pl.it 2016 ~ rassegna italiana di argomenti polacchi - PL.IT

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pl.it
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rassegna italiana di argomenti polacchi
7 2016
ISSN: 2384-9266
pl.it  rassegna italiana di argomenti polacchi  (VII) 7, 2016
pubblicazione annuale
ISSN: 2384-9266
Gli articoli della rivista sono sottoposti a valutazione di double blind peer review.
sito internet: www.plit-aip.com/plit
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Alessandro Amenta, Luca Bernardini, Giovanna Brogi Bercoff, Andrea Ceccherelli, Marina
Ciccarini, Grzegorz Franczak, Krystyna Jaworska, Irena Putka, Laura Quercioli Mincer, Emiliano
Ranocchi, Giovanna Tomassucci
COMITATO SCIENTIFICO
Małgorzata Czermińska (Uniwersytet Gdański), Rolf Fieguth (Universität Freiburg, Schweiz),
Lucyna Gebert (Sapienza Università di Roma), Sante Graciotti (Sapienza Università di Roma),
Elżbieta Jamrozik (Uniwersytet Warszawski), Roman Krzywy (Uniwersytet Warszawski), Luigi
Marinelli (Sapienza Università di Roma), Władysław Miodunka (Uniwersytet Jagielloński),
Jadwiga Miszalska (Uniwersytet Jagielloński), Sergej Nikolaev (Sankt-Petersburgskij
Gosudarstvennyj Universitet), Joanna Niżyńska (Indiana University, Bloomington), Stanisław
Obirek (Uniwersytet Warszawski), Antony Polonsky (Brandeis University), Anton Maria Raffo
(Università di Firenze), Piotr Salwa (Uniwersytet Warszawski), Nina Taylor (University of
Oxford)
GRAFICA
Alessia Covato
PATROCINIO E CONTRIBUTI
Il presente numero è stato realizzato grazie al contributo dell’Ambasciata della Repubblica di
Polonia in Roma
Ambasciata
della Repubblica di Polonia
in Roma
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pubblicazione violasse eventuali diritti d’autore si prega di comunicarlo via e-mail alla redazione.
INDICE
Il futurismo in polonia. Bilanci e nuove prospettive
A cura di Emiliano Ranocchi
7
Grzegor Gazda
La storia chiusa del Futurismo polacco
15
Krzysztof Jaworski
„Najmłodsi futuryści warszawscy”, czyli o peryferiach polskiego futuryzmu – próba
rekonesansu
27
Przemysław Strożek
Panorama di collaborazioni internazionali. Enrico Prampolini e i suoi contatti con gli
ambienti dell’avanguardia polacca
39
Emiliano Ranocchi
The Polish Cyborg. A Reflection on the Relationship between Man and Machine in Early
Polish Modernism
61
Andrea De Carlo
Il futurismo polacco nella critica letteraria dell’epoca
77
Paweł Graf
„Na skrzyżowaniu dwóch wrogich epok stoję, cynicznie gryząc papieros”. O tekstowych
projekcjach twórczości futurystów w relacji do ich postaci multimedialnych
na przykładzie Marsza Bruno Jasieńskiego
93
Monika Gurgul
Mount Everest 1924 di Jalu Kurek
103
Emiliano Ranocchi
Manifesti del futurismo polacco
141
Giovanna Tomassucci
Anatol Stern e Bruno Jasieński
155
Bibliografia sul futurismo polacco in lingue occidentali
Articoli
161
Marina Ciccarini
Tra senso e suono: il caso di Ewa Lipska
Barbara Minczewa
Il desiderio di utopia. Elementi per definire la costruzione delle distopie teatrali
polacche
171
187
Sławomir Jacek Żurek
The Shoah in Contemporary Polish Fiction (after 1989)
Recensioni
199
200
Walenty Neothebel, Acrostichis własnego wyobrażenia kniaża wielkiego
moskiewskiego (Viviana Nosilia)
Drogi duchowe katolicyzmu polskiego XVII wieku, a cura di Alina Nowicka-Jeżowa (Giovanna Brogi)
203
Lena Seauve, Labyrinthe des Erzählens. Jean Potockis Manuscrit trouvé à Saragosse
207
Alessandro Amenta, Le parole e il silenzio. La poesia di Zuzanna Ginczanka e
Krystyna Krahelska (Andrea F. De Carlo)
211
Stefan GrabiŃski, Il demone del moto. Racconti fantaferroviari (Andrea F. De Carlo)
214
Szymborska, la gioia di leggere. Lettori, poeti, critici, a cura di Donatella Bremer
(Emiliano Ranocchi)
e Giovanna Tomassucci (Emiliano Ranocchi)
219
Gli autori di questo numero
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IL FUTURISMO IN POLONIA
BILANCI E NUOVE PROSPETTIVE
A cura di Emiliano Ranocchi

Grzegorz Gazda
La storia chiusa del Futurismo polacco
P
er questo schizzo critico-letterario prenderò l’avvio da alcuni dati ben noti1. In Polonia
le prime notizie sul Futurismo ebbero come fonte principale il numero del 20 febbraio
1909 di «Le Figaro» dove erano apparsi Fondation et Manifeste du Futurisme di Filippo
Tommaso Marinetti. Il termine Futurismo comparve invece agli inizi del maggio dello stesso
anno, in un resoconto anonimo del giornale cracoviano «Nowa Reforma», sorta di résumé assai
soggettivo e critico della conferenza marinettiana di Parigi. In ottobre, sulle pagine del settimanale
«Świat», che veniva pubblicato sia a Varsavia che a Cracovia, Ignacy Grabowski presentò le
principali caratteristiche del Futurismo italiano, dell’opera di Marinetti e della rivista «Poesia».
Sebbene esprimesse opinioni in qualche modo attinenti, riportando gli undici punti del manifesto
in una propria traduzione, le sue osservazioni furono nel complesso superficiali, demagogiche
e devianti. Fino al 1921, accanto alla sua traduzione, sarebbero apparse anche altre tre diverse
versioni dei punti salienti del manifesto.
Potremmo dire che entrambe le traduzioni di «Nowa Reforma» e «Świat», che avevano
dato inizio alla fortuna del Futurismo in Polonia, erano in un certo modo già rappresentative di
alcuni aspetti tipici della ricezione del movimento nell’intero periodo tra le due guerre. Benché
all’inizio il Futurismo costituisse in Polonia soprattutto una vaga etichetta, un tema di attualità
che suscitava lazzi sulla stampa quotidiana (vari parodisti e debuttanti cercavano in questo modo di
attirare attenzione su di sé), nei decenni successivi esso riuscì tuttavia a penetrare – se è lecito usare
una simile metafora – attraverso i fili spinati di un’ostilità generale e le trincee del tradizionalismo.
In molti paesi dell’Europa centrale e orientale il Futurismo doveva rappresentare una
potenziale aspirazione verso la modernità, una liberazione “dalle angustie del provincialismo”.
Dopo la catastrofe della Grande guerra, dopo la riconquista dell’indipendenza da parte di molti
popoli europei che cominciavano non solo a cercare una nuova identità, ma anche a costruire
nuovi legami culturali e internazionali, i programmi dell’avanguardia prima o poi erano destinati
a trovare un terreno fertile nella nuova civiltà postbellica. Il Futurismo colpiva nel cuore di quelle
1
Con questo mio intervento mi propongo di offrire un quadro sintetico sul Futurismo polacco. Mi limito a presentare alcune
delle opere che a me paiono più significative non solo perché offrono molti e importanti dati conoscitivi e interpretativi ma
anche perché sono caratterizzate, a mio avviso, da un taglio metodologico e una visione critica interessanti. Non ho dunque la
pretesa di offrire un quadro completo dello status quaestionis, né di sottoporre a giudizio critico i molti libri e articoli che sono
stati pubblicati in epoca anche recente: in ognuno di essi si trovano opinioni illuminanti e spunti di riflessione stimolanti.
Non posso tacere d’altra parte che sul Futurismo polacco è stato detto molto e non è facile oggi individuare vere novità nella
“futurismologia”. Non mi pare che la brevità dell’articolo previsto in questa sede consenta l’inserimento di lunghe serie di
citazioni bibliografiche riferite alla grande quantità di lavori pubblicati a cominciare dall’inizio del XX secolo: chi desidera
avere una bibliografia ricca e dettagliata sul Futurismo polacco troverà tutte le informazioni necessarie nell’eccellente
monografia di Krzysztof Jaworski, di cui scrivo alla fine del mio articolo e che giustamente è stata proposta per il prestigioso
Premio intitolato a Tadeusz Kotarbiński.
7
Grzegorz Gazda
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tendenze, i suoi slogan venivano fatti propri da molte culture letterarie, non solo in Europa, in
Cecoslovacchia, in Romania o tra gli slavi meridionali, ma anche nei remoti continenti, quali
l’America del Sud.
Nella Polonia che stava riconquistando l’indipendenza, ma in cui si cercavano di tutelare le
tradizioni e il retaggio culturale, ci si attendeva un “neofuturismo tranquillo e assai più profondo”
(S. Ronin, in «Echo Literacko-Artystyczne», fasc. 9, 1914): a causa delle sue comprensibili
arretratezze e ritardi si evitavano certi slogan apologetici sulla civiltà e tecnica moderna, ponendo
soprattutto l’accento su un “ampliamento della gamma dei temi e dell’espressione nell’arte” (C.
Jellenta, in «Rydwan», fasc. 5, 1912). Era un’epoca in cui si poneva la necessità di organizzare
dalle sue fondamenta lo Stato sconvolto dai cambiamenti radicali dalla Grande guerra e questo
non orientava certo verso i radicali rivolgimenti proposti da Marinetti e dai suoi manifesti italiani.
In Polonia, di fronte ai piani della ricostruzione della cultura nazionale e della vita letteraria,
gli slogan radicali della distruzione della tradizione non potevano trovare un terreno fertile né
tantomeno suscitare consensi. Critici e pubblicisti del tempo descrivevano quasi all’unisono gli
slogan dei futuristi italiani e gli eventi di cui erano stati protagonisti (si scriveva soprattutto delle
performance di gruppo di Marinetti e delle esposizioni artistiche futuriste a Parigi e Londra:
la poesia del fondatore del Futurismo non era né poteva ancora esser nota), intravedendovi
soprattutto ciò che poteva apparire come scandalo, stranezza, auto-réclame, baruffa e provocazione
di costume, esagerazione o radicale brutalismo. In questo coro di opinioni unanimemente critiche
e sbeffeggianti non mancavano però posizioni ponderate, anche se critiche, di autorità letterarie
più anziane quali Stefan Żeromski e Wilhelm Feldman.
Negli articoli che sembravano gareggiare tra loro per presentare in maniera più efficace e
divertente certe “folli correnti artistiche”, comparvero anche certe prime e superficiali notizie sui
russi (si noti bene, dal tono assai simile a quelle già citate), e sulle serate poetiche con Vladimir
Majakovskij e David Burljuk a Tver’, Mosca, Minsk: venne anche citata in traduzione una delle
poesie di Igor Severjanin. Nella pubblicistica del tempo in genere non ci si curava di differenziare i
diversi programmi artistici che a quel tempo si diffondevano in Europa: si confondevano tra di loro
l’Espressionismo, il Futurismo e il locale movimento del Formismo. In quei primi anni a queste
tempestose dichiarazioni della stampa quotidiana e letteraria non si affiancarono le voci dei poeti,
ad eccezione di quella di Julian Tuwim. Un’analisi delle componenti futuriste della sua poesia
meriterebbe una trattazione a sé stante. Mi limito in questa sede a rilevare che era allora l’epoca
della nascita del gruppo letterario “Skamander”: verso la fine del 1915, il giovane poeta, ancora
sconosciuto ma destinato al successo (come lasciava intendere la stampa), tenne una conferenza
sul “Futurismo italiano e russo” da cui prese le distanze con ironici bon mot. Questo fatto non gli
impedì in seguito, dopo la pubblicazione della raccolta poetica Czyhanie na Boga [Agguato a Dio,
1918] e l’inaugurazione del caffè letterario Pod Pikadorem [All’insegna del Picador, 1919] in cui
si esibiva con il suo gruppo di “Picadoristi” (che la stampa non a caso definiva “Neofuturista”), di
proporsi proprio come Futurista, divenendo tema di alcune sue conferenze (1919). Si era del resto
già proclamato Futurista anche nella sua programmatica Poezja (Poesia):
Będę ja pierwszym w Polsce futurystą,
A to nie znaczy, bym się stał głuptasem.
Co sport z poezji czyni i z hałasem.
Udaje maga, a jest tylko glistą;
La storia chiusa del Futurismo polacco
Io sarò in Polonia il primo Futurista
E non vuol dire che farò l’allocco
Che della poesia fa sport in bella vista
Si crede mago ma è solo un pidocchio.
Del resto ancor prima che si costituisse il gruppo “Skamander”, Tuwim aveva già
ripetutamente partecipato a “serate futuriste”. Va notato che proprio in quegli stessi anni (19171921), egli andava appassionandosi ad Arthur Rimbaud, traducendolo, e si proponeva anche
come ambasciatore dell’opera di Walt Whitman, cui attribuiva un carattere prefuturista. Del
resto l’intera Europa letteraria, da Parigi a Mosca, andava allora scoprendo la produzione poetica
ottocentesca del poeta americano, come fonte della ricerca della modernità in Europa. Tuwim
tenne proprio su questo tema alcune conferenze a Łódź, Cracovia e Varsavia2.
Si può considerare come un dato acquisito il fatto che solo alla fine della seconda decade del
XX secolo il Futurismo in Polonia iniziò ad assumere forme più precise e programmaticamente
credibili. Nel 1919 Anatol Stern e Aleksander Wat, insieme ai membri del gruppo “Pod
Pikadorem”, organizzarono a Varsavia serate futuriste e “neofuturiste”. Al Futurismo si interessava
allora anche il poeta e pittore cracoviano Tytus Czyżewski, cofondatore del movimento del
Formismo, che si esibiva come espressionista anche in vari incontri artistici. Verso la fine del 1919
un poeta di Vilna, Jerzy Jankowski, diede alle stampe Tram wpopszek ulicy [Il tram attraverso la
strada]: nella raccolta – composta nella caratteristica scrittura non ortografica che i Futuristi in
seguito avrebbero fatto propria, segno di rottura con la tradizione – si trovavano anche alcuni testi
risalenti al 1914, in cui erano presenti motivi di provenienza futurista.
Questi pochi ma fondamentali fatti ci permettono di delineare una mappa del Futurismo
polacco, mappa dalla quale oggi è stato cancellato il mitico volantino Tak, a suo tempo considerato
reale ma perduto, attribuito a Stern e Wat che però nessuno ha mai visto, forse perché non è esistito.
Di una ricezione relativamente tarda del Futurismo testimonia anche To są niebieskie pięty które
trzeba pomalować [Questi sono i talloni blu da pitturare], un evento editoriale che comincerà
a venire ricordato solo dopo alcune decine di anni, visto che a suo tempo non aveva attirato
l’attenzione di nessuno (ad eccezione di un’anonima nota satirica sulla «Gospoda Poetów»,
1, 1920, p. 16). Anche se non vale la pena di soffermarvisi a lungo, ricordiamo le primizie dei
cosiddetti “Giovanissimi Futuristi di Varsavia”, che negli anni 1921-1924 pubblicarono oltre una
dozzina di volantini dai titoli spassosi, spesso citati in nota in certe minuziose ricostruzioni della
cultura letteraria dell’epoca. Si chiamavano Pam Bam, Pijany Parasol [L’ombrello Ubriaco],
Trrr, Lejek w Mózgu [Un imbuto nel Cervello], Wiatr w Rosole [Vento nel Brodo] e simili, e
contenevano testi di autori per noi assolutamente anonimi.
In mezzo a questo plancton d’avanguardia, spesso definito “il più giovane Futurismo”,
che veniva pubblicato allora, è degno di attenzione soprattutto l’almanacco Gga (1920), in
cui, come indicano sottotitoli e slogan, il Futurismo si batteva per aggiudicarsi un primato sul
primitivismo. Gga costituisce d’altra parte anche un fondamentale punto di partenza per chi si
occupa di ricostruire la nascita del dadaismo in Polonia e quel “plancton d’avanguardia”, di cui
esso faceva parte, è oggi oggetto di nuovi studi ancora in corso. Vale la pena di rivolgere la nostra
attenzione ai due autori e editori di Gga, Anatol Stern e Aleksander Wat, che presto avrebbero
2
Sul ruolo del Futurismo nel primo Tuwim si veda in italiano: G. Tomassucci, Julian Tuwim: il primo futurista? in Gli altri
Futurismi. Il Futurismo in Polonia, Russia, Cecoslovacchia, Bulgaria e Romania, Atti del Convegno Internazionale, Pisa, 5 giugno 2009,
a cura di G. Tomassucci e M. Tria, Edizioni Plus, Pisa 2010, pp. 93-112 [N.d.R.].
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Grzegorz Gazda
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costituito “l’ala varsaviana” del Futurismo polacco. Gga conteneva tra l’altro i loro esordi poetici,
che preannunciavano le future raccolte: Nagi człowiek w śródmieściu [Un uomo nudo in centro
città] e Fruwające kiecki [Gonnelle volanti] di Stern, accanto alla prosa poetica di Wat Ja z jednej
strony i ja z drugiej strony mego mopsożelaznego piecyka [Io da una parte e io dall’altra parte della
mia carlinoferrea stufetta, 1920]. Questo testo non sarebbe stato riedito per decenni interi, fino al
1968, quando fu inserito dal poeta nella raccolta Ciemne świecidło [Lume oscuro], pubblicata dalle
edizioni dell’emigrazione polacca a Parigi, Kultura. Com’è noto (e come io stesso ho scritto già
nel 1972), La stufetta costituisce un discorso intertestuale à rebours, una primitivistica reazione
repulsiva nei confronti delle Illuminazioni e di Una stagione all’inferno di Arthur Rimbaud. Se
esso abbia anche qualcosa in comune con l’idea del Futurismo è una questione che rimane aperta!
In Polonia il Futurismo cominciava a manifestarsi chiaramente a Cracovia e – se così si
può dire – ad acquisire forza programmatica grazie agli interventi di Bruno Jasieński e Stanisław
Młodożeniec e alla collaborazione di Tytus Czyżewski e Tadeusz Peiper. Dopo alcuni anni trascorsi
a Mosca – dove entrambi avevano ottenuto il diploma di maturità – i primi due erano rientrati
in Polonia nel 1918. Purtroppo, nonostante gli studi di Edward Balcerzan e Janina Dziarnowska,
non sappiamo quasi niente delle loro esperienze in Russia: ci è ignoto cosa avessero visto e
letto, quanto si orientassero e pensassero della vita letteraria di allora. Del resto essi si sarebbero
conosciuti solo nel 1919, dopo il loro ritorno in patria; da allora, con l’aiuto di Tytus Czyżewski
e grazie al sostegno di Tadeusz Peiper, avevano iniziato a Cracovia un’intensa attività, fondando i
club futuristi Katarynka [L’organetto] e Gałka Muszkatołowa [La noce moscata], e esibendosi
pubblicamente in varie città. Negli anni 1920-1923 avrebbero pubblicato le proprie opere su
fogli volanti (Jednodńuwka futurystuw [Volantino dei Futuristi], Nuż w bżuhu [Il coltello
in pancia]), riviste («Formiści», «Zwrotnica» e la stampa quotidiana) e singoli volumetti.
Ricordiamo But w butonierce [La scarpa all’occhiello], Pieśń o głodzie [Canto sulla fame], Nogi
Izoldy Morgan [Le gambe di Izolda Morgan] di Bruno Jasieński; Kreski i futureski [Schizzi e
futurizzi] di Młodożeniec; Zielone oko. Poezje formistyczne [L’occhio verde. Poesie formiste],
Noc-dzień [Notte-giorno], Mechaniczny instynkt elektryczny [L’istinto elettrico meccanico] di
Tytus Czyżewski. A quell’epoca erano già stati pubblicati i più importanti manifesti del Futurismo
polacco: W sprawie futuryzacji życia [Sulla questione della futurizzazione della vita], W sprawie
poezji futurystycznej [Sulla questione della poesia futurista], W sprawie ortografij fonetycznej
[Sulla questione dell’ortografia fonetica] e W sprawie krytyki artystycznej [Sulla questione della
critica artistica]: anche se li aveva stilati tutti Jasieński, erano rappresentativi dell’intera formazione
che aveva riunito le forze di Varsavia e Cracovia.
Malgrado le incessanti critiche e gli attacchi della stampa e dei gruppi concorrenti che li
mettevano alla berlina, i Futuristi riuscirono a dar vita a un insieme originale di fenomeni artisticoculturali, ben visibili nel contesto della vita letteraria del tempo. Questo conferiva loro un evidente
marchio di alterità, innovazione, coraggio, con un avanguardistico rifiuto dei compromessi,
soprattutto in poesia, ma a volte anche in prosa ( Jasieński, Wat). Riuscirono ad aprire – se così si
può dire – degli spazi culturali e delle brecce estetiche in cui trovarono una propria collocazione
anche altre formazioni letterarie, con i loro poeti e prosatori e i loro individuali idioletti artistici.
Non starò qui a ricordare i confini della loro attività, i vari esempi di un’osmosi artistica e
programmatica, con le più varie forme di collaborazione con gli altri gruppi letterari.
A partire dagli anni Venti, soprattutto verso la fine del secondo e nel terzo decennio il
Futurismo perse progressivamente importanza. Nel VI numero di «Zwrotnica» (1923, pp. 177184), la rivista fondata da Tadeusz Peiper che fiancheggiava i Futuristi, comparvero articoli che
La storia chiusa del Futurismo polacco
“chiudevano” e stilavano un bilancio del Futurismo polacco, soprattutto Futuryzm polski. Bilans
[Il Futurismo polacco. Un bilancio] di Jasieński. Sicuramente questo accadde perché varie prove
di espansione (come le effimere riviste «Nowa Sztuka» e in seguito «Almanach Nowej Sztuki»
e «Awangarda») non avevano portato a risultati effettivi e i volumi di poesia dei singoli poeti si
erano scontrati con un’universale ostilità e con opinioni demagogiche.
Nel 1924 Karol Irzykowski, critico e pubblicista influente, ne proclamò la “liquidazione”:
anche se il suo testo suscitò polemiche (gli accoliti del movimento erano ancora attivi e se ne erano
aggiunti nuovi che tentavano di riformulare le poetiche d’avanguardia: Jalu Kurek, Adam Ważyk,
Mieczysław Braun, Stanisław Brucz e Stefan Konrad Gacki), in un modo o nell’altro le idee delle
poetiche futuriste polacche furono comunque fatte traghettare verso il passato.
Nel 1925 Bruno Jasieński dovrà partire per motivi politici alla volta di Parigi,
successivamente per l’Unione Sovietica: nel 1937, all’epoca delle purghe staliniane, verrà fucilato
perché (ingiustamente) accusato di spionaggio. Le idee di sinistra e comuniste condurranno
anche Aleksander Wat verso valori ben diversi dal Futurismo (lavorerà nella rivista «Miesięcznik
Literacki», vicina al Partito comunista polacco). Durante la Seconda guerra mondiale verrà a
trovarsi in URSS anche Wat: accusato di trozkismo, verrà imprigionato e deportato in Kazakhstan.
Młodożeniec farà ancora in tempo a pubblicare due volumetti di versi, in cui gli esperimenti
linguistici si legavano a certe immagini folcloristiche, “volgendosi – come ebbe a scrivere – verso
l’arte contadina”. Stern continuò a pubblicare, ma in forme molto distanti dal Futurismo, cominciò
a scrivere per il cinema componendo sceneggiature anche per film di terz’ordine. Czyżewski iniziò
a lavorare come impiegato presso l’ambasciata polacca a Parigi, occupandosi di pubblicistica
artistica.
La visita del “pontefice del Futurismo” Marinetti, che nel marzo 1933 trascorse una
settimana tra Varsavia, Leopoli e Cracovia, partecipando a un banchetto del PEN Club polacco e
tenendo varie conferenze in cui declamava le proprie opere, destò appena flebili echi degli slogan e
discussioni di un tempo, malgrado varie decine di articoli che apparvero sulla stampa.
Fino alla fine del 1939 su riviste e volumi di carattere letterario sarebbero ancora apparse
alcune serie valutazioni, dichiarazioni e note sul Futurismo, in genere critiche: tra i loro autori
ricordiamo Kazimierz Czachowski, Jerzy Stempowski, Karol Irzykowski, Aleksander Kołtoński,
Ignacy Fik, Leon Chwistek. Sarà questo l’ultimo capitolo della storia dell’avanguardia futurista
polacca nel periodo tra le due guerre.
Nel secondo dopoguerra, solo con la svolta dell’ottobre del 1956, quando si attenueranno
i rigori della censura insieme a una revisione dei programmi statali del Realismo socialista, la
cultura letteraria e pubblicistica inizierà ad affrontare anche la questione della letteratura tra le
due guerre, fino ad allora praticamente assente dalla cultura ufficiale, o trattata in maniera assai
selettiva. I tempi erano ormai maturi per una riattivazione storica del Futurismo che ebbe luogo
nel 1957, grazie alla pubblicazione su vari settimanali di articoli di Anatol Stern, e di alcune opere
di Jasieński (il poema Pieśń o głodzie [Canto sulla fame] e il romanzo Palę Paryż [Brucio Parigi]).
Dagli anni Sessanta avrà inizio un periodo di sistematico ritorno sul mercato editoriale delle
opere dei futuristi polacchi, con pubblicazioni scientifiche e critico-letterarie. In questo ebbero un
ruolo pioneristico O nową sztukę. Polskie programy artystyczne lat 1917-1922 [Per una nuova
arte. Programmi artistici polacchi degli anni 1917-1922, Warszawa 1962] di Helena Zaworska,
in cui i programmi del Futurismo polacco venivano presentati nel contesto dei rivolgimenti delle
avanguardie, e l’opera più divulgativa Poezja zbuntowana. Szkice o poezji dwudziestolecia
międzywojennego [Poesia ribellata. Schizzi sulla poesia del Ventennio tra le due guerre, Warszawa
11
Grzegorz Gazda
12
1964] di A. Stern. A completamento di questi primi passi del secondo dopoguerra occorrerà
ricordare anche i materiali apparsi nel 1968 nel già citato volume di A. Wat Ciemne świecidło:
vi vennero inseriti due namopaniki (genere letterario creato dallo stesso Wat) risalenti al periodo
futurista, e la citata leggendaria prosa poetica, Ja z jednej strony i ja z drugiej strony mego
mopsożelaznego piecyka, che non era mai stata ristampata dal 1919, e venne allora corredata da
un commento dello stesso autore (Coś niecoś o Piecyku [Qualche cosetta sulla Stufetta]).
Tra i più importanti testi critico-letterari del tempo non possiamo dimenticare Styl i
poetyka twórczości dwujęzycznej Brunona Jasieńskiego [Stile e poetica dell’opera bilingue di
Bruno Jasieński, 1968] e i due volumi della Polska awangarda poetycka. Programy lat 1917-1923
[L’avanguardia poetica polacca. Programmi degli anni 1917-1923, 1969] di Edward Balcerzan,
l’antologia di poesie e testi programmatici curata da Andrzej Lam, oltre alla prima monografia sul
movimento, il mio Futuryzm w Polsce [Il Futurismo in Polonia, Wrocław 1974].
Fra i testi apparsi posteriormente, ma senza considerare la numerosa memorialistica,
si dovrebbero rammentare anche i volumi di Alina Kowalczykowa, Stanisław Jaworski, Paweł
Majerski, Joanna Pollakówna, Agnieszka Smaga, Janusz Stradecki, Maciej Tramer, Maria
Tarnogórska, Andrzej K. Waśkiewicz, Przemysław Strożek3 e Krzysztof Jaworski (in vari suoi
libri ha narrato le vicende biografiche di Jasieński, con la ricostruzione della sua vita a Parigi e
in URSS). Ricorderò anche il mio Słownik europejskich kierunków i grup literackich XX w.
[Dizionario delle correnti e dei gruppi letterari del XX secolo], Warszawa 2000, 2a ed. aggiornata,
2009), in cui le formazioni del Futurismo polacco sono state per la prima volta presentate nel
contesto comparatistico della letteratura europea. Una menzione meritano anche gli ottimi
libri di Beata Śniecikowska, Słowo-obraz-dźwięk. Literatura i sztuki wizualne w koncepcjach
polskiej awangardy 1918-1929 [Parola-immagine-suono. Letteratura e arti visive nelle concezioni
dell’avanguardia polacca 1918-1929, Kraków 2005] e in particolare la sua vasta monografia
Nuż w uhu? Koncepcje dźwiękowe w poezji polskiego futuryzmu [Un coltello nell’orecchio?
Concezioni sonore nella poesia del Futurismo polacco, Kraków 2008].
Nelle oltre quattrocento pagine di Agnieszka Przybyszewska Liberackość dzieła
literackiego [Liberarietà dell’opera letteraria, 2015], si parla del Futurismo come di una tappa
essenziale rispetto alla liberatura e agli esperimenti tipografici nella letteratura del XX sec. In
tutti questi libri il Futurismo viene analizzato sia nel contesto letterario delle altre correnti e
avanguardie del XX sec., sia come tema a sé stante.
Dagli anni Settanta, fatto non privo di conseguenze, la casa editrice Ossolineum ha inserito
nella sua prestigiosa collana Biblioteka Narodowa – in cui compaiono “le opere più eccellenti della
letteratura polacca e straniera” – anche le edizioni degli autori futuristi. Vi sono state pubblicate le
opere (perché sì, noi oggi, a distanza di anni, possiamo definire tali i testi dei futuristi!) di Bruno
Jasieński (Utwory poetyckie. Manifesty, Szkice [Opere poetiche. Manifesti, Schizzi], Wrocław
1972, cura e introduzione di Edward Balcerzan); Antologia polskiego futuryzmu i Nowej Sztuki
[Antologia del Futurismo polacco e di Nowa Sztuka], Wrocław 1978, a cura di Helena Zaworska e
Zbigniew Jarosiński); di Tytus Czyżewski (Poezje i utwory dramatyczne [Poesie e opere teatrali],
Wrocław 1992, a cura di Jacek Baluch), oltre a quelle di Aleksander Wat, con la prosa poetica del
già citato Ja z jednej strony e ja z drugiej strony mego mopsożelaznego piecyka (in Wybór wierszy
[Versi scelti], Wrocław 2008, a cura di Adam Dziadek).
3
Di P. Strożek merita una menzione la monografia: Marinetti i futuryzm w Polsce 1909-1939. Obecność – kontakty –
wydarzenia, Instytut Sztuki PAN, Warszawa 2012 [N.d.R.].
La storia chiusa del Futurismo polacco
Negli ultimi decenni sono inoltre comparse edizioni critiche complete edite con grande
cura dell’opera poetica di Stanisław Młodożeniec (Utwory poetyckie [Opere poetiche], Warszawa
1973, a cura di Tomasz Burek), Anatol Stern (Wiersze zebrane [Tutte le poesie], 2 voll., Kraków
1985, a cura di A.K. Waśkiewicz), Aleksander Wat (Poezje zebrane, [Tutte le poesie], a cura di
Anna Micińska e Jan Zieliński, Kraków 1992)4, Bruno Jasieński (Poezje zebrane [Tutte le poesie],
cura e introduzione di Beata Lentas, Gdańsk 2008), Tytus Czyżewski (Wiersze i utwory teatralne
[Poesie e opere teatrali], a cura di Jerzy Kryszak e A.K. Waśkiewicz, Gdańsk 2009). Lasciando
da parte altri “piccoli” volumi dei futuristi, apparsi in maniera occasionale, oggi si può parlare di
una loro attiva presenza nel circuito editoriale. Nel 2015, il già menzionato Krzysztof Jaworski
aveva pubblicato le oltre settecento pagine della sua Kronika polskiego Futuryzmu [Cronaca del
Futurismo polacco] che, con grande competenza, una quantità imponente di particolari e con
tutta la ricchezza del suo inventario bibliografico, ricostruisce date, fatti, opinioni e fenomeni del
Futurismo polacco negli anni 1909-1939.
È davvero un paradosso che questa ottima monografia bibliografica, opera che avrebbe
dovuto inaugurare le ricerche storico-letterarie sul Futurismo polacco, sia giunta invece come
una loro conclusione. Si può leggere e studiare la Kronika come un’appassionante mappa di
territori letterari, continenti e isole della storia letteraria polacca nel periodo tra le due guerre,
in passato appena delineati. Citazioni, riferimenti, biografie, fatti sono collegati dall’autore in
glosse e commenti con una perfetta conoscenza della realtà dell’epoca. Vi troviamo soprattutto il
Futurismo anticipato nel titolo, ma anche i contesti di una trentennale vita letteraria e culturale,
dal periodo antecedente al primo conflitto mondiale fino all’intero periodo tra le due guerre.
Dopo la sua pubblicazione, che in qualche modo sintetizza la produzione critico-letteraria sul
Futurismo polacco nella seconda metà del XX sec., si può tranquillamente dichiarare che sul
movimento è già stato scritto tutto e che se ne potrebbe chiudere la storia.
Vorrei terminare questo mio schizzo bibliografico con un breve accenno alla recezione
internazionale di questa radicale avanguardia letteraria polacca. Varrà la pena di ricordare qualche
titolo. Tra le sintesi dell’intero periodo occorre citare almeno il saggio di Bogdana Carpenter
(Poetic Avant-garde in Poland 1918-1939, Seattle-Washington 1983) e la monografia di Maria
Delaperrière (Les avant-gardes polonaises et la poésie européenne, Paris 1991) e negli ultimi
anni il libro di Alessandro Ajres (Avanguardie in movimento. Polonia 1917-1923, Melfi 2013),
prima monografia in lingua italiana dedicata alle prime avanguardie polacche. Su Bruno Jasieński
hanno scritto a suo tempo Nina Kolesnikoff (Bruno Jasieński: his evolution from futurism to
social realism, s.l. 1982) e più recentemente Agata Krzychylkiewicz (The grotesque in the works
of Bruno Jasieński, Bern 2007). Sul rapporto di Tytus Czyżewski con la prima Avanguardia si può
consultare Markus Eberharter (Der poetische Formismus Tytus Czyżewskis: Ein literarischer
Ansatz der frühen polnischen Avantgarde und sein mitteleuropäischer Kontext, München
2004)5.
4
Più recentemente è stata pubblicata la raccolta completa delle opere in 5 voll. Pisma zebrane, a cura di A. Micińska e J.
Zieliński, Warszawa 1997-2008 [N.d.R.].
5 In Italia, negli atti succitati del convegno Gli altri Futurismi è apparsa la bibliografia sul Futurismo italiano in Polonia (P.
Strożek, M. Gurgul, Bibliografia del Futurismo italiano in Polonia, in Gli altri Futurismi, cit., pp. 149-159). Più recente è
invece l’intervento di L. Marinelli, La fine e l’inizio. Intorno al futurismo polacco, in L’Europa futurista. Simultaneità, costruttivismo,
montaggio, a cura di M. Ponzi, A. Mastropasqua, Milano 2015, pp. 137-155 [N.d.R.].
13
Grzegorz Gazda
Abstract
Grzegorz Gazda
Closed-down History of Polish Futurism
News of Italian futuristic manifestos reached Poland soon after the first publications by F.T. Marinetti and his group in Italy
and France. On the verge of regaining their independence, the Poles recognized that futurism presented them with an
opportunity to renew and modernize their literature. Thus futurism inspired Polish journalists, critics, artists and poets for
a whole century. This process reached its peak between 1918 and 1939. Thereafter, and for decades, it became an object of
analyses and interpretations by literary historians. Today — and this article is devoted precisely to this problem — a hundred
years later, Polish literary scholars seem to be closing down this avant-garde movement — perhaps definitively? — and
assessing its merits in the history of Polish literature.
Keywords: Polish Futurism, Literary criticism
«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», (VII) 7, 2016, pp. 7-14
14
Krzysztof Jaworski
„Najmłodsi futuryści warszawscy”,
czyli o peryferiach polskiego futuryzmu – próba rekonesansu
W
spółcześnie polski futuryzm, w chwili, gdy mija niemal sto lat od momentu jego
narodzin, to zjawisko uznawane za powszechne zbadane, bogate w opracowania
i zasługujące na należne sobie miejsce w polskiej historii literatury. Prace nad
dokonaniami tego kierunku prowadzono w Polsce skrupulatnie od lat 60. XX wieku, a bibliografia
dzieł jest znacząca i uznana. Nie sposób w tym krótkim artykule wymienić wszystkich badaczy, ale
na trwale do historii naukowego dyskursu weszły chociażby prace Edwarda Balcerzana, Grzegorza
Gazdy, Zbigniewa Jarosińskiego, Andrzeja Lama czy Heleny Zaworskiej1. W kolejnych latach
pisano o polskim futuryzmie, przypominając sylwetki literatów mniej popularnych, odkrywając
przed odbiorcą coraz to nowe nazwiska twórców z nim związanych, o tego typu „drugoplanowych”
autorach pisał chociażby Sergiusz Sterna-Wachowiak2. Wiek XXI przyniósł także wypowiedzi
kolejnych badaczy, dość wspomnieć książki Beaty Śniecikowskiej, Moniki Gurgul, Przemysława
Strożka czy Tomasza Kireńczuka3.
Jednak pisząc o polskim futuryzmie, dość rzadko porusza się zagadnienie tzw. jego
„peryferii”, czyli futurystów, którzy określali się mianem „najmłodszych”, a których nazwiska
niewiele już dziś mówią współczesnemu odbiorcy. Jako jeden z pierwszych przywołał ich sylwetki i
publikacje Andrzej K. Waśkiewicz4 – już w latach 80. XX wieku w artykule na łamach «Pamiętnika
Literackiego», w dodatku opierając swe badania o cenne źródło – a mianowicie o korespondencję,
jaką prowadził on w latach 70. XX wieku z poetą Włodzimierzem Słobodnikiem (1900-1991),
który studiując wówczas polonistykę na Uniwersytecie Warszawskim (od roku19215), pamiętał
jeszcze zapoznane sylwetki swoich szkolnych kolegów6.
1
E. Balcerzan, Styl i poetyka twórczości dwujęzycznej Brunona Jasieńskiego, Wrocław 1968; Idem, Wstęp, [w:] B. Jasieński,
Utwory poetyckie, manifesty, szkice, Wrocław 1972; G. Gazda, Futuryzm w Polsce, Wrocław 1974; Idem, Awangarda –
nowoczesność i tradycja. W kręgu europejskich kierunków literackich pierwszych dziesięcioleci XX wieku, Łódź 1987; Antologia polskiego
futuryzmu i Nowej Sztuki, wstęp i komentarz Z. Jarosiński, wybór i oprac. H. Zaworska, Wrocław 1978; A. Lam, Polska
awangarda poetycka. Programy lat 1917-1923, t. 1. Instynkt i ład; t. 2. Manifesty i protesty: Antologia, Kraków 1969; H. Zaworska,
O nową sztukę. Polskie programy artystyczne lat 1917-1922, Warszawa 1963 i wiele innych ważkich opracowań.
2
S. Sterna-Wachowiak, Miąższ zakazanych owoców. Jankowski – Jasieński – Grędziński (szkice o futuryzmie), Bydgoszcz 1985.
3
B. Śniecikowska, Słowo – obraz – dźwięk. Literatura i sztuki wizualne w koncepcjach polskiej awangardy 1918-1939, Kraków
2005; Eadem, „Nuż w uhu”? Koncepcje dźwięku w poezji polskiego futuryzmu, Wrocław 2008; P. Strożek, Marinetti i futuryzm
w Polsce 1909-1939. Obecność – kontakty – wydarzenia, Warszawa 2012; M. Gurgul, W drodze do gwiazd. O teatrze i dramacie
włoskiego futuryzmu, Kraków 2009; T. Kireńczuk, Od sztuki w działaniu do działania w sztuce. Filippo Tommaso Marinetti i teatr
włoskich futurystów, Kraków 2008.
4
A.K. Waśkiewicz, Czasopisma i publikacje zbiorowe polskich futurystów, [w:] «Pamiętnik Literacki», 1, 1983; przedruk w
publikacji książkowej: Idem, W kręgu futuryzmu i awangardy, Wrocław 2003.
5
Choć słowniki biograficzne traktują tę wzmiankę jako „informację poety”, ponieważ w aktach Uniwersytetu Warszawskiego
nie znalazła ona jak dotąd potwierdzenia.
6
Włodzimierz Słobodnik debiutował wierszami w końcu lipca 1921 r. (Noce oraz Gwiazdośpiew) właśnie w drugiej
15
Krzysztof Jaworski
16
Zainspirowany niegdyś tą właśnie publikacją A.K. Waśkiewicza postanowiłem
kontynuować temat „drugorzędnych” futurystów7. Sądziłem, że tak jak uznany futuryzm polski
reprezentuje ważne dziedzictwo naszego narodowego piśmiennictwa, tak ten „nieuznany”,
stanowiąc w pewnym sensie jego karykaturalne odbicie, jest przecież także ważnym głosem w
dyskusji o rodzimej literaturze, także na swój sposób próbującym dać odpowiedź na pytanie, jaką
rolę w społeczeństwie powinna spełniać najnowsza literatura i jakie miejsce powinien zajmować
jej twórca – artysta, który mógł wypowiadać się wreszcie nie tylko w warunkach narodowej
niewoli, ale powinien starać się znaleźć nowoczesną formułę odrodzonej sztuki polskiej. Temat
„peryferii” futuryzmu kusił tym bardziej, że sam Waśkiewicz wskazywał na niemałe luki, jeśli
chodzi o dostępność do wydawanych przez poetów publikacji (niektóre uchodziły za zaginione),
stąd naturalną wydawała się próba poszerzenia wiedzy faktograficznej, dotarcia do źródeł,
opisania i uszczegółowienia tego zjawiska, być może drugorzędnego, ale właśnie jako takiego
oświetlającego z właściwej perspektywy polski futuryzm pierwszorzędny, ten uznany. To jednak
stało się możliwe dopiero z chwilą ukończenia mojej pracy nad Kroniką polskiego futuryzmu
(2015), w której starałem się zgromadzić i uporządkować w układzie chronologicznym wydarzenia
zarówno z obszaru artystycznego (literatury, teatru, filmu, plastyki, muzyki i innych), jak i
działalności pozaliterackiej czy życia publicznego lat 1909-1939. Wówczas „nieuznany” futuryzm
zaprezentował swoje pełne oblicze.
Dziś już wiadomo, że polski futuryzm nie był nurtem jednolitym, że między lutym 1919
r. a marcem roku 1921 w Polsce funkcjonowało tak naprawdę około czterech konkurencyjnych
wobec siebie grup – futuryści tzw. „warszawscy” (z poetami Anatolem Sternem i Aleksandrem
Watem) oraz futuryści „krakowscy” (z poetami Tytusem Czyżewskim, Brunonem Jasieńskim
i Stanisławem Młodożeńcem)8; na ten „uznany krajobraz” nakładała się ponadto działalność
tzw. „najmłodszych futurystów warszawskich” (przez futurystów z Krakowa i Warszawy nigdy
nie uznanych za twórców godnych tego miana) – jedna z tych „drugorzędnych” grup skupiona
była wokół Kazimierza Brzeskiego, który w kwietniu 1921 r. założył organizację młodzieży
futurystycznej „Gong”, a następnie przemianował ją na „Katarynkę Warszawską”9, druga
zgromadziła się wokół Henryka Sela i w marcu 1922 r. zadeklarowała utworzenie klubu futurystów
warszawskich „Homunculus”10 – rzecz jasna grupy najmłodsze także były ze sobą skłócone.
Początkom futuryzmu patronowali różni twórcy, między innymi: Jerzy Jankowski („tragiczny
zwiastun i Jan Chrzciciel futuryzmu polskiego” – jak określił poetę B. Jasieński11 ), oraz tzw. grupa
jednodniówce „najmłodszych futurystów warszawskich” grupy K. Brzeskiego zatytułowanej Pam-Bam; dokładniej o tym w
dalszej części artykułu.
7
Patrz: K. Jaworski, Niechciani futuryści. Najmłodsza awangarda literacka dwudziestolecia międzywojennego, [w:] Między
retoryką manifestów a nowoczesnością. Literatura – sztuka – film, pod red. K. Jaworskiego i P. Rosińskiego, Kielce 2011, s. 219-244.
8
Dopiero 10 i 11 marca 1921 r. połączyły ich wspólne „poezokoncerty” w Łodzi.
9
Informację taką K. Brzeski podał w styczniu 1922 w jednodniówce Błękitne spodnie: „W początkach kwietnia [1921]
powstała 1-sza organizacja w świecie młodzieży futurystycznej pn. Gong. Zadaniem tej organizacji było dokładne poznawanie
futuryzmu, szerzenie go i rozpowszechnianie. Z biegiem czasu organizacja zmieniła się w grono poetów skupiających się
koło wydawnictwa jednodniówek pn. Katarynka Warszawska”.
10
Deklaracja ta pojawiła się w jednodniówce Pijany Parasol (1922).
11
Jerzy Jankowski (podpisujący się wkrótce na znak swego akcesu do futuryzmu nieortograficzną „pisownią futurystyczną”
Yeży Yankowski) po opublikowaniu w maju i czerwcu 1914 r. wierszy Spłon lotnika oraz Maggi w piśmie «Widnokrąg» zastał
uznany za prekursora polskiego futuryzmu, około 1919 r. powołał także do życia tzw. „Wydawnictwo Futuryzm Polski pod
wodzą Yeżego Yankowskiego” i w październiku 1919 r. (z datą 1920) opublikował jedyną książkę poetycką zatytułowaną
Tram wpopszek ulicy. Słowa B. Jasieńskiego o poecie patrz: B. Jasieński, Futuryzm polski (bilans), [w:] «Zwrotnica», 6, 1923,
„Najmłodsi futuryści warszawscy”
„drugiego Picadora” (na czas chwilowej współpracy z warszawskimi futurystami przemianowana
na „Cech Poetów”12 ) – w lutym i marcu 1919 r. występująca wspólnie chociażby z Jarosławem
Iwaszkiewiczem, Janem Lechoniem, Antonim Słonimskim i Julianem Tuwimem – ten ostatni
przez jakiś czas uchodził w dodatku wśród krytyków za „pierwszego polskiego futurystę̨”13.
Te paradoksy można mnożyć, bo o ile na przykład uznane grupy „warszawska” i „krakowska”
wydały wspólne dwie jednodniówki, to grupa K. Brzeskiego wydała ich osiem, a grupa H. Sela
– pięć. W dodatku słynna i kodyfikująca polski futuryzm Jednodńuwka futurystuw. Mańifesty
futuryzmu polskiego. Wydańe nadzwyczajne na całą Żeczpospolitą Polską14 pod redakcją
B. Jasieńskiego ukazała się formalnie 10 czerwca 1921 r., a tymczasem „najmłodsi futuryści”
wydali swoją pierwszą jednodniówkę (właściwie, jak głosił podtytuł: „jednonockę”) – o ironio
– wcześniej, bo już 1 czerwca 1921 r., nadając jej zresztą tytuł KATARYNKA | ?„GONG”?15. Ten
szczegół o chronologicznym pierwszeństwie drugorzędnej publikacji, to jedynie ciekawostka,
ponieważ oczywiście manifesty pióra B. Jasieńskiego (opublikowane 10 czerwca 1921)
powstały znacznie wcześniej, bo 1 i 25 marca oraz 3 i 20 kwietnia 1921 r., ale świadczy dobrze
o „przedsiębiorczości” najmłodszych adeptów sztuki futurystycznej, którzy od tego momentu
zaczęli niestrudzenie zasypywać rynek czytelniczy swoimi: „jednonockami”, „jednorankami”,
„rykami bulwarowego niedźwiedzia” czy też „najgenialniejszymi genialnościami geniuszów” i
„bombami futurystycznymi”.
Ogólny bilans dokonań grup futurystycznych, jeśli chodzi o jednodniówki, uwzględniając
chronologię ich pierwodruków, dobrze zilustruje poniższa tabela:
Jednodniówki grup futurystycznych (tytuły skrócone)16
futuryści „warszawscy” i
„krakowscy”
1 czerwca 1921
grupa K. Brzeskiego
grupa H. Sela
Katarynka | ?„Gong”? pod
red. K. Brzeskiego
s. 180.
12
Powstanie „Klubu Futurystów Polskich – Cech poetów” zaanonsował po raz pierwszy «Kurier Polski» (38, 1919, s. 3).
Krótkotrwała współpraca trwała od lutego 1919 r. i obejmowała wspólne wieczory artystyczne, które odbywały się między
9-11 wieczorem w lokalu „róg Czystej i Placu Saskiego, podziemia Sklepu Kubina” («Pro Arte», 2, 1919, s. 31).
13
Pierwszy odczyt o futuryzmie włoskim i rosyjskim J. Tuwim wygłosił w Łodzi w grudniu 1915 r. (recenzja odczytu patrz:
«Gazeta Łódzka», 334, 1915, s. 5), podobne odczyty wygłaszał także w Krakowie w marcu 1920 r. (patrz recenzja: «Goniec
Krakowski», 77, 1920, s. 7), kiedy w zbiorze wierszy Czyhanie na boga (1918) poeta opublikował w utworze Poezja słynną frazę
„Będę ja pierwszym w Polsce futurystą” wielu polskich recenzentów zaczęło go określać takim właśnie mianem (m.in. Emil
Haecker), budziło to zdecydowany sprzeciw futurystów (patrz: T. Czyżewski, Pierwszy polski futurysta?! [w:] «Goniec
Krakowski», 96, 1919, s. 2).
14
W tytułach publikacji polskich futurystów oraz fragmentach tekstów w nich zamieszczanych zachowuję oryginalną
pisownię, którą się posługiwali (niezgodną z obowiązującymi normami ortograficznymi).
15
Datę druku ustalono na podstawie reklamy opublikowanej w piśmie «Trubadur Polski» (9, 1921, s. 1), która namawiała
„do nabycia” jednodniówki pod red. K. Brzeskiego dostępnej „we wszystkich księgarniach i kioskach oraz na stacjach
kolejowych”.
16
Pomijam w tym zestawieniu uchodzący za chronologicznie pierwszy druk futurystyczny – „ulotkę” Tak (1918? 1919?)
pod red. A. Sterna i A. Wata (nie zachowała się) oraz publikację To są Niebieskie pięty, które trzeba pomalować (1920) pod
„kierownictwem głównym” S.K. Gackiego, a także „almanach poezji futurystycznej” gga (1920) pod red. A. Sterna i A. Wata,
czyli druki grupy futurystów „warszawskich”, ponieważ w tym kontekście interesują mnie jedynie te jednodniówki, które
powstały po połączeniu z grupą „krakowską”, a takie nastąpiło dopiero 10 marca 1921 r.
17
Krzysztof Jaworski
10 czerwca 1921
Jednodńuwka futurystuw
pod red. B. Jasieńskiego
koniec lipca 1921
Pam-Bam pod red. K.
Brzeskiego
koniec sierpnia 1921
Czyk-Czyk pod red. K.
Brzeskiego
13 listopada 1921
listopad 1921
Nuż w bżuhu pod red. B.
Jasieńskiego i A. Sterna
Futurysta pod red. K.
Brzeskiego i Z. Halickiego
grudzień 1921
Trr… pod red. H. Sela
styczeń 1922
Gwiazdy w garnku pod red.
H. Sela
styczeń 1922
Błękitne spodnie pod red. K.
Brzeskiego i Z. Halickiego
luty 1922
Lejek w mózgu pod red. K.
Brzeskiego i Z. Halickiego
Pijany parasol pod red. H.
Sela i A. Hala
koniec marca 1922
marzec 1922
18
Fioletowe płuca pod red. K.
Brzeskiego i Z. Halickiego
lipiec 1922
Zielony Murzyn pod red. H.
Sela i S. Drzewożyckiego
11 grudnia 1922
„futurystyczne bomby” H.
Sela [nie zachowała się]
wrzesień 1924
Wiatr w rosole pod red. K.
Brzeskiego i R. Elskiego
W reakcji na ukazanie się Pam-Bam – a więc zaledwie drugiej z kolei jednodniówki grupy
K. Brzeskiego – dziennikarze zaczęli ostrzegać przed natłokiem publikacji futurystycznych
dostępnych na rynku wydawniczym: „futuryzacje tego rodzaju rozmnożyły się już tak dalece, że w
każdym koszyku gazeciarskim pełno jest tej tandety” – obwieszczał «Kurier Polski» (212, 1921,
s. 3) – a przecież (patrząc na powyższe zestawienie), był to dopiero początek „zabawy” w futuryzm
w wydaniu najmłodszych, samozwańczych jego przedstawicieli. Lekturą wspomnianego już PamBam przygnębiony był także Stanisław I. Witkiewicz, pełen gorzkich refleksji pisał:
W lecie w r. 1921 wpadł mi w ręce numer Pam-Bam. Muszę się przyznać, że sam wpadłem w rozpacz.
Nie wiem, czy to było pisane na serio, czy „na farsę”, i w tym jest cała okropność tej rzeczy. Przyjdzie
czas, że nie będzie wiadomym […], co jest wynikiem artystycznej konieczności, a co przypadkiem
czysto mechanicznym lub co gorsza – świadomą blagą. […] I wydał mi się bardzo bliskim ten czas,
w którym istotna praca naprawdę nic nie będzie warta i wyniki długoletnich wysiłków w kierunku
stworzenia rzeczy pięknych przez ludzi szczerych nie dadzą się̨ odróżnić od destruktywnej roboty
szakali dadaizmu […]17.
W styczniu 1922 r. redakcje warszawskich gazet donosiły już wręcz o „epidemii
futurystycznej w Polsce”, nadmieniając mimo wszystko o pewnych „pokładach humoru” tych
publikacji, a nawet „przebijającym się talencie” niektórych autorów:
17
St.I. Witkiewicz, O skutkach działalności naszych futurystów [tekst datowany: „4 lutego 1922”], [w:] Idem, Teatr, Kraków
„Najmłodsi futuryści warszawscy”
Ostatnio na wyróżnienie zasługuje żółtodziób, niby to literacko-futurystyczny niejaki p. Kazimierz
Brzeski, w którym pobłyskują iskry talentu, a które jednakże mogą wkrótce zagasnąć zmoczone w
gnojówce futurystycznych pomysłów. Każdą myśl zrealizowaną dla dobra ojczyzny, dla dobra ducha
poprzemy, nie możemy jednakże być protektorami takiego świństwa i brudu, jakiemu hołdują
niektórzy futuryści. Tworki i Kulparków byłby dla tych panów najlepszym lekarstwem18.
Z kronikarskiego obowiązku wypada również wymienić nazwiska młodych autorów,
przewijających się przez wszystkie odnalezione publikacje, a byli nimi (w kolejności alfabetycznej;
niektórych pseudonimów nie da się dziś rozszyfrować):
Stefan Brühll (także jako: Bryl; st. br.), Kazimierz Brzeski (właśc. Kazimierz Fliderbaum), Jan
Drwęski, Stefan Drzewożycki, Elkar, Radosław Elski (właśc. Eliasz Chryzman), F. Y., Fenix,
Szymon Gern, Zdzisław Gryzoń, H.S.G., Habej, Hace, Adam Hal, Zygmunt Halicki, Bronisław
Hermelin, Kael, Kazimierz Kokowski, Ludwik Krr, Jan Krupicki, Marceli Lipiec, Jerzy Malinowski,
Mieczysław Salcstein (także jako: Salczstein; Salcsztein), Henryk Sel, Jerzy Sławski, Józef Słobodnik,
Włodzimierz Słobodnik, W. Z., Emil Wilski.
Jeśli przyjąć, że podpisy typu: „F. Y.”, „H.S.G.” czy „W. Z.” reprezentują różne osoby (a nie na
przykład jednego autora, posługującego się kilkoma pseudonimami), to na łamach jednodniówek
najmłodszych futurystów warszawskich (grup K. Brzeskiego i H. Sela) publikowało około
trzydziestu osób. Obok bloku tekstów nazwanych manifestami, bądź odezwami (autorstwa K.
Brzeskiego, B. Hermelina oraz H. Sela i S. Drzewożyckiego), publikowano głównie wiersze –
najwięcej swoich wierszowanych tekstów zamieścił K. Brzeski (36), po 16 wierszy opublikowali
B. Hermelin i H. Sel, następnie kolejno: Z. Halicki (15), Hace (12), R. Elski (10) i tak dalej.
Większość z wymienionych wyżej zaistniała zaledwie kilkoma (często dwoma czy jednym) tekstem.
Nie wiadomo czy poza publikacjami najmłodsi futuryści warszawscy udzielali się publicznie, tak
jak robili to ich starsi koledzy, nie udało się odnaleźć jak dotąd żadnych prasowych wzmianek na
temat ich ewentualnych działań artystycznych przed widownią. Jednak pewne światło na tego typu
chęć zaistnienia twórczego rzuca uwaga, którą najbardziej aktywny z „niechcianych futurystów”
– K. Brzeski – zamieścił pod swoim wierszem Wiosna: „Wiersz recytowany dnia [22.05.1921]
r., na recitalu prywatnym u pp. K., przy akompaniamencie wyrazów oburzenia ze strony obecnej
płci pięknej”19. Więc wydaje się, że jedynie na „recitale w mieszkaniach prywatnych” mogli
liczyć najmłodsi futuryści. Co zresztą nie było niczym niezwykłym, spotkania takie odbywali i
futuryści uznani – na przykład 6 czerwca 1921 r. podobny wieczór (z udziałem B. Jasieńskiego
i S. Młodożeńca) miał miejsce w Krakowie, w mieszkaniu prywatnym Emilii Stożkowej (siostry
Leona Chwistka)20.
Nie ulega natomiast wątpliwości, że publikacje najmłodszych futurystów warszawskich
cechowało jak najdalej posunięte naśladownictwo oraz wtórność widoczna właściwie na każdym
poziomie zapożyczenia: od układu graficznego jednodniówek począwszy, na powielaniu
1923, s. 238-239. Wcześniej St.I. Witkiewicz wykpił działalność futurystów w wydanej anonimowo jednodniówce Papierek
lakmusowy (1921).
18
(P.), Epidemia futurystyczna w Polsce, [w:] «Przegląd Światowy», 1, 1922, s. 26. W Tworkach i Kulparkowie mieściły się
wówczas znane zakłady psychiatryczne.
19
Patrz: Czyk-Czyk. Pam-Bam. 3-cia jednodniówka najmłodszych futurystów polskich pod redakcją Kazimierza Brzeskiego,
Warszawa 1921, s. 5-6.
20
Patrz: K. Estreicher, Leon Chwistek, Kraków 1971, s. 362.
19
Krzysztof Jaworski
chwytów i motywów poetyckich skończywszy. O ile na początku tego wywodu wspomniano,
że najmłodsi futuryści zdecydowanie wygrywali ze starszymi kolegami ilością futurystycznych
produkcji, to wypada podkreślić, że ta „ilość” niewiele miała wspólnego z „jakością”. Oto kilka
charakterystycznych przykładów, które oddają skalę zjawiska.
Przede wszystkim zapożyczenia nazewnicze: popularny klub futurystów krakowskich
„Katarynka”21 powstał już 13 marca 1920 r. i nazwa ta zapadła w świadomość odbiorców,
powszechnie kojarzyła się ze środowiskiem krakowskich poetów, tymczasem wspomnianą
pierwszą jednodniówkę z 1 czerwca 1921 r. K. Brzeski również nazwał Katarynką (a swoją grupę
„Katarynką Warszawską”), zapewne świadomie pragnąc wykorzystać zdobycze poprzedników.
Kiedy futuryści krakowscy przyjechali na gościnne występy do Warszawy i 3 marca 1921 r. dali w sali
Towarzystwa Higienicznego na ul. Karowej jeden ze swoich najsłynniejszych „poezokoncertów”
(notabene przerwany przez policję) zatytułowali go Pam-Bam – kolejna jednodniówka najmłodszych
futurystów warszawskich ukazała się w końcu lipca 1921 r. i zatytułowano ją właśnie – Pam-Pam,
następna zaś z końca sierpnia tegoż roku nosiła tytuł Czyk-Czyk również z podtytułem: PamBam. Taką litanię nazewniczych zapożyczeń można ciągnąć w nieskończoność.
Podobnie na obszarze poetyki. Młodzi futuryści najchętniej kopiowali wiersze B.
Jasieńskiego i S. Młodożeńca. Zwłaszcza dwa z nich były wówczas rozpoznawalne dla publiczności
i weszły do powszechnego obiegu, kolejno: Marsz i Futurobnia, oba teksty poeci odczytywali z
estrad, by później opublikować je w debiutanckich książkach. W lutym 1921 r. B. Jasieński ogłosił
zbiór But w butonierce, a charakterystyczne frazy Marsza brzmiały:
BRUNO JASIEŃSKI, Marsz
Tra-ta-ta-ta-tam. Tra-ta-ta-ta-tam.
Tutaj. I tu. I tu. I tam.
Jeden. Siedm. Czterysta-cztery.
Panie. Na głowach. Mają. Rajery.
Damy. Damy. Tyle tych. Dam.
Tam. Ta. To tu. To tu. To tam. […]
20
Natychmiast oryginalną budowę wiersza zaczęli wykorzystywać najmłodsi futuryści – już
w pierwszej jednodniówce grupy K. Brzeskiego Katarynka z czerwca 1921 r. pojawił się tekst
Ludwika Krr pt. Sąd:
LUDWIK KRR, Sąd
Sala. Półmrok. Trzech sędziów.
Prokurator. Obrona. Dwóch więźniów.
Ławki. Publiczność. Rodzina.
Lampy. Krucyfiks. Godzina. […]
Grupa skupiona wokół H. Sela również chętnie skorzystała z gotowego wzoru, w ich
pierwszej jednodniówce zatytułowanej Trr… z grudnia 1921 r. znalazł się tekst pt. Burza
autorstwa Hace (pseudonim nierozpoznany):
21
Pełna nazwa: Niezalegalizowany Klub Futurystów „Pod Katarynką”.
„Najmłodsi futuryści warszawscy”
HACE, Burza
Morze. Bałwany. Głębiny. Fale.
Okręt. Podróżni. Cylindry. Szale.
Pokład. Rozmowy. Przechadzka. Buty.
Fortepian. Karty. Gracze. Nuty. […]
W kolejnej jednodniówce tej grupy Gwiazdy w garnku22 ze stycznia 1922 podobną kalkę
popełnił Kael (pseudonim nierozpoznany) w tekście Maskarada:
KAEL, Maskarada
Barwy. Stroje. Kostiumy.
Uśmiechy. Okrzyki. Tłumy.
Czereda. Tańce. Maseczki.
Fraki. Wachlarze. Laseczki. […]
Z kolei Futurobnia S. Młodożeńca, wiersz, który stał się niemal synonimem polskiego
futuryzmu, wizytówką poety, a także był najchętniej i najczęściej parodiowanym utworem
futurystycznym w ówczesnej prasie23, rozpoczynający się słynnym już dziś dwuwersem: „uchodzone
umyślenia upapierzam poemacę / i miesięczę kaszkietując księgodajcom by zdruczyli” – stanowił
pożywkę dla nieokiełznanego naśladownictwa – oto najbardziej charakterystyczne:
K. KOKOWSKI, Futuropróba
Biletuję przed ogonkiem Główny Dworzec
Milanówek, Adzio, Lolek, Pani Genia,
Anda, Wanda, doktor Twardy.
Homary, Żaby, Kraby, Indyki, Pulardy […]
Pam-Bam (1921)
FENIX, Przeznaczenie
Hymnobrzmiące. Wiecznotrwałe.
Bezkrańcowe. Twórczobrzmiałe.
Życie. [...]
Pijany parasol (1922)
Te kilka przykładów to zaledwie – by pozwolić sobie na eufemizm – czubek góry lodowej
poetyckiego naśladowania (plagiatowania?) dokonań starszych kolegów, bo najmłodsi futuryści
równie ochoczo przetwarzali postulaty manifestów. Szczególnie w pierwszej fazie swojej
działalności służył im za wzór manifest A. Sterna i A. Wata pt. Prymitywiści do narodów świata i
do polski, bo był on opublikowany już w grudniu 1920 r. To zapewne jego lektura stała się podstawą
licznych haseł-wezwań, absurdalnych zawołań ozdabiających jednodniówki najmłodszych:
„Niech żyje FUTURYZM!!! Chodźcie do góry nogami!!!”, „Poliż gorące szkiełko od lampy!!”,
22
Zresztą sam tytuł jednodniówki ewidentnie przywoływał na myśl frazę z wiersza A. Sterna zatytułowanego Słońce w
brzuchu: „gdy niebiosa dano mi na półmisku / nie dziw, że słońce mam w brzuchu” z 1919 r.
23
Opisuję to szczegółowo w: K. Jaworski, Kronika polskiego futuryzmu, Kielce 2015, s. 197-200.
21
Krzysztof Jaworski
„PRECZ Z NIEZDROWĄ MASTURBACJĄ LITERATURY ZACHOWAWCZEJ! NIECH
ŻYJE NOWA SZTUKA!”, „Niech żyje sens w nonsensie!”, „WYMIOTUJEMY przezroczystymi
ślinami na zwiędłe fiołki granatowych marzeń przekwitłych nieaktualnych ekwilibrystów!!!”,
„NIECH ŻYJĄ SKARPETKI W POMIDOROWYM SOSIE”, „Pluń sobie we własne usta!!!”,
„Niech żyje tarcie pleców o podłogę!!” – i tym podobnych24. Ale też porównanie literackich
możliwości najmłodszych futurystów warszawskich z możliwościami uznanych przedstawicieli
tego kierunku zawsze wypadać będzie na korzyść tych ostatnich czy – pisząc brutalnie – bądź co
bądź utalentowanych twórców. Niewiele natomiast powie o fenomenie kulturowym, jakim był
wówczas futuryzm.
Wspominano również, że grupa futurystów najmłodszych nie była grupą poetycką
czy programowo-literacką w rozumieniu artystycznym, lecz raczej towarzysko-nieformalną,
eksponującą przede wszystkim relacje osobiste. Widać to wyraźnie choćby w dedykacjach jakimi
się hojnie obdarzali w publikowanych tekstach, i tak na przykład: B. Hermelin – „Kazimierzowi
Brzeskiemu w dowód szczerej i wiecznej przyjaźni ofiaruję”; Hace – „H. Selowi, w dniu jego
urodzin”; H. Sel – „K. Brzeskiemu poświęcam”, „Koledze Szymonowi Gern”.
Podział na „grupę K. Brzeskiego” i „grupę H. Sela” był dość płynny – dochodziło do
częstych niesnasek, animozji, przechodzenia z obozu do obozu. Ślady tych „wojenek osobistoliterackich” również widoczne są w jednodniówkach, lektura działu „Kronika” trzeciej z kolei
publikacji K. Brzeskiego pt. Czyk-Czyk (sierpień 1921) przynosi taką oto informację:
Zdrajcy futuryzmu. Po długich i ciężkich cierpieniach „Katarynka Warszawska” pozbyła się pp.
Stefana Brühlla i Włodzimierza Słobodnika. Zaiste postąpili niezwykle logicznie, jakże można było
pracować obok tak niedorozwiniętych ludzi jak Hermelin i Brzeski. […] Zrozumieli to doskonale
nasi b. koledzy […] i uwolnili nas od swoich osób […]. P. Stefan Brühll25 stał się dlatego „literatem”,
żeby się ubierać jak Julian Tuwim […].
22
K. Brzeski raz przyjmował do druku, innym razem znów odrzucał teksty kolegów – w
rubryce „Odpowiedzi od redakcji” jednodniówki Futurysta (listopad 1921) oznajmił:
P. Elskiemu Radosławowi. Listu Sz. P. z przyczyn od nas niezależnych umieścić nie możemy. Jak się
wydaje nam, społeczeństwo postara się przeboleć stratę po panu26.
P. Wilskiemu Emilowi. Wiersze słabe, prosimy jednak o dalsze27.
Jak wspomniano, to właśnie K. Brzeski był inicjatorem i najbardziej prężnym animatorem
działań najmłodszych futurystów warszawskich, od czerwca do listopada 1921 r. zredagował i
wydał cztery jednodniówki (dla przypomnienia: Katarynkę, Pam-Bam, Czyk-Czyk i Futurystę),
więc kiedy w grudniu 1921 r. na rynku pojawiły się produkcje H. Sela – jednodniówka Trr…– i
w styczniu 1922 r. jednodniówka Gwiazdy w garnku (być może była to konsekwencja rozłamu
24
Kwestia naśladowania manifestów wymagałaby dokładniejszego omówienia, na co w tym krótkim wywodzie brak
miejsca.
25
Nazwisko S. Brühlla rzeczywiście zniknęło z czterech następnych publikacji grupy K. Brzeskiego; Brühll powrócił
dopiero w jednodniówce ostatniej Wiatr w rosole (1924) z recenzją o książce A. Sterna pt. Anielski cham.
26
Wiersze R. Elskiego pojawiły się jednak w siódmej z kolei jednodniówce Fioletowe płuca (1922), został także
współredaktorem (obok K. Brzeskiego) ostatniej jednodniówki grupy pt. Wiatr w rosole (1924).
27
E. Wilski nadesłał kolejne utwory, jednak również zostały odrzucone z komentarzem: „B. kiepskie” (Fioletowe płuca, 1922).
„Najmłodsi futuryści warszawscy”
w grupie) – K. Brzeski natychmiast skomentował ten fakt w swojej kolejnej publikacji Błękitne
spodnie (styczeń 1922):
Zjednoczenie zdegenerowanych wyrostków wyznania mojżeszowego, z powodu wczesnego
zamykania „Saskiego ogrodu” postanowiło zabić jakoś czas i rezultatem postanowienia są brukowe
broszurki pn. „Trr…”, „Gwiazdy w garnku” itp. Smarkateria ta, parafrazując i plugawiąc nasze
jednodniówki, podszywa się bezkarnie pod nazwę futurystów. Zaznaczamy, że nic wspólnego z
wykolejonymi sztubakami nie mamy i postaramy się uskramiać szkodliwe ekscesy nalewkowskich
młodzieniaszków.
Być może brutalny ton wypowiedzi miał być jedynie kolejną prowokacją? Elementem
reklamy („jarmarcznej”, jak ją wówczas określała prasa) oraz świadomej strategii gry ze
zdezorientowanym czytelnikiem? Czy rzeczywiście ich autor chciał zdyskredytować konkurencję
i czy była to rzeczywiście konkurencja? Trudno dziś odpowiedzieć na te pytania. Tym niemniej
wykrystalizowały się dwie odrębne grupy najmłodszych futurystów, skupione wokół wydawanych
przez siebie jednodniówek – pierwsza, liczniejsza grupa K. Brzeskiego, która zaczęła publikować
od czerwca 1921, w której najaktywniej działali B. Hermelin, Z. Halicki i E. Chryzman oraz grupa
H. Sela, z najaktywniejszymi przedstawicielami: S. Gernem, A. Halem i S. Drzewożyckm (ich
publikacje zaczęły pojawiać się od grudnia 1921 r.).
Od początku swojej działalności najmłodsi futuryści usilnie zabiegali przede wszystkim
o uznanie w oczach starszych kolegów, szczególnie A. Sterna i A. Wata, którzy tak ja oni,
mieszkali w Warszawie. Po latach W. Słobodnik (wówczas należący do kręgu K. Brzeskiego) w
listach wspominał: „Pamiętam jedno posiedzenie grupy, na którym patronowali nam Anatol
Stern i Aleksander Wat” oraz „patronujący młodym poetom Anatol Stern i Aleksander Wat za
najciekawszego i najzdolniejszego spośród nich uważali Hermelina”28.
Kiedy na początku lutego 1921 r. T. Czyżewski, B. Jasieński i S. Młodożeniec przybyli z
Krakowa do Warszawy z zamiarem zaprezentowania swoich dokonań poetyckich29, traktowali A.
Sterna i A. Wata jako konkurencyjną grupę twórców, lecz mimo wszystko miało dojść do spotkania.
A. Wat wspominał po latach, że kiedy miało odbyć się jego pierwsze spotkanie z B. Jasieńskim
zjawił się w umówionym miejscu, lecz oto:
Był tam jeszcze jeden młody człowiek […] który Jasieńskiemu podawał się̨ za Aleksandra Wata.
Przyłączył się do Jasieńskiego i przyjechał właśnie na ten wieczór jako Aleksander Wat. W kawiarni
nastąpiło moje spotkanie z Jasieńskim. Jasieński zaczerwieniony, zarumieniony: „Jak to śmie się pan
nazywać Aleksandrem Watem, kiedy Aleksander Wat tu przyjechał z nami?” I pokazuje mi bardzo
młodego, szalenie sympatycznego, nieśmiałego człowieka, który z kolei się zaczerwienił i zaczął coś
pomrukiwać, że właściwie, no, że on tak czasem czuje się innym człowiekiem, że jemu się jakoś
spodobało tak wystąpić. Oczywiście Jasieński wylał go wtedy na pysk30.
Być może „młodym sympatycznym człowiekiem” był wówczas właśnie K. Brzeski? W
sierpniu 1921 r. swój wiersz Futurocacka opatrzył wszak dedykacją – „Tobie Panie Bruno
28
Fragmenty listów W. Słobodnika cytuję za: A.K. Waśkiewicz, W kręgu futuryzmu i awangardy. Studia i szkice, Wrocław
2003, s. 92. B. Hermelin, o czym była już mowa, opublikował w ośmiu jednodniówkach grupy 16 tekstów poetyckich.
29
Pierwszy „poezokoncert” futurystów krakowskich w Warszawie w sali Filharmonii miał miejsce 9 lutego 1921 r.
30
A. Wat, Mój wiek, Warszawa 1990, s. 25.
23
Krzysztof Jaworski
Jasieński, w dowód minionego nieporozumienia, płód swój poroniony poświęcam”31. W
kontekście wspomnień A. Wata dedykacja ta byłaby wówczas zrozumiała. O ile więc A. Wat i A.
Stern utrzymywali jakieś sporadyczne kontakty z najmłodszymi futurystami, o tyle po spotkaniu
z futurystami krakowskimi, połączeniu sił, wydawaniu wspólnych już jednodniówek i wspólnych
występach takie kontakty zupełnie ustały. W dodatku futuryści postanowili zdecydowanie odciąć
się od „młodzieży futurystycznej” i w listopadzie 1921 r. w jednodniówce Nuż w bżuhu wyjaśniali
(zachowana pisownia „futurystyczna”):
SPROSTOWAŃE. Od pewnego czasu w kioskah warszawskih systematyczńe pojawiają śę świstki
noszące po kolei tytuły „katarynka”, to znów „Pam-Bam”, „Czyk-Czyk” „zapożyczone” od b.
krakowskiego klubu futurystów, dźęki czemu udało śę im istotńe wprowadźić w błąd wielu ńeświadomyh i zahęćić do ih kupowańa. Zapytywańi w tej sprawie już kilkakrotńe, zamieszczamy
w tym miejscu parę słuw wyjaśńeńa. Cała ta afera, przypominająca nam brudne geszefty z
podrabiańem ma- rek fabrycznyh, określa dostateczńe gatunek młodźeńcuw poetyzującyh w owyh
erzatz-katarynkah pod mianem „najmłodszyh polskih futurystów”.
Wydaje się, że to właśnie oświadczenie futurystów przelało czarę goryczy. W styczniu 1922
r. w piątej z kolei jednodniówce Błękitne spodnie K. Brzeski z pewnym rozżaleniem pisał:
„Futuryści” warszawscy pp. Anatol Stern i Aleksander Wat, twierdzili, że z radością witają
powstanie organizacji, udzielali nam z początku pseudo-cennych wskazówek i „żywo” interesowali
się rozwojem organizacji. Lecz „sielankowa idylla” nie trwała długo. PP. „futuryści” ujrzawszy, że
„Katarynka Warszawska” zasypuje rynek księgarski jednodniówkami, almanachami itp. elementem
konkurencyjnym, zaczęli chłodnąć (co jest zupełnie zrozumiałe) i starać się nas zupełnie ignorować.
Specjalistą od ignorowania nas, jest bezwzględnie wymuskany „krakowski hrabia Lolo” p. Bruno
Jasieński, który zdaje się przewyższać głupotą But w butonierce.
24
Dużo ostrzej w dalszej części tej samej publikacji potraktowano A. Wata:
Prośba do wydziału zdrowia. Duchowa organizacja futurystyczna „Katarynka Warszawska” zwraca
się z prośbą do wydziału zdrowia w sprawie internowania „generalnego stręczyciela małokrwistych
dziewczynek” p. Aleksandra Wata jako człowieka umysłowo chorego. Z powodu braku miejsca w
szpitalu obłąkanych proponujemy na schronisko mopso-żelazny piecyk.
Pretekstem tak agresywnej wypowiedzi K. Brzeskiego stało się rzecz jasna zdanie z książki A.
Wata (Ja z jednej strony i Ja z drugiej strony mego mopsożelaznego piecyka, 1920) które brzmiało:
„Zresztą dość już gwałciłem brązowe ciała samic na wzdętej glebie afrykańskich płaskowzgórzy”.
Kiedy w lutym 1922 r. w 2 numerze pisma «Nowa Sztuka» A. Wat opublikował tekst pt.
