazione può rimanere integro, ove
nessuno dei soggetti legittimati promuova l’impugnazione ex art. 263 c.c.; difatti, stante
anche l’autonomia e separazione delle sedi processuali, sancita nell’art. 75 c.p.p., la
potestà genitoriale, correttamente esercitata, risponde all’interesse morale e materiale
del minore, e dunque, quella pena accessoria coinvolge inevitabilmente proprio tale
interesse, facendo cadere l’automatismo presuntivo ed assoluto di pregiudizio; sicché
ora, ogni singolo caso, deve valutarsi in tale ottica; rileva così l’accertamento concreto
della rispondenza o meno della pena accessoria a tale interesse del minore, qualificato
prioritario anche in virtù delle norme internazionali recepite e delle riforme interne
succedutesi (art. 155 c.c.).
A questo punto si pone l’esigenza di una sottolineatura: la sentenza in commento,
ripetutamente invoca l’interesse del figlio minore, sforzandosi di individuare la ricorrenza di un pregiudizievole conflitto, in via di principio, coincidente con lo stesso
esperimento dell’impugnazione ex art. 263 c.c.; ma l’assunto è privo in assoluto di
rilievo, non solo perché nella specie l’impugnazione di stato non attingeva certo soggetto in età minore, ma per la ragione già sopra esposta per cui l’accertamento di
(27)
Rinvenibile in Giur. it., 1992, I, 1, 385, in Foro. it., 1992, I, 2908, ed in Arch. civ., 1992, 142.
(28)
Rinvenibile in Giur. it., 1991, I, 1, 626, con
nota di Tria, in Foro it., 1992, I, 25, con nota di For-
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mica, ed in Giust. civ., 1990, I, 2485, con nota di Sassani.
(29)
Rinvenibile in Fam. e dir., 2012, 437, con nota
di Chicco, ed in Giur. it., 2012, 1873.
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filiazione non veridica, per sua ontologica natura, non si pone mai ed in via di principio
in conflitto ponderabile con l’interesse del minore.
La norma non consente di ipotizzare che il rapporto di filiazione possa prescindere
dal legame procreativo, una volta contestato, per accedere ad una nozione di famiglia
formale rapportabile a mere scelte fondate sul consenso, per di più irrevocabile.
Resta come appesa in aria la considerazione secondo cui al genitore in mala fede
che insorge con l’impugnazione dell’anteriore riconoscimento in parola, si permette di
venire contra factum proprium; questa considerazione (che assume, ad esempio, uno
spessore obiettivamente diverso e dirimente nella fattispecie dell’inseminazione eterologa, ove il consenso prestato costituisce l’unico atto responsabile cui imputare la
nascita del figlio, altrimenti privo di genitori), è semplicemente irrilevante, essendo
l’evenienza esattamente prefigurata dall’art. 263 c.c.; e d’altronde, l’alternativa soluzione proposta dal tribunale, sarebbe peggiore del male, in quanto attribuisce a quel
riconoscimento legalità formale irretrattabile pur risultando il frutto di un fatto illecito.
Invero, diversa è la ricostruzione complessiva operata dalla Corte delle leggi, in
particolare con i precedenti enumerati in nt. 8, nel momento in cui sottolinea come, a
fronte dell’ampio spettro di ipotesi tra loro diversificate, la funzione precipua dell’impugnazione di cui all’art. 263 c.c. è quella di far cadere senza limitazioni ogni falsa
apparenza dello status filiationis dichiarato al di fuori del vincolo matrimoniale, sicché
è persino privo di senso prendere anche in considerazione l’ipotesi di un conflitto con
altri interessi che si fondano sulla pretesa di mantenere un tale status fittizio.