Powieść, jedno ze zdań brzmiało podobnie: „I, gdy dusza moja gwałciła chudą dziewczynkę, JA,
blady, wyprostowany, przemówiłem do wszystkich: dziokonda a kuku”32. K. Brzeski zareagował
błyskawicznie, komentując w Fioletowych płucach (marzec 1922): „Wat w dalszym ciągu gwałci
chude dziewczynki, co jest zupełnie zrozumiałe, gdyż do okazów należałaby ta kobieta, która by
się dobrowolnie mu oddała”.
Ani B. Jasieński, ani A. Wat nie zareagowali na te słowne inwektywy, nie podjęli polemiki
31
Tekst znalazł się w jednodniówce Czyk-Czyk (1921).
A. Wat, Powieść, [w:] «Nowa Sztuka», 2, 1922, s. 17-21.
32
„Najmłodsi futuryści warszawscy”
z najmłodszymi futurystami. A ci ostatni, porzuciwszy ostatecznie nadzieję na dostąpienie
zaszczytu tworzenia głównego nurtu polskiego futuryzmu, snuli dalej swoje literackie plany
– jako książki mające się niebawem ukazać, zapowiadali: „K. Brzeski, Futuremy; J. Drwęski,
Romans na Olimpie (poemat); Z. Halicki, Pijany Apollo; B. Hermelin, Kwitnąca łąka (sonet);
R. Elski, Twarz Boga; M. Salcstein, Dla idei (dramat w trzech aktach)”. Nie ukazał się żaden z
zapowiadanych tytułów. Ostatnią, ósmą w swoim dorobku jednodniówkę pt. Wiatr w rosole, K.
Brzeski opublikował we wrześniu 1924 r. z obietnicą: „Futuryzm zmartwychwstał!!!”. Obietnica
okazała się gołosłowna, grupa się rozpadła33 – „najmłodsi futuryści warszawscy” stawali się coraz
starsi i porzucili przygodę z literaturą. Kazimierz Brzeski pisał dalej, własne książki udało się
także opublikować Z. Halickiemu i H. Selowi. Wszystkie przeszły bez echa. Ale to temat na inną
historię.
Abstract
Krzysztof Jaworski
“The youngest Warsaw futurists”. A Reconnaissance of the Periphery of Polish Futurism
The article discusses the so-called periphery of Polish Futurism, especially the activities of those known as the “Youngest
Warsaw futurists”, who to this day are considered only as imitators or even plagiarists of writers such as Bruno Jasieński and
Aleksander Wat, the artists who represent the mainstream of this literary movement. These groups (“Warsaw Katarynka”,
“Homunkulus”) were active in literary field in the years 1921-1924, but most of their ephemera (“jednodniówki” – once-lived
publications) have so far been considered missing . The article attempts for the first time to sort out the chronology of these
publications and to show them in the broader context of “recognised” Futurist publications.
Keywords: Polish avant-garde, Futurism, inter-war period
«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», (VII) 7, 2016, pp. 15-25
33
Grupa H. Sela przestała istnieć z końcem 1922 r.
25
Przemysław Strożek
Panorama di collaborazioni internazionali.
Enrico Prampolini e i suoi contatti con gli ambienti
dell’avanguardia polacca
N
egli ultimi anni sono stati pubblicati due importanti lavori dedicati all’opera di
Prampolini. Nel 2013 è apparsa la monografia di Giovanni Lista dal titolo Enrico
Prampolini futurista europeo, due anni dopo quella di Andrea Baffoni, dal titolo
Contro ogni reazione. Enrico Prampolini teorico e promotore artistico1. In ambedue i casi si
evidenzia il ruolo di Prampolini come propagatore del futurismo al di fuori dell’Italia e come
grande visionario del nuovo teatro. Nei due libri si evidenzia il suo ruolo di organizzatore della vita
artistica e curatore di importanti mostre dedicate all’avanguardia internazionale, piuttosto che
quello di autore di concrete opere letterarie. I due studiosi sottolineano la fondamentale importanza
del cosiddetto networking, ossia la strategia di elaborazione di un’utile rete di contatti reciprochi
con i creatori dell’arte nuova. Questo tipo di rete fu particolarmente significativo e ampio nel caso
di Prampolini: egli collaborò con dadaisti, costruttivisti, artisti della Cecoslovacchia, dell’Austria,
della Svizzera, della Francia e della Germania. Non a caso Lista definisce Prampolini un “futurista
europeo” e lo considera l’ambasciatore europeo del futurismo.
I due libri che ho menzionato sono opere di alto valore scientifico che hanno aperto
nuovi orizzonti sull’importanza che il futurista italiano ha avuto per l’avanguardia europea. Vale
tuttavia la pena rilevare che, al pari di tutte le precedenti monografie dedicate a Prampolini, essi
hanno ignorato i suoi stretti contatti con artisti e letterati polacchi2. In realtà, questi contatti sono
stati molto vivaci e sono durati fino alla fine degli anni Trenta, il che rende ancora più evidente
l’ampiezza dell’attività di networking esercitata dal futurista italiano. Da quando, nel 1923, a
Roma, Prampolini rinnovò la rivista «Noi» e si mise in contatto con la rivista «Zwrotnica»
di Cracovia e con Jalu Kurek, e più tardi, nel 1930, con Jan Brzękowski, le sue relazioni con gli
ambienti polacchi s’intensificarono costantemente. Ciò ebbe grande significato per la recezione
della sua opera in quella parte d’Europa. Fra l’altro, è grazie a quei contatti, che Prampolini donò al
Museo di Łódź il quadro La Tarantella, un atto che testimonia l’importanza della collaborazione
fra il futurista italiano e l’avanguardia polacca.
1
G. Lista, Enrico Prampolini futurista europeo, Roma 2013; A. Baffoni, Contro ogni reazione. Enrico Prampolini teoretico e
promotore artistico, Roma 2015. Cfr. anche: G. Lista, Prampolini futurista europeo, in: Prampolini futurista. Disegni, dipinti, progetti
per il teatro 1913-1931, Milano 2006, pp. 73-84. Per i rapporti col futurismo ceco cfr. anche: M. Tria, Marinetti e Prampolini a
Praga: contatti futuristi con l’avanguardia cecoslovacca fra le due guerre, in: Gli altri futurismi. Futurismi e movimenti d’avanguardia in
Russia, Polonia, Cecoslovacchia, Bulgaria, Romania, Atti del Convegno Internazionale Pisa, 5 giugno 2009, a cura di G. Tomassucci e
M. Tria, Edizioni Plus, Pisa 2010, pp. 37-54.
2
Solo alcune lettere di artisti polacchi a Prampolini e di Prampolini a Jalu Kurek sono state stampate in: E. Prampolini,
Carteggio 1916-1956, a cura di R. Siligato, Roma 1992, e E. Prampolini, Carteggio futurista, a cura di G. Lista, Roma 1992.
27
Przemysław Strożek
Gli anni Venti: «Noi», «Zwrotnica» e Jalu Kurek
28
L’idea di una collaborazione sovranazionale fra artisti dell’avanguardia iniziò a svilupparsi
su ampia scala a partire dal ben noto Congresso di Düsseldorf del 1922, al quale Prampolini
prese parte in qualità di rappresentante del futurismo italiano3. Al congresso partecipavano
rappresentanti di vari paesi del calibro di El Lisickij per la Russia, Hans Richter per la Germania,
Theo van Dowesburg per l’Olanda, Henryk Berlewi per la Polonia: aspiravano tutti all’elaborazione
delle basi di uno stile collettivo e progressivo nell’arte contemporanea. Sostanziale corollario di
questo evento fu il rafforzamento delle aspirazioni all’internazionalizzazione degli scambi fra i
vari raggruppamenti. Acquistò importanza il ruolo delle riviste che funzionavano da organi dei
raggruppamenti nei vari paesi. E furono le riviste che divennero piattaforme per le proclamazioni
programmatiche e le discussioni, strumenti di diffusione delle nuove idee, mezzi di comunicazione
e dibattito col pubblico e di confronto con i fruitori dell’arte. Soprattutto si creò qualcosa di
simile alla “rete”, ossia quello scambio di concezioni artistiche e di idee che costituiva il più rapido
mezzo di acquisizione delle informazioni sulle più recenti sperimentazioni dell’avanguardia nel
circuito internazionale4. La nascita delle riviste costituiva una specie di passaporto degli ambienti
dell’avanguardia internazionale, offrendo anche la possibilità di figurare nella lista internazionale
delle riviste del modernismo. Di questo testimoniava in Italia il rinnovamento di «Noi» (seconda
serie, 1923-1925), e in Polonia la fondazione di «Zwrotnica» (prima serie, 1922-1923) ad opera
di Tadeusz Peiper.
Come redattore capo di «Noi», Prampolini ambiva a fare della rivista una piattaforma
d’informazione sul futurismo e sull’arte internazionale. Dell’inizio della collaborazione con
la Polonia testimonia la regolare presenza di informazioni concernenti la rivista italiana in
«Zwrotnica», e viceversa. I redattori Prampolini e Peiper si scambiavano numeri delle due
riviste e davano notizie sull’attività degli artisti legati ai due periodici. Questa strategia non solo
contribuiva allo sviluppo del networking internazionale, ma favoriva la reciproca conoscenza della
creatività degli artisti d’avanguardia nei due paesi. Spesso ignorata dalle istituzioni governative
ufficiali, l’arte nuova poteva diffondersi nei circuiti internazionali grazie alla “rete” di scambio
avanguardista. Nel numero 6 di «Zwrotnica» del 1923 si poteva dunque leggere:
Nella nuova rivista futurista italiana «Noi», che si preannuncia come una delle più importanti
pubblicazioni europee dedicate all’arte nuova, compare in prima posizione il manifesto dei futuristi
italiani rivolto al governo fascista […]5.
3
Cfr. A. Baffoni, Contro ogni reazione, cit., pp. 135-141.
Negli ultimi anni si usa con sempre maggiore frequenza il termine “rete” – “network”. Timothy O. Benson e Éva Forgács se
ne sono serviti in relazione alla creazione dei contatti reciproci fra i vari centri dell’avanguardia (T. O. Benson, É. Forgács,
Introduction, in: Between worlds. A Sourcebook of Central European Avant-gardes, a cura di T. O. Benson, É. Forgács, Cambridge
2002, p. 22). Peter Brooker, redattore di uno studio in tre volumi dedicato alla storia delle riviste del modernismo, si è
soffermato sull’idea di “rete” in relazione alle pubblicazioni periodiche, idea che caratterizzava tutto il modernismo europeo:
“The resulting series of constellated studies will, it is hoped, prove both the diversity and networked exchange across borders
characterizing European modernisms and the role of magazines in articulating and mobilizing these” (P. Brooker, General
Introduction, in: The Oxford Critical and Cultural History of Modernist Magazines, vol. 3, a cura di P. Brooker et. al., Oxford 2013,
p. 21).
5
W “Noi”…, in «Zwrotnica», 6, 1923, p. 194. Questa breve nota si riferiva al manifesto I diritti artistici propugnati dai futuristi
italiani. Manifesto al governo fascista («Noi», 1, 1923), pubblicato sulla prima pagina della rivista.
4
Panorama di collaborazioni internazionali
Da parte sua, nella rivista italiana si leggeva la seguente informazione su «Zwrotnica»:
«Zwrotnica», direttore T. Peiper, Cracovia.
I gruppi dell’avanguardia polacca si schierano a favore di questa dignitosa e seria rivista. Essi non
hanno ancora trovato la loro via o brancolano tra l’espressionismo, il futurismo e il costruttivismo.
[...]” VAS [Ruggero Vasari]6.
Vale la pena ricordare anche che «Noi» pubblicava una rubrica regolare dal titolo Bollettino
futurista, che forniva informazioni di attualità su quello che accadeva nel mondo internazionale
dell’arte. Nell’annata successiva, la rivista italiana rendeva nota in quella rubrica la comparsa del
più recente numero di «Zwrotnica»:
L’ultimo numero di «Zwrotnica» rivista futurista di Cracovia diretta da Peiper, è interamente
dedicato al movimento futurista italiano. Contiene, oltre a un appello di Marinetti ai futuristi
polacchi, studi sulla letteratura, teatro ed arti figurative futuriste7.
L’interruzione delle pubblicazioni di «Zwrotnica» nella seconda metà del 1923 portò,
per forza di cose, alla fine della collaborazione di Peiper con «Noi». Tuttavia, lo scambio
d’informazioni che si era verificato fra la rivista romana e quella cracoviana rese possibile lo
sviluppo di quegli stretti contatti dei futuristi italiani con Jalu Kurek che avrebbero dato i loro
frutti in seguito.
Il diciannovenne poeta cracoviano debuttò sulle colonne di «Zwrotnica» del 1923 (n. 6)
proprio con la traduzione di poesie di F.T. Marinetti. Allo stesso tempo, nella rubrica Bollettino
futurista, «Noi» informava che a Cracovia e in altre città polacche venivano tenute delle
conferenze sul futurismo italiano8. L’attività di divulgazione svolta dal giovane collaboratore
di «Zwrotnica» non poteva sfuggire all’attenzione degli artisti italiani, che videro in lui
una personalità significativa e la possibilità di instaurare un prezioso contatto per gli scambi
d’informazione fra gli ambienti dell’avanguradia italiana e polacca.
Fin dalla giovinezza Kurek era affascinato non solo dalla poesia futurista, ma anche da
tutta l’attività teatrale di Prampolini9. Mentre raccoglieva informazioni sul teatro polacco, Kurek
si mise in contatto col fratello di Prampolini, Vittorio Orazi, co-redattore di «Noi». In una
lettera del 7 aprile 1924 Orazi promise a Kurek di inviargli il numero di «Noi» (1924, n. 6-9),
interamente dedicato alle nuove soluzioni sceniche dell’avanguardia internazionale10. Nel numero
comparivano schizzi di scenografie di futuristi italiani, dell’avanguardia teatrale ceca, francese,
olandese, tedesca, austriaca e lettone, nonché uno dei più importanti manifesti del teatro futurista,
ossia L’Atmosfera scenica futurista firmata da Prampolini.
Era desiderio di Kurek pubblicare un proprio scritto sul teatro di Prampolini sulle colonne
6
Zwrotnica, direttore: T. Peiper, Cracovia..., in «Noi», 3-4, 1923, p. 22.
L’ultimo numero...., in «Noi», 6-9, 1924, p. 23.
8
Il futurista Kurek tiene una serie di conferenze sul futurismo italiano, a Cracovia e in altre città di Polonia, in «Noi», 6-9, 1924, p. 24.
9
Dell’ammirazione per il teatro di Prampolini testimoniava già il dramma giovanile Gołębie Winicji Claudel del 1924, nel
quale compaiono indicazioni di scena che prescrivono di far uso delle sperimentazioni di Prampolini nella scenografia del
dramma. Sul dramma di Kurek cfr.: P. Strożek, Applausi esclusi. Jalu Kurek e Teatro Futurista Italiano, traduzione di Giovanna
Tomassucci, in: Gli altri futurismi, cit., pp. 113-123, 125-132.
10
Lettera di V. Orazi a J. Kurek, 7.4.1924, Biblioteka IBL PAN, Archiwum «Linii», segn. 89. Cfr. anche: G. Carpi, Il teatro
di Prampolini nella rivista “Noi”, in: Prampolini futurista. Disegni, dipinti, progetti per il teatro 1913-1931, Milano 2006, pp. 23-28.
7
29
Przemysław Strożek
di una rivista dell’avanguardia polacca, ma «Zwrotnica» cessò la sua attività. Al suo posto
comparve a Varsavia nel 1924-1925 il periodico «F24. Almanach Nowej Sztuki», concepito
come continuazione del precedente organo dell’avanguardia letteraria polacca. Nel giugno del
1924, il direttore del periodico Stefan Kordian Gacki chiese a Kurek di preparare per il terzo
numero un testo sintetico sulle più recenti conquiste del teatro futurista11. L’articolo di Kurek,
tuttavia, non venne stampato su «F24», ma vide la luce solo più di un anno dopo, nell’ottobre
1925 su «Wiadomości Literackie».
Nel frattempo Kurek aveva ricevuto non solo le ultime pubblicazioni di Prampolini sul
teatro pubblicate in «Noi», ma aveva anche conosciuto il futurista italiano personalmente.
Nel 1924, grazie ad una borsa di studio, era infatti andato a Napoli ed aveva avuto la possibilità
di incontrare Prampolini. Nell’articolo A Capri, in visita da Marinetti, stampato su «Głos
Narodu» del 6 ottobre 1924, scriveva di aver visitato il futurista italiano e di aver visto i suoi
lavori a Roma:
Il maggior contributo al rinnovamento della scenografia teatrale viene oggi da Enrico Prampolini,
pittore e scenografo futurista di grande talento. I suoi progetti, che ho avuto modo di vedere a
Roma, sono veramente splendidi. Basta vederli per immaginare quali straordinari effetti di colore e
dinamismo si possono raggiungere se si guarda alle cose da un punto di vista più ampio. Ho parlato
con Prampolini di arte, in particolare della sua amata scenografia. Mi è bastato osservare nel suo
laboratorio gli schizzi e i progetti nei quali egli a volte dedica vari disegni ad un unico movimento
dell’abito del protagonista, oppure dove si sforza di studiare su vari piani le pieghe del costume di
un’attrice che solleva una gamba, per avere la sensazione che proprio qui, a Roma, si trova uno dei
più originali riformatori della scenografia odierna12.
30
Nelle sue memorie avrebbe poi descritto come il futurista italiano lo aveva accompagnato
nei vari angoli della Città Eterna:
In Piazza Venezia a Roma ci sediamo la sera a cielo aperto in un caffè, suona la musica, une feerie
di luci. Di fronte a noi le accecanti scale bianche che portano al Campidoglio, al centro la statua
equestre di Vittorio Emanuele.
– Ecco un Gran Pissoir d’Italia – dice Prampolini, eccellente pittore, indicando quel “miracolo”
dorato innalzato in mezzo ai marmi davanti ai nostri occhi13.
Tutti e due poi s’incontrarono a Capri da Marinetti:
Ricordo benissimo la mia visita a Capri a casa del leader del futurismo, Filippo Tommaso Marinetti.
Mi aveva mandato un telegramma da Napoli dicendomi di andare da lui […]. Presso il proprietario
dell’abergo Pagano a Capri, dove mi ha portato Marinetti, vedo quadri dei futuristi: G. Severini, G.
Balla, C. Carrà.
– E invece la mia Grotta Azzurra si trova nella collezione Gwynn a Londra – butta lì con fierezza
Prampolini. È una personalità notevole. Zoppicava leggermente a una gamba14.
11
13
14
12
Lettera di S. K. Gacki a J. Kurek, 26.6.1924, in: T. Kłak, Materiały do dziejów awangardy, Wrocław-Warszawa 1975, p. 229.
J. Kurek, U Marinettiego na Capri, in «Głos Narodu», 228, 1924, p. 6.
Idem, Mój Kraków, Kraków 1978, pp. 109-110.
Ivi, p. 112.
Panorama di collaborazioni internazionali
Fu questa visita sull’isola italiana che, a cavallo tra settembre e ottobre 1924, offrì a Kurek
l’occasione di scrivere il già menzionato articolo della «Voce del popolo». Kurek vi precisava
esplicitamente che negli anni Venti il volto del futurismo era mutato, non era più il futurismo dei
poeti e dei pittori Aldo Palazzeschi e Umberto Boccioni, ma quello delle nuove sperimentazioni
teatrali di Marinetti e Prampolini. Egli sottolineava anche che l’avanguardia italiana si concentrava
soprattutto sul rinnovamento del teatro. Ne scrisse più ampiamente in Il teatro futurista. Enrico
Prampolini, interamente dedicato agli esperimenti scenici del futurista italiano. Kurek menzionava
il successo ottenuto dai suoi progetti scenografici all’Esposizione Internazionale del Teatro che si
svolse a Vienna nel 1924, in particolare rilevò l’approvazione che il pubblico aveva manifestato
per la messa in scena del Tamburo di fuoco che il futurista italiano aveva realizzato insieme agli
artisti cechi15. Nel suo articolo Kurek inserì la riproduzione degli schizzi fatti per le scene delle
pièce Psychologia Maszyny [Psicologia della Macchina], e Odrodzenie Ducha [La rinascita dello
Spirito]. Per l’analisi delle più rilevanti sperimentazioni sceniche di Prampolini Kurek si servì
delle informazioni contenute nel numero di «Noi» (1924, n. 6-9) che gli aveva inviato Orazi:
Secondo Prampolini, la scenografia dominante, concepita come descrizione di una realtà inventata,
come finzione realistica del mondo visibile, deve essere condannata, poiché costituisce un
compromesso statico che si contrappone al dinamismo scenico che è l’essenza dell’azione tetrale […],
la tecnica teatrale si indirizza verso il dinamismo plastico della vita contemporanea, ossia dell’azione.
I principi fondamentali della nuova estetica teatrale sono il dinamismo, la simultaneità e l’unità di
azione dell’uomo e del luogo. Mentre la tecnica del teatro tradizionale ha portato al dualismo del
principio dinamico, ossia dell’uomo, e del principio statico, ossia il luogo, i futuristi hanno riportato
all’unitarietà e alla contemporaneità scenica i principi dell’uomo e del luogo, incrociandoli l’uno
con l’altro in una sintesi scenica vivente […]. È sulla base di questi presupposti che Prampolini
crea la scena dinamica. Giungendo alla scenografia (descrizione pittorica degli elementi realistici)
attraverso la scenosintesi (assemblamento architettonico di superfici colorate) e la scenoplastica
(costruzione tridimensionale di elementi plastici sulla scena), fino alla scenodinamica (architettura
spaziale-coloristica di elementi dinamici nell’atmosfera prodotta dalla luce di scena. […] Ogni
rappresentazione sarà uno strumento meccanico dell’eterno fluire della materia, sarà una magica
rivelazione del mistero – sintesi panoramicaa dell’azione concepita come celebrazione mistica del
dinamismo spirituale – centro di astrazione siprituale della nuova religione del futuro16.
Il 10 ottobre 1925 Prampolini scrisse personalmente una lettera in cui ringraziava Kurek
per l’articolo che aveva scritto17. Grazie a quell’articolo, il nome del futurista italiano acquistò
notorietà negli influenti ambienti della rivista «Wiadomości Literackie», che avrebbe poi
pubblicato ancora due lavori sui suoi successivi esperimenti teatrali, ossia sul cosiddetto Teatro
Futurista della Pantomima18.
Non c’è dubbio tuttavia che il primo a far conoscere l’opera di Prampolini in Polonia negli
anni Venti fu Kurek: egli aveva preso contatto con lui, dando seguito alla collaborazione iniziata
15
Questo dramma doveva essere rappresentato anche a Varsavia, ma non si giunse mai alla realizzazione del progetto, nel
quale Kurek si era impegnato personalmente. Cfr. P. Strożek, Marinetti i futuryzm w Polsce (1909-1939). Obecność – kontakty
– wydarzenia, Warszawa 2012, pp. 174-179.
16
J. Kurek, Teatr Futurystyczny. Henryk Prampolini, in «Wiadomości Literackie», 41, 1925, p. 2.
17
Lettera di E. Prampolini a J. Kurek, 10.10.1925, Biblioteka IBL PAN, Archiwum «Linii», sygn. 89.
18
A. Wyleżyńska, Włoska pantomima futurystyczna, in «Wiadomości Literackie», 35, 1927, p. 2; Z. Tonecki, Aliterackie
eksperymenty teatralne. Oskar Schlemmer i Enrico Prampolini, in «Wiadomości Literackie», 31, 1930, p. 2.
31
Przemysław Strożek
nel 1923 da «Zwrotnica» e «Noi». Grazie all’iniziativa di organizzare scambi d’informazione
fra le avanguardie, Prampolini e gli altri futuristi italiani poterono contare su una più ampia
ricezione in Polonia, e Kurek e i futuristi polacchi divennero noti in Italia. I contatti di Prampolini
con la Polonia continuarono negli anni Trenta, solo che allora il vero punto di riferimento non
era più Kurek, ma l’altro rappresentante dell’Avanguardia di Cracovia, già collaboratore della
seconda serie di «Zwrotnica», Jan Brzękowski.
I contatti degli anni Trenta. Brzękowski, Pronaszko e la Triennale di Milano
32
In seguito agli sconvolgimenti dello scenario politico e alla presa di potere dei governi
totalitari, che sostenevano tendenze artistiche classicizzanti, ed anche in seguito all’esaurimento
delle idee del costruttivismo internazionale che aveva il suo centro propellente a Berlino, all’inizio
degli anni Trenta Parigi divenne di nuovo la capitale dell’avanguardia europea. Qui si aggregavano i
gruppi dell’astrattismo internazionale, qui vivevano i futuristi italiani Prampolini e Luigi Russolo.
A Parigi viveva anche, dal 1928, Brzękowski che ambiva ad assumere il ruolo di rappresentante
dell’avanguardia polacca nel nuovo centro dell’avanguardia internazionale, diffondendo la
conoscenza della nuova poesia e dell’arte polacca.
Nel contesto parigino, i suoi legami con i raggruppamenti dell’astrattismo e la posizione
di redattore della rivista bilingue «L’Art Contemporain – Sztuka Współczesna» (19291930) favorirono la formazione di importanti contatti anche con i futuristi italiani. La rivista
non era l’organo di un gruppo e aveva piuttosto la funzione di diffondere la letteratura e l’arte
d’avanguardia. Tutti i numeri del periodico francese-polacco si aprivano con un ciclo di saggi
di Brzękowski intitolato Kilométrage/Kilometraże: questi saggi procurarono all’autore una
notevole fama nell’ambiente parigino. Prampolini, che in quel tempo viveva nella capitale
francese, rimase impressionato dai saggi scritti dal poeta polacco e si propose di pubblicare i
Kilométrage in traduzione italiana sulla rivista «La Città futurista» (1928-1929). Il 13 aprile
1929 i due s’incontrarono in un caffè parigino per discutere del progetto19, dando così inizio
ad un’importante relazione letteraria. Prampolini aveva per l’autore di Kilométrage la stessa
stima che il redattore della rivista «L’Art Contemporain – Sztuka Współczesna» aveva per la
sua pittura, tanto che ben presto si adoperò per assicurare uno dei suoi quadri alla collezione del
Museo dell’Arte contemporanea di Łódź.
La creazione di questa raccolta di opere d’arte fu un’idea del gruppo polacco “a.r.”, fondato
dagli ex collaboratori della cracoviana «Zwrotnica» ( Julian Przyboś, Jan Brzękowski) e da alcuni
ex membri del gruppo Praesens (Władysław Strzemiński e altri). I membri del gruppo “a.r.”
pubblicarono il loro programma artistico nella forma di quelli che essi chiamavano Komunikaty
[Comunicati] e avevano anch’essi come finalità primaria la divulgazione di conoscenze sull’arte
contemporanea. La creazione di una raccolta internazionale di opere d’arte dell’avanguardia per
il Museo della Città di Łódź fu l’iniziativa più rilevante del gruppo e Brzękowski, che abitava a
Parigi, ebbe il ruolo più significativo nell’acquisizione di opere di pittori stranieri. Grazie alla sua
conoscenza personale con Prampolini riuscì a far giungere a Łódź una delle sue prime opere, la
Tarantella, del 1920-22 (olio su tela, 80x80 cm), che era stata messa in mostra a Parigi ancora
19
Lettera di J. Brzękowski a J. Przyboś, 14.4.1929, in: T. Kłak, Źródła do historii awangardy, Ossolineum, Wrocław 1981, p. 44.
Panorama di collaborazioni internazionali
nel giugno del 192920. Prampolini fu uno dei primi artisti a donare un quadro al nuovo museo21,
l’opera giunse in Polonia già nell’agosto di quello stesso anno ed entrò a far parte dei 27 quadri
installati nel Museo Cittadino di Storia dell’Arte, secondo l’accordo del 15 febbraio 193122.
I contatti di Brzękowski con Prampolini furono continui e fruttuosi, sempre all’insegna
della diffusione di conoscenze sul futurista italiano a Parigi e in Polonia e, dall’altra parte, sulla
produzione artistica dell’avanguardia polacca in Italia. Ancora nel 1930 Brzękowski comunicava
a Julian Przyboś che aveva fatto vedere a Prampolini e Fillia il primo Comunicato a.r.23. Poco dopo
scriveva che su «L’Art Contemporain – Sztuka Współczesna» del 1930 intendeva pubblicare una
riproduzione delle opere del futurista italiano24. Realizzò questo progetto nel saggio Kilométrage
3, in cui discettava sui fondamenti della pittura d’avanguardia, inserendo l’opera giovanile di
Prampolini Donna e ambiente, del 1915, nonché uno degli ultimi quadri, ossia la tela Maternità
cosmica (1929-30). Brzękowski definiva il primo servendosi delle categorie di “deformazione
e costruzione”, mentre al secondo applicava le categorie di “espressione letteraria”25. Secondo il
poeta polacco questi concetti definivano le basi della pittura d’avanguardia che egli credeva di
scoprire proprio nella creazione del futurista italiano. La pubblicazione delle opere di Prampolini
nella rivista «L’Art Contemporain – Sztuka Współczesna» del 1930 (n. 3) e le discussioni che
le accompagnarono erano senza dubbio testimonanzia eloquente di gratitudine per il dono che
Prampolini aveva fatto alla collezione di Łódź.
Da parte sua Prampolini non mancò di manifestare il suo apprezzamento per l’opera dei
futuristi polacchi. In una lettera a Kurek26, Brzękowski comunicava che la rivista italiana «Oggi
e Domani» aveva pubblicato un articolo sul terzo numero di «L’Art Contemporain – Sztuka
Wpółczesna», e già l’anno seguente, su «Futurismo», comparve una nota di Brzękowski dal
titolo Un museo d’arte contemporanea in Polonia (Il Futurismo rappresentato da Prampolini)27.
Nel marzo del 1933 chiedeva ancora se Brzękowski avesse ricevuto un ritaglio di questo secondo
articolo e lo informava che aveva l’intenzione di pubblicare un’informazione sul suo nuovo libro
e su Kilométrage28.
Brzękowski tuttavia non aveva ricevuto la lettera con l’articolo29. Due anni dopo, nel
20
G. Lista, Enrico Prampolini, cit., p. 190.
Lettera di W. Strzemiński a J. Przyboś, 24.4.1930, in: Listy Władysława Strzemińskiego do Juliana Przybosia, a cura di A.
Turowski, in «Rocznik Historii Sztuki», 1973, p. 243.
22
Z. Karnicka, Enrico Prampolini. Tarantella, in: 111 dzieł z kolekcji Muzeum Sztuki, a cura di J.A. Ojrzyński, Muzeum
Sztuki, Łódź 2004, p. 72. Per la storia del Museo dell’Arte, cfr. Muzeum Sztuki w Łodzi. Monografia, vol. 1, a cura di A. Jach, K.
Słoboda, J. Sokołowska, M. Ziółkowska, Łódź 2015.
23
Lettera di J. Brzękowski a J. Przyboś, 2.4.1930, in: T. Kłak, Źródła, cit., p. 60.
24
Lettera di J. Brzękowski a J. Przyboś, 13.5.1930, Ivi, p. 62.
25
J. Brzękowski, Kilométrage 3, in «L’Art Contemporain – Sztuka Współczesna», 3, 1930, pp. 82-92.
26
Lettera di J. Brzękowski a J. Kurek, 27.4.1931, in T. Kłak, Materiały, cit., p. 63. Dell’evento scriveva anche la Redazione di
«Linia»: “La collezione di arte nuova a Łódź [...] ha suscitato grande interesse all’estero (serie di note nella stampa e articoli
assai lunghi in riviste come «Comoedia», «Liberté», «Oggi e domani»”. Kolekcja Nowej Sztuki w Łodzi, in «Linia», 4, 1932,
p. 103.
27
J. Brzękowski, Un museo d’arte contemporanea in Polonia (Il Futurismo rappresentato da Prampolini), in «Futurismo», 6,
1932, p. 2.
28
“Avez-vous réçu Futurisme avec votre article? Dans le prochain numéro j’ai fait annoncer votre livre. Je publierai aussi
une note sur le kilométrage”. Lettera di E. Prampolini a J. Brzękowski, 25.3.1933, Biblioteka Polska w Paryżu, Archiwum
Brzękowskiego, cit. in: T. Kłak, Materiały, cit., p. 63.
29
J. Brękowski, Futuryści, in: Idem, W Krakowie i w Paryżu. Wspomnienia i szkice, Kraków 1975, p. 150.
21
33
Przemysław Strożek
1935, quasi certamente su richiesta di Prampolini, egli scrisse in francese l’articolo Le Futurisme
Italien en Pologne per la nuova rivista «Stile futurista» (1934-35), che veniva stampata a Torino
sotto la direzione del futurista italiano. L’autore rilevava che il futurismo italiano aveva esercitato
una grande influenza sul processo di formazione delle nuove correnti artistiche in Polonia e
descriveva brevemente l’attività dei futuristi di Cracovia e Varsavia. Non mancò di presentare le
critiche indirizzate al futurismo da Peiper, come anche le traduzioni fatte da Kurek. Dava anche la
notizia della creazione del Museo d’Arte di Łódź, attirando l’attenzione del lettore sul quadro La
Tarantella donato da Prampolini30.
Nel 1936 i contatti fra Brzękowski e Prampolini si rinsaldarono grazie alla presenza di artisti
polacchi alla VI Triennale di Milano. Prampolini curava la sezione dedicata alle tecniche teatrali
dell’avanguardia a livello internazionale e si rivolse a Brzękowski chiedendogli, in una lettera,
quali fossero i migliori artisti sperimentali nel campo della scenografia. Brzękowski gli rispose,
consigliandogli di contattare Szymon Syrkus e Andrzej Pronaszko, che a suo tempo avevano
fatto parte del gruppo “Praesens”, e che cercasse anche di ottenere informazioni sui lavori degli
scenografi del Teatro Polacco di Varsavia Karol Frycz, Wincenty Drabik, Władysław Daszewski e
Stanisław Śliwiński31. Prampolini s’interessò dei lavori di Pronaszko, che gli mandò personalmente
le fotografie di alcuni suoi progetti in una lettera dell’aprile 193632. Quelle fotografie vennero poi
pubblicate nel libro Scenotecnica di Prampolini pubblicato nella serie dei quaderni della Triennale
di Milano del 1940: Pronaszko vi figurava come unico rappresentante della scenografia polacca.
Nell’introduzione al libro il futurista italiano lo menzionava come uno dei migliori decoratori di
scena degli ultimi anni:
34
La scenografia [...] ha ceduto il passo alla scenotecnica sintetica, plastica, costruttivista, futurista,
tridimensionale, dinamica. È l’epoca dei Matisse e dei Picasso e di altri ancora, qui presenti con le loro
sensibili audacie pittoriche. Derain e Léger, Maria Laurencin e Braque, la Gontcharowa e Larionoff,
Juan Gris e Survage, Pruna e Christian Berard, Touchagues e Barasacq, Sima e Valentine Hugo,
Pronaszko e Tchelitchew. La lista potrebbe continure. Anche in Germania, prima del Nazismo, e
attualmente nella Boemia, nella Polonia e nel Belgio si sono avvicendate molteplici esperienze per
opera dei più appassionati scenotecnici33.
In una nota dedicata allo scenografo polacco, egli sottolineava che, insieme a Szymon
Syrkus, Pronaszko aveva creato il “teatro mobile”34. Prampolini sicuramente intendeva il progetto
di Teatro Simultaneo che era stato pubblicato sulla rivita «Praesens» nel 1930 e di cui in Italia
si discusse anche due anni dopo sul periodico «Quadrante»35. Il progetto di Teatro Simultaneo
ideato da Szymon e Helena Syrkus e Pronaszko prevedeva la mobilità della scena e la collocazione
della platea al centro dello spazio teatrale, attorno al quale si snodava la scena suddivisa in una
dozzina di parti minori. In questa forma si poteva far girare rapidamente la scena attorno alla
platea36.
30
32
33
34
35
36
31
Idem, Le Futurisme italien en Pologne, in «Stile Futurista», 6-7, 1935, p. 27.
Lettera di J. Brzękowski a E. Prampolini, 15.4.1936, macro-crdav, Archivio Prampolini, Roma.
Lettera di A. Pronaszki a E. Prampolini, 24.4.1936, macro-crdav, Archivio Prampolini, Roma.
E. Prampolini, Introduzione, in: Idem, Scenotecnica, Milano 1940, p. 7.
Ivi, p. 31.
S. Syrkus, Nuova teoria di Teatro, in «Quadrante», 11, 1932.
B. Frankowska, Architektura teatralna Pronaszki, in «Pamiętnik Teatralny», 1964, p. 160.
Panorama di collaborazioni internazionali
Il libro di Prampolini vide la luce nel 1940 quando i futuristi, insieme a Marinetti, si
impegnarono attivamente nella propaganda visuale delle gesta dei fascisti sui fronti della Seconda
Guerra Mondiale. Va detto tuttavia che, nonostante gli sconvolgimenti portati dalla guerra,
Prampolini continuava a credere nella grandezza dell’idea di un’avanguardia internazionale. Ne
sono testimonianza non solo il libro dedicato alle tecniche scenografiche sperimentali dell’Europa,
ma anche il fatto che ancora nel 1944 egli progettava di pubblicare un’antologia intitolata Artisti
d’avanguardia. Essa era pensata come un omaggio agli artisti dei raggruppamenti delle varie
nazioni e doveva presentare anche figure quali George Grosz, Hans Arp, Kazimir Malevič e
Fernand Léger, che erano notoriamente convinti antifascisti. Nonostante le condizioni difficili
degli anni di guerra, quando i fascisti strinsero alleanza con i nazisti, Prampolini non perse la fede
nella potenza dell’arte d’avanguardia creata da artisti di vari paesi. Questo atteggiamento veniva
non solo dalle idee di sperimentazione ininterrotta, ma anche dai legami d’amicizia che aveva
stretto durante gli anni della sua attività artistica.
Fra i testi che Prampolini preparava per pubblicarli nella sua antologia Artisti d’avanguardia
(1944) si trovava una lettera di Arp a Brzękowski, in cui il primo spiegava che cosa egli intendesse
per dadaismo37. Il testo era inserito in un numero del 1930 di «L’Art Contemporain – Sztuka
Współczesna» che Prampolini sicuramente ebbe fra le mani38. La decisione di stampare questa
lettera rispondeva certamente al desiderio di quest’ultimo di sottolineare l’importanza della
rivista di Brzękowski, ma rifletteva anche la sua simpatia per il poeta polacco. Da parte sua, nelle
memorie pubblicate nel 1975 Brzękowski avrebbe scritto:
Durante una riunione di “Cercle et Carré”, venne una volta Prampolini e mi chiese se potessi
metterlo in contatto con l’autore di Kilométrage, […]. Fu questo l’inizio della mia conoscenza con
Prampolini, e ne ero particolarmente felice perché apprezzavo la sua pittura. […] Prampolini, uno
dei più significativi rappresentanti della pittura futurista, visse a lungo a Parigi, poi tornò in Italia
dove morì più di una decina d’anni dopo la guerra. Lo venni a sapere perché mi era stato mandato
il catalogo di una mostra organizzata dopo la morte, il quale conteneva una bibliografia dettagliata
degli articoli dedicati a lui. Mi meravigliai non poco di trovare nella lista anche il mio Kilométrage
de la peinture contemporaine […]39.
Un quadro della collaborazione internazionale
Negli anni Venti e Trenta i contatti di Prampolini con gli ambienti polacchi si basavano
soprattutto sul fatto che conosceva Kurek, Brzękowski e, sia pure in misura minore, Andrzej
Pronaszko. L’inizio e il consolidamento di quei contatti fu reso possibile dallo scambio delle
riviste «Zwrotnica» e «L’Art Contemporain – Sztuka Współczesna» con «Futurismo» e «Stile
Futurista». Il risultato di quegli scambi fu la creazione di legami fra artisti d’avanguardia di vari
paesi e il reciproco sostegno dato ai progetti d’avanguardia, accompagnati dalla diffusione della
conoscenza degli ambienti dell’arte nuova al di fuori dei canali ufficiali. Gli artisti sperimentali per
lo più non potevano contare sull’appoggio delle autorità o su aiuti finanziari dello Stato. Nel caso
degli artisti italiani la situazione cambiò alla metà degli anni Trenta, quando il futurismo si piegò
37
[Manoscritto] Traduzioni fatte preparare da Prampolini per un progettato volume su “Artisti d’avanguardia”, [1944],
macro-crdav, Archivio Prampolini, Roma.
38
H. Arp, Cher Monsieur Brzekowski, in «L’Art Contemporain – Sztuka Współczesna», 3, 1930, p. 102.
39
J. Brzękowski, Futuryści, in: Idem, W Krakowie, cit., pp. 150-152.
35
Przemysław Strożek
36
alle esigenze della propaganda fascista. Di questo rende evidenza la Triennale di Milano e il fatto
che la cura della sezione teatrale venne affidata a Prampolini che, grazie ai suoi numerosi contatti,
nel 1936 riuscì a creare una delle più importanti e insieme una delle ultime mostre di scenografia
d’avanguardia del periodo interbellico.
I contatti inizialmente creati grazie alle riviste furono dunque estremamente importanti
per i progetti di mostre internazionali. Nel caso delle relazioni con gli artisti polacchi questo era
l’unico modo, dal momento che un futurista italiano aveva scarse possibilità di incontrare i colleghi
polacchi nelle mostre di arte contemporanea. Nessun artista polacco d’avanguardia partecipò
all’Esposizione Internazionale delle Tecniche Teatrali di Vienna del 1924, né all’Esposizione
di Parigi del 1925. Quest’ultima venne boicottata dall’avanguardia polacca40. Ambedue queste
esposizioni furono invece estremamente importanti per la carriera di Prampolini che nella
capitale francese ottenne persino il Grand Prix per il progetto del Teatro Magnetico. Non a caso
venne considerato anche in Polonia come uno dei più importanti rappresentanti della tecnica
scenografica d’avanguardia. Come si è visto da quanto detto sopra, Kurek e Brzękowski avevano
grande stima anche della sua pittura.
Fu solo molto tardi, alla metà degli anni Trenta, che l’avanguardia teatrale polacca ebbe la
possibilità di incontrare Prampolini grazie alla sua nomina a curatore della sezione internazionale
di scenografia alla Triennale di Milano. Non esistevano più a quell’epoca né «Zwrotnica», né
«Blok» né «Praesens», e l’unica possibilità di contatto era quella offerta da “a.r.” e Pronaszko.
Anche se Brzękowski incoraggiava Prampolini a contattare molti artisti polacchi, fu solo Pronaszko
ad attrarre l’attenzione del futurista italiano che lo stimava grandemente.
La storia dei contatti di Prampolini con gli ambienti polacchi testimonia dell’importanza
che ebbe l’idea della collaborazione internazionale iniziata dall’avanguardia negli anni Venti. Le
molte conoscenze che egli aveva fra gli artefici delle nuove tendenze artistiche danno la misura
del ruolo fondamentale svolto dal networking per lo sviluppo dell’arte nuova. Grazie a lui
l’avanguardia divenne un fenomeno più eclettico e le differenze fra futurismo, costruttivismo
e astrattismo si fecero sempre più sfumate. L’attività di Prampolini negli anni Venti e Trenta
dimostra che, per tutto quel periodo, il futurismo godette di ottima salute ed ebbe la possibilità
di iniziare la collaborazione con gli artisti polacchi. Pur essendo meno dinamica che con gli artisti
cechi o tedeschi, quella collaborazione costituisce tuttavia un episodio importante nella storia
degli scambi artistici fra Polonia e Italia. Il risultato più duraturo è costituito dal Museo d’Arte di
Łódź che ebbe modo di arrichirsi di una delle tele più importanti del futurismo italiano, ancora
oggi conservata nella sua collezione permanente.
40
J.M. Sosnowska, Dlaczego w Paryżu nie było awangardy?, in: Wystawa Paryska 1925. Materiały z sesji naukowej Instytutu
Sztuki PAN. Warszawa, 16-17 listopada 2005 roku, a cura di J. M. Sosnowska, Warszawa 2007, pp. 121-128.
Panorama di collaborazioni internazionali
Abstract
PrzemysŁaw StroŻek
An Overview of International Cooperation. Enrico Prampolini and His Contacts with Polish Avant-garde
The article focuses on the reception of Enrico Prampolini’s work in Polish Avant-garde circles in the1920s and 1930s. It shows
Prampolini as a central figure in “networking” between artists and illustrates how such “networking” phenomena resulted
in the popularisation of Italian Futurism in Poland and Polish Avant-garde in Italy. It highlights the range of Prampolini’s
contacts with Poland, especially with the «Zwrotnica» circle, Jalu Kurek and Jan Brzękowski, who promoted his theatrical
productions and paintings. The outcome of these contacts was most of all a good knowledge of Futurist scenography in
Poland, an invitation for Polish scenographers to take part in the “Triennale” which Prampolini organized in 1936 in Milan,
and his cooperation with the “a.r.” collection of Modern Art in Łódź. The painting entitled Tarantella (1920), which
Prampolini offered to Brzękowski and was installed in Łódź in 1931, testifies to this important collaboration.
Keywords: Futurism, Prampolini, networking, avant-garde Magazines, avant-garde scenography
«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», (VII) 7, 2016, pp. 27-37
37
Emiliano Ranocchi
The Polish Cyborg. A Reflection on the Relationship between
Man and Machine in Early Polish Modernism
O
ne of the commonplaces about Polish Futurism that scholars like to repeat is that of
its ambivalent relationship to modernity. It may sometimes be difficult to understand
that the representatives of the first Polish avant-garde movement were not necessarily
blind enthusiasts of machine civilization. The reasons for this ambivalence have been partly
analysed1, but we still lack a comprehensive study and my contribution will not fill the gap either.
One reason may have been the experience of the war – the first of many technological wars to
come. After WWI, literature was forced to take a critical look at the experience of modernity,
also by reflecting on the relationship between man and machine. This critical confrontation with
modern civilization, the day after the war ended, involved almost all national European cultures,
in various different ways. Poland, which had regained independence after 123 years of foreign
colonization and slavery, was an extremely backward and undeveloped country, ill prepared to
face the challenges of modernity. Since it had not actually experienced any real fascination with
the opportunities provided by technology before the war, when the country was still divided
into three parts belonging to different States and at different degrees of development, so after
the war it was at once attracted by and afraid of the processes of modernization. In particular,
some representatives of the Polish futurist movement, who had received part of their education
in Russia, may well have been influenced by their Russian counterparts. Russian Futurism was
oriented toward a primordial past of protolanguage and primitive images and, until Majakovskij,
scarcely interested in problems of modernity.
My paper aims to present the salient theoretical reflections and literary visions concerning
the cyborg and the man-machine in the Polish avant-garde milieu of the early Twenties. They are
worth remembering, not only because of their limited accessibility to the non-Polish speaking
public, but also because they have not lost their relevance.
The Polish Cyborg – a Utopian Approach
Indeed, for early avant-garde theorists, the theme of the machine becomes a sort of
synecdoche of modernity, the litmus paper which shows the attitude of the artist toward it. In
a seminal essay by Tadeusz Peiper, published in July 1922 in «Zwrotnica», the journal of the
so called Cracow Avant-garde, with the alliterating title Miasto, Masa, Maszyna (Metropolis,
Mass, Machine), the machine is considered to be one of the three chief components of modern
life. Even if in this extensive text – one of the paramount theoretical pronouncements of interwar
1
H. Zaworska, O Nową Sztukę. Polskie programy artystyczne lat 1917-1922, Państwowy Instytut Wydawniczy, Warszawa
1963, pp. 212-226; G. Gazda, Futuryzm w Polsce, Ossolineum, Wrocław-Warszawa-Kraków-Gdańsk 1974, pp. 89-100; K.
Wyka, Czyżewski poeta, in: Idem, Rzecz wyobraźni, Państwowy Instytut Wydawniczy, Warszawa 1977, pp. 17-22.
39
Emiliano Ranocchi
Polish avant-garde – we could scarcely find anything which could even remotely anticipate the
topics of the present issue, it is interesting to quote it here. Indeed, it casts some light on the
animated discussion between the leaders of the two different wings of Polish avant-garde (Peiper
and Jasieński), as we will see later, and on the common premises of their different views. The
utopianism of Peiper’s proposal probably deserves a separate consideration. As indicated by the
title, the essay focuses on the three major moments of modern life: the city, the masses and the
machine. In the third part, which deals with the problematic relationship between man and
machine, Peiper poses the question of why machines have so far remained extraneous to man –
why they have not been assimilated like the tools whose beauty was evident to the eyes of primitive
man (he brings the example of the ornamentally engraved obsidian blades or arrowheads he saw
once in Copenhagen’s Ethnography museum). Peiper ascribes this “foreignness” to the division of
work: the manufacturer of the machine (or of its parts) is not the same worker who will eventually
use it. So, he sees no close relationship between the construction of the machine and its function.
As a consequence, machines have not only remained foreign to modern man, but even appear
ugly to him. This passage of Peiper’s argumentation shows a very close relationship with the first
theoretical essay by Charles-Edouard Jeanneret (later Le Corbusier), published together with his
colleague Amédée Ozenfant in 1918 and entitled Après le cubisme2, the manifesto of French
purism. Le Corbusier (to whom the passage has to be ascribed) derives this situation from modern
Taylorism, nevertheless he does not understand it in a negative way:
Autrefois, chaque homme créant son œuvre de toutes pièces s’y attachait et l’aimait comme sa
créature; il aimait son travail. Aujourd'hui, il faut le reconnaître, le travail en série imposé par la
machine voile plus ou moins à l'ouvrier l’aboutissement de ses efforts. Pourtant, grâce au programme
rigoureux de l'usine moderne, les produits fabriqués sont d'une telle perfection qu'ils donnent aux
équipes ouvrières une fierté collective. L’ouvrier qui n’a exécuté qu’une pièce détachée saisit alors
l’intérêt de son labeur; les machines couvrant le sol des usines lui font percevoir la puissance, la clarté
et le rendent solidaire d'une œuvre de perfection à laquelle son simple esprit n'aurait osé aspirer.
Cette fierté collective remplace l'antique esprit de l'artisan en l'élevant à des idées plus générales.
Cette transformation nous paraît un progrès ; elle est l'un des facteurs importants de la vie moderne3.
40
The closeness of argumentation is not a coincidence. Peiper was familiar with L’Esprit
Nouveau, he published an issue in «Zwrotnica» about Jeanneret and Ozenfant4, although the
role and inspiration of French purism in his early reflection still has to be examined5. In Peiper’s
opinion, the reasons for this negative approach to machines are similar to those which prevent
modern men from seeing the beauty of the modern city6. Peiper writes expressly of a conflict with
inherited ideas.
The machine was a new thing and produced new things. It developed by rules which were immanent
to its essence, it constantly changed the surrounding world, but the human psyche changed more
2
Ch.-E. Jeanneret Gris, A. Ozefant, Après le cubisme, édition des commentaires, Paris 1918.
Idem, Après le Cubisme, Paris, Altamira, 1999, pp. 42-43.
4
T. Peiper, Ozenfant i Jeanneret, in «Zwrotnica», lipiec 1922, pp. 39-43, reprinted in: Idem, O wszystkim i jeszcze o czyms
artykuły, eseje, wywiady (1918-1939), Wydawnictwo Literackie, Kraków 1974, p. 93.
5
About the relationships between French and Polish avant-gardes see: M. Delaperrière, La poésie polonaise face à l’avantgarde française: fascinations et réticences, in «Revue de littérature comparée», 307, 2003, pp. 355-368.
6
See : E. Ranocchi, Tadeusz Peiper i idea miasta jako dzieło sztuki, on print.
3
The Polish Cyborg
slowly, so it followed the machine with the steps of an old paralytic7.
The second reason for this refusal was the social connotation of the machine which was
supposed to be one of the means for exploiting the proletarian class.
This negative approach was not to last forever. Several factors concurred in changing man’s approach
to the modern tool. The most relevant among them is the emergence of a new – so to speak –
psychical situation. Machines annoyed man for as long as their impact on human life was limited.
They were no longer considered a nuisance, when they began to transform the whole of human life.
For as long as they ruled only partially, they were treated like tolerated intruders; when they took
over, they became objects of worship, like monarchs8.
That “new psychical situation”, as it is called, was a quite obvious and popular topic,
especially in Italian futurist theoretical literature, namely, that of the close relationship between
the unprecedented development of technology and industry and culture (ethics, aesthetics,
vision of the world). One can find similar statements by Filippo Tommaso Marinetti, Umberto
Boccioni or Ardengo Soffici dealing with the consequences which the acceleration of means of
transport and the development of what we call the media today have in our perception of the
world, what Italian futurists called “sensibility”9. Peiper even enumerated them, like Marinetti
did in one of his seminal manifestos of 191310: “the railway, the tram, the autobus, the telegraph,
the telephone, electric light etc.”11. Only when its benefits started to spread all over the world, did
7
“Maszyna była rzeczą nową i tworzyła rzeczy nowe. Rozwijała się na podstawie praw immanentnych swojej istocie,
zmieniała nieustannie świat otaczający, a psychika ludzka, zmieniająca się powoli, podążała za nią krokiem paralitycznego
starca”. T. Peiper, Miasto, Masa, Maszyna, in: Idem, Pisma wybrane, ed. by S. Jaworski, Ossolineum 1979, p. 29
8
Ten negatywny stosunek do maszyny nie mógł trwać wiecznie. Wiele okoliczności wpłynęło na zmianę stosunku człowieka
do nowoczesnego narzędzia. Najważniejszą z nich wydaje mi się wyłonienie się nowej sytuacji – że tak powiem, psychicznej.
Maszyna raziła człowieka, jak długo wpływami swoimi obejmowała tylko część życia ludzkiego; przestała
go razić, kiedy całkowicie przekształciła życie ludzkie. Jak długo panowała tylko częściowo, była tolerowanym
intruzem; kiedy zapanowała całkowicie, stała się adorowanym suwerenem”. Ivi, p. 30 [bold of the author].
9
F. T. Marinetti, Distruzione della sintassi Immaginazione senza fili Parole in libertà, in: Idem, Teoria e invenzione futurista,
a cura di L. De Maria, Mondadori, Milano 2005, pp. 65-66.; U. Boccioni, Pittura e scultura futuriste, a cura di Z. Birolli,
Abscondita, Milano 2006, pp. 19-25; A. Soffici, Primi principi di un’estetica futurista, in: M. Drudi Gambillo, T. Fiori,
Archivi del futurismo, intr. G.C. Argan, vol. I, De Luca editore, Roma 1958, p. 582. About the concept of “sensibility” see: S.
Milan, The ‘Futurist Sensibility’: An Anti-philosophy for the Age of Technology, in: Futurism and the Technological Imagination, ed. by
Günter Berghaus, Rodopi, Amsterdam 2011, pp. 63-76.
10
“Il Futurismo si fonda sul completo rinnovamento della sensibilità umana avvenuto per effetto delle grandi scoperte
scientifiche. Coloro che usano oggi del telegrafo, del telefono e del grammofono, del treno, della bicicletta, della motocicletta,
dell’automobile, del transatlantico, del dirigibile, dell’aeroplano, del cinematografo, del grande quotidiano (sintesi di una
giornata del mondo) non pensano che queste diverse forme di comunicazione, di trasporto e d’informazione esercitano sulla
loro psiche una decisiva influenza”. [Futurism is based on the complete renewal of human sensibility brought about by the
great discoveries made by science. Anyone who today uses the telegraph, the telephone, and the gramophone, the train, the
bicycle, the motorcycle, the automobile, the ocean liner, the airship, the airplane, the film theater, the great daily newspaper
(which synthesizes the daily events of the whole world), fails to recognize that these different forms of communication, of
transport and information, have a far-reaching effect on their psyche], F. T. Marinetti, Distruzione della sintassi, cit., p. 30.
[English Translation: Destruction of Syntax – Untrammeled Imagination – Words in Freedom, in: Idem, Critical Writings, ed. by G.
Berghaus, Farrar, Straus and Giroux, New York 2006, p. 120.]
11
“[…] kolej żelazna, tramwaj elektryczny, autobus, telegraf, telefon, światło elektryczne etc.”. T. Peiper, Miasto, Masa,
Maszyna, Ivi, p. 30-31.
41
Emiliano Ranocchi
the machine begin to be perceived as a blessing. If in the past the mediator between tool and man
was production, now the mediator between machine and man is going to be consumption. Then
the machine was introduced into the domain of art. Peiper describes two different approaches
to the machine: the futurist and the purist one. A year before «Zwrotnica»’s October 1923
edition, to which we will come back below, entirely dedicated to Futurism, Peiper characterizes
here the futurist approach to the machine already as fetishist. Just as in the later essay about Italian
Futurism, published in the aforementioned October issue of 1923, he would write:
For Marinetti the motor is a deity. It is a sort of Egyptian Apis, a sort of divine beast independent
from man, squandering barrels of graces, hence captivating idolatrous adoration.
This attitude is false. The machine is the continuation of man. It is the slave of man. We control it
as we control our hand or the knife we hold in it. We have no reason to cense it with the scent of
sacred incense. We ask only one question: what does the machine give to man for his life and art
and what can man still get from the machine for his life and art. For this reason, Marinetti’s shift
from the adoration of the motor to the adoration of matter inevitably seems shallow to us. What is
interesting for us in the motor is not matter, but man – powerful man who invented it and happy
man who enjoys it12.
42
The second approach is that of the purist movement of Jeanneret and Ozenfant. The purists,
according to Peiper, see in the machine “a product of perfect beauty which art ought to take as
the aim of its efforts”13. We recognize here the echo of an idea which appeared earlier in two of
Jasieński’s futurist manifestos. In the Manifesto to the Polish Nation: a Manifesto Concerning the
Immediate Futurization of Life (Cracow 1921) Jasieński had written:
Technology is as much an art as are painting, sculpture or architecture.
A good machine is the model for and the culmination of a work of art by virtue of the perfect
combination of economy, expediency and dynamics. The telegraphic apparatus of Morse is a
1000 times more of a masterpiece than Byron’s Don Juan14.
The ectypal topic of the machine which is better than …. (clearly borrowed from Marinetti’s
12
“Dla Marinettiego motor jest bóstwem. Jest jakiś egipski Apis, jakaś boska bestia, niezależna od człowieka, szafująca
beczkami łask i dlatego właśnie zniewalająca do bałwochwalczej adoracji. Stanowisko fałszywe. Maszyna jest dalszym ciągiem
człowieka. Jest sługą człowieka. Panujemy nad nią, jak nad naszym ramieniem lub nad nożem, który trzymamy w dłoni. Nie
mamy żadnego powodu chuchać w nią wonią świątynnych kadzideł. Pytamy jedynie: co maszyna daje człowiekowi dla życia
i sztuki i co człowiek może z niej jeszcze dla życia i sztuki wydobyć. I dlatego także powierzchownym musi nam się wydać
przejście Marinettiego od adoracji motoru do adoracji materii. W motorze interesują nas nie materia, lecz człowiek. Potężny
człowiek, który go wymyślił i szczęśliwy człowiek, który z niego korzysta”. T. Peiper, Futuryzm, in: Idem, cit., pp. 109-110.
(Translation mine).
13
T. Peiper, Miasto, Masa, Maszyna, in: Idem, op. cit., p. 31.
14
“Tehńika jest tak samo sztuką jak malarstwo, żeźba i arhitektura. Dobra maszyna jest wzorem
i szczytem dźeła sztuki pszez doskonałe połączeńe ekonomicznośći, celowośći i dynamiki. Aparat
telegraficzny Morsego jest 1000 razy większym arcydźełem sztuki niż Don Juan Byrona”. B. Jasieński,
Do Narodu Polskiego. Mańifest w sprawie natyhmiastowej futuryzacji żyća, in: Antologia polskiego futuryzmu i Nowej Sztuki, red.
Z. Jarosiński, H. Zaworska, Ossolineum, Wrocław-Warszawa-Krakow-Gdańsk 1978, p. 13 (bold and graphic layout of the
author). English translation by Klara Kemp Welch in: Between Worlds. A Sourcebook of Central European Avant-gardes, 19101930, ed. by Timothy O. Benson and Éva Forgács, the MIT Press, Cambridge, Massachusetts and London, England 2002,
p. 189.
The Polish Cyborg
Foundation Manifesto of Futurism, the second term is any synecdoche of the past) ought not to
divert our attention from the substantially different role reserved here for the machine compared
to that of Italian Futurism. We may understand it better by quoting a fragment from another
manifesto of the same year:
We consider a work of art to be a fait accompli, concrete and physical. Its form is conditioned
by strictly internal need. As such, it answers for itself with the whole complex of the forces
creating it, thanks to which it is in this way and not another – i.e. under internal pressure, that its
individual parts are coordinated in relation to one another and to the whole. We call this mutual
relationship composition. We call an excellent composition, i.e. one which is economical and firm
– with a minimum of material to a maximum of dynamics achieved – a Futurist composition15.
It is true that in this second quote we have no direct reference to machines, but the idea
that, to be perfect, a work of art has to be based on the well-pondered balance of its parts, on their
mutual relation and on the relation to the whole, is directly modelled on the idea of the machine,
as it is presented in the former quote. It is also evident that, in Jasieński’s conception, the idea of
machine is closer to that of the purists (following Peiper’s description), who longed for a work of
art as a machine à émouver, than to that of the Italian futurists. So, the machine starts its career
as a regulative idea, as it does in the same years and later on in Le Corbusier’s work and in the
aesthetics of constructivism. To be good, a work of art, of architecture, a piece of urban space has
to function like a machine. We will find this regulative idea (among many others) in the urbanistic
conception of Szymon Syrkus16 (who was influenced by Le Corbusier and later involved with
CIAM) and (in the Soviet Union) of Nicolai A. Miljutin17.
Then, according to Peiper, both approaches are inadequate. In the futurist approach:
[…] the machine is introduced into the world of art like a divine being, independently of its artistic
values; in the second case it is introduced into art as a powerful master worthy of being imitated. In
the first case, it is the consumer of the machine, who is not yet an artist, who expresses himself. In
the second case it is the producer of the machine, who cannot be the artist, who is emphasized. In
both cases the aesthetical question of the machine has been posed inappropriately. If the machine
were merely a deity, it would still not deserve the attention of art. If it were supreme beauty,
15
“Dźeło sztuki uważamy za żecz dokonaną, konkretną I fizyczną. Kształt jego uwarunkowany jest śćiśle
wewnętszną potszebą. Jako takie odpowiada ono za śebie całym kompleksem sił go składającyh, zawdźęczając
kturym tak, a ńe inaczej – t. j. z wewnętsznym pszymusem skoordynowane są jego poszczegulne zęśći w
stosunku do śebie i do całośći. Ten wzajemny stosunek nazywamy kompozycją. Kompozycję doskonałą, t. j.
ekonomiczną i żelazną – minimum materjału pszy maximum ośągńętej dynamiki – nazywamy kompozycją
futurystyczną”. Ivi, pp. 18-19 (bold of the author). English translation by K. Kemp Welch in: Between Worlds, cit., pp. 191192. Recently, an interesting interpretation of this passage has been proposed, aiming at emphasizing the connection in
Jasieński’s text between the aesthetic of economy of a work of art and the necessity of economy of time in today’s civilization.
See: M. Kłosiński, Ekonomia i polityka w polskiej poezji lat dwudziestych, in: Papież awangardy. Tadeusz Peiper w Hiszpanii, Polsce
i Europie, red. P. Rypson, Muzeum Narodowe w Warszawie, Warszawa 2015, pp. 396-419.
16
In 1926 the Polish architect wrote: “Dzięki standaryzacji i centralizacji wielkiego przemysłu możemy mieć: Mebelmaszynę / Mieszkanie-maszynę / Miasto-maszynę”. (Thanks to the standardization and centralization of heavy industry
we can have furniture-machines, / flat-machines / city-machines, translation mine). Sz. Syrkus, Preliminarz architektury,
«Praesens» 1, 1926, p. 8. See further in the present text.
17
Miljutin in his fundamental theoretical work Sotsgorod indeed compares the soviet city to a factory, not to a machine,
but it is just another variant of the same idea.
43
Emiliano Ranocchi
it would not need art. […]
Neither a deity, nor a master. It’s a slave! It ought to become the slave of art. It ought to
serve the aims emerging from inside art itself, from inside its essence. It is not a question of
worshipping or imitating the machine, but of exploitating it18.
44
Peiper understands this exploitation in a very concrete way. Up until now – he writes – only
the world of the tenth muse (cinema) was based completely on the machine. One can imagine,
how the use of the machine in other fields of art could change and renovate it: sculpture, theatre,
music, even poetry could be regenerated by the possibilities given by it. In his argumentation
Peiper evokes Majakovskij’s subjugating attitude toward the machine that Jasieński would quote
a year later in his essay, but he transposes it from politics into the domain of art by a shift which
is highly characteristic of his socialist orientation. Peiper, unlike Jasieński, the leader of Polish
futurists, believes not in revolution, but in reform. He is the heir of an alternative tradition of
Polish political thought, in Polish historiography known as “work at the grass roots”, which
has its ideal beginning in the Enlightenment and then an important continuation in the age of
positivism. Peiper believed that art could exert a positive influence on the evolution of society. His
utopia was an aesthetic one, opposed to that of the futurists which increasingly drifted to social
revolution.
Unlike Italian Futurism, Polish Futurism lasted only a few years; historiographers are not
unanimous in establishing its extremes, but generally they assume the year 1919 as the beginning
and 1923 as the end. That year, in October, as we already mentioned, «Zwrotnica» came out
with an entire issue devoted to a critical review of Futurism. Marinetti himself wrote a short
letter in French to the editors of «Zwrotnica», published together with the other texts. Besides
Peiper’s essay about Italian Futurism, there was an extensive essay by Bruno Jasieński, leader of
the Polish futurists; it was considered the funeral speech of Polish Futurism, as the author himself
declared that he was no longer a futurist. However, what is interesting for us here is not a matter
of the history of literature, but the fact that even in this text, which was supposed to be the final
pronouncement on the position of Polish Futurism in relation to its predecessors, the theme of the
machine was given a central place. It is the approach to the machine which makes the difference
between Polish Futurism and its predecessors.
Jasieński opened with the following statement:
There is no doubt that the huge and rapid growth of forms of technology and industry has laid
the foundations and forms the backbone of our society in this particular moment in time. It
has generated new ethics, new aesthetics and a new reality. The introduction of machines as
indispensable, complementary elements of our lives necessarily involved radically reshaping our
psyche, creating our own equivalents in the same way as introducing a foreign body into a living
18 “W pierwszym wypadku maszynę wprowadza się w świat sztuki jako istotę boską, niezależnie od jej wartości artystycznych;
w drugim wypadku wprowadza się ją w sztukę jako mistrza zniewalającego do naśladowania. Wpierwszym wypadku wyraża
się konsument maszyny, który jeszcze nie jest artystą; w drugim wypadku wskazuje się na producenta maszyny, którym nie
może być artysta. W obu wypadkach estetyczne zagadnienie maszyny postawiono niewłaściwie. Gdyby maszyna była tylko
bóstwem, nie zasługiwałaby jeszcze na względy sztuki; gdyby była najdoskonalszym pięknem, nie potrzeba byłoby sztuki. […]
Ani bóstwo, ani mistrz. Sługa! Maszyna powinna stać się sługą sztuki. Powinna służyć celom, które wyłaniają się z wnętrza
samej sztuki, z jej własnej istoty. Nie o uwielbienie lub naśladowanie maszyny chodzi, lecz o jej wyzyskanie”. T. Peiper, Miasto,
Masa, Maszyna, cit., pp. 31-32 (translation mine).
The Polish Cyborg
organism forces it to secrete special antibodies which turn antigens into bodies capable of being
assimilated or excreted. If a human or a social organism does not produce enough of this energy,
what ensues is intoxication, infection by the foreign body.
To produce those psychical antibodies, in other terms, to create forms which could subordinate
machines to man – that is the very task of contemporary art19.
Here we are talking once again about the change in sensibility due to the unprecedented
growth of technical civilization which we already found in Peiper’s essay. Jasieński does not mention
transport or the media, but in general, technology and industry, anyway, what is important is that
the advent of the machine has created “new ethics, new aesthetics and a new reality”, and has
changed the human psyche (Peiper, we remember, wrote of “a new psychical situation”). Even
more interesting is 1. that modernity is compared to a virus (elsewhere he refers to “the bacillus
of modernity”); 2. that this virus is the machine, an artificial body which can trigger a process of
rejection in the human body, lest the latter is able to produce “antibodies”. It is up to art to enable
it to secrete those antibodies.
The whole conceptual apparatus of cyborg literature is already in place here (although
Jasieński, of course, does not have this word at his disposal yet): the hybridization of man and
machine, the fusion of an organic body and an artificial one, the potential inherent in crossing
the boundaries between one and the other, which inevitably carries the risk of rejection. The birth
of Futurism, writes Jasieński, was the realization that the task of art was to create those psychical
antibodies, i.e. new forms which could subordinate machines to human beings. This is followed by
the most significant passage from the point of view of argumentation, wherein Jasieński outlines
three different reactions to the introduction of machines. We can easily recognize Peiper’s structure
here, but with a different distribution of content and arguments. The order is significant: What
we read is a narration, a sort of Hegelian triad in which Polish Futurism is, of course, assigned the
place of synthesis. Again it is the relationship to the machine which makes the difference.
First comes Italian Futurism, whose followers glorified the machine. By means of a brilliant
anthropological analysis, Jasieński quickly dismisses this idea: worship is the reaction of primitive
man to the unknown element20. At the next stage adoration changes into rebellion. The second
stage is that of Russian Futurism. Its reaction – we read – was ambivalent from the beginning.
Jasieński quotes two passages from two plays by Majakovskij: Vladimir Majakovskij. A tragedy
and Mistery-Bouffe respectively. Between love and hatred of things, represented by the first
quotation, the definitive answer of Russian Futurism is to be found in the second quotation from
Mistery-Bouffe.
19
“Gigantyczny i szybki rozrost form techniki i industrii jest niewątpliwie najbardziej istotną podstawą i kręgosłupem
momentu współczesnego. Wytworzył on nową etykę, nową estetykę i nową realność. Wprowadzenie maszyny w życie
człowieka jako elementu nieodzownego, dopełniającego, musiało pociągnąć za sobą przebudowanie gruntowne jego
psychiki, wytworzenie własnych równoważników podobnie jak wprowadzenie do organizmu żywego – obcego ciała
zmusza organizm do wydzielania specjalnych przeciwciał, które zmieniają dopiero antygeny w ciała zdolne do przyswajania
lub możliwe do wydalenia. Jeżeli organizm ludzki czy społeczny energii tej w dostatecznej ilości nie wytworzy, następuje
intoksykacja”. B. Jasieński, Futuryzm polski (bilans), in: Antologia polskiego futuryzmu, cit., pp. 50-51.
20
1923 is also the year the Manifesto of the Mechanic Art was published (L’arte meccanica – Manifesto futurista), signed by
Prampolini, Pannaggi and Paladini. The distance between Polish and Italian futurism has never been so huge.
45
Emiliano Ranocchi
In present-day awareness this answer, borrowed from socialism, assigns machines to the place which
in capitalist society is reserved for workers21 […] Russian Futurism saw the machine as a product
and a servant of man. Its relation to machines was reduced to the merely economic relation of the
worker to his employer22.
This apparently simple statement hides a number of questions. First, it presupposes the
Marxist interpretation of Hegel’s master – slave dialectics, but it goes a step further: the machine
is supposed to be the means to escape from this dialectic. In a classless society, machines could
help prevent workers from being alienated. At the same time (I anticipate here a motif that I shall
develop later), by assigning the place of workers to the machine we remain within a model which
is not neutral. Machines start to look like slaves and enter man’s guilty conscience. They will come
back as robots, tailor’s dummies or theriomorphic machines in a number of dystopian fictions,
one of which shall be the object of the next section.
But let’s get back to Jasieński. So what was the answer of Polish Futurism?
The machine is not a product of man – it is his superstructure, his new organ, indispensable
to him at the present phase of development. The relationship of man to machine is the
relationship of an organism to its new organ. It is the slave of man only insofar as it is his own
hands, which obey the instructions of the same brain headquarters. To divest him of both means to
disable him23.
46
Once again we recognize the Marxist philosophy jargon (superstructure, Überbau,
nadbudowa) which is not surprising at this stage, as with this essay Jasieński concludes his
experience of Futurism. A few years later he moved to the Soviet Union, where his creative output
was required to comply with the canons of socialist realism. During one of Stalin’s purges, he was
accused of being a Polish spy24 and was interned in a gulag, where he eventually died. Fetishizing
machines (here Jasieński does agree with Peiper) is not a way for art to introduce the machine into
collective consciousness, neither is it “introducing the real machine into art”. The latter had been
Peiper’s proposal. The recipe of Polish Futurism is different: art should create “new organisms of
its own according to the rules of the machine: economy, functionality and dynamics” – a position
which coherently reassumes similar pronouncements we already quoted above and situates
Jasieński again in close relation to the “purist” approach25.
At this point Jasieński draws a surprising parallel between Polish Futurism and the Renaissance:
21
“Odpowiedź ta, zaczerpnięta od socjalizmu, wyznacza maszynie w świadomości współzesnej miejsce, jaki robotnikowi
wyznacza w swym obrębie społeczeństwo kapitalistyczne”. B. Jasieński, Futuryzm polski, cit., p. 53.
22
“Futuryzm rosyjski ujmował maszynę jako produkt i sługę człowieka. Stosunek jej do człowieka sprowadzał do czysto
ekonomicznego stosunku robotnika do swego pracodawcy”. Ivi, p. 60.
23
“Maszyna nie jest produktem człowieka – jest jego nadbudową, jego nowym organem, niezbędnym mu na obecnym
szczeblu rozwoju. Stosunek człowieka do maszyny jest stosunkiem organizmu do swego nowego organu. Jest ona
niewolnikiem człowieka o tyle tylko, o ile niewolnikiem jego jest jego własna ręka, podlegająca rozkazom jednej i tej samej
centrali mózgowej. Pozbawienie tak jednej, jak i drugiej przyprawiłoby człowieka współczesnego o kalectwo”. Ibidem.
24
For the most up-to-date biography of Jasieński see: K. Jaworski, Dandys. Słowo o Brunonie Jasieńskim, ISKRY, Warszawa
2009.
25
That Jasieński’s view was perceived as the position of the whole group is testified by the answer Stern gave to Irzykowski’s
accusation of disengagement. See: A. Stern, Maszyna jako ideał sztuki dzisiejszej a przesądy estetyczne, in «Głos Polski», 196,
1924, p. 4.
The Polish Cyborg
The Renaissance first taught people to see the beauty of their own body. It elevated the
human body from the status of “matter”, the case of the immaterial “spirit”, to that of an
equal organ.
[…] Polish Futurism taught contemporary man to see the beauty of his own augmented body in the
objective forms of civilization26.
In contemporary idiom we could summarize Jasieński’s reflections by saying that the future
of man is the cyborg. Of course, when I use this word I refer not only to the first definition of
Clynes and Kline27, but also to the philosophical and anthropological conception of Donna
Haraway28. At the basis of Haraway’s conception of cyborg is the breakdown of boundaries
between human and animal, animal-human and machine, and the physical and non-physical. The
latter is the breakdown which we identify with cybernetics, the one we most commonly focus
on, but the philosophical potential of this idea has also turned out to be useful when applied to
the past, as is evident in, for example, Allison Muri’s essay about the Enlightenment cyborg29. We
must leave open the question to what degree Jasieński could have been aware that the idea of the
multiplied man (today we would say “augmented”) was already present in Marinetti’s theoretical
œuvre, chiefly in his text L’uomo moltiplicato e il regno della macchina [The multiplied man and
the reign of the machine, 1915], from which Marinetti drew extensively in the letter sent to the
editors of «Zwrotnica». Some sentences of the letter are almost literal quotes from that manifesto.
It is, however, also true that without some prior knowledge of that text, the real content of the
letter may remain unclear. For the leader of Italian Futurism, the mechanization of individual life
(hence, the mechanization of men and the humanization of machines) and the idea of the cyborg
were distinct, but not contradictory aspects of the same vision. The idea of the multiplied man
was a direct consequence of the conviction that the human race was doomed to extinction and to
be substituted by a new race, namely a fusion of man and machine30. So, on closer examination,
the difference between Marinetti and Jasieński is not in the idea of the cyborg, but in its ethical
implications. Marinetti’s multiplied man, even if sometimes opposed to Nietzsche’s Übermensch,
still had many features in common with his predecessor, especially in a vision of ethics markedly
contrary to the Christian and Western humanist tradition. For Jasieński the idea of the cyborg
is not contrary to humanism, indeed, it is a new stage of the aesthetic education of man after
the Renaissance. It has to be understood as the Polish recipe for the sustainable development of
contemporary civilization, equally distant both from the Italian fetishism of machines and from
Russian utilitarianism (still, at the time of writing, Jasieński already considered that recipe to be
26
“Renesans pierwszy nauczył człowieka widzieć piękno swego własnego ciała. Podniósł ciało ludzkie z roli
‘materii’, futerału dla niematerialnego ‘ducha’, do roli współrzędnego organu. […] Futuryzm polski nauczył człowieka
współczesnego widzieć w przedmiotowych formach cywilizacji piękno swego własnego wzbogaconego ciała”. B. Jasieński,
Futuryzm polski, cit., p. 61.
27
M. E. Clynes And N. S. Kline, Cyborgs and Space, in «Astronautics», September 1960, pp. 26-27, 74-75. Reprinted in:
The Cyborg Handbook, red. Ch. Hables Gray, Routledge, New York 1995, pp. 29-34.
28
D.J. Haraway, A Cyborg Manifesto: Science, Technology, and Socialist-Feminism in the Late Twentieth Century, in: Eadem,
Simians, Cyborgs and Women: The Reinvention of Nature, Routledge, New York 1991.
29
A. Muri, The Enlightenment Cyborg. A History of Communications and Control in the Human Machine, 1660-1830, University
of Toronto Press, Toronto Buffalo London 2007.
30
About the philosophical implication of Marinetti’s conception of the multiplied man in the context of Neo-Lamarckism
and occultistic suggestions see: B. Hjartarson, Visionen des Neuen. Eine diskurshistorische Analyse des frühen avantgardistischen
Manifests, Winter Verlag, Heidelberg 2013, pp. 239-242; 328-341.
47
Emiliano Ranocchi
out-of-date).
Perhaps an echo of Jasieński’s words is still to be found three years later in the seminal
essay by Szymon Syrkus which opens the first issue of «Praesens», the review of the Polish
constructivists, published in 1926. We find here condensed the topics of the new civilization
creating a new sensibility, technology as a means of transcending human boundaries and the
cyborg as augmented man:
In the materialistic inventions, art and philosophy acquire enormous power letting them penetrate
the secrets of nature. We can define modern human creativity as the most economic instrument of
work in the realization of the audacious and modernist aims of nature. With its mysterious generosity,
already at the beginning of human work, the fullness of life, far from narrow utilitarianism, comes
close to the boundaries exceeding human capability, stimulates and extends it. […]
A peculiar rhythm is created, unknown until now, a disinterested composition and the pathos of
calculus, glaring evidence of LIFE. The present man, thanks to the new inventions, has been made
similar to a serial standardized apparatus: to help his eyes he has glasses, binoculars, microscopes,
telescopes; to help his ears – radio and telephone; to help his hands – cranes and buckets; to help
his arms – the propellers of an aircraft; to help his legs – cars. Such a man must live differently and
must live in different interiors than the man of the past centuries, than the man of the two decades
before the war31.
The Polish Cyborg – a Dystopian Approach
At the very beginning of his essay, Polish Futurism. A Balance, Jasieński writes that:
48
As a matter of fact, I have already written a history of Polish futurism. The public and the critics have
overlooked it because it is labelled as a “novel” and bears the odd title of “Izolda Morgan’s legs”32.
This is a very mysterious statement, it is not clear how to understand it, but if this novel
is to be read as the real history of Polish Futurism, we are struck while reading by the fact that it
contains none of the utopian vision of the future that we would legitimately expect, if only because
of the name of the movement. Instead, we find a gloomy and obsessive vision of a world intoxicated
by man-hating machines, afraid that man will take the initiative and destroy them. This is indeed
what the protagonist does in one of the final scenes of the novella, a sort of polemical answer to
Marinetti’s love of machines. The process of assimilating machines and producing enough energy
31
“Sztuka i filozofja zyskują w materjalistycznych wynalazkach ogromną potęgę, która pozwala im wydrzeć tajemnice
przyrody. Dzisiejszą twórczość ludzką określić możemy jako najekonomiczniejszy środek pracy w realizowaniu śmiałych i
modernistycznych zamierzeń przyrody A przy jej tajemniczej szczodrobliwości już u samych początków pracy człowieka
pełnia życia, daleka od wąskiego utylitaryzmu, dochodzi do granic, przerastających ludzką możliwość ujęcia, pobudza je więc
i rozszerza. [...] Stwarza się swoisty, a dotąd nieznany rytm, kompozycja bezinteresowna i patos rachunku — bijące w oczy
dowody ŻYCIA. Człowiek dzisiejszy, który dzięki nowym wynalazkom upodobniony jest do seryjnego standaryzowanego
aparatu, który oczom ku pomocy ma okulary, lornety, mikroskopy, teleskopy; uszom — radio i telefon; rękom — dźwigary
i żórawie; ramionom — śmigi aeroplanu; nogom — samochody — taki człowiek musi żyć inaczej i musi mieszkać w innych
pomieszczeniach, niż człowiek wieków minionych, niż człowiek przedwojennego dwudzíestolecia”. Sz. Syrkus, op. cit, pp.
13-14.
32
“Właściwie historia futuryzmu została już przeze mnie napisana. Publiczność i krytyka przeoczyły ją, ponieważ nosi na
sobie etykietkę ‘powieść’ i niesamowity tytuł Nogi Izoldy Morgan”. B. Jasieński, Futuryzm polski, cit., p. 49 (translation mine).
The Polish Cyborg
to avoid “intoxication” has failed.
As I already wrote, far from solving the problem of the machine’s position towards
man, the master – slave dialectic applied to machines arouses atavistic myths and figures of the
Western tradition such as that of the Golem or the sorcerer’s apprentice. Traces of animistic fear
of the inanimate and a guilty conscience transferred from the slave to the machine generate the
modern motif of the rebellion of machines. And because behind the machines there was always
the memory of slaves, it was possible to give this motif an additional political subtext. The first
modernist literary work and perhaps still the most popular one, which put this modern myth on
the stage, is of course Karel Čapek’s R.U.R. (1920). In Polish modernist literature, however, there
is another work for which we cannot exclude Čapek’s inspiration, a completely forgotten novel
of the completely forgotten writer Jerzy Sosnkowski. The novel is entitled A Car, You and Me.
Love of Machines and was published in 1925. The futurist association suggested by the subtitle is,
of course, intentional. The novel has to be read as a sort of narrative pamphlet against a Futurism
which is not so much the Italian or the Polish one, but a sort of pars pro toto of modernity. The
author reproaches Futurism for having sacrificed feelings to reason and rationality. It is not enough
that the reproach does not fit Polish Futurism, but it does not even fit the Italian one. He seems
not to have understood the amount of irrationality which distinguished both Italian and Polish
Futurism. It is not the place here to speculate about what he could know about Italian Futurism
based on the few translations available in Polish in the Twenties33. Neither it is so important to
establish to what degree he understood it. Futurism in Sosnkowski is a sort of metonymy for
modernity, defined as rational, cynical and pragmatic. This unusual coming-of-age and road trip
novel is set in Poland, although the name of the country is not mentioned, the main protagonist,
Pol, a young engineer, travels in his car with a young actress Iza, whom he has invited to join him for
the pure pleasure of her company. Thus, the car becomes an opportunity and a pretext for starting
a relationship; it is also an icon, the most famous icon of modernity, and therefore a clear reference
to the very founding act of the futurist mythology marked by Marinetti’s manifesto. Pol, being an
architect, as Sosnkowski himself was, is the personification of rationality and intellect, while Iza
is that of the heart and emotions. They visit a town in which there are electrification installations
and there is a lot of equipment lying about. In a sort of early post-industrial landscape, which we
may see as a vision of the end of modernity, they make a tour around the old inoperative power
station which is situated on a cliff and is filled with machines withdrawn from circulation. The
power station itself is a figure of modernity (we cannot help mentioning Antonio di Sant’Elia’s
famous study for a power station of 1914 from his cycle La città nuova)34. Pol goes out onto a
dilapidated balcony which then collapses, rendering him unconscious. The local fishermen lay
him down on a blanket in a room with a disturbing anthropomorphic dynamo-machine. The
most interesting passage of the novel is chapter 8, wherein the protagonist, lying in a fever, has a
nightmare: the machines come alive and take over the world. There are already more machines
than men – humankind is doomed to extinction. Of course, the new race that shall inherit the
earth is not the superior, mechanical type of man, whose advent Marinetti was preconizing, but
33
For the utmost up-to-date reference about the reception of Italian futurism in Poland see: P. Strożek, Marinetti i
futuryzm w Polsce. Obecność, kontakty, wydarzenia, Instytut Sztuki Polskiej Akademii Nauk, Warszawa 2012.
34
Sosnkowski, himself an architect and engineer, was most probably acquainted with Sant’Elia’s work, as testified by his
short story Mad Cathedral, wherein we find traces of Sant’Elia’s Manifesto of Architecture. See: E. Ranocchi, Szalona katedra,
in «Autoportret», 4 [47], 2014, pp. 62-67.
49
Emiliano Ranocchi
a terrifying species of gigantic theriomorphous machines. So far as I know, this is perhaps one of
the first modernist visions in which the boundaries between animal and machine are to break
down. The black character of the novel, Lebelt, who personifies the hypertrophy of reason, takes
the word in the dream:
Simply, we were putting our mind into the machine. The machine, the machine! It was everyone’s
slogan and faith! And even those who subconsciously kept their souls – the artists – even those
were hypnotized by the machine! O, Marinetti, Picasso, Matisse – they have greatly contributed to
our disaster. We created the machines then, we, the scholars and engineers, put reason into them,
and the artists the soul. Until finally – do you understand it, Mr. Pol? They did it! They handed
their reason over, they breathed their reason, will and soul into cold machines. On the other hand,
they themselves started resembling machines! They, if I may say so, have interchanged. And this is
how the machines became alive! The machines started to have a will, one day they started to rule.
They became organisms endowed with the same qualities as human beings. Only their bones are
so far made of iron and steel, and their blood – of water, oil, petrol. In the fever of creation we
didn’t notice that the machines we were creating started resembling animals. Please, try to recall
the appearance of the most recent machines. Weren’t they similar to huge insects, or didn’t they
resemble the skeletons of some dead monsters? Wasn’t an airplane like a bird, wasn’t a submarine
like a fish, wasn’t a paddle steamer just like a big duck? And the train was similar to a legendary
dragon, a radio station – to a horrible beetle, a telegraphic network – to a spider’s web etc. Yes, the
machines became alive and declared war on us – a war in which we cannot participate because we
cannot fight them with our bare hands. To rely on their mercy – utopia! They have no feelings! They
know no emotions. They are “mechanical animals” – intelligent and cunning35.
50
The opposition between man and machine in Sosnkowski’s novel is decidedly more sharp
and static than in Čapek’s pièce, also because the machines in Pol’s dreams are described as huge
animals. Nevertheless, they retain certain key features in common with them, such as sexual desire.
In his novel Sosnkowski, like Čapek, drew one of the first visions of an organized death
civilization, as if he had a foreboding of where the consequent realization of Marinetti’s postulates
could lead: the combination of the most perfect organization, being the fruit of highly developed
reason, with the lack of something which at the time was called feelings and today we would rather
call empathy. To this we should add the psychic constitution of the servant, being one of the chief
35
“Po prostu rozum swój wkładaliśmy w maszyny. Maszyna, maszyna! Oto, co było hasłem i wiarą wszystkich! I ci nawet,
co jeszcze ducha podświadomie w sobie utrzymali – artyści – i ci zostali zahypnotyzowani przez maszynę! Och, Marinetti,
Picasso, Matisse – przyczynili się oni niemało do naszego nieszczęścia. Tworzyliśmy więc maszyny, kładliśmy w nie rozum,
my, uczeni i inżynierowie, a artyści ducha. Aż wreszcie, pan to rozumie, panie Polu? Włożyli! Oddali, tchnęli rozum, wolę,
duszę w zimne maszyny. Na odwrót, sami upodobnili się do nich! Zaszła, że się tak wyrażę, zmiana miejsc. I oto maszyny
ożyły! Maszyny poczęły mieć wolę, poczęły rządzić się pewnego pięknego dnia same. Stały się organizmami, obdarzonemi
temi samemi właściwościami, co ludzie. Tylko kości ich dotąd są z żelaza i stali, a ich krew – to woda, oliwa, benzyna. Nie
widzieliśmy w gorączce tworzenia, że maszyny przez nas robione upodabniają się do zwierząt. Proszę sobie przypomnieć
wygląd ostatnich machin. Czy nie były podobne do ogromnych robaków, czy nie przypominały szkieletów jakichś zmarłych
potworów? Czy aeroplan to nie był ptak, czy łódź podwodna nie była rybą, czy okręt kołowy nie był wielką kaczką? A
pociąg był podobny do legendarnego smoka, stacja radio do potwornego żuka, sieci telegraficzne do sieci pająka i tak dalej.
Tak, maszyny ożyły, i wypowiedziały nam walkę, walkę, której przyjąć nie możemy, bo nie sposób walczyć z niemi gołemi
rękami. Liczyć na ich litość – utopia – przecież one nie mają uczucia! One uczucia nie znają. Są to “mechaniczne zwierzęta”
inteligentne i sprytne”. J. Sosnkowski, Auto, Ty i Ja (Miłość maszyn), Wydawnictwo Biblioteki Dzieł Wyborowych, Warszawa
1925, pp. 105-106.
The Polish Cyborg
features of the machine and the very reason behind its hatred of men, as the relationship between
machine and man reproduces the one between the slave and his master. It is no coincidence that
Čapek’s vision of a robotic civilization also had political implications, as it would have for Wiener
(R.U.R. was read as an allusion to a communist revolution: “there’s nothing more terrible than
giving everyone Heaven on Earth!”)36.
Sosnkowski also interprets the close relation between the degeneration of machines and the
degeneration of man as a consequence of futurist ideology. What Sosnkowski’s novel explicitly
refers to as futurist ideology is interpreted as a hypertrophy of reason released from sentiment
and emotions. Extreme functionalism was to lead humanity to a catastrophe. Perhaps the most
striking image of this mechanized world, reminiscent of early modern representations of a wellgoverned state as a mechanism, e.g. a clock37, is the description of the road full of machines:
The road was completely choked with wandering machines. There was formal congestion. The
incessant stream of monsters crawled in two directions without stopping for a moment. The middle
of the road was left empty to allow overtaking. Here you could see precisely the excellent, machinelike organization and an amazing precision of movement calculation. The colossi passed each other
with a millimeter’s distance between them and they never collided with one another despite the
high speed of some machines. On the sides you could see industrial machines crawling slowly and
smoothly, while cars, locomobiles, locomotives, motorcycles and tractors sped along in the middle
of the road. You could hear the monotonous drone of traffic – huge as the roaring waves of many
stormy seas, but it was regular and rhythmical – I would say – depicting phonetically the dynamics
of this mechanical river. The machines’ bodies had different shapes and all of them resembled the
antediluvian monsters of various races and species.
They all stuck to the road persistently, as if the route was prescribed through the intellect and the
law of reason. Even the airplanes, which whizzed through the air and acquired the shapes of massive
bats, followed the air route precisely. […] The spirit of the invincible organization and force was
hovering over the cloud. It was an avalanche which was impossible to resist, an avalanche roaring
like one thousand waterfalls, like millions of stones rolling down – and its voice weighed us down,
it depressed us, it pressed on the brain like a painful weight resonating in the head with the echo of
disturbing blows, hurting the eyes.
It is strange that this devilish movement gave an impression of emptiness. The moving mass gave off
the feeling of cold and the lack of life.
Methodicalness was rolling down the road. The life of nature possesses many kinds of movement
and uncoordinated, unexpected vibrations, but that place was oozing with routine, regularity, and
lifelessness. This combination of lifelessness and movement was truly disturbing.
Involuntarily, our imagination made us think of a galvanized corpse38.
This nightmare vision shows that, when transposed to machines, the idea of a powerful
self-regulating system becomes uneasy. In both cases (Čapek and Sosnkowski) the question is
36
“Nic není strašnějšího než dát lidem ráj na zemi!”. K. Čapek, R.U.R. Rossum’s Universal Robots, Artur, Praha 2008, p. 43
(English translation by David Wyllie, The University of Adelaide, 2016, available from: https://ebooks.adelaide.edu.au/c/
capek/karel/rur/index.html).
37
See: O. Mayr, Authority, Liberty & Automatic Machinery in Early Modern Europe, The John Hopkins University Press,
London & Baltimore 1986.
38
“Droga całkowicie zapchana była wędrującemi maszynami. Panował formalny tłok. Nieustanny wąż potworów pełzał
w dwu kierunkach, nie przerywając się ani na chwilę. Środek drogi zostawiony był do wyminięć. Widać tu było dokładnie
znakomitą, maszynową organizację i niesłychaną precyzyjność w obliczeniu ruchów. Kolosy mijały się o milimetr, o włos, nie
zawadzając o siebie nawzajem, mimo wielkiej szybkości, z którą posuwały się niektóre z nich. Po bokach równomiernie pełzły
51
Emiliano Ranocchi
whether such an intelligent system should be allowed to own itself (so to be potentially treated as
a moral subject). It is already the question about the boundaries between human and non-human,
even if yet not expressed in the later terms of cybernetics. In order to discredit what is already
perceived as a disturbing self-regulating system, machines are described as precise and methodical,
but also as not alive (hence the comparison with a galvanized corpse). What we are confronted
with is the image of a machine that Wiener would call “rigid”, the opposite of a good machine
which ought to be not only a computing machine, but also a control machine, a machine with
an automatic feedback control apparatus. The scene quoted could also depict a state of increasing
entropy, according to Wiener’s understanding of it, “a universe in which all distributions are
in their most probable state and in which universal homogeneity prevails”39. “The dominance
of machines presupposes a society in the last stages of increasing entropy, where probability is
negligible and where the statistical differences among individuals are nil”40. This quote from
Wiener’s Cybernetics fits Čapek’s robots well, represented as lacking in individuality: the first
generation robots all have the same features. Only when “suffering” (because “feeling”), do the
robots reveal a personality. Violence turns out to be a direct consequence of this lack of feeling.
In fact Sosnkowski too, like Čapek, seems to suggest another possibility: an intelligent
machine (in the novel represented by the main character’s car) which empathetically understands
and realizes what the man is thinking and feeling.
52
Pol was astonished that the car perfectly felt his intentions, it really understood him. He had the
impression as if a supernatural intellect were driving the machine, in a mysterious way establishing
contact with his thoughts, reading them, before he could express them in movements and executing
them more quickly and efficiently than if things went the usual way41.
Feelings, according to Wiener, are not “merely a useless epiphenomenon of nervous
actions”42, but can play a significant role in learning. A feeling machine is one which is capable
wolno maszyny przemysłowe, środkiem mknęły auta, lokomobile, lokomotywy, motocykle, traktory. Panował jednostajny
szum, potężny niby ryk fal wielu wzburzonych mórz, ale regularny, rytmiczny, – rzekłbym, – ilustrujący fonetycznie dynamikę
tej mechanicznej rzeki. Ciała maszyn miały przeróżne kształty, wszystkie zbliżone do poczwar przedpotopowych różnych
ras i rodzin. Trzymało się to wszystko uporczywie drogi, jako przepisanego rozumem i ustawą racji, szlaku. Nawet aeroplany
z poświstem przeszywające powietrze, otulone w formy olbrzymich nietoperzy, ściśle trzymały się powietrznej linii, idealnie
odpowiadającej biegowi trasy. […] Unosił się nad nią duch niezmożonej organizacji i siły. Była to lawina, której próżnem byłoby
chcieć stawić opór, lawina hucząca jak tysiąc wodospadów, jak miliony zsypywanych fur kamieni, – a głos ten przygniatał,
przygnębiał, kładł się na mózg jak bolesny ciężar, odzywając się w głowie echem uderzeń dokuczliwych, pod naporem których
bolały oczy. Rzecz dziwna, że szatański ruch – sprawiał wrażenie pustki. Oschłością jakąś wiało od ciągnących mas, nie było
w tem życia. Drogą toczyła się metodyczność. Życie przyrody posiada cały szereg ruchów i drgnień nieskoordynowanych,
niespodzianych, – stamtąd ziało szematem i regularnością, – ziało martwotą. To zespolenie martwoty z ruchem było nad wyraz
przykre. Mimo woli nasuwało się wyobraźni pojęcie zgalwanizowanego trupa”. J. Sosnkowski, op. cit., p. 121-123.
39
N.K. Hayles, How We Became Posthuman. Virtual Bodies in Cybernetics, Literature, and Informatics, University of Chicago
Press, Chicago 1999, p. 103.
40
N. Wiener, The Human Use of Human Beings. Cybernetics and Society, 2nd edn., Doubleday, Garden City, New York 1954,
p. 181.
41
“Ku zdziwieniu Pola auto jednak doskonale wyczuwało jego intencje, rozumiało go po prostu. Pol miał wrażenie, że jakiś
nadprzyrodzony rozum, kierujący machiną, nawiązywał tajemniczy kontakt z jego myślami, odczytywał, zanim człowiek
zdążył sprecyzować je w ruchach wykonawczych i spełniał prędzej i sprawniej, niż gdyby rzeczy szły zwykłym trybem”.
J. Sosnkowski, op. cit., p. 118.
42
N. Wiener, The Human Use, cit., p. 72.
The Polish Cyborg
of feedback, so which can learn. Pol’s car and Čapek’s second generation robots are, from this
perspective, cybernetic machines. The paradox lies in the fact that what was meant to be a solution
for the danger of machines taking over the human world is in fact the anticipation of the cyborg –
that is a machine so connected with man through a feedback relation that it makes the boundaries
between them permeable.
Both texts precede the age of cybernetic anxiety – that is, they still operate with a solid
vision of the liberal self, of what is supposed to be a human being and what a machine. Indeed,
from this very contraposition there originates the drama and the subject of both works – the
uncanny appearance of the machine is due to the fact that it merely resembles a human being,
while not being human, because of its lack of empathy. If we take a closer look at this problem,
however, we will discover that certain premises are already in place. In both works the opposition
between the machine and the human being is not a binary one, on the contrary it evolves into a
more nuanced vision, where beside bad, inflexible machines without feelings and feeling humans
there intervenes a third one: the good feeling / learning machine. This one is not represented
as uncanny anymore. So from the gruesome dystopian vision of mankind doomed to extinction
there emerges a utopia: it is again the vision of the cyborgisation of man. And this utopia, with all
its affirmativeness, is deeply entrenched in the time in which it arose – that of early modernism.
The Polish Man a Machine
As I already mentioned, the master-slave dialectic applied to machines could have a
political subtext in which the machine stood for the working class. This is especially evident in
Aleksej Tolstoj’s remake of Čapek’s R.U.R. and this is also the case of a late play by Jasieński,
entitled The Mannequins’ Ball (1931)43. To be precise, in the play the place of the machine is
taken by tailor’s dummies which are in addition a metaphor of the working class. The author of
the play is not the futurist Jasieński, but his last reincarnation, the communist Jasieński. With
this text we have shifted slightly further from the theme of the machine, as in a strict sense the
mannequin is not of course a machine, but only a simulacrum of man, even if not without some
mechanical elements. The motif of the mannequin was introduced into painting by Giorgio De
Chirico before the war already and then became distinctive of Italian metafisica from which
it spread all over Europe, especially in the surrealist milieu44. Its close relationship to the robot
(neither are generated in a natural way and have replaceable limbs) is particularly evident in the
figurative arts, where sometimes it is difficult to distinguish one from another. The mannequin
is just another visual incarnation of the artificial man. Jasieński’s play is a quite late token of the
popularity of this theme in Stalinist Russia. It is useful to recall it here not only because of its high
literary quality (this is not socialist realism yet) and of the motif of the rebellion of things against
man, but also because in this new incarnation of the comedy of errors, masterfully exploiting the
motif of the mix up of roles, we find the positions being reversed: the mannequins see themselves
as models and men as failed imitations:
43
See: P. Buoncristiano, Un cuore meccanico. Bambole e automi nella letteratura russa moderna, Carocci, Roma 2011, pp.
230-238.
44
About the prehistory of the motive and its (possible) filiation from Apollinaire see: W. Bohn, Apollinaire and De Chirico:
the Making of the Mannequins, in «Comparative Literature», 27/2, 1975, pp. 153-165.
53
Emiliano Ranocchi
I don’t believe there’s anything to be learned from humans. I’ve seen more than enough of all those
dandies who frequent our workshops. They’re all only worthless copies made in our image! I feel
like bursting out laughing when I look at those twisted monstrosities. […] They desperately want
the clothes that suit us to perfection to look equally good on them. And so they’re irritated when
everything that fits us like a glove puckers and wrinkles on them. These freaks force the apprentices
to slave away at night and use cotton padding for what they naturally lack, vainly attempting to
make their figures look like ours. I simply can’t understand why our clothes should be given to
them? No matter what you do, on them everything will always look ghastly45.
54
This introduces the final theme with which I would like to end my statement, that of the
man a machine, a model of representation of the human body dating back at least to the 18th
century46. To rethink the human body in terms of a machine represents the other side of the
research into creating artificial life. The relation between man and machine has always been a
biunique one: the human body has always constituted the model of a well-functioning machine,
while the machine has been a conceptual grid, a framework helping to understand (or imagine)
how the human body works, this – of course – up to the present day, when we see a real renaissance
of the man a machine idea with all the ethical, epistemological and philosophical problems this
idea entails.
It is precisely the uneasiness we feel when we think of our body in terms of a machine that
we find in one of the most popular poems by Tytus Czyżewski. Czyżewski was both a painter and
a poet, moving always at the border between literature and figurative arts.
It is precisely the uneasiness we feel when we think of our body in terms of a machine that
we find in one of the most popular poems by Tytus Czyżewski. Czyżewski was both a painter and a
poet, moving always at the border between literature and figurative arts47. A testimony to his skills
is also the poem Hymn to the Machine of my Body of 1920. This poem draws on the metaphor
of the machine applied to the human body in a way which recalls Tobias Cohn’s House of the
Body (from Ma’aseh Toviyyah, 1707) or – in more recent times the famous Fritz Kahn’s Man as
Industrial Palace. The painter Czyżewski, however, writes his picture with words, apparently in
the spirit of the avant-garde, in fact revitalizing the tradition of visual poetry (of course there is
no contradiction therein, as Apollinaire taught). The spatial disposition of the words referring
to the different organs as if to mechanical elements48 reproduces in an iconic way the basically
45
“Nie wierzę, aby się można było czegoś nauczyć od ludzi. Napatrzyłem się trochę tym przyjeżdżającym do nas snobom.
Przecież to tylko nędzne nasze kopie. Śmiać mi się chce, kiedy patrzę na tych pokręconych idiotów. [...] Chcą za wszelką cenę,
aby garnitury leżały na nich tak samo idealnie jak na nas. I jak grymaszą, ile pretensji, że garnitury, które na nas leżą jak ulał, na
nich marszczą się i garbią. Te homunkulusy każą krawcom spędzać bezsenne noce i wypychać watą to, czego im brak, byle
tylko upodobnić się do nas. Nie pojmuję doprawdy, po co im właściwie oddają nasze ubrania? I tak będą w nich wyglądali
jak półtora nieszczęścia”. B. Jasieński, Bal manekinów, Jirafa Roja, Warszawa 2006, p. 24 (English translation: The Mannequins’
Ball, translated by Daniel Gerould, Routledge, London & New York 2000, p. 11).
46
The main reference is of course the work of the French philosopher and physician Julien Offray de La Mettrie L’homme
machine (1747).
47
B. Śniecikowska, Tekst i obraz w twórczości Tytusa Czyżewskiego – o artystycznej „unii personalnej”, in: Eadem, Słowo –
obraz – dźwięk. Literatura i sztuki wizualne w koncepcjach polskiej awangardy 1918-1939, Universitas, Kraków 2005, pp. 35-172;
A. Soczyńska, Tytus Czyżewski. Malarz, poeta, Neriton, Warszawa 2006; A. Smaga, Formizm w poezji Tytusa Czyżewskiego,
Wydawnictwo Uniwersytetu Kardynała Wyszyńskiego, Warszawa 2010.
48
Still, Czyżewski’s operation was not completely unprecedented in Polish futurist poetry, since already 1914 the Baptist of
the movement, Jerzy Jankowski, in his poem Spłon lotnika [The Burning Aviator] used a close metaphor: “Listen the pulse
The Polish Cyborg
symmetrical structure of the body. So the metaphors of mechanical provenance join the iconic
representation of the body creating an indivisible whole.
The body as a machine has changed into something alien and disturbing, at the same
time endowed with power, so that the poet addresses to it the prayers he used to address to God.
This prayer is literally the liturgical Kyrie eleison, “Lord, have mercy”. The place of God has been
substituted by the body, an extremely frail and unpredictable mechanism. The new deity is no less
frightening and disturbing than the old ones.
55
rate, / Listen the heart, / How swiftly the little engin works” (translation mine), in: Antologia polskiego futuryzmu, cit., p. 78.
Emiliano Ranocchi
HYMN TO THE MACHINE OF MY BODY
blood
pepsin
blood
stomach
heart
blood
pulsate
beat
concentrated
coils
of my
gut
brain
56
cables to my veins
kinky wire duct
to my heart
accumulator
have mercy of me
my heart
dynamo-heart
electric lungs
magnetic diaphragm
one two three
beats my heart at one
electric heart one
conveyor belt
of my gut
two two two
have mercy of me
one two
telephone of my brain
dynamo-brain
three three three
one two three
machine of my body
function spin
live
Emiliano Ranocchi
57
Ṭoviyah Kats (Tobias Cohn), Ma’a’seh Toviyah, Venice 1708. Woodcut. Houghton Library, Harvard University.
The Polish Cyborg
58
Fritz Kahn, Der Mensch als Industriepalast (Man as Industrial Palace), Stuttgart 1926. Chromolithograph. National
Library of Medicine.
Emiliano Ranocchi
Tytus Czyżewski, Hymn do maszyny mego ciała, from Jednodńuwka futurystuw, June 1921, p. 3
59
The Polish Cyborg
Abstract
Emiliano Ranocchi
The Polish Cyborg. A Reflection on the Relationship between Man and Machine in Early Polish Modernism
Far from being enthusiastic “modernolatry” of Italian futurism, Polish futurism demonstrates an attitude of ambivalence
toward modernity. This is particularly evident in the Polish approach to that very synecdoche of modernity which is the
machine. In his essay of 1923, the leader of the group, Bruno Jasieński, compares the fetishistic cult of the machine, which
characterizes the Italian approach, with the utilitarian one of the Russians, exemplified by a quote from Majakovskij. To
these two propositions, as a sort of Hegelian synthesis, he adds a Polish one consisting in the conception of the machine as a
prosthesis, a continuation of the human body. Thereby he introduces an idea later known as “cyborg”. The category of cyborg
is also useful to understand the work of another today almost forgotten Polish writer of the Twenties, Jerzy Sosnkowski. He
was the author of a short novel, A Car, You and Me (Love of Machines), in which a whole chapter concerns the chief character’s
dystopian nightmare wherein machines take control over the world. The third section of the essay deals with the idea of man
a machine – an old, 18th century conception, which became actual anew in the 20th century and whose traces we can find
among others in a well-known poem by Tytus Czyżewski. Thirty years before N. Wiener, Polish modernists seem to have
sensed the social, political and anthropological implications of the mechanization of work.
Keywords: Machine, Futurism, Cyborg, Poland, Utopia
«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», (VII) 7, 2016, pp. 39-60
60
Andrea F. De Carlo
Il futurismo polacco nella critica letteraria dell’epoca
1.
L
a pubblicazione del primo manifesto del futurismo italiano sul quotidiano francese «Le
Figaro» del 20 febbraio 1909 ebbe subito risonanza anche negli ambienti intellettuali e
artistici polacchi. Infatti, otto mesi dopo l’uscita del grido di Filippo Tommaso Marinetti
– “Ritti sulla cima del mondo, noi scagliamo, una volta ancora, la nostra sfida alle stelle!...” –, il
drammaturgo e prosatore Ignacy Grabowski pubblicò un ampio resoconto sulla fondazione di
questa nuova corrente artistico-letteraria1. A questo articolo ne seguirono molti altri sulla stampa
polacca a opera di intellettuali che per un certo tempo si sarebbero interessati agli sviluppi del
futurismo, commentandone – talvolta non senza un certo imbarazzo – le varie tematiche man
mano trattate nei manifesti stranieri e criticando in maniera caustica il lavoro sia degli artisti
promotori sia di quanti, scrittori, letterati e pittori avrebbero rafforzato le file del movimento in
patria2.
Nonostante fossero diverse le voci critiche che si levarono contro la prima avanguardia
futurista, nei limiti di questo contributo mi concentrerò su due rappresentanti autorevoli della
generazione precedente: Karol Irzykowski (1873-1944), uno dei critici più rispettati del Ventennio
interbellico, e in particolare Stefan Żeromski (1864-1925), uno degli scrittori più insigni della
sua epoca. Essi, invero, più di tutti lasciarono un segno profondo sulle generazioni successive,
avvalorando con i loro pregiudizi una distorta ricezione del futurismo, che è stata confutata dalla
critica più recente.
Con la fine della guerra e la riacquistata indipendenza della Polonia nel 1918 gli
intellettuali presero finalmente parte alla riflessione e alla discussione internazionali sulla nuova
sensibilità artistica e letteraria, che mirava a incidere profondamente su tutte le attività creative.
In un ambiente vivace e indipendente, quale risultava essere la Polonia degli anni Venti, vi erano i
presupposti favorevoli affinché i poeti della giovane generazione aderissero con grande entusiasmo
alle sperimentazioni proposte dalle avanguardie europee e affrancassero la letteratura nazionale da
alcuni gravami della tradizione. Diverse furono le risposte a questa urgenza di innovazione e di
modernità, che andavano dal totale rifiuto del passato, proposto dai futuristi, al felice connubio di
vecchio e nuovo avanzato dai poeti facenti capo alla rivista «Skamander». I prosatori, al contrario,
restarono fedeli alla tradizionale idea di letteratura engagée. Fra questi vi erano alcuni scrittori
legati all’epoca precedente, ma ancora in piena attività, come Stefan Żeromski e Juliusz Kaden1
I. Grabowski, Najnowsze prądy w literaturze europejskiej. Futuryzm, in «Świat», 40, 2 ottobre 1909, pp. 5-7; 41, 9 ottobre
1909, pp. 2-5.
2
Per una bibliografia sul futurismo italiano in Polonia (1909-1939), cfr. M. Gurgul, P. Strożek, Bibliografia sul Futurismo
italiano in Polonia (1909-1939), in: Gli altri futurismi. Futurismi e movimenti d’avanguardia in Russia, Polonia, Cecoslovacchia,
Bulgaria e Romania, a cura di G. Tomassucci, M. Tria, Edizioni Plus – Pisa University Press, Pisa 2010, pp. 149-159.
61
Andrea F. De Carlo
62
Bandrowski. Nel frattempo alcune tematiche della Giovane Polonia vicine all’espressionismo
furono riprese e sviluppate dal gruppo Bunt, che vide la luce a Poznań nel 1918 e che si raccoglieva
attorno alla rivista «Zdrój»3, oppure sopravvivevano ancora stilemi dell’epoca precedente quali
le visioni grottesche di Roman Jaworski o i singolari esperimenti filosofico-psicologici di Karol
Irzykowski.
Benché in Polonia venissero date alle stampe le prime poesie futuriste già nel 19144, una
vera e propria adesione da parte di alcuni giovani intellettuali al verbo futurista si sarebbe avuta
solo a partire dal 1918, allorché Anatol Stern e Aleksander Wat pubblicarono il manifestovolantino Tak [Sì]5. Si dovette attendere il 1920 per avere un altro tentativo di manifesto
futurista: To są NIEBIESKIE PIĘTY które trzeba pomalować [Questi sono i talloni azzurri da
pitturare]6, che più tardi Wat considerò non riuscito. Nel dicembre dello stesso anno fu edito,
sempre su iniziativa dei due poeti, l’almanacco letterario Gga su cui comparve quello che oggi la
critica unanimemente considera il primo vero manifesto dei futuristi polacchi: Prymitywiści do
narodów świata i do Polski [I primitivisti alle nazioni del mondo e alla Polonia]. Il programma era
articolato in dieci punti: in sintesi si proponeva di cancellare la storia e la modernità, di demolire
le città e di ricostituire uno stile di vita primitivo. La critica più tarda sminuì l’importanza di
questo manifesto, dacché lo considerò un semplice divertissement, infarcito di slogan ridicoli
e caratterizzato da una caotica e contraddittoria dichiarazione dei futuristi sotto il segno della
degenerazione7. Lo studioso Andrzej Lam definì questa pubblicazione come “mistificazione […]
al quadrato” e il manifesto come una sconclusionata confusione di intenti8. Quello che la critica
percepì come poco chiaro e disorganico era probabilmente da ascrivere a scelte formali e tematiche
che risentivano degli influssi di una corrente letteraria anziché di un’altra. Invero, il manifesto dei
primitivisti nelle intenzioni si allontanava dai formisti9, all’epoca attivi a Cracovia, per avvicinarsi
più ai proponimenti futuristi, anche se nel programma vi erano già elementi di matrice dadaista10.
Nel frattempo Gga, a causa dei suoi contenuti provocatori, si scontrò con la censura. Un
anno dopo furono pubblicati i quattro famosi manifesti di Bruno Jasieński (pseudonimo di
Wiktor Zysman), raccolti in Jednodńuwka futurystuw [Efemeride dei futuristi, 1921]11 iniziative
3
Riguardo all’espressionismo in Polonia, si rimanda al saggio di K. Szewczyk-Haake, Poezja Emila Zegadłowicza wobec
światopoglądowego i estetycznego projektu ekspresjonizmu, Universitas, Kraków 2008.
4
Si pensi, per esempio, al componimento Spłon lotnika [Il rogo dell’aviatore] di Jerzy Jankowski (1887-1941), pubblicato
sulla rivista «Widnokrąg».
5
Di questo scrive A. Wat in Wspomnienia o futuryzmie, in «Miesięcznik Literacki», 2, 1930, p. 71. Anche Stern menziona
questo volantino in Poezja zbuntowana, PIW, Warszawa 1964, p. 51. Purtroppo non ci è pervenuto nessun esemplare di questo
primo manifesto (tanto che alcuni dubitano della sua esistenza), ma la critica ipotizza che uscì nell’ultimo trimestre dell’anno
1918 e che molto probabilmente mostrava ancora un influsso espressionista (cfr. A.K. Waśkiewicz, Czasopisma i publikacje
zbiorowe polskich futurystów, in «Pamiętnik Literacki», LXXIV, 1, 1983, pp. 33; 38).
6
Cfr. A. Wat, Wspomnienia o futuryzmie, cit., p. 73.
7
Cfr. Antologia polskiego futuryzmu i nowej sztuki, wstęp i komentarz Z. Jarosiński; wybór i przygotowanie tekstów H.
Zaworska, Zakład Narodowy im. Ossolińskich, Wrocław 1978, p. XV.
8
A. Lam, Instynkt i ład. Polska awangarda poetycka. Programy lat 1917-1923, Wyd. Literackie, Kraków 1969, pp. 164-165.
9
Il formismo è un movimento d’avanguardia che fu attivo in Polonia negli anni 1917-1922 e che mise in relazione le
conquiste cubiste, espressioniste e futuriste con l’arte popolare.
10
A. K. Waśkiewicz, op. cit., p. 43.
11
I quattro manifesti sono: Do narodu polskiego. Manifest w sprawie natyhmiastowej futuryzacji żyća [Al popolo polacco:
manifesto per l’immediata futurizzazione della vita]; Manifest w sprawie poezji futurystycznej [Manifesto sulla poesia futurista];
Manifest w sprawie krytyki artystycznej [Manifesto sulla critica artistica]; Manifest w sprawie ortografii fonetycznej [Manifesto
Il futurismo polacco nella critica letteraria dell’epoca
assieme alle famose serate futuriste che, al pari dei manifesti Nuż w bżuhu [Il coltello nella pancia,
1921] o Fioletowe płuca [I polmoni violacei, 1922], avrebbero scandalizzato l’opinione pubblica
e provocato, talvolta, l’intervento delle forze dell’ordine.
In terra polacca, negli anni 1911-1914, soltanto un esiguo numero di critici, fra gli altri
Cezary Jellenta, Jerzy Hulewicz, Aleksander Kołtoński, Tadeusz Nalepiński, manifestò un timido
interesse per l’attività dei futuristi italiani. Il gruppo "Bunt" fu certamente influenzato dalla prima
avanguardia italiana, malgrado il loro rappresentante Hulewicz non ne condividesse le idee troppo
legate alla sfera materiale a scapito di quella emozionale e spirituale, che così importante era invece
per gli espressionisti12.
Tuttavia, se negli altri paesi il movimento futurista aveva già raggiunto il suo apice, in
Polonia si trovava ancora in una fase embrionale13. Per tale ragione, negli anni Venti, benché in
molte opere le derivazioni, gli influssi, i riferimenti agli italiani fossero evidenti, vi era già un
forte desiderio d’indipendenza14. Nel Manifest w sprawie poezji futurystycznej [Manifesto
sulla poesia futurista] del 3 aprile 1921, Jasieński annunciò che non si aveva alcuna intenzione di
imitare gli italiani, il che rispondeva all’impellente necessità di rinnovare l’arte polacca: “Non è
nostra intenzione, nel 1921, ripetere ciò che essi realizzarono già nel 1908. […] Ciò che in loro era
solo un presentimento, un’affrettata proiezione di nuove prospettive, in noi deve diventare uno
sforzo strenuo, consapevole e creativo”15.
I futuristi polacchi sicuramente riconoscevano ai colleghi italiani di essere stati i precursori
di un rinnovamento culturale senza precedenti, poiché esso aveva interessato tutti gli aspetti della
creazione umana (dalla letteratura alle arti figurative, dal teatro al cinema), anche se il loro intento
era quello di spingersi oltre e di far sorgere un futurismo a carattere esclusivamente nazionale16.
Sicché, attraverso la manifestazione della propria identità e dei propri valori, i futuristi in Polonia
apportarono un contributo di valore forse non eccelso, ma assai originale volto a riformare le
arti. E ciò a prescindere dal fatto che buona parte della critica dell’epoca non riuscì a coglierne gli
elementi di novità e credette di ravvisare nel loro lavoro essenzialmente una diretta riproduzione
di opere nate in terra russa.
A grandi linee si può affermare che l’avanguardia futurista polacca seguì gli italiani negli
intenti innovatori, sebbene talvolta se ne discostasse per le tematiche scelte, mentre nella pratica
creativa trasse ispirazione principalmente dalle avanguardie russe (egofuturisti, cubofuturisti e in
parte i costruttivisti e i formalisti), dal primitivismo, dai dadaisti francesi e, in misura minore,
dagli espressionisti tedeschi. Ciò era riconoscibile in particolar modo nelle diverse tendenze che
sull’ortografia fonetica].
12
P. Strożek, Marinetti is foreign to us. Polish responses to Italian Futurism (1917-1923), in: International Yearbook of Futurism
Studies, vol. 1, ed. by G. Berghaus, De Gruyter, Berlin-New York 2011, p. 92.
13
In Italia, nel frattempo, negli anni 1914-1915 si era accentuata la frattura tra i futuristi fiorentini, che si raccoglievano attorno
alla rivista «Lacerba», e il futurismo ufficiale, mentre in Russia la distanza tra “marinettismo” e cubofuturisti si era acuita con
l’arrivo di Marinetti a Mosca il 26 gennaio 1914. A partire da questo evento, in seno al movimento d’avanguardia russo si
innescarono processi di disgregazione che avrebbero portato alle successive fasi della sperimentazione artistica novecentesca
(cfr. S. Vitale, Introduzione, in: Per conoscere l’Avanguardia russa, a cura di S. Vitale, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1979,
p. XXVIII). Sulla rottura interna tra egofuturisti e cubofuturisti cfr. V. Markov, Storia del futurismo russo, Einaudi, Torino
1973, p. 200.
14
M. Gurgul, La divulgazione del futurismo italiano sulla stampa polacca dell’epoca, in: Gli altri futurismi, cit., p. 88.
15
B. Jasieński, Manifesto sulla poesia futurista, trad. it. Lidia Mafrica, cfr. in questo numero, pp. 115.
16
Cfr. F. Miele, Boccioni e il futurismo in Russia, in: Boccioni. Cento anni, a cura di L. Tallarico, Giovanni Volpe Editore, Roma
1982, p. 248.
63
Andrea F. De Carlo
caratterizzavano i due centri culturali di riferimento: Cracovia e Varsavia. Il gruppo di Cracovia,
che fra i suoi esponenti annoverò artisti del calibro di Jasieński, Tytus Czyżewski e Stanisław
Młodożeniec, manifestava un orientamento di matrice costruttivistica17 e formista. A Varsavia,
invece, Stern e Wat intrapresero una ricerca che nelle sue sperimentazioni ricordava quelle
teorizzate dal dadaismo18.
2.
64
Il futurismo polacco produsse opere i cui titoli sovente destavano un certo sconcerto
nell’opinione pubblica, quali per esempio But w butonierce [La scarpa all’occhiello19, 1921],
nonché numeri unici di riviste, dette in polacco jednodniówki20, dai nomi e contenuti provocatori
come il già summenzionato Nuż w bżuhu oppure Pieśń o głodźe [Canto della fame21,1922] di
Jasieński22.
A scandalizzare fu in primo luogo la valenza dissacratoria dell’ortografia adottata dai
futuristi. Essi fecero ricorso invero alla scrittura pseudofonetica in base al precetto generale
formulato da Marinetti secondo cui l’ortografia doveva essere “libera espressiva”. Le regole
dell’ortografia fonetica in terra polacca furono formulate in Manifest w sprawie ortografii
fonetycznej [Manifesto sull’ortografia fonetica], in cui si proponeva l’uso di un alfabeto
semplificato, sintetico e limitato solo a indicare la pronuncia delle parole. A titolo di esempio si
pensi ai caratteri ó, rz e ch che furono uniformati da Jasieński rispettivamente a u, ż e h oppure alla
palatalizzazione che veniva sempre indicata con l’ausilio dei segni diacritici, per esempio: ćeń in
luogo di cień (ombra), śito anziché sito (crivello)23.
L’almanacco letterario Nuż w bżuhu, nato dalla collaborazione di Jasieński e Stern,
pubblicato il 13 novembre del 1921 a Cracovia e poco tempo dopo fatto circolare anche a Varsavia,
suscitò particolare biasimo e un certo scompiglio nella critica e nell’opinione pubblica, tanto da
spingere le autorità a bandirne la vendita e finanche la stampa24. In esso a destare scandalo non fu
solo l’ortografia fonetica adoperata, ma soprattutto l’humour nero della poesia Mięso kobiet [La
carne delle donne] di Jasieński:
Pożerajcie kobiety z octem i na suho!
Pszestańće z ńimi robić swoje nudne świństwa!
17
In Polonia intenti costruttivistici, cubisti e suprematisti erano presenti nel gruppo artistico d’avanguardia Blok, fondato a
Varsavia e attivo negli anni 1923-1926.
18
J. Żurawska, Il futurismo italiano in Polonia negli anni Venti, in «Strumenti Critici», 1, 1986, p. 137.
19
Il testo, sempre di Jasieński, è stato parzialmente tradotto in italiano da Luigi Marinelli e pubblicato su «Inventario», nn.
5-6, 1982, pp. 40-54.
20
La critica affermò che queste pubblicazioni potevano essere indicate anche con il nome di almanacco: oltre ai
componimenti poetici, infatti riportavano una pagina con notizie sulle nuove tendenze o le ultime pubblicazioni in campo
letterario (cfr. A. K. Waśkiewicz, op. cit., pp. 38-39).
21
Il Canto della fame di Jasieński nella traduzione italiana di Simone Guagnelli è consultabile su «eSamizdat» I, 2003, pp.
127-136 <http://www.esamizdat.it/guagnelli_trad_eS_2003_(I).pdf>.
22
K. Jaworski, Stefan Żeromski i futuryści, in: Żeromski. Piękno i wolność, idea i układ J. Ławski, red. A. Janicka, I. E. Rusek, G.
Czerwiński, Wyd. Prymat, Białystok-Rapperswil 2014-2015, p. 123.
23
A. K. Waśkiewicz, op. cit., p. 51.
24
K. Jaworski, op. cit., p. 124.
Il futurismo polacco nella critica letteraria dell’epoca
Kohankowie, noszący swe kohanki w bżuhu,
nadhodźi wasza era nowe maćeżyństwo25.
A causa di questi versi, a Lublino, su «Gazeta Wieczorna» i futuristi si guadagnarono
l’appellativo di fanatici antropofagi e apostoli della perversione e della pornografia. Secondo lo
stesso articolo, si erano aperti nuovi percorsi di “stupidità umana” che esortavano la gente a danzare
in folli baccanali. Cui bono? – si chiedeva l’autore dell’articolo –, a chi serve una tale frenesia
demolitrice che invitava le folle a un’orgia di nihilismo e incoraggiava a impiccare i filosofi, a dare
fuoco alle biblioteche e a banchettare sulle loro ceneri e rovine?26
Karol Irzykowski accolse la poesia Mięso kobiet con sprezzante sarcasmo. Una poesia –
scrisse il critico – che invita a degustare le donne “con aceto e cipolle”27:
le bionde si devono infarcire, le brune vanno aromatizzate “alla cacciatora”, ecc. Il signor Jasieński
ha nella sua biblioteca futuristica una bella collezione di menu della Polinesia […]. Al tempo stesso
sta per uscire a Poznań il romanzo del sig. Bojanowski dal titolo Pasztet z dziewczęcego serca [Paté
di cuore di fanciulla]28. Certamente […] si deve supporre che le marinate del sig. Jasieński saranno
preparate con altre donne rispetto ai paté del sig. Bojanowski […]. Coraggio! Avanti così, signori! E
soprattutto: buon appetito! 29
È verosimile che in Mięso kobiet Jasieński si sia ispirato al Manifesto della lussuria (1913)
della prima femme futuriste Valentine de Saint-Point o agli interventi di Italo Tavolato su
«Lacerba», fra gli altri il celebre Elogio della prostituzione (1913). È possibile anche che abbia
preso spunto dalla pubblicazione del Come si seducono le donne (1917) di Marinetti. In questi
scritti, la donna, ridotta a un mero oggetto procreativo, risulta tanto più pericolosa quanto più
capace di infiacchire con inutili sentimentalismi la forza virile dell’uomo30. Per i futuristi italiani la
lussuria, in quanto espressione dell’energia vitale, deve restare scevra di ogni legame sentimentale
e contribuire soltanto all’incremento demografico31. Va detto altresì che in Polonia in queste
idee si possono certamente cogliere rimandi alla propaganda di pansessualismo e immoralismo
dell’epoca precedente la prima avanguardia, riconducibili soprattutto alle teorie avanzate da
Stanisław Przybyszewski, ma anche alla lingua triviale e alle immagini demistificatorie introdotte
nella poesia polacca da Julian Tuwim con il poema Wiosna. Dytyramb [Primavera. Ditirambo,
1918], dove la tradizionale rappresentazione sublimata e idealizzata dell’amore viene sostituita
dal desiderio sessuale nella forma più primitiva e biologica.
A fronte delle stravaganti proposte avanzate dai novatori polacchi si levarono nei confronti
25
“Divorate le donne con aceto e a secco! / Smettete di far con loro noiose sconcezze! / Innamorati, che avete le vostre
amanti in grembo, / giunge la vostra era nuova maternità” [Qui e successivamente, le traduzioni dal polacco, dove non
diversamente indicato, sono mie – ADC].
26
Cfr. «Gazeta Wieczorna», 6151, 29 novembre 1921, p. 3.
27
K. Irzykowski, Kultura murzyńska w Polsce, in «Ilustrowany Kurier Codzienny», 37, 6 febbraio 1922, p. 3.
28
Si tratta dello scrittore Gustaw Bojanowski (1901-1957). In Polonia a partire dagli anni Cinquanta le sue opere furono
soggette a censura.
29
K. Irzykowski, op. cit., p. 3.
30
Cfr. E. Ranocchi, Žena a stroj. Představy modernity a sexuální utopie v evropské avantgardě dvacátých let. Vybrané příklady,
in «Acta Universitatis Carolinae. Philologica», 3, 2014 slavica pragensia, vol. XLII, 2015, pp. 223-231; Idem, La donna e la
macchina nelle avanguardie europee degli anni Venti, in «Agalma», vol. 30, 2015, pp. 47-53.
31
M. C. Papini, L’esperienza dell’“Italia futurista”, in: Futurismo, Libreria Tullio Pironti, Napoli 1976, p. 22.
65
Andrea F. De Carlo
66
del nascente futurismo diverse voci critiche. Molti intellettuali considerarono queste nuove
tendenze come forme d’arte effimere32, “morboso delirio”33, “epigonismo modernista”34, arte
rivoluzionaria, proletaria e bolscevica35. In generale, le critiche rivolte al futurismo polacco si
concentravano attorno a tre aspetti essenziali: la mancanza di originalità e la passiva imitazione di
modelli stranieri; il ripudio del passato e della tradizione nazionali; il futurismo come espressione
di ideologie quali il fascismo in Italia e il bolscevismo in Russia.
Il futurismo non fu risparmiato dagli attacchi di natura politica nemmeno in Polonia,
come lo fu in altri paesi quali l’Italia e la Russia. Si pensi, per esempio, al presidente della società
“Rozwój”, Tadeusz Dymowski, appartenente al movimento politico Democrazia Nazionale, che –
a quanto pare – strappava personalmente dai muri della capitale i manifesti dei futuristi non solo per
evitare che le loro sperimentazioni ortografiche pervertissero la lingua polacca, ma soprattutto per
scongiurare la diffusione del morbo bolscevico in patria36. Anche lo scrittore e giornalista Maciej
Wierzbiński, nel suo articolo dal titolo Głupota i zbrodnia [Stupidità e crimine], pubblicato il
13 dicembre 1921 su «Rzeczpospolita», a proposito dei manifesti futuristi affissi sui muri di
Varsavia, scrisse che erano frutto di tendenze bolsceviche.
In effetti, alcuni critici polacchi erano convinti che l’opera deliberatamente demolitrice
dell’avanguardia futurista servisse a porre in Polonia le basi per una rivoluzione proletaria. Questo
pregiudizio della critica ebbe effetti anche sulle diverse motivazioni che vennero addotte dalle
autorità al fine di giustificare la censura della produzione letteraria e delle attività dei futuristi.
Se le prime condanne e confische venivano imputate soprattutto all’amoralità dei testi, si pensi
al summenzionato Mięso kobiet di Jasieński oppure Płodzeńe [Procreazione] di Wat, quelle
successive, come nel caso dell’arresto di Stern, erano da ascrivere piuttosto a ragioni di carattere
ideologico e politico. Stern, infatti, fu arrestato l’11 dicembre 1920 con l’accusa di “blasfemia”,
per aver letto il suo componimento poetico Uśmiech primavery [Il sorriso della primavera] nelle
serate letterarie di Vilnius del 15 e 16 novembre37.
Più tardi, anche in Italia la critica scorse un rapporto congeniale tra futurismo e comunismo
rivoluzionario. Lo scrittore Giuseppe Prezzolini, in un articolo intitolato Fascismo e futurismo,
pubblicato il 3 luglio del 1923 su «Il Secolo», avanzava l’ipotesi che tra bolscevismo e futurismo
molto probabilmente vi fosse una comunanza d’intenti più intensa di quanta ve ne fosse con il
fascismo, dal momento che la nuova corrente artistico-letteraria aveva attecchito in maniera così
naturale in Russia38.
Nella patria del futurismo come anche all’estero la maggior parte della critica si
concentrò principalmente ad analizzare il legame esistente tra il movimento di Marinetti e
32
K. Chłędowski, Futuryzm – zjawiskiem przemijającym!, in «Gazeta Wieczorna», 4276, 1918, p. 4.
A. Schröder, Chorobliwe majaczenie, a nie życiodajny prąd, in «Gazeta Wieczorna», 4276, 1918, pp. 7-8.
34
K. Błeszyński, Nowość czy ciąg dalszy?, in «Skamander», 5-6, 1921, pp. 176-179.
35
I. Jokielowa, Jak jest zbudowany Snobizm i postęp Stefana Żeromskiego, in «Prace Naukowe Wyższej Szkoły Pedagogicznej
w Częstochowie», fasc. IV, 1994, p. 85.
36
Krzystof Jaworski, op. cit., p. 130.
37 In sua difesa si levarono, fra le altre, le voci di Stefan Żeromski, Leopold Staff, Wacław Berent, Juliusz Kaden-Bandrowski e
i poeti scamandriti (cfr. «Skamander», vol. 1, fasc. 1-3, 1920, p. 60).
38
Come giustamente osserva C.G. De Michelis nella sua introduzione Futuristi & footballisti, in: Idem, L’avanguardia
trasversale. Il futurismo tra Italia e Russia, Marsilio Editori, Venezia 2009, pp. 35-39, la situazione in Russia era invero molto più
complessa e non mancarono all’epoca discussioni e prese di posizione alquanto discordanti fra loro.
33
Il futurismo polacco nella critica letteraria dell’epoca
quello mussoliniano, riconoscendone certe convergenze e affinità39. Sicuramente, fermi restando
alcuni punti di contatto fra la prima avanguardia e l’ideologia littoria, il futurismo ebbe il suo
periodo d’oro prima del fascismo e in seguito, privato della sua carica sovvertitrice e libertaria,
fu strumentalizzato da Mussolini. Eppure, per la critica, il futurismo continuò a rappresentare la
fonte dell’ideologia fascista40. Benedetto Croce su «La Stampa» (15 maggio 1924) affermò: “Per
chi abbia senso delle connessioni storiche, l’origine ideale del fascismo si ritrova nel futurismo”.
Anche Prezzolini nell’articolo summenzionato non poté esimersi dal riconoscere rapporti di
interdipendenza e corresponsabilità fra i due movimenti:
Evidentemente nel Fascismo c’è stato del Futurismo e lo dico senza alcuna intenzione. […] Il culto
della velocità, l’amore per le soluzioni violente, il disprezzo per le masse e nello stesso tempo l’appello
fascinatore alle medesime, la tendenza al dominio ipnotico delle folle, l’esaltazione di un sentimento
nazionale esclusivista, l’antipatia per la burocrazia, sono tutte tendenze sentimentali passate senza
tara nel fascismo dal futurismo.
Lo scrittore, tuttavia, già nello stesso articolo intravide una naturale scissione tra il
movimento di Marinetti e quello di Mussolini che era da attribuire alle susseguenti fasi di sviluppo
del partito fascista: “Se il fascismo vuol segnare una traccia in Italia deve espellere ormai tutto ciò
che vi rimane di futurista, ossia di indisciplinato e anticlassico”.
Negli anni Sessanta Eugenio Montale, in occasione della seconda ristampa del romanzo
Le serate futuriste del napoletano Francesco Cangiullo, risalente agli anni Venti, ma dato alle
stampe negli anni Trenta, asserì: “Leggendo questo libro ci si rende conto che se un filo unisce il
futurismo al primo fascismo, la connessione non deve essere esagerata. Gli ismi artistici non sono
responsabili delle grandi crisi sociali: ne sono, semmai, un effetto stranamente anticipato”41.
Al dibattito sui legami tra l’avanguardia futurista e il fascismo anche in Polonia fu dedicata
una serie di articoli42. Per esempio, lo storico della letteratura polacca Stefan Kawyn, nell’ascoltare
l’intervento sui rapporti tra i due movimenti italiani tenuto dal poeta Marian Piechal a Leopoli,
riferì che la sensazione era quella che i due concetti non avessero niente in comune, a parte la
39
A supporto di ciò resta la lettera autografa di Mussolini indirizzata a Paolo Buzzi, direttore de «Il Popolo d’Italia», in
cui il futuro Duce menziona il suo incontro con Umberto Boccioni e manifesta piena simpatia per i futuristi, che definisce
“novatori e demolitori” (L. Caruso, S. M. Martini, La rivoluzione futurista, in: Futurismo, cit., p. 8). Questa lettera venne
riprodotta in facsimile per la prima volta su «Il Nuovo Milanese», 4, 15 e 21 ottobre 1976. In seguito il testo mussoliniano
fu ristampato, senza citare la fonte, nel volume Futurismo e Fascismo a cura di A. Schiavo (Giovanni Volpe, Roma 1981), e
presentato erroneamente come inedito. La lettera non riporta alcuna data, ma un’annotazione autografa di Buzzi apposta
sul margine sinistro la fa risalire a “Prima della guerra, quando si staccò dal socialismo ufficiale e fondò il Giornale nuovo” (C.
Belloli, Boccioni e gli inediti (opere, epistolario, iconografia), in: Boccioni, cit., pp. 219-220).
40
Sull’argomento cfr. anche G. Berghaus, Futurism and Politics: Between Anarchist Rebellion and Fascist Reaction, 1909-1944,
Berghahn Books, Providence – Rhode Island – Oxford 1996; J. W. Borejsza, Il fascismo e l’Europa orientale. Dalla propaganda
all’aggressione, Laterza, Bari 1981.
41
E. Montale, Buzzi, Cangiullo, Onofri, in «Corriere della sera», 11 aprile1961, p. 3; altresì in: Idem, Sulla poesia, a cura di
G. Zampa, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1976, pp. 317-318.
42
J. Kurek, Futuryzm a faszyzm, in «Głos Narodu», 143, 1924, pp. 4-5; 145, pp. 3-4; 146, pp. 4-5; in seguito pubblicato con
il titolo Futuryzm i faszyzm (Impresja historyczna), in «Przegląd Współczesny», 100-101, 1930, pp. 298-337. Jalu Kurek, uno dei
più attivi divulgatori del futurismo italiano in Polonia, nel recensire la raccolta di manifesti di Marinetti, Futurismo e fascismo
(Campitelli, Foligno 1924), menziona il rapporto di stima e amicizia che legava il padre del futurismo italiano a Mussolini.
Inoltre, egli scrive che è lo stesso Marinetti a chiarire nella sua introduzione i rapporti fra i due movimenti. In particolare,
l’autore italiano considerava il fascismo come il risultato del futurismo e dell’interventismo.
67
Andrea F. De Carlo
terra d’origine. Kawyn, comunque, avvalorò la tesi espressa dal conferenziere secondo la quale il
vate del fascismo in campo letterario era Marinetti, l’autore del famoso manifesto in cui invitava
a bruciare i teatri, i musei e le biblioteche, a ritenere le macchine superiori all’uomo ed esortava a
sputare sulla tradizione43.
Ed è proprio questa sconfessione della tradizione che creò una separazione ideologica fra
il fascismo e il futurismo e che in seguito spinse Marinetti a rifiutare la restaurazione retorica e
culturale che il fascismo avrebbe operato in Italia.
In Polonia, come fu documentato in diversi numeri di riviste e quotidiani, nonché in
raccolte di manifesti e saggi di autorevoli critici, la rottura con la tradizione proposta dal futurismo
italiano, approdata in Polonia tra confuse citazioni e traduzioni approssimative44, stimolò una
querelle particolarmente vivace, cui presero parte intellettuali del calibro di Stefan Żeromski e di
Karol Irzykowski.
3.
68
Sia Żeromski sia Irzykowski ritenevano che la passiva riproduzione di modelli stranieri, la
mancanza di indipendenza e originalità di pensiero nell’arte conducessero ineluttabilmente alla
mistificazione artistica. Entrambi consideravano la nuova sensibilità futurista come il frutto di
un’automatica e insensata imitazione delle correnti letterarie europee, basata sulla negazione del
passato nazionale e sulla riproduzione di concetti nati su un terreno culturalmente estraneo a
quello polacco45.
Nel suo saggio Snobizm i postęp [Snobismo e progresso], scritto molto probabilmente tra
la fine di maggio e l’inizio di novembre 1922, e mandato in stampa nel dicembre del 192346,
Żeromski osservava:
Le più recenti correnti artistiche in Italia, […] in Francia, in Russia hanno assorbito la vita politica di
quei paesi, e l’insieme degli sconvolgimenti e delle vicissitudini ha conferito alle opere dei futuristi
[…] in ogni luogo un colorito diverso, particolare, originale. Queste tendenze sono invero nuove
pagine della letteratura italiana, francese e russa. Nel nostro paese sono purtroppo “torsoli” estranei,
incolori, inintelligibili, segni concreti di snobismo47.
43
S. Kawyn, Futuryzm i Faszyzm. Odczyt Mariana Piechala w Zawodowym Związku Literatów we Lwowie, in «Gazeta
Lwowska», 318, 18 novembre 1933, p. 5.
44
Si veda a tal proposito, J. Żurawska, op. cit.
45
Cfr. I. Jokielowa, op. cit., p. 85.
46
In questo saggio l’autore contrappone l’imitazione snobistica del futurismo polacco alla nobiltà della cultura e della
tradizione nazionali. Al concetto di snobismo (termine che si riteneva erroneamente proveniente dall’accorciamento di sine
nobilitate (s. nob.), che nei registri di Cambridge veniva apposto accanto al nome di coloro che avevano origine plebea), la
riproduzione dogmatica e sterile di correnti letterarie straniere, l’autore contrappone quello di nobilitas, l’autorevole passato
culturale della Polonia, senza il quale non si può aspirare a un vero e proprio progresso. La studiosa Irena Jokielowa osserva
che Żeromski nel corso dell’argomentazione non si limita soltanto a definire questi due concetti, ma fa uso persino di registri
linguistici differenti: adotta quello basso e colloquiale per esporre l’atteggiamento snobistico delle avanguardie, mentre fa
uso dello stile solenne per riferirsi alla tradizione letteraria polacca (Ivi, pp. 76-77). A quanto pare, per definire il concetto di
snobismo, Żeromski si consultò anche con lo scrittore Józef Wittlin. Ciò è attestato, in particolare, da una lettera che l’autore
di Sól ziemi [Il sale della terra] aveva inviato a Żeromski in data 17 giugno 1922 (S. Żeromski, Listy 1913-1918, oprac. Z. J.
Adamczyk, in: Idem, Pisma zebrane, t. 38, red. Z. Goliński, Czytelnik, Warszawa 2008, p. 319).
47
S. Żeromski, Snobizm i postęp, Wyd. J. Mortkowicza, Towarzystwo Wydawnicze w Warszawie, Warszawa-Kraków 1929,
Il futurismo polacco nella critica letteraria dell’epoca
Ancora secondo l’autore di Ludzie bezdomni [I senzatetto], i giovani poeti polacchi non
potevano attingere più nulla dal futurismo, dal momento che l’opera dei futuristi italiani e in
particolare quella dei russi – definita dall’autore in modo spregiativo kacapizm48 – si potevano già
considerare soppiantate dall’attività delle nuove avanguardie letterarie49: ciò nonostante, il “natio
snobismo” presentava come novità soluzioni del futurismo russo ormai superate. Żeromski nel
suo saggio fornì a titolo di esempio Pieśń o głodźe di Jasieński, in cui tutto, dalle trovate formali
alle immagini, rimandava ai poeti russi, in particolare all’opera di Majakovskij50. Riguardo a ciò,
lo scrittore polacco asseriva:
Questa “novità”, che, a quanto pare – “batte già con i calci dei moschetti” contro tutte le finestre
e le porte –, è un’innovazione snobistica, una formuletta letteraria trasferita dai libri russi ai libri
polacchi assieme a tutto l’apparato di indispensabili accessori puramente stranieri, è dunque una
“tendenza” letteraria, ormai letta e riletta, esaurita, abbandonata dallo snobismo russo e superata
dalle nuove correnti, immaginismo, misticismo e dal nuovissimo ululato nella notte di Mariengof 51.
Proprio sul rapporto tra Pieśń o głodźe di Jasieński e Oblako v štanach [La nuvola in calzoni,
1914-1915] di Majakovskij la critica coeva incappò in valutazioni approssimative e tutta una
serie di giudizi negativi che probabilmente erano dettati più da un preconcetto che da un’attenta
disamina di ambedue le opere. Jasieński fu tacciato di plagio sia dai critici a lui contemporanei
sia da quelli della generazione successiva. Essi arrivarono a considerare Pieśń o głodźe addirittura
una semplice parafrasi o una criptotraduzione del poema majakovskiano52. Attraverso un puntuale
raffronto dei due testi la critica odierna ha dimostrato che se da una parte è evidente nel testo
l’ascendente del poeta russo, dall’altra vi sono differenze sostanziali nei contenuti e negli intenti
dei due autori, inevitabili vista anche la distanza temporale che separa i due componimenti53.
Żeromski non comprese nemmeno la scelta ortografica fatta da Jasieński, che considerò una
semplice riproduzione in terra polacca della nuova scrittura adottata nei testi russi in seguito
alla riforma ortografica del 1918. L’autore di Ludzie bezdomni infatti si chiedeva: “Come mai
il talentuoso poeta Bruno Jasieński pubblica i suoi libri nel nostro paese in modo diverso rispetto
agli altri, con una scrittura sconosciuta a tutti, inventata dalla sua testa? La spiegazione è soltanto
una: imitare un modello preordinato”54.
Analogamente Irzykowski in un articolo intitolato Plagiatowy charakter przełomów
literackich w Polsce55 [Il carattere plagiario delle innovazioni letterarie in Polonia], apparso su
pp. 72-73 [la nuova edizione è Idem, Snobizm i postęp oraz inne utwory publicystyczne, wstęp i opracowanie A. Lubaszewska,
Universitas, Kraków 2003].
48
Da kacap, termine dall’etimologia incerta con cui si indicavano spregiativamente i russi.
49
S. Żeromski, Snobizm i postęp, cit., p. 43.
50
Ivi, p. 44.
51
Ibidem.
52
Cfr. E. Balcerzan, Styl i poetyka twórczości dwujęzycznej Brunona Jasieńskiego. Z zagadnień poetyki i przekładu, Ossolineum,
Wrocław 1968.
53
Una breve analisi è fornita da S. Guagnelli nel testo introduttivo alla sua traduzione Canto della fame di Jasieński su
«eSamizdat», cit., p. 128.
54
S. Żeromski, Snobizm i postęp, cit., pp. 44-45.
55
Lo stesso articolo uscì contemporaneamente su «Robotnik», 29, 1922, e «Naprzód», 26, 1 febbraio 1922. In seguito
verrà incluso nella raccolta di saggi Słoń wśród porcelany. Studia nad nowszą myślą literacką w Polsce, Rój, Warszawa 1934, pp.
27-59.
69
Andrea F. De Carlo
«Kurier Lwowski» (n. 25, 29 gennaio 1922, pp. 3-4), accusava il futurismo polacco di riproporre
in patria in modo identico tutto ciò che era stato già detto e fatto negli altri paesi56:
Quello che da noi oggi è apparso da ogni parte al pari dei coleotteri in primavera si avvertiva già
da lontano come un plagio. Queste opere sono arrivate in modo alquanto inatteso, senza una
motivazione né un bisogno di sviluppo, anzi presentavano subito un grado tale di raffinatezza che
non si può raggiungere senza interminabili tentativi né ricerche. […] Le persone che non aderissero
spontaneamente al dadaismo né al futurismo, non avrebbero diritto a imitare, ma piuttosto
dovrebbero essere soltanto traduttori e fedeli mediatori di novità straniere57.
70
A questo proposito, la studiosa Nina Kolesnikoff, nel suo saggio dedicato a Jasieński,
afferma che le accuse di non originalità mosse ai futuristi erano in gran parte giustificate, dal
momento che non è ravvisabile alcuna novità di particolare rilievo nella produzione letteraria del
primo movimento avanguardista polacco. Tuttavia, la stessa Kolesnikoff ammette che all’interno
dell’eredità futurista è possibile scorgere una serie di proposte interessanti che successivamente
furono riprese e sviluppate dall’avanguardia di Cracovia che si raccoglieva attorno alla rivista
«Zwrotnica»58.
A differenza di Irzykowski, Żeromski riconobbe il talento poetico dei poeti futuristi,
sebbene non li reputasse in grado di rinnovare le arti. Infatti, lo scrittore era convinto che lo
sviluppo della letteratura nella Polonia indipendente sarebbe stato possibile soltanto mantenendo
la continuità culturale con il passato, da cui sarebbe scaturita l’unica forza capace di generare veri
valori progressisti. L’autodeterminazione dello Stato polacco non si sarebbe ottenuta soltanto
con la ricostituzione dei confini, ma anche attraverso lo sviluppo di una letteratura nazionale
autonoma. Quest’ultima, tenendo conto delle fonti della tradizione, avrebbe dovuto mantenere
saldo il naturale legame con il passato e al tempo stesso, senza perdere il suo carattere nazionale,
intrecciare suggestioni universali e sovratemporali nella trama di motivi squisitamente polacchi59.
Su questo aspetto non si può convenire con lo scrittore, poiché se da una parte i protagonisti
del movimento futurista polacco seguirono teoricamente le sperimentazioni formali della prima
avanguardia europea, dall’altra, in essi prevalse la programmatica contaminazione di valori
tradizionali come la riscoperta del mondo della religiosità rurale e del folclore. Il testo poetico
divenne così una commistione di istanze propagandistiche, rivoluzionarie, impeti sentimentali e
misticheggianti, toni catastrofistici e timori irrazionalistici.
Żeromski, nel suo Snobizm i postęp, condusse una lunga argomentazione in cui immaginava
un rinnovamento della letteratura polacca secondo il principio formulato dal poeta romantico
Kazimierz Brodziński: “myślmy bogato i po swojemu” [pensiamo in grande e a modo nostro]60.
L’autore di Ludzie bezdomni considerava la libertà creativa come condizione indispensabile per
56
In risposta alla polemica intavolata da Irzykowski apparvero sulla stampa dell’epoca i seguenti articoli: A. Stern, Emeryt
merytoryzmu. Z powodu ostatniego artykułu Irzykowskiego p.t. ‘Plagiatowy charakter przełomów literackich w Polsce’, czyli jeszcze o
wiatrologii, in «Skamander», 17, 1922, pp. 106-111; B. Jasieński, Kieszeń od kamizelski źródłem plagiatu. Rewelacyjne odkrycia
p. Irzykowskiego, in «Ilustrowany Kurier Codzienny», 37, 6 febbraio 1922, p. 2; a cui segue una lunga e sarcastica risposta dello
stesso Irzykowski, Kultura murzyńska w Polsce, cit., pp. 2-3.
57
Ivi, p. 3.
58
N. Kolesnikoff, Bruno Jasieński. His evolution from Futurism to Socialist Realism, Wilfrid Laurier University Press, Waterloo
(Ontario, Canada) 1982, p. 22.
59
I. Jokielowa, op. cit., p. 87.
60
Ivi, p. 88.
Il futurismo polacco nella critica letteraria dell’epoca
produrre un’arte indipendente, individuale e soprattutto nazionale, che esprimesse il carattere
polacco attraverso un rapporto organico con la ricchezza culturale e linguistica del paese61.
Soltanto la letteratura che nasceva all’interno dei confini nazionali poteva aspirare a consolidare
il sentimento patriottico del popolo, affrancandolo da quei modelli culturali stranieri che per due
secoli gli sarebbero stati imposti. Anche su questo punto Żeromski non riuscì a comprendere che
in realtà da parte dei futuristi del suo paese vi era una presa di distanza su molte delle tematiche
proposte dagli italiani e dai russi, al fine di introdurne di nuove e originali62. I futuristi polacchi,
per esempio, rifiutarono il bellicismo marinettiano, preferendo di solito attestarsi su posizioni,
sia ideologiche che creative, inconciliabili con la guerra. Un altro tema caro ai futuristi italiani
era la macchina, che per i polacchi non era più oggetto di celebrazione, emblema del progresso
tecnologico e della moderna civiltà, ma un mero prodotto della “sovrastruttura” umana.
Inoltre, per i primi avanguardisti polacchi, il mondo tecnologico avrebbe dato vita a una nuova
forma poetica, che al tempo stesso avrebbe affondato le sue radici nella tradizione umanistica
e romantica63. È significativo il fatto che lo stesso Jasieński, all’atto pratico, si misurò nelle sue
sperimentazioni poetiche con la metrica di Adam Mickiewicz64. Si pensi poi anche a Stern che,
riprendendo lo spirito dell’umanesimo rinascimentale, considerò la macchina e la tecnologia
soltanto come tramite per esaltare le virtù umane. L’uomo indomito e invincibile dei futuristi
italiani acquisì dunque in Polonia una sfumatura spirituale, in base alla quale l’individuo attraverso
il suo atto creativo avrebbe trasformato la materia e fortificato se stesso. Si era distanti dallo slancio
demolitore del futurismo italiano e si era più vicini a una dimensione in cui il futurismo avrebbe
creato un dialogo sotterraneo con il passato65.
Il proposito di creare una letteratura nazionale indipendente era stato già espresso da
Żeromski anni prima in una conferenza dal titolo Literatura a życie polskie66 [La letteratura
e la vita polacca], tenuta a Zakopane il 28 agosto 1915. L’autore esprimeva la convinzione che
le funzioni della letteratura cambiassero in base ai processi e alle esigenze sociopolitiche di un
paese, dunque che un ruolo consolatorio e divulgatore di idee positive fosse possibile soltanto in
un’entità statale autonoma.
In Polonia, a partire dalle Spartizioni, la tradizione letteraria si era concentrata
essenzialmente sulla questione nazionale e sulle problematiche dello spirito polacco. Ciò avrebbe
favorito un certo isolamento dal contesto europeo. D’altro canto, – continua Żeromski – solo in
uno Stato libero sarebbe stato possibile svincolare la letteratura dalla zavorra dei problemi sociali e
da un eccesso di sentimento patriottico, al fine di aprirsi anche alle novità degli altri paesi. Ciò non
significava tuttavia che la letteratura avrebbe smesso di occuparsi di problematiche sociopolitiche.