Né sarebbe obiettivamente individuabile, con sicura previsione astratta e generale,
quale debba essere il criterio guida per l’individuazione dell’interesse del figlio, meritevole di tutela privilegiata, a mantenere un simile status (conservare o perdere, rispettivamente vantaggi o pregiudizi, connessi o riflessi al rapporto di genitura formale,
ovvero di quella naturale, costituisce quanto di più opinabile si possa ipotizzare o
valutare); anzi, come ridetto, l’ordinamento positivo reputa meritevole di tutela primaria il diritto del figlio alle proprie origini (il diritto di ognuno a conoscere la propria vera
identità biologica, parentale e sociale, è stato fatto oggetto di espresso riconoscimento
già con l’art. 7 della Convenzione dei diritti del fanciullo del 1989, ratificata con l. 27
maggio 1991, n. 176, per cui il fanciullo ha diritto «nella misura del possibile, a conoscere i suoi genitori e ad essere allevato da essi»).
Se poi ci si volesse riferire alla mera aspettativa successoria, come sembra evincersi
nella fattispecie giunta all’attenzione del tribunale capitolino, ove di tutta evidenza il
rapporto affettivo di filiazione risultava rovinosamente fallito, l’interprete non può
rinvenire in tale prospettiva alcun argomento rilevante ai fini che qui ci occupano; la
sussistenza od il permanere o meno di un valido ed efficace rapporto di filiazione non
è infatti questione che può trovare la soluzione nelle disposizioni che regolano l’apertura della successione in morte del genitore, quando debbono individuarsi i soggetti
aventi diritto (30); in una parola, anche il rapporto di filiazione illecito, fa insorgere in
capo al figlio molteplici diritti e legittime aspettative di diritto, sino al momento suc(30)
Sul tema generale delle implicazioni successorie, si rinvia alla preziosa analisi in SESTA-CUFFARO
(a cura di), Persona, famiglia e successioni nella
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giurisprudenza costituzionale, Napoli, 2006, in particolare sub parte IV.
giurisprudenza di merito – n. 6 – 2013
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cessorio, ma una tale posizione soggettiva si pone in rapporto consequenziale, sempre
condizionata dalla sussistenza o meno di quello status; e d’altro canto, venendo in
contestazione lo status di figlio non è neppure dato individuare il fondamento dell’ipotetica «preminenza» dell’aspettativa del «non figlio» a succedere comunque al «non
genitore», sulla falsariga, ad esempio, della possibile rivendicazione a proseguire nell’uso del cognome acquisito, pur dichiarato il riconoscimento non veridico (31); lo stesso
tribunale capitolino, nel concludere la propria motivazione, finisce con l’ammettere
che la ragione dell’impugnazione in parola (definita «ripensamento») non sarebbe
indifferente, stigmatizzando soltanto l’ipotesi dei «motivi pretestuosi e non degni di
tutela».
L’occasione induce così a qualche ulteriore cenno di riflessione che attinge altra
sfera di «verità», quella degli «affetti».
Ecco allora insorgere altre ragioni di riflessione: poiché risulta evidente che nel
caso di specie, l’apparente anziano genitore, abbia agito animato dalla delusione rispetto alla propria aspettativa di padre, per il fallimento del rapporto affettivo di
filiazione, pur instaurato con una forte carica originaria, tanto da violare un precetto di
legge d’ordine penale, e proseguito per lunghi anni con l’assolvimento (che si intuisce
generoso) di tutti i doveri genitoriali sino al matrimonio ed alla piena autonomia adulta,
con occhio rivolto al miglior destino futuro, ci troviamo ancora una volta a fronte di temi
delicatissimi, alla base di tutti i legami familiari ed il cui movente risiede nel sentimento
e nelle correlate sensibilità umane; ebbene, ponendosi in ottica rispettosa di ogni
singolo membro della famiglia (giustamente definita prima comunità ove si svolge e si
sviluppa la personalità del singolo, quindi, anche quella del genitore), il quesito è:
l’aspettativa di rispetto, riconoscenza e considerazione nutrita dal genitore a fronte dei
propri sacrifici di una vita (32), non assume alcun rilievo nel nostro ordinamento ? La
figura genitoriale porta su di sé unicamente il bagaglio delle responsabilità, come
privata a prescindere di qualsivoglia aspettativa ?