Al contrario, nella sua conferenza lo scrittore polemizzò con un articolo di Papini apparso su
61
Cfr. Ivi, pp. 86-87.
Jasieński fece riferimento proprio a queste tematiche nel momento in cui annunciò la fine in Polonia dell’avventura
futurista (cfr. Futuryzm polski. Bilans, in «Zwrotnica», 6, 1923, pp. 177-184).
63
J. Żurawska, op. cit., p. 146.
64
Cfr. M. Gurgul, op. cit., p. 89.
65
Cfr. J. Żurawska, op. cit., pp. 147-148.
66
Faceva parte di una serie di conferenze dal titolo Zadania i potrzeby gospodarcze, organizzate dal prof. Franciszek Bujak.
L’anno seguente l’intervento di Żeromski fu edito nel libro S. Żeromski, Sen o szpadzie i sen o chlebie (Zakopane 1916, pp.
48-75); cfr. M. Popiel, Żeromski a Witkiewiczowie. O estetyce w powiewach wiatru halnego, in: Żeromski. Tradycja i eksperyment,
idea i układ J. Ławski, red. A. Janicka, A. Kowalczykowa, G. Kowalski, Wyd. Alter Studio, Białystok-Rapperswil 2013, p. 238.
62
71
Andrea F. De Carlo
72
«Lacerba» che propugnava il disimpegno politico degli scrittori67; Żeromski invece sottolineava
il ruolo importante della responsabilità sociale e politica che la letteratura rivestiva, menzionando
proprio alcuni insigni rappresentanti della letteratura italiana impegnati per la causa del loro
paese: “Alfieri, Leopardi, Foscolo, Carducci – forse gli unici compagni dei nostri grandi romantici
sulle spinose vie della creazione […]”; e ancora: “[…] gli scrittori […] Leopardi, Carducci […]
Pascoli ci sono vicini, consanguinei, quasi nostri compatrioti”68.
Il disimpegno politico era dunque assolutamente incomprensibile per uno scrittore come
Żeromski, poiché egli aveva fondato tutta la sua arte a sostegno della causa sociale, dando voce
agli umiliati, i più poveri e gli sfruttati della società dell’epoca, e della questione nazionale, che era
espressa dal poeta attraverso la nostalgia della libertà e l’afflizione per le sorti del popolo polacco69.
Secondo l’autore, qualsiasi tentativo di liberare l’arte dal suo impegno sociopolitico, non avrebbe
favorito una nuova letteratura nazionale. Nella sua conferenza ribadì che diverse volte in passato
l’arte polacca aveva tentato di affrancarsi dalle responsabilità sociali, derivate dalla condizione
di schiavitù nazionale, con l’obiettivo di mettersi alla pari con l’arte europea e diventare pura
creazione, arte per l’arte70. Ma dopo aver ricordato i tentativi fatti da Przybyszewski («Życie»),
Zenon Przesmycki («Chimera») e Stanisław Witkiewicz («Wędrowiec») per emancipare l’arte
dalle sue implicazioni sociali e politiche, egli constatò che questi esperimenti non erano serviti a
far nascere una produzione polacca indipendente e duratura. Nel caso del futurismo, Żeromski
non riuscì a comprendere che si trattava di una sorta di paradosso di letterarietà e non letterarietà,
di un’arte che aspirava non tanto a essere autotelica, quanto a diventare costume, vita. Dunque
non era solo una questione formale, ma anche etica e soprattutto politica. Alle soglie della
Grande Guerra la stessa rivista «Lacerba» avrebbe assunto un taglio più politico che letterario
con una chiara presa di posizione antigiolittiana. In Polonia, invece si assistette a una crescente
radicalizzazione politica degli autori, le serate di Jasieński erano organizzate in collaborazione
con il Partito Comunista Polacco (KPP) e avevano assunto una posizione sempre più conflittuale
nei confronti del governo di Wincenty Witos. Sul recto di Nuż w bżuhu fu pubblicata una
lettera aperta indirizzata all’allora ministro degli Interni in cui si protestava contro gli interventi
delle forze dell’ordine alle serate futuriste e contro le ingerenze da parte delle autorità per la
pubblicazione dei manifesti. Sul verso, invece, furono pubblicati attacchi rivolti ai teatri di
Varsavia, soprattutto all’espressionista Zbigniew Pronaszko, considerato un adulatore del governo,
e ai critici dai “cervelli tabici”. Molti dei testi pubblicati aspiravano a una rivoluzione sociale dal
carattere anarchico come Rewolucja ćała [La rivoluzione del corpo] di Stern oppure esprimevano
simpatie comuniste come lo Psalm powojenny [Salmo postbellico] di Jasieński. Quest’ultimo, su
esempio del futurismo italiano, aveva manifestato l’intenzione di unire il movimento artistico
67
Si tratta di un articolo scritto in seguito alle elezioni alla Camera dei deputati italiana, in cui Papini manifestava il suo
disinteresse alle questioni politiche e sociali, in quanto questo era compito dei ministeri preposti a tali funzioni (G. Papini,
Freghiamoci della politica, «Lacerba», 19, 1 ottobre 1913, pp. 212-214; 216).
68
S. Żeromski, Literatura a życie polskie, cit., pp. 51 e 55; la traduzione è di B. Biliński, Ispirazioni italiane di Stefan Żeromski,
in: J.Z. Jakubowski, B. Biliński, A. Zieliński, Stefan Żeromski nel centenario della nascita (1864-1925), Zakład Narodowy
im. Ossolińskich, Wyd. PAN, Wrocław-Warszawa-Kraków, p. 47; cfr. anche G. Tomassucci, Cinguettii e sferragliare satanico.
Julian Tuwim e la poesia italiana fra Otto e Novecento, in: Avanguardie e tradizioni nel XX e XXI secolo fra Polonia, Italia e Europa.
Atti del Convegno dei Polonisti italiani 22-23 aprile 2010, a cura di M. Ciccarini, L. Kuk, L. Marinelli, Accademia Polacca delle
Scienze, Biblioteca e Centro di Studi di Roma, Roma 2013, p. 126.
69
E. Lo Gatto, Stefano Żeromski. Studio critico, Anonima Romana Editoriale, Roma 1926, p. 7.
70
Cfr. Ivi, p. 9.
Il futurismo polacco nella critica letteraria dell’epoca
con quello sociale. A ciò contribuì la collaborazione dei futuristi con la rivista di orientamento
comunista «Nowa Sztuka»71.
Il giudizio di Żeromski sull’attività “sediziosa” dei futuristi italiani rimase tuttavia sempre
negativo. Egli ne aveva incontrati vari personalmente a Firenze, come attestato da una lettera inviata
alla moglie nel mese di dicembre del 191372, e fu sempre critico nei confronti di «Lacerba», che
considerava piena di “stramberie, istrionismi e pagliacciate”73 , e nel suo carteggio definiva persino
“decadente”, o meglio “particolarmente ottusa” al pari della vecchia rivista di Cracovia «Życie»,
organo della Giovane Polonia74. Questa posizione così dura nei confronti di «Lacerba» molto
probabilmente scaturiva anche da circostanze assai più banali, ossia dal fatto che la proposta di
pubblicare sulle pagine della rivista italiana il suo dramma antimimetico Róża [Rosa, 1909],
ispirato ai fatti della rivoluzione del 1905, era stata disattesa75.
4.
Un’eco letteraria dell’atteggiamento critico e dei toni sarcastici nei confronti delle
invenzioni e stranezze del futurismo italiano, elaborati nella pubblicistica dell’autore, sono
ravvisabili altresì nel romanzo di Żeromski Nawracanie Judasza [La conversione di Giuda,
1912]76: il protagonista, Ryszard Nienaski, racconta che a Firenze si era recato a pranzo nel famoso
caffè “Giubbe Rosse”, dove erano soliti incontrarsi i futuristi; qui, in un clamore assordante, essi
millantavano innovazioni e scrivevano sul posto articoli destinati alla loro rivista «Lacerba»77.
Sulla base di questo riferimento letterario, lo studioso Krzysztof Jaworski, in un suo recente
articolo intitolato Stefan Żeromski i futuryści78 [Stefan Żeromski e i futuristi], congettura
che lo scrittore polacco abbia visitato personalmente il celebre “Giubbe Rosse” in Piazza della
Repubblica a Firenze (all’epoca Piazza Vittorio Emanuele II), verosimilmente indotto a questo
passo dallo scrittore e giornalista Fernando Agnoletti (1875-1933), che in quel periodo era
intento a revisionare la traduzione italiana di Wierna rzeka (Fiume fedele 1912) curata da Janina
Gromska79.
È vero anche che lo stesso Żeromski, in Snobizm i postęp, dà testimonianza di quella celebre
serata futurista, passata alla storia come “battaglia di Firenze”, che si tenne il 15 dicembre 1913
presso il Teatro Verdi e vide la partecipazione dello stesso Marinetti. Secondo fonti dell’epoca nel
71
A.K. Waśkiewicz, op. cit, p. 48.
Żeromski scrive: “Qui ho conosciuto i futuristi italiani: Tavolato, Palazzeschi, Papini”; e aggiunse: “Tutti si lamentano del
fatto che non ci siano traduzioni dal polacco a parte il Quo Vadis. Tutti credono anche che in polacco scriva solo Sienkiewicz”
(S. Żeromski, Listy 1913-1918, cit., pp. 189-190).
73
Idem, Literatura a życie polskie, cit., p. 48.
74
Idem, Listy 1913-1918, cit., p. 56.
75
Cfr. P. Strożek, “Marinetti is foreign to us”, cit., p. 87.
76
Si tratta del primo volume della trilogia Walka z Szatanem [La lotta con Satana, 1910-1920]. Gli altri romanzi della trilogia
sono Zamieć [La tormenta di neve, 1916] e Charitas (1919).
77
S. Żeromski, Nawracanie Judasza, Wyd. J. Mortkowicza, Towarzystwo Wydawnicze w Warszawie, Warszawa-Kraków
1928 p. 136.
78
K. Jaworski, op. cit., pp. 117-130.
79
S. Żeromski, Fiume fedele, trad. di G. Gromska, Fratelli Treves, Milano 1926. Cfr. S. Żeromski, Listy 1913-1918, cit.,
pp. 184-185; cfr. anche A. Zieliński, Pod urokiem Italii. O Stefanie Żeromskim, PWN, Warszawa 1973, pp. 238-239; K.
Jaworski, op. cit., p. 121.
72
73
Andrea F. De Carlo
teatro erano stipati dai duemila ai settemila spettatori80.
Lo scrittore così descrive nel suo saggio quello che si presentò ai suoi occhi81:
Ai tempi del mio soggiorno a Firenze, mi capitò di assistere a una serata futurista al Teatro Verdi,
chiamata Grande serata futurista, che ospitava all’incirca cinquemila spettatori. L’enorme teatro
era pieno da cima a fondo e tutta quella folla urlava, ululava, imprecava, fischiava e agitava le
braccia. Faceva risuonare ovunque sirene di automobili, provocava uno stridio penetrante con
delle trombette e bersagliava di patate, cipolle, uova marce e castagne il gruppo dei futuristi
che, decisamente osteggiato, provava a leggere qualcosa sul palco. […] Il capo del movimento, F.
T. Marinetti, […] dotato di una voce possente, a un certo punto riuscì a sovrastare quella massa
di cinquemila antagonisti con un grido allora in voga in Italia: “Evviva Libia!”. Era il grido più
importante di questo movimento, il grido dell’anima dei futuristi italiani82.
Żeromski quindi ebbe una conoscenza diretta del futurismo italiano e delle reazioni che esso
provocava. Egli non se ne lasciò influenzare, ma tracce della sua conoscenza del movimento sono
evidenti non solo nella sua pubblicistica, ma anche – come abbiamo già accennato sopra – nelle
sue opere83. Alcuni protagonisti di Nawracanie Judasza discutono di futurismo, menzionano
persino alcuni personaggi a esso legati: Helena Żwirska, al fine di evadere dalla soffocante e sterile
vita di provincia, legge le poesie di Papini e Soffici pubblicate su «Lacerba»; durante il dialogo
tra Nienaski e la signorina Xenia Granowska viene ricordato il celebre Elogio alla prostituzione
di Tavolato84:
74
– Lo scorso anno abbiamo letto sia Misteri di Hamsun che Annie Vivanti. Quest’anno, da quello
che sento, sono attuali un certo Ardengo Soffici e un tale Tavolato. Ma temo di scandalizzarLa.
– Non si tratta forse di Inno alla prostituzione?... – chiese Nienaski85.
A parte questi brevi cenni letterari, sembra tuttavia che lo scrittore considerasse il futurismo
italiano alla stregua di una mera moda letteraria. Dopo la pubblicazione di Snobizm i postęp, non
tornò più sull’argomento86, nemmeno quando fu attaccato pubblicamente da Jasieński con due
80
«La Nazione» (13 dicembre 1913) riferisce di circa duemila presenti, mentre su «Lacerba» (Grande serata futurista, 15
dicembre 1913) si riporta il numero di cinquemila spettatori (cfr. anche F. Cangiullo, Le serate futuriste, Ceschina, Milano
1961, p. 102; A. Soffici, Fine di un mondo, Vallecchi, Firenze 1955, p. 328; A. Viviani, Giubbe rosse. Il caffè fiorentino dei
futuristi negli anni incendiari 1913-1915, a cura di P. Perrone Burali d’Arezzo, Vallecchi, Firenze 1983, p. 66). Il «Corriere della
sera» (Serata di baccano a Firenze, 13 dicembre 1913) parla persino di settemila partecipanti. Oggi, a parte le testimonianze
contrastanti apparse sulla stampa dell’epoca, non abbiamo alcuna possibilità di verificare queste informazioni, dal momento
che l’archivio del Teatro Verdi è andato distrutto durante l’alluvione dell’Arno del 1966.
81
B. Biliński, op. cit., p. 47. 82
S. Żeromski, Snobizm i postęp, cit., pp. 27-28.
83
K. Jaworski, op. cit., p. 122.
84
«Lacerba», 9, 1 maggio 1913, pp. 89-92.
85
S. Żeromski, Nawracanie Judasza, cit., p. 239. Nel testo polacco elogio (in polacco, pochwała), viene reso da Żeromski
con hymn (inno).
86
K. Jaworski, op. cit., p. 123. Diverso fu il caso di Irzykowski che continuò invece a mantenere un atteggiamento polemico
verso il futurismo fino al suo epilogo. Si pensi al suo articolo Likwidacja futuryzmu, apparso nel 1924 su «Wiadomości
Literackie» (5, 3 febbraio 1924, p. 1), a cui risposero il poeta futurista Stefan Kordian Gacki con il testo Likwidacja likwidatora
su Awangarda (16 febbraio 1924) e Stern su «Głos Polski» (19 luglio 1924) con l’articolo Maszyna jako ideał sztuki dzisiejszej
a przesądy estetyczne. Irzykowski replicò nuovamente sia a Gacki con il testo Awangardzistom – utarcie nosa su «Wiadomości
Il futurismo polacco nella critica letteraria dell’epoca
conferenze sotto il titolo comune di Trybunał poezji [Il tribunale della poesia]: la prima si tenne
a Cracovia il 6 marzo 1923, la seconda a Leopoli il 26 marzo dello stesso anno87.
5.
Concludendo, si è cercato di dimostrare nel corso dell’esposizione che gli argomenti
avanzati dai critici dell’epoca per avversare i futuristi (la mancanza di originalità e la passiva
imitazione di modelli stranieri; il ripudio del passato; il futurismo come espressione ideologica del
fascismo o del bolscevismo) in realtà non erano supportati da un’analisi attenta delle loro opere
né dalla volontà di comprendere i loro sforzi programmatici volti a riformare l’arte e la letteratura
polacche.
In particolare, l’atteggiamento preconcetto di Irzykowski e Żeromski nei confronti del
movimento futurista scaturiva soprattutto da una visione molto diversa che i due intellettuali
avevano della letteratura e della sua funzione nella società. Per il primo, la cultura letteraria serviva
a mantenere vivo il sentimento patriottico e, in un paese rimasto troppo a lungo diviso, a fare
da collante socioculturale, ossia a contribuire a rinvigorire il senso di appartenenza e di unità
nazionale dei polacchi. Per il secondo, invece, attraverso di essa si dovevano esprimere in primo
luogo i valori intellettuali e l’originalità di pensiero. Sia la concezione nazionale di Żeromski
sia quella intellettuale, proposta da Irzykowski, escludevano a priori l’avvilente riproduzione
di modelli letterari stranieri. La prima esigeva dalla letteratura quella dignità che si ottiene
unicamente facendo rivivere la tradizione patria; la seconda, invece, reclamava quella rispettabilità
che si poteva conseguire solo attraverso ricerche autonome e conseguenti frutti intellettuali88.
Per certi aspetti, quindi, alcuni elementi del pensiero dei due autorevoli letterati trovavano delle
consonanze anche nella pratica poetica di molti futuristi polacchi.
Occorre inoltre chiarire che, nonostante l’attaccamento della maggior parte degli scrittori
polacchi agli ideali tradizionali di impegno politico e di continuazione del discorso patriottico, le
contraddizioni fra futurismo e letteratura “istituzionale” non erano così profonde come potrebbe
sembrare. Da un’analisi delle opere futuriste si evince infatti che il loro rifiuto dell’eredità del
passato restava solo nelle enunciazioni programmatiche, ma che la realtà era ben più complessa e
sfumata di quello che sia i critici, da una parte, sia gli stessi futuristi, dall’altra, andavano asserendo.
Infatti, per quel che concerne il dibattito sul retaggio culturale nella Polonia del primo Ventennio
del XX secolo, si deve tener conto del fatto che non è possibile considerare queste correnti
“rivoluzionarie” – il futurismo e l’Avanguardia di Cracovia – nettamente recise dalla tradizione.
Al di là di tutti i pregiudizi e pareri negativi – talora contraddittori – espressi nei confronti
della prima avanguardia polacca, alla luce di quanto detto, oggi resta inconfutabile il fatto che
il futurismo in Polonia, seppure fenomeno di breve durata e dal percorso complesso, ebbe un
ruolo fondamentale per lo sviluppo culturale del paese. Infatti, rielaborando in modo innovativo
e talvolta originale stilemi e linguaggi artistici europei in voga all’epoca, traendo nuova linfa dalla
tradizione letteraria neoromantica, dal folclore e dalla cultura popolare nazionali, e fugando
così ogni rischio di epigonismo impropriamente avanzato dalla critica, i futuristi prepararono il
Literackie», 10, 9 marzo 1924, p. 2, sia a Stern con l’articolo Fabrykowanie przeciwników, in «Wiadomości Literackie», 36, 7
settembre 1924, p. 3.
87
K. Jaworski, op. cit., p. 129.
88
Cfr. Ivi, pp. 85-86.
75
Andrea F. De Carlo
terreno alle successive sperimentazioni avanguardistiche novecentesche.
Abstract
Andrea F. De Carlo
Polish Futurism in Literary Criticism of the Early Twentieth Century
The article analyses the critical voices raised against the young poets and artists who promoted Futurism in Poland during
the first half of the Twentieth century. Futurist manifestos influenced the new Polish poetry, stimulating a lively debate among
intellectuals of the calibre of Stefan Żeromski and Karol Irzykowski.
In general, the coeval criticism of Polish Futurism focused on three main points: the lack of originality and servile imitation
of foreign literary models; the repudiation of the past and national traditions; Futurism as an expression of ideologies such as
Fascism in Italy and Bolshevism in Russia.
In this article, specific attention is devoted to an analysis of the essay Snobizm i postęp (Snobbery and Progress, 1923) by
Żeromski. The writer, criticising Polish imitators of Russian Futurism, affirmed that Polish literature and culture, in the
context of national reconstruction after three partitions of Poland, needed to maintain its natural connection with the past
and at the same time, without losing its national nature, to weave some universal suggestions into the plot of purely Polish
themes.
The goal of this article is to reveal that Żeromski and Irzykowski’s critical stance towards the Polish Futurists, which
influenced the critics of the next generation, was dictated by a shallow analysis of Futuristic works and by their inability to
understand Futuristic efforts to modernise Polish art and literature.
Keywords: Polish Futurism, Literary criticism, Stefan Żeromski, Snobbery and Progress, Karol Irzykowski
76
«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», (VII) 7, 2016, pp. 61-76
Paweł Graf
„Na skrzyżowaniu dwóch wrogich epok stoję, cynicznie
gryząc papieros”. O tekstowych projekcjach twórczości
futurystów w relacji do ich postaci multimedialnych
na przykładzie Marsza Bruno Jasieńskiego
Stworzę wam sztukę nową, sztukę czarnych miast.
Będzie mocna jak wódka, i dobra, jak piernik.
Zdziwicie się, że tyle jest na niebie gwiazd,
których żaden wam przedtem nie odkrył Kopernik.
B. Jasieński, But w Butonierce1
Kochamy maszyny elektryczne i nie robimy im krzywdy.
T. Czyżewski, Od maszyny do zwierząt
Rozumieć to móc sprawę przedstawić graficznie
G. Bachelard, Czas i co ludzkie
Zafascynowani postępem technologicznym futuryści wreszcie się doczekali! Może
to jeszcze nie róg obfitości, niemniej – po okresie słabszej, niekiedy bardzo słabej, recepcji ich
dorobku2 – w świadomości współczesnych odbiorców mają oni szansę zaistnieć ponownie, tym
razem za sprawą multimediów. Można bez większego ryzyka postawić tu tezę, że dzisiejsza,
multimedialna postać ich wierszy zostałaby, przez samych futurystów, przyjęta z uznaniem i
radością; wszak niemal zawsze byli oni piewcami nowoczesności, w jej najróżniejszych przejawach.
Poszukiwali, jak pamiętamy, dla swej sztuki naukowo-technologicznego kontekstu i marzyli o
nowoczesnym czytelniku, który zrozumie ich literacko-techniczną rewolucję. Wyrażał to choćby
Tytus Czyżewski słowami:
: nie ma w przyrodzie
żadnych praw
jest tylko wielki
1
Cytowany fragment pochodzi z wiersza [Zmęczył mnie język...] – patrz B. Jasieński, Utwory poetyckie, manifesty, szkice, red.
E. Balcerzan, Wrocław 1972; inny tytuł – Bruno Jasieński: „But w butonierce” znajdujemy w Poezjach zebranych, red. B. Lentas,
Gdańsk 2008.
2
Uwaga ta odnosi się do obecności/nieobecności twórczości futurystycznej w polskim doświadczeniu czytelniczym
i krytycznym po 1945 roku. W porównaniu z innymi zjawiskami literackimi dwudziestolecia obecność ta nigdy nie była
imponująca i futuryzm pozostawał w cieniu Awangardy Krakowskiej, Skamandra czy Leśmiana. Zmieniło się to w ostatnim
piętnastoleciu, w którym futuryzmem zainteresowała się spora grupa badaczy (wyszły również zbiory zebrane poezji Bruno
Jasieńskiego i Tytusa Czyżewskiego oraz edycja krytyczna tekstów Aleksandra Wata). Z moich, pobieżnych, obserwacji
wynika, że we Włoszech sytuacja była podobna i futuryzm nie był przez lata zbyt ważnym punktem na literaturoznawczej
mapie, na co miały wpływ również przyczyny polityczne.
77
Paweł Graf
mechaniczny
jeden
elektryczny instynkt
ha ha ha ha
Słońce Słońce Słońce3
78
Końcowy śmiech, konotuje tu rozpoznania Nietzscheańskie4 – w mniemaniu bowiem tego
filozofa beztrosko śmieje się jedynie ten, kto przekroczył granicę niewiedzy i zrozumiał sens swego
istnienia w bycie, co – wraz z końcową pochwałą Słońca – staje się tutaj znakiem przezwyciężonego
i odrzuconego resentymentu, znakiem nowej „elektrycznej” epoki. Przede wszystkim zaś śmiech
jest reakcją tego, który – zanurzony w teraźniejszości – doświadcza, nakładających się nieustannie
na siebie, nieskończonych sił przeszłości i przyszłości. A sformułowane przez Czyżewskiego
prawo „mechanicznego elektrycznego instynktu” określa równocześnie zjawiska czy zdarzenia tak
odwieczne, jak i dopiero nadchodzące; literatura zaś jest, jedynym być może, medium zdolnym to
wszystko wyrazić.
W ostatnim czasie pojawiły się w przestrzeni wirtualnej dwa interesujące projekty
związane z twórczością polskiej awangardy futurystycznej. Pierwszy, który nie jest przedmiotem
zainteresowania tego artykułu, autorstwa Urszuli Pawlickiej i Łukasza Podgórniego, zatytułowany
Cyfrowe zielone oko5, poświęcony został utworom Tytusa Czyżewskiego. Czytelnik/widz tej
cyfrowej adaptacji uzyskuje tu pewną swobodę „twórczą” – sam decyduje w jakiej kolejności ukażą
mu się słowa czytanego/oglądanego/słuchanego tekstu, od niego zależy, które elementy ukażą
się lub nie na ekranie monitora, samodzielnie dobiera muzyczny podkład, zwalnia i przyspiesza
animację, etc. Jest, jednym słowem, zaproszony do współudziału w procesie wytwarzania
wirtualnej postaci tekstu. Jednocześnie, zawsze może dokonać aktu „klasycznej” lektury i, w
zgodzie ze swymi przekonaniami teoretycznymi oraz estetycznymi, wybrać albo tekst papierowy,
albo cyfrowy lub też dokonać „nieklasycznej” interpretacji przekładu jednego kodu na drugi.
Przekład taki pozwala przede wszystkim dowartościować wielozmysłowość odbioru – właściwie
spośród podstawowych receptorów zmysłowych tylko smak i zapach nie biorą tu udziału – co być
może, na dalszym etapie rozwoju mediów, stanie się możliwe6 . Gdyby tak się stało, nowe media
pozwoliłyby stworzyć postulowaną przez futurystów syntezę sztuk, realizowaną dotąd jedynie w
postaci futurystycznych uczt kulinarnych, podczas których rozpylane wonie przeczyły obrazom
podawanych potraw, wrażenia smakowe były potęgowane dźwiękami i dotykiem różnorodnych
faktur – jedzono wyłącznie ustami, trzymając ręce na, intensywnie dotykanych, nogach sąsiadów,
ubranych w stroje wykonane z rozmaitych materiałów: korka, papieru ściernego etc.
3
T. Czyżewski, Poezje i próby dramatyczne, red. A. Baluchowa, Wrocław 1992, s. 103.
Patrz: H. Buczyńska-Garewicz, Metafizyczne rozważania o czasie. Idea czasu w filozofii i literaturze, Kraków 2003.
5
Patrz: ha.art.pl/czyzewski/. O projekcie tym szczegółowo pisałem w swoim artykule poświęconym cyfrowej postaci
poezji futurystycznej – zob.: P. Graf, Tytus Czyżewski sto lat później, http://jbc.bj.uj.edu.pl/Content/303020/Oz000494.
pdf. Przywołać należy też doświadczenie teatralne czy raczej post-teatralne (użycie hologramów, projekcji multimedialnych,
laserów) – spektakl pt. Jasieński grany w Teatrze Starym w Krakowie w sezonie 2015/16; zaprezentowano w nim w sposób
multimedialny utwory Jasieńskiego, w tym interesujący mnie tutaj Marsz. Na gruncie włoskim warto wspomnieć o cyfrowej
wizualizacji rysunków Antonio Sant’Elii – La Metropoli Futurista [Film documentario sull’architettura futurista], Art Media
Editori 2006.
6
Ostatnie doniesienia technologiczne są właśnie związane z możliwością wydrukowania sobie zapachu, towarzyszącemu
oglądanej wizualizacji – patrz: ladnydom.pl/wnetrza/1,124115,13257005,Wydrukuj_ sobie_zapach.html.
4
„Na skrzyżowaniu dwóch wrogich epok stoję, cynicznie gryząc papieros”
Jak o swoim projekcie piszą sami jego autorzy:
Nerw rzeczywistości początku XX wieku oddany mógł być tylko za pomocą nowej ekspresji
formalnej i uczuciowej. Uliczny zgiełk tramwajów, brzęczący telefon, trzeszczące radio, kolorowe
reklamy i sensacyjna prasa – wszystko to wymagało języka multimedialnego, symultanicznego i
przestrzennego7.
I, w innym miejscu, analizując sytuację komputerowej poezji:
W tradycyjnej poezji wizualnej tekst rozmieszczony był na przestrzeni kartki, liczył się [...] układ
i organizacja. Tekst mógł tworzyć obraz (jak np. w poezji figuralnej) bądź być w obraz wpisany
(wiersze wplecione). W cyfrowej odmianie relacja między tekstem a obrazem jest zmienna, gdyż
każdorazowo przekształca się i jest generowana przez mechanizm. Obiekt nowych mediów składa
się z wielu wariacji, które należy odkryć, aby w pełni go odczytać i zrozumieć. Utwór skonstruowany
jest z warstw, połączonych ze sobą na zasadzie kinetycznej (obiekt sam zmienia swą strukturę)
bądź łączy (konkretne słowa lub ikony pełnią funkcję odsyłaczy, które należy uruchomić, aby
przejść do kolejnej wersji). Ruch jest elementem scalającym tekst z obrazem i tym samym pełni
funkcje strukturalne i semantyczne. Działanie strukturalne polega na: konstruowaniu kompozycji
(mechanizm odkrywa kolejne elementy obiektu), modyfikacji (zmienia układ w ramach tej samej
postaci) oraz redukcji (usuwanie pewnych fragmentów). W funkcji semantycznej, określającej
zależności między tekstem, a obrazem, wyróżnić należy rolę ilustrującą (ruch jest wizualizacją
kodu językowego), interpretacyjną (wspomaga wyjaśnić znaczenie tekstu) czy wzmacniającą
(ruch potęguje znaczenie składników). W cyfrowej poezji wizualnej istotny jest zatem związek
między warstwą odkrytą a jeszcze nie odkrytą, między tekstem-obrazem źródłowym a docelowym.
Działanie odpowiada za odsłonięcie jego warstw, które następnie należy skomponować w całość,
aby odczytać znaczenie utworu8.
Znacznie wcześniej, w tymże duchu, w Manifeście w sprawie natychmiastowej futuryzacji
życia, wypowiadał się, przy pomocy zapisu fonetycznego, współtwórca polskiego futuryzmu,
Bruno Jasieński, który, uznając, że „Sztuka musi być niespodzianą, wszechprzenikającą i nóg
walącą” z przekonaniem twierdził, iż „Każdy może być artystą. […]. Scena się przekręca. Trzeba
zmienić dekoracje. […] Technika jest tak samo sztuką, jak malarstwo, rzeźba i architektura”9. Czy
uczestnicząc w Cyfrowym Zielonym Oku Czyżewskiego rzeczywiście jesteśmy autorami, czy
przeciwnie – realizujemy jedynie algorytm zaproponowany przez twórców konceptu, to już inna
kwestia, łatwa chyba do ustalenia.
Projekt drugi, na którym koncentruję swoją uwagę – stworzony przez Grupę Twożywo10 –
7
Patrz: www.ha.art.pl/prezentacje/poezja/2585-tytus-czyzewski-oczy-tygrysa-cyfrowa-adaptacja-urszuli-pawlickiej-i-lukaszapodgorniego.
8
Zob. www.ha.art.pl/prezentacje/42-slownik-gatunkow-literatury-cyfrowej/2220-slownik-gatunkow-literatury-cyfrowejcyfrowa-poezja-wizualna.html.
9
B. Jasieński, Manifest o natychmiastowej futuryzacji życia, [w:] Manifesty programowe futurystów polskich, red. A. Zawada, W.
Floryan, Wrocław 1984. Pisownia zmieniona przeze mnie na ortograficzną, z zachowaniem pozostałych ówczesnych reguł
poprawnościowych. Niemniej warto tu podkreślić, że fonetyczny zapis futurystyczny nie był jedynie ozdobnikiem czy
udziwnieniem; przeciwnie pełnił istotne funkcje tekstotwórcze.
10
Nazwa grupy świadomie jest nieortograficzna. Projekt ten należy koniecznie obejrzeć i skonfrontować z tezami
powyższego artykułu, który bez odniesienia multimedialnego może być częściowo niezrozumiały! Znajdziemy go na
stronie: www.twozywo.art.pl/twzw.php?4czs.
79
Paweł Graf
nie próbuje uczynić odbiorcy artystą. Z jednej strony jest on adaptacją wręcz klasyczną – w miejsce:
czytam pojawia się: oglądam; z drugiej – nowa forma wyrazu modyfikuje znacząco dotychczasową
sytuację prezentowanego tekstu (w tym przypadku Marsza Jasieńskiego). Jednocześnie zamysł ten
jest bliski wielu futurystycznym postulatom: Internet, rozumiany jako współczesna postać ulicy,
jest przestrzenią pojawiania się sztuki głośnej, agresywnej, aktualnej i dostępnej szerokiemu gronu
odbiorców. Mottem tej, świadomie nawiązującej do futuryzmu, grupy artystycznej, mogłyby być
inne słowa z cytowanego już Manifestu Jasieńskiego:
Sztuka gnieżdżąca się w kilkuset, a nawet kilkutysięcznoosobowych salach koncertowych,
wystawach, pałacach sztuki itp. jest śmiesznym anemicznym dziwolągiem, ponieważ korzysta z niej
1
/100 000 000 wszystkich ludzi. Człowiek współczesny niema czasu na chodzenie na koncerty i wystawy,
¾ ludzi niema po temu możliwości. Dlatego sztukę muszą znajdować wszędzie11.
80
Nim odpowiemy sobie na pytanie jaką sztuką jest Marsz Jasieńskiego, a jaką Marsz
multimedialny Grupy Twożywo – zatrzymajmy się przez chwilę na dźwiękowych i graficznych
aspektach sztuki słowa12. Niewątpliwie futuryzm lubił słowo samo w sobie, być może nawet był
ostatnim przejawem poezji, która domagała się głośnej lektury; futuryści urządzali poezjokoncerty,
deklamowali, improwizowali, uwalniali słowa, próbowali zapisywać odgłosy ptaków czy śmiechu
lub też dźwięki nieistniejących języków. Głośna lektura – oczywista w dawnych czasach –
mniej więcej od doby oświecenia, stawała się coraz rzadszą; wpłynęło to na postać wiersza (jego
przechodzenie z postaci metrycznej do wolnej, pojawienie się tzw. rymu dla oka oraz tekstów
koniecznie wymagających zobaczenia, zminimalizowanie melodyki wersów, docelowo wyłonienie
się poezji konkretnej), na jego interpretację oraz społeczny odbiór (spotęgowanie intymności
lektury czy ufilozoficznienie poezji, tworzonej przez artystę, o którym można od teraz powiedzieć
poeta doctus). Wszystkie te zabiegi były elementami powolnego procesu, który nigdy nie został
zakończony (a współcześnie został zahamowany, o ile nie zawrócony). Możemy wskazać dwie
zasadnicze tego przyczyny. Po pierwsze – poezja nie chciała całkowicie wyrzec się ani ucha, ani oka:
cytowany wcześniej fragment wiersza Czyżewskiego należy nie tylko usłyszeć, ale też zobaczyć,
jest on bowiem poprzedzony niemym dwukropkiem, wiele wyrazów jest w nim wytłuszczonych,
światło między wersami i słowami nie ma klasycznego charakteru... W innym tekście tego poety,
w którym czytamy: „wszystko można zrozumieć”13 widzimy nieoczekiwanie zapis wertykalny
– słowa/wersy są tu obrócone o 90 stopni i „spływają” w dół kartki. Można zrozumieć...
zobaczywszy, bowiem rzeczony fragment dotyczy deszczu, który przecież horyzontalnie nie pada,
nie można natomiast tego usłyszeć w najlepszej nawet aktorskiej recytacji. Wiersz futurystyczny
wymaga zatem lektury podwójnej, głośnej i cichej, wykonania estradowego i odtworzenia w
sobie... Po drugie – jak dowodzi między innymi Walter Ong, zajmujący się badaniem styku:
oralne-piśmienne14 – od początku wieku XX znajdujemy się w okresie tzw. wtórnej oralności i
11
Tamże.
Interesujące uwagi na ten temat przynosi praca J. Donguy’a, Poezja eksperymentalna. Epoka cyfrowa (1953-2007), tłum.
M. Madej, Gdańsk 2014. Autor omawia tu również „prehistorię” cyfrowości w poezji wskazując właśnie na doświadczenie
futurystów, którzy wyprzedzali swój czas zwłaszcza w obszarze poezji fonicznej. Futurystyczny deklamator – jak głosił jeden
z manifestów – miał obowiązek dehumanizować swój głos, metalizować go i elektryzować, wzbogacać odgłosami uderzeń
młotków, klaksonów itd. (s. 124-125).
13
T. Czyżewski, Poznanie, [w]: Poezje, dz. cyt., s. 55-56.
14
Zob. W.J. Ong, Oralność i piśmienność. Słowo poddane technologii, tłum. J. Japola, Warszawa 2011.
12
„Na skrzyżowaniu dwóch wrogich epok stoję, cynicznie gryząc papieros”
wypowiadany dźwięk ponownie staje się istotnym, o ile nie najistotniejszym, naszym medium.
Maurice Merleau-Ponty, zwalczający fantom „języka bez głosu”, został „przez Paula Ricoeura
uznany za głównego inicjatora powrotu do osobnika mówiącego”15. W tej interpretacji:
Fenomen mowy – jej niezwykłość [dowodzi Merleau-Ponty] polega na tym właśnie, że poprzez
jej stosowanie zdolni jesteśmy do wykraczania nie tylko poza czyste znaczenia, ale i poza pułap
wszelkich znaczeń zastanych, gotowych. [...]. Mówienie nie sprowadza się wówczas do wyrażania
myśli, staje się raczej zajęciem pozycji podmiotu w świecie znaczeń, dokonującym się poprzez pewną
strukturację przeżycia, pewną modulację istnienia16 .
Ergon – domena porządku i energeia17 – działanie połączone z innowacją, są zdaniem
francuskiego fenomenologa połączeniem koniecznym dla konstytucji podmiotu, połączeniem –
dodajmy – doskonale znanym futurystom, w działaniu właśnie widzącym nowatorski sens poezji.
Wiedza ta, znana kierunkom awangardowym, dociera dziś do nas w swej nowej
postaci i znaczeniu – co jednocześnie modyfikuje sensy wcześniejsze – zarówno w formie
dyskursu teoretycznego, jak i ruchów neofuturystycznych oraz neoawangardowych. Jednym
z nich jest postdadaistyczny Fluxus18, a w jego obrębie twórczość Dicka Higginsa, prekursora
wykorzystywania komputera w sztuce, w tym do przypadkowego generowania tekstów. Definiował
on swoje dokonania artystyczne terminem intermedia, oznaczającym działania podejmowane na
styku różnych dostępnych twórcy mediów, co pozwala sproblematyzować same granice wytyczone
pomiędzy zmediatyzowanymi doświadczeniami. Artyści tej grupy potęgowali spontaniczność i
przypadek, wzmacniali rolę odbiorcy-współtwórcy, wykorzystywali jako swoiste ars-przedmioty
czy przestrzeń dla artystycznej ekspresji dowolne fragmenty rzeczywistości (przykładowo jajka,
drogowe znaki, uliczne ściany); a także, co dla nas najważniejsze, niwelowali różnicę między okiem
i uchem – bawiąc się dźwiękiem czy zapisem, co w punkcie wyjścia miało dadaistyczne podłoże,
by w rezultacie objawić nieoczekiwanie odsłaniany/odsłaniający się sens. Ciekawym przykładem
takich działań Fluxusu i, jednocześnie, Higginsa jest jego Telefon translatoryczny do Daniela
Naborowskiego19, będący intermediacją pomiędzy przekładem fonicznym a semantycznym –
zaś to, czy przekład powinien nade wszystko przetransponować w nowy język sens utworu, czy
jednak bardziej pamiętać o jego kształcie formalnym, także instrumentacyjno-dźwiękowym – to
jeden z nierozstrzygalników teorii translacji. W tekście Higginsa widzimy próbę – składa się ona
z szeregu kolejnych uzupełniających się doświadczeń20 – pogodzenia obydwu sprzecznych jakby
się wydawało możliwości.
Marsz Jasieńskiego21 to utwór dla współczesnego czytelnika zaskakujący. Niemal stuletni
15
Zob. G. Godlewski, Słowo – pismo – sztuka słowa. Perspektywy antropologiczne, Warszawa 2008, s. 93.
Tamże, s. 94.
17
Tamże, s. 97.
18
Łac. „płynący”.
19
D. Higgins, Fourteen Telephone Translations, red. P. Rypson, Kłodzko 1987, s. 10.
20
Polski wers z poezji Naborowskiego zostaje oddany w kilkunastu próbach fonicznych, by, w rezultacie, stać się literalnym
przekładem semantycznym przy zaniku podobieństwa brzmieniowego.
21
Zob. B. Jasieński, Marsz (Całość wiersza została podana w aneksie). Tekst wiersza jest dostępny m.in. w zbiorach: Utwory
poetyckie, dz. cyt.; [w:] Poezje zebrane..., dz. cyt. [tu mamy dwie różne wersje tego utworu]; interesujący jest też przekład rosyjski
W. Korniłowa Marsz, [w:] B. Jasieński, Słowo o Jakubie Szele. Poemy i stichotworienija, Moskwa 1962. Pojawiają się w nim słowa
nieobecne w oryginale, jak – przykładowo – kapelusze, welocypedy, które osłabiają rewolucyjną wymowę utworu; niemniej
podkreślają one mimochodem poczynione w tym artykule rozpoznania.
16
81
Paweł Graf
a jednak niezmiernie świeży, wręcz współczesny. Wymykający się satysfakcjonującej interpretacji.
Problem z Marszem zaczyna się od samego początku percepcji wiersza. Przyzwyczajeni do cichej
lektury odczuwamy jakąś immanentną dziwność wpisaną w ten tekst. Studenci, i nie tylko oni,
poproszeni o głośną lekturę, mimo instruktażowego tytułu, najczęściej nie potrafią dokonać
brzmieniowej eksplikacji i efekt recytacyjny bywa nieudany, wyrazista marszowość wiersza
częstokroć zupełnie znika. Niełatwo bowiem dokonać interpretacji głosowej tekstu, który żąda od
nas odczucia osobliwego rytmu i wpisania się w ów rytm naszą czytelniczą cielesnością. Niewiadomo,
czy czytając należy stać, czy chodzić (marszowo?), a może wystukiwać obcasem rytm recytowanej
frazy? Jak odtworzyć pulsowanie słowa w niemarszowych – na szczęście – czasach? Sam „marsz”
to forma o rodowodzie XVII-wiecznym22, choć niektórzy badacze utwory muzyczne, pełniące
funkcję marsza, odnajdują nawet w starożytnym Rzymie – jak zatem oddać głosowo jej autorską,
XX-wieczną, do tego futurystyczną postać? Jak ją oddać dziś, po doświadczeniach poprzednich
wieków? Czym są załamania rytmu, wydłużonego w tekście Jasieńskiego z czterech do pięciu
kroków? Może brzmieniową prowokacją, a może własną, Jasieńskiego, reinterpretacją gatunku?...
Wiersz ten, co może zaskakiwać, interpretowany bywał rzadko – w zasadzie można przywołać
jedynie nieliczne świadectwa jego recepcji. Jednym z nich była zjadliwa parodia zamieszczona
w «Szczutku», w 1924 roku. Anonimowy autor, odwołując się do życia i twórczości poety,
marszowym, dziarskim krokiem literacko „przeszedł” po Jasieńskim:
Tra-ta-ta-tam. Tra-ta-ta-tam.
Tutaj. I tu. I tu. I tam.
Lwów. Kraków. Moskwa. Warszawa.
Zgniłe. Jaja. Publiczność. Sława.
Młody. Zdrowy. Jak. Syfilityk.
Często. Gęsto. Ze chrzęstem. Bity.
Pisał. Wiersze. Przycinki. Kropki.
W Szczutku. Smutne. Nagrobki. Szopki.
W głowie. Nogi. Izoldy. Morgan.
W mózgu. Dziura. Mózg. W butonierce.
Skaleczony. Jeden miał. Organ.
Który? Który? Serce tak. Serce.
Tra-ta-ta-tam.
82
W sali. Wielkiej. Autorski. Wieczór.
Śmiech. Na sali. Duszno. W powietrzu.
Pani. Biała. Słuchała. Poszła.
Powiedziała. Dość. Tego. Osła.
Poszli. Rzygać. Ostre. Poezje.
Zawołali. Niech to. Pies zje.
Futurysta. Oprawić. W ramki.
Fuj. Futurysta. Od świętej. Samki.
Powie. Teraz. Najnowszą. Bajkę.
Potem. Koniec. Potem. W łeb jajkiem23.
22
Zob.: pl.wikipedia.org/wiki/Marsz_(muzyka); Mała encyklopedia muzyki, red. St. Śledziński, Warszawa 1981.
Zob.: B. Jasieński, Poezje zebrane, dz. cyt., s. 419.
23
„Na skrzyżowaniu dwóch wrogich epok stoję, cynicznie gryząc papieros”
Emocje bywały silne – jak wspominał malarz Roman Turyna, podczas jednego z
publicznych autorskich odczytań Marsza:
Gdy padło pierwsze mocne słowo [...] zgorszona i bardzo szanująca się publiczność [Tarnopolska]
zaczęła opuszczać salę. Nobliwe damy czym prędzej wypychały podekscytowane córki, a co gorliwsi
panowie biegli po policję i... straż pożarną. Ktoś krzyczał: To nie Marsz – to Arsz!24.
Więcej estymy mieli przyjaciele poety i badacze futuryzmu. Dla Anatola Sterna Marsz
to utwór antymieszczański i antywojenny jednocześnie, oddający „sugestywnie marsz idących
na wojnę żołnierzy”; a zarazem majstersztyk recytacyjny25. Jadwiga Sawicka26 przeciwnie –
podkreślała trudności z deklamacją utworu, należącego do tych wierszy Jasieńskiego, w których
mamy nagromadzenie
szczególnie zgrzytliwych, trudnych do wymówienia wyrazów, preferowanie twardych spółgłosek –
czyli to wszystko, co czyni tekst poetycki czymś kakofonicznym, ostrym, szokującym dźwiękowo.
Wynikiem tego – w jej przekonaniu – jest ogólny wyraz dysharmonii i postawa negacji.
Interpretatorka wskazuje na zapis segmentujący tekst:
Normalne zdania rozbija [poeta] znakiem kropki na poszczególne wyrazy, tak jak normalny tok myślenia gwałcony jest przez łomot tupiących w marszu butów.
Sawicka dla analizowanej poezji bezproblemowo odnajduje referencję – wojnę 1920 roku;
jej zdaniem nieokreślony obserwator przemarszu wojsk relacjonuje dla nas „natłok dźwięków,
kolorów i wrażeń ogarniających go różnych stron”. Sam wiersz, będący obrazem „zdynamizowanego
tłumu, wśród którego rozgrywa się jakaś ludzka jednostkowa tragedia, ludzki protest”, kończy
się niejednoznaczną ironią, typową dla Jasieńskiego. Edward Balcerzan, który spośród krytyków
poświęcił Jasieńskiemu dotychczas najwięcej rewerencji, pisał o tym wierszu, „że może być, z uwagi
na swą lapidarność modelem poglądowym poetyckiego zapisu katastrofy”; mamy w nim tłum i
krew, a raczej ślad po krwi; opozycję potoku: ludzi, słów, zdarzeń i dźwięków; oraz krwotoku:
kapiącą krew, kapiące liście. Gazeta (Chłopak z redakcji) po raz kolejny informuje nas o życiu i
umieraniu świata. Na gruncie poetyki badacz rozpoznaje tu chwyt „zapisu poetyckiego”, chwyt
przynależny do strategii reportażowej:
W tym terminie słowo zapis odsyła nas do Wejść reporterskich. Słowo poetycki wskazuje, iż na
Wyjściu otrzymaliśmy tekst, który nie jest już ani reportażem, ani nawet prostą stylizacją na reportaż.
Jest natomiast przekazem rządzonym prawami języka poetyckiego27.
Tym samym referencjalna wartość Marsza (inaczej i ciekawiej niż w rozpoznaniach
Sawickiej) staje się „umowna”, utwór zaś w to miejsce potęguje własną literackość.
24
Cyt. za: B. Jasieński, Poezje zebrane, dz. cyt., s. 420. „Arsz” prawdopodobnie z niemieckiego: Arsch – wulg.: „dupa”.
A. Stern, Bruno Jasieński, Warszawa 1969, s. 28.
26
J. Sawicka, „Na skrzyżowaniu dwóch wrogich epok” – Bruno Jasieński, [w:] Poeci dwudziestolecia międzywojennego, red. I.
Maciejewska, Warszawa 1982, s. 380-383.
27
E. Balcerzan, Styl i poetyka twórczości dwujęzycznej Brunona Jasieńskiego, Wrocław 1968, s. 153.
25
83
Paweł Graf
Marsz powrócił do czytelniczego i krytycznego obiegu w roku 2010, za sprawą Grupy
Twożywo, która nadała mu nową, multimedialną postać28 . O tej adaptacji/remaku pisała w
bardzo obszernej analizie Pawlicka. Przeczytajmy kilka wyimków:
Utwór [...] został podwójnie ożywiony: przez ruch oraz muzykę. Z napięcia między pierwotnym, statycznym wierszem, a nowym medium powstał poemat animacyjny, którego dynamika zasadza
się na czterech komponentach: obrazie, ruchu, kolorze oraz dźwięku. Artyści nawiązują do praktyk
poetów wizualnych i konkretnych, z tym że poszli o krok dalej, wykorzystując współczesne
możliwości technologiczne [...]. Animacja prezentuje Marsz od początku do końca, nie pomijając
ani jednego słowa. Artyści ponadto dosłownie zinterpretowali wiersz, sprawiając, że poemat
skupia się nie na znaczeniu, lecz na graficznym, literalnym przedstawieniu danego słowa czy frazy
[...]. Dostrzec można tylko jeden element dodany przez grupę Twożywo, będący efektem ich
interpretacji. W wizualizacji słowa „przystojne”, litera „J” ułożona została w kształt karabinu, który
przez moment rytmicznie wystrzeliwuje. Animacja, która z założenia ma być dynamiczna, wyklucza
proces czytania utworu. Artyści wprowadzili zatem własny głos odtwarzający tekst. Odbiorca
skupiający się wyłącznie na efektach graficznych, ma możliwość audialnego słuchania utworu – w
ten sposób wytworzona została komunikacja między pierwotnym tekstem, animacją, a odbiorcą.
Odczytywanie utworu na głos wprowadza także pierwiastek ludyczny, gdyż widz oglądając
reprodukcję tego, co jest mówione, nie może się nadziwić nad humorystyczną i dosłowną wizualizacją
[...]. Tekst czytany jest przez kilka osób, dzięki czemu uzyskuje się efekt różnorodności postaci i ich
kondensacji. Symultaniczne występowanie głosu twórców i dźwięków o zabarwieniu wojennym
wywołuje ponownie odczucie dynamiczności, natłoku i chaosu, ale chaosu kontrolowanego i
zamierzonego [...]. Animacja ma znaczenie wyłącznie ludyczne, nie jest zajmująca ani wymagająca
– nie jest konieczne odczytywanie, bo artyści czytają za nas, nie jest wymagana wyobraźnia, bo
dosłowne zaprezentowanie jest wystarczające. Po prostu należy oglądać, jak telewizję czy film, a w
tym przecież każdy odbiorca jest dobry29.
84
Dokonawszy tradycyjnej lektury papierowej postaci tekstu oraz obejrzawszy jego cyfrową
animację30 zachowajmy tę kolejność i zacznijmy analizę od wiersza napisanego.
Marsz Jasieńskiego możemy najlepiej zinterpretować poprzez wyobrażenie, jakie buduje w
nas jego lektura; samo zaś wyobrażenie chciałbym tu rozumieć w duchu Sartrowskim. Wszelkie
podobieństwo między przedmiotem a rzeczywistością unosi się w tym ujęciu pomiędzy „brzegami
28
Adaptacja jest dostępna na stronie: www.twozywo.art.pl/twzw.php?4cy0. O Grupie Twożywo inspirującej się
dokonaniami awangardy z pierwszej połowy XX w. zob. m.in.: https://pl.wikipedia.org/ wiki/Grupa_Two%C5%BCywo;
raster.art.pl/galeria/podprojekty/leichte_arbeit/twozywo.html.
29
www.techsty.art.pl/magazyn/magazyn7/rec/marsz_jasienskiego.html; zobacz też inne jej słowa: „Cyberpoeci to
zrecyklingowani futuryści, to neofuturyści, dla których Sieć, labirynt, baza danych to najbardziej udane ortografie, [w:] śćch.pl/neofuturyzm-czyli-co-ma-jasienski-do-ipada/. Zauważmy, że analizy dokonywane przez Pawlicką pozostają w planie
opisu i nie zmierzają w stronę interpretacji. To „niedokończenie interpretacyjne” jest często zauważalne również w wielu
innych tekstach krytycznych badaczy nowych mediów, tym samym one, jak i tekst Pawlickiej pozostawiają nas z odczuciem
„braku”, niedointerpretowania zastąpionego nadmiarem opisu i dlatego trudno oceniać je w pełni pozytywnie.
30
W tym przypadku należy też zwrócić uwagę na kategorie „szumu”. Sam efekt zakłócenia czy raczej zakłócania przekazu
był oczywiście projektowany przez futurystów i pożądany sam w sobie, niemniej przekaz cyfrowy inaczej niż deklamacja
generuje rozmaite szumu. Na ten temat – patrz: R. Bromboszcz, Estetyka zakłóceń, Poznań 2010. Wielozmysłowość
przekazu wytycza linie rozwojową pomiędzy doświadczeniem futuryzmu a zjawiskiem tzw. liberatury – patrz: A.
Przybyszewska, Liberackość dzieła literackiego (część III), Łódź 2015.
„Na skrzyżowaniu dwóch wrogich epok stoję, cynicznie gryząc papieros”
postrzeżenia, znaku i wyobrażenia, nie przystając do żadnego z nich”31. Możemy (w duchu
wskazanej Sartrowskiej niepełnej tożsamości) zapytać: co przedstawia Marsz? Jaki obraz, jakie
wyobrażenie chce w nas zbudować, jakie buduje i jakie wynikają stąd sensy? Te jakości wiersza, które
w głośnej lekturze pozwalają uzyskać efekty brzmieniowe, podkreślające marszowość utworu, jego
wyczuwalny rytm kolejnych kroków – w lekturze cichej stają się przeszkodą epistemologiczną.
Dla Gastona Bachelarda przeszkodą czy też inaczej barierą epistemologiczną jest wszystko to,
co sprawia, że nasze poznanie staje się nieciągłe, w konsekwencji niespójne. Wśród przejawów
tej bariery można wymienić między innymi: przeszkodę pierwszego doświadczenia przedmiotu,
które to doświadczenie nadbudowuje się nad dalszym poznaniem, przeszkodę językową, kiedy
język sam generuje sensy nieobecne w przedmiocie czy przeszkodę pragmatyczną, związaną z
apriorycznym dowartościowaniem pytania: „do czego to służy?”32 . W tym kontekście wiedza, którą
dysponujemy o marszu (gatunku muzycznym oraz, silniej, przedmiocie kulturowo-społecznym)
zamienia się w odczucie konkretnego doświadczenia, będącego silnym wyobrażeniem – duża
grupa upodobnionych wizualnie osób, podąża w tym samym rytmie, w tym samym kierunku;
obserwowany z zewnątrz ruch jest dynamiczny, naznaczony siłą i pewnością. Odgłos towarzyszący
idącym (stukot butów, muzyka) jest jednolity i płynny. Monolityczność tej grupy podkreślają
gapie uosabiający sobą przypadkowość i doraźność, czego znakiem jest dowolność ich strojów i
zachowań. Jednocześnie obu stronom towarzyszy skupienie uwagi nakierowanej na sam pochód.
Zakłócenia – przykładowo: lot ptaka – są zminimalizowane percepcyjne i tracą na ważności.
Od razu widzimy, że Marsz Jasieńskiego jest utworem (celowo) „chybionym”; wbrew
pozorom nie naśladuje on bowiem marszu, a nasze wyobrażenie napotyka na szereg barier
niszczących zarysowany wyżej obraz. Uzyskany w akcie oralizacji efekt muzyczny (marsza) zostaje
przekreślony grafią – nagromadzenie kropek sprawia, że ruch idących jest w pewnym sensie
niespójny, jakby ich krok co chwilę się rwał i rozpoczynał od nowa. I jeśli w pierwszej chwili
słyszymy kolejne następujące po sobie kroki, a kropki oddzielające kolejne słowa wzmacniają ten
efekt, to po chwili zaczynamy odczuwać ich znaczenie syntaktyczne – są one przecież znakiem
końca i początku, przerwy, postoju, pauzy zakłócającej ruch do przodu. Można odnieść wrażenie,
że idący woleliby stać w miejscu niż marszowo kroczyć przed siebie. Miast być jednolitym
przedmiotem woli i tak ukazywać się gapiom/czytelnikom widzimy zbiór rozsypany: Tutaj. I
tu. I tu. I tam. Maszerujący, wraz z narratorem pragnącym, jedynie pozornie, jak się okazuje,
dać wyraz ich sile i jednorodności, zamiast koncentrować się na demonstrowaniu widzom efektu
spójności, rozpraszają swą uwagę, kierując nieustannie spojrzenie w stronę patrzących – panien
w rajerach, zebranych dam... Nie tylko wzrok, ale i myśl nie chce być marszowa – Skriabin,
który, na prawie rymu, jest złączony konotacją ze słowem karabin, staje się znakiem á rebour,
znakiem antymarszu. Jest to bowiem twórca kojarzony z pacyfistycznym ekspresjonizmem oraz
– co więcej –, z syntezą i synestezją sztuki, nastawionej na łączenie kolorów, zapachów, tańca
etc. czyli z tym, co w marszu jest właśnie zakłóceniem. Dodatkowo ważnym jego dziełem tego
religijnego mistyka uznającego się za „Mesjasza Sztuki” jest Prometeusz – buntownik przeciwko
ustalonemu porządkowi. Nie dziwi nas zatem mocno wyrażone pragnienie ucieczki: Do bram. I
mimo, że okrzyk: Ludzie. Ludzie. Ludzie. Do bram – może mieć podwójne znaczenie, być, po
pierwsze, zachętą, by przybiec i patrzeć na pochód oraz drugie – ukryć się (a wiersz kapitalnie
gra obydwoma sprzecznościami) silniejsze wydaje się to drugie. Co dzieje się w umyśle idących
31
J.P. Sartre, Wyobrażenie. Fenomenologiczna psychologia wyobraźni, tłum. P. Beylin, Warszawa 1970, s. 54.
Zob. G. Bachelard, Kształtowanie się umysłu naukowego, tłum. D. Leszczyński, Gdańsk 2002.
32
85
Paweł Graf
86
nie jest widoczne dla tłumu obserwatorów – naznaczeni epistemologicznymi przeszkodami
widzą jedynie jurnych, zdrowych, silnych jak byki chłopców, których, zgodnie z tradycją, żegna
się płaczem i kwiatami. Są to chryzantemy, chryzantema zaś, zwana też różą jesieni, konotuje w
naszej kulturze śmierć i pogrzeb, inne jej alegoryczne znaczenie to: prawda; symbolizuje też sobą
pragnienie miłości. Nie powinno nas przeto dziwić, że maszerujący pozwolili rzucanym kwiatom
upaść na ziemię, jakby nieświadomie nie chcieli dotykać kwiatów-znaków własnej śmierci. Ich
młodzieńcze miłosne pragnienia, ważniejsze od mitu bohaterskiej śmierci, zostały odczytane
jedynie przez kurtyzanę, która pojawiła się we właściwym miejscu i czasie; naznaczona jednak
społecznym odium, wydaje się ona tłumowi uzurpatorką. Jedynie poeta widzi, że przelicytowała
ona rzucających chryzantemową śmierć tym, którzy oczekiwali miłości. Dla większości patrzących
gapiów te słowa z wiersza fałszywie znaczą coś innego – przelicytowała, czyli przesadziła,
pojawiając się w tak patetycznym momencie. Maszerujący przechodzą w swe nieistnienie, a świat
powraca do przewidywalnej codzienności – tym samym owa codzienność staje się marszowym
upodobnieniem (stały, powtarzalny ciąg zdarzeń), a raczej stałaby się, gdyby nie była rozrywana
przez nieoczekiwane, najlepiej tragiczne, wypadki. Sam marsz też zresztą jest zakłócony w swym
rytmie – w miejsce kropek pojawiają się emocjonalne wykrzykniki oraz dystansujące myślniki i
trzykropki; miara czterotaktowa jest przerywana pięciotaktem; pojawiają się nawet zupełnie obce
poetyce marszu pytajniki. A poeta zauważa kolejne zakłócenie – ktoś poza miejscem i czasem
podnosi pomięty kwiatek... Całkowicie osobny nie wie gdzie iść, pogrążony w żałobie wpatruje
się w liście... I on właśnie koncentruje w sobie sens utworu – Marsz bowiem nie naśladuje marsza
muzycznie ani marszu33 mimetycznie, przeciwnie – jest parodią czy może lepiej powiedzieć ironią
społeczeństwa „zmarszowionego”. Ironią, gdyż jedynym wartościowym wyborem pozostaje porcja
mazagranu wypita w miłym towarzystwie, mazagran jednak nie jest prawdziwym alkoholem –
to kawa z alkoholowym dodatkiem – znak społeczeństwa nieautentycznego, naznaczonego
konwencjonalnymi i fałszywymi obrazami oraz zachowaniami, społeczeństwa, nad którym
słońce świeci mdło. Poeta i jego tekstowy reprezentant, podnoszący zdeptany kwiatek, nie
naśladują społecznych marszowych wyobrażeń, wchodząc tym samym w przestrzeń wolności
postrzeżeniowej, bowiem - to już Sartre – „naśladowca jest kimś zawładniętym przez innego. Być
może, iż tym tłumaczy się idea naśladownictwa w obrzędowych tańcach ludów pierwotnych”34
Ponieważ jednak mamy do czynienia z ironią i autoironią tekstu raz jeszcze posłużmy się Sartrem,
pytającym:
czy można odróżnić wiedzę od ruchu? [...] z naszej wiedzy zdajemy sobie sprawę odgrywając ją,
ściślej mówiąc, wiedza ta, w formie pantomimy, uświadamia sobie samą siebie. Nie ma dwóch
rzeczywistości: wiedzy i ruchów - istnieje tylko jedna: ruch symboliczny [...]. Wiedza uświadamia
sobie samą siebie jedynie w postaci wyobrażenia; świadomość wyobrażająca jest zdegradowaną
świadomością wiedzy35.
Tym samym wiersz kończy się nierozstrzygalnym problematem – jak połączyć w jedno
doświadczenie przeciwstawne sobie ekstatyczne uczestnictwo w marszu oraz rozumiejącą
krytyczną obserwację i samoobserwację?
A jaką wiedzę przynosi nam Marsz multimedialny? Z jednej strony wyraża on ducha
33
Gramatyka pozwala tu różnicować formę muzyczną – marsza, od formy spektaklu ruchowego – marszu.
J.P. Sartre, dz. cyt., s. 62.
35
Tamże, s. 72.
34
„Na skrzyżowaniu dwóch wrogich epok stoję, cynicznie gryząc papieros”
naszych, nolens volens cyfrowych, czasów – oczywiste bowiem wydaje się dziś stwierdzenie Hansa
Beltinga:
Żyjemy z obrazami i rozumiemy świat w obrazach. To życiowe odniesienie do obrazu znajduje swoje
przedłużenie w realizowanej przez nas w przestrzeni społecznej fizycznej produkcji obrazów, która
tak się ma do mentalnych obrazów jak – by użyć prowizorycznego sformułowania – pytanie ma się
do odpowiedzi36.
Niewątpliwie zarysowane wyżej rozpoznania, wynikające z analizy tekstu, zostały w
Marszu cyfrowym w dużym stopniu utracone; w to miejsce lepiej został uchwycony ruch i jego
falowanie (zwolnienia, przyspieszenia, zmiany kierunku). Wiersz medialny w wyrazistszy sposób
ujawnia powtarzalność elementów, z których jest zbudowany. Zmienia się układ brzmieniowy –
w miejsce marsza mamy wiele różnych, przypadkowych niekiedy, rytmów. Jednocześnie oscylacja
pomiędzy powagą i niepowagą, stanowiąca chyba wizualny naddatek w stosunku do postaci
tekstowej, pozwala zachować istotną dla tego utworu ironię i autoironię. Samo medium zmienia
naszą uważność percepcji – skoro w wersji „papierowej” opozycja, również semantyczna, uchooko powodowała subtelne wymykanie się sensu; w wersji multimedialnej widz musi nieustannie
dokonywać rekonstrukcji schematów postaci i rzeczy, pod którymi kryją się słowa – są to jednak
słowa poezji konkretnej, zwracające uwagę swą materialnością nie sensem. Końcowe napisy37
(pojawiające się po cyfrowej adaptacji na wzór napisów ukazujących się po projekcji filmu)
przenoszące nas w płaszczyznę kina sprawiają, że warstwa obrazowo-fabularna dominuje w
odbiorze tego utworu – tym samym uczestnictwo w spektaklu okazuje się ważniejsze od jego
interpretacji i zrozumienia, performatywność staje się istotniejsza od hermeneutyki. Jeśli jednak
w przypadku literatury percypowanej tradycyjnie jej uwikłanie w świat – mimo wszelakich
trudności wyznaczanych słowami: mimesis. referencja, reprezentacja, symulacrum, fikcja – jest
niezbywalne; to w świecie wirtualnym mamy do czynienia – jak twierdzi przykładowo Michał
Ostrowicki – ze sztucznością:
Formowanie medialnego obrazu jakby samym sobą potwierdzało jego sztuczność. Kontekst
technologiczny odwołuje się raczej do siły tworzenia, która przezwycięża materię fizyczną i której
geneza może się odwoływać do innej rzeczywistości niż realność38.
Wirtualność – jak chce Slavoj Žižek – to „tajemnica zdarzenia”39 . Czy słowo sztuczność,
użyte przez Ostrowickiego, jest najlepszym wyborem do opisu medialnego świata - nie wiem;
przekonujące natomiast wydaje mi się twierdzenie, że obrazy kierują nas w stronę świata,
teksty natomiast w stronę samych siebie. Lambert Wiesing – teoretyk obrazu – definiując swój
przedmiot, sięga po metaforę renesansową, zaczerpniętą z pism Albertiego:
Materialny obraz na ścianie przypomina okno, ponieważ oglądający w obydwu przypadkach patrzy
przez medium, nie czyniąc tego medium tematem. Zarówno spojrzenie na obraz, jak spojrzenie przez
okno kieruje uwagę patrzącego na rzeczy i zdarzenia, które nie znajdują się w tej samej przestrzeni.
36
38
39
37
H. Belting, Antropologia obrazu. Szkice do nauki o obrazie, tłum M. Bryl, Kraków 2007, s. 13.
W pewien sposób odpowiednik okładki książki.
M. Ostrowicki, Wirtualne realis. Estetyka w epoce elektroniki, Kraków 2006, s. 45.
Tamże, p. 46.
87
Paweł Graf
Przez okno patrzymy zazwyczaj na zewnątrz domu; za pośrednictwem obrazu postrzegamy obrazobiekt w wyobrażonej przestrzeni. Obrazy i okna pozwalają spojrzeć na coś innego niż na siebie40.
Czy multimedialna postać wiersza, wyrwanie go z papierowego istnienia to zysk czy
przeciwnie, semantyczna i estetyczna strata – to pytanie indywidualne do każdego z nas, na które
odpowiadamy każdorazowo w akcie własnej lektury, preferując jej postać tradycyjną, multimedialną
lub sięgając po obydwie formy. Zresztą, jak pisał, zainspirowany poetyką futuryzmu, Paweł Kozioł,
żyjemy w czasach, w których sens jest rezultatem doskonałego odwrócenia:
Ekran u źródeł, a u ujścia futurystyczny papier, zapełniany tym samym kodem, co namopanik
barwistanu Aleksandra Wata41.
88
40
L. Wiesing, Sztuczna obecność. Studia z filozofii obrazu, tłum. K. Krzemieniowa, Warszawa 2012, s. 113.
P. Kozioł, Druk i światło, cyt. za E. Dąbrowska, Pejzaż stylowy nowej literatury polskiej. Artystyczne języki, formy i gatunki,
Opole 2012, s. 231.
41
„Na skrzyżowaniu dwóch wrogich epok stoję, cynicznie gryząc papieros”
Aneks
Bruno Jasieński
Marsz
Siostrom od św. Samki
Tra-ta-ta-ta-tam. Tra-ta-ta-ta-tam.
Tutaj. I tu. I tu. I tam.
Jeden. Siedm. Czterysta-cztery.
Panie. Na głowach. Mają. Rajery.
Damy. Damy. Tyle tych. Dam.
Tam. Ta. To tu. To tu. To tam.
W willi. Nad morzem. Płacze. Skriabin.
Obcas. Karabin. Obcas. Karabin.
Ludzie. Ludzie. Ludzie. Do bram.
Tra-ta-ta-ta-tam. Tra-ta-ta-ta-tam.
Tam. Tam. Dalej. Za kantem.
Pani. Biała. Z pękiem. Chryzantem.
Pani. Biała. Czekała. W oknie.
Kwiat. Spadł. Kapnie. Na stopnie.
Szli. Szli. Rzędem. Po rzędzie.
Tam. I tam. I dalej. I wszędzie.
Młodzi. Zdrowi. Silni. Jak byki.
Wozy. Wiozły. W kozły. Koszyki.
W tłumie. Dziewczyna. Uliczna. Stała.
Szybko. Podbiegła. Pocałowała.
Ach! Krzyk. Tylko. To jedno.
Kwiaty. W pęku. Na ręku. Więdną.
Wolno. Cicho. Padają. Płatki.
W dół. Na bruk. Na konfederatki.
Eh! Pani. Pani. Biała.
Kurwa. Prosta. Przelicytowała!
Nam. Nam. Dajcie. I nam!
Tra-ta-ta-ta-tam. Tra-ta-ta-ta-tam.
Panie. Panny. Panowie. Konie.
Jedzie. Dzwoni. Auto. W melonie.
Praczki. Szwaczki. Okrzyki. Kwiatki.
— Chodźmy. Panna. Do. Separatki. —
Panna. Płacze: — Idą. Na wojnę.
Takie. Młode. Takie. Przystojne. —
Rzędem. Za rzędem. Z rzędem. Rząd.
Wszyscy. Wszyscy. Wszyscy. Na front.
89
Paweł Graf
Ech by. Było. Młodych. Mam!
Tra-ta-ta-ta-tam. Tra-ta-ta-ta-tam.
Ktoś się. Rozpłakał. Ktoś. Bez czapki.
Liście. Kapią. Jak gęsie. Łapki.
W parku. Żółknie. Gliniany. Heros.
Chłopak. Z redakcji. Pali. Papieros.
Ktoś. Ktoś. Upadł. Nagły. Krwotok.
Ludzie. Ludzie. Skłębienie. Potok.
Co?… Co?… Leży… Krew…
Łapią… Kapią. Liście. Z drzew.
— Puśćcie! Puśćcie! Puśćcie! Ja nieechcę!
Kurz. Kłębem. W zębach. Łechce.
Krzyk. Popłoch. Włosy. Drżą.
Krew… W krwi… Pachnie. Krwią…
Tam. Tam. Poszli. Pobiegły.
Duszno. Pusto. Usta. O cegły.
Tu. I tu. I na rękach. Krew.
Bydło! Dranie! Ścierwy! Psia krew!
Ech tam! Gdzie już. Nam!
Tra-ta-ta-ta-tam. Tra-ta-ta-ta-tam.
90
Poszli. Przeszli. Ile tu. Kobiet.
Panie. Idą. Gotować. Obiad.
Ktoś. W żałobie. Nie wie. Gdzie. Iść.
Stanął. Stoi. Ogląda. Liść.
Podniósł. Z drogi. Pomięty. Kwiatek.
Tyle. Panien. Tyle. Mężatek.
Tyle. Przeszło. Tyle ich. Szło…
Słońce. Świeci. Żółto. I mdło.
Zaraz… Zaraz… Zaraz wam… Zagram…
Panie. W kawiarni. Piją. Mazagran.
Wieczorem. W domach. U Św. Samki.
Przed. Matką Boską. Paliły się. Lampki.
„Na skrzyżowaniu dwóch wrogich epok stoję, cynicznie gryząc papieros”
Abstract
Paweł Graf
“I am standing at the intersection of two hostile eras, cynically chewing my cigarette”. Multimedia projects of futuristic literary works: Bruno
Jasieński’s poem ‘March’ as a case study
The article focuses on the media transformation of literary works. B. Jasieński’s futurist poem Marsz, published in the
interwar period in printed form, recently underwent a multimedia adaptation. The author analyzes the mutations the literary
text underwent in interpretation and significance when expressed in the new creative forms of contemporary multimedia
“language”. The analysis of the formal structure and of several, sometimes small semantic elements, shows the different way of
understanding the poem as expressed through new multimedia means. The futurist poem Marsz has been read as an ironical
poem, totally contradicting its original literal meaning. The second part of the article examines a digital version of the poem,
which again changes its original meaning. At this moment in time, the relationship between the textuality and virtuality of
poetry (and literature in general) constitutes the main space where art “happens” and manifests itself. Thus, the discussion
over the digital version of Jasieński’s poem leads to some general considerations about contemporary theory of image and
its anthropological expressions.
Keywords: Bruno Jasieński, Futurism, digital poetry, new media, inter-semiotic translation
«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», (VII) 7, 2016, pp. 77-91
91
Monika Gurgul
Mount Everest 1924 di Jalu Kurek
1.
I
l libro di Kurek narra una storia realmente accaduta, quella della spedizione britannica
sul Monte Everest organizzata nel 1924 e conclusasi, senza successo, con la morte dei due
scalatori: George Leigh Mallory e Andrew Irvine. Il viaggio degli alpinisti verso l’Asia era
iniziato il primo febbraio dello stesso anno, ma Kurek nel suo racconto parte dalle ultime giornate
di gennaio situandovi due scene di commiato, quella di Mallory con la moglie e quella di Irvine
con la fidanzata. Evocando atmosfere da romanzo d’appendice, punta sulla drammaticità e
sull’inevitabilità esistenziale della loro decisione di affrontare la montagna. La relazione che segue
racconta le tappe dell’itinerario che va da Londra in India e in Tibet, dove il 18 aprile, davanti
agli occhi degli scalatori, compare la Madre dell’Universo1. Il gruppo si installa a Rongbuk ed
è lì che comincia la vera e propria lotta: d’ora in poi il percorso è scandito da raggiungimenti
di quote sempre più alte e dall’allestimento dei campi. La relazione che racconta il procedere
del gruppo s’intreccia con le descrizioni delle condizioni meteorologiche e delle caratteristiche
del terreno. Arrivati all’altezza di 8.169 metri, raggiunta dalla spedizione precedente del 1922,
Norton intraprende il primo attacco alla vetta, ma è costretto ad arrendersi. Il secondo attacco,
di Mallory e Irvine, finisce tragicamente. La spedizione celebra i suoi morti e l’11 giugno si ritira.
In questo momento la narrazione si spacca in due parti. La prima, composta della relazione
riassunta sopra e basata su documenti, sembra essere solo un’introduzione a quella seguente,
più breve, che riprende il secondo attacco da una prospettiva diversa, cioè celebrando i suoi due
protagonisti. Nell’apertura del libro Kurek specifica chi sono i suoi eroi e sottolinea il proprio
rapporto con le loro gesta:
Desidero che, tra i pochi uomini intrepidi affascinati dalle parole magiche: Mount Everest, questi
due siano responsabili nel mio libro di tutto ciò che è successo e che loro due rimangano per sempre
una testimonianza delle straordinarie passioni umane. A loro va tutta la mia ammirazione. Sono
loro che canto.2
Così la relazione riparte il 6 giugno. La “bellissima mattinata” ben presto si trasforma in una
giornata agghiacciante. Il giorno dopo, raggiunta la quota di 8.100 metri, gli scalatori rimandano
1 Il Chomolungma in tibetano.
“Z tych paru nieustraszeńców, których urzekło magiczne słowo: Mount Everest, chcę, ażeby oni dwaj ponieśli w tej
książce odpowiedzialność za to, co się stało, i aby oni zostali na zawsze dokumentem wspaniałych ludzkich namiętności. W
nich złożyłem bezmiar mojego podziwu. To ich sławę opiewam właśnie”. J. Kurek, Mount Everest 1924, Główna Księgarnia
Wojskowa, Warszawa 1933, p. 9. Tutte le traduzioni dal polacco citate in questo articolo sono mie.