È disagevole persino ammantare la sua soluzione giuridica dietro al retorico rilievo
che l’affetto non è coercibile; sembra, invero, consigliabile un approccio al tema che
vada in qualche modo oltre, almeno secondo il criterio per cui i conflitti (di interessi)
che traggono origine e causa dalle situazioni di crisi relazionale familiari, è bene siano
valutati con saggia equidistanza dagli attori di un tale fallimento.
Ben sappiamo che, nell’ottica del genitore che subisce l’anaffettività filiale, l’aspettativa ereditaria dei figli, reputati per tale ragione immeritevoli, può essere limitata (ma
risulta appropriato anche dire sanzionata) attraverso la diversa attribuzione testamentaria della quota disponibile, od esclusa nella ricorrenza delle tassative ipotesi dell’in(31)
Ipotesi emersa nella casistica giurisprudenziale, tra i quali precedenti si segnala, App. Palermo
7 marzo 1995, in Dir. fam., 1995, 1026, con nota di
Tortorici.
(32)
Rilevanti le considerazioni svolte in punto da
PALAZZOLO, Verità dello status e verità degli affetti tra
sanzione penale e risarcimento del danno, in Vita
not., 2012, 1508, proprio in nota a questa stessa sentenza di merito. D’altro canto, un canone in termini
di marcati doveri anche a carico del figlio, si evince
giurisprudenza di merito – n. 6 – 2013
dall’art. 315 c.c. (ora trasfuso nel novellato art. 315bis c.c.), pur risultando questa norma la più disapplicata in assoluto, praticamente «assente» dalle aule
giudiziarie, mentre nell’attualità sembra emergere
l’esigenza di una complessiva riconsiderazione del
tema afferente l’individuazione, in ambito familiare,
dei reali soggetti deboli; fin troppi i casi segnalati
dalla cronaca quotidiana, di protervia filiale verso i
propri genitori, viepiù intollerabile ove attinga soggetti in età avanzata.
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degnità a succedere; nella corrispondente ottica del figlio, non di meno, dovrebbe
ricercarsi l’origine della sanzione dell’indifferenza, del mero capriccio, od addirittura
dell’ostilità, inflitta al proprio genitore, magari in prossimità della successione e pur
rivendicandola con forza.
Temi così ardui in fondo possono risultare frutto (non voluto) di un sistema di tutela
della posizione filiale incondizionata a qualsiasi età (nella specie ultraquarantenne),
anche ove la debole posizione oramai obiettivamente superata ed addirittura invertita;
non è difficile preconizzare che il legislatore del futuro, inevitabilmente, si troverà ad
affrontare anche tale ricorrente ambito, atteso che il dovere della solidarietà, cui sono
giuridicamente improntati i rapporti familiari, è ovviamente retto dal criterio intrinseco della reciprocità; l’evoluzione storica infatti ci fa ben intravedere l’attuale livello di
criticità, persino del monito millenario, caratterizzante il susseguirsi delle generazioni,
racchiuso nel biblico precetto «onora il padre e la madre» (che, giova sottolinearlo,
presuppone intrinsecamente la pienezza del rispetto della personalità e della dignità
del figlio); e seppur l’universalità di tale canone vada ben oltre la singola cultura, od il
singolo ordinamento giuridico, o la singola ragione di fede.
D’altronde, anche il criterio costituzionale di cui all’art. 42 comma 4 Cost., consente
al legislatore ordinario rilevanti margini di regolamentazione, anche solo modulando,
ad esempio, l’entità della quota disponibile al testatore, magari sulla base di criteri
nuovi.
Ma qui è in gioco l’esistenza o meno proprio del presupposto ontologico e normale
della successione di discendenza, costituito dal veridico fatto di filiazione, che sta a
monte e guida il sistema, quanto meno in via di tendenziale omogeneità.
A tal proposito non è certo fuori luogo osservare come anche la riforma di cui alla l.