2
93
Monika Gurgul
indietro gli ultimi portatori-testimoni dell’ascensione. D’ora in poi tutto ciò che apparirà nel
testo è pura finzione: la crescente debolezza e la disperazione di Irvine provocata da problemi
fisici e coronata da un attacco di pazzia, diverse emorragie e una gamba rotta di Mallory, la sua
tenacia e, alla fine, l’abbraccio della morte. Ma prima che questo avvenga, nonostante le estreme
condizioni dell’ascensione, i due continuano a parlarsi. Mallory, spinto in avanti da una forza
superiore, non perde mai il controllo e trova un modo per incoraggiare il compagno. Non si lascia
sopraffare dalle emozioni, nonostante debba essere commosso giacché, “iniziato al silenzio e alla
saggezza delle vette”3, sta realizzando il suo obiettivo ed è pienamente consapevole di quale sarà il
prezzo da pagare.
Ecco come Kurek s’immagina gli ultimi istanti di vita di Mallory: “Non invocava aiuto.
Piangeva di dolore e di pena – guardiano di un cammino incompiuto, chiuso lì in alto senza
speranza, smarrito totalmente su un sentiero non battuto”4. Nella parte finale dell’opera il narratore
riappare davanti al lettore, mentre si rivolge agli scalatori e alle montagne:
A che cosa paragonare il tuo dolore? Come scrutare il tuo cuore? Come misurare il tuo pensiero
smisurato? [...] Non posso dimenticarvi. Ho cantato un elogio dell’Himalaya e dell’instancabile
genialità dell’uomo. Ho cantato voi, montagne coperte di neve, le più alte montagne del mondo, io
– un amaro cronista della contemporaneità. [...] E ho parlato di voi, magnifici eroi [...] la terra non è
misera se vi ha dato la vita. I nostri cuori sono con voi. Fiorite nella nostra memoria5.
94
e le sue parole diventano un monumento inalzato alla forza spirituale e alla vita fedele a un’idea,
alla nobile lotta contro i propri limiti, a una passione più forte dell’istinto di sopravvivenza.
2.
Il libro piacque al pubblico. Marian Czuchnowski sottolineò il carattere “forte ed
effervescente” di questa prosa6, e diversi decenni dopo Elżbieta Cichla-Czarniawska lo definì
giustamente “un atto artistico e sociale”7. Piacque il suo taglio giornalistico8, il ritmo dinamico,
lo stile sintetico, dovuto tra l’altro all’esperienza poetica dell’autore nell’ambito dell’Avanguardia
Cracoviana. Nel periodo in cui lavorava al libro, Kurek scrisse più volte su «Linia», rivista
d’avanguardia che aveva fondato nel 1931 a Cracovia, dell’importanza di una lingua “suggestiva,
esatta, densa, economica, disciplinata e concisa”9. Le sue osservazioni concernevano la poesia,
nell’ambito della quale non sempre riusciva a realizzare il suo programma teorico, mentre lo
3
“Wtajemniczony w ciszę i mądrość wierzchołków”. Ivi, p. 80.
“Nie wołał ratunku. Płakał z boleści i żalu – strażnik niedokonanej drogi, zamknięty w górze bez nadziei, zagubiony bez
reszty na niewydeptanym szlaku”. Ivi, p. 89.
5
“Z czym porównam twój ból? Jak zbadam twoje serce? Czym zmierzę twoje przepastne myślenie. […] Nie mogę
zapomnieć o was. Śpiewałem pochwałę Himalajów i niezmordowany geniusz człowieka. Was śpiewałem śnieżyste góry,
najwyższe góry ziemi, ja – gorzki kronikarz współczesności. […] I o was mówiłem wspaniali bohaterzy […], ziemia nie jest
marna skoro was urodziła. Sercem jesteśmy przy was. Kwitniecie w naszej pamięci”. Ivi, p. 93.
6 J. Kurek, Mój Kraków, Wydawnictwo Literackie, Kraków 1978, p. 222.
7
E. Cichla-Czarniawska, Heretyk awangardy – Jalu Kurek, Wydawnictwo Lubelskie, Lublin 1987, p. 146.
8 Nel 1933 Kurek era un giornalista maturo. Dall’inizio degli anni ‘20 aveva lavorato per varie testate cracoviane, tra cui «Głos
Narodu» o «Ilustrowany Kurier Codzienny», e tra gli anni 1931-1933 pubblicò cinque numeri della rivista d’avanguardia
«Linia». Queste esperienze lo avvicinarono decisamente sia alla tematica sociale che a quella culturale.
9
J. Kurek, Świadome pisarstwo, in «Linia», 5, 1933, in: Artykuły programowe Awangardy Krakowskiej, II. Julian Przyboś, Jan
4
Mount Everest 1924 di Jalu Kurek
realizzò pienamente nei romanzi reportage dove “la velocità e l’economia”, “l’estetica dell’ordine”
e “una liricità telegrafica”10 organizzarono sia le parti dedicate alla relazione che quelle descrittive.
Il discorso stringato e rigoroso deve molto anche all’interesse di Kurek per il linguaggio
filmico11. Nell’autobiografico Mój Kraków l’autore ricordava che nel processo di scrittura aveva
spesso adoperato uno “sguardo cinematografico” scorgendo nell’arte cinematografica “poesia di
alto rango” e “grandi possibilità formali”12. Infatti, il cinema offriva nuovi modelli compositivi
(tecniche di montaggio, mescolanza di verità e finzione, giustapposizione di diverse tecniche
narrative), invitava ad abbandonare un approfondito background psicologico dei personaggi e
a puntare su una narrazione fredda, concreta e oggettiva. Mount Everest 1924 è costruito sulla
base di questi principi compositivi e Kurek evita a lungo effusioni liriche narrando i fatti in modo
trasparente. Eppure, come nelle poesie e nei romanzi sociali scritti in questo stesso periodo, non
vuole rinunciare totalmente né alla liricità, né al moralismo, presenti quando decide di parlare
direttamente ai propri lettori e di esprimere l’ammirazione per la sublime pazzia, l’immensità di
passione e di eroismo e la genialità tenace. In questi casi non ha nemmeno paura del pathos.
Il coinvolgimento emotivo dell’autore viene trasmesso anche attraverso una forte
sensorialità – considerata un elemento imprescindibile del buon reportage – presente soprattutto
nelle descrizioni della natura. Infatti, dall’inizio la natura è molto presente: affascina gli
esploratori inebriando i loro sensi con “orti di tè e di ananas”, “gigantesche felci alte otto piani,
coperte, nella parte inferiore, di orchidee”, “sconosciuti fiori bianchi che assomigliano a enormi
trombe luccicanti, fosforescenti nel buio e esalanti forti aromi”, “farfalle variopinte”, gazzelle,
rondini, allodole e “fagiani animosi”13. Con il passar del tempo l’esuberanza fiabesca lascia spazio
a paesaggi montuosi: nudi e venati di rupi scoscese e precipizi “freddi e deprimenti” che diventano
minacciosi e preannunziano la catastrofe. Ma anche ora la bellezza delle montagne incanta, mentre
i contatti con la ritualità buddista fanno percepire meglio il carattere spirituale di questi luoghi.
Questo entourage, animato e antropomorfizzato, non si limita quindi a costituire uno
sfondo esotico. Lo spazio assurge a ruolo di simbolo, la natura irrompe nella vita dell’uomo, diventa
un tramite con un’altra dimensione, ma contemporaneamente diventa un “quasi-avversario”14 e
come tale richiede un sacrificio, anche quello supremo. Il dramma viene intensificato dall’aspetto
fisiologico della lotta contro la propria debolezza. Bisogna notare, però, che, considerando lo
sforzo intrapreso in condizioni così estreme, Kurek non lo espone eccessivamente, riservandolo
piuttosto a contesti in cui il materiale s’incontra con lo spirituale.
Brzękowski, Jalu Kurek, Uniwersytet Wrocławski, Wrocław 1977, p. 77.
10
Termini che appaiono in alcuni scritti teorici di Kurek pubblicati su «Linia».
11
Dal 1925 Kurek pubblica su «Głos Narodu» articoli dedicati all’arte cinematografica (sono articoli teorici sul cinema
sperimentale e recensioni di film). Cfr. anche J. Kurek, Mój Kraków, cit., pp. 201-202, sui suoi scritti sul cinema e sul suo
cortometraggio sperimentale.
12
Ivi, p. 200.
13
“Gaje herbaty i ananasów”, “olbrzymie ośmiopiętrowe paprocie obrośnięte z dołu orchideami”, “jakieś nieznane białe kwiaty
o kształtach olbrzymich trąb błyszczały w ciemności, fosforyzując i wydając silną woń”, “wielobarwne motyle”, “nielękliwe
bażanty”. Ivi, pp. 14-15.
14 A. Matuszyk, Humanistyczne podstawy teorii sportów przestrzeni (na przykładzie alpinizmu), AWF Kraków, Kraków 1998,
pp. 14-16.
95
Monika Gurgul
3.
96
Nonostante la buona accoglienza di Mount Everest 1924, non mancarono critiche.
La rivista dedicata all’alpinismo «Taternik»15 sferrò un attacco frontale definendo il testo un
“totale equivoco” e rinfacciando all’autore una “assoluta ignoranza” nel campo dell’alpinismo,
da cui erano scaturiti errori e incongruenze di ogni tipo: l’elenco degli esempi non è lungo, ma
abbraccia varie discipline: geografia, fisiologia, fisica. Il recensore attacca pure il brano in cui si
parla della morte degli scalatori: “Non sappiamo e non sapremo mai come sono andate le cose,
ma di sicuro non così come ha voluto presentarle Kurek. La sua relazione è assurda sia dal punto
di vista oggettivo che da quello psicologico”. Di conseguenza il critico considera il libro “privo di
autenticità e di verità” che “alcune descrizioni gustose non salveranno”.
Un altro attacco arriva da parte di Stanisław Dobrzycki16 che punta sulle somiglianze tra il
testo polacco e le memorie del colonello Edward F. Norton, apparse nel 1927 in francese col titolo
La dernière expédition au Mont Everest. Il testo di Kurek sarebbe quindi “in parte una traduzione
e in parte un adattamento”. Per confermarlo l’autore mette a confronto due frammenti estrapolati
dall’“originale” e dal libro polacco. Infatti, l’unica modifica riguarda la persona del narratore (l’io
nortoniano diventa “lui”). Dobrzycki precisa che gli unici brani la cui proprietà artistica può
essere attribuita a Kurek sono la parte introduttiva (pp. 1-13) e quella dedicata all’ascensione e
alla morte dei due protagonisti (pp. 67-93). Sono gli stessi frammenti contro cui, tra l’altro, si era
scagliato il polemista precedente.
Kurek accetta la sfida di Dobrzycki, difende le sue posizioni e la sua autodifesa fa capire
la complessità della situazione: “Questo romanzo – come spiegava il sottotitolo eliminato in
corso di stampa – è un reportage documentario, il che sottolinea doppiamente il fatto che è
stato composto sulla base di un documento cioè un rapporto ufficiale steso nel 1924 dai membri
della spedizione”17. L’autore conferma di aver utilizzato vari documenti e – considerando il
carattere storico dei fatti narrati – di essere rimasto fedele alle descrizioni di Norton-testimone
oculare. Si considera “obbligato” a essere fedele ai minimi dettagli tecnici concernenti il percorso,
l’organizzazione delle tappe, lo stato di salute degli scalatori. Sottolinea che il suo “reportage
documentario” (nella parte centrale) è apposta privo di “aneddoto letterario” e – concepito come
relazione – sfrutta le precise parole degli alpinisti presenti sul posto. Con ciò difende e sottolinea
l’autenticità della storia. Infatti, il suo testo attinge a piene mani dalla poetica del reportage;
accanto all’autenticità possiede tutta una serie di caratteristiche di questo genere, quali attualità,
prevalenza della relazione sulla descrizione, o la presenza del narratore che manifesta un rapporto
personale con la storia raccontata.
Il reportage, diffuso già negli anni ‘20-‘30 nella pratica giornalistica e teorizzato come
testimonianza autentica, lascia aperta la questione dei limiti della libertà dell’autore e della
soggettività del testo. Lo dimostra la comparsa dei termini reportage narrativo e romanzo
15 J. K. Dor[awski], Jalu Kurek: Mount Everest 1924, in «Taternik», fasc. 2, 1933, p. 46.
St. Dobrzycki Jr, Mount Everest 1924. Do Redaktora „Wiadomości Literackich”, in «Wiadomości Literackie», 37, 1933, p.
6. Dobrzycki, figlio di un professore di letteratura, diventerà professore di matematica e sarà legato all’università di Lublino.
17
J. Kurek, O charakter Mount Everest 1924, in «Wiadomości Literackie», 39, p. 4. La risposta di Kurek comporta un
nuovo attacco da parte del collaboratore di «Taternik», con cui conferma le sue accuse riguardanti l’imprecisione linguistica
dell’autore – frutto dell’ignoranza nel campo dell’alpinismo; di conseguenza “la più autentica delle relazioni approntata in
questo modo perde tutta la sua autenticità”, cfr. «Taternik», fasc. 5-6, 1933, p. 132.
16
Mount Everest 1924 di Jalu Kurek
reportage18, il che lascia presupporre che Kurek considerasse la sua opera un romanzo reportage.
In ogni caso si tratta di un testo di carattere storico19, in cui si raccontano fatti cui l’autore non
ha potuto partecipare, utilizzando di conseguenza testimonianze altrui. In tal caso, però, sarebbe
stato opportuno corredare il testo con l’elenco delle fonti. Invece, nel testo di Kurek non troviamo
riferimenti alle inevitabili letture che hanno preceduto la stesura del libro. Forse si è trattato di
negligenza, superficialità e pigrizia intellettuale? Di poco rispetto per gli autori citati e i lettori?
Forse perché i fatti erano di dominio pubblico? O era un indizio in più che ogni opera letteraria è
in fin dei conti indipendente da tutto il sostrato nonostante ogni gioco intertestuale?20
Kurek, che da tempo sottolinea nel contesto poetico che “bisogna costruire il nuovo”21 anche
in riferimento alla prosa, dimostra una predilezione per il libero intreccio dei fatti e della fiction.
Sensibile alla dimensione sociale della letteratura, con un approccio moralistico ben visibile nei
romanzi scritti in quel periodo, fedele al principio di autenticità, si sente comunque indipendente
dalle esigenze del realismo. Il critico di Kurek ha ragione quando sottolinea l’inverosimiglianza
delle ultime scene di vita di Mallory e Irvine. Non c’è bisogno di conoscere personalmente la
realtà della scalata sull’Himalaya per capire che le conversazioni e le azioni dei due sono poco
credibili. Kurek, però, ostenta questa inverosimiglianza, perché in realtà nel suo “romanzo”
si sovrappongono un reportage-documento (che gli permette di lavorare vicino alle fonti e, di
conseguenza, citare interi frammenti di testimonianze dirette senza apportare modifiche) e un
inno alla grandezza dell’uomo. L’autore è consapevole di questa fusione, per esempio quando
sottolinea la straordinarietà della situazione rivolgendosi ai lettori:
Perdonatemi, lettori – gli alpinisti non possono parlare mentre s’arrampicano. Lo so. Più in alto si
trovano, meno parlano. A queste altezze terribili, dove aspirare una boccata d’aria diventa uno sforzo
enorme, e fare un passo è un travaglio fisico, non è possibile parlare. Ma come faccio a descrivervi
questa immensità di passione e di eroismo, se non li faccio parlare? Lasciateli parlare allora22.
Nella dedica che apre il volume leggiamo:
Dedico questa descrizione della lotta dell’uomo alle nuove generazioni, che si allontanano dalla
letteratura, perché conoscano il valore delle grandi gesta. Non è un romanzo sulla montagna. Fate
18
Il reportage e il romanzo reportage sono discussi sulla stampa, cfr. A. Wat, Reportaż, in «Miesięcznik Literacki», 7,
1930, pp. 330-334; M. Promiński, Powieść i nowela reportażowa, in «Skamander», fasc. 58, 1935, pp. 151-153. Cfr. anche
I. Adamczewska, Powieść reportażowa czy dziennikarska? Uwagi o międzywojennej twórczości prozatorskiej Jalu Kurka, in «Acta
Universitatis Lodziensis. Folia Litteraria Polonica», 28 (2), 2015, pp. 263-282.
19
Il carattere storico del reportage potrebbe essere un motivo in più per cui la relazione del viaggio è così sintetica. Essere
fedeli al vero senza aver partecipato agli eventi probabilmente non rende prolissi. Lo stesso motivo può aver determinato la
scelta di una narrazione condotta al passato, evitando il praesens historicus e la sua capacità di rendere il discorso più dinamico
ed emozionante per il lettore.
20
Nel corso della polemica nata in seguito alla pubblicazione del romanzo di Kurek Grypa szaleje w Naprawie [L’influenza
infierisce a Naprawa, 1934] lo scrittore ribadisce: “La verità si sublima inavvertitamente con i fatti nudi […]. Non riproduco,
ma creo”. J. Kurek, Wiersze dla parobków, in «Wiadomości Literackie», 20, 1935, p. 6.
21
J. Kurek, Świadome pisarstwo, in «Linia», 5, 1933, ora in: Artykuły programowe Awangardy Krakowskiej, cit., p. 77.
22
“Darujcie mi, czytelnicy – alpiniści nie mogą mówić podczas marszu w górę. Wiem o tym. Im wyżej idą, tym mniej
mówią. Na tych straszliwych wysokościach gdzie zaczerpnięcie oddechu jest niezwykłym wysiłkiem, a uczynienie kroku –
męką fizyczną, mowa jest niemożliwa. Ale jakże opiszę wam ten bezmiar namiętności i bohaterstwa, jeśli zamknę im usta?
Pozwólcie im mówić”. J. Kurek, Mount Everest, cit., p. 71.
97
Monika Gurgul
attenzione alle non frequentate colline di eroismo che vi appaiono davanti. È per voi che semplifico
la realtà23.
Il fatto è che la realtà Kurek non solo la semplifica, ma soprattutto l’idealizza. In questo libro
troveremo la forza e la nobiltà d’animo oppure lo spirito di collaborazione e di solidarietà, non
vi troveremo invece né rivalità, né scoraggiamento, né dubbio, né tantomeno timore o rancore. Il
materiale documentario fu attentamente selezionato e ne nacque un testo fortemente soggettivo e
ideologizzato che, comunque, continua a situarsi nell’ambito del romanzo reportage24 , cucito di
stilistiche diverse e distanti tra loro.
4.
Negli anni ‘20-‘30 del Novecento la letteratura alpinistica si sviluppava in modo
spettacolare: venivano pubblicati libri-documenti, fiction e saggistica, scritti sia dagli stessi
alpinisti che da osservatori del fenomeno. Nella produzione letteraria di Kurek Mount Everest
1924 fu considerato “un intermezzo nella sua attività letteraria postbellica”25. Perciò vale la pena
chiedersi quali cause, accanto alla moda editoriale, condussero l’autore a dedicarsi all’argomento.
Lui stesso rende più facile la risposta. Sulle pagine di Mój Kraków, ritornando all’infanzia
e alla prima giovinezza, constata apertamente:
A scuola scalavamo sempre più in alto, mentre i nostri genitori invecchiavano. Finalmente, dopo un
periodo di faticoso strascicare al buio, ci siamo inerpicati verso un chiarore. Dal basso verso l’aria,
lo spazio e il sole davanti agli occhi. Credo che ciò costituisse l’essenza della mia vita sia in senso
concreto che in quello metaforico: arrampicarsi. Forse da lì, chissà, nacque l’amore per i Tatra. [...]
Mi sento continuamente attratto dalle montagne, proprio perché vengo dal basso26.
98
Kurek non fu l’unico ad associare l’idea dell’alpinismo con l’ascesa sociale. Dopo la Prima
guerra mondiale molti giovani, frustrati nelle loro aspettative sociali, “fuggivano in montagna per
realizzarvi i propri desideri”27. Ma in questo caso fu senz’altro determinante la personalità dello
scrittore, in cui il rapporto molto intimo con le montagne svolse un ruolo importante – sia nella
sua vita che in tutto l’ulteriore percorso letterario28. In Mój Kraków scrisse:
23
“Poświęcam ten opis człowieczych zmagań młodemu pokoleniu, oddalającemu się od literatury, aby poznało wartość
wielkich czynów. To nie jest powieść o górach. Zwróćcie uwagę na niewydeptane wzgórza bohaterstwa, rosnące przed
waszymi krokami. Dla was upraszczam rzeczywistość”. Ivi, p. 7.
24
Nel 1930 Wat dedica a questo aspetto del reportage un intero testo, Reportaż, citato nella nota 19, concentrandosi
comunque su contesti strettamente politici. Cfr. anche Z. Bauer, Problem intermedialności reportażu międzywojennego, in:
Reportaż w dwudziestoleciu międzywojennym, a cura di K. Stępnik, M. Piechota, Wydawnictwo UMCS, Lublin 2004, pp. 44.
25
E. Cichla-Czarniawska, op. cit., p. 68.
26
“Wspinaliśmy się w szkołach coraz wyżej, rodzicom coraz bardziej siwiały włosy. Nareszcie po mozolnym okresie pełzania
w ciemności wydrapaliśmy się na jasność. Z dołu na pierwsze piętro, na front opłynięty powietrzem. Przestrzeń i słońce przed
oczami. Chyba to było istotną treścią mojego życia w sensie zarówno konkretnym, jak i metaforycznym: wspinać się do góry.
Może i stąd, kto wie – poszło ukochanie Tatr. […] Dlatego mnie ciągnie w góry, że pochodzę z dołu”. J. Kurek, Mój Kraków,
cit., p. 43. Tralascio l’aspetto archetipico dell’ascensione valutato tradizionalmente come esperienza positiva.
27
Cfr. E. Roszkowska, Alpinizm europejski 1919-1939. Ludzie–tendencje–osiągnięcia, AWF Kraków, Kraków 2007, p. 78.
28
Kurek, alpinista amatoriale, rimase fedele al tema montano per lunghi decenni, riproponendolo in vari volumi di poesie:
Wiersze wybrane (1956), Strumień goryczy (1957), Posągi z wiatru (1966), Wysoka Gierlachowska (1970), Ludowa lutnia (1975),
Boże mojego serca (1983), Najkamienniejsze; Wiersze tatrzańskie (1984), nelle prose: Janosik (1945), Księga Tatr (1955), Księga
Mount Everest 1924 di Jalu Kurek
Non ho mai rispecchiato nelle mie opere emozioni né esperienze personali nate dal contatto
con le montagne. I Tatra costituiscono una delle passioni più profonde della mia vita. Sono cose
tanto intime da provare vergogna; tanto private che sarebbe un’indelicatezza renderle oggetto di
narrazione in una forma o in un’altra. In tal caso sarebbero senz’altro deformate e svalutate, esposte
sulla superficie della letteratura e screditate. Le passioni personali non si dovrebbero riprodurre ed
esibire [...]. Percorsi i Tatra in lungo e in largo, cosa che hanno fatto pochi, e ogni volta di fronte
alle montagne provo una gioia grande e disinteressata. [...] L’alpinismo non ce l’hai nelle gambe,
ma nel cuore. […] È questa l’essenza dell’alpinismo, che solo in parte è uno sport, e in parte – quella
più importante – è una passione profondamente radicata nella sfera psichica. Per questo motivo
sono in conflitto con alcuni alpinisti polacchi della mia generazione che accuso di una consapevole
degenerazione dell’alpinismo che li conduce verso la mania del primato, l’acrobazia e il circo29.
La citazione mette in evidenza due aspetti. Primo, il bisogno di rimanere vicino alla propria
passione scrivendone comunque in modo universale, senza esibizionismo emozionale; secondo,
il bisogno di prendere posizione di fronte alle polemiche sullo sviluppo dell’alpinismo. Nella
rivalità tra l’alpinismo classico (legato al desiderio di contatto con la natura e di crescita spirituale)
e quello eroico (intrappolato nella filosofia del primato, nell’autodisciplina e l’autoperfezione,
nella rivalità e il desiderio di riconoscenza)30 Kurek evidentemente si schiera dalla parte del primo.
Mount Everest 1924 fu composto in occasione dei giochi olimpici del 1932 di Los Angeles31
e il contesto di promozione dell’idea dell’olimpismo (vicina agli ideali “romantici” dell’autore)
costituì un’idonea cornice per il suo discorso. Ma considerando il contesto generale in cui si
trovava allora l’alpinismo, il discorso di Kurek sembra muoversi controcorrente: l’alpinismo era
stato riconosciuto come disciplina sportiva generando altri valori, e nell’ambiente degli scalatori
si parlava ormai apertamente del bisogno di rinunciare alle vecchie mitologie, di decostruire il
discorso “romantico” considerato genuino e, di conseguenza, falso. In questo dibattito il libro di
Kurek si situa come una voce sorpassata che cerca di difendere l’indifendibile.
5.
Quando Jalu Kurek si accingeva a scrivere Mount Everest 1924, l’alpinismo, con diversi
suoi condizionamenti, s’era inscritto perfettamente nel complesso clima del Modernismo in cui,
accanto alle filosofie vitalistiche, che promuovevano la forza di volontà dell’uomo, si sentivano
Tatr wtóra (1978), Uważaj, żmija (1965), Świnia Skała (1970) e in numerosi articoli giornalistici di taglio diverso. In vari testi
ritorna il tentativo di mitizzare le montagne.
29
“Nigdy też nie odbiłem w twórczości osobistych wzruszeń i doznań tatrzańskich. Tatry stanowią jedną z najgłębszych pasji
mojego życia. Albowiem są to sprawy tak intymnie bliskie i ściśle wewnętrzne, że aż wstydliwe; tak bezwzględnie prywatne,
że byłoby nietaktem czynić je obiektem opisu w tej czy innej formie. Musiałyby poza tym z pewnością ulec zniekształceniu,
zdeprecjonowaniu; wywleczone na powierzchnię literatury – zostałyby skalane. Namiętności osobistej nie godzi się
odtwarzać, poddawać ekshibicjonizmowi. […] Schodziłem Tatry niemal doszczętnie, co jest chyba udziałem niewielu, a za
każdym razem przeżywam w obliczu gór radość bezinteresowną i ogromną. […] Taternictwo siedzi nie w nogach, lecz w sercu
[…]. Oto istota taternictwa, które w połowie tylko jest sportem, zaś z drugiej – ważniejszej – namiętnością drążącą głęboko w
sferę psychiczną. Na tym tle jestem poróżniony całkowicie z niektórymi taternikami mojego pokolenia, których oskarżam
o świadomą degenerację taternictwa w kierunku rekordomanii, akrobatyki i cyrku”. J. Kurek, Mój Kraków, cit., pp. 258-259.
30
Cfr. E. Roszkowska, op. cit., p. 258.
31
Il testo si trovò tra i cinque lavori premiati al concorso preolimpico polacco bandito dal Ministero della Religione e della
Pubblica Istruzione per celebrare l’evento.
99
Monika Gurgul
100
toni crepuscolari e catastrofici.
Come forma di atteggiamento positivo, nel paesaggio culturale europeo l’alpinismo
stava diventando un fenomeno che superava di gran lunga l’ambito puramente sportivo.
Nato nell’Ottocento dall’inquietudine britannica di conoscere e dall’indomabile desiderio
di conquistare nuovi obiettivi, all’inizio del Novecento aveva fatto un salto di qualità e, con
l’aumentare dei vari nazionalismi europei, stava diventando simbolo di prestigio nazionale32,
destando negli alpinisti orgoglio e soddisfazione, in crescita grazie alle sponsorizzazioni ufficiali e
all’introduzione di onorificenze nazionali e medaglie come segno di riconoscimento. L’alpinismo,
come altre discipline sportive (o forse più di esse), si collocava pienamente nell’ideologia della
conquista, il cui obiettivo era la creazione dell’uomo nuovo – oggetto dei dibattiti dei nazionalisti,
gli entusiasti di Nietzsche, i seguaci del pragmatismo o gli estimatori delle correnti occultistiche
del tempo. L’uomo nuovo doveva essere attivo e determinato, consapevole della propria potenza,
dedito all’idea della Patria. Kurek, sensibile ai richiami del patriottismo (evidente anche nella
dedica sopraccitata), senza dubbio non rimase indifferente di fronte a questa dimensione
dell’alpinismo.
Su queste idee era stato fondato anche il movimento futurista italiano, che il giovane poeta
aveva promosso in Polonia e con cui aveva avuto contatti durante il suo soggiorno in Italia negli anni
‘20. Ma proprio l’analisi del discorso artistico del futurismo fa vedere che l’apologia della volontà
e l’entusiastico sguardo verso il futuro hanno l’intento di bilanciare il clima decadente, radicato
nella cultura europea del primo Novecento, da cui non sono liberi neanche gli stessi futuristi33. I
toni crepuscolari apparvero più volte nelle opere di Kurek negli anni ‘20-‘3034, dimostrando una
chiara inclinazione verso una visione del mondo più complessa e dolorosa, e spiegando in un certo
senso un suo incompleto immedesimarsi con i postulati teorici dell’Avanguardia Cracoviana, cui
volle legare le sue sorti artistiche all’epoca, superato il periodo futurista.
Una simile incrinatura apparve evidente nell’idea dell’alpinismo in cui la lotta contro le
forze naturali e l’intensità di esperienze estreme comportano un rischio continuo di morte. Nella
pubblicistica del tempo si sentono voci come questa:
Tutti questi ragazzi che sprizzano energia, dubitano, senza saperlo naturalmente, della vita odierna e
delle loro possibilità. Sembrano avere troppe forze, troppa vitalità animalesca che vuole manifestarsi,
vuole vivere. Ma in fondo all’anima si nasconde la morte che desidera l’autodistruzione. Questa
scalata che possiamo osservare è l’effetto di una lotta invisibile di questa personalità divisa. Cercano
32
Negli anni ‘20 e ‘30 in vari Paesi (non solo quelli in cui si sviluppavano regimi totalitari) l’alpinismo e le idee ad esso legate
si utilizzavano a scopo propagandistico e in Italia venne addirittura subordinato agli obiettivi militari: agli alpinisti fu affidato
il compito di addestrare gli alpini, destinati a svolgere attività militari sul terreno montuoso. Cfr. E. Roszkowska, op. cit.,
pp. 47-100.
33
Il mainstream futurista deve essere trattato come espressione del programma positivo, ma nello stesso tempo il timore
e la diffidenza nei confronti del mondo moderno, tipici del decadentismo, sono facilmente riscontrabili per es. nella
drammaturgia futurista, cfr. M. Gurgul, W drodze do gwiazd. O teatrze i dramacie włoskiego futuryzmu, Wydawnictwo
Uniwersytetu Jagiellońskiego, Kraków 2009.
34
Cfr. per es. i romanzi scritti da Kurek negli anni ‘20: in Kim był Andrzej Panik? Andrzej Panik zamordował Amundsena e SOS
si notano ansia e inquietudine esistenziale, opposizione e contrasto tra civiltà e natura e un evidente timore nei confronti della
nuova realtà industrializzata e urbana corredato da immagini tetre e brutali. Questo rapporto con la realtà frutterà una liricità
sempre più drammatica in poesia, per es. nel volume Mohiganges.
Mount Everest 1924 di Jalu Kurek
la morte e non lo sanno – continuano a lottare per la vita senza credere di farcela. Affascinati dalle
ette e dalla vittoria [...] sono pronti a cadere e morire35.
In effetti, analizzando il problema nello spirito della teoria dei giochi, esposta da Roger
Caillois nel libro Les jeux et les hommes, non è possibile prescindere, nell’analisi delle esperienze
spaziali dell’alpinista, dalla presenza delle categorie quali ilinx (la vertigine, vista come una forma
di autoprovocazione di fronte al rischio, che porta sull’orlo della trasgressione) e alea (l’azzardo,
un abbandonarsi passivo alla sorte).
In un’apostrofe alle montagne in Mój Kraków Kurek scrisse: “Un professore di geografia
vedrà in voi una struttura verticale del terreno, e io ci vedo un mondo che mi tormenta di notte,
per cui vale la pena morire”36. In Mount Everest 1924 il carattere crepuscolare del discorso
si manifesta inevitabilmente nei momenti in cui il cammino terrestre dei due scalatori sta per
finire, ma una sorta di presentimento, un soffio agghiacciante li accompagna per tutto il viaggio.
La morte s’avvicina gradualmente37. La natura affascina, attirando in trappola (“Il sole scottava.
Si faceva sentire un venticello proveniente dall’est, tiepido e delicato. Il ghiacciaio prendeva le
forme più fantasiose. E da tanto che aveva smesso di essere un bosco; ora era una città. Possedeva
chiese grandiose, torri di cristallo e altri miracoli di ghiaccio”, mentre “il ghiaccio era scivoloso e
nascondeva crepacci insidiosi”38), e alla fine reclama le vite dei giovani temerari:
Andavano avanti con la forza delle gambe, delle mani, dei polmoni e del cuore. Sconfiggevano le
montagne con il pensiero, l’ambizione, la volontà, la nostalgia – con lo spirito. [...] Si muovevano
quasi carponi aggrappandosi alle pietre e soccorrendo in questo modo le gambe vacillanti. Così
viaggiavano le due anime verso Dio tra le più pure illuminazioni e l’estasi. Era un viaggio verso la
grandezza dell’uomo39.
35
“Wszyscy ci tryskający siłą chłopcy są – oni o tym naturalnie nie wiedzą – ludźmi wątpiącymi w dzisiejsze życie i jego
możliwości. Mają jakby za wiele siły, zwierzęcej witalności, która chce się przebić, chce żyć. Ale w głębi duszy drzemie śmierć,
która chce samounicestwienia. Ta widoczna dla nas wspinaczka jest efektem niewidocznej walki tej podzielonej osobowości.
Szukają śmierci, nie wiedzą o tym – walczą wciąż, zrezygnowani, o życie… Rozkoszują się szczytem i zwycięstwem… i są
gotowi spaść i umrzeć”. H. Hoek, Das „Warum” des Alpinismus, in «Bergsteiger», 1933, p. 1-2 (cit. in: E. Roszkowska,
op. cit., p. 97).
36
“Profesor geografii zobaczy w was tzw. ukształtowanie pionowe, a ja widzę świat męczący mnie po nocach, dla którego
warto zginąć”. J. Kurek, Mount Everest, cit., p. 93.
37
“L’itinerario che partiva dal campo III su Czang La era una delle tappe più difficili di tutte le spedizioni. Mallory, che non
lo stava percorrendo per la prima volta, si fermava ogni tanto origliando il muoversi della neve. Proprio lì, nel 1922, erano stati
travolti dalla valanga che aveva ucciso i sette portatori”. (Droga z obozu III na Czang La była jednym z najcięższych etapów
wszystkich wypraw. Mallory, który szedł tędy nie po raz pierwszy, zatrzymywał się co chwilę, nasłuchując ruchu śniegów.
Na tym bowiem odcinku w r. 1922 zmiotła ich lawina, która zabiła siedmiu kulisów, p. 30); a questo evento Kurek ritorna a
pp. 34-35. “La notte era terribile. Il vento sbatacchiava le tende, infuriava tirando neve dentro. All’una di notte la furia della
bufera raggiunse il suo apice. Gli alpinisti videro la morte negli occhi. Eppure resistettero”. (Noc była okropna. Wiatr trząsł
namiotami, zawiewał zimnym śniegiem do środka. O 1-ej w nocy wściekłość żywiołu osiągnęła swój szczyt; śmierć zaglądała
w oczy alpinistom. Mimo to przetrwali, p. 51).
38
“Słońce dogrzewało mocno. Zawiewał lekko wiatr wschodni, ciepły i delikatny. W drodze lodowiec przybierał
najfantastyczniejsze kształty. Już dawno przestał być lasem; był miastem. Posiadał wspaniałe kościoły, wieże krystaliczne i inne
cuda lodowe”. “Lód był śliski i krył w sobie zdradzieckie rozpadliny”. Ivi, p. 26 e p. 30.
39
“Posuwali się nogami, rękami, płucami, sercem – ciałem. Pokonywali górę myślą, ambicją, wolą, tęsknotą – duchem”. “Szli
niemal na czworakach, czepiając się rękami kamieni i wspomagając chwiejące się nogi. Tak wędrowały dwie dusze do Boga na
granicy najczystszych olśnień i zachwytów. Była to podróż ludzkiej wzniosłości”. IVI, p. 79 e p. 86.
101
Monika Gurgul
La morte è un motivo decadente, ma la morte per un’idea è tutta un’altra cosa. La
sovrapposizione delle due idee fa toccare l’essenza del Modernismo, costruito sia dalle immagini
della straordinarietà del superuomo che da quelle della debolezza dell’individuo inerme di fronte
all’orrore esistenziale.
6.
Considerando tutto ciò pare che il libro possa essere considerato solo apparentemente “un
intermezzo” nel percorso letterario di Kurek. A pensarci bene sembra piuttosto un suo elemento
necessario. Con quest’opera Kurek realizza una serie di bisogni personali, si inscrive nel complesso
clima del Modernismo, sperimenta con lo stile e con la lingua cercando una forma d’espressione
originale tra fiction e non fiction. E ancora dopo vent’anni sentirà il desiderio di tornare a questo
tipo di esperienza artistica misurandosi con un tema simile: nel 1953 verrà pubblicato Węzeł
Garmo, dove l’autore presenterà le sorti della spedizione russa intrapresa nel 1933 sulle montagne
del Pamir, in cui i lettori ritroveranno inevitabilmente echi del Mount Everest 1924.
Abstract
102
Monika Gurgul
Mount Everest 1924 by Jalu Kurek
The article is devoted to the non-fiction novel by Jalu Kurek Mount Everest 1924 published in 1933. We argue against the
point of view expressed by critics who claimed that this book has to be seen only as a kind of “intermezzo” in the writer’s
career. The book’s various aspects are connected with contemporary market trends, formal experiments, specific topics (the
passion for climbing and the position taken in the discussion about the future of Alpinism) and ideological contexts (the
fundamental aporias of modernism: faith in progress and in the post-Nietzschean new man versus existential anxiety of an
attentive observer of the world). All this makes it an important element of the artistic journey of this Cracovian poet and
prose writer.
Keywords: Jalu Kurek, Mount Everest, alpinism, reportage, non-fiction novel, modernism
«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», (VII) 7, 2016, pp. 93-102
Emiliano Ranocchi
Manifesti del futurismo polacco
L
a presente raccolta è stata pensata in primo luogo per permettere al lettore non padrone della
lingua polacca di accostarsi ai principali testi teorici del futurismo polacco. Essa implica
però anche qualche riflessione di carattere teorico e critico-letterario. Già sull’aggettivo
“teorici” occorre operare delle distinzioni. Ormai da qualche decennio è in atto una riflessione
approfondita, volta a determinare se il manifesto vada o meno considerato un genere letterario
autonomo e, in caso di risposta positiva, indicare i tratti peculiari e irrinunciabili che lo descrivono.
Il problema del manifesto, infatti, è la sua sostanza ibrida, in bilico tra letteratura e azione, che
ha portato alcuni studiosi1 a descriverlo facendo uso della teoria degli atti linguistici di John L.
Austin2, trasportando così un genere, fino a quel momento visto perlopiù come teorico e pertanto
analizzato in termini di semantica, nell’orbita della pragmatica. In quest’ultima, com’è noto,
l’interpretazione dell’atto linguistico è inseparabile dal suo contesto e una funzione fondamentale
viene attribuita alla categoria dell’intenzionalità. Secondo questa linea di ricerca nella definizione
di manifesto non potrebbe mancare la funzione pragmatica di “comunicare delle intenzioni”3. Il
manifesto dunque, definito tale in virtù del suo carattere illocutivo, perde la sua determinatezza
formale in termini di teoria tradizionale dei generi letterari, dal momento che qualsivoglia testo
può essere definito manifesto se comunica delle intenzioni. Peraltro una definizione del manifesto
che prenda le mosse dal suo carattere di atto performativo è andata incontro da subito a una serie
di difficoltà per via del carattere razionale che quella stessa performatività riveste nella teoria di
Austin. Una performatività così concepita non appare adeguata a descrivere testi letterari che
spesso giocano consapevolmente con la categoria di intenzionalità, quando non la rifiutano del
tutto, come accade con i manifesti dadaisti (nella nostra raccolta è il caso del primo manifesto
del futurismo di Varsavia, I primitivisti alle nazioni del mondo, contenuto nell’almanacco Gga).
È d’altronde indubbiamente vero che in quest’ultimo caso i fautori dell’ermeneutica in chiave
intenzionale possono comunque leggere l’anti-intenzionalità dei manifesti dadaisti come una
intenzionalità à rebours (anche dare ad intendere di non avere intenzioni da comunicare è una
comunicazione di intenzioni).
Nella critica alla definizione del manifesto in categorie pragmatiche ha portato un contributo
fondamentale il dibattito iniziato dalla scuola poststrutturalista, in particolare da Jacques Derrida,
1
L. Somigli, Legitimizing the Artist. Manifesto Writing and European Modernism, 1885-1915, University of Toronto Press,
Toronto 2003; Martin Puchner, Poetry of the Revolution. Marx, Manifestos and the Avant-gardes, Princeton University Press,
Princeton Oxford 2006; B. Wagner, Auslöschen, vernichten, gründen, schaffen. Zu den performativen Funktionen der Manifeste,
in: Die ganze Welt ist eine Manifestation. Die Europäische Avantgarde und ihre Manifeste, a cura di Wolfgang Asholt e Walter
Fähnders, WBG, Darmstadt 1997, pp. 39-57.
2
J.L. Austin, How to Do Things with Words, Harvard University Press, Cambridge 1975.
3
W. Asholt, Intentionale Strategien in futuristischen, dadaistischen und surrealistischen Manifesten, in: Manifeste: Intentionalität, a
cura di H. van den Berg e R. Grüttemeier, Rodopi, Amsterdam-Atlanta 1998, p. 17.
103
Emiliano Ranocchi
104
che ha posto in discussione i presupposti della teoria di Austin, mettendo in evidenza il ruolo
“costruttivo” di ogni analisi pragmatica. Quest’ultima, piuttosto che mettere in luce le intenzioni
obiettivamente inerenti a un determinato atto linguistico, non farebbe che riattivarle, non sarebbe
dunque mai esterna al testo analizzato. La critica che si è occupata dei manifesti tuttavia, salvo
qualche caso marginale, non sembra aver tenuto in gran conto questa discussione e tende a
tutt’ora a prendere sul serio l’intenzionalità del manifesto d’avanguardia e pertanto a interpretarlo
facendo uso, in maniera più o meno rigida, delle categorie mutuate dalla teoria di Austin e dei
suoi seguaci. In questo modo, come fa notare Hjartarson, “tutti gli aspetti irrazionali, ludici e
mitografici che sono parte costitutiva della retorica delle avanguardie e travalicano la cornice
teorica di una interpretazione fondata sull’analisi linguistica, scompaiono dalla vista” o quanto
meno “possono assumere solo una posizione marginale all’interno di una definizione pragmatica
del genere manifesto”4. Sintomatica a questo proposito è stata la sottovalutazione da parte della
critica polacca del primo manifesto del futurismo di Varsavia proprio come atto performativo. Fin
dal suo apparire, infatti, è stata ripetutamente messa in evidenza la sua scarsa originalità, la sua
contraddittorietà e la nebulosità dei suoi intenti. Ciò ha paradossalmente impedito di cogliere
che il valore performativo di questo manifesto, a differenza dei successivi manifesti di Jasieński,
stava proprio nella sua anti-intenzionalità, e dunque la sua valutazione in termini di originalità
e coerenza di contenuti va considerata un malinteso5. La poetica di Prymitywiści do narodów
świata i do Polski infatti non è quella del manifesto futurista, alla quale possono essere ricollegati
i manifesti di Jasieński, bensì quella dell’antimanifesto dadaista (cosa peraltro colta dalla critica,
senza tuttavia trarne le dovute conclusioni).
Non è nostra intenzione in questa sede (né sarebbe probabilmente opportuno in
generale) cercare di superare la dicotomia tra manifesto come testo secondario il cui scopo è
quello di spiegare al pubblico le intenzioni dell’autore o del gruppo che rappresenta, quando
queste siano reputate come non più intelligibili o direttamente ricavabili dall’operato artistico,
e manifesto come genere letterario autonomo e parificato ad altri consacrati dalla tradizione.
Una lunga tradizione editoriale convalidata, se non addirittura iniziata, dal futurismo italiano
ha imposto ormai da un secolo al pubblico dei lettori una lettura parallela dei manifesti e delle
opere poetiche e narrative, consacrando l’autoriflessione a elemento costitutivo del discorso
estetico del modernismo. Va inoltre ricordato che, se gli enunciati performativi contenuti in
una parte considerevole dei manifesti delle prime avanguardie vanno giustamente individuati e
analizzati, nella maggior parte dei casi sarebbe ingenuo e fuorviante attribuire loro una valenza
politica, ovvero prenderli alla lettera come espressioni di intenti immediatamente realizzabili
nella realtà. La poetica della metafora, ingrediente costitutivo del genere manifesto alla pari di
altri generi letterari, a dispetto di tutte le dichiarazioni in esso contenute, ne sposta di nuovo il
campo d’appartenenza verso la letteratura. Del resto il flirt del manifesto artistico con la politica
è all’origine stessa del manifesto come genere letterario, dal momento che esso fin dagli esordi
della sua storia come genere autonomo (nella seconda metà dell’Ottocento) prende a modello
il manifesto politico (un esempio straordinario di pastiche stilistico basato sui proclami politici
sono il Manifesto al popolo polacco in relazione a un’immediata futurizzazione della vita e il
Manifesto della poesia futurista che qui pubblichiamo in traduzione).
4
B. Hjartarson, Visionen des Neuen. Eine diskurshistorische Analyse des frühen avantgardistischen Manifests, Winter Verlag,
Heidelberg 2013, p. 27.
5
Cfr. A. Lam, Polska awangarda poetycka. Programy lat 1917-1923, t. 1, Wydawnictwo Literackie, Kraków 1969, p. 167.
Manifesti del futurismo polacco
Ed è proprio la natura anfibia del manifesto tra letteratura e impegno politico una delle
aporie più interessanti della breve parabola del futurismo polacco, riscontrabile pienamente già
nei testi che qui mettiamo per la prima volta a disposizione del lettore italiano. Per questo motivo
includiamo non solo i primi manifesti propriamente detti, cioè quelli che si autodefiniscono come
tali, pubblicati nell’almanacco Gga e nella prima Jednodńuwka, e l’ultimo, molto meno noto,
pubblicato nel primo e ultimo numero di «Awangarda» (1924), ma anche un testo autoriflessivo
di fondamentale rilevanza per la comprensione dell’immagine che l’ideologo del movimento,
Bruno Jasieński, aveva dello stesso, ovvero il vasto articolo pubblicato nel sesto numero di
«Zwrotnica» del 1923 e intitolato Il futurismo polacco (un bilancio), nel quale Jasieński spiegava
ai lettori perché il futurismo polacco fosse finito. Con qualche semplificazione si può dire che il
futurismo polacco finisca nel momento in cui la metafora cessa di soddisfare Jasieński come arma
politica. Di questa svolta è testimonianza significativa l’introduzione alla raccolta poetica di Stern
e Jasieński del 1924, recante un titolo che non lasciava dubbi quanto alla direzione politica che
gli ex futuristi avevano intrapreso, La terra a sinistra. In fondo proprio la meteora del futurismo
polacco smaschera al meglio l’equivoco sulla performatività del manifesto come atto linguistico,
una performatività talmente metaforica che a uno scrittore come Jasieński, il quale ambiva
fattualmente a cambiare il mondo, non bastava più. La rivoluzione doveva prendere il posto dello
happening.
I testi selezionati per questa piccola antologia, da quelli entrati fin dall’inizio nel canone
del futurismo polacco a quelli presentati qui per la prima volta (e non solo per il lettore italiano),
vogliono essere anche testimonianza di una realtà che, pur nella brevità della sua durata, fu ben
più complessa dell’immagine semplificata tramandataci dalla vulgata manualistica. È infatti
invalsa una lettura triadica (il cui sostrato ideologico non sfugge a nessuno6) dell’evoluzione
del futurismo polacco: da una prima fase anarchico-individualistica, identificata nel gruppo
di Varsavia e qui rappresentata dal manifesto Prymitywiści do narodów świata i do Polski,
attraverso la fase utopica, sopravvenuta dopo la riunione dei due gruppi sotto la guida di Jasieński,
all’insegna di un ideale artistico già orientato verso modelli di carattere costruttivistico, fino alla
fase finale, coincidente con lo scioglimento del gruppo e il diretto impegno politico di alcuni
dei suoi rappresentanti. La critica più recente ha giustamente avvertito la necessità di scorporare
questa struttura schematica in narrazioni minori, individuali, che tengano conto anche di
personalità originali e non facilmente riconducibili a una narrazione unitaria, come quella del
pittore-poeta Tytus Czyżewski, di cui traduciamo due brevi e rappresentativi manifesti, il cui
legame con l’esperienza del Formismo non si interruppe mai, o quella dei futuristi “minori”, non
appartenenti al gruppo ufficiale, opportunamente ricordati da Krzysztof Jaworski nella parte
critica di questa pubblicazione. Presentiamo infine in traduzione per la prima volta dalla sua uscita
nel 1924 un testo di difficile reperimento, non un manifesto in senso stretto, ma una risposta di
Stern a Irzykowski che si inserisce all’interno della polemica sul carattere plagiario del futurismo
polacco, di cui parla l’articolo di Andrea De Carlo, e che ritorna sul tema cruciale della macchina
dimostrando come le posizioni espresse da Jasieński nei suoi manifesti e nel suo saggio Il futurismo
polacco (un bilancio) fossero condivise come programma ideologico del movimento.
Un’ultima precisazione. Dopo un’attenta riflessione abbiamo rinunciato al tentativo
di rendere in italiano la grafia riformata utilizzata da Jasieński nei testi pubblicati nelle due
6 Cfr. H. Zaworska, O nową sztukę. Polskie programy artystyczne lat 1917-1922, Państwowy Instytut Wydawniczy, Warszawa
1963, p. 180.
105
Emiliano Ranocchi
jednodńuwki (qui in particolare si tratta dei quattro manifesti fondamentali Al popolo polacco in
relazione a un’immediata futurizzazione della vita, Manifesto sulla critica artistica, Manifesto
sulla poesia futurista e Manifesto sull’ortografia fonetica che appunto ne rende conto). Siamo
consapevoli che con ciò va perduto un elemento fondamentale della facies testuale, tutt’altro che
accessorio rispetto al contenuto ideologico, ma le possibilità fonetiche e ortografiche dell’italiano
si sono rivelate estremamente limitate per poter efficacemente far fronte all’operazione proposta
da Jasieński per il polacco. La riforma ortografica attende ancora uno studio approfondito che ne
metta in evidenza, al di là dell’aspetto dissacratorio di facciata, la sua profonda consonanza con
le coeve riflessioni sulla fonologia di linguisti come Jan Baudouin de Courtenay. In compenso
abbiamo posto particolare attenzione alla resa grafica, un aspetto troppo spesso trascurato nelle
edizioni polacche di questi testi. Soprattutto per quelli in cui l’aspetto grafico dell’originale è
marcato (ciò vale in particolare per il manifesto dei futuristi di Varsavia che apre l’antologia e per
una parte dei testi tratti dalla prima jednodńuwka) ci siamo sforzati il più possibile che anche la
traduzione fosse rispettosa dell’originale nell’uso del grassetto, delle spaziature e delle svariate
dimensioni dei caratteri.
106
Manifesti del futurismo polacco
Anatol Stern, Aleksander Wat
I PRIMITIVISTI ALLE NAZIONI DEL MONDO E ALLA
POLONIA
7
la grande scimmia arcobaleno chiamata Dioniso è crepata ormai da tempo.
gettiamo via la sua putrida eredità proclamiamo:
I. LA CIVILTÀ, LA CULTURA,
CON LA LORO MORBOSITÀ – NELL’IMMONDEZZAIO.
scegliamo la semplicità, la rozzezza, l’allegria, la salute, la trivialità, il riso.
il riso ingrassa l’anima e le fa venire i polpacci forti e grossi.
rinunciamo liberamente al decoro, alla serietà, al pietismo.
le foglie d’alloro con cui cingete i nostri capi le useremo come erbe aromatiche.
II. CANCELLIAMO LA STORIA E LA POSTERITÀ.
nonché roma tolstoj, la critica i cappelli le indie la baviera e cracovia. la polonia deve ricusare
la tradizione, la mummia del principe giuseppe e il teatro. la città la distruggiamo. ogni
meccanismo – gli aeroplani, i tramvai, le invenzioni il telefono. al loro posto mezzi primitivi di
comunicazione. l’apoteosi del cavallo. case soltanto pieghevoli e portatili. un linguaggio urlato e
rimato.
III. il sistema sociale lo intendiamo come potere di autentici imbecilli e capitalisti, è il
terreno più fertile per il riso e per la rivoluzione.
IV. le guerre si dovrebbero fare a scazzottate. l’omicidio è antiigienico.
le donne bisogna cambiarle spesso il valore di una donna consiste nella sua
fertilità.
V. IL PRIMITIVO.
VI. arte è solo ciò che dà salute e riso.
L’ESSENZA DELL’ARTE STA NEL SUO CARATTERE DI SPETTACOLO
CIRCENSE PER LE GRANDI MASSE.
sue caratteristiche sono esteriorità ordinarietà e pornografia non celata.
l’arte è scienza.
spazziamo via dalla losca taverna dell’infinito, quelle misere isteriche creature chiamate
poeti, schiacciate dall’inappagamento dal dolore dalla gioia di vivere, dall’estasi dall’estetica,
dall’ispirazione, dall’eternità. invece
dell’estetica l’antigrazioso. invece dell’estasi
- l’intelletto. creazione consapevole e intenzionale.
7
A. Wat, A. Stern, Prymitywiści do narodów świata i do Polski, in: Idem, Gga. Pierwszy polski almanach poezji futurystycznej,
Warszawa 1920. Una traduzione italiana, incompleta e non scevra da refusi, era già uscita in: Wl. Krysinski, Un'automobile,
una mitragliatrice, uno schiaffo, una scimmia crepata. Confronto tra Futurismo italiano e Futurismi slavi, in «Avanguardia Rivista
di letteratura contemporanea», I/2, 1996, pp. 108-118. Una seconda traduzione, anch’essa incompleta e in qualche punto
lievemente discordante dall’originale (perché basata sulla citazione orale), è contenuta in: A. Wat, Il mio secolo. Memorie e
discorsi con Czesław Miłosz, a cura di L. Marinelli, Sellerio Editore, Palermo 2013, pp. 54-55. Ove non indicato diversamente,
tutte le note vanno intese come note del traduttore.
107
Manifesti del futurismo polacco
VII. oggetti vorticanti come materiale d’arte. trasformare i teatri in edifici circensi.
musica è l’urtarsi reciproco di due o più corpi. tutto il resto è frastuono. combattiamo il
violino anti-futurista e tutte le voci della natura. risse di strada con i beethoveniani.
bisogna strappare dalle pareti quei pezzi di tela chiamati quadri. dipingere le facce i vestiti
la biancheria. la gente, le case i marciapiedi. la scultura non esiste.
VIII. la poesia. manteniamo rima e ritmo poiché sono primari e fecondi. distruzione
delle regole che limitano la creatività il pregio della goffaggine.
arbitrarietà di forme grammaticali, di ortografia e punteggiatura, a discrezione dell’autore.
mickiewicz è limitato. słowacki è un farnetico incomprensibile.
LE PAROLE hanno un proprio peso, un suono, un colore, un proprio contorno,
OCCUPANO POSTO NELLO SPAZIO. questi sono i valori decisivi della parola, le parole più
brevi (il suono) e le parole più lunghe (il libro). il significato di una parola è un fattore secondario
e non dipende dall’idea attribuitale bisogna trattarla come materiale sonoro USATO IN MODO
NON ONOMATOPEICO.
IX. i principali valori di un libro sono il formato e il suo carattere solo dopo di questi - la
trama. pertanto il poeta deve essere al contempo addetto alla composizione e rilegatura del proprio
libro deve lui stesso urlarlo ovunque, non declamarlo, per diffonderlo - usare il grammofono e il
cinema, i giornali. grammofoni ambulanti, la tela dello schermo, oppure la parete come pagina di
un libro letto collettivamente, giornali redatti esclusivamente da poeti.
X. esaltiamo la ragione e per questo rigettiamo anche la logica,
108
limitazione e vigliaccheria dell’intelletto. il nonsense è meraviglioso
per il suo contenuto intraducibile che accentua la nostra ampiezza
e forza creativa. parimenti l’arte rende esplicito il nostro amore per
gli esseri umani e per tutte le cose. spiriamo amore
apriamo gli occhi. allora un maiale ci sembrerà più affascinante di un usignolo, e il gga di un
papero ci incanterà più del canto di un cigno.
gga. gga signori, è sceso sull’arena del mondo, sventolando la sua doppia g, a grida, a – è la
bocca di questa bestia meravigliosa e volgare. anzi il suo muso, ceffo o grugno.
[Traduzione Lidia Mafrica]
Manifesti del futurismo polacco
Bruno Jasieński
AL POPOLO POLACCO IN RELAZIONE A
UN’IMMEDIATA FUTURIZZAZIONE DELLA VITA
8
Avendo ben chiaro che una riforma sporadica e isolata dell’arte a prescindere dal suo
legame con la vita stessa, della quale ogni arte è battito e funzione organica, deve necessariamente
risultare vuota, sterile e inutile, non avendo contemporaneamente il tempo per compiere necessari
passi preliminari e propedeutici in codesta direzione – la vita e l’arte polacche minacciano di morire
soffocate e l’unico mezzo possibile ed efficace in tale caso è una tempestiva tracheotomia – noi,
futuristi polacchi, ci accingiamo oggi a una grande e radicale ristrutturazione e riorganizzazione
della vita polacca e chiamiamo tutti gli abitanti della libera Repubblica Polacca a un’azione comune
organizzata e al soccorso.
La guerra mondiale con l’immenso spostamento di interi stati, classi e nazioni ha causato
un grande spostamento di valori. Il risultato è la crisi della cultura che sta davanti agli occhi di tutta
l’Europa occidentale e orientale. Da noi questa crisi si manifesta in forma particolarmente acuta e
specifica. Un secolo e mezzo di servitù politica hanno impresso su tutta la nostra fisionomia, psiche
e produzione un marchio duro e indelebile. La nostra consapevolezza culturale non ha potuto
svilupparsi con la libertà di cui godevano gli stati occidentali. Era giocoforza che tutta la nostra
energia nazionale si sfogasse nell’esercizio della massima resistenza, in una estenuante e laboriosa
lotta per la sopravvivenza della lingua, della vita e delle organizzazioni nostre. In questa stessa lotta
per la sopravvivenza del nostro “io” nazionale e per la costruzione di una psiche nazionale dura,
infrangibile, resistente a tutto e capace di vivere si è sfogata anche l’arte polacca.
Noi, futuristi polacchi, vogliamo qui rendere omaggio alla poesia romantica polacca del
tempo di cattività, i cui fantasmi oggi rincorreremo e a cui daremo il colpo di grazia senza pietà
– omaggio perché in tempi, nei quali il Popolo Polacco si ripiegava in se stesso e lentamente
maturava, essa non fu arte “pura”, bensì profondamente nazionale, perché fu scritta con la linfa
e il sangue della vita che scorre tumultuosa, perché fu battito e grido del proprio giorno, quale in
generale ed esclusivamente ogni arte può e deve essere.
Per questi stessi motivi oggi, quando con la riconquista dell’autonomia politica la vita
polacca è entrata in una fase completamente nuova e si è ritrovata davanti milioni di problemi
che stavano in agguato alle sue porte, ai quali ancora ieri non v’era neppure il tempo di pensare,
e ai quali oggi occorre dare già una risposta immediata e categorica, se non vogliamo che le onde
incombenti di nuovo ci travolgano, gridiamo a voi:
Basta essere un popolo-panottico che produce solo mummie e reliquie. Un presente matto
e irrefrenabile picchia a tutte le nostre porte e finestre, grida, attira su di sé l’attenzione, avanza
pretese. Se non siamo in grado di dar vita a nuove categorie, nelle quali possa trovar posto, se
non siamo in grado di creare una nuova arte, nella quale esso possa esprimersi fino in fondo in
forma di canto – non sopravvivremo.
8
B. Jasieński, Do narodu polskiego w sprawie natyhmiastowej futuryzacji żyća, in: Jednodńuwka futurystuw. Mańifesty futuryzmu
polskiego, wydańe nadzwyczajne na całą żeczpospolitą polską, Kraków, giugno 1921, pp. 1-2.
109
Manifesti del futurismo polacco
Occorre spalancare tutte le porte e le finestre, svanisca il tanfo di cantine e di incenso da
chiesa, che vi hanno educato a respirare fin da piccoli. Con gli occhi fissi su giganteschi respiratori
vi veniamo incontro.
Sulla scia di St. Brzozowski annunciamo una grande svendita di vecchie cianfrusaglie.
Vendiamo a prezzi stracciati vecchie tradizioni, categorie, abitudini, uova pasquali decorate e
feticci.
Il gran panottico nazionale del Wawel.
Da piazze, giardinetti e vie trascineremo via con le carriole le mummie rinsecchite dei
mickiewicz e degli słowacki. È ora di liberare i piedistalli, ripulire le piazze, preparare il posto a
quelli che vengono.
Noi, uomini dai vasti polmoni e dalle spalle robuste, starnutiamo ai nauseanti odori del
vostro messianismo di ieri e vi proponiamo un messianismo nuovo, unico, contemporaneo e pazzo.
Se non volete essere l’ultima nazione in Europa, ma se al contrario volete essere la prima, finitela
una buona volta di cibarvi di vecchi avanzi dalla cucina dell’Occidente (ci possiamo permettere
un menù tutto nostro), e nella grande gara per il record della civiltà affrettatevi alla meta a passi
brevi e sintetici.
110
Ci accingiamo a costruire una nuova casa per il Popolo Polacco allargato che nella vecchia
ormai non ci entrava più. Da soli non ce la facciamo. Invitiamo tutti i vivi, tutti coloro cui la
vecchia casa va stretta e tutti i volenterosi ad aiutarci.
Dichiariamo:
Il grande spostamento delle classi a Oriente e ad Occidente continua. Prende la parola
una nuova forza – il proletariato consapevole. Ha inizio la grande trasvalutazione dei valori. Si
misurano tutte le giustizie e le ingiustizie di una cultura millenaria, creata alle sue spalle e a suo
costo. Si misurano con l’unico criterio della vita militante: il lavoro duro, ferreo, organico. Segue
una grande revisione delle tessere. Chi non è in grado di render conto della parte da lui svolta nella
vita con quest’unica moneta – non la passerà.
Sottolineiamo i tre momenti fondamentali della vita contemporanea: la macchina, la
democrazia e la folla.
La vita delle classi intellettuali sta attraversando un lento periodo di degenerazione e
nevrastenia. Le categorie di un tempo hanno ormai perso la loro attualità e si sono consunte.
Di nuove non ve ne sono ancora. È un momento di crisi generale. La vita stessa, invece di essere
per principio gioia e ditirambo, assume sempre più distintamente il carattere di un duro obbligo
imposto dall’esterno. L’uomo moderno non è più capace di gioire in maniera organica della vita.
L’epidemia di suicidi, di deragliamenti, di esaurimenti e ipertragedizzazioni non è che la logica
conclusione del fenomeno in questione. Questo stato di cose non può più rimanere a lungo
immutato. Occorre intraprendere una terapia di cura immediata ed energica. Come uno dei
fattori decisivi proponiamo:
Più sole.
Manifesti del futurismo polacco
Un proverbio della saggezza dell’antica Cina: “Prendi con te l’ombrello anche quando
splende il sole” è divenuto da noi qualcosa di stabilito e organico.
Rigettiamo gli ombrelli, i cappelli, le bombette, andremo in giro a testa
scoperta. I colli nudi. Occorre che ciascuno si abbronzi il più possibile. Si
devono costruire le case con le pareti di vetro sul lato sud. Più luce, aria e
spazio. Se il Parlamento polacco tenesse le sue sedute all’aperto, avremmo
senza dubbio una costituzione ben più soleggiata.
L’uomo contemporaneo, la cui energia è per ¾ assorbita dalla professione, ha bisogno
di un cibo sano e forte, di emozioni nuove, aspre e sintetiche. Tali emozioni gli può dare solo
l’arte. L’arte dovrebbe essere il succo e la gioia della vita e non la sua prefica né la sua consolatrice.
Rompiamo una volta per tutte con le finzioni della cosiddetta “arte pura”, “arte per l’arte”, “arte per
l’assoluto”. L’arte deve essere esclusivamente e innanzitutto umana, cioè per gli uomini, di massa,
democratica e universale.
Consapevoli del compito che l’arte ha da svolgere nei confronti dell’oggi e dei suoi
problemi, gridiamo:
Artisti, scendete in strada!
L’arte che si annida in sale da concerto, mostre, palazzi dell’arte etc. con qualche centinaio,
foss’anche con qualche migliaio di posti non è che una ridicola anemica stramberia, poiché ne
usufruisce un 1/100.000.000 di tutti gli uomini. L’uomo contemporaneo non ha il tempo di
andare ai concerti e alle mostre, i ¾ della gente non ne hanno la possibilità. Per questo debbono
poter trovare l’arte ovunque:
Poesioconcerti volanti e concerti nei treni, nei tramvai, nelle mense,
nelle fabbriche, nei caffè, nelle stazioni, nelle hall, nei passaggi, nei parchi,
dai balconi delle case, etc. etc. etc. a qualunque ora del giorno e della notte.
L’arte deve essere una sorpresa, deve penetrare tutto e
travolgere.
L’uomo contemporaneo ha cessato ormai da tempo di commuoversi e di avere delle
aspettative. I codici legali hanno sottoposto a norme e classificato una volta per tutte ogni sorpresa.
La vita che in ciò si differenzia da una macchina moderna, che ammette favolose imprevedibilità,
comincia sempre meno a differenziarsi da quella. Le eterne categorie della logica, secondo le quali
al concetto A deve immancabilmente far seguito il concetto B, ed entrambi sommati danno senza
meno C – sono divenute insopportabili. La moltiplicazione matematica 2 x 2 = 4 si ingrandisce
fino a raggiungere le dimensioni di uno spaventoso polipo che ha disteso su ogni cosa i suoi
tentacoli. Tutte le possibilità della logica fino all’ultima si sono esaurite. Sopravviene il momento
dell’eterno ruminare in tondo fino a perdere conoscenza. La vita con la sua logica è divenuta
terrificante e illogica.
Noi, futuristi, vogliamo indicarvi una via d’uscita da questo ghetto della logicità. L’uomo ha
smesso di gioire, poiché ha smesso di attendersi qualcosa. Solo una vita intesa come balletto di
111
Manifesti del futurismo polacco
possibilità e sorprese gli può restituire questa gioia.
Nella giostra delle cose ovvie abbiamo capito, che non c’è nulla di ovvio e che oltre quella
logica esiste un mare intero di illogicità, ciascuna delle quali può dar luogo alla propria logica
autonoma, nella quale A+B=F e 2 x 2 fa 777.
Un diluvio di meraviglie e sorprese. Nonsense che danzano per le
strade. L’arte è la massa.
Ciascuno può essere artista.
I teatri, i circhi, le rappresentazioni per le strade, messe in scena dal
pubblico stesso.
Invitiamo tutti i poeti, i pittori, gli scultori, gli architetti, i musicisti, gli
attori, affinché scendano in strada.
La scena gira. Bisogna cambiare gli sfondi.
Quadri come pareti di singoli edifici. Case sfaccettate, tonde e a forma
di cono. L’orchestra suona una marcia. La gente vuol marciare al ritmo.
112
Invitiamo tutti gli artigiani, i sarti, i calzolai, i fabbri, i parrucchieri
affinché creino nuovi abiti, nuove capigliature e nuovi costumi, finora mai
visti.
Invitiamo i tecnici, gli ingegneri, i chimici a scoprire nuove, sensazionali
invenzioni.
La tecnica è altrettanto arte quanto la pittura, la scultura e
l’architettura.
Una buona macchina è modello e sommo raggiungimento dell’arte per
via della perfetta unione di economicità, funzionalità e dinamica. Il telegrafo
Morse è un capolavoro 1000 volte più grande del Don Giovanni di Byron.
Tra le opere di architettura, scultura e tecnica distinguiamo – la
macchina per la riproduzione.
donna – come perfetta
La donna costituisce una forza imprevedibile e non ancora sfruttata per via del suo potere
di influsso che non ha paragoni. Pretendiamo l’assoluta parità delle donne in tutte le sfere della
vita privata e pubblica. In primo luogo la parità nei rapporti erotici e familiari.
Il numero di matrimoni tra persone che non vivono insieme, che si separano ufficialmente
o non ufficialmente attinge livelli inquietanti per l’ordine sociale.
Riteniamo che la tempestiva introduzione dei divorzi sia l’unico mezzo per prevenire e
frenare questo processo.
Manifesti del futurismo polacco
Sottolineiamo il momento erotico come una delle più fondamentali funzioni della vita in
generale. Esso è una delle fonti elementari ed estremamente importanti della gioia di vivere a
condizione che l’approccio ad esso sia semplice, chiaro e solare. Le tragedie sessuali alla
Przybyszewski sono di cattivo gusto e dimostrano solo che gli uomini di
oggi sono privi di spina dorsale e impotenti. Invitiamo le donne in quanto più
sane e più forti nel fisico a prendere per prime l’iniziativa in questo campo.
Per il conseguimento dei suddetti scopi la società polacca deve essa stessa assumersi la
responsabilità di sorvegliare e controllare l’interezza della vita sociale fino ad oggi e ogni tipo di
produzione, senza permettere che si producano cose in disaccordo con quegli stessi scopi, superflue
o addirittura nocive. Come primo passo necessario – il controllo di ogni produzione artistica. Non
permettete che vi rovescino addosso ogni giorno secchi di letteratura stagnante, senile e snob, che
non è in grado neppure di eccitare i vostri istinti sessuali. Il pubblico organizzato è una forza alla
quale nulla resiste. Nessun libro inutile potrà essere stampato, visto che nessuno ne ha bisogno.
Invitiamo tutti i cittadini dello Stato Polacco a un’azione organizzata di autodifesa. Il
pubblico polacco ha superato i suoi autori. Lo spettatore di oggi sbadiglia già apertamente davanti
al Macbeth e percepisce un dolore indefinito nelle vicinanze dell’intestino cieco nel guardare gli
Aquilotti9 morenti. La produzione polacca d’altro canto non è in grado di offrirgli cibo nuovo,
nutriente. Quale unica efficace lotta contro la mancanza di creatività – il sabotaggio concorde e
organizzato della letteratura senile e dell’arte. Non andare a teatro, non comprare libri, non leggere
giornali etc. etc. etc.
Allo scopo di organizzare la società polacca in vista del comune e fecondo
sforzo in direzione di una immediata, profonda, radicale, fondamentale e
permanente futurizzazione della vita fondiamo un gigantesco partito futurista
a livello nazionale. Può diventare membro attivo del partito ciascun cittadino
che lavori, che soffra istintivamente in conseguenza dell’attuale crisi generale
della cultura e che cerchi una via di uscita da questa situazione. Abbiamo oggi
una società intera di tali nevrastenici e martiri della vita contemporanea. A loro vogliamo porgere
la mano.
Ci rivolgiamo ai cosiddetti uomini nuovi, cioè a quelli che non sono stati ancora
contaminati dalla tabe della civiltà, che la guerra mondiale ha fatto venire a galla e che la vecchia
società continua ingiustamente a considerare dei bastardi. Noi, futuristi, per primi porgiamo la
mano fraterna agli “uomini nuovi”. Essi saranno la linfa nuova e vivificatrice che rinfrescherà la
vecchia, degenerata razza degli uomini di ieri, essa sarà il doloroso, ma necessario vaccino che
il grande cataclisma della storia ha iniettato in tutta quell’Europa d’anteguerra che andava già in
putrefazione e cominciava a puzzare.
Il nostro partito, composto di gente che irrompe nel domani, non avrà pari, sarà
onnicomprensivo e folle. Ciascuno può essere un condottiero e nessuno può esserlo. La maggiore
decentralizzazione possibile. Non conosciamo né leader né soldati di fila, ciascuno è pari operaio
della vita militante. Sottolineiamo il grande momento nella storia dell’umanità.
9
Allusione al dramma di Edmond Rostand L’Aiglon (1900).
113
Manifesti del futurismo polacco
Il destino è invecchiato ed è morto. Ciascuno può d’ora in
avanti divenire il creatore della propria vita e della vita comune.
Noi futuristi veniamo in aiuto alla società polacca in questa azione. Con singoli proclami
forniremo concrete indicazioni e istruzioni in tutti i campi secondo l’intento del presente
manifesto. Alla nostra chiamata ogni anonimo membro del partito futurista (non abbiamo
bisogno di cognomi – esistono solamente i pari, i consapevoli e gli uomini qualunque), ciascuno
deve rispondere dal posto in cui si trova.
Affinché qualsivoglia azione da parte nostra risulti possibile, pretendiamo dal Parlamento
della Repubblica Costituzionale Polacca l’immediata dichiarazione dell’immunità dell’artista a
somiglianza del deputato. L’artista è un rappresentante della Nazione non meno del deputato, ha
solo un ambito d’azione differente e altre competenze.
114
In questo momento grande e decisivo noi, futuristi, dimentichiamo le antiche offese, non
vogliamo ricordare che tutte le nostre iniziative, orientate in un’unica direzione, sono state accolte
fino ad ora dalla società polacca con ostilità, insensatezza e scherno. Sappiamo bene che si trattò
di un malinteso causato da falsi informatori e commentatori, come pure dalla mancanza di un
fronte coeso e di una confessione di fede chiara e fisica da parte nostra. Ora tutti questi malintesi
vengono meno da sé. Con la purpurea fede nel domani e nelle sue inesauribili possibilità con un
solo tratto energico barriamo tutto ciò che v’era di malvagio, di superfluo e di senile al di fuori
di noi e in noi stessi e porgiamo la mano alla società polacca. Se siete una nazione viva, e non una
nazioncina, se un secolo e mezzo di cattività non vi ha succhiato via il midollo, se siete veramente
la nazione del domani, e non una nazione di sopravvissuti, seguiteci!
Con la proclamazione del presente manifesto chiamiamo
tutti a metter mano immediatamente a un’azione futuristica
concorde, di massa.
Cracovia, 20 aprile 1921
[Traduzione Emiliano Ranocchi]
Manifesti del futurismo polacco
Bruno Jasieński
MANIFESTO SULLA POESIA FUTURISTA
10
1. Il cubismo, l’espressionismo, il primitivismo, il dadaismo hanno superato tutti gli altri
ismi. L’unica corrente che non è stata ancora sfruttata nell’arte è l’onanismo. Proponiamo di usare
questo termine come definizione collettiva per tutti i nostri avversari. Per motivare ciò mettiamo
in evidenza i momenti fondamentali dell’arte anti-futurista: l’asessualità, l’incapacità di fecondare
le masse con la propria arte, il placido autoerotismo passatista all’ombra di melanconici atelier.
2. In un periodo di enormi realizzazioni riteniamo l’introduzione di nuove denominazioni
superflua e in contrasto coi tempi. In luogo di un vessillo innalziamo il nome di quel manipolo
che una quindicina di anni or sono per primo lanciò il grido della battaglia che noi oggi portiamo
a termine, e ancora una volta ci appelliamo
futuristi.
3. Non è nostra intenzione, nel 1921, ripetere ciò che essi realizzarono già nel 1908.
Sappiamo di essere più vecchi di loro di altrettanti anni. Ciò che in loro era solo un presentimento,
un’affrettata proiezione di nuove prospettive, in noi deve diventare uno sforzo strenuo, consapevole
e creativo.
In quanto eredi dell’immensa potenza della forma, annunciamo una
grande unificazione monetaria. Sostituiremo tutte le banconote cubiste,
espressioniste, dadaiste, primitiviste, con gli unici talenti che non possono
essere contraffatti dal tempo dei greci.
A tal scopo deliberiamo:
4. Non sia lecito a nessuno, nel 1921, creare e costruire così come si faceva già in passato.
La vita va avanti e non si ripete. Ogni autore è tenuto a rispettare tutto quello che ha ricevuto in
eredità + quel miracoloso nuovo salto che ogni artista deve fare nel vuoto dell’universo.
L’arte è creazione di cose nuove.
L’artista che non crea cose nuove e mai viste prima, ma rumina soltanto ciò che è stato fatto
prima di lui per diverse centinaia di volte, non è un artista e deve rispondere di fronte alla legge
dell’uso di questo titolo, così come avviene per l’uso di qualsiasi altro titolo senza una qualifica
corrispondente. Invitiamo la società al boicottaggio organizzato di simili individui.
5. Ciascun
artista ha l’obbligo di creare un’arte
completamente nuova e senza precedenti che ha il diritto di
chiamare con il proprio nome.
6. Consideriamo l’opera d’arte qualcosa di compiuto, concreto e fisico. La sua forma è
condizionata da una rigida necessità interna. In quanto tale essa risponde di sé attraverso l’intero
complesso di forze che la compongono, grazie alle quali le sue singole parti sono coordinate in
rapporto a sé e all’insieme così e non in altro modo, ovvero in virtù di una necessità interiore.
Chiamiamo codesto rapporto reciproco composizione. Chiamiamo una composizione perfetta,
ovvero economica e ferrea – il minimo in termini di materiale e il massimo in termini di efficienza
raggiunta –composizione futurista. D’ora in poi solo in questo modo sarà lecito comporre. Quali
10
B. Jasieński, Mańifest w sprawie poezji futurystycznej, in: Jednodńuwka futurystuw, cit. p. 2.
115
Manifesti del futurismo polacco
motivi decisivi adduciamo in primo luogo: il rincaro generale: a) dei materiali di stampa, che rende
la pubblicazione di cose inutili non opportuna e persino dannosa per la situazione economica
del paese; b) il rincaro del tempo. Il lavoro specializzato occupa l’uomo contemporaneo per 8
ore. Le restanti 4 ore gli servono per mangiare, sbrigare le faccende quotidiane, fare sport,
svagarsi, mantenere le relazioni sociali, per l’amore e l’arte. Per l’arte in particolare all’uomo
medio contemporaneo rimangono dai 5 ai 15 minuti al giorno. Pertanto l’arte gli deve essere
somministrata in pillole preparate appositamente dagli artisti, ripulita in anticipo da tutto il
superfluo e servitagli già pronta, in forma sintetica.
L’opera d’arte è un estratto. Diluita nel bicchiere della
quotidianità, deve tingerlo tutto quanto del proprio colore.
116
Prima di pubblicare un’opera d’arte l’artista è tenuto a spremerne tutto il resto d’acqua.
Gli artisti che si rifiutino di mettere in atto la presente delibera verranno chiamati a risponderne
dinnanzi alla società al pari dei ladri comuni, con l’accusa di furto di tempo.
7. Eliminiamo la logica in quanto forma mentis della classe borghese. Ciascun artista ha il
diritto e il dovere di creare una propria autologica. Consideriamo caratteristiche fondamentali di
ogni logica individuale:
l’associazione fulminea di cose apparentemente distanti l’una dall’altra secondo la logica
borghese; per accorciare la distanza tra due cime: il salto nel vuoto e il salto mortale.
8 La poesia opera sul piano della parola così come l’arte figurativa sul piano delle forme,
la musica su quello dei suoni. La parola è un materiale complesso. Oltre al contenuto sonoro ne
possiede un’altro, quello simbolico, che essa rappresenta e che non bisogna uccidere se non
si vuol correre il rischio di creare una terza arte che non è già più poesia e non è ancora musica
(dadaismo).
La poesia è quella composizione di parole che, senza uccidere l’altra
anima concreta della parola, permette di tirarne fuori la massima risonanza.
Rompiamo una volta per tutte con qualsiasi descrizione (pittura), ma d’altra parte anche
con qualsiasi onomatopeizzazione, con l’imitazione delle voci della natura e con tutti gli insipidi
requisiti del neorealismo pseudofuturizzante.
Eliminiamo la frase come stramberia antipoetica.
La frase è una composizione casuale, tenuta insieme soltanto dalla debole colla della
logica piccoloborghese. Al suo posto pregnanti, aspre e coerenti composizioni di parole, non
impastoiate da alcuna norma di sintassi, logica o correttezza grammaticale, bensì solo da una
inflessibile necessità interna, che dopo il la esige il sol, dopo il do il fa, etc.
9. D’ora in poi eliminiamo il libro come forma di somministrazione di poesia al ricevente.
La poesia, in quanto arte che opera mediante valori acustici, può essere trasmessa unicamente
tramite la parola. Il libro può svolgere tuttalpiù il ruolo di partitura, in base alla quale una certa
categoria di persone particolarmente dotate (i virtuosi) può ricostruire l’insieme originario.
Nell’istante in cui sarà inventato il telefonografo, ovvero l’unione del fonografo con il telefono, il
libro come ponte tra autore e pubblico risulterà del tutto inutile e superfluo.
10. L’arte nostra non è né riflesso e anatomia dell’anima (psicologia), né espressione
del nostro anelito all’oltretomba divino (religione), né riflessione su problematiche esistenziali
(filosofia). A queste accuse oggi probabilmente non abbiamo bisogno di ribattere. L’arte non è
neppure un diario delle esperienze, peraltro forse anche interessanti, e delle vicissitudini interiori
dell’artista. I nostri nonni hanno annoiato quanto basta i loro pazienti contemporanei con le
Manifesti del futurismo polacco
loro nostalgie, i loro dolori e l’erotomania. Le esperienze di un artista sono una sua proprietà
privata, senza dubbio avvincente per parenti prossimi e ammiratrici, ma per nessun altro. Al fine
di indirizzare e sfogare le proprie emozioni nella direzione giusta, si consiglia agli artisti di fare più
sport, fare più all’amore e dilettarsi di scienze esatte.
11. Strappiamo via dall’organismo della vita quei presuntuosi parassiti che gli stanno
attaccati come sanguisughe, si definiscono poeti e si pascono del lavoro altrui senza produrre nulla
in cambio, giacché la vita, così com’è, non riesce a stare al passo con la loro psiche prometeica.
Esaltiamo la vita, eterno, faticoso divenire – il movimento,
la gentaglia, le fognature e la Città.
La poesia deve essere quotidiana, profondamente attuale
e universale.
La romantica malinconia delle rose e degli usignoli ha da tempo smesso di farci effetto.
Ci esalta la massa, intesa come l’onda gigantesca di una turbina rotante. Nell’eterno lavoro
e nella lotta della vita per creare il domani, vogliamo essere nel nostro settore impiegati leali e
consapevoli.
12. Rompiamo una volta per tutte con il pathos dell’eternità dell’opera d’arte.
Il valore assoluto di un’opera d’arte varia dalle 24 ore ad un mese.
In un paese in cui tutto viene vissuto così lentamente – da noi – proroghiamo questo termine
fino a un anno. Trascorso questo tempo, tutti i libri rimasti invenduti debbono essere ritirati dal
commercio librario. È vietata qualsiasi seconda e terza edizione. Coloro che non rispetteranno la
presente delibera saranno ritenuti responsabili dinnanzi alla società che si pronuncerà in prima
persona suoi singoli casi mediante plebiscito.
Cracovia, 3 aprile 1921
[Traduzione Lidia Mafrica]
117
Manifesti del futurismo polacco
Bruno Jasieński
MANIFESTO SULLA CRITICA ARTISTICA
118
11
Poiché il fatto che la Polonia non possieda affatto critici, ovvero persone che in maniera più o
meno onesta la informino e la preparino ad accogliere i nuovi libri in uscita e le nuove questioni
emergenti, è cosa universalmente nota e riconosciuta, ma in compenso possediamo un’intera
collezione di sigg. Pieńkowski, Żyznowski, Rabski, Słonimski e Pierzyński, talmente tanti che ce
li può invidiare tutta l’Europa;
poiché, d’altra parte, il pubblico non è abbastanza maturo da potersela cavare senza le cosiddette
recensioni e valutare e digerire da solo qualsiasi cosa che si discosti anche solo un po’ dai modelli
comuni,
considerando che il lamentarsi all’infinito di questo stato di cose è vano e infruttuoso, desiderando
altresì venire in soccorso al pubblico offeso –
sfidiamo tutti gli autori a partire da oggi a scrivere recensioni solo su se stessi.
Dal momento che sono i più vicini al merito della questione e, comunque la si voglia vedere,
sono anche i più competenti, essi possono dire a tale riguardo qualche cosa interessante e ciò,
in confronto allo sterile farfugliare dei cosiddetti “critici di professione”, sarà già un tesoro
incommensurabile. Il pubblico avrà le recensioni che lo interessano, e questo direttamente dalla
fonte, mentre i tipografi non saranno più costretti a comporre lunghe colonne di idiozie e cose
inutili, cosa che per riguardo alla loro coscienza di classe non dovrebbe essere assolutamente
consentito.
Per quanto concerne la cosiddetta “faziosità dell’autore”, ovvero il pregiudizio in base al quale
ogni autore scriverà sul proprio libro esclusivamente cose lusinghiere, questa faziosità, paragonata
a quella dei cosiddetti “critici di professione”, è ovviamente del tutto innocua.
Peraltro prima della guerra, quando il prezzo di una cena era ancora relativamente basso, ogni
autore mediamente benestante si poteva permettere una recensione lusinghiera. Tuttavia oggi una
cena appagante non ripaga assolutamente una critica ingiusta.
Partendo da questi presupposti, si invitano tutti gli autori al sabotaggio organizzato. Mai più
una cena, mai più un pranzo! La nostra arte non ha bisogno di intermediari. Possiamo esserne al
contempo i creatori, i divulgatori e i discepoli.
Da leggere presso tutte le associazioni artistiche, i club, le riunioni e le organizzazioni futuriste.
Varsavia, 1 marzo 1921
[Traduzione Lidia Mafrica]
11
B. Jasieński, Mańifest w sprawie krytyki artystycznej, in: Jednodńuwka futurystuw, cit. p. 3.
Manifesti del futurismo polacco
Bruno Jasieński
MANIFESTO SULL'ORTOGRAFIA FONETICA
12
1. Partendo dal presupposto che il linguaggio dell'uomo è l'insieme di una determinata
gamma di suoni combinati tra loro a creare suoni composti con un determinato significato
prestabilito = le parole, riteniamo che il compito più importante di ogni ortografia sia la resa
nel modo più perfetto possibile di segni organici (i suoni) mediante segni simbolici (le lettere).
L'ortografia ideale sarà pertanto un'ortografia assolutamente semplice e strettamente fonetica.
Tutto ciò che offusca questo scopo o che non lo persegue direttamente è di conseguenza inutile,
ridondante e dannoso.
2. D'altra parte compito e scopo di ogni scrittura è quello di riprodurre mediante la minor
quantità possibile di segni prestabiliti la maggior quantità possibile di suoni-parole e suoni-frasi.
Pertanto qui, come in ogni altro ambito, nella misura in cui il materiale aumenta, l'ortografia nel
corso del suo sviluppo deve tendere in maniera consapevole e coerente al massimo della sintesi
e della brevità. L’ideale di ogni ortografia è la stenografia.
A partire da questi due presupposti fondamentali, che riteniamo giusti e oltre ai quali non
riteniamo esservene altri, applicandoli all'attuale ortografia polacca senza esitare a trarne tutte le
conseguenze –
proclamiamo:
3. L'uso di due segni (lettere) differenti per esprimere lo stesso identico suono è
un’assurdità. Per questo, in quanto superflue, eliminiamo una volta per tutte dall'alfabeto polacco
le lettere ó e rz, giacché nella pronuncia non si differenziano in alcun modo dalle lettere u e ż
o sz, e potranno essere da queste sostituite senza arrecare danno. Più complicata è la questione
che riguarda le lettere ch e h, nell'articolazione fonetica delle quali si viene difatti a creare una
differenza molto sottile. Poiché, tuttavia, l'espressione di un suono mediante due segni (c e h)
che non hanno nulla in comune e la combinazione dei quali non porta in nessun caso al suono h
così come lo pronunciamo, è in linea di principio un’assurdità, anche in questo caso eliminiamo
dall'alfabeto polacco la combinazione di lettere ch. Per segnalare questa sottile differenza col tempo
si potrà apporre alla lettera h un determinato segno convenzionale. Non lo introduciamo perché
per il momento ci asteniamo dal creare lettere nuove. Compito di questa riforma elementare è
esclusivamente quello di ripulire l'ortografia polacca da tutta una zavorra di segni superflui nonché
dannosi.
Pertanto lasciamo invariate le combinazioni di lettere sz, cz (nonché dz, dź), giacché
l'alfabeto polacco non possiede altri segni per designare i suoni sza e cze. Si potrebbero sostituire,
sul modello dell'alfabeto ceco, con segni convenzionali sulle lettere s e c, cosa dalla quale tuttavia
ci asteniamo, giacché la sostituzione di lettere con altre non è per il momento il nostro compito.
Consideriamo quindi i segni sz e cz (altresì dz e dź) semplicemente come nuove lettere composte,
nate dalla combinazione di due vecchie lettere, e le chiamiamo lettera sza e lettera cze.
4. Dal momento che l'alfabeto predispone di un segno convenzionale ad esprimere un dato
suono, è un’assurdità che in alcuni casi ingiustificati esso venga sostituito da due altri segni che
sommati non danno assolutamente quel suono.
Poiché l'alfabeto polacco dispone di lettere che simbolizzano i suoni molli ń, ć, ś, ź, non ha
12
B. Jasieński, Mańifest w sprawie ortografii fonetycznej, in: Jednodńuwka futurystuw, cit. p. 3.
119
Manifesti del futurismo polacco
120
senso in luogo di queste usare davanti alle vocali ni, ci, si, zi – tutte combinazioni che con le prime
non hanno niente a che fare (sieć al posto di śeć, nie al posto di ńe, cień al posto di ćeń, ziele al
posto di źele).
Parimenti, non ha senso l'uso delle lettere dure (n, s, c, z) laddove queste vengano
chiaramente pronunciate come molli (ń, ć, ś, ź), e di conseguenza anche queste devono essere
eliminate (sito al posto di śito, cisza al posto di ćisza, zimno al posto di źimno).
Laddove l'alfabeto polacco non dispone di simboli appropriati per esprimere la
palatalizzazione, per il momento lasciamo il vecchio metodo di scrittura. Col tempo, sul modello
delle consonanti molli ń, ś, etc., nasceranno delle ḿ, ṕ, ẃ, che semplificheranno e unificheranno
notevolmente l'ortografia polacca. Per il momento, tuttavia, per ragioni puramente tecniche e per
non creare troppo caos, ci limitiamo esclusivamente ai segni che ci fornisce l'alfabeto polacco. Una
volta rotto il ghiaccio della tradizione e dell'abitudine, la riforma potrà spingersi oltre e occuparsi
del completamento dell'alfabeto stesso.
5. In luogo di tutte queste superfluità e stramberie ortografiche ovunque si percepisca
chiaramente un suono e nella declinazione dei casi obliqui non vi sia un suono prossimo ad un
altro (łyżka-łyżek), viene stabilita un'ortografia strettamente fonetica. Per questo d'ora in avanti
la parola tszy verrà scritta sempre con la sz, giacché questo suono qui è perfettamente chiaro e
non vi è motivo che ne giustifichi la sostituzione con un altro. Parimenti, il prefisso psze, pszed e
tutte le parole sue derivate continueremo a scriverli alla stessa maniera, poiché pur con le migliori
intenzioni tra le parole pszeńicować e pszeńica non riusciamo a cogliere differenze di suono tali
da costringerci a scrivere la prima in modo differente.
6. Nella convinzione che la nostra riforma dell'ortografia polacca fondata su principi
fonetici sia l’unica giusta, fondata e comoda – invitiamo tutti i cittadini polacchi ad introdurla
nella vita quotidiana a partire dalla promulgazione del presente manifesto. Ci rivolgiamo ai
direttori delle scuole, agli insegnanti delle prime classi e dei ginnasi, nonché al Ministero delle
Confessioni Religiose e dell'Istruzione pubblica con la richiesta che essa venga immediatamente
introdotta nelle scuole elementari, medie e superiori.
Nei pressi di Sandomierz, 25 marzo 1921
[Traduzione Lidia Mafrica]
Manifesti del futurismo polacco
DALLA REDAZIONE
13
In un momento di grandi compromessi e di piccoli compromessi, di consapevoli e ignari
travisamenti, di dolorosi snaturamenti e fratture, quando il libro futurista che adorna le vetrine
delle librerie costa 180 marchi polacchi e dopo avere ascoltato una poesia futurista si va alla
Filarmonica, quando ogni azione e intenzione viene guardata filtrata attraverso il prisma delle
azioni degli altri, come riflessa in uno specchio deformante – le parole si riempiono sole di una
smorfia pierrottesca e di doloroso rigore.
Volendo finalmente staccarci dal circolo vizioso dell’ozio e della retorica, lanciamo nei
mercati, nelle piazze, nelle strade di tutte le città polacche questo primo volantino futurista.
Vogliamo che coloro i quali come noi vivono dolorosamente tutta la spaventosa illogicità
d’oggigiorno e attendono l’aiuto di qualcuno sappiano che ci siamo, che sentiamo e che soltanto
migliaia di imbarazzanti circostanze non ci hanno concesso finora di esprimerci appieno. Ci
rendiamo perfettamente conto che la nostra precedente azione poetica a Varsavia, Cracovia e Łódź
è stata un buffo palliativo cui ci siamo dovuti aggrappare per non avere la bocca del tutto tappata.
Questo volantino contenente manifesti, proteste e bombe è il primo tentativo di dimostrare che
i nostri slogan sulla democratizzazione dell'arte e il suo renderla quotidiana, attuale e universale,
cosicché col tempo essa sia capace di reggere persino la concorrenza dei giornali, non sono sterile
retorica, e che riusciremo a metterli in pratica.
Rilasceremo d'ora in poi ogni tanto, a seconda dell'accumulo di energia che necessita di
essere scaricata, dei volantini il cui scopo sarà fornire la nostra risposta a tutte le più scottanti
questioni del giorno, senza escludere le tematiche più attuali e spinose. Altresì, sulla stessa scia
stamperemo, per informare le più ampie fasce di popolazione, le di noi, futuristi polacchi, più
nuove rivelazioni nell'ambito della poesia, del teatro e via dicendo. In questo modo saremo in
contatto costante con gli strati più ampi della società polacca, potremo sostenerli, guidarli e
aiutarli nella loro campagna futurista.
Concludiamo con l'invitare tutti a creare e istituire il prima possibile organizzazioni
futuriste su tutto il territorio della Repubblica di Polonia, con l’obiettivo di un'immediata e
universale futurizzazione della vita conformemente a quanto annunciato nel suddetto manifesto.
[Traduzione Lidia Mafrica]
13
Od redakcji; in: Jednodńuwka futurystuw, cit., p. 4.
121
Manifesti del futurismo polacco
Tytus Czyżewski
IL FUNERALE DEL ROMANTICISMO – LA DEMENZA
SENILE DEL SIMBOLISMO – LA MORTE DEL
PROGRAMMISMO
14
122
Da noi è cominciato il tempo della lotta per nuovi valori e per una forma nuova.
Un tempo tanto più tumultuoso che capita su un terreno non preparato – e ciononostante
fertile – su un’arte e soprattutto su una poesia abbandonate a se stesse. Cosa è mai stata fino ad ora
da noi la poesia? La poesia polacca finora non è stata altro che poesia romantica, contraddistinta
da forma e stati d’animo assolutamente romantici. La forma di Mickiewicz, Krasiński e Słowacki
è stata e rimane fino ad oggi il prodotto di quella cultura che poté osare l’epoca di ieri e d’avantieri
della nazione.
La nazione era oppressa, senza una propria volontà né possibilità di esprimersi liberamente.
L’arte dunque, nella fattispecie quella prodotta dopo le spartizioni, si proponeva di
ritrarre la martirologia della nazione, quinci i poeti traevano ispirazione.
Quella che da noi viene chiamata l’epoca del simbolismo, la cui ultima espressione sono
Tuwim e i suoi satelliti (non si capisce del resto perché mai si appellino futuristi) fu l’ultimo
riflesso di quella coda di romanticismo che si è trascinata da noi per tanti anni come un serpente
marino. Finalmente però è giunto il momento per la nazione di tornare alla vita fisiologica.
E cominciamo a vivere non con l’odore di cadavere e di bara, bensì con il corpo, i nervi, il
sangue, il desiderio e la passione di organismi normali e sani, capaci di guardare avanti e nel futuro.
La nazione in quanto creatura fisiologicamente viva deve scoprire a se stessa il suo proprio
robusto organismo e la vita contemporanea che più le si addice.
La nazione polacca non può continuare a vivere delle ceneri di re e fantasmi15 La nazione
polacca non può narcotizzarsi con gli incubi de “Le nozze”16, deve invece sentire in sé l’arte e la
poesia della rinascita contemporanea.
La Polonia ha conseguito la propria indipendenza politica in un momento e in circostanze
così felici che, in concomitanza a questo suo risveglio alla vita, in tutta Europa si sono risvegliati e
sono sbocciati nuovi valori sociali ed estetici.
Chissà che non sia stata la stessa Nemesi a imporre alla Polonia quell’impegno del destino
che sono i rari casi della storia.
Noi, senza avere un programma, desideriamo fondare una nuova era di valori estetici, cioè
di valori dell’arte.
Il tempio del romanticismo perpetuamente gemebondo è divenuto per noi come quei
piatti ripetitivi che servono ogni giorno ai ragazzi nei collegi fino alla noia e alla nausea.
Tutti desiderano cambiamenti, cose nuove, anche a costo di irritare i sensi.
La poesia e l’arte polacche di oggi debbono usare abbreviazioni e i necessari arrotondamenti
sintetici – deve essere modernista.
La poesia contemporanea deve dar luogo a una nuova forma individuale, adatta agli uomini
.
14
T. Czyżewski, Pogrzeb romantyzmu – Uwiąd starczy symbolizmu –Śmierć programizmu, in «Formiści», 4, 1921, pp. 12-13.
Nell’orig. dziady.
16
Opera teatrale di Stanisław Wyspiański.
15
Manifesti del futurismo polacco
contemporanei, affamati di emozioni nervose sintetiche.
Le associazioni dei sensi saranno rare, inattese e impreviste – la forma vivace – il verso il più
libero possibile – i contrasti tra pensieri i più distanti che ci siano.
Gli artisti faranno il minor uso possibile del tema, piuttosto costruiranno il più possibile.
Gli artisti si faranno guidare dall’istinto.
Questi non sono programmi, non sono canoni della produzione artistica, ma i tratti
generali dell’arte sintetica contemporanea. Se vi aggiungiamo la lingua che spesso deve servirsi
di segni e parole non generalmente accolte come concetti logici, bensì di segni e parole sensibili e
uditive – otteniamo il modo in cui ci esprimiamo e la nostra forma.
Ed è questa la poesia contemporanea, l’arte sintetica dell’uomo del XX e del XXI secolo.
Tuttavia non è su questi emblemi dell’arte nuova che si gettano i famelici mastini, gli
eunuchi della critica – bensì su quella corrente primaverile di vita che è la nostra arte vincitrice.
Morte al romanticismo, al simbolismo e al programmismo! Viva l’istinto meccanico.
[Traduzione di Emiliano Ranocchi]
123
Manifesti del futurismo polacco
Tytus Czyżewski
DALLA MACCHINA AGLI ANIMALI
124
17
Gli epigoni sentimentali del romanticismo e del simbolismo si stanno estinguendo – sta
per arrivare una nuova era di valori nuovi – senza le ingenue illusioni dell’ingenuo naturalismo.
Forza vitale – dal meccanismo generale all’istinto degli animali – saremo fratelli degli
animali e impareremo da loro l’arte istintiva, ameremo le macchine, perché esse sono le nostre
sorelle, e gli animali, perché essi sono i nostri insegnanti e fratelli.
Purché senza primitivismi programmatici
==== istinto
Uccidiamo l’”estetismo” che è in noi!
Signore e signori, animali domestici e selvaggi,
==== istinto elettrico
(macchina e forza vitale)
……………………………………………………………………………………………………………………………
………………………………………….......................................................................................................................
............
Amiamo le macchine elettriche e non facciamo loro torto.
……………………………………………………………………………………………………………………………
………………………………………….……...............................................................................................................
..............
Impariamo la musica dagli uccelli. – L’architettura, la pittura e la scultura di nidi degli
animali.
Istinto di meccanismo ==== “ciascuno scriva, scolpisca e dipinga come gli detta il suo
istinto”!
Cerchiamo l’istinto che abbiamo perso mentre per tutti questi secoli ci perfezionavamo
nell’arte e nella scienza.
Viva l’istinto elettrico
l’arte istintiva degli animali
l’istinto elettrico
dell’universo
dei minerali delle piante degli animali degli uomini
il medium della vita interiore.
[Traduzione Emiliano Ranocchi]
17
T. Czyżewski, Od maszyny do zwierząt, in: Idem, Noc-dzień, Kraków 1922, pp. 40-41.
Manifesti del futurismo polacco
Tytus Czyżewski
AWANGARDA AI SUOI AMICI
18
amico! conducente del tram n. 7
amico! presidente della repubblica
amico! studente universitario
amico! macellaio della p.s.p.19
amico! pappone
amico! intellettuale
amico! massimiliano
amico! stella del cinema di hertz20
è a voi, è a tutti che parliamo, lingue del giorno d’oggi, non alla parola blasé, insozzata
dalle sporche dita dei poeti: LA FOLLA.
la folla siete voi: conducente, presidente, massimiliano, intellettuale, prostituta.
è per voi che noi battiamo, cuore rivoluzionario della folla!
abbiamo fame attraverso le vostre bocche! siamo il grido squillante dei vostri polmoni che
fremono al vento!
pappone! intellettuale! conducente! stella del cinema! troppo a lungo avete venduto per
pochi soldi le vostre mani, la vostra abilità, il vostro acume, il vostro cervello, il vostro corpo!
nessuna paga, nessuna cena in un privé , nessun furto, nessun omaggio non varrà tutto
questo!
qui ci vuole una nuova forma di vita, non ancora incancrenita, totalmente fresca!
noi, sinistra letteraria, chiamati fino a poco fa futuristi, abbiamo deposto questo
onorevole appellativo nella convinzione di essere oramai riusciti a forgiare in Polonia una
sensibilità nuova, non usurata, e nuovi confini di una realtà non annacquata col lievito del
volgare estetismo.
riconosciamo di esserci sbagliati.
oggi proprio come 5 anni fa la Polonia soffoca sotto la coltre di radicata sazietà in cui
sono sprofondati i nostri viviferi proiettili senza scalfire la sua epidermide.
torniamo a riprendere da capo il lavoro interrotto per breve tempo; questa volta non
mediante l’aiuto di orazioni liriche e spontanee, bensì quello dell’avanguardia organizzata diamo
inizio in maniera sistematica e con metodo all’assedio delle trincee dell’elaborata menzogna
sociale.
amici – tirate un sospiro di sollievo
con voi c’è l’avanguardia
naprzód
en avant
vorwärts
vperëd
avanti
[Traduzione Lidia Mafrica]
18
T. Czyżewski, Awangarda do swoich przyjaciół, in «Awangarda. Dwutygodnik lewicy literackiej», 16 febbraio 1924.
Probabilmente abbreviazione di Polska Policja Państwowa (Polizia di Stato Polacca). Normalmente veniva usato
l’acronimo PP.
20
Aleksander Hertz (1879-1928), regista cinematografico, fondatore della prima casa cinematografica polacca Sfinks.
19
125
Manifesti del futurismo polacco
Anatol Stern, Bruno Jasieński
[INTRODUZIONE A “LA TERRA A SINISTRA”]
126
21
Ci sono due tipologie di poeti in Polonia: i primi, garbatucci, viziati impiegano la massima
cura a mettere in piega i propri versi; i secondi “fanno” i profeti. Ce ne sono altri ancora, che non si
lasciano ridurre a nessuna categoria. Quelli per cui la poesia non è né una pasticceria né un tempio,
bensì una palestra di vita ripulita dal volgare estetismo. Questi ultimi siamo noi, gli ex futuristi.
Poeti, scegliete. Il salotto della cultura borghese foderato dagli esotici cuscini sgualciti del
sentimento oppure la nuda strada, scossa dalle doglie del parto. Ma sono gli stessi storici della
cultura borghese ad annunciarne il declino. Siamo sensibili. E mossi da misericordia desideriamo
affrettare la sua morte, onde, una volta fatta piazza pulita, gettare al suo posto le fondamenta di
una cultura nuova. Odiamo il borghese, non solo quello che oggi ci copre la vista del mondo con
la lacera banconota del suo muso, ma il borghese come astrazione, la sua visione del mondo e ogni
cosa che gli appartiene. Desideriamo una nuova Polonia, non una nuova botteguccia.
La terra a sinistra è il primo volume di poesie dedicato all’uomo della folla, all’eroe occulto
della storia, nel nostro paese. Non intendiamo minimamente mettere ai nostri versi le scarpe di
una forma primitivizzata a suo uso e consumo; soltanto la forma che diamo è in grado di scoprire
e cantare le inaspettate americhe della sua florida anima complessa. La poesia è stata fino ad ora
una cocotte borghese, una gattina, una signorina Mimi. Indubbiamente, il borghese cercherà di
stimmatizzare e insozzare col suo tocco anche questo volumetto. Anch’esso verrà empiamente
abbandonato sui vecchi mobili rococò di vari saloni e boudoir. La nuova poesia è dopotutto “alla
moda”. Che dire? Lasciatecelo pure. Abbandonate voi stessi queste granate della nuova realtà
avvolte in copertine di carta nei ripostigli delle vostre abitazioni traboccanti di costoso vecchiume.
Possiate voi, mentre proverete ad appisolarvi beati sulla poltrona del verso che dondola melodiosa,
vomitare una buona volta di sgomento, ustionati dalle lingue taglienti della parola viva che esplode.
[Traduzione Lidia Mafrica]
21
A. Stern, B. Jasieński, Introduzione a Ziemia na lewo, Warszawa 1924.
Manifesti del futurismo polacco
Bruno Jasieński
IL FUTURISMO POLACCO (UN BILANCIO)
22
Il Futurismo è una forma di coscienza collettiva che è necessario
superare. Io, mentre tutti voi continuate ad essere futuristi, già non lo sono
più. Il manifesto è una barriera che bisogna oltrepassare. La macchina non
è un prodotto dell’uomo ma è la sua sovrastruttura. Le forme oggettive della
civiltà come bellezza fisica dell’uomo contemporaneo. La storia del mio
Futurismo. Contro il Futurismo.
A dire il vero una storia del futurismo l’ho già scritta. Il pubblico e la critica non se ne sono
resi conto dal momento che portava l’etichetta di “romanzo” e l’insolito titolo Le gambe di Izolda
Morgan. Oggi senza dubbio lo riscriverei in maniera leggermente diversa. I minatori che scavano
gallerie nelle rocce della coscienza collettiva contemporanea fanno difficoltà ad abbracciare con lo
sguardo la bellezza della prospettiva che spalancherà la galleria da essi scavata. Faranno ciò per noi
gli oziosi turisti della storia.
Il futurismo è senza dubbio una forma di coscienza collettiva. Per poterne parlare bisogna
dapprima averlo superato in se stessi. Ma la lotta, nella quale sfocia per necessità ogni superamento,
ha le proprie prospettive brevi e accecanti, e sulle cose che si trovano nel suo campo visivo cade
la sua luce particolare. Per questo ogni volta che si parla di futurismo ho sempre l’impressione di
affrontare una questione alquanto privata e personale.
Qui in Polonia, l’appellativo “futurista” ha acquisito un certo significato specificatamente
locale e offensivo che oscura il suo contenuto primigenio. È divenuto un’offesa. La ricerca della
causa di questo fenomeno impiegherebbe troppo tempo.
Tutta la nostra colpa consisteva nel fatto che abbiamo colto un certo momento della
coscienza sociale comune a noi tutti, non lo abbiamo rinnegato e abbiamo cercato di strutturarlo
in determinate nuove forme artistiche. Solamente nell’istante in cui queste forme saranno state
create, si potrà dire che quel momento è stato superato. Mettendolo a tacere non avanziamo
nemmeno di un centimetro, non solo: ci precludiamo la possibilità di qualsiasi avanzamento. Ciò
è fonte di una moltitudine di ribaltamenti molto divertenti. La situazione attuale ad es. si presenta
in maniera del tutto opposta rispetto a quanto il pubblico pensi. Io già non sono “futurista”, mentre
voi tutti, signori, continuate ad esserlo. Ciò può sembrare un paradosso, eppure è così.
Quando nel 1918, dopo il mio ritorno in Polonia, incontrai per la prima volta Tytus
Czyżewski, sapevamo chiaramente una cosa:
La ribollente ed esuberante vita contemporanea ha rotto le chiuse delle trincee e dei fili
spinati ed è penetrata nel mare della psiche polacca con una forza inaudita. Questa vita non ha
precedenti nella coscienza polacca.
La coscienza della società è la sua arte, intesa come vita organizzata. Ogni nuova fase della
22
B. Jasieński, Futuryzm polski (bilans), in «Zwrotnica», 6, 1923, p. 177.
127
Manifesti del futurismo polacco
vita esige nuove forme nell’arte. Soltanto attraverso la creazione di queste forme il momento
contemporaneo entra nella coscienza collettiva, diventa il suo momento organico e quindi
creativo. Una società che non crea in tempo nuove forme di organizzazione viene al contrario
vinta, superata, domata proprio da quel momento della vita contemporanea che non è capace di
dirigere.
128
Il gigantesco e rapido sviluppo delle forme della tecnica e dell’industria senza dubbio
costituisce la base fondamentale e la spina dorsale del momento contemporaneo. Esso ha dato
luogo a una nuova etica, una nuova estetica e una nuova realtà. L’introduzione della macchina
come elemento indispensabile e complementare nella vita dell’uomo ha dovuto necessariamente
comportare una profonda ristrutturazione della sua psiche, la creazione di equivalenti propri, così
come l’introduzione di un corpo estraneo in un organismo vivo costringe l’organismo a sviluppare
specifici anticorpi. Solo allora questi ultimi trasformano gli antigeni in corpi capaci di assimilare
ovvero in corpi da espellere. Se l’organismo umano o sociale non crea una quantità sufficiente di
questa energia, sopraggiunge l’intossicazione, l’infezione causata da un corpo estraneo.
Sviluppare questi anticorpi psichici, ossia creare delle forme che possano subordinare la
macchina all’uomo, ecco il compito prossimo dell’arte contemporanea.
Nel momento della presa di coscienza di questa verità, nacque il futurismo.
Molto prima della guerra era stato il futurismo italiano a rispondere a questa verità, poco
dopo fu quello russo, entrambi in modo diametralmente opposto.
La risposta del Futurismo italiano era semplice e si lascia racchiudere nella frase:
L’arte deve innalzare la macchina al livello di ideale erotico dell’umanità.
(Posizione che in Polonia per lungo tempo venne difesa con sforzo e coerenza dal grande
artista Tytus Czyżewski).
Adorare tuttavia non significa superare, al contrario significa assoggettarsi all’oggetto
adorato. Generalmente l’adorazione interviene come forma di coscienza al livello più basso
dell’evoluzione ed è una delle forme più primitive di reazione della stessa coscienza ai fenomeni
esterni.
L’uomo primitivo idolatrava gli elementi, dal momento che si sentiva completamente
inerme nei loro confronti. A uno stadio successivo questo rapporto si tramutò in rivolta contro
l’ignoto detronizzato, per poi, una volta vintolo, inserirlo nella cornice di una tranquillità sicura
della propria potenza.
La risposta del futurismo russo sin dall’inizio fu bifronte:
Le cose sono il nemico
forza capitelo.
Le cose andrebbero tagliate a pezzi!
O forse piuttosto bisogna amarle?
O forse le cose hanno un’anima diversa?23
Tutto il futurismo russo degli anni 1913-1919 oscilla proprio tra queste due verità,
propendendo ora da una, ora dall’altra parte. Soltanto nel 1919 Mistero buffo del medesimo
Majakovskij fornisce la risposta definitiva del futurismo russo: Compagne cose
23
Majakovskij, Vladimir Majakovskij, tragedija, 1913 [nota dell’autore].
Manifesti del futurismo polacco
Sapete cosa?
smettiamola di torcere il naso a vicenda.
Proviamoci: noi vi faremo
e voi ci nutrirete.
Questa risposta, mutuata dal socialismo, assegna alla macchina nella coscienza
contemporanea il posto che la società capitalistica riserva nel suo seno all’operaio.
L’arte polacca che, dopo la guerra, si destava da un letargo nazional-patriottico, trovò nel
futurismo italiano una risposta pronta - una risposta falsa. Occorreva sottometterla a critica,
accettarla o rifiutarla, ma in caso di rifiuto, occorreva fornire al suo posto una risposta propria.
Nel momento in cui le lame del pensiero polacco postbellico si incrociarono con quelle del
pensiero europeo, nacque il futurismo polacco.
Nacque in un momento strano e singolare.
Davanti al pensiero polacco, lavato in un bagno di sangue quadriennale, si spalancarono
improvvisamente le porte dell’Occidente. La questione della cultura europea moderna, nella
quale fino ad ora la Polonia non aveva preso parte diretta, occupata com’era dai propri problemi
nazionali, si aspettava ora da lei una soluzione.
Il bacillo della modernità irruppe nell’organismo polacco, non protetto da una vaccinazione
preventiva. Iniziò la lotta dell’organismo contro il bacillo, lotta per la morte o per la vita, una
produzione accelerata e febbrile di antitossine proprie. L’organismo polacco si trovò ad attraversare
una crisi e si agitava nelle convulsioni della febbre. Questa febbre, scatenata nell’organismo polacco
dal bacillo della modernità, questo periodo di lotta e di dolorosa trasformazione dell’organismo
entrerà nella storia della cultura moderna con il nome di futurismo polacco.
Dall’esterno sembrava semplicemente una guerra dichiarata da un gruppo di artisti alla
società del loro paese. La “società” si rinchiuse nei bastioni delle chiese e delle redazioni, donde
venivano rovesciati sui partigiani secchi di acqua sporca e corrosiva, si gridava durante le serate
di poesia, si lanciavano uova e pietre. Nessuno si rendeva chiaramente conto in nome di cosa si
lottasse e quale fosse esattamente il senso di questa lotta. La psiche polacca si sentì minacciata
nelle sue abitudini tradizionali e nei suoi vizi e si difendeva con un’energia che nessuno avrebbe
mai sospettato.
Inizialmente l’opinione pubblica, rappresentata dalla stampa, provò a minimizzare il
processo, a presentarlo come una semplice “corrente” importata dall’estero. Addirittura trasse
dal suo seno un’intera generazione di pescatori che con la canna dell’accademismo pescavano
dall’onda tempestosa ghiozzi di echi e di plagi immaginari e li portavano in trionfo innanzi al
pubblico a riprova del fatto che il processo che la inquietava non era affatto un suo processo
interno, bensì un tentativo di imporle certe strambe idee “straniere”.
Il pubblico non ci credette.
Allora l’opinione pubblica cambiò metodo. Suonò l’allarme. Si tirò fuori lo spauracchio
del bolscevismo e di una superpotenza anonima. Cominciarono le repressioni amministrative.
Confische di libri e riviste, complicazioni con la polizia e interruzione delle serate di poesia,
espulsione amministrativa degli artisti dai distretti. Tutti questi fatti, totalmente incomprensibili
129
Manifesti del futurismo polacco
per un artista straniero, diffondevano all’estero la fama della “barbarie polacca” e non erano che
ulteriori tappe successive della medesima lotta.
Ricordo una delle nostre prime grandi serate alla Filarmonica di Varsavia, il 9 febbraio
del 1921, alla quale accorsero 2000 persone. La gente si accalcava lungo i corridoi e circondava il
palco. Qualcuno del pubblico aveva portato un serpente, una donna era venuta con una scimmia.
Varsavia mostrava così che si stava futurizzando. Leggemmo dei versi. La gente saliva sulle sedie
e tentava di interromperci a forza di grida. Non erano buoni versi, ma al pubblico questo non
interessava minimamente. Ricordo come la signora Irena Solska, artista dotata di un’audacia fuori
dal comune e di geniale intuito, senza risposta alcuna da parte del pubblico, lanciava in sala le sue
migliori concezioni recitative, circondata dal grugnito ostile dei babbei.
Un’altra volta, durante una serata a Zakopane, lo stesso pubblico voleva linciare il poeta
Aleksander Wat che stava leggendo i suoi namopaniki, poesie di parole liberate dal giogo del
contenuto logico.
Oggi, quando alle mie serate si grida sempre meno (soltanto la polizia, in quanto istituzione
per principio conservatrice, ancora a lungo probabilmente non riuscirà a rinunciare ai suoi provati
metodi), quando i nostri libri si diffondono in una quantità sempre maggiore di copie e addirittura
(!) trovano degli editori, quando la nostra produzione artistica sta lentamente diventando una
borsa, nella quale infilano le mani anche quegli artisti che negano con zelo qualsiasi tipo di
rapporto con noi,
130
oggi quando possiamo ritenere la crisi ormai superata, sebbene il processo stesso non sia
affatto terminato,
si può rivolgere uno sguardo tranquillo ai cinque anni trascorsi e redigere un bilancio
sommario.
Abbiamo scritto molti versi brutti, abbiamo dipinto molti quadri brutti. La storia ce lo
perdonerà.
Fu un tempo strano e bello, un tempo in cui ogni strofa era una spinta in avanti, ogni
verso una difesa, un tempo in cui si facevano poesie come si fa la dinamite, e la parola diventava
una capsula detonante, tempo di un’eterna vigilanza e di una veglia ininterrotta, tempo in cui si
aguzzava lo sguardo cercando il posto in cui si potesse attaccare nella maniera più efficace possibile.
Ancora oggi che di versi brutti ne scrivo sempre meno, guardo con vero rimpianto a quegli
anni febbrili, pieni di presentimenti e di parole inespresse, anni vergini di germoglianti valori.
Per gli “amanti degli anniversari”24, ecco alcune date.
Il tutto iniziò lentamente, annunciato di tanto in tanto da qualche strana e inquietante eco
come il tuono prima della tempesta.
Ancora non molto prima della guerra, nel 1914, il tragico annunciatore e Giovanni Battista
del futurismo polacco, Jerzy Jankowski (autore di “Tram wpopszek ulicy”), spaventò il pubblico
polacco con versi pubblicati alla rinfusa in varie riviste – primo futurista polacco nel senso italiano
24 Espressione del futurista russo Majakovskij.
Manifesti del futurismo polacco
del termine. Le poesi scomparvero senza lasciare nessuna risonanza. Il libro arrivò troppo tardi.
La malattia lo strappò alle fila dei combattenti prima che facesse in tempo a venirci arruolato. E
malgrado Jankowski, con la sua opera, non abbia pesato sul piatto del movimento, rimarrà per
sempre nella nostra letteratura il simbolo della nuova e rinascente psiche polacca, come primo
annunciatore dei nuovi giorni, quando:
Il riverbero vermiglio ha avuto la meglio sull’acqua
un colpo secco di salve di carabina
nell’antica navata del tempio
condusse l’alba del futurismo25.
Contemporaneamente, nell’altra capitale polacca, Cracovia, un grande artista solitario,
Tytus Czyżewski, in una bottega appartata forgiava nel crogiolo della sua intuizione forme sempre
più stravaganti e misteriose.
Quando tornai in Polonia, dopo una lunga assenza, attorno a lui era raggruppato un
manipolo di pittori al di fuori di Cracovia noti sotto il nome di formisti, i quali con questo titolo
cominciavano allora a pubblicare una piccola rivista redatta da Czyżewski e da Leon Chwistek. I
formisti mi fecero l’impressione di una gilda medievale di ricercatori di una forma nuova. Separati
dalla strada dalla lastra di vetro delle loro botteghe, risolvevano uno dopo l’alto i problemi
pittorici che si presentavano, come si risolve un’equazione matematica, con ferrea pertinacia e con
la sicurezza di avere ragione. Nel frattempo, al di là del vetro, la vita polacca scorreva tumultuosa,
si agitava nella febbre post bellica, sbatteva con la testa contro il muro costretta in un labirinto
di vicoli ciechi - una vita scompigliata, variopinta, senza lingua. Per il lavoro di preparazione era
troppo tardi. Il momento richiedeva un’azione radicale.
Fu allora che incontrai per la prima volta anche Stanisław Młodożeniec, giovane e
promettente artista, dal quale tutti ci aspettavamo molto (non conosco i motivi per cui ultimamente
abbia smesso di scrivere). Nacque così la prima organizzazione polacca futurista, il cosiddetto
“Organetto”. Il nome non era né così scherzoso, né così casuale, come potrebbe sembrare di primo
acchito. Esso rappresentava un momento decisivo per il futurismo polacco, il momento in cui la
nuova arte polacca usciva in strada, il primo atto della lotta che si stava iniziando.
Piovevano manifesti, con i manifesti le serate.
Che fosse Cracovia ad attraversare per prima la crisi del futurismo - Cracovia, la città
mausoleo, nella quale ogni mattone è un mattone del Wawel e ogni abitante è un custode di museo
- Cracovia, la Firenze polacca, panottico delle mummie nazionali - era un sintomo di assoluta
sanità e un segno della vitalità dell’organismo polacco.
Non rimaneva altro che attaccare il borghese polacco nella sua tana: Varsavia. Adempirono
a questo compito quattro grandi serate, che si succedettero l’una all’altra senza interruzione,
precedute da una monstr-serata alla Filarmonica.
Nel febbraio del 1921 Varsavia si ammalò.
A Varsavia mi incontrai per la prima volta con Anatol Stern e Aleksander Wat. Il primo
25
Da Tram wpopszek ulicy, cit. a memoria, non esatta.
131
Manifesti del futurismo polacco
appello da loro firmato che mi cadde tra le mani era intitolato “Tak”. Era ancora tutto impregnato
dello spirito dell’espressionismo tedesco che annunciava qualcuno che deve venire. Era per me
qualcosa di totalmente estraneo. L’almanacco Gga, pubblicato nel periodo delle serate di Varsavia,
che promuoveva il primitivismo come risposta del futurismo polacco, era un anacronismo.
Fortunatamente i versi non avevano nulla a che fare con il “primitivistico” manifesto.
Dopo lunghe discussioni venne costituito a Varsavia il fronte omogeneo del futurismo
polacco. Le serate di Łódź, nel marzo del 1921, ne costituirono il primo documento. Il risultato
ne fu: l’edizione speciale26 dei futuristi, i manifesti del futurismo polacco, Cracovia, giugno 1921,
distribuita in migliaia di copie in tutte le città della Polonia.
Nei “Manifesti del futurismo polacco”, misi a fuoco tutta una serie di idee che ci stavano
allora a cuore ed erano particolarmente attuali. I “Manifesti” non erano un programma discusso
in precedenza, votato dal congresso dei futuristi polacchi. L’azione era incominciata. Il pubblico
pretendeva da parte nostra un passaporto ideologico, cosa cui aveva peraltro pieno diritto. Nei
manifesti abbozzai quel piano alquanto generale, nel quale tutti potevamo ritrovarci senza
incorrere in amputazioni individuali.
132
Nei “Manifesti” si disegnava per la prima volta in maniera assolutamente chiara la faccia
del futurismo polacco che lo distingueva con una linea fin troppo marcata dal futurismo italiano
e russo, nonostante determinati indiscutibili parallelismi. Analizzare e mettere in luce questi
elementi sarà compito degli storici futuri del futurismo. Non possiedo i benché minimi requisiti
per adempiere a questo ruolo. Come dicevo, la questione del futurismo è per me una questione
personale. Ogni giorno consapevolmente vissuto diventa materiale esanime, per il quale non
provo altro che odio. Io sono tutto il giorno in cui vivo. Non comprendo il passato. Gli manca
sempre un ”adesso”. Ogni “ieri”, considerato in maniera isolata, perde senso. Glielo restituisce solo
ogni nuovo “oggi”. I “Manifesti” lo sapevano, quando lottavano per l’attualità dell’opera d’arte e
per la sua validità di ventiquattr’ore.
I manifesti del futurismo polacco sono la formulazione di ciò che, in linea di principio, era
soltanto un fermento organico.
Per la verità ogni movimento finisce con il proprio manifesto. È un processo totalmente
opposto a quello che il pubblico si immagina. Non importa se talvolta, per una serie di anni
anche piuttosto lunga dopo aver fatto pubblica professione di fede, un certo gruppo di persone
si comporta come se adempiesse alle promesse in essa professate. Questa è una illusione comune.
Un movimento espresso nei limiti di una formula è già un movimento morto, una barriera che
bisogna superare. Vivi sono gli uomini, e propriamente quelli che non creano secondo i dettami del
proprio manifesto. Peraltro ciò non ha nulla in comune con la cosiddetta assenza di programma,
così diffusa in Polonia, che considero sinonimo di assenza di pensiero, e con la rinuncia ad ogni
“programma” soprattutto nel campo dell’arte. Chi non ha mai avuto il proprio manifesto, chi non
ha mai abbandonato nulla, non ha nulla da dire nella vita.
“I manifesti del futurismo polacco” rappresentano la sua fine. Il canto del cigno fu Il coltello
in pancia, la più bella pubblicazione spazzatura del futurismo europeo.
26
Traduciamo così il polacco jednodńuwka che indica una pubblicazione non periodica (non un settimanale, né un mensile).
Manifesti del futurismo polacco
La risposta collettiva del futurismo polacco era stata trovata. Fu proprio in quel momento
che il futurismo cessò di esistere.
Tutto quanto è seguito, è già percorso e ricerca di risposte individuali.
Quale fu la risposta del futurismo polacco?
Davanti alla psiche polacca, romantica fino al midollo, era nato un intero mare di nuove
forme oggettive della civiltà, nella produzione delle quali essa non aveva avuto la benché
minima parte. Con queste forme essa iniziava ad entrare in un certo rapporto. Occorreva creare
tempestivamente le forme atte a permetterle di accogliere l’eredità della civiltà della macchina
non come un bagaglio morto, bensì come un prodotto interno proprio, in altre parole creare delle
forme in grado di assoggettarle la macchina.
Il futurismo italiano le aveva insegnato a vedere nella macchina il modello e l’ideale di
organismo. Attraverso la continua celebrazione della macchina il futurismo italiano sperava di
introdurla nella coscienza comune come uno dei momenti erotici.
Il futurismo russo intendeva la macchina come prodotto e servitore dell’uomo. Riconduceva
il suo rapporto con l’uomo a quello puramente economico del lavoratore con il proprio datore di
lavoro. La risposta del futurismo polacco fu radicalmente diversa:
L’uomo nella propria continua espansione verso l’esterno deve creare sempre nuove forme
di percezione, cioè ristrutturare costantemente se stesso in relazione ai nuovi problemi che si
stagliano dinnanzi a lui e ai quali deve contrapporsi. Una di queste forme è proprio la macchina.
La macchina non è un prodotto dell’uomo, è la sua sovrastruttura, il suo
nuovo organo, indispensabile a lui nell’attuale stadio dell’evoluzione. Il
rapporto dell’uomo con la macchina equivale al rapporto dell’organismo
con un proprio nuovo organo. Essa è tanto schiava dell’uomo quanto può esserlo la
sua stessa mano, soggetta agli ordini di quella stessa unica centrale cerebrale. La privazione sia
dell’una, come dell’altra farebbe dell’uomo contemporaneo un menomato.
Il compito dell’arte contemporanea è introdurre questo momento assolutamente
fondamentale per la moderna idea di cultura nella coscienza collettiva, renderlo suo sangue e suo
sentimento istintivo. L’arte tuttavia può fare ciò non attraverso la celebrazione della bellezza della
macchina (questo è un argomento come un altro)27 né attraverso l’introduzione della macchina
reale nell’arte (ciò che peraltro può costituire uno dei suoi tanti metodi)28, bensì attraverso la
costruzione di nuovi organismi propri sulla base delle leggi della macchina: leggi di economia,
funzionalità e dinamica. Per questo, nonostante il futurismo polacco rispetto a quello italiano si
sia occupato pochissimo del tema della macchina (Czyżewski, Jasieński), ha raggiunto per questa
via risultati molto più significativi.
Il merito del futurismo polacco sta nel fatto di aver insegnato a cogliere l’uomo
contemporaneo proprio in questa profondità e di aver creato per quest’uomo un’arte. In questo
27
Jasieński fa ancora una volta riferimento al feticismo della macchina proprio del futurismo italiano, ma probabilmente
anche all’idea della macchina come modello estetico predicata da Le Corbusier sulle pagine di «L’Esprit Nouveau».
28
Jasieński allude qui alla proposta contenuta nel saggio di T. Peiper, Miasto, Masa, Maszyna, in «Zwrotnica», luglio 1922
(cfr. Tadeusz Peiper, Pisma wybrane, a cura di Stanisław Jaworski, Ossolineum, Wrocław-Warszawa-Kraków-Gdańsk 1979,
133
Manifesti del futurismo polacco
consiste il parallelo che possiamo tracciare tra futurismo e Rinascimento, parallelo che si pone in
maniera del tutto evidente e naturale.
Il Rinascimento per primo insegnò all’uomo a vedere la bellezza del
proprio corpo. Innalzò il corpo umano dal ruolo di “materia”, di involucro
dell’“anima” immateriale, a quello di organo paritario.
Da allora l’uomo, in una lotta indefessa per il suo essere, ha educato in sé e sviluppato un
complesso innumerevole di nuovi organi, con i quali ha abbracciato il mondo, come un polipo
con i suoi tentacoli.
Il futurismo polacco ha insegnato all’uomo contemporaneo a vedere
nelle forme oggettive della civiltà la bellezza del proprio corpo arricchito.
Lo ha guarito dal feticismo che domina l’intero pensiero futuristico
contemporaneo.
In questo consiste il suo significato imperituro.
134
Forse qualcuno mi accuserà di tentare di piegare il Futurismo a una mia personale teoria e
che la produzione dei miei compagni non conferma la linea di sviluppo da me tracciata in questa
sede. Sarebbe un malinteso. Il futurismo non è una scuola, è una determinata forma di coscienza,
uno stato psichico, per il quale oggi ogni individuo consapevole deve passare prima di superarlo.
La battaglia è una, i suoi percorsi e risultati sono svariati. Non ho scritto la storia del futurismo, ho
scritto la storia del mio futurismo. Il fatto poi che, per qualche tempo, io sia trovato alla guida del
gruppo chiamato “futurismo polacco” conferisce alle mie parole un certo valore obiettivo.
Del resto la linea che ho qui tracciata attraversa, in maniera più o meno chiara, la produzione
di tutti i futuristi polacchi e, fino a un certo punto, è l’aria che in maniera istintiva ha visto nascere
quelle poesie.
Un tentativo di transumanare la città contemporanea è “Il canto della fame” e, salvo qualche
eccezione, tutta la mia produzione fino ad oggi.
Sullo stesso fuoco di un’autocoscienza dolente e sconfinata ardono le costruzioni in acciaio
e calcestruzzo di Tytus Czyżewski (L’occhio verde, Notte-giorno).
I Namopaniki di Aleksander Wat, poesie di parole scomposte nelle loro componenti
elementari, sono l’eco della medesima battaglia con l’oggetto, trasportata nel campo della parola
- una battaglia per sottrarre all’oggetto il suo contenuto autonomo.
Di essa parlano le parole deformate della poesia di Młodożeniec.
Sotto il suo caldo respiro si è formata infine la teoria del nonsense di Anatol Stern. Il cerchio
sempre più soffocante che le forme oggettive della civiltà contemporanea stringono attorno
all’uomo a mano a mano che crescono, portando inevitabilmente alla completa meccanizzazione
pp. 31-34). In generale tutto il passaggio è una risposta (in parte polemica) alle tesi contenute nel saggio di Peiper. In realtà la
proposta di Jasieński ha più di un aspetto in comune con quella di Le Corbusier (la macchina come modello di economia,
funzionalità e dinamica), resta da vedere se e quanto il poeta polacco ne fosse consapevole.
Manifesti del futurismo polacco
della vita dell’individuo che non riconosce in esse solamente i propri organi perfezionati, lo
costringe alla ricerca di una via d’uscita. Codesta via d’uscita, per Stern, è l’arte. Un’arte basata
sul nonsense può diventare per l’uomo moderno infettato dalla macchina un’aria artificiale in
grado di sottrarlo per un istante al ghetto della logica e della costruzione e di trovare in esso il
suo sbocco e riposo. Non condivido questa posizione. Il nonsense è una dinamite. Potrebbe
diventare materiale per l’anarchizzazione delle masse (anarchia intellettuale). Nel momento in
cui il collettivo ha appena cominciato a deliberare esso non ha ragion d’essere. Lo Stern teorico
rappresenta, in Polonia, un importante capitolo del pensiero futurista (da Apollinaire a Dada) che
non può essere passato sotto silenzio nella storia del futurismo.
Oggi, quando il periodo della lotta collettiva per una forma nuova può già essere considerato
finito, le differenze tra i singoli autori si delineano in maniera così netta che a colui che getti uno
sguardo indietro viene fatto di porsi la domanda se sia mai veramente esistito un futurismo polacco
come unità, o se non sia stato solo un gruppo di persone legate da una comunità di espansione che
oggi stanno ritrovando la propria vera strada. Questa impressione è una comune illusione ottica
causata dalla mancanza di prospettiva storica.
Ci fu una città della coscienza polacca e ci fu un manipolo di partigiani che volevano
conquistarla.
Erano come persone che si siano raccolte in piazza per contare le proprie forze, armarsi e
architettare un piano.
Chiamarono la piazza futurismo polacco.
E adesso si sparpagliano per la città, ognuno per la sua via.
Per un’unica idea – per la vittoria.
Ognuno per la sua via.
Nera e inaccessibile è la città della coscienza polacca. Vi sono molte vie laterali, vicoli e
strade cieche.
Quelli che non conoscono bene la strada - si perderanno.
La città si è chiusa alle loro spalle.
Nessuna lampada faceva loro luce.
Entrarono nella notte.
Ognuno per la sua via.
[Traduzione Emiliano Ranocchi]
135
Manifesti del futurismo polacco
Anatol Stern
LA MACCHINA COME IDEALE DELL’ARTE D’OGGI
E I PREGIUDIZI ESTETICI
29
136
Non c’è niente di più vitale di un pregiudizio, quale che sia, filosofico, scientifico o estetico.
La quantità più cospicua di quei massi che facciamo rotolare dalla via maestra della vita per la quale
avanziamo non impedisce di incontrarne sempre di nuovi, e addirittura, nello stesso smantellare
taluni pregiudizi, di crearne altri. Eppure la filosofia, accessibile per il suo carattere esoterico
esclusivamente ad una cerchia eletta di persone, se la cava benissimo coi propri pregiudizi in casa
sua, così da imporre facilmente il proprio punto di vista ad una maggioranza di profani.
Di una simile “extraterritorialità” godono le scienze esatte, separate dalla massa da un
muro di termini latini, formule matematiche, di strumenti da laboratorio, etc. Inerme è invece
l’arte. Un nuovo Einstein confuterà un giorno il vecchio Einstein, come quest’ultimo fece con
Copernico, oppure, più esattamente, introdurrà un’emenda che suonerà del tutto assurda, ma
il comune mortale l’accoglierà con tutta l’ammirazione dovuta all’insondabile sapienza dello
studioso. E non gli provocherà turbamento alcuno il fatto che qualche nuovo Bergson inficerà in
due cospicui tomi il nuovo Einstein (come accade oggi). Non arriverà mai, però, il momento in
cui la recensione di un giornale potrà influire sul parere del lettore riguardo a un’opera d’arte, e
un comune mortale non crederà mai che anche l’arte ha i suoi segreti, le sue formule, inaccessibili
senza previa preparazione. L’arte è il frutto più democratico dell’immaginazione umana, e in essa
si celano sia i suoi maggiori pregi, come pure difetti impossibili da estirpare.
Ed ecco perché così ingrata è la lotta contro il pregiudizio estetico. L’uomo della strada
– e non soltanto lui –s a fatica abbandona gli ideali artistici coronati dai primi moti della sua
sensibilità estetica. Fedele nel proprio intimo all’assoluto, alla più comoda delle dottrine, senza
la quale così tante sono le cose che si riescono a spiegare solamente con un certo sforzo, egli
crede altresì nell’indistruttibilità, nella stabilità e nel valore assoluto di ciò che ritiene essere
il concetto di bellezza artistica. Si tratta di una fede diffusa. Può contare parecchi secoli e non
ne sono immuni neppure le persone intellettualmente dotate. Si estende persino ai dettagli più
minuti, e con ostinazione difende palmo a palmo le sue opinioni. È lei che fa dire a Boileau che se
Omero usò nella sua poesia la parola “cane”, è soltanto perché suona bene in greco, sempre lei fece
chiamare i sonetti di Crimea “poesia tatara” dall’élite dell’intellighenzia dell’epoca e paragonare
le ballate di Mickiewicz a fantasticherie di garzoni di stalla e ragazze di fattoria. Sempre lei fece sì
che Tolstoj in Russia, Nordau30 in Germania e Jeske-Choiński in Polonia ritenessero il periodo del
decadentismo e del simbolismo europeo con in testa Baudelaire, Ibsen e Maeterlinck una psicosi
diffusa e delirio degenere di nevrotici, e che lo dichiarassero in tre libri universalmente noti. La
lista di casi in cui un pregiudizio artistico si è impadronito completamente delle proprie vittime
potrebbe non finire mai.
Questo stato di cose arriva allo zenit nei momenti di violenti sconvolgimenti culturali e
intellettuali. Oggi è possibile osservarlo in maniera particolarmente chiara. Generalmente non
mi sembra di sentire qualcuno insorgere sdegnato contro la rivoluzione che Einstein ha compiuto
29
A. Stern, Maszyna jako ideał sztuki dzisiejszej a przesądy estetyczne, in «Głos Polski», 196, 1924, p. 4.
Max Nordau (1849-1923). Nell’originale il cognome viene erroneamente scritto Norden.
30
Manifesti del futurismo polacco
nelle nostre idee fisico-astronomiche, non sento minacce indirizzate al signore che ha posto le
fondamenta della logica contemporanea introducendo il concetto di identità nel concetto di
giudizio, e ho l’impressione che nessuno intenda pestare Freud per avere esteso la copula sessuale
a pressoché ogni manifestazione della vita spirituale. Sento invece spesso minacce indirizzate alla
mia persona e ai miei amici, e so che molte signore volentieri proverebbero la forza dei loro dentini
e delle loro unghiette sul viso di molti artisti dell’arte nuova.
La macchina, che gli artisti contemporanei considerano “leva del progresso che dissoda la
psiche dell’uomo d’oggi”, desta soprattutto svariate proteste quando diventa materiale dell’opera
d’arte. È risaputo che essa svolge nell’arte d’oggigiorno un ruolo primario. Non solo in quanto
artefice di determinati generi artistici (“mamma del cinema”, la chiama sempre l’ottimo Tadeusz
Peiper), ma altresì in quanto essa è una di quelle rappresentazioni, per le quali che la nuova arte
europea nutre una predilezione particolare. Ciononostante, pare che ai classici e agli pseudoclassici fosse permesso cantare i propri dei, che ai romantici fosse permesso bramare rusalche,
ondine ed elfi, ai decadenti - una carogna, agli esteti - un usignolo, ma l’artista contemporaneo
stia alla larga dalla macchina che pure sembrerebbe potere aspirare al trono nelle sue visioni con
maggiore fondatezza rispetto all’antico Olimpo.
Come spiegare questo odio nei confronti della macchina? Indubbiamente col suo ruolo
schiacciante nei confronti della parte lavoratrice del genere umano che nella situazione attuale
sta subendo una cocente sconfitta. In Polonia Irzykowski è uno di questi nemici della macchina.
Soffermiamoci sulle sue obiezioni, premettendo tuttavia che nel difendere la macchina la
trattiamo come pars pro toto dell’arte nuova. Irzykowski dice: “Non si può scrivere della macchina
senza prendere in considerazione al contempo il problema del lavoro dell’uomo. I nostri futuristi,
persone agiate, non sentono questo problema”. Ma domanderò a Irzykowski, paladino di “persone
di carta”, di persone irreali, abiologiche, perché mai non possano esistere alla stessa stregua
“macchine di carta”? Solo due persone in Polonia avrebbero potuto sollevare tale obiezione ai
futuristi in questi termini, Brzozowski e appresso a lui Breiter. Una simile obiezione da parte di
Irzykowski stupisce, e palesa casualmente l’enorme tallone d’Achille dello scrittore, che i suoi
ragguardevoli meriti critici impedivano di scorgere: la mancanza, in questo scrittore, di criteri
estetici fissi; il modo assai arbitrario di prendere una posizione critica, il suo saltellare burlone
da un punto di vista all’altro. È un po’ come giocare a palla estetica avvelenata, in cui è possibile
a priori scegliere l’esecuzione o accogliere con entusiasmo l’opera oggetto di indagine, a seconda
del ruolo assegnato.
Tralasciando però questo falso metodo di indagine e limitandoci esclusivamente
all’obiezione in sé secondo la quale “non si può scrivere della macchina senza citare al contempo il
problema del lavoro dell’uomo”, occorre dire che la forma di tale obiezione tradisce una concezione
del ruolo della poesia estremamente limitata e utilitaristica, è una forma di “attivismo sociale” nel
campo dell’estetica e non già estetica. E se Irzykowski spara a zero contro gli artisti dell’arte nuova
su basi non tanto estetiche, quanto sociologiche, in fin dei conti gli si potrebbe persino rispondere
in totale franchezza: la questione del lavoro non deve mica riguardare per forza gli artisti. Non
è nostra intenzione essere sociologi dell’arte. Non sono lo sfruttamento dell’operaio o il valore
della produzione meccanica a destare nei futuristi l’interesse per la macchina, ma le sue nuove
proprietà grazie alle quali la tecnica contemporanea forgia la sensibilità e la psiche dell’uomo
d’oggi. I futuristi possono pure (ma non devono per forza) esprimersi sulla questione della
macchina e dell’operaio, ma lo scopo ideale della loro poesia, derivante dalla loro cognizione della
macchina, consisterà nell’elaborazione del materiale artistico mediante la dinamica, l’economia
137
Manifesti del futurismo polacco
138
dei mezzi, la funzionalità immediata, caratteristiche principali del lavoro meccanico. E proprio
in questo lavoro interno alla stessa opera d’arte, quello maggiormente produttivo, nell’invaghirsi
della multiformità materiale dei suoi elementi, nel loro sintetico approfondimento - ecco dove
sta l’influsso della cultura meccanica. Il problema del lavoro in senso utilitaristico di cui parla
Irzykowski ci è caro, tuttavia esso ha a che vedere principalmente con il metodo di tale lavoro. Nel
problema del motore non ci interessano né il lavoratore, né tantomeno, come vorrebbe Peiper,
“l’uomo potente che lo ha ideato e l’uomo fortunato che lo adopera”; ci interessa piuttosto il
motore in sé, questa nuova forma di espressione di cui esso è la manifestazione. L’errore di
Irzykowski consiste nell’aver posto la questione del futurismo sull’ingenuo piano della sociologia,
sorvolando le profondità dell’estetica del futurismo.
L’arte nuova europea e in particolare, bisogna ammetterlo, quella polacca, ha dato e dà
tuttora opere allo stato di ebollizione. Dal punto di vista estetico essa non è (forse per fortuna)
un organismo definitivamente cristallizzato, ma anzi, si sta appena formando. Ci vuole qui un
occhio estremamente aguzzo e non ottenebrato dalle lenti di alcuno dei criteri estetici finora
esistenti per scorgere (se non le si percepisce emotivamente) le radici mediante le quali essa ha
attecchito nella nostra cultura. Un occhio del genere non ce l’ha avuto nessuno dei nostri critici,
quantunque alcuni si siano sforzati di tracciarne lealmente lo sviluppo. E infine le invettive mosse
da Irzykowski nei confronti del futurismo si sono rivelate un’arma quanto meno debole (ad es.
il ripetere con comica caparbietà l’accusa che “il futurismo è stato trapiantato dall’estero”. Cosa
direbbe allora Irzykowski dell’umanesimo polacco, di Kochanowski e di Górnicki?).
Lungi da me accusare questi critici di malafede. Sono semplicemente convinto, in base
alle precedenti esperienze, della loro riluttanza a comprendere l’essenza del futurismo e i suoi
principi fondamentali. Irzykowski, suppongo, risente in maniera alquanto dolorosa della brutale
distruzione dei precedenti templi estetici operata dal futurismo, e il discepolo dell’estetica
idealistica e il metafisico d’arte nascosto in lui si ribellano. Egli è la stessa persona che persino il
nudo naturalismo senza pretese (ne “Gli incanti del naturalismo”) concepisce in chiave metaforica:
“Sconfiggere la Medusa con la sua stessa immagine! Chiamare l’innominato per nome! Quanta
astuzia, quanta ironia, quanta vendetta nel naturalismo!”. Gli strumenti critici di Irzykowski
sono piuttosto astratti, ambigui e sfuggenti. Il metodo di studio piuttosto sofistico. Lo studio del
futurismo mediante questo metodo e questi strumenti, questo passare al setaccio un complicato
meccanismo di ferro, ha tutta l’aria d’essere uno sforzo inutile.
E ancora una cosa. Irzykowski rimprovera i futuristi di non sapere nulla della questione
del lavoro, giacché non ne hanno percezione in quanto “persone agiate” (?!). In altre parole: non
siete mai stati né minatori né fonditori, come potrete mai diventare futuristi? Ebbene questa
singolare argomentazione sulla superficialità della nuova arte polacca preferirei non confutarla, e
vorrei lasciare a Irzykowski la piacevole illusione che si tratti di un’obiezione del tutto pertinente;
e se l’ho già confutata, allora mi rincresce. Perché mai? Ammetto persino spudoratamente che
l’accusa di “agiatezza” un poco mi lusinga.
[Traduzione Lidia Mafrica]
Manifesti del futurismo polacco
Abstract
Emiliano Ranocchi
The Author presents the most significant Manifestos of Polish Futurism in Italian translation. They follow the original Polish
text, also maintaining the graphic aspects.
Keywords: Polish Futurism, Manifestos
«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», (VII) 7, 2016, pp. 103-139
139
Giovanna Tomassucci
Anatol Stern e Bruno Jasieński
I
l saggio che qui presentiamo e pubblichiamo nella mia traduzione è dedicato a Bruno
Jasieński, figura centrale del Futurismo polacco, ed è stato scritto da un altro protagonista e
fondatore del movimento, Anatol Stern (1899-1968). Autore, assieme ad Aleksander Wat,
dell’almanacco poetico Gga (1920), del numero unico Nuż w bżuhu [Il coltello nella pancia]
e di To są niebieskie pięty, które trzeba pomalować [Sono talloni azzurri che vanno ridipinti,
1920], Stern fu anche critico letterario e cinematografico, sceneggiatore e traduttore. Noto per
la sua apertura alle innovative tendenze della nuova poesia europea, tradusse intensamente dal
russo e dal francese, collaborando a «Nowa Sztuka» (1921-1923), rivista fiancheggiatrice dei
movimenti d’avanguardia, fondata a Varsavia assieme a Jarosław Iwaszkiewicz, «Zwrotnica»
e «Wiadomości Literackie». Tra le sue oltre trenta sceneggiature, ricordiamo Der Dybuk [Il
Dibbuk, 1937], scritta in collaborazione con Andrzej Marek e Alter Kacyzne.
La stretta collaborazione con Bruno Jasieński – proveniente dalla formazione futurista creata
a Cracovia assieme a Stanisław Młodożeniec e Tytus Czyżewski – fu una delle più produttive nella
storia del movimento e si protrasse ben oltre la partenza per la Francia di quest’ultimo nel 1925.
I due condividevano la propensione verso una poesia dalla ritmica allitterante, piena di nuove
metafore, oltre a un profondo interesse per le sperimentazioni dei futuristi russi, che il bilingue
Jasieński conosceva bene dall’adolescenza, trascorsa in Russia con la famiglia. Quest’intensa
ricerca comune sarebbe confluita nella pioneristica opera di traduzione delle Avanguardie russe,
l’Antologia Nowej Poezji Rosyjskiej [Antologia della nuova poesia russa, 1927], fondamentale
esperienza ripresa da Stern a metà degli anni Cinquanta, quando, grazie al Disgelo, poté tornare a
tradurre l’autore della Nuvola in calzoni.
Le opere risalenti al Ventennio tra le due guerre, Nagi człowiek w śródmieściu [Un uomo
nudo in città, 1919], il poema Romans w Peru [Un flirt in Perù, 1920], Futuryzje [Futuresie,
1920], Anielski cham [Uno zotico angelico, 1924], Bieg do bieguna [Corsa al polo 1927],
oltre ai due poemi Europa (1929, composto prima del 1925) e Piłsudski (1934), suscitarono
accese polemiche e censure: accusato di blasfemia, il loro autore fu incarcerato subito dopo la
pubblicazione di Uśmiech Primavery [Il sorriso di Primavera, 1919], una poesia in cui, accanto a
una vezzosa Vergine Maria, compariva Dio stesso, visto nell’atto di servire del vino al poeta.
Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, anche a causa delle sue origini ebraiche,
Stern cercò rifugio nella Leopoli occupata dai sovietici, ma nel gennaio 1940 venne arrestato
dall’NKVD, condividendo così la sorte di altri scrittori polacchi considerati antisovietici, come
Aleksander Wat e Tadeusz Peiper. Riacquistata la libertà nel 1942, si arruolò nell’Armata del
generale Anders, composta da prigionieri politici e di guerra, senza tuttavia proseguire fino alla
fine la campagna militare: si fermò per alcuni anni in Palestina dove tradusse in ebraico la propria
opera poetica e in prosa.
Tornato in patria, solo dopo il 1956 potrà finalmente contribuire alla riabilitazione delle
141
Giovanna Tomassucci
142
Avanguardie storiche, in particolare della figura di Bruno Jasieński, tragicamente scomparso nelle
purghe staliniane. A lui dedicherà la poesia Do przyjaciela [A un amico, 1956] e soprattutto
ricordi e saggi, tra cui un intero capitolo di Poezja zbuntowana (Szkice XX rocznicy poezji
międzywojennej [Poesia in rivolta (Schizzi del XX anniversario della poesia del Ventennio tra
le due guerre, 1964)], che contiene il saggio qui presentato. Fu con la sua prefazione che nel
1957 apparvero la prima antologia poetica postbellica e il romanzo Palę Paryż [Brucio Parigi]
di Jasieński. Coronamento di questa attività decennale fu la monografia, uscita postuma nel
1969, Bruno Jasieński, in cui furono raccolte anche varie testimonianze di amici, collaboratori e
familiari polacchi e sovietici.
Nella non facile riscoperta del Futurismo polacco, che ancora oggi non gode della stessa
attenzione riservata ad altri protagonisti delle Avanguardie storiche europee, il contributo di
Stern, uno dei primi ad apparire nella Polonia del dopoguerra, ha rivestito un ruolo di primaria
importanza, aprendo la strada agli studi su Jasieński, tra cui la monografia di Edward Balcerzan,
Styl i poetyka twórczości dwujęzycznej Brunona Jasieńskiego [Lo stile e la poetica dell’opera
bilingue di Bruno Jasieński] (1968). La testimonianza qui presentata non ricostruisce infatti solo
l’intensa collaborazione con l’autore del Ballo dei manichini e gli altri esponenti del movimento
(basti confrontarla a quella, assai meno sistematica, di Aleksander Wat nell’intervista fiume
rilasciata a Cz. Miłosz, Il mio secolo), ma anche per la sua capacità di analisi della poetica del
primo Jasieński, da lui considerata pienamente originale e non dipendente dal Futurismo russo,
nonostante la lettura intensa del poeta delle opere di Majakovskij.
Un’antologia in due volumi dei testi poetici sterniani è apparsa in Polonia nel 1985. In
Italia alcune sue poesie sono state tradotte da Carlo Verdiani (Poeti polacchi contemporanei, Silva
Editore, Milano 1961, pp. 117-124) e da Monika Woźniak («Avanguardia. Rivista di letteratura
contemporanea», I/2, 1996, pp. 144-145). La sua pièce Fabrykant torped albo ucieczka serca [Il
fabbricante di torpedini ovvero la fuga del cuore, 1920, edita solo nel 1976] è leggibile in Gli altri
futurismi. Futurismi e movimenti d’avanguardia in Russia, Polonia, Cecoslovacchia, Bulgaria,
Romania, Edizioni Plus, Pisa 2010, trad. Giovanna Tomassucci, mentre la sua prefazione a Brucio
Parigi è apparsa recentemente in inglese (Bruno Jasieński, I Burn Paris, Twisted Spoon Press,
Praga 2012).
Anatol Stern
Bruno Jasieński
Nella storia della nostra letteratura il nome di Jasieński si associa costantemente con le vicende del
Futurismo polacco, movimento di cui è uno dei fondatori. Ma anche la sua produzione successiva
è impensabile senza gli arditi esperimenti della sua giovinezza e questo forse non riguarda solo la
sua opera poetica.
Che cosa era il Futurismo polacco al momento del mio incontro con Jasieński? La nostra
poesia era alla ricerca di una strada che dinamizzasse il mondo. Se Marinetti aveva proclamato il
culto della forza, tentando di metter fine al letargo del suo popolo, i Futuristi polacchi lanciavano
invece lo slogan della ribellione in nome della giustizia sociale. Jasieński lo fece scrivendo la sua
Pieśń o głodzie [Canto sulla fame].
Il soggiorno in Russia forse poté influire sulla coscienza sociale del suo futuro autore?
Non ne abbiamo delle prove, se non quelle letterarie, ma è indubbio che il giovane diciassettenne
vissuto quattro anni a Mosca proprio nel periodo del più intenso Sturm und Drang della poesia
russa non poteva rimanere indifferente alle tempeste poetiche che imperversavano sopra il suo
capo. Se nelle sue prime opere cercheremmo invano tracce dirette di quelle esperienze, già in But
w butonierce [La scarpa all’occhiello, raccolta d’esordio del 1921] sono evidenti i primi tentativi
di trovare un corrispondente poetico della polifonia della strada: in Miasto [La città] e soprattutto
nell’antimilitarista e antiborghese Marsz [Marcia], tentativo allora così clamoroso di una rottura
con la sintassi poetica precedente.