8 febbraio 2006, n. 54, in un quadro di riconosciuti preminenti interessi dei figli nel loro
percorso verso l’autonomia adulta, tende ad una equiparazione dei loro diritti sostanziali e processuali (fatto evidente, tra l’altro, dal tenore dell’art. 4), attenuando il differente statuto giuridico tra figli nati o meno all’interno del vincolo matrimoniale, ma non
si pone mai in termini di contrapposizione rispetto al difetto di veridicità dell’atto di
riconoscimento filiale; e così, altrettanto fuori luogo risulta il richiamo del tribunale,
all’irrevocabilità del riconoscimento, sancita nell’art. 256 c.c. (l’esercizio stesso dell’azione ex art. 263 c.c. tacciato come sostanziale «revoca» dell’atto di riconoscimento),
risultando di tutta evidenza che ivi ci si riferisce all’atto in sé e per sé considerato, e non
alla sua corrispondenza o meno a verità; infatti, neppure il riconoscimento non veridico, all’esito del positivo esperimento dell’impugnazione in questione, viene revocato,
ma solo dichiarato tale (non rispondente al vero), privando di ogni effetto il fittizio
rapporto di filiazione così insorto, ex tunc.
È ora appena intervenuta la riforma della filiazione, con la l. 10 dicembre 2012, n.
219, che con il nuovo art. 315 c.c., sancisce come «Tutti i figli hanno lo stesso stato
giuridico», ridisegnando complessivamente il sistema, con il fine di porre rimedio ad
ogni residua discriminazione; anche nelle sue disposizioni si rinviene la conferma
della natura e della funzione dell’impugnazione di cui all’art. 263 c.c., in quanto tale
azione appare conservata nei suoi tratti essenziali; all’art. 2, contenente la delega al
Governo per la revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, lettera g), si
detta infatti il seguente criterio riformatore: «modificazione della disciplina dell’impu-
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giurisprudenza civile
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gnazione del riconoscimento con la limitazione dell’imprescrittibilità dell’azione solo
per il figlio e con l’introduzione di un termine di decadenza per l’esercizio dell’azione
da parte degli altri legittimati»; come si vede, il principio cardine adottato dal tribunale
capitolino, secondo cui il riconoscimento operato dal genitore in mala fede sarebbe in
realtà irretrattabile, viene nuovamente respinto; il legislatore è invece giunto a diversa
soluzione relativamente all’imprescrittibilità dell’azione, che rimarrà soltanto a favore
del figlio, mentre l’autore del riconoscimento e «chiunque vi ha interesse» avrà a
disposizione uno spazio temporale intermedio, a pena di decadenza; la composizione
tra le varie esigenze viene così fissata, anche se il termine decadenziale dovrà essere
congruamente individuato in relazione alla peculiare natura dell’impugnazione in
questione e rimarranno integre tutte le altre note questioni afferenti la conoscenza, la
consapevolezza, la decorrenza; l’assimilazione operata con le altre azioni di status,
quale quella di disconoscimento, ove v’è la previsione di un termine decadenziale ma
giustificato dall’operare della sopra menzionata presunzione di paternità in costanza di
matrimonio, non è peraltro esente da censure; le opportune distinzioni andranno
prese in considerazione e prefigurate, ma certo non è arduo pronosticare che tale
termine decadenziale sarà inferiore ai quarant’anni, che così malamente caratterizzava il caso di specie.
4. CONCLUSIONI
Conclusivamente, il fondamentale sforzo motivo compiuto dal tribunale non supera il
razionale vaglio critico, né risulta confacente a regolare i destini del legame affettivo
attinto, ma, il suo concreto risultato finale, in futuro, sembra proprio destinato a restare
confermato, dovendo il legislatore delegato individuare un termine di decadenza ragionevole; od in via astratta e generale, ovvero tenendo conto di altri criteri differenziali, quali potrebbero essere proprio quello della buona o mala fede dell’autore del
riconoscimento, del connesso termine di prescrizione del reato di alterazione di stato,
di una certa età del figlio o dell’eventuale ragione giustificativa dell’impugnazione, o
similari criteri distintivi.
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