Il suo primo poema, Canto sulla fame, di un anno dopo, è il sintomo della ribellione che
Jasieński celava nel suo intimo. Non c’è il minimo dubbio che quella ribellione aumentava man
mano con la sua progressiva consapevolezza della realtà politica circonstante, di anno in anno
sempre più evidente.
Canto sulla fame reca un exergue tratto da Apollinaire: “Libres de tous liens donnonsnous la main”1. Niente però vi indica che proprio l’autore di Alcools abbia ispirato Jasieński. Se
Canto sulla fame è tanto blasfemo quanto alcune opere del poeta francese, lo è però in maniera
diversa: qui il tragico si contrappone al grottesco e all’apocrifo. Quando la folla in rivolta acciuffa
per strada Cristo che fugge dalla “città nera e folle” compiendo su di lui un terribile linciaggio,
dentro a un cinematografo all’improvviso si spezza la pellicola di un film poliziesco italiano:
i na płótnie wśród śmiertelnej ciszy
ukazała się ta sama scena.
krzyk powstał na sali i panika.
rzucili się w popłochu do drzwi.
mężczyźni tratowali kobiety.
próżno ciskał się przy aparacie mechanik,
a gdy wreszcie zapalono kinkiety,
na ekranie zostały czarne plamy krwi.
… e sulla tela nel silenzio mortale
1
In francese nel testo. Il verso di Guillaume Apollinaire è tratto da Liens, in: Idem, Calligrammes, poèmes de la paix et de la
guerre 1913-1916, Mercure de France, Paris 1918. [Tutte le note sono mie – GT].
143
Anatol Stern, Bruno Jasieński
tornò la stessa scena.
un grido in sala, panico.
atterriti si gettarono alle porte.
gli uomini calpestavano le donne.
invano si sbatteva il cineoperatore.
e quando infine s’accesero le appliques
nere macchie di sangue sullo schermo.
144
L’idea di questa scena non ricorda forse assai da vicino la novella di Apollinaire L’Amphion
falso messia, dalla raccolta L’eresiarca & C.? Con un’unica differenza: ciò che nello scrittore
francese è libero gioco dell’immaginazione, in Jasieński è tragedia. E proprio questo lo avvicina a
Majakovskij, autore che ha esercitato una notevole influenza sul Canto sulla fame.
Non vi è il minimo dubbio che questa influenza si spinga assai lontano e abbia qualcosa
della fascinazione. La potente individualità dell’autore della Nuvola in calzoni domina Jasieński,
imponendogli di parlare con le immagini del poeta sovietico, dentro cui finisce a volte per annegare
come dentro un oceano. Dobbiamo però constatare che perfino laddove si è fatto ghermire dalla
grandissima individualità dell’autore di 150.000.000, non lo ha mai imitato automaticamente, ma
lo ha trasformato, dando alla propria poesia una forma originale.
Una caratteristica peculiare del Canto sulla fame è il suo urbanismo. Majakovskij ci
fornisce la visione di una città lebbrosario, in cui risuona l’“ardente inno-strepito della fabbrica e
del laboratorio” e “un chiodo nel mio stivale / è più raccapricciante della fantasia di Goethe”2. Una
città quasi ricreata da un genio che si inebria del suo stupendo avvenire, un avvenire sinora mai
presagito. Ma che a un tempo, per maggiore contrasto, viene anche rappresentata nella sua atroce,
attuale decadenza, come una camera di tortura.
La città di Jasieński è invece opera di un poeta-reporter:
W wielotysięcznych, stuulicych miastach
wychodzą codziennie tysiące gazet,
długie, czarne kolumny słów,
wykrzykiwane głośno po wszystkich bulwarach.
piszą je mali, starsi ludzie w okularach.
nieprawda,
pisze je Miasto
stenografią tysiąca wypadków.
rytmem, tętnem, krwią
[…]
to jest prawdziwa gigantyczna poezja.
jedyna. dwudziestoczterogodzinna wiecznie nowa.
która działa na mnie, jak silny elektryczny prąd
jak śmieszne są wobec niej wszystkie poezje.
poeci, jesteście niepotrzebni!
ja nie czytam strinberga, ani norwida
nie przyznaję się do żadnego spadku.
czytam świeże, pachnące farbą dzienniki,
bijącym sercem przeglądam rubryki wypadków,
2
V. Majakovskij, La nuvola in calzoni, trad. R. Faccani, Einaudi, Torino 2012, p. 23.
Anatol Stern, Bruno Jasieński
które mnie kłują, jak ostre pilniki.
In centomila città-centostrade
escono ogni giorno mille giornali,
lunghe, nere colonne di parole,
urlate a squarciagola per tutti i boulevard
scritte da bassi, vecchi omini cogli occhiali.
macché,
li scrive la Città
stenografia di mille incidenti.
con il ritmo, il battito, il sangue.
[….]
questa è la vera gigantesca, unica poesia.
ventiquattrore, in eterno nuova.
agisce su di me come alta tensione.
quanto ridicole sono rispetto a lei tutte le poesie.
poeti, siete inutili!
io non leggo strindberg o norwid
non riconosco eredità alcuna.
leggo giornali freschi, odorosi di inchiostro,
col cuore in gola guardo la rubrica degli incidenti,
mi pungono come limette aguzze.
A ispirare l’autore del Canto della fame è la cronaca di vita quotidiana, da lui quasi lasciata
così com’è e presentata su piani diversi ma sincronizzati. Le città di Majakovskij e Jasieński sono
espressioni di due temperamenti creativi assolutamente diversi, di due diverse poetiche. Non c’è
bisogno di ripetere l’ovvia verità che il poeta sovietico è uno dei geni della poesia mondiale, ambito
in cui la lirica di Jasieński non è collocabile. Si tratta invece di qualcos’altro: affascinato dal genio
di Majakovskij, il poeta polacco è riuscito a dar vita a una propria visione artistica anche quando le
analogie lo avrebbero potuto spingere verso un’altra direzione.
Da questo punto di vista è molto caratteristico il Canto dei macchinisti:
słońce przygniótłszy kolanem, skóry dymiące się połcie
długo do mięsa obdzierał nasz okrwawiony scyzoryk.
w noce bezgwiezdne majtkom na świata płonącym drednoucie
twarz wylizały do krwi nam zorzy czerwone ozory.
premuto il ginocchio sul sole, lombi fumosi di pelle
scortica fino alla carne cruento il nostro coltello.
arde nel buio la Dreadnought del mondo, alla sua ciurma
leccano a sangue i volti rosse lingue dell’alba.
Questa poesia, ricordiamolo, è stata scritta ancora nel 1922: non sarebbe stato possibile se
Jasieński non fosse passato dalla scuola artistica di Majakovskij. Appunto da quella scuola derivano
sia il gigantismo delle immagini ipertrofiche, sia il loro tecnicismo (“arde nel buio la Dreadnought
145
Anatol Stern, Bruno Jasieński
146
del mondo” e in seguito “l’enorme propellente della terra”, l’aereo3). Da quella medesima scuola
deriva qui anche la terribile volgarità del linguaggio (con un apartitico Dio che “piange su noi
pioggia e smoccica sangue”). Ma allo stesso tempo tutte queste immagini sono nel loro complesso
una creazione assolutamente originale del poeta polacco: Gacki4 sostiene giustamente che alcune
di esse sono delle “deformazioni alla Picasso”.
Sì, non c’è dubbio che nella nostra storia della letteratura il poema di Jasieński non sia
stato sufficientemente apprezzato quanto meritava. Esso costituisce infatti – nonostante certi suoi
passi falsi – una svolta innegabile nella nostra poesia di quell’epoca. La sua filosofia, pienamente
materialistica, così estranea all’idealismo della maggior parte delle opere del periodo, la sua
corrente rivoluzionaria, il suo ritmo ansante, che rappresenta la dinamica della strada in rivolta:
ecco cos’è il cuore del Canto della fame.
In quest’occasione vale la pena di notare l’evoluzione seguita da Jasieński nei primi anni
del suo lavoro, quando andava pubblicando su «Nowa Sztuka», «Almanach Nowej Sztuki» e
«Zwrotnica», riviste che davano il la all’Avanguardia polacca negli anni 1921-24. Ho già detto
come la sua poetica assuma accenti sempre chiari, come vada ispirandosi a un metodo consapevole,
come miri chiaramente a un superamento degli estetismi e delle armonie ritmiche troppo facili,
pastoie che lo avevano vincolato all’inizio del suo percorso.
Occorre porre l’accento sul fatto che gli esperimenti verbali fini a se stessi, quali si erano
manifestati nelle prime opere del Futurismo russo, soprattutto in Chlebnikov e Kručënych,
poi successivamente nelle opere dei dadaisti e perfino degli espressionisti (la cosiddetta poesia
transmentale nelle sue molteplici varianti) non avevano mai interessato Jasieński più di un solo
attimo.
Forse non apprezzava la grande portata di quel genere di esperimenti? Non credo. Le sue
opere di questo tenore non sono state tuttavia più di due o tre: Na rzece [Sul fiume] e Wiosenno
[Primaverilmente], quasi solo a dimostrare le proprie capacità in questo campo, il proprio
virtuosistico dominio sulla parola. Questo è accaduto perché fin dai primi esordi la sua opera aveva
imboccato una direzione totalmente diversa: lo straniamento e la disautomatizzazione, ottenuta
grazie a una rappresentazione a tinte accese e a metafore o similitudini forti e imprevedibili. Così
in Egzotyka [Esotismo]:
WISI NAD WAMI W GÓRZE I Z NIEBA SPOGLĄDA
KRWAWE SAPIĄCE SŁOŃCE, WIELKIE JAK PARASOL
SU IN CIELO ANSIMANTE E SANGUIGNO
ALTO VI GUARDA IL SOLE, GRANDE QUANTO UN OMBRELLO
E in Zwiastowanie [Annunciazione], dello stesso periodo:
3
Il termine, che ebbe diffusione anche nel Futurismo russo, è probabilmente stato ispirato a Jasieński dal Manifesto dei
pittori futuristi (1910), che lo usarono ancor prima di Marinetti in un contesto simile: “Noi dobbiamo ispirarci ai tangibili
miracoli della vita contemporanea, alla ferrea rete di velocità che avvolge la Terra, ai transatlantici, alle Dreadnought, ai voli
meravigliosi che solcano i cieli […]”, Manifesti del futurismo, a cura di V. Birolli, Milano 2008, p. 27.
4
Stefan Kordian Gacki (1901-1984): poeta e critico letterario polacco, fiancheggiatore del Futurismo polacco e direttore
del periodico futurista «Almanach Nowej Sztuki».
Anatol Stern, Bruno Jasieński
pytały się raz ciszy
rogówki5 z twarzą modrą:
“dlaczego nocy czarny dyszel
włazi nam wciąż między biodra?”
e poi chiesero al silenzio
lucciole visi di piombo:
“perché mai o notte una stanga
nera ci insinui tra i lombi?”
Il mondo della sua immaginazione si trasformò quando cambiarono certe gerarchie
consolidate, quando venne rifiutata la realtà quale era apparsa fino allora e si formarono suoi nuovi
aspetti: ecco perché allora essa cominciò a entrare in fermento come un formicaio dentro cui si
rovista violentemente con un ciocco di legno. Al tempo stesso risulta evidente come quella protesta
contro una realtà concepita in maniera naturalistica portasse a risultati sempre più concreti, man
mano che il poeta diventava più consapevole dell’obiettivo del proprio attacco.
L’obiettivo di quella sua offensiva era la realtà ai suoi più alti livelli: in primo luogo il
mondo ultrasensibile, canonizzato dai credenti, la religione, Dio...
Ciò si manifestava non solo nelle sue brevi liriche, quali Le madri o L’annunciazione,
ma anche in quelle opere più ampie, destinate a confluire nel poema, mai portato a termine, che
reca l’eloquente titolo Futbal Wszystkich Świętych [Il football di Tutti i Santi]. Non era più la
protesta contro l’ordine sociale, come nel quasi-anderseniano I fiammiferi o nelle pessimistiche
strofe di Morse. Il prologo al Football di Tutti i Santi è una sorta di anatema da moderno profeta,
di un Isaia del Ventesimo secolo. Nel suo ritmo c’è al tempo stesso qualcosa dell’Esenin di Inonia
o di Radunica. Del ritmo, non del suo contenuto, in realtà tradizionale, perché moderno solo
formalmente:
domy skaczą w konwulsjach sklepień.
krew bulgoce ustami rynien.
ręce moje wyciągam ślepe:
oddaj oddaj cóżeś nam winien!
salti di case in spasmodiche volte.
sangue che in bocca ribolle alle gronde.
e io che cieche le braccia protendo:
rendici rendici tutto il maltolto!
Quella ribellione si fa sempre più violenta fino a che si affronta direttamente ciò che il poeta
considera il responsabile del male nel mondo, responsabile perché non impiega tutto il proprio
potere per liberarlo da tormenti e sofferenze gratuiti:
zejdź już! zejdź już! nie każ się prosić!
5
Rogówka, termine arcaico con cui si indicava una prostituta che stazionava agli angoli della strada (cfr. http://sjp.pwn.pl/
doroszewski/rogowka;5490359.html), viene qui reso con lucciola.
147
Anatol Stern, Bruno Jasieński
dokąd każesz daremnie grzmieć mi?
krwi twej ofiar mamy już dosyć!
ciesz się z nami twoimi dziećmi!
scendi! dai scendi e non farti pregare!
fin quando invano mi farai tuonare?
di questo sangue ce n’è abbastanza!
quando coi figli tuoi farai alleanza?
In Prologo la ribellione ha un aspetto ancora metafisico: si rivolge – come ho già ricordato –
unicamente contro l’astratto mondo di concetti. Ma già in Psalm powojenny [Salmo postbellico],
in cui si fa più concreto il terreno della battaglia che il poeta combatte contro lo “Zar del mondo”6,
il tono cambia completamente:
już się zakończył wielki raut
na którym były ludów scysje
w ubranych w kwiaty kebach aut
już odjechały wszystkie misje
conclusosi è ormai il grande festino
che vide tra i popoli grandi scissioni.
in cab fioriti o in ricche limousine
lontane ormai son le delegazioni
148
Questa immagine non ci rammenta forse qualcosa che conosciamo bene? Ma sì, è proprio
una raffigurazione quasi visionaria della Lega delle Nazioni, con la sua commovente speranza
(ancora in Salmo postbellico), che non “ci sarà più strepito dei cannoni”, quando tutt’attorno per
l’orrore “alla folla sale il sangue nelle vene”.
Tutto questo è ancora una sorta di anticamera al Canto sulla fame, chissà se non ancora più
coinvolgente e artisticamente originale. E quanto l’immagine di questo mondo cui il buon Dio
abbandona tutti i dilemmi da lui insoluti per partirsene per le vacanze risuona di amaro e dolente
sarcasmo! Un mondo in cui “tutti hanno ragione” e tutti si perdonano con spirito evangelico:
odpuszczajmy swoje nieprawności!
całujmy w usta jedni drugim!
rimettiamo le nostre malefatte!
baciamoci tutti sulle bocche!
Jasieński ancora non intravede una via d’uscita dall’impasse in cui è stato spinto il mondo.
Solo nel suo poema rivoluzionario riuscirà a vederla: qui ha solo una piccola porta, attraverso cui
6
Anatol Stern, come Bruno Jasieński stesso, allude al dramma romantico Dziady [Gli avi] di Adam Mickiewicz, nella cui
III parte (1832) il patriota Konrad, rinchiuso in un carcere zarista, rivolge un’accesa accusa a Dio, indifferente al dolore e alle
ingiustizie del mondo.
Anatol Stern, Bruno Jasieński
fuggire dal mondo degli incubi. Quella porticina è il grottesco:
na zielonych karuzelach bladzi policjanci
gonili złodziejów na drewnianych koniach
panowie! zatrzymajcie się! przestańcie!
panowie! zapomnijcie o nich!
pallidi sbirri inseguivan furfanti
in sella a verdi destrieri di giostra.
fermi signori! non più un passo avanti!
signori! dimenticateli e basta!
In Canto sulla fame invece tutte le porticine spariranno, quelle del mondo del grottesco,
come quelle del mondo dei miracoli. E in Zarażeni [Contagiati], di due anni successivo, poco
prima di Ziemia na lewo [Terra a sinistra], troveremo solo la beffarda consapevolezza dei
contagiati:
modlitwy naszej bez dezynfekcji
nie przyjmie żaden Bóg
senza disinfezione la nostra preghiera
mai verrà accolta da alcun Dio
Ci avviciniamo al momento in cui gli eventi politici del suo tempo eserciteranno sul poeta
un’evidente influenza e il loro trauma sarà decisivo per una definitiva cristallizzazione della sua
concezione del mondo e della sua poesia.
Ma diamo la voce direttamente ad un suo schizzo autobiografico:
Quel trauma fu la rivolta di Cracovia del 1923. L’occupazione di Cracovia da parte degli operai
armati, la sconfitta del reggimento di ulani chiamato a soffocare la rivolta, il rifiuto di sparare sugli
operai da parte della fanteria, l’affratellamento dei soldati e degli insorti con la consegna a questi
ultimi delle armi: tutti questi accadimenti tempestosi, episodi traboccanti di eroismo delle lotte per
strada, sembravano un preannuncio di enormi eventi. Ventiquattr’ore trascorse in una città ripulita
dalla polizia e dall’esercito avevano scosso le fondamenta del mio mondo, non ancora fino in fondo
stabile…
Nel 1924 apparve Terra a sinistra, la pubblicazione poetica di Jasieński e del sottoscritto,
nella veste grafica di Mieczysław Szczuka e la copertina di quello stesso grande artista rivoluzionario.
Non c’è alcun dubbio che gli avvenimenti cui abbiamo appena fatto cenno avevano impresso un
segno sulla nostra introduzione. Si spiega così la nostra frase sulla “via nuda, scossa dalle doglie
del parto”.
L’introduzione diceva:
Odiamo il borghese, non solo quello che dietro una logora banconota ci cela il suo muso, ma il
borghese come astrazione: la sua visione del mondo e di ogni cosa che gli appartiene. Ambiamo a
149
Anatol Stern, Bruno Jasieński
una nuova Polonia, non a un nuovo negozietto.
Terra a sinistra è il primo volume di poesia che da noi sia stato dedicato all’uomo di massa, a
quell’eroe occulto della storia…
Parlava poi del declino della cultura borghese e di quanto importasse “accelerarne la morte
per edificare dalle fondamenta, in un luogo totalmente risistemato, una cultura nuova”. Definiva
la nuova poesia le “granate di una nuova realtà”.
Quando neanche un anno dopo Jasieński si mise a pubblicare sulla rivista «Szczutek» il
ciclo delle sue poesie più velenose, Wycieczki osobiste. Podręcznik dla poetów (III) [Invettive.
Manuale per i poeti (III)], ripeterà quasi esattamente quelle stesse parole sul “negozietto polacco”:
Niech ruinie gmach ten i przysypie tynk was
Ojczyzna nie jest dochodową karczmą
W której trzymacie swój rentowy szynkwas
Crolli il palazzo, vi copra in eterno
Patria non è una redditizia taverna
In cui tener per voi un lucroso banco
150
Ritengo che non solo Canto sulla fame, Terra a sinistra e soprattutto naturalmente
Słowo o Jakubie Szeli [Canto su Jakub Szela], ma anche simili testi abbiano contribuito a creare
l’immagine di un poeta “in lotta contro il governo”, come aveva scritto Barbusse7, sicuramente
messo al corrente sul suo comportamento da gente che valutava e con sobrietà oggettiva la
situazione letteraria dell’epoca.
Molto significativa è la selezione di testi da lui effettuata per Terra a sinistra, in gran parte
già pubblicati in precedenza. Vi si trovavano sia frammenti di Football di tutti i Santi e altri, sia
nuovi testi, quali Marsylianka [La Marsigliese] e Bajka o kelnerze [Fiaba sul cameriere]. Questa
sua selezione denota un atteggiamento sociale ormai completamente cristallizzato: l’accento
decisivo è dato dalla ripubblicazione del Canto dei macchinisti (tratto dal Canto sulla fame),
mentre nella Marsigliese c’è una sorta di premonizione della sua imminente partenza verso la
Francia:
śni mi się gorzki morskiej wody smak
gdzie przepływ w portach liże barki barek
i mam pod czaszką wieczny trzepot flag
i serce w piersi skacze jak zegarek
io sogno amari sorsi di mare
leccan nei porti le anche alle barche
nel cranio eterni garrir di bandiere
e il cuore che in petto salta puntuale
“Finché il mio grido si riversa attraverso la vetta, scuotendo la città come enorme gru…”.
7
Stern si riferisce a una lettera di protesta di Henri Barbusse contro l’espulsione di Jasieński dalla Francia. Barbusse, che nel
1928 aveva pubblicato a puntate la traduzione francese di Palę Paryż [Brucio Parigi] sull’«Humanité», di cui era caporedattore,
scrisse anche un’introduzione al romanzo (Je brûle Paris, Flammarion, Paris 1929).
Anatol Stern, Bruno Jasieński
Ogni scrittore, ogni poeta cela dentro di sé simili fantasie, fantasie che davvero raramente si
realizzano. Qui invece doveva accadere qualcosa di diverso: il grido del poeta avrebbe davvero
scosso quella “strana città mai vista” di cui aveva scritto. La fantasia portava il nome di Palę Paryż
[Brucio Parigi].
Come nella Fiaba sul cameriere, anche in quest’opera si presenta una visione che spezza
brutalmente la realtà, pur condensandone al tempo stesso gli aspetti salienti. Nella Fiaba sul
cameriere essa si era trasformata in un incubo simile a quelli dei disegni di George Grosz, con il
cameriere che serviva i clienti e all’improvviso intravedeva “dentro al frac un grugno di porco”, “un
pingue collo” e un “guizzante baratro di mascelle”.
Se Jasieński in genere non ha modificato i testi meno recenti, un cambiamento caratteristico
per la sua evoluzione poetica e sociale si presenta invece in Canto dei macchinisti (dal Canto sulla
fame). Nella sua prima versione aveva scritto:
krwi naszej twardych jambów
słuchało stare słońce łyse, jak łeb bismarka
del nostro sangue i duri giambi
ascoltava un vecchio sole, calvo come il grugno di bismarck.
Nella versione successiva, in Terra a sinistra, leggiamo invece :
słuchało stare słońce, łysy płomienny żandarm
ascoltava un vecchio sole, calvo rovente gendarme.
Bisognava sentirsi molto assediati da un mondo di nemici e da fantasie ostili, perché perfino
il sole potesse apparire come un gendarme che sorveglia l’uomo.
La pubblicazione successiva di Jasieński sarà solo il Canto su Jakub Szela. Ma prima di
passare a questo poema, mi pare necessario parlare del rapporto che il poeta aveva allora con il
Futurismo, di cui era uno dei protagonisti.
La storia della Giovane Polonia e del gruppo di Skamander è stata narrata ampiamente
dalla nostra storia della letteratura e anche le opere di altri poeti più prestigiosi estranei a quella
formazione è stata analizzata in varie monografie. Diversa è invece la situazione della fase letteraria
successiva, quella che può essere definita avanguardia futurista. In questo campo non abbiamo
nessun testo critico più ampio, come è accaduto nell’Europa occidentale, Francia in testa (penso
a De Baudelaire au Surréalisme di M. Raymond, alla Histoire du Surréalisme di M. Nadeau,
a L’aventure Dada di G. Hugnet), senza parlare delle serie editoriali che, accanto alle opere e
ai compendi biografici, ricostruiscono ampiamente il contesto letterario e culturale dell’epoca.
Mi riferisco qui a Écrivains de toujours e a Poètes d’aujourd’hui, pubblicati entrambi da
Seghers. L’immagine che di quella nostra avanguardia fornisce la Storia della Letteratura di K.
Czachowski8 è senza dubbio onesta, anche se fondamentalmente eclettica, mentre i contributi
8
Stern allude all’Obraz współczesnej literatury polskiej 1884-1933 [Immagine della letteratura contemporanea polacca (19341936)], dello storico della letteratura Kazimierz Stanisław Czachowski (1890-1948).
151
Anatol Stern, Bruno Jasieński
152
di alcuni singoli aderenti al movimento – quali Jan Brzękowski9 – sono assai di parte. E per me
non v’è alcun dubbio che la funzione artistica e sociale della nostra arte, tanto positivamente
apprezzata da Ignacy Fik nei suoi Vent’anni di Letteratura polacca10, troverà presto più di un
critico obiettivo e una collocazione adeguata nella storia della nostra letteratura.
Che davvero il movimento fosse ispirato da autori stranieri? Certo non in misura maggiore
del nostro Romanticismo, della poesia della Giovane Polonia o di quella dello Skamander. Da
dove nascono quindi le battaglie condotte proprio dai Futuristi contro Karol Irzykowski11, quando
questi attaccò la giovane poesia polacca?
Com’è noto, Irzykowski aveva polemizzato sia con i Futuristi che con i poeti dello
Skamander. Assediato dalle generazioni più giovani, era ricorso a una mossa magistrale. In questo
modo non solo parava i colpi, ma al tempo stesso poteva ricorrere allo stesso metodo che aveva
appreso dai suoi maestri nella sua Arte di condurre le polemiche: il metodo di diffondere le
calunnie. Del resto, quando si riusciva a farglielo ammettere, lui stesso lo definiva un metodo di
“insinuazione”. Lo sappiamo bene quale contenuto abbia il concetto di insinuazione: è la messa in
circolo di sospetti ingiustificati. Attaccati da lui, i poeti dello Skamander ne passarono sotto silenzio
le accuse. Noi invece ricorrevamo alla tattica tipica degli ingenui: gli rispondevamo. Proprio per
questo l’interesse degli osservatori di quel duello, in cui entrambe gli avversari si ricoprivano di
contumelie, si concentrò sui componenti dell’Avanguardia. Del resto nell’introduzione al suo
L’elefante in una cristalleria Irzykowski stesso si riconoscerà onestamente afflitto dal peccato di
rissosità e di “amore per le cause perse”.
Anche Jasieński attaccava senza pietà il suo avversario. La prima volta con un testo in prosa
(e quindi con minore efficacia), la seconda in questo modo, nel già citato Invettive. Manuale per
i poeti (III):
Przyzna to nawet Irzykowski Karol
Z krytyków moich najzjadliwszy tetryk
Co już od dawna zagiął na mnie parol
I wierszom moim wglądać chciał do metryk
Trudem dziś w Polsce szukać Sawonarol
Lo ammette anche Irzykowski Karol
Lui certo fra i miei critici il più tetro
Che si è dato da un po’ la sua parola
D’usar coi versi miei l’età per metro
Dove lo trovi da noi un Savonarola
9
Jan Brzękowski (1903-1983) poeta e critico polacco, fu in stretto contatto con varie formazioni dell’avanguardia europea,
dal Cubismo e Futurismo al Dadaismo e Surrealismo. In Polonia nei primi anni Venti collaborò attivamente alle riviste
d’avanguardia «Zwrotnica» e «Linia» mentre a Parigi nel biennio 1929-1930 diresse la rivista bilingue «L’Art Contemporain
– Sztuka Współczesna». Scrisse testi poetici anche in francese, che furono illustrati da Hans Arp, Max Ernst e Fernand Léger.
10
Ignacy Fik (1904-1942) noto critico letterario polacco, militante della Resistenza comunista durante la Seconda guerra
mondiale, fucilato dai nazisti durante l’occupazione. Il suo libro Dwadzieścia lat literatury polskiej 1918-1938 [Vent’anni di
letteratura polacca 1918-1938] fu pubblicato (e subito confiscato) nel 1939 (II ed. 1949).
11
Karol Franciszek Irzykowski (1873-1944): importante critico letterario e teatrale, e scrittore, fiancheggiatore del Partito
Socialista polacco. La raccolta dei suoi scritti polemici Słoń wsród porcelany [L’elefante in una cristalleria], cui si riferisce Stern,
apparve nel 1934.
Anatol Stern, Bruno Jasieński
Io non lodo certamente queste sue asserzioni, anche se ricordo bene le invettive di
Irzykowski e sono persuaso che, se Jasieński avesse potuto prevedere che in seguito sarebbero
state ripetutamente usate da editorialisti di quart’ordine contro la poesia della Nuova Arte,
probabilmente non vi avrebbe fatto ricorso. Ed è altrettanto probabile che neanche loro si
sarebbero serviti di quell’arma, se avessero potuto conoscere l’intimidatoria quanto ingiusta
generalizzazione enunciata da Irzykowski in Literatura a socjalizm [La letteratura e il socialismo]:
Ale ja nie zmienię charakteru polskiej literatury i nie zmieni jej nikt w Polsce. Tu można być co
najwięcej tylko prekursorem, ale nigdy pionierem. Przyszłość literatury, tak samo jak całej kultury
polskiej, przygotowuje się poza jej granicami, na Zachodzie i Wschodzie, tam gdzie zapadają główne
rozstrzygnięcia kulturalne, które my otrzymujemy już gotowe.
Ma neanche io cambierò il carattere della letteratura polacca, come nessuno mai riuscirà a farlo in
Polonia. Da noi al massimo si può essere un precursore, mai un pioniere. Il futuro della letteratura,
quanto quello di tutta la cultura polacca, viene allestito al di là dei suoi confini, a Ovest e a Est, dove
vengono prese le principali decisioni culturali che a noi giungono già pronte.
Con il tempo, dimenticammo tutti quelle nostre polemiche e lo dimostrammo in più di un
caso nelle nostre successive dichiarazioni.
In quello stesso 1924, in cui apparve l’Invettiva contro Irzykowski, Jasieński dirà addio al
Futurismo. Lo aveva fatto già in precedenza, nel 1923, in una dichiarazione rilasciata alla rivista
«Zwrotnica», come al solito in modo incomparabilmente più suggestivo, perché in versi:
Idziemy
wydrzeć z lawy metafor
twarz
rysującą się
świata.
Andiamo
a strappar via dalla lava di metafore
il volto
che si delinea
del mondo.
Dalla lava di metafore occhieggiava il volto del capo della rivolta contadina, Jakub Szela.
Jasieński si lasciò dietro quel Futurismo che aveva creato insieme a noi, la rivista «Nowa
Sztuka», cui aveva preso attivamente parte, e un’avanguardia di cui nel 1924 avevamo lanciato il
nome proprio noi due, con la pubblicazione di un numero unico che portava quel titolo. Nel suo
cammino portò con sé le proprie conquiste e risultati formali, quelli che in seguito lo avrebbero
aiutato a esprimere l’ideologia rivoluzionaria che professava fin dai suoi esordi. Come ebbe a
ripetere spesso a voce e a scrivere nelle sue opere posteriori, il sentimento con cui abbandonò quel
movimento cui aveva dato vita, fu quello di un uomo che dice addio alla propria giovinezza12.
12
Anatol Stern, Poezja zbuntowana. Szkice o poezji dwudziestolecia międzywojennego, Państwowy Instytut Wydawniczy,
Warszawa 19702, pp. 120-134 (la prima edizione era del 1964). I testi poetici in polacco citati all’interno del saggio sono stati
153
Anatol Stern, Bruno Jasieński
Abstract
Giovanna Tomassucci
The Author presents her first Italian translation of Anatol Stern’s article (excerpted from his monograph on Polish Avantgarde
Rebelled Poetry. Sketches on Interwar Period Poetry [1964, 2nd issue 1970]) about another prominent initiator and ideologist of
Polish futurism, Bruno Jasieński. After the Thaw, Stern first contributed to Jasieński’s rehabilitation, publishing his poetry
and the novel I burn Paris and writing several essays about his work. The article presented also offers a choice of translated
fragments of Jasieński’s poetry, just a few known in Italy, and an artistic profile of Stern.
Keywords: Futurism in Poland, Anatol Stern, Bruno Jasieński.
«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», (VII) 7, 2016, pp. 141-154
154
A. Stern, B. Jasieński, Ziemia na lewo, Warszawa 1924. Copertina e grafica di Mieczysław Szczuka.
uniformati all’edizione delle opere poetiche delle poesie di Bruno Jasieński, Poezje zebrane, a cura di Beata Lentas, Słowo/
obraz terytoria, Gdańsk 2008.
Bibliografia sul futurismo polacco
in lingue occidentali
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Jasieński Bruno, The Mannequin’s Ball, transl. by Daniel Gerould, Routledge, London & New York 2013
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155
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Tomassucci Giovanna, Tuwim il primo futurista? in: Gli altri futurismi. Futurismi e movimenti d’avanguardia in
Russia, Polonia, Cecoslovacchia, Bulgaria, Romania, Atti del Convegno Internazionale, Pisa, 5 giugno 2009, a cura di
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Volynska Rimma, A Priest or a Jester? Bruno Jasieński’s Vita Sovietica, in «The Polish Review», 37, 1, 1992, pp.
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Żurawska Jolanta, Il futurismo italiano in Polonia negli anni Venti, in «Strumenti critici», 1, 50, 1986, pp. 137166
«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», (VII) 7, 2016, pp. 155-157
157
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ARTICOLI
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Marina Ciccarini
Tra senso e suono: il caso di Ewa Lipska
Mais le poème en prose existe-t-il? Un bon chansonnier qui a publié, il y a quelques années d’assez
mauvais poèmes, a résolu la question en écrivant dans son avant propos: Le poème en prose, c’est
de la prose poétique… Un académicien de son côté répondait vers la même question à une enquête:
Faire du beau style pour ne rien dire, cela ne vaut rien, c’est faire du poème en prose… Et voilà! On
peut donc être académicien (ou chansonnier) sans savoir ce qu’est le poème en prose1.
S
ono queste le parole con le quali il poeta Louis Guillaume, in una conferenza tenuta alla
Sorbona il 27 febbraio del 1960, introduceva il suo discorso su L’évolution du poème en
prose d’Aloysius Bertrand à nos jours. Da allora, negli ultimi cinquant’anni, numerosi
studi sono stati dedicati in Europa e in America al problema della prosa poetica e della poesia
in prosa2, nel tentativo di racchiudere in una definizione plausibile e possibilmente definitiva
due categorie letterarie altamente sfuggenti. Nel 2014, con parole rivelatrici della complessità
dell’argomento preso in analisi, Agnieszka Kluba chiude così la sua monografia di oltre
cinquecento pagine dedicata alla brillante e puntigliosa ricostruzione, definizione e spiegazione
della poesia in prosa3:
La poesia in prosa è una forma elitaria e, come testimoniano le conseguenze della popolarità della
poesia in prosa negli Stati Uniti, non è necessariamente il caso di augurarle la massificazione. Per
apprezzare il suo fascino sottile si deve però essere in grado di distinguerlo dagli altri generi letterari.
Questo non è facile, la poesia in prosa è diventata un fenomeno straordinariamente enigmatico e
non si presta a facile diagnosi. Per fortuna, accanto alle astrazioni teoriche abbiamo a disposizione le
formule degli scrittori: la poesia in prosa è “un concentrato di letteratura, l’olio essenziale dell’arte”,
“un gioiello”, “un’improvvisa espansione del mondo”4.
La preoccupazione principale della studiosa, subito in apertura del primo capitolo, è quello
di precisare e differenziare la nozione di “poesia in prosa” (poemat prozą) da quella di “prosa
poetica” (proza poetycka), argomento complesso su cui si soffermerà più volte nel corso della sua
trattazione. Il compito è infatti arduo: la prosa poetica – a detta della stessa autrice – appare come
1
Per la lettura completa della conferenza qui citata si rimanda a: <http://www.louis-guillaume.com/spip.php?article43>
(ultimo accesso: 13 settembre 2016).
2
È opportuno tradurre “poème en prose” con “poesia in prosa” perché, di norma, per “poema” in italiano si intende un
componimento poetico lungo. Cfr. P. Giovannetti, Al ritmo dell’ossimoro. Note sulla poesia in prosa, in «Allegoria», X, 28,
1998, pp. 19-40 (qui p. 22), poi in Idem, Dalla poesia in prosa al rap. Tradizioni e canoni metrici nella poesia italiana contemporanea,
Interlinea, Novara 2008, pp. 19-45.
3
A. Kluba, Poemat prozą w Polsce, Fundacja na rzecz Nauki Polskiej, Warszawa-Toruń 2014. Si rimanda in particolare alla
ricca bibliografia di testi critici in polacco e nelle principali lingue europee presenti alle pp. 519-543.
4
Ivi, p. 518. Cfr. inoltre, della stessa autrice, Poemat prozą: rozważania genologiczne, in «Pamiętnik literacki», 2, 2010, pp. 5-29.
161
Marina Ciccarini
un “mare tenebrarum” che raccoglie in sé espressioni letterarie eterogenee, dalle traduzioni di
testi biblici e dell’antichità classica alla prosa retorica e didattica, a quella ritmica, al linguaggio di
alcune opere romantiche o moderniste5. Proprio per un’evidente versatilità e onnicomprensività,
la prosa poetica è alla fine considerata dagli studiosi uno stile di scrittura piuttosto che un genere
letterario a sé stante6.
Non meno impegnativa appare la definizione di poesia in prosa, “sentita come ossimorica,
ancipite e anfibia: e infatti questa condizione di ‘mediatezza’, questa ambiguità esibita, questo
rinvio a codici complessi, polivoci, è il carattere in qualche modo fondante della poesia in prosa in
quanto genere”7, anche se gli studiosi sono perlomeno concordi nell’attribuire la paternità di tale
fenomeno letterario ibrido, affermatosi nel momento della crisi del sistema dei linguaggi letterari,
all’opera di Aloysius Bertrand e di Charles Baudelaire8. Sembra esserci, infatti, un momento di
svolta nello sviluppo del genere9: dai Poems of Ossian che sono esempio, tra la fine del Settecento
e i primi dell’Ottocento, di una prosa ritmica che allude a un precedente originale in versi, si
arriva a Le Spleen de Paris. Les Petits poèmes en prose di Baudelaire (scritti fra il 1855 ed il 1864),
nei quali si sferra un vero e proprio attacco nei confronti del romanzo, di cui il nuovo genere
vuole essere lo sgretolamento in unità minori. Nella notissima lettera prefatoria all’opera, scritta
da Baudelaire al suo editore Arsène Houssaye, si legge:
Mio caro amico, vi mando un’operetta di cui solo ingiustamente si potrebbe dire che non ha né capo
né coda, poiché, al contrario, tutto in essa è, nello stesso tempo, e testa e coda, alternativamente e
reciprocamente. Considerate, vi prego, quali mirabili comodità questa combinazione offre a noi tutti,
a voi, a me e al lettore. Possiamo tagliare dove vogliamo: io la mia fantasticheria, voi il manoscritto, il
lettore la sua lettura […]. Devo farvi una piccola confessione. È sfogliando almeno per la ventesima
volta il famoso Gaspard de la Nuit di Aloysius Bertrand (un libro conosciuto da voi, da me e da
qualcuno dei nostri amici, non ha tutto il diritto di essere definito famoso?), che mi è venuta l’idea
di tentare qualcosa di analogo, e di applicare alla descrizione della vita moderna – o piuttosto di una
vita moderna e più astratta – lo stesso procedimento che egli aveva applicato alla rappresentazione
della vita di un tempo, così stranamente pittoresca. Chi di noi non ha sognato, in quest’epoca di
ambizioni, una prosa poetica, musicale ma senza rima e senza ritmo costante, abbastanza flessibile
e spezzata da adattarsi ai movimenti lirici dell’anima, alle oscillazioni del fantasticare, ai soprassalti
della coscienza?10
162
5
Cfr. A. Kluba, Poemat prozą, cit., p. 15.
Ivi, p. 113, nota 1. Cfr. anche S. Lebon, Vers une poétique du poème en prose dans la littérature française moderne, in «Revista de
Lenguas Modernas», 13, 2010, pp. 95-109 (in particolare p. 97).
7
A. Cortellessa, La prosa come forma del limite, in «L’Ulisse. Rivista di poesia, arti e scritture», 13, aprile 2010, p. 10. Lo
studioso cita espressamente P. Giovannetti, Al ritmo dell’ossimoro, cit., p. 25, il quale, in aggiunta, scrive: “Così, l’interessante
lettura esplicitamente postmodern della poesia in prosa fatta da Margueritte S. Murphy mette in primo piano l’‘utopian
impulse’ che fondativamente deriva da tale ‘ageneric genre’ […]. E Hermine Riffaterre […] dichiara che un tale ‘oxymoronic
name’ riflette ‘the self-contradictory, paradoxical nature of genre’”, cfr. P. Giovannetti, Al ritmo dell’ossimoro, cit., p. 23.
8
Convenzionalmente si considera Gaspard de la Nuit il testo, scritto da Aloysius Bertrand e pubblicato postumo nel 1842,
quale libro fondatore della poesia in prosa moderna.
9
Si fa risalire l’idea della poesia in prosa a Seneca il Vecchio (Controversiae, 2.2.8) e Ovidio (Tristia, 4.10.23-26). Cfr. The
Princeton Encyclopedia of Poetry and Poetics, 4 ed., a cura di R. Greene et al., Princeton University Press, Princeton 2012, p. 1512,
sub voce “Free Verse and Prose Poetry”. Cfr. anche P. Giovannetti, La poesia senza verso, in «L’Ulisse. Rivista di poesia, arti
e scritture», 13, aprile 2010, pp. 13-17.
10
C. Baudelaire, Lo spleen di Parigi. Poemetti in prosa, testo originale a fronte, introduzione, traduzione e note di Alfonso
Berardinelli, Garzanti, Milano 1999, pp. 4-7.
6
Tra senso e suono: il caso di Ewa Lipska
Come si vede, è lo stesso Baudelaire ad intitolare Petits poèmes en prose qualcosa che egli
stesso definisce “prose poétique”, accrescendo in tal modo l’ambivalenza tra i due termini11. Il
“nuovo” genere di poesia in prosa inaugura una tradizione poetica che, con le ovvie varianti e
specifiche, troverà adepti nelle letterature nazionali di Europa, Russia e America. La funzione
sociale, ideologica ed estetica di questo genere è racchiusa nel suo potenziale “sovversivo”: si tratta
infatti di ribaltare la rigida tradizione prosodica del neoclassicismo ottocentesco (in primo luogo
e soprattutto francese) e inserire nel testo poetico il linguaggio della prosa non letteraria, di strada,
della vita reale. Nell’ossimoricità della sua stessa definizione, nel suo collocarsi ai margini della
prosa (T.S. Eliot la definisce un genere “borderline della prosa”12), la poesia in prosa nasce da
un bisogno di rivolta, dalla necessità di trovare un nuovo percorso per esprimere la disarmonia,
la disperazione, la nuova sensibilità dell’uomo moderno, con una scrittura che vada contro la
narrativa convenzionale, contro una prosa descrittiva e contemplativa. La poesia in prosa è un
genere “contro”, un genere ibrido, “un genere di rivolta e di libertà, molto più che un semplice
tentativo di rinnovare la forma poetica, è una rivendicazione dello spirito, un aspetto della lotta
incessante dell’uomo contro il suo destino”13.
Dal punto di vista formale, la poesia in prosa non è scritta in versi, dunque viene meno
l’equivalenza tra versificazione e poetica; la funzione poetica del suo linguaggio obbedisce tuttavia
a delle regole, e gli elementi distintivi di questo genere sembrano essere la brevità e la concisione
della scrittura, la totale autonomia e unità logica della narrazione, la densità delle immagini creata
in genere da ritmi pronunciati, da effetti sonori capaci di sostenere la tensione del racconto poetico
libero nel tono e nell’espressione14. Non ultima appare la categoria della “gratuità”, come suggerito
da Suzanne Bernard che sottolinea come lo scopo di tale genere polimorfico non sia trasmettere
una informazione o raccontare una storia, ma ricercare un effetto poetico in uno spazio senza
tempo15.
11
Del resto, ad una vera e propria estetica dell’ambiguità Baudelaire è, com’è noto, molto sensibile: cfr. P. Giovannetti,
La poesia senza verso, cit., p. 13.
12
Cito dalla pagina 3 di uno dei testi chiave per lo studio della poesia in prosa che, pur analizzando la fortuna e la tradizione
del “prose poem” in Inghilterra e nella poesia americana, dedica nell’introduzione un ampio saggio alla discussione del
genere, sottolineandone il carattere sociale e la funzione rivoluzionaria: M.S. Murphy, A tradition of subversion: The Prose
Poem in English from Wilde to Ashbery, University of Massachusetts Press, Amherst 1992, pp. 246.
13
Cfr. L. Guillame, op. cit., in chiusura del suo trattato. La studiosa M.S. Murphy specifica: “Terdiman and Monroe both
make powerful arguments for the prose poem as a ‘counter-discourse’ to the dominant discourses of nine-teenth-century
France. Terdiman explains: ‘At just the historical moment when the term ‘prosaic’ was mutating into a pejorative, the prose
poem sought to reevaluate the expressive possibilities, and the social functionality, of prose itself. Nothing in the second half
of the century situates this institution more acutely, nor puts it into crisis more decisively, than its reinscription in the project
of the poème en prose’”, M.S. Murphy, op. cit., p. 5.
14
“In a collection of articles on the prose poem appearing in 1983, The Prose Poem in France: Theory and Practise, Hermine
Riffaterre, one of the editors and contributors, summarized the various approaches in her introduction: ‘Despite the diversity
of approaches evident in this volume, or perhaps because of that very diversity, a clear consensus emerge as to what traits will
define a genre too often thought undefinable: brevity, closure, inner ‘deconventionalized’ motivation of forms, relationship
between representation-space and the poem’s spatial features, one shaping the other, and so forth’”, cit. in M.S. Murphy, op.
cit., p. 62. Sul tema cfr. anche M. Delville, The American Prose Poem: poetic form and the boundaries of genre, University Press
of Florida, Gainesville FL 1998, in particolare il primo capitolo intitolato The Prose Poem and the Ideology of Genre, pp. 1-19.
15
“Le poème en prose suppose une volonté consciente d’organisation en poème; il doit être un tout organique, autonome,
ce qui permet de le distinguer de la prose poétique […]; ceci nous amènera à admettre le critère de l’unité organique: si
complexe soit-il, et si libre en apparence, le poème doit former un tout, un univers fermé, sous peine de perdre sa qualité de
poème […]. Admettons cependant que d’une façon générale un poème ne se propose aucun fin en dehors de lui-même, pas
163
Marina Ciccarini
Per definire nelle sue linee generali il difficile problema della distinzione tra poesia e prosa,
può essere utile una specie di doppia equazione quantitativa, tipica dello strutturalismo, utilizzata
da Barthes ne Il grado zero della scrittura, nel quale lo studioso utilizza le lettere A, B e C per
rappresentare alcuni attributi del linguaggio, a sua detta decorativi, e che stanno a significare,
rispettivamente, A il metro, B il ritmo e C il “rituale delle immagini”, cioè la sonorità e la forza di
queste ultime16. Costituisce, così, una formula secondo la quale:
poesia = prosa +A+B+C
prosa = poesia -A-B-C
Al medesimo gioco di rimbalzi tra forma e contenuto, a maggior ragione, sono sottoposte la poesia
in prosa e la prosa poetica. Utilizzando lo schema barthesiano si potrebbe tentare di sintetizzare la
differenza tra le due categorie nel modo seguente:
poesia in prosa = prosa -A+B+C
prosa poetica = poesia -A-B+C
164
La poesia in prosa, insomma, come la prosa poetica, non ha metro ma, al contrario di quest’ultima,
ha ritmo (B) e una particolare densità (C) che endiadicamente – come vedremo – si sostengono
a vicenda.
Per chiarire tale affermazione e stemperare un eccesso, forse, di razionalizzazione e
classificazione, è opportuno affrontare l’analisi di un testo di poesia in prosa per cercare di definire
al meglio la questione del “ritmo”.
Tra i poeti contemporanei che hanno scelto di scrivere prose poetiche e poesie in prosa17,
un posto a sé stante merita senz’altro Ewa Lipska, poetessa di Cracovia, molto nota e tradotta
in numerose lingue. Nel 2012 e nel 2013 Lipska ha pubblicato due volumi di cosiddette “prose
poetiche”, rispettivamente intitolate Cara signora Schubert… e L’amore, cara signora Schubert...18
Queste due raccolte sono tematicamente ben definite: a parlare è infatti un io lirico al maschile che
si rivolge ad una fantomatica “signora Schubert”, referente esistenziale e interlocutrice “intelligente
e sensibile” alla quale indirizza tutte le sue “missive” che trattano dei grandi temi della vita e della
morte, del destino, della memoria, del caso, della paura, intessuti da trame di ricordi condivisi,
plus narrative que démonstrative; s’il peut utiliser des éléments narratifs, descriptifs…, c’est à condition de la transcender et
de la faire ‘travailler’ dans un ensemble et à des fins uniquement poétiques: nous avons là un critère de gratuité. […] L’idée de
la gratuité peut être précisée par celle d’‘intemporalité’, en ce sens que le poème ne progresse pas vers un but, ne déroule pas
une succession d’action ou d’idées mais se propose au lecteur comme un 'objet', un bloc intemporel”, S. Bernard, Le Poème
en prose: de Baudelaire jusqu’à nos jours, Nizet, Paris 1959, pp. 14-15.
16
R. Barthes, Esiste una scrittura poetica?, in Idem, Il grado zero della scrittura, PBE, Milano 1982, p. 31. Cfr. anche M.
Delville, op. cit., p. 3.
17
Non è questa la sede per affrontare un discorso più articolato che riguardi nel suo insieme la poesia in prosa contemporanea.
Si rimanda, però, almeno a P. Zublena, Esiste (ancora) la poesia in prosa?, in «L’Ulisse. Rivista di poesia, arti e scritture», 13,
aprile 2010, pp. 43-47, e A. Kluba, Poemat prozą, cit., pp. 127-512, la quale riserva la seconda parte del suo volume all’analisi di
numerose poesie in prosa, a partire dal periodo della Giovane Polonia fino a quello del secondo dopoguerra.
18
E. Lipska, Droga pani Schubert…, Wydawnictwo Literackie, Kraków 2012; Eadem, Miłość, droga pani Schubert,
Wydawnictwo a5, Kraków 2013. Entrambe le raccolte sono state tradotte dalla scrivente con il titolo L’occhio incrinato del
tempo, a cura di M. Ciccarini, Armando, Roma 2013. A tale raccolta bilingue (polacco-italiana) si farà riferimento in seguito.
Tra senso e suono: il caso di Ewa Lipska
da momenti di vita vissuta insieme19. Sbaglierebbe, tuttavia, chi pensasse di trovarsi di fronte ad
un racconto che si sviluppa nel nostro consueto spazio-tempo o che segue un percorso di causaeffetto. Attraverso un gioco di metafore, paradossi e analogie la poetessa crea, infatti, un universo
mosso da una logica interna che non si serve delle categorie abituali della narrazione e che sembra
invece voler sottolineare il paradosso della complessità dell’esistenza costruendo un universo di
simmetrie surreali e inattese20.
Contrassegnate da brevità di scrittura e da un’originale quanto elegante e compatta
tessitura del racconto, le due raccolte hanno tuttavia delle caratteristiche formali diverse su cui
vale la pena soffermarsi per tentare di definire meglio il genere a cui appartengono. Nella seconda
raccolta, L’amore, cara signora Schubert…, con ogni evidenza si ha a che fare con prose poetiche,
veri a propri cammei, brevi miniature composte di poche righe di lucida prosa nella quale l’effetto
poetico è raggiunto grazie a singole immagini che hanno in sé la forza dirompente del discorso
continuo, in una maniera serrata e intensa che mette in luce la verticalità dello stile rispetto al
piano orizzontale della parola21.
Un solo esempio:
Nadmiar pamięci
Droga pani Schubert, co zrobić z nadmiarem pamięci? Włóczyłem się z nią po nieznanych miastach
i kontynentach. Zostawiałem w przechowalniach bagażu i w miejskich bibliotekach. Ale zawsze
odnajdywała mnie w porzuconych wspomnieniach, w listach, w snach. Kiedyś została napadnięta
przez lęk, który zażądał, aby oddała mu całą biżuterię. Pamięć stawiała opór, ale lęk wyrwał jej kilka
diamentowych lat. Czy byłaby pani gotowa przyjąć część mojej pamięci do swojego przeznaczenia?
Niech pani nie ignoruje tej propozycji, która przecież nie przyznaje się jeszcze do klęski.
L’eccesso di memoria
Cara signora Schubert, che fare dell’eccesso di memoria? Ci ho vagabondato insieme per città e
continenti sconosciuti. L’ho lasciata nei depositi bagagli e nelle biblioteche comunali. Ma mi ha
sempre ritrovato nei ricordi abbandonati, nelle lettere, nei sogni. Una volta è stata assalita dalla
paura, che le ha chiesto di darle tutti i suoi gioielli. La memoria ha opposto resistenza, ma la paura le
ha strappato alcuni anni di diamante. Lei sarebbe pronta ad accogliere una parte della mia memoria
nel suo destino? Non ignori questa proposta, che ancora non ammette sconfitta 22 .
Invece, nel volumetto precedente, Cara signora Schubert…, si nota il frequente ricorso
– oltre che a cesure particolarmente significative – all’enjambement, e ciò, accettando l’efficace
definizione di Giorgio Agamben, certifica l’identità della poesia rispetto alla prosa poiché “è
senz’altro poesia quel discorso in cui è possibile opporre un limite metrico a un limite sintattico
[…], prosa quel discorso in cui ciò non è possibile”23. La sconnessione, l’evidente e ripetuta
spezzatura tra suono e senso, potenzia la tensione lirica del dettato, creando effetti di senso
19
Cfr. M. Ciccarini, Le dissonanze ineluttabili della “signora Schubert“, in Kesarevo Kesarju. Scritti in onore di Cesare G. De
Michelis, a cura di M. Ciccarini, N. Marcialis, G. Ziffer, FUP, Firenze 2014, pp. 71-79.
20
Per un’analisi del contenuto delle due raccolte mi permetto di rimandare a M. Ciccarini, Universi reversibili, in E.
Lipska, L’occhio incrinato, cit., pp. 120-126.
21
Cfr. R. Barthes, op. cit., pp. 10-11.
22
E. Lipska, L’occhio incrinato, cit., pp. 68-69.
23
“È un fatto sul quale non si rifletterà mai abbastanza che nessuna definizione del verso sia perfettamente soddisfacente,
tranne quella che ne certifica l’identità rispetto alla prosa attraverso la possibilità dell’enjambement. Né la quantità, né il ritmo,
165
Marina Ciccarini
aggiuntivi che inducono il lettore a fermarsi, a sospendere il giudizio, salvo riprendere l’esperienza
di attesa e risoluzione della medesima con la ricongiunzione del nesso sintattico-logico. Come
suggerisce ancora Agamben:
In questo gettarsi a capofitto sull’abisso del senso, l’unità puramente sonora del verso trasgredisce,
con la propria misura, anche la propria identità. L’enjambement porta così alla luce l’originaria
andatura, né poetica né prosastica, ma, per così dire, bustrofedica della poesia, l’essenziale
prosimetricità di ogni discorso umano […]. Questa pendenza, questa sublime esitazione fra il verso
e il suono è l’eredità poetica, di cui il pensiero deve venire a capo24 .
In Cara signora Schubert…, l’esistenza di cesure ripetute, anche se non precedute da uno schema
di accenti riconoscibile, costituisce una regolarità dall’efficacia inattesa. Gli enjambement e gli
accapo possono avere la funzione di generare un’unità di senso conclusa e indipendente da quella
generata dai segni di interpunzione, ma anche di enfatizzare il punto di cesura che si comporta
come un vero e proprio accento, creando una sottesa regolarità ritmico-semantica, mettendo in
evidenza, in particolare, l’ultima parola del “verso”, parola chiave posta in posizione forte25.
Vediamo un esempio:
166
Dom
Droga pani Schubert, czasami czuję się jak wystawiony na sprzedaż dom. Jest we mnie sześć pokoi, są dwie kuchnie, trzy łazienki i jeden
przygarbiony strych. Teoretycznie mam dwa
wyjścia, ale od podwórza wiecznie zamknięte.
Stoję we wszystkich oknach i patrzę na drzewo, które, jak fragment nie napisanej prozy, szumi,
aby zagadać strach.
La casa
Cara signora Schubert, a volte mi sento come
una casa messa in vendita. Dentro di me ci sono sei
stanze, due cucine, tre bagni ed una
soffitta ingobbita. In teoria ho due
uscite, ma quella sul cortile è sempre chiusa.
Sto in piedi davanti a tutte le finestre e guardo l’albero
che, come il frammento di una prosa mai scritta, stormisce,
ciarlando per distrarre la paura26 .
né il numero delle sillabe – tutti elementi che possono occorrere anche nella prosa – forniscono, da questo punto di vista, un
discrimine sufficiente”, G. Agamben, Idea della prosa, Feltrinelli, Milano 1985, p. 21. Altrove Agamben ribadisce lo stesso
postulato: “È la consapevolezza del rango eminente di questa opposizione [fra suono e senso, fra segmentazione metrica
e segmentazione sintattica] che ha condotto gli studiosi moderni a identificare nella poesia dell’enjambement l’unico certo
criterio distintivo della poesia rispetto alla prosa (si definirà allora poesia quel discorso in cui è possibile opporre un limite
metrico a un limite sintattico, prosa il discorso in cui ciò non è possibile)”, Idem, Categorie italiane. Studi di poetica e di letteratura,
Laterza, Roma-Bari 2010, p. 37.
24
Idem, Idea della prosa, cit., p. 22.
25
È ovvio che il ragionamento che segue si fonda sull’assunzione, altamente verosimile, che l’accapo non sia posizionato in
modo casuale, benché forse il poeta non sia del tutto conscio del senso “nascosto” della cesura.
26
E. Lipska, L’occhio incrinato, cit., pp. 38-39.
Tra senso e suono: il caso di Ewa Lipska
Qui gli enjambement della prima parte e gli accapo degli ultimi quattro versi sembrano in
qualche modo fare da controcanto alla secca descrizione della “casa”, creano quella sospensione
che costringe il lettore ad essere vigile perché il depotenziamento degli abituali schemi di
riferimento può attivare associazioni e meccanismi insoliti. Se proviamo ad analizzare infatti la
successione delle ultime parole di ogni verso abbiamo una sequenza che, per quanto surreale, ha
una sua logica indipendente. L’ultima parola del primo verso è jak, “come”, e stabilisce subito una
corrispondenza, un paragone, un confronto tra due termini (qualcosa assomiglia a qualcos’altro),
mentre la sequenza numerica irregolare che segue stabilisce un ritmo discendente-ascendente (“sei”,
“uno”, “due”), e crea una piccola vertigine, come quella di una pallina che cade dall’alto e rimbalza
appena, cui segue la visione di una porta sempre “chiusa” (una delle due porte virtuali dell’iocasa), che sembra bloccare ogni movimento e alimentare un senso di oppressione. Terminata la
descrizione dell’io-casa, e dunque di un luogo interno, gli accapo successivi ci portano in un luogo
esterno, però altrettanto angoscioso, nel quale un “albero” “stormisce”, “per distrarre la paura”. La
sequenza, quindi, sembra avere un suo senso interno che non ha apparentemente alcun legame
logico con la “casa messa in vendita”, ma contribuisce a rafforzare il senso e il pericolo dell’ignoto
sotteso all’“essere in vendita”. Si tratta, in sostanza, di un’immagine nascosta che rafforza
l’atmosfera dell’immagine palese.
Un secondo breve esempio:
Pamięc
Droga pani Schubert, pisze pani, że zapomina o nas pamięć. Tak, to prawda. Pod jej nieobecność
wycofałem nasze papiery wartościowe, sprzedałem
obligacje i futro z czarnego lisa, w którym
przeżyliśmy burzę. Nie wiem, dlaczego omija
szerokim łukiem miejsca naszych łakomych
spotkań i nie poznaje adresów, pod którymi
mieszkała. Ktoś widział ją, jak otoczona
kamiennymi pomnikami, rozsypywała nas
przez roztargnienie.
La memoria
Cara signora Schubert, lei scrive che la memoria
si dimentica di noi. Sì, è vero. In sua assenza
ho ritirato le nostre carte valori, ho venduto
le obbligazioni e la pelliccia di volpe nera con cui
abbiamo superato la tempesta. Non so perché si tiene
alla larga dai luoghi dei nostri incontri
agognati e non riconosce gli indirizzi dove
ha abitato. Qualcuno l’ha vista mentre, attorniata
da monumenti di pietra, ci spargeva in giro
per distrazione.27
L’ultima parola del primo verso è zapomina, “si dimentica”; la seconda, nieobecność, “assenza”;
27
Ivi, pp. 58-59.
167
Marina Ciccarini
168
poi, sprzedałem, “ho venduto”; w którym, “con cui”; omija, “si tiene alla larga”; łakomych,
“agognati”; pod którymi, “dove”; otoczona, “attorniata”, nas, “noi”; roztargnienie, “distrazione”. La
sequenza è, dunque: “si dimentica, assenza, ho venduto, con cui, si tiene alla larga, agognati, dove,
attorniata, noi, distrazione”. Il senso che viene qui enfatizzato è quello di una perdita irreversibile
(“si dimentica, assenza, ho venduto”) che determina uno stare lontani dalle cose desiderate dalle
quali siamo attorniati (“con cui, si tiene alla larga, agognati, attorniati”), e di tale perdita proprio
noi siamo colpevoli per noncuranza (“dove, noi, distrazione”).
In questi due brevi esempi tratti dalla raccolta Cara signora Schubert…, la struttura
“versificata” (nel senso di cui si è detto sopra) non è un vezzo grafico, ma costituisce una regolarità
che ha un suo preciso significato poetico che rafforza le immagini contenute nel testo. Più in
generale, le due poesie in prosa qui presentate – come del resto tutte le altre che compongono
la raccolta – hanno strutture chiuse e concluse in sé: il racconto è scritto in prima persona da un
narratore intradiegetico e autodiegetico che si rivolge non al lettore reale ma a un narratario fittizio
(la signora Schubert), mentre il discorso è strutturato utilizzando una struttura “simmetrica”
realizzata attraverso un processo surreale di reificazione degli esseri umani (il narratore si presenta
come un oggetto, una casa messa in vendita), e di personificazione di esseri animati o inanimati,
concetti o sentimenti (l’albero e la paura possiedono connotazioni e reazioni umane, come la
memoria). Il flusso di coscienza del narratore è incorniciato dalla struttura simil-epistolare, in un
dialogo di cui si conosce solo un punto di vista (la signora Schubert non è mai presente in maniera
attiva).
La densità delle immagini è ottenuta anche grazie all’utilizzo di figure retoriche, qui “ancelle”
del gioco simmetrico, quali l’apostrofe, l’anafora (con valore intertestuale), la similitudine, l’ellissi,
la prosopopea, e da significative inversioni del normale ordine delle parole, incisi e frasi nominali,
caratteristiche del registro colloquiale. La brevità, invece, è raggiunta grazie a una contrazione
della prosa discorsiva che non si sviluppa poco a poco, ma si realizza – come detto – in forme
espressive fulminanti e paradossali nelle quali ritmo e significato si scontrano e producono un
impatto, un’alterazione, una convulsa e tesa condensazione del contenuto poetico.
In conclusione, mettendo a confronto le poesie in prosa di Cara signora Schubert… con le
prose di L’amore, cara signora Schubert…, si può rimarcare una consapevolezza e un’espansione,
un respiro differenti. Nell’universo della poesia in prosa il legame tra i due protagonisti è
raccontato con attese ed esitazioni, pause e intervalli poi risolti, quasi a voler indurre il lettore
a seguire una trama musicale, breve ed intensa, laddove nelle prose poetiche il passo rallenta, il
senso e il suono fluiscono in un microracconto che, per quanto paradossale possa essere, ha un suo
scorrere, compatto e continuo.
Proprio nella diversa modulazione di senso e suono si gioca la partita di queste due forme
originali di scrittura, si condensano o si stemperano l’immediatezza sensibile e istintiva e il
significato, il fine, tra ritmi e sonorità rivelatrici.
Tra senso e suono: il caso di Ewa Lipska
Abstract
Marina Ciccarini
Between Sense and Sound. The Case of Ewa Lipska
In the last fifty years, many studies in Europe and America have addressed the problem of poetic prose and of prose poetry,
in an attempt to enclose two very elusive literary categories, if possible, in an ultimate definition. Retracing the evolutionary
lines of the debate on the issue, the article focuses on the analysis of two recent collections of Ewa Lipska’s poetry, classified
by critics as “poetic prose”. While such a definition is useful for the collection Miłość, Droga Pani Schubert… (2013), it is less
accurate for the volume Droga Pani Schubert… (2012). In the latter, the presence of frequent enjambments and the repeated
ruptures with keywords in strong positions form an original rhythmic-semantic regularity and effectiveness typical of prose
poetry.
Keywords: Polish Literature, Ewa Lipska, Prose poetry, Poetic prose, Enjambments
«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», (VII) 7, 2016, pp. 161-169
169
Barbara Minczewa
Il desiderio di utopia. Elementi per definire la costruzione
delle distopie teatrali polacche
1. La morte del “bell’animale” e il desiderio di utopia
T
ic/-/tac. Per la nostra percezione, anche il ticchettio dell’orologio è una piccola
drammatizzazione del tempo: inizio-centro-fine; genesi-percorso del mondo-apocalisse;
nascita-vita-morte. Siamo abituati alla tripartizione del tempo in cui viviamo, a un tempo
con una finalità, con un punto verso cui intendiamo giungere, o verso cui ci spinge il moto della
natura e della storia. Quello che ci spinge a ricercare sempre lo stesso schema, anche negli stimoli
più piccoli, è un “desiderio del dramma”1, un impulso che vuole dare ordine anche alle narrazioni
più caotiche. Secondo il principio della tripartizione, grossomodo, viene organizzato il modello
della drammaturgia aristotelica, il “bell’animale”2 che ha stabilito la struttura della narrazione
drammatica per secoli.
Tuttavia, nel teatro e nella drammaturgia contemporanei – in Polonia in particolare nel
periodo a partire dall’inizio del XXI secolo – la struttura del tempo è cambiata radicalmente
rispetto a questo modello tradizionale. Andando ad analizzare in maniera approfondita alcuni
degli spettacoli più significativi del teatro polacco degli ultimi anni, scopriremo che la temporalità
viene costruita secondo concetti insoliti.
In questa sede prendiamo come spunto di riflessione uno degli spettacoli più importanti
degli ultimi quindici anni, significativo soprattutto per la definizione della sensibilità e delle linee
del pensiero del teatro critico in Polonia: H., un’interpretazione dell’Amleto shakespeariano per
la regia di Jan Klata, messa in scena nell’estate del 2004 nei cantieri navali di Danzica. Jan Klata
è stato, nel teatro polacco più recente, probabilmente il primo regista di teatro che abbia rivolto
così tanta attenzione alla questione della storia e della memoria, in questo caso in particolare alla
memoria dell’epoca finita con la cesura storica del 1989. A cavallo tra il XX e il XXI secolo – e
H. è uno degli esempi più importanti in questo contesto, non solo perché il più noto – nasce
una corrente critica del teatro che ci ricorda spesso che uno dei drammi della “nuova Polonia”
è il fatto che non si sia formata una società civile, ovvero una comunità dotata proprio di quei
valori (in primis la solidarietà, dalla quale prende nome il movimento “Solidarność”) che hanno
portato alla vittoria un progetto prima sindacale, e poi socio-politico. Klata, come dopo di lui
altri registi teatrali (particolarmente interessanti per il recupero critico della memoria del passato
più recente sono gli spettacoli di Michał Zadara e di Monika Strzępka), di fronte ai dogmi a
1
Cfr. H.-T. Lehmann, Cosa significa teatro postdrammatico?, in «Prove di drammaturgia», 1, 2010, p. 7.
Mi riferisco alla metafora usata nel capitolo VII della Poetica, con cui Aristotele esplicita l’idea dell’unità d’azione:
l’azione, come qualsiasi creatura vivente, non deve essere né eccessivamente grande né troppo piccola, e deve avere tutte le
parti ordinate e al loro posto. Ordine ed estensione dunque sono alla base della costruzione della fabula, necessariamente
composta da un inizio, un mezzo e una fine e della giusta lunghezza.
2
171
Barbara Minczewa
172
senso unico della narrazione dominante3 del potere, ha cominciato a rivendicare lo spazio per
l’esercizio della critica e del dubbio, per la comunità e, soprattutto, per l’utopia. Quello di Klata
è un teatro critico, impegnato o – servendoci dell’importante distinzione compiuta nel saggio
Polityka sztuki4 da Paweł Mościcki – impegnante5 in quanto rievoca le zone di esclusione sociale
e i personaggi più deboli; l’intento è quello di ricordare che la democrazia non è una cosa data
per sempre, bisogna piuttosto lavorarci costantemente, scorgere e denunciare (questo è il maggior
compito di artisti e intellettuali) le falle del sistema e i problemi ancora appena visibili, prima
che diventino un’epidemia di “rinocerontite”, come nel celebre dramma di Eugène Ionesco6.
Così, l’indagine sui motivi del fallimento dell’ultima utopia polacca, inteso anche in senso più
ampio come il fallimento dell’intero progetto di democratizzazione della vita comune e della sfera
pubblica, è probabilmente uno dei grandi temi del teatro polacco contemporaneo.
In apertura dello spettacolo H., sullo sfondo delle gru fatiscenti dei cantieri navali
abbandonati, vediamo avvicinarsi al pubblico due giovani amici, Amleto (Marcin Czarnik) e
Orazio (Cezary Rybiński); i loro discorsi sono come ripresi a metà, ci introducono bruscamente
nella storia, senza alcun prologo, senza l’introduzione di personaggi atti a esporre le vicende
narrate (come i due soldati che si interrogano sulla comparsa dello spirito del defunto re). Non
vi è neanche un chiaro inizio: si ha l’impressione di subentrare in un certo momento dell’azione,
quando gli attori hanno già dato inizio alla “narrazione”.
I due amici sono entrambi vestiti di bianco, in costumi da scherma, come del resto tutti
i personaggi di questo spettacolo: sono in assetto di guerra, pronti già per lo scontro finale.
Amleto ha una benda nera sul braccio – probabilmente in segno di lutto per la morte del padre
– e Orazio ha in mano una radio portatile. Sentiamo la canzone Seven Nation Army, singolo
del 2003 del gruppo The White Stripes, una canzone rock dal ritmo semplice, che fa da sfondo
al gioco di turbogolf 7 in cui si cimentano i due attori; l’inesorabile catastrofe è preannunciata,
3
Userò la nozione “narrazione dominante” nel senso in cui viene oggi definito un sistema di convinzioni, di ideologia, di
politica storica e di condizioni che creano il diktat generale nella vita pubblica; ne ha dato una definizione esaustiva Riccardo
Petrella nel libro-intervista: R. Petrella, Una nuova narrazione del mondo. Umanità, beni comuni, vivere insieme, a cura di R.
Bosio, EMI, Bologna 2006. Nell’introduzione a questo saggio, Petrella scrive: “Nessun sistema, gruppo sociale o essere
umano può esistere in assenza di una sua narrazione. […] La narrazione è ideologia e qualcosa in più: è il vissuto di emozioni,
gioie, sofferenze, realizzazioni. La narrazione comprende necessariamente il passato, il presente, il futuro” (p. 3). La narrazione
dominante di oggi è ispirata, secondo Petrella, da tre forze maggiori: la fede nella tecnologia, la fede nel capitalismo e la
convinzione dell’impossibilità di alternative al sistema attuale.
4
P. Mościcki, Polityka teatru. Eseje o sztuce angażującej, Wydawnictwo Krytyki Politycznej, Warszawa 2007.
5
In questa distinzione, l’arte impegnata va intesa come integrata con la sfera pubblica, è caratterizzata da un radicale rifiuto
del concetto di ars gratia artis, al quale viene contrapposta l’idea dell’arte come strumento per comunicare idee e raggiungere
obiettivi che si trovano al di fuori dell’arte. L’arte impegnante, a differenza dall’arte impegnata, si basa su un concetto
fondamentale dell’arte avanguardista del dopoguerra, e cioè sul fatto che esiste un’omologia strutturale fra il campo dell’arte
e il campo della politica; compiendo una rivoluzione artistica si otterrebbero dunque sempre degli effetti politici. Questo
riguarda anche la parte formale dell’opera (o dello spettacolo), perché rivoluzionando un linguaggio artistico si effettua
un cambiamento, una riconfigurazione e una destrutturazione della generale percezione della realtà, e di conseguenza si
possono ottenere dei cambiamenti a livello della vita sociale. La prima dunque si collega al concetto di engagement, sviluppato
in particolare da J.P. Sartre in Che cos’è la letteratura? (1947), mentre la seconda ha come riferimento la categoria della “moralità
della forma” sviluppata da R. Barthes soprattutto in Il grado zero della letteratura (1953).
6
Cfr. E. Ionesco, Il rinoceronte, Einaudi, Torino 1981.
7
Turbogolf: una versione "sovversiva" e aggressiva del golf che si svolge in tutti posti non convenzionali, come luoghi
abbandonati o parchi, e consiste nel colpire la pallina, ma più che arrivare a una destinazione (il buco) è importante il percorso
a ostacoli (i giocatori si sfidano a chi riesce a rompere una finestra, a colpire un punto preciso ecc.).
Il desiderio di utopia
ma il protagonista di questa storia non sembra esserne molto preoccupato. Quando nell’ultima
scena Fortebraccio (Maciej Konopiński) irrompe nello scenario di morte e di massacro appena
compiuto insieme ai suoi uomini, non abbiamo la sensazione che questa storia sia finita. Sin
dall’inizio, in questo spettacolo, il tempo scorre secondo principi diversi da quelli tradizionali,
mosso da una logica inusuale. Forse scorre a spirale, o piuttosto seguendo il principio del nastro di
Möbius: non esiste un inizio e una fine, esiste una superficie unica, un solo lato e un solo bordo;
una volta percorso il giro, ci si trova dalla parte opposta, ma percorrendo due giri ci ritroviamo al
lato iniziale. Comunque vada, il finale è già prestabilito, già vissuto, lo conoscono tutti.
Lo scorrere del tempo così insolito non si manifesta solamente in H. di Jan Klata; molte
rappresentazioni contemporanee8, in risposta al cambiamento generale dell’organizzazione e
della percezione dei ritmi del tempo sociale e lavorativo, costruiscono dei mondi teatrali in cui
il tempo della rappresentazione/narrazione non scorre in maniera lineare. Nel 1960 Kingsley
Amis scriveva: “Il capitalismo provoca una storica rottura epistemologica, attraverso cui il
tempo scandito dall’orologio diviene lo spazio dello sviluppo umano perché esso è lo spazio della
produzione industriale capitalistica”9; il tempo sostituisce quindi lo spazio dello sviluppo umano,
ma nella versione moderna – se vogliamo, postfordista10 – del capitalismo, la questione si complica
ulteriormente, in quanto il tempo perde la sua logica, si dilata, si riavvolge su sé stesso e diventa
inafferrabile, virtuale.
Queste mutazioni non potevano lasciare indifferenti il teatro e la drammaturgia che, con gli
albori del capitalismo iniziano a vivere una crisi che porta all’agonia del “bell’animale” aristotelico,
cioè al progressivo smantellamento della forma drammatica e della fabula. Com’è noto, la crisi del
“dramma assoluto” è stata teorizzata da Peter Szondi nel saggio Teoria del dramma moderno11;
8
In realtà una simile tendenza è da ricercare almeno sin dal teatro dell’assurdo, se non ancora prima, nelle varie forme del
teatro d’avanguardia e nelle sperimentazioni che vengono riassunte sotto il segno comune della Grande Riforma del teatro
a cavallo fra XIX e XX secolo.
9
K. Amis, Nuove mappe dell’inferno (1960), trad. it. M. Valente, Bompiani, Milano 1962, p. 97.
10
Cfr. U. Fadini, A. Zanini, Lessico del postfordismo. Dizionario di idee della mutazione, Feltrinelli, Milano 2001, pp. 1112: “Postfordismo: un modello sociale in cui il modo di produzione non è più dominato dalle forme di accumulazione
verticalmente integrate e di distribuzione della ricchezza contrattate tra rappresentanze collettive e supervisionate dallo
stato, bensì da forme di accumulazione flessibili, capaci di integrare, di mettere in rete, modi, tempi e luoghi di produzione
tra di loro molto diversi: dalla fabbrica robotizzata alla cascina Hi Tech, dal distretto industriale alle maquilladoras messicane,
ai templi della finanza globale. […] Nei processi lavorativi contemporanei, ci sono pensieri e linguaggi che funzionano di per
sé come “macchine” produttive, senza dover adottare un corpo fisico, meccanico o elettronico. Tali pensieri appartengono
– anche, non solo – all’esperienza degli indIvidui. Ed è appunto nella progressiva difformità e nello scarto tra l’intelligenza
collettiva diffusa e il “cervello sociale” sussunto negli stessi processi lavorativi che si può scorgere la matrice conflittuale,
complessa e contraddittoria della produzione postfordista e, nello stesso tempo, i processi che definiscono in termini di
biopolitica le modalità di controllo, di regolazione e di riproduzione della forza-lavoro e della soggettività su scala planetaria”.
11
Il “dramma assoluto”, dal quale parte l’analisi di P. Szondi, Teoria del dramma moderno 1880-1950, trad. it. di C. Cases,
Einaudi, Torino 1962, è un modello post-rinascimentale del dramma che non “conosce nulla al di fuori di sé” (p. 7). I suoi
concetti fondamentali si potrebbero riassumere come l’“accadere (1) presente (2) e intersoggettivo (3)” (p. 10). L’autore nella
sua definizione del dramma, in parte ispirata a quella hegeliana, con particolare attenzione rivolta al concetto dialettico del
genere, elenca anche altri elementi fondamentali: uno di essi è l’idea del dramma puro e primario che rappresenta sempre
sé stesso, crea mondi nuovi e non conosce ispirazioni esterne, né citazioni. Le conseguenze formali dell’assolutezza del
dramma come genere letterario si possono vedere su tutti i piani, in primis nell’assenza e nel silenzio dell’autore, concepito
solamente come l’inventore di un mondo che non gli appartiene. Anche lo spettatore risulta passivo, fermo restando che il
mondo rappresentato lo dovrebbe coinvolgere emotivamente attraverso il processo di riconoscimento e identificazione. Il
rapporto dell’attore con il ruolo non deve essere mai visibile, bensì l’attore dovrebbe fondersi con il personaggio in un essere
173
Barbara Minczewa
174
come risposta alle vecchie strutture drammaturgiche, morte alla fine dell’Ottocento insieme alla
convenzionalità della pièce bien faite, Szondi proponeva il concetto di teatro epico che per molti
versi continua a essere un importante punto di riferimento per le pratiche teatrali contemporanee,
non essendo però in grado di esprimere in pieno la complessità delle tendenze del teatro e del
dramma della fine del XX e dell’inizio del XXI secolo.
Lo studioso tedesco Hans-Thies Lehmann propone dunque la nozione di teatro
postdrammatico, dove il prefisso “post-” indica una relazione, seppur conflittuale o polemica, con il
precedente modello predominante del teatro drammatico. Lehmann sostiene che le nuove forme ed
estetiche teatrali (eredi della lotta che il teatro ha compiuto agli inizi del XX secolo per confermare la
propria autonomia rispetto alla letteratura, nonché della crisi del dramma diagnosticata da Szondi)
hanno in comune la qualità di non focalizzarsi più sul testo drammatico. Il nuovo teatro preferisce
forme incompiute, frammentate, disordinate, usa il montaggio, la decostruzione, il collage, e
altre forme che trasmettono la crisi dell’unità aristotelica e della concezione del tempo. “Il teatro
drammatico finisce nel momento in cui questi elementi [l’illusione, la mimesis e il testo – B.M.]
non si costituiscono come principi regolatori, ma si dimostrano come uno delle tante possibili
varianti dell’arte del teatro”12, scrive Lehmann. Un concetto cruciale diventa la comunicazione,
perché nel mondo mediatico della contemporaneità, l’aspetto dominante diventa il rapporto tra
osservatore e oggetto, la situazione in atto, l’accadimento del teatro; l’arte del teatro si disinteressa
dunque al concetto aristotelico di unità, l’opera conclusa perde di importanza per assegnare il
privilegio all’esecuzione/spettacolo. Però – sottolinea Lehmann – “si può anche paradossalmente
dire che il dramma è stato superato, nonostante esista un certo desiderio del dramma”13; laddove
manca il finale, la nostra percezione lo ricercherà disperatamente, cercherà di dare ordine al caos
degli impulsi ricevuti.
D’altro canto, Jean-Pierre Sarrazac propone di sostituire la figura del drammaturgo
tradizionale, il demiurgo dei “begli animali”, con l’autore-rapsodo14, un soggetto drammatico e
lirico nello stesso tempo che, guidato appunto da una “pulsione rapsodica”, assembla quello che ha
precedentemente scomposto lui stesso. Il teorico francese mette in evidenza una peculiare “poetica
dell’unione nella discordanza”15 che sarebbe caratteristica per gli autori di teatro contemporanei,
e che porterebbe allo
[…] smembramento del corpo del dramma – come quello di Dioniso – smembrato e ricomposto
all’infinito. La pulsione rapsodica interrompe incessantemente il corso dell’opera; taglia nel vivo
e lì dove, nella forma aristotelico-hegeliana e nel suo prodotto, la “pièce bien faite”, aveva uno
svolgimento organico, crea un ritaglio, quasi una scarnificazione. […] L’autore-rapsodo taglia e
assembla il tutto, lasciando vedere chiaramente le cuciture, ciò che va a stracciare, a fare a pezzi16.
drammatico autonomo. Il dramma così concepito si svolge sempre in un presente immanente, “non conosce il concetto di
tempo” (p. 61) e sia l’ambiente temporale che quello spaziale devono essere estranei alla conoscenza dello spettatore.
12
In mancanza di una traduzione italiana dello studio di Lehmann (ed. or. H.-T. Lehamann, Postdramatisches Theater,
Verlag der Autoren, Frankfurt am Main 1999) mi servo della traduzione polacca: Idem, Teatr postdramatyczny, trad. pol. D.
Sajewska, M. Sugiera, Księgarnia Akademicka, Kraków 2004, p. 18. (“Teatr dramatyczny kończy się w tym miejscu, gdzie te
elementy nie stanowią już zasady regulującej, lecz okazują się tylko jednym z możliwych wariantów sztuki teatru”).
13
H.-T. Lehamann, Cosa significa teatro postdrammatico?, cit., p. 7.
14
Il termine è stato proposto per la prima volta in J.-P. Sarrazac, L’Avenir du drame, Editiond de L’aire, Lausanne 1981.
15
J.-P. Sarrazac, Il Nuovo corpo del dramma, in «Prove di drammaturgia», 1, 2010, p. 21.
16
Ibidem.
Il desiderio di utopia
Al posto del bell’animale nasce dunque una specie nuova che Sarrazac paragona all’ibrido
kafkiano, la bizzarra bestia a cui sta stretta la propria pelle, il mezzo gatto, mezzo agnello17: un
ibrido, un incrocio improbabile, prodotto di un’infinità di possibilità di riproduzioni e di
incroci. Un essere in eterno divenire e, potenzialmente, mutabile fino all’infinito. Nel taglia e
cuci dell’autore rapsodo, il racconto può assumere quindi varie forme e nella sua composizione
frammentaria, decomponibile, in realtà manca il principio dell’ordine della costruzione di una
fabula: non c’è un vero inizio, uno sviluppo e, soprattutto, non c’è la fine. Il desiderio del dramma
può anche trovare appagamento nelle forme più scomposte, basta solo accettare la trasformazione
del “bell’animale” in un ibrido grottesco.
Postdrammatico o rapsodico, il nuovo teatro ci presenta dunque, in risposta al radicale
cambiamento del tempo della vita umana, una concezione del mondo senza fine, frammentario,
scomposto, dalla sostanza impervia, con delle trame fatte di ingranaggi di voci, materiali e
personaggi che nel loro insieme provocano un effetto di eccesso e di sovraffollamento. La nostra
percezione continua a ricercare spontaneamente negli impulsi ricevuti una forma conclusa,
desidera sentire quel “tac” dell’orologio, come anche desidera avere un fine da raggiungere. In un
certo senso, il desiderio di unità del tempo si unisce con il desiderio di finalità e con il desiderio
di utopia.
Infatti, anche la logica della costruzione delle utopie richiede una finalità: si mira a
raggiungere un orizzonte (concetto molto importante per la riflessione sull’utopia18), cioè il
sistema di valori, il progetto politico immaginato; è questo il moto del progresso, alimentato da
quel principio speranza19 senza il quale l’utopia non ha ragione d’esistere.
Anche se, come si diceva, Jan Klata è un regista che nel teatro polacco più recente ha
cominciato a rivendicare lo spazio per l’utopia, il mondo di H. non è utopico, non può esserlo:
è un mondo distopico. In un mondo senza finalità, un mondo cioè in cui non è più possibile il
dramma, come non è possibile l’utopia, H. è probabilmente il primo spettacolo nella Polonia
post-1989 che grida il suo desiderio di utopia, dimostrato all’inverso, attraverso le strutture della
distopia.
Sembrerebbe una contraddizione, ma non è così: bisogna ricordare che l’utopia e la distopia
non andrebbero necessariamente viste come concetti opposti. Se è vero, come scrive Silvia Rota
17
Si tratta del racconto Un ibrido di F. Kafka, in Racconti, Mondadori, Milano 1983, pp. 422-423. Cfr. Słownik dramatu
nowoczesnego i najnowszego, a cura di J.-P. Sarrazac, Księgarnia Akademicka, Kraków 2007, voce: Piękne zwierzę (śmierć pięknego
zwierzęcia), pp. 123-124.
18
Darko Suvin nel suo saggio in Nuovissime Mappe dell’Inferno (D. Suvin, Trenta tesi sulla distopia 2001: o è un trattarello?,
in Nuovissime mappe dell’inferno. Distopia oggi, a cura di G. Maniscalco Basile, S. Suvin, Monolite, Roma 2004, pp. 13-34)
spiega che il luogo dove viene collocata l’utopia sia importante (per es. un’isola), ma questa collocazione è meno importante
dell’orientamento dello sguardo verso un luogo e del movimento che viene attuato per raggiungerlo. “Il luogo, pertanto, è
situato in uno spazio immaginario che è insieme misura e misurato; ma lo è come valore (qualità) piuttosto che come distanza
(quantità)” (Ibidem, p. 17). Pertanto, gli aspetti legati al movimento dell’individuo e allo spazio sono: “a) il luogo (locus) in cui
l’agente si muove; b) l’orizzonte verso il quale l’agente si muove; c) l’orientamento, il vettore che congiunge locus e orizzonte”
(Ibidem, p. 18).
19
Cfr. E. Bloch, Il principio speranza, (1959), trad. it. E. De Angelis, T. Cavallo, Garzanti, Milano 1994. Nello studio di
Bloch viene sviluppata la tesi che utopia e speranza sono due forze essenziali del pensare e dello sviluppo dell’uomo; secondo
Bloch, l’uomo è dotato di una coscienza anticipante e di una capacità di mettere in moto lo sviluppo storico, il progresso
e le rivoluzioni grazie appunto alla speranza, elemento e meccanismo fondamentale e oggettivo che fa parte di un reale e
concreto sviluppo dell’essere, è la forza insita dell’uomo di voler costruire la realtà.
175
Barbara Minczewa
Ghibaudi20, che in ogni utopia c’è un elemento distopico, sia espresso che tacito, come in ogni
distopia c’è un elemento utopico, sia espresso che tacito, e che in entrambi i casi è la realtà ad
essere, almeno in parte, distopica e a richiedere un nuovo progetto, l’analisi deve necessariamente
abbracciare sia l’utopia che la distopia come strettamente collegate e appartenenti ad un comune
orizzonte di pensiero. Inoltre, proprio attraverso la dimostrazione del suo inverso speculare, la
mancanza di un orizzonte utopico si palesa ancor più dolorosa.
2. Il teatro della non-morte
176
Se sin dall’inizio dello spettacolo i protagonisti di H. sono preparati per la catastrofe finale,
allora noi, spettatori, guidati da Orazio che ci porta negli angoli più remoti degli storici cantieri
navali, accompagniamo i personaggi in questa strada verso la morte; ma in un mondo senza fine, la
morte ha ragione d’esistere? In effetti, nella storia architettata da Klata Amleto non muore, viene
sostituito. Qui tutti possono essere il nuovo Amleto; viene addirittura organizzato un casting,
durante il quale, in un gesto dissacrante verso il verbo shakespeariano, il celebre monologo “Essere
o non essere…” viene declamato da attori non professionisti. Un Amleto, un H. (iniziale di Hamlet,
dunque un Amleto qualsiasi, privato di individualità, ma forse anche iniziale di historia, la Storia
che è padrona di questo mondo rappresentato) non può mai mancare, sostituito in continuazione
da un nuovo attore. In chiusura – che è appunto anche un’apertura – Fortebraccio si siede accanto
al cadavere di Amleto e chiede, con tono di rassegnazione, forse a se stesso, o forse al pubblico:
“I gdzież to wszystko?”21. È lui il nuovo Amleto, ma non è il vincitore di questa storia, è solo un
doppio, un sostituto destinato a ripetere tutta la storia. È vestito allo stesso modo di Amleto, di
bianco, in costume da scherma, con la benda nera sul braccio. Lo spirito del padre intanto, come
un brutto presagio, passa dietro le sue spalle sul cavallo bianco, vestito da ussaro alato.
Da questo mondo la morte viene bandita, perché la mancanza della finalità delle cose è, in
un’ottica più estesa, collegata anche ad un rifiuto dell’idea di morte; tant’è che nello spettacolo di
Klata viene completamente cancellata la celebre scena nel cimitero, conosciuta nel testo originale
di Shakespeare. Nell’analisi radicale di Jean Baudrillard si arriva alla conclusione che nella società
moderna in cui i cimiteri sono spostati fuori dalle città, lontano dagli sguardi dei vivi, “l’evoluzione
è irreversibile: a poco a poco i morti cessano di esistere. Sono respinti fuori dalla circolazione
simbolica del gruppo”22. Poco dopo leggiamo: “Essere morto è un’anomalia impensabile, rispetto
alla quale tutte le altre sono inoffensive. La morte è una delinquenza, una devianza incurabile. Non
più uno spazio/tempo destinato ai morti, la loro dimora è irreperibile, eccoli respinti nell’utopia
radicale – nemmeno più parcheggiati: volatilizzati”23.
Secondo Baudrillard, se il cimitero non esiste più nella città, è perché la città stessa ne
assume la funzione; e “se la grande metropoli operativa è la forma perfetta di un’intera cultura,
20
S.R. Ghibaudi, Metodi di analisi dell’utopia, in Per una definizione dell’utopia. Metodi e discipline a confronto, a cura di N.
Minerva, Longo Editore, Ravenna 1992, pp. 161-172.
21
W. Shakespeare, Hamlet, książę Danii, trad. pol. S. Barańczak, W Drodze, Poznań 1990, p. 204. La frase è difficile da
tradurre in italiano; in originale: “Where is this sight?”, che si potrebbe tradurre liberamente come “Che vista è questa?”.
Agostino Lombardo traduce questa frase in italiano: “Dov’è questo spettacolo?” (W. Shakespeare, Amleto, trad. it A.
Lombardo, Feltrinelli, Milano 2014, p. 281), ma nella traduzione di S. Barańczak Amleto chiede piuttosto “Dov’è finito
tutto?”.
22
J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte , trad. it. G. Mancuso, Feltrinelli, Milano 2009, p. 139.
23
Ibidem.
Il desiderio di utopia
allora la nostra cultura è semplicemente una cultura di morte”24.
In H. infatti il cimitero non c’è, ma lo spazio della rappresentazione pullula di non-morti,
di “morti viventi”: sono i protagonisti della storia, destinati a morire e risorgere per ripresentarla
sempre daccapo. Tutto ci indica che lo spettacolo sta per ricominciare: il vestito di Fortebraccio
è ancora di un bianco immacolato, come quello di Amleto nella prima scena, e lo spirito del
padre sta probabilmente preparandosi a rientrare al galoppo per avvertire il figlio dei pericoli che
incombono sul suo regno. Ci ritroviamo di nuovo nella paradossale spirale del tempo, in cui la
morte non c’è, anche se tutto è intriso di morte.
Joanna Derkaczew scriveva che “il ritratto della Polonia è un ritratto funebre”25, pieno di
fantasmi, morti e spazi lugubri. Questa tendenza della cultura polacca può essere interpretata
anche come proprietà peculiare del teatro che, secondo Marvin Carlson26, va inteso come una
vera “macchina della memoria”, perché la sua caratteristica è quella di “ripetere sempre le stesse
storie che hanno per il pubblico un concreto significato religioso, sociale o politico”27. Una
sorta di infestazione di spettri del passato è anche, come ricordiamo, una generale caratteristica
dell’arte performativa e visiva del XX secolo: i vari ready-made e object trouvé, resuscitati nel
gesto di creazione dell’opera d’arte, sono anch’essi delle forme fisiche che riportano la memoria
nel presente. Nel teatro polacco ritroviamo un gesto simile, per esempio, in Tadeusz Kantor che
riutilizzava gli oggetti appartenenti alla “realtà di rango minore” e, naturalmente, nel “teatro della
morte”28. Questo è anche il caso del teatro contemporaneo che utilizza il riciclaggio culturale, le
citazioni, la decomposizione e ricomposizione o il riemergere degli artefatti e delle immagini del
trauma: la pulsazione rapsodica è un continuo richiamo degli spiriti.
I giovani registi polacchi ci ricordano che gli incubi della storia non se ne sono andati,
bisogna saper dialogare con i morti, liberare le narrazioni in cui viviamo, esorcizzare gli spettri,
altrimenti continueranno a infestare la sfera delle nostre rappresentazioni, e la sfera della vita
comune. Riscrivere il passato, confrontarsi con i suoi capitoli più dolorosi, ammettere le proprie
colpe e – soprattutto – distruggere il linguaggio anacronistico e dominante che ci ha abituato
a certe forme di narrazione storica: questi sono alcuni dei bisogni formulati dal teatro polacco
contemporaneo. Jan Klata, con H., ha aperto proprio la riflessione su cosa è rimasto degli ideali
della “rivoluzione di velluto” polacca, ma l’attenzione del teatro polacco per la questione del
passato, del trauma non rielaborato e della memoria – in particolare la memoria dell’Olocausto e
della Seconda guerra mondiale – è particolarmente significativa e si estende sulle pratiche teatrali
di registi più disparati29.
In questa sede tratto nello specifico le distopie teatrali, nate in risposta al fallimento
24
Ibidem.
J. Derkaczew, Nie-polska komedia, http://wyborcza.pl/1,75475,7933993,Nie_Polska_komedia.html#ixzz3n151uIeI;
“portret Polski jest portretem trumiennym”.
26
M. Carloson, The haunted stage. The theatre as Memory Machine, The University of Michigan Press, Ann Arbor 2003.
27
Ivi, p. 8; citato da: M. Sugiera, Upiory i inne powroty, Księgarnia Akademicka, Kraków 2006, p. 17; “[…] opowiadania tych
samych historii, które mają określone religijne, społeczne czy polityczne znaczenie dla publiczności”.
28
Il “teatro della morte” è stata l’ultima (e la più famosa) tappa del percorso artistico di Tadeusz Kantor, iniziata nel 1975
con il manifesto dallo stesso titolo; nel “teatro della morte” Kantor rivolge una particolare attenzione al tema della memoria,
il passare del tempo. Questo periodo artistico comprende cinque spettacoli: La classe morta, Wielopole, Wielopole, Crepino gli
artisti, Qui non ci torno più e Oggi è il mio compleanno. Cfr. T. Kantor, Il teatro della morte, a cura di D. Bablet, Ubulibri, Milano
2000.
29
A questo tema è stato dedicato un interessante volume: Zła pamięć. Przeciw-historie w polskim teatrze i dramacie, a cura di M.
Kwaśniewska, G. Niziołek, Instytut im. Jerzego Grotowskiego, Wrocław 2012.
25
177
Barbara Minczewa
delle utopie, o, per essere più concreti, dell’ultima utopia tipicamente polacca: la lezione fallita
di comunità e solidarietà di “Solidarność”. Per mantenere la semantic hygiene30 postulata dallo
studioso Darko Suvin, precisiamo che proprio di distopie si tratta, e non di antiutopie, poiché se
l’antiutopia combatte una possibile utopia (e il contesto, storicamente parlando, è stata solitamente
l’utopia socialista), la distopia lotta contro le tensioni del presente, in quanto il contesto prevalente
potrebbe essere – in primo luogo – il capitalismo e le sue varie forme, oppure in termini più
generali, la società urbana contemporanea e le sue catene di produzione e consumo31 .
Come altri spettacoli che hanno trattato in modo critico il periodo delle proteste di
“Solidarność” nell’agosto del 1980, con tutte le sue conseguenze per la storia recente32, H. è
nato dunque non dal bisogno di fare ricostruzioni storiche o criticare le decisioni e gli sviluppi
delle vicende di quel periodo; nasce dal bisogno di parlare del presente segnato dal fallimento di
un’utopia che viene da questi artisti identificata – in un senso puramente concettuale, non storico
– con “Solidarność”. Si parla dunque del presente infestato dagli spiriti del passato e Derkaczew
ha certamente colto bene questa particolare peculiarità “funeraria” della cultura polacca, ma
parlando delle visioni teatrali distopiche degli ultimi anni bisognerebbe forse apportare una
piccola correzione: non essendoci né una fine, né la morte, i veri abitanti di questi mondi sono i
non-morti, intrappolati nelle narrazioni che rappresentano. In un certo senso quindi, una naturale
continuazione del teatro della morte è il “teatro della non-morte”.
3. L’estetica delle rovine
178
Uno dei testi teatrali più cupi e più politici di Heiner Müller, Hamletmaschine [La
macchina Amleto, 1977] inizia con le parole: “Io ero Amleto. Me ne stavo sulla costa a parlare alle
onde BLA BLA BLA, dando le spalle alle rovine d’Europa”33 .
Questo breve e difficile testo per il teatro è costruito su pezzi di ricordi personali e di traumi
comuni in un soliloquio frenetico e claustrofobico. Come non ricordare, in questo contesto, la
lezione di Walter Benjamin, con la sua visione dell’Angelo della Storia, cui si associa la necessità
di rivolgere lo sguardo al passato, alle catastrofi che accumulano senza tregua rovine su rovine,
mentre il vento del progresso ci spinge nel futuro34.
Il succitato frammento di Hamletmaschine è stato di ispirazione per il regista Michał
Zadara che con queste parole ha espresso il dubbio di molti registi polacchi ( Jan Klata in primis)
che hanno voluto rivolgere lo sguardo alle macerie del passato: “La Polonia è nella situazione di
un paese che si regge sulle rovine. Faccio teatro dalla posizione di qualcuno che vive sulle rovine
30
D. Suvin, Defined by a Hollow. Essays on Utopia, Science Fiction and Political Epistemology, Peter Lang, Bern 2010, p. 236.
Cfr. D. Suvin, Trenta tesi sulla distopia 2001, cit., in particolare pp. 10-11.
32
Fra i vari spettacoli che hanno analizzato l’eredità di Solidarność, ricordiamo: Wałęsa. Historia wesoła, a ogromnie przez to
smutna, testo di P. Demirski, regia di M. Zadara, Teatr Wybrzeże, Danzica 2005; Był sobie Andrzej, Andrzej, Andrzej i Andrzej,
testo di P. Demirski, regia di M. Strzępka, Teatr Dramatyczny, Wałbrzych 2010; i due testi drammatici di Julia Holewińska,
Rewolucja balonowa (2011, messo in scena da S. Batyra nel Teatr Powszechny a Varsavia) e Ciała obce (2011, messo in scena
da K. Kowalski nel Teatr Wybrzeże, Danzica 2012); Sprawa operacyjnego rozpoznania, regia di Z. Brzoza, Teatr Wybrzeże,
Danzica 2011; Jak nie teraz to kiedy, jak nie my to kto?, testo di M. Głuchowska, J. Lipko-Konieczna, regia di M. Głuchowska,
Teatr Ludowy-Łaźnia Nowa, Cracovia 2011; Zrozumieć H., regia di P. Palcat, Teatr Dramatyczny, Legnica 2011.
33
H. Müller, La macchina Amleto. Die Hamletmaschine, trad. it. S. Vertone, in Idem, Germania morte a Berlino, Ubulibri,
Milano 1991, p. 81.
34
W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Idem, Angelus Novus. Saggi e frammenti, trad. it. R. Solmi, Einaudi, Torino,
pp. 75-86.
31
Il desiderio di utopia
delle culture che sono state distrutte dai barbari. In La macchina Amleto Amleto l’eroe dice: ‘Io
ero Amleto. Dietro di me le rovine d’Europa’. Per me è un punto di partenza: cosa fare con queste
rovine?”35.
L’immagine della rovina è cruciale per capire il senso più profondo delle distopie teatrali
polacche36. La dimensione temporale non-lineare è, come si diceva, una delle strategie per narrare
la realtà del capitalismo, logicamente preso di mira con una certa distanza dal 1989, quando hanno
cominciato a venire alla luce non solo gli effetti positivi immediati del nuovo sistema, ma anche
quelli negativi. Da un punto di vista scenografico, della scelta e della gestione dello spazio della
rappresentazione, ci troviamo invece di fronte ad un paradigma estetico che ha nel teatro polacco
una tradizione più lunga, anche se negli ultimi anni ha assunto delle sfumature diverse: si tratta di
un insieme di codici visivi raggruppato in quello che chiamerò “l’estetica delle rovine”. L’accumulo,
l’eccesso, il deterioramento dei cantieri navali di Danzica e di altri spazi teatrali presentati dal
nuovo teatro polacco, come gli edifici abbandonati, le stazioni ferroviarie in disuso, le scenografie
che ricostruiscono un mondo in degrado, i quartieri popolari, le province dimenticate con il loro
“tipico stile antiestetico polacco”37: questa è la materialità e le dimensioni spaziali che popolano
l’immaginario teatrale degli ultimi anni, coesistendo naturalmente a fianco alla controtendenza a
rappresentare il contemporaneo attraverso immagini sterili, tecnologiche e moderne.
Una traccia visuale simile è da ricercare nella tradizione del teatro polacco evocando i suoi
nomi di spicco. Di fronte alla violenza del XX secolo, le rovine, insieme alle parole e concetti
che vi sono spesso accostati – come rifiuti, residui, macerie – diventano materia indispensabile
delle rappresentazioni e delle riflessioni critiche sul contemporaneo. Il teatro polacco ha fatto
ampio uso di questo motivo rendendolo, nelle scenografie create sin dall’immediato dopoguerra,
un motivo dominante del paradigma estetico dell’arte performativa polacca. Temi del saggio di
Katarzyna Fazan Ruina – alternacje teatralnego obrazu38 sono proprio le diverse sfaccettature
della rovina, a partire dalle sue rappresentazioni nella storia del teatro, per arrivare al suo
ruolo negli spettacoli che nascono come forma di protesta contro la diffusa iper-estetizzazione
35
A.R. Burzyńska, Koliste ruiny, intervista con Michał Zadara, in «Tygodnik Powszechny», 7, 2006, http://www.eteatr.pl/pl/artykuly/22053.html?josso_assertion_id=F045E0168D4B9F26; “To jest sytuacja Polski, która jest państwem
stojącym na ruinach. Robię teatr z pozycji kogoś, kto żyje na ruinach kultur zniszczonych przez barbarzyńców. W
HamlecieMaszynie bohater mówi: ‘Byłem Hamletem. Za mną ruiny Europy’. To jest dla mnie punkt wyjścia – co zrobić z tymi
ruinami?”.
36
In questa sede vengono approfonditi gli aspetti distopici dell’immagine della rovina, non si analizzano dunque tutte le
sfaccettature della ricca tradizione di questo topos culturale, presente nel dibattito intellettuale e nell’immaginario occidentale
(anche polacco) a partire soprattutto dall’arte e dalla scrittura barocca, romantica e modernista (in cui la contemplazione
delle rovine era soprattutto simbolo di recupero del rapporto con il passato). Alle questioni sollevate in questo articolo
sono sicuramente più vicine (seppur non identiche e non create dagli stessi impulsi) le rappresentazioni della produzione
artistica e letteraria postbellica, dove la rovina diventa un’incarnazione perturbante delle violenze della storia più recente. Per
quanto interessante, non ci si sofferma neanche sulle suggestioni suscitate, su piano estetico ed etico, dalle rovine, così come
analizzato nel saggio di G. Simmel, Le Rovine in: Saggi sul paesaggio, a cura di M. Sassatelli, Armando Editore, 2006, pp. 70-81.
Cfr. anche Semantica delle rovine, a cura di G. Tortora, Manifestolibri, Roma 2006 e Ricomporre la rovina, a cura di A. Ugolini,
Alinea Editrice, Firenze 2010.
37
J. Derkaczew, Wujaszek Wania oskarża transformację, in «Gazeta Wyborcza», 5 giugno 2008, http://www.e-teatr.pl/pl/
artykuly/56324.html (“typowy polski styl antyestetyczny”).
38
K. Fazan, Ruina – alternacje teatralnego obrazu. Od krajobrazu po bitwie do śmietnika odzyskanej wolności, in «Didaskalia»,
123, 2014, pp. 44-52.; la stessa autrice propone delle analisi dei cambiamenti nell’estetica del teatro polacco dopo il 1989
nell’articolo K. Fazan, Tandeta w złym czy dobrym gatunku? Antyestetyka w polskim teatrze 20-lecia, in: 20-lecie. Teatr polski po
1989, a cura di D. Jarząbek, M. Kościelniak, G. Niziołek, Korporacja Ha!art, Kraków 2010, pp. 347-367.
179
Barbara Minczewa
180
della realtà e la possibile deriva psicanalitica, in cui la rovina serve per compiere il processo di
inversione del meccanismo psicologico della repressione. L’autrice ripercorre questa tendenza e
indica i suoi maggiori esponenti nell’ambito dell’arte scenografica: Tadeusz Kantor, Józef Szajna,
Krystyna Zachwatowicz, Andrzej Majewski, Jerzy Grzegorzewski, e – nel teatro più recente –
Justyna Łagowska, Katarzyna Borkowska, Małgorzata Maciejewska, Małgorzata Bulanda, Michał
Korchowiec. Secondo l’autrice questa non è tanto una tendenza, quanto un’ossessione39 che si
esprime nel prediligere spazi lugubri, consunti dal tempo, degradati, in cui vige un’aura di morte e
distruzione; stando alle testimonianze delle rappresentanze polacche alla Quadriennale di Praga,
la più grande mostra internazionale d’arte teatrale organizzata dal 1967, questa tendenza era ben
visibile e spesso, prima ancora che questo termine si affermasse con Kantor nel 1975, il teatro
polacco veniva definito dai critici e commentatori come “il teatro della morte”.
Tralasciando i riflessi molteplici e le varie interpretazioni che il motivo delle rovine ha avuto
nelle scenografie del dopoguerra, vorrei sottolineare quanto questo idioma, caratteristico del
linguaggio artistico del teatro polacco, sia vivo anche oggi. Se le rovine appartenevano all’esperienza
comune dopo la Seconda guerra mondiale, cosa esprimono oggi? Perché rappresentare il
contemporaneo attraverso un’estetica delle rovine? La questione è complessa e le risposte possono
essere molteplici. Il motivo della rovina è stato per alcuni studiosi del teatro polacco un punto
di partenza per interessanti dibattiti e approfondimenti. Nel saggio Ruiny Europy40 di Grzegorz
Niziołek le rovine sarebbero, secondo l’autore, un paesaggio “reale e mentale contemporaneamente
– fanno parte dell’ordine della storia, della memoria e dell’immaginazione”41. In primo luogo
esse rappresenterebbero il residuo del trauma negato, di quel passato doloroso che non riusciamo
a integrare con il presente, o, in alternativa, a rinnegare e disintegrare, e quindi viene lasciato
lontano dalla vista, dietro le spalle. In secondo luogo, le rovine esprimerebbero la distruzione
di un ordine simbolico in riferimento al quale si legittimano le narrazioni storiche dominanti e
monolitiche. Entrambe le interpretazioni ci riportano a quanto detto precedentemente: il teatro
polacco contemporaneo, in particolare la sua corrente critica, manifesta una forte tendenza a
ripensare la storia e il passato doloroso, ma soprattutto – nelle distopie teatrali – tende a scavare
nel presente per scoprire le rovine, o gli spettri, che lo popolano. Secondo Niziołek apparteniamo
ancora, nonostante la cesura del 1989, al “panorama esteso e complesso del dopoguerra”42, ed è in
relazione alle “rovine” prodotte dalla II Guerra Mondiale che l’autore poi procede nella sua analisi.
Oltre a tutti questi contesti, in uno spettacolo come H., dunque nella rappresentazione
di un mondo distopico (seppur intriso del desiderio di utopia), è sottinteso – come in tutte
le utopie e distopie – l’intento critico. Negli ultimi anni è diventato una costante di un teatro
critico, impegnante, il richiamo a rievocare zone di esclusione sociale, di disoccupazione e di
realtà ancora lontane dai processi di “europeizzazione”, per ridare voce a personaggi secondari,
più deboli, frustrati, agli abitanti delle provincie colpite dalla disoccupazione, a coloro che non
sono riusciti a salire sul treno del capitalismo. Il critico Bartosz Frackowiak ha scritto: “Proviamo a
definire la topografia dell’ombra, creiamo la mappa dei luoghi impercettibili e non definiti, situati
fuori dall’area dei linguaggi formali con i quali spieghiamo la realtà. […] Il teatro ha il potere di
39
Ivi, p. 44.
G. Nizołek, Ruiny Europy, cit., pp. 35-50.
41
Ivi, p. 35. “Ruiny Europy pojawiają się tutaj jako krajobraz rzeczywisty i mentalny równocześnie – należą zarówno do
porządku historii, jak pamięci i wyobraźni”.
42
Ivi, p. 37. “Wciąż należymy […] do roległego i zróżnicowanego krajobrazu powojnia”.
40
Il desiderio di utopia
estrapolare questi elementi dalla sfera dell’invisibile”43. Il recupero di queste zone d’ombra è quindi
anche parte di un ideale di democratizzazione della sfera della rappresentazione, di un richiamo
alla rivalorizzazione dell’utopia come concetto generale, e di un’utopia concreta della solidarietà
e della comunità. In questo senso, un’“estetica delle rovine” serve, oltre che come commento e
visualizzazione dei traumi, della memoria, delle macerie distopiche di un’utopia fallita, anche
come dimostrazione della condizione umana. Le varie storie umane e l’attenzione, in particolare,
per la condizione sociale, è centrale in questo teatro.
Jan Klata ha descritto così il suo H.: “Questo è uno spettacolo che racconta di quelli che
ci hanno lavorato, e di quelli che non ci hanno lavorato, e di quelli che non ce l’hanno fatta a
sfruttare quello che lì è accaduto. […] Anche Amleto non ce l’ha fatta”44. Amleto è dunque un
giovane cresciuto con il mito dei padri che hanno fatto la rivoluzione, e che non può – anzi, anche
avendone la possibilità, non potrebbe – fare gesti altrettanto eroici. Privo di ogni voglia di agire, è
infantile e pieno di pretese, perché è arrivato all’età adulta, non essendo mai stato costretto a lottare
per niente, con la convinzione, trasmessagli da quello che gli hanno raccontato sulle meraviglie
che offre il sistema, quel sistema cambiato dalle lotte dei padri, che tutto gli sarà dato. La realtà
con la quale si deve scontrare è molto diversa da quello che gli hanno raccontato: i migliori posti di
lavoro sono stati presi proprio da chi “ce l’ha fatta”, come dice Klata, mentre ad Amleto non resta
altro che constatare una mancanza di futuro. Vive dunque nell’ombra del mito, frustrato perché
profondamente deluso: si sente tradito. Il protagonista di H. apre la galleria dei personaggi deboli
del nuovo teatro polacco, vittime di un sistema sul quale non può influire (o che non ha la forza
di cambiare); questi personaggi saranno particolarmente presenti poi nelle messe in scena del duo
formato dalla regista Monika Strzępka e dal drammaturgo Paweł Demirski.
Amleto si trova dunque in uno stallo caratterizzato dall’infermità, dalla delusione e
dall’impotenza. Una delle vittime di questo sistema immobile è anche Laerte (Maciej Brzoska),
il fratello di Ofelia (Marta Kalmus) che però decide di emigrare in Inghilterra (particolare
che costituisce una chiara allusione alla situazione dei giovani polacchi laureati). Lo vediamo,
rassegnato, in una scena dove viene accompagnato dalla sorella e dal padre che non manca di dargli
consigli su come comportarsi all’estero.
Amleto non parte, anche perché in questa storia è un personaggio distopico: a differenza
degli altri personaggi, e in linea con le grandi distopie, ha la consapevolezza della propria condizione,
ma si rende anche conto che lottare con il sistema è una lotta senza speranza. Vede chiaramente
che la rivoluzione non ha portato i frutti desiderati; non crede più nelle storie vittoriose delle quali
pullula la narrazione ufficiale che gli è stata raccontata. Rimane intrappolato in questo luogo in
cui aleggiano gli spiriti dei padri, in cui si cerca di trasformare le autentiche esperienze, la memoria
viva, in una struttura storica rigida e priva di alternative, e vede chiaramente quello che gli altri
cercano di negare: che qui sono rimaste solo le rovine.
Prima della sua morte/non-morte, in cui sotto gli occhi del re e di tutto l’entourage reale
43
B. Frąckowiak, Polityczny potencjał teatralnej wyobraźni, in: P. Demirski, Śmierć podatnika, czyli demokracja musi odejść, bo
jak nie, to wycofuję swoje oszczędności, Wydawnictwo Krytyki Politycznej, Warszawa 2007, p. 141: “Zadać musimy sobie pytanie
o warunki możliwości twórczości, o to, co ją blokuje; sproblematyzować sposób, w jaki nauczyliśmy się patrzeć na świat,
poddać refleksji to, co w tym spojrzeniu rozpoznajemy i zauważamy; spróbować określić topografię cienia, czyli stworzyć
mapę miejsc niezauważalnych i nienazwanych, poza obszarem obowiązujących języków wyjaśniania rzeczywistości”.
44
P. Gruszczyński, Wawel na mnie nie działa. Z Janem Klatą rozmawia Piotr Gruszczyński, in: Zła pamięć., cit., p. 238. “[…] To
jest spektakl o tych, którzy tu pracują, i o tych, którzy tu nie pracują, i o tych, którzy się na to, co tu się zdarzyło, nie załapali.
[…] Hamlet też się nie załapał”.
181
Barbara Minczewa
si scontra con Laerte, vediamo gli avversari con delle corde attaccate dietro la schiena, come se
fossero delle marionette inconsapevoli, guidate da forze maggiori. Per Klata infatti, Amleto è un
“uomo dotato di una coscienza eccezionale del fatto che la lotta non ha assolutamente alcun senso.
L’insurrezione muore, tutto viene bagnato dal sangue, un’assurdità completa. Nonostante tutto,
si mette in prima linea, prolunga il tutto ancora un po’, combatte, affronta la morte. Questo è
Amleto, questa è la Polonia”45.
4. La rovina dell’utopia
182
Lo spazio della rappresentazione in H. certamente non è casuale. I cantieri navali di
Danzica, luogo del compiersi di uno degli eventi storici più importanti per la storia recente della
Polonia, e cioè della rivoluzione pacifica di “Solidarność”, assume nell’immaginario comune
delle qualità simboliche e potrebbe essere visto come il luogo dell’ultima utopia polacca. Non
bisogna dimenticare un importante contesto che sicuramente ha influenzato la scelta di Klata di
rappresentare proprio Amleto in un luogo così significativo per la storia polacca più recente: si
tratta di Hamlet, più noto come Studium o Hamlecie46 di Stanisław Wyspiański.
In Studium o Hamlecie l’autore riflette sui compiti e sulle possibilità che il teatro deve
necessariamente affrontare, e crea un modello di eroe che sarà destinato ad essere più volte
ricordato: l’Amleto polacco, l’eroe epico della storia passata e del presente. Questo eroe andrebbe
rappresentato, secondo Wyspiański, in un luogo speciale: il Castello Reale di Wawel, sede
simbolica del potere e dello “spirito nazionale” in Polonia, che anche qui – come in un’importante
parte dell’opera wyspiańskiana47 – ritorna come luogo teatrale e drammatico. “Lo vedete: –, scrive
Wyspiański di Amleto, – cammina con un libro in mano nella galleria superiore del palazzo reale
degli Jagelloni”48. Questa idea di un’unione quasi fisiologica del testo con il luogo in cui viene
rappresentato, ha ispirato del resto non solo Klata, ma anche altri registi prima di lui49.
Il regista di H. senza dubbio condivide con il grande drammaturgo dell’inizio del XX secolo
la scelta di rappresentare Amleto in un luogo non teatrale, ma simbolico per la vita collettiva e
45
Ivi, p. 245. “Facet obdarzony genialną świadomością tego, że walka nie ma absolutnie sensu. Powstanie umiera, wszystko
zostaje utopione we krwi, kompletna bzdura. Mimo to staje na czele, jeszcze to przedłuża, walczy, idzie na śmierć. To Hamlet,
to Polska”.
46
Il termine “studium” è stato introdotto dal primo commentatore del testo, Stanisław Lack, e significa “studio”, lo studio
sull’opera che successivamente porta alla creazione; l’importanza di questa precisazione risiede proprio nel fatto di
sottolineare il peso della ricerca: può non esserci l’opera finale, è la strada che conduce all’opera ad essere la più importante
(cfr. E. Miodońska-Brookes, “Hamlet” Szekspira i Wyspiańskiego in: Eadem, “Mam ten dar bowiem: patrzę się inaczej”. Szkice
o twórczości Stanisława Wyspiańskiego, Universitas, Kraków 1997, p. 206). Questo concetto è fondamentale per i successivi
teatri sperimentali, come il Reduta e il Teatro Laboratorium di Jerzy Grotowski.
47
Il Wawel ha un ruolo particolare in Wyzwolenie (1903) e in Akropolis (1905), ma compare anche in Bolesław Śmiały,
Legenda, Legenda II, Samuel Zborowski, e perfino in Wesele [Le Nozze]. Per approfondimenti sul ruolo del Wawel nell’opera di
Wyspiański rimando all’articolo di L. Bernardini, L’Acropoli polacca: il Wawel nell’opera di Stanisław Wyspiański, in: Pensare per
immagini. Stanisław Wyspiański drammaturgo e pittore. Convegno internazionale nel centenario della morte dell’artista 19-20 dicembre
2007, a cura di A. Ceccherelli, E. Jastrzębowska, M. Piacentini, A.M. Raffo, Accademia Polacca delle Scienze, Roma 2008,
pp. 9-26.
48
S. Wyspiański, Hamlet, cit., p. 14. “Widzicie go: jak idzie z książką w ręku w górnej galerii królewskiego pałacu
Jagiellonów”.
49
Per esempio, Jerzy Grotowski mette in scena Studium o Hamlecie di Wyspiański nel 1964 a Opole, e inserisce la storia nel
contesto della campagna polacca.
Il desiderio di utopia
nazionale. Per Klata, i cantieri navali di Danzica erano l’unico posto dove poter inserire la tragedia
del principe di Danimarca. In un’intervista, intitolata significativamente Wawel na mnie nie
działa [Il Wawel non mi fa alcun effetto] il regista dice:
Dal momento in cui ho visto i Cantieri Navali di Danzica sapevo che questa è Elsinore. […] Ho visto
le navi che stanno arrugginendo, ho visto cosa sta succedendo a questo posto. Il giorno precedente
ho visto la mostra Drogi do wolności [Le strade verso la libertà – B.M.], dove ho pianto. E allora
ho pensato che avrei realizzato Amleto. Il libro preferito di mia madre è Studium o Hamlecie. Lì
c’è scritta una cosa molto saggia: che è enormemente importante l’aspetto di Elsinore. Wyspiański
propone il Wawel, ma questo non mi suggerisce niente. Il Wawel non mi fa alcun effetto50.
Il nuovo Elsinore si trova per Klata quindi proprio nei cantieri navali di Danzica, “il luogo
dove è avvenuto il cambiamento del futuro del mondo, della Polonia e dell’Europa, dall’incredibile
energia”51.
Per assistere alla messa in scena di H. gli spettatori hanno dovuto varcare i cancelli dei
cantieri navali, dei quali in particolare il cancello numero 2 – durante lo sciopero di agosto
1980 addobbato di fiori e candele – evoca delle immagini storiche concrete, sulle quali è stata
poi costruita una narrazione sulla trasformazione politica polacca. Questo cancello, nel 1980, fu
la porta che divideva quel non-luogo felice dal mondo esterno: divideva l’utopia dalla distopia
vissuta quotidianamente. Una netta divisione addobbata come un altare, un passaggio nell’altro
mondo. I cantieri navali erano il luogo dove avveniva il cambiamento, e questa immagine, assieme
ai fiori, alle candele e alle centinaia di persone davanti al cancello, sono rimaste stampate nella
memoria di chi ha vissuto quei tempi in prima persona, ma anche nelle generazioni successive:
secondo il principio teorizzato da Marianne Hirsch, la postmemory, la memoria indiretta di chi
conserva i ricordi traumatici altrui. Questo tipo di memoria, la post-memoria, è in un certo senso
una memoria falsa, perché non riguarda direttamente l’esperienza dell’individuo. Nonostante
ciò, la post-memoria è così fortemente radicata nella coscienza e nell’immaginario, sia quello
individuale che quello comune, che viene esperita come propria. Questa solida relazione con il
passato viene ulteriormente rafforzata – più di quanto accada nel caso della memoria “normale”
– da artefatti, proprio come registrazioni o foto, e certamente attraverso la memoria di chi ha
veramente vissuto gli eventi in questione. In un certo senso quindi la postmemory52, la memoria
indiretta di chi conserva i ricordi traumatici altrui sarà sempre un racconto manipolato, soggettivo,
quasi sicuramente diverso dalla narrazione ufficiale della storia. Hirsch ha costruito la sua teoria in
riferimento al trauma dell’Olocausto, ma questo termine è applicabile anche a tutte le comunità
o nazioni che hanno subito un trauma collettivo, ovvero tutti quei gruppi di persone che hanno
perso la loro soggettività in seguito all’oppressione subita da un sistema qualsiasi.
50
P. Gruszczyński, Wawel na mnie nie działa…, cit., p. 238. “Od razu, jak zobaczyłem Stocznię Gdańską, wiedziałem, że to
Elsynor. […] Zobaczyłem rdzewiejące statki, zobaczyłem, co się dzieje z tym miejscem. Poprzedniego dnia byłem na wystawie
Drogi do wolności, gdzie się poryczałem. I wtedy pomyślałem, że wystawię Hamleta. Ulubiona książka mojej matki to Studium
o Hamlecie. Tam jest napisane coś bardzo mądrego: że ogromnie ważne jest, jak wygląda Elsynor. Wyspiański proponuje
Wawel, co mnie zupełnie nie otwiera. Wawel na mnie nie działa”.
51
Ibidem. “Stocznia, miejsce, w którym zmieniały się losy świata, Polski i Europy, które buzowało nieprawdopodobną energią
[…]”.
52
Cfr. M. Hirsch, Family Frames: Photography, Narrative and Postmemory, Harvard University Press, Cambridge 1997;
Eadem, The Generation of Postmemory: Writing and Visual Culture after the Holocaust, Columbia University Press, New York
2012.
183
Barbara Minczewa
184
Far passare il cancello e introdurre lo spettatore all’interno dei cantieri navali di Danzica
è stato da parte di Klata una strategia di gioco con la memoria del pubblico, con le immagini
prodotte nel tempo dalla narrazione storica ufficiale di forte e immediato impatto. In un certo
senso, H. è una performance site-specific, in quanto si struttura e si definisce in virtù degli spazi
che occupa; ma va anche molto oltre questa definizione: è un lieux de memoire53, luogo dove si
cristallizza e si concretizza la memoria, dove, in tempi in cui l’identità non è ancora solida, ci si
sente rassicurati perché si ha l’impressione di una continuità storica.
Klata gioca con premeditazione con le immagini impresse nella memoria degli spettatori;
quello che si trovano davanti è molto diverso dai fotogrammi storici creati dalla narrazione sulla
nascita della democrazia in Polonia. I cantieri navali di Danzica, nel 2004, rappresentano un
panorama che assomiglia più allo scenario di un film post-apocalittico che all’isola felice dove si è
compiuto il miracolo democratico polacco. Ridotti in uno stato disastroso, sono piuttosto “la culla
della libertà, quel ricordo che ha un qualcosa di involuto e di imbarazzante”54, poiché pochi posti
hanno un impatto simbolico così forte e, nello stesso tempo, raramente luoghi storici di questa
importanza vengono così trascurati. Il motivo non è difficile da indovinare: questo, alla fine, è solo
uno dei tanti luoghi – tra fabbriche, miniere, altri cantieri navali – che non ha retto l’inflazione
e il mercato libero, è stato sull’orlo del fallimento diverse volte, in parte è caduto in rovina, ed è
quindi un altro silenzioso testimone di quei lati oscuri della trasformazione del sistema in Polonia
dei quali si preferisce nascondere le rovine.
Lo spettatore si trova dunque davanti a un panorama inquietante, vagamente simile a
quello di Pryp’jat’, la città ucraina abbandonata dopo il disastro nucleare di Černobyl’; sembra
abbandonato da un momento all’altro, da qualche parte c’è addirittura ancora appeso un manifesto
storico di “Solidarność”. Il lento deterioramento degli edifici, l’intonaco che si stacca e la hall
42, dove si svolge la maggior parte dello spettacolo e dove lavorava Anna Walentynowicz: tutto
letteralmente cade a pezzi, rendendo questo posto un testimone silenzioso di “Una storia assai
gioiosa, e perciò triste enormemente”55 , per citare Stanisław Wyspiański e uno dei suoi drammi
più famosi, Le Nozze.
In questo modo, i cantieri navali di Danzica diventano un paesaggio di rovine sia nel senso
simbolico della parola sia in senso letterale: rappresentano l’ordine simbolico utopico distrutto,
dal quale si volta lo sguardo, come fece l’Amleto di Müller, per non doversi confrontare con la
falsità della narrazione storica dominante che vorrebbe vedere il racconto sulla trasformazione del
sistema polacco solo ed esclusivamente come vittorioso. I cantieri diventano, nella loro degradata
materialità, una denuncia della morte dei valori, quei valori che erano vivi finché anche il ricordo
di “Solidarność” era vivo. Scontrarsi con il degrado di questo posto è stato certamente di grande
impatto per il pubblico, abituato ad un’altra immagine, quella storica e ideale, dei cantieri, e non
credo che qualcuno sia rimasto indifferente a questo spazio. Qui non poteva esserci la scena nel
cimitero perché, sin dall’inizio, tutto è un cimitero, e sin dall’inizio questo spettacolo è stato
concepito come un funerale ai valori che una volta erano rappresentati da “Solidarność” e dalla
53
Cfr. P. Nora, Les lieux de mémoire, Quarto Gallimard, Paris 1997; ho consultato la traduzione dei frammenti nella
traduzione di M. Borowski e M. Sugiera, Między pamięcią a historią: les lieux de mémoire, pubblicata in «Didaskalia», 105, 2011,
pp. 20-27.
54
J. Targoń, “H.” W.S. i J.K., in «Didaskalia», 63, 2004, p. 13.
55
S. Wyspiański, Le nozze, trad. it. S. De Fanti, CSEO, Bologna 1983, p. 103. (In polacco: “Historia wesoła, a ogromnie
przez to smutna”.)
Il desiderio di utopia
sua lotta. “H. di Jan Klata è un lamento (requiem) per la signorina S.”56, ha scritto Jan Ciechowicz.
I cantieri navali sono “un monumentale rimorso di tutta la Terza Repubblica”57.
Quando gli spettatori uscivano attraverso i cancelli dopo lo spettacolo, portavano con
sé non solo il desiderio del dramma inappagato, ma anche l’immagine della rovina dell’utopia.
Quei cancelli non erano più la divisione simbolica tra la distopia e l’utopia; il cupo avvertimento
della distopia si estendeva, avvolgendo tutta la realtà, le vite comuni del qui ed oggi. Ma, in
un certo senso, proprio in questo sentimento inquietante risiede la speranza che una distopia
teatrale potrebbe portare; la scossa che uno spettacolo del genere potrebbe provocare diventa
un’esperienza comune di tutti gli spettatori. Il teatro impegnante, con il suo progetto di cambiare
la realtà partendo dal cambiamento della forma, oltrepassando i confini dell’immaginazione,
ritrova nella distopia un valido strumento cognitivo. Il pubblico, attivato nel progetto comune
di evadere dalle strutture autoritarie della distopia, riacquista anche la capacità di reintrodurre il
“possibile” come irrinunciabile elemento costitutivo del “reale”. Il nostro desiderio del dramma
ci richiede di porre un fine a questa struttura distopica. Lo spettacolo diventa così un incontro
di idee, pensieri, speranze, è un momento di creazione di comunità, seppur aleatoria e limitata
alla durata della messa in scena. Tuttavia, anche un tempo così limitato, presenta la possibilità
di contagiare il pubblico con quello che spinge il regista a creare uno spettacolo distopico: con il
desiderio di utopia.
Abstract
185
Barbara Minczewa
Longing for Utopia: the Construction of Polish Distopic Theatre. Some Considerations
The paper concerns some elements of the construction of worlds represented on stage in recent Polish theatre. This may
be seen as a comment on the state of democratic Poland after 1989 and, more generally, as an analysis of the peculiarities of
the contemporary world. However, a deeper analysis shows recent theatre staging as structurally similar to the construction
of dystopias. The worlds represented on stage are characterized by the presence of a nonlinear construction of time,
by the absence of ending, of a horizon and of death, by the presence of ruins (intended literally, as an aesthetic paradigm,
and metaphorically) and by the construction of dystopian characters. The analysis focuses on one of the most important
performances for the Polish political theatre of the last two decades, H. (2004), a version of Hamlet directed by Jan Klata,
performed in the historic and derelict Gdańsk Shipyard, a symbolic stage set which becomes at the same time the place of
fulfilment of dystopia and of the emergence of the desire for utopia.
Keywords: Jan Klata, Polish theatre, engaged theatre, political theatre, dystopia, utopia, Solidarność
«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», (VII) 7, 2016, pp. 171-185
56
J. Ciechowicz, Przestrzenie depresyjne i zdegradowane w teatrze polskim po roku 1989 (na wybranych przykładach), in: Idem,
Teatr i okolice, słowo/obraz terytoria, Gdańsk 2010, p. 124. “H. Jana Klaty to był tren (requiem) dla panny S.”.
57
Ivi, p. 125. “Stocznia Gdańska staje się w ten sposób potężnym wyrzutem sumienia całej III Rzeczpospolitej”.
Sławomir Jacek Żurek
The Shoah in Contemporary Polish Fiction
(after 1989)
T
his article takes a look at contemporary Polish prose dealing with theme of the Shoah.
“Contemporary,” in this case, means fiction published in the 1990s and after the year
2000, thus already in the twenty-first century. It therefore comprises the last twenty five
years. The fundamental categories used here in the analyses of texts, are the memory and postmemory of the Shoah1. The authors who have published works over the last twenty five years are
either witnesses of these events (i.e. Children of the Holocaust)2, or – more often – representatives
of the second or third generation after the Shoah. For the latter, the Holocaust is only a historical
event and a cultural artefact3. They are Polish writers either with or without Jewish roots. The
Jewish origin, however, is in this case hardly significant. The most interesting issues are the new
aspects these authors introduce to reflections on the Shoah in literature. Theoretical and descriptive
secondary literature about the issue I intend to discuss is fairly abundant4. Holocaust fiction is a
subject of interest to many literary scholars, who have published numerous monographs5 and
articles (reviews)6 about it.
187
1
Cf. M. Hirsch, The Generation of Post-memory. Writing and Visual Culture after the Holocaust, New York 2012; Idem, Family
Frames. Photography, Narrative and Postmemory, Cambridge 2002; B. Dąbrowski, Postpamięć, zależność, trauma, in: Kultura po
przejściach, osoby z przeszłością, ed. by R. Nycz, Kraków 2011; Narracja i tożsamość. Narracje w kulturze, t. 1, ed. by W. Bolecki, R.
Nycz, Warszawa 2004.
2
Cf. J. Kowalska-Leder, Doświadczenie Zagłady z perspektywy dziecka w polskiej literaturze dokumentu osobistego, Wrocław
2009.
3
Cf. B. Kwieciński, Obrazy i klisze. Między biegunami wizualnej pamięci Zagłady, Kraków 2012.
4
Cf. S. Buryła, Tematy (nie)opisane, Kraków 2013; M. Cuber, Metonimie Zagłady. O polskiej prozie lat 1987-2012, Katowice
2013; P. Czapliński, Odzyskiwanie Zagłady, in «Przegląd Polityczny», 61, 2003; Idem, Zagłada jak wyzwanie dla refleksji o
literaturze, in «Teksty Drugie», 5, 2004; B. Krupa, Opowiedzieć Zagładę. Polska proza i historiografia wobec Holokaustu (19872003), Kraków 2013; Memory of the Shoah. Contemporary representations, ed. by A. Zeidler-Janiszewska, Warszawa 2003; G.
Nizołek, Polski teatr Zagłady, Warszawa 2013; Stosowność i forma. Jak opowiadać o Zagładzie?, ed. by K. Chmielewska, M.
Głowiński, K. Makurak, A. Molisak, T. Żukowski, Kraków 2006; A. Ubertowska, Świadectwo – trauma – głos. Literackie
reprezentacje Holokaustu, Kraków 2007; Zagłada. Współczesne problemy rozumienia i przedstawiania, ed. by E. Romańska, P.
Czapliński, Poznań 2009; M. Zaleski, Formy pamięci. O przedstawianiu przeszłości w polskiej literaturze współczesnej, Warszawa
1996.
5
Cf. S. Buryła, Opisać Zagładę. Holocaust w twórczości Henryka Grynberga, Wrocław 2006; Idem, Wokół Zagłady. Szkice o
literaturze Holokaustu, Kraków 2016; D. Krawczyńska, Własna historia Holokaustu. O pisarstwie Henryka Grynberga, Łódź
2005; A. Molisak, Judaizm jako los. Rzecz o Bogdanie Wojdowskim, Warszawa 2004; A. Morawiec, Literatura w lagrze,
lager w literaturze. Fakt, temat, metafora, Łódź 2009; Idem, Polityczne, prywatne, metafizyczne. Szkice o literaturze polskiej ostatnich
dziesięcioleci, Toruń 2014; A. Ubertowska, Holokaust. Auto(tanato)grafie, Warszawa 2014; S.J. Żurek, Synowie księżyca.
Zapisy poetyckie Aleksandra Wata i Henryka Grynberga w świetle tradycji i teologii żydowskiej, Lublin 2004.
6
Cf. M. Bernacki, O trylogii powieściowej Piotra Szewca. Jak możliwa jest kontemplacja świata po „Zagładzie”, in «Przegląd
Powszechny», 5, 2007, pp. 124-134; K. Bojarska, Historia Zagłady i literatura (nie)piękna. „Tworki” Marka Bieńczyka
w kontekście kultury posttraumatycznej, in «Pamiętnik Literacki», 2, 2008, pp. 89-106; Eadem, Czas na realizm – (post)
traumatyczny, in «Teksty Drugie», 4, 2012, pp. 8-14; P. Czapliński, Zagłada i profanacje, in «Teksty Drugie», 4 (118),
Sławomir Jacek Żurek
188
Following suggestions offered by the works mentioned, I will analyse some of the most
important new texts introducing the theme of the Holocaust.
The list of recent fiction on the Shoah published in Polish after 1989 is very long. It could
start with the volumes of Henryk Grynberg’s prose, which reappeared in Poland after the years of
silence that followed the author’s exile in 19677. Bogdan Wojdowski and Hanna Krall also wrote
about the Holocaust in the early 1990s. One of the first younger authors, born already after World
War II, to take up this matter was Paweł Huelle (born in 1957). He broke the silence surrounding
the Shoah with his now legendary novel – Weiser Dawidek (1987). In the 1990s the stream of
narrative texts really flooded the editorial market. Many of them dealt with the Holocaust and it
is impossible to present them all. Thus, in this article, I would like to focus on the major trends of
contemporary fiction, which have not diminished over the last few years.
For instance, just after the year 2000, several key prose works were published. Their authors
belong to the generation known as the Children of the Holocaust8. They seldom use fictional
elements, concentrating rather on non-fiction. The most important examples are: Magdalenka
z razowego chleba [The Cake of Whole-Wheat Bread, 2001] by Michał Głowiński (a renowned
Polish literary scholar who “came out” as a Jew in 1999, publishing his autobiographical volume
Czarne sezony [The Black Seasons], in which he wrote about his experience as a Jewish boy
hiding on the so-called “Aryan side”); Lekcja angielskiego [English Lesson, 2010] by Wilhelm
Dichter and also his earlier prose: Koń Pana Boga [The Horse of the Lord, 1996] and Szkoła
bezbożników [The School of the Godless, 1999]; and Księżyc nad Taorminą [The Moon over
Taormina, 2011] by Roma Ligocka, who is also the author of several other important books, most
of which are connected with the theme of the Shoah9.
The children’s novel Szlemiel (the name of a dog, 2010), by Ryszard Marek Groński (born
1939) stands out sharply against this background. Groński’s work is an example of an incipient
trend of fictional tell-tales about the Shoah which appear in Polish popular literature for children
2009, pp. 199-213; O. Danek, „Trzecie oko” Wilhelma Dichtera, in «Cwiszn», 4, 2010, pp. 112-113; K. Dzika-Jurek, „Setka
szarych palt” – (nie)świadomość Zagłady w powieści „Skaza” Magdaleny Tulli, in «Teksty Drugie», 5 (143), 2013, pp. 25-41; M.
Fuzowski, Pogodzenie, in «Twórczość», 2, 2009, pp. 109-110; P. Huelle, Jakubowa drabina, in «Zeszyty Literackie», 4, 2009,
pp. 193-196; M. Jentys, Żywioły buntu. O twórczości Mariusza Sieniewicza, in «Twórczość», 3, 2008, pp. 79-90. J. KowalskaLeder, Literatura polska ostatniego dziesięciolecia wobec Zagłady – próby odpowiedzi na nowe wyzwania, in «Zagłada Żydów.
Studia i Materiały», 10/1, 2014, pp. 768-802; D. Krawczyńska, Empatia? Substytucja? Identyfikacja?: jak czytać teksty o
Zagładzie?, in «Teksty Drugie», 5 (89), 2004, pp. 179-189; A. Morawiec, Holokaust i postmodernizm. O „Tworkach” Marka
Bieńczyka, in «Ruch Literacki», 2, 2005, pp. 193-209; M. Olszewski, W gabinecie figur woskowych, in «Akcent», 4, 2010,
pp. 113-116; E. Ryczowska, Szochen tow, in «Akcent», 4, 2008, pp. 117-120; M. Sawa, Zamojszczyzna w opowiadaniach
wspomnieniowych Michała Głowińskiego, in: Żydzi w Zamościu i na Zamojszczyźnie. Historia – kultura – literatura, ed. W. Litwin,
M. Szabłowska-Zaremba, S.J. Żurek, Lublin 2012, pp. 205-215; A. Ubertowska, Krzepiąca moc kiczu. Literatura Holokaustu
na (estetycznych) manowcach, in «Zagłada Żydów. Studia i Materiały», 6, 2010, pp. 23-40; T. Żukowski, Świadkowie Zagłady,
in «Teksty Drugie», 5 (70), 2001, pp. 139-145; Idem, Antysemityzm jako modyfikator znaczeń, in «Teksty Drugie», 1-2 (73-74),
2002, pp. 254-258.
7
Cf. S. Buryła, Opisać Zagładę, cit.; D. Krawczyńska, Własna historia, cit.; S.J. Żurek, op. cit.
8
Of course, many of them were very active in literature also before 1989. Cf. Literatura Polska wobec Zagłady (1939-1968), ed.
by S. Buryła, D. Krawczyńska, J. Leociak, Warszawa 2013.
9
Cf. R. Ligocka, Dziewczynka w czerwonym płaszczyku [The Girl in Red Coat] (2001), Kobieta w podróży [The Woman
on the Way] (2002), Tylko ja sama [Only Me Myself ] (2005), Znajoma z lustra [An Acquaintance from the Mirror] (2006),
Wszystko z miłości [Everything Out of Love] (2007), Czułość i obojętność [Affection and Indifference] (2009), Róża [Rose]
(2010), Księżyc nad Taorminą [Moon over Taormina] (2011), Dobre dziecko [Good Child] (2012), Wolna miłość [Free Love]
(2013), Droga Romo [Dear Roma] (2014).
The Shoah in Contemporary Polish Fiction
and young adults. Similarly, a pop-culture novel Pingpongista [The Ping-Pong Player, 2008] by
Józef Hen is an attempt to come to terms with the matter of Jedwabne (the burning of Jewish
inhabitants of a village by their Polish neighbours in July 1941) and a gesture of shifting this very
important social discourse into the literary language of contemporary mass-readers.
In what follows we will be interested only in the most recent Polish fiction (published by
the authors belonging to the second and third generation after the Holocaust), and exemplified by
the novels by Marek Bieńczyk (born in 1956) – Tworki (Tworki is the name of a big psychiatric
hospital; 1999); Piotr Szewc (born in 1961) – and his series of books Zagłada [Annihilation,
1987], Zmierzchy i poranki [Evenings and Mornings, 2001] and Bociany nad powiatem [Storks
over the District, 2005]; Igor Ostachowicz (born in 1968) – Noc żywych Żydów [The Night
of the Living Jews, 2012]; Mariusz Sieniewicz (born in 1972) – Żydówek nie obsługujemy [We
Don’t Serve Jewesses, 2006]; and Piotr Paziński (born in 1973) – Pensjonat [The Boarding
House, 2009]. My analysis uses four categories which structure both the world represented and
the form of the novels: transgression, pop-culture, history and metonymy. This typology will –
I hope – serve readers as a sort of a guide into the complexities of representing the Shoah in
contemporary Polish fiction.
Transgression
The first category, which covers the way the world presented in the novels about the Shoah
is organised, is transgression. You can see it first of all in the collection of short stories Żydówek
nie obsługujemy by Mariusz Sieniewicz10 whose plot is set in a contemporary supermarket,
where the Shoah is still ongoing and where the same laws enforced in the Nazi world are still
observed. Transgression – understood as the deliberate crossing of existing social, symbolic and
material boundaries11 – informs not only the construction of the represented world, but also the
characters, their dialogues and the use of language. Transgression can also be seen in the novel by
Igor Ostachowicz. In his Noc żywych Żydów the main character lives in the present-day Muranów
district of Warsaw – the quarter that enclosed Europe’s largest ghetto during the Second World
War12. One day the protagonist, Glazurnik, (whose nickname reflecting his profession can be
translated into English as “a tiler”) discovers the entrance to a closed Jewish district in Warsaw (as
the Germans used to call the ghetto) in his cellar. As a result of different adventures, the Jewish
characters ( Jewish Zombies) living below the foundations of the building move into contemporary
Warsaw. First they come into contact with the present-day inhabitants of this district, who do not
belong to high society and in many cases are very anti-Semitic. The language of the novel is vulgar,
obscene and brutal. Its main events and characters are grotesque, larger-than-life and improbable.
Thus, the aesthetic effect of this novel is ambivalent and far from pleasant – despite its undeniable
10
Mariusz Sieniewicz is the author of the following novels: Prababka [A Great-Grandmother] (1999), Czwarte niebo [The
Fourth Heaven] (2003), Żydówek nie obsługujemy [We Don’t Serve Jewesses] (2005), Rebelia [Insurgency] (2007), Miasto
szklanych słoni [The Town of Glass Elephants] (2010), Spowiedź Śpiącej Królewny [ The Confession of Sleeping Beauty] (2012).
11
Cf. J. Kozielecki, Transgresja i kultura, Warszawa 1997; B. Grodzki, Tradycja i transgresja. Od dyskursu do autokreacji w
eseistyce i „formach pojemnych” Czesława Miłosza, Lublin 2002; B. Bogołęnska, Od tradycji do nowatorstwa, od transgresji do
adaptacji na wybranych przykładach literackich i publicystycznych, Łódź 2013; Transgresja w kulturze, ed. by T. Paleczny, J. TalewiczKwiatkowska, Kraków 2014.
12
See: B. Engelking, J. Leociak, The Warsaw ghetto. A guide to the perished city, New Haven 2009; J. Leociak, Tekst wobec
Zagłady. O relacjach z getta warszawskiego, Wrocław 1997.
189
Sławomir Jacek Żurek
190
humour, the text highlights disturbing and serious truths about both contemporary characters
and those dating back to the time of the Shoah, about both our and their worlds.
Recent prose makes use of various kinds of transgression. It is clear that both Sieniewicz
and Ostachowicz write about the Holocaust in a postmodernist way – they use cultural categories
mixing them with religious language referring to Judaism and Christianity. In the case of
Ostachowicz, whose protagonist is following a mysterious light, the motif of the Last Judgment
appears, while the main character visits Auschwitz like Christ descending into Hell or the figure
of the devil which embodies the Nazis. Religious echoes also reverberate in the last chapter of the
novel, which may be interpreted as introducing eschatological issues – in this part, the reader is
exposed to the ominous silence in the narrative and an overwhelming atmosphere of dignity. The
main character in this part of the novel is the Cleaner, who brings peace and leads Glazurnik (“the
Tiler”) to a new life. Looking for a key to help us understand the Żydówek nie obsługujemy story,
we can turn to concepts familiar to the Jewish world, where transgression plays a very important
role. One of the possible interpretations may link the presence of the Jewish context in the novel
to the tradition of Judaism and the Jewish feast of Purim. This religious holiday unites two orders:
transgression and religion, allowing orthodox Jews to breach all the principles that they normally
observe closely every day. For instance, during Purim, orthodox Jews can take part in theatrical
performances, men can dress as women and vice versa. Gambling games are permitted and so are
all entertainments. The Hasidim traditionally drink themselves into a stupor on this occasion.
Sieniewicz and Ostachowicz cross all kinds of boundaries, leading to the final breakdown
of the worlds presented. Characters start to deliver senseless dialogues and the texts create a reality
which is completely devoid of sense. In some of these transgressions, as in the Purim feast, the
convention of the grotesque dominates, expressed in a kind of carnivalisation and clowning – the
narrator presents serious events (the annihilation of all nations) using a comic convention. One of
the possible explanations for the humour may be the fact that all these conventions are haunted
by the sense that everything that takes place within the world of the text (even the execution of a
Jewish woman in a supermarket) is a computer game keeping up an imaginary convention and is
only momentary. Transgression does not operate solely in terms of the fictional narrative but also
in terms of the aesthetics, ethics and ontology. It shows how contemporary people perceive reality
and history – as if they were only a game or a dream.
Pop-culture
The second category identified in the novels in question is pop-culture. The worlds
represented: Noc żywych Żydów and Żydówek nie obsługujemy are deeply embedded in the
conventions of horror, cult movies about Zombies and the poetics of the macabre, which is very
popular in mass culture. The Holocaust arouses emotions and, just as in classic literary works of
pop-culture, all these devices are not simply art for art’s sake.
Ostachowicz deliberately uses pop-cultural conventions, thus turning life into a farce. He
shows how all spaces and spheres of life have been commercialized, a fact emphatically underlined
by the corpses. He points to certain negative consequences of modernity, which led, among
other things, to the annihilation of the Jews in Poland and still destroy human beings and their
interpersonal relationships today. Then – following Zygmunt Bauman’s train of thought – the
reader realizes that the author’s main aim is to draw attention to the fact that even seventy years
The Shoah in Contemporary Polish Fiction
after the Holocaust, we are still living in the rationale of the Shoah13. This rationale is manifested
no longer in the industrial killing of people but in the industrialisation of human life which makes
it completely shallow. The main character of the story, a conformist tiler-, suddenly becomes
aware of the vanity of human existence as society becomes submerged in consumerism and apathy,
which crush values such as compassion and solidarity. The tiler manages to change his attitude
and his life, although he does so reluctantly, only after learning about the fate of the dead Jews
and when he himself, in a quasi-fantastic twist in the plot, is exposed to a sample of their hellish
suffering in Auschwitz. He begins to notice good and evil and to act according to his conscience.
In this way,– in spite of the creation of a broken world – the novel surprisingly manages to attain
an ethical dimension. The pop-culture convention of horror-cum-black comedy appears to be
used as a way of transfixing the readers and raising their awareness. Ostachowicz satirises popcultural conventions because they trivialise evil, death, its memory and all that is most important
and most valuable in human life. The effect is, of course, stupefying – mainly, perhaps, in the way
he juxtaposes the dead children of the Holocaust with the world of modern gadgetry and the
lifestyles of contemporary teenagers.
Writing about the Shoah using the pop-cultural conventions of modern literature certainly
appears to help reach a wide circle of recipients – mass-readers. So what new peculiarities and
narrative strategies do these young writers representing the Shoah in contemporary Polish fiction
introduce? The novelty of their texts does not rely on any unusual psychological depth in their
characters or on any kind of mission designed to enlighten their readers. Rather these works seem
to emphasise that we still need to talk about the influence of the Holocaust on human social and
cultural behaviour, about how an individual could be intimidated, how his or her otherness could
be destroyed14, how people were hierarchised and divided. Yet, the authors are fully aware that it
is necessary to do so in a modern, culturally attuned way. The novelists, therefore, consciously use
the conventions of the grotesque as well as deep provocation, widespread in popular culture, and
the young generations of readers seem to love it , judging by the wide circulation and popularity
of these works.
History
In this analysis of contemporary Polish fiction about the Shoah, the third key category
is history and how it is now perceived15. Ostachowicz diagnoses contemporary reality, which
appears to be a palimpsest of various pasts. New lives have been built in Poland on the bones and
wreckage of its former inhabitants, never mourned by anybody. In his novel, history, first of all
the most difficult history of Polish-Jewish relationships16, moves into the present and intertwines
with the lives of people born twenty, thirty and even forty years after the Shoah. This novel raises
awareness of the history that is apparent in everyday items and that we know absolutely nothing
13
Cf. Z. Bauman, Modernity and the Holocaust, Ithaca (N.Y) 1989; Idem, Postmodernity and its discontents, New York 1999.
See: A. Fiut, Spotkania z Innym, Kraków 2006.
15
This perception is very individual. See: B. Engelking, Holocaust and memory. The experience of the Holocaust and its
consequences. An investigation based on personal narratives, London 2001.
16
Cf. F. Tych, Długi cień Zagłady. Szkice historyczne, Warszawa 1999; J.T. Gross, Sąsiedzi. Historia zagłady żydowskiego
miasteczka, Sejny 2000; Tam był kiedyś mój dom… Księgi pamięci gmin żydowskich, ed. by M. Adamczyk-Garbowska, A. Kopciowski,
A. Trzciński, Lublin 2009; M. Cobel-Tokarska, Bezludna wyspa, nora grób. Wojenne kryjówki Żydów w okupowanej Polsce,
Warszawa 2012; R. Kuwałek, Zagłada sztetl. Żydzi w Izbicy pod okupacją nazistowską, in: Żydzi w Zamościu, cit., pp. 255-277.
14
191
Sławomir Jacek Żurek
about. Thus conceptualised by Ostachowicz or Sieniewicz, the Shoah is cut out of its historical
context. It is still taking place; it is something present and alive for modern people. The Holocaust
has an impact on people, even on those who have no awareness and no sensibility or historical
knowledge:
[…] evil can’t be covered by wreckage or dust, suffering must be respected and appraised, and blood,
if it is not swept up in time and just allowed to sink indifferently into the ground, will – combined
with clay – come to light together with a horde of golems […]; they will be glued together by the
power of sub-biology forming two-footed nightmares knowing only pain, and they will share this
pain with us, running crunched from door to door of our calm homes17.
192
In Warsaw after the Second World War the Jews were indeed covered by subsequent layers
of earth, rubble and concrete. They did not disappear; they – paradoxically – lived on in isolation,
without being mourned. At last in the represented world of Ostachowicz’s prose, on an impulse,
Jews start to come up to the surface. They want to be noticed and to have access to their lost
world. Symbolically changed directions are very characteristic in this novel. In the text, these are
not living people that come down to the world of the dead (which could be interpreted as an
allegory of the contemplation of the past), but the dead that rise up to the world of the living. This
situation shows not only the inability of the living to accept the history of the Jewish persecution
but, more damagingly, their aversion to their tragedy.
The writer’s gesture reflects the struggle of contemporary Polish fiction for the memory
of the murdered Jewish people. Of course, you could say that it is a utopian struggle. But, on the
other hand, you could equally point out that it is an act of mercy – not towards dead Jews, but
towards live Poles. Ostachowicz wants his readers to shake off their lethargy – their lack of respect
and atonement for Jewish suffering. He has probably found the only effective language able to
force the contemporary generation to really reflect on the evil that took place in Poland. This
language is grotesque, brutal and horrible, but only in this way can readers experience a refreshing
return to health.
From an eschatological point of view, the Jews of Ostachowicz’s novel cannot achieve
everlasting life, because they have not experienced the love and mercy of their non-Jewish
neighbours. Many Poles failed to see Jews as human beings. This was the effect of Nazi propaganda
– but not only. According to the Talmud, man is still alive as long as somebody takes care of
him. Memory or, more precisely, post-memory – as none of the characters in the novel actually
witnessed the Shoah – becomes the superior value, for which one must fight. The main character
of Noc żywych Żydów undertakes this kind of struggle, the struggle for memory. In the great
“Arcadia” shopping mall, in a contemporary commercial temple built on the rubble of the
Warsaw ghetto, once the site of the murder of countless Jewish people, Jews come in to play with
modern people and achieve their goal. They start to fight together against historical amnesia and
thoughtless consumerism. It is a true revolt.
Another important category connected with the representation of history is the “empty
place”. A Polish contemporary writer, Piotr Paziński, is the author of the novel Pensjonat. In
essence, the novel is precisely a historical treatise about an empty place. This empty place is, of
course, Poland after the Holocaust. Likewise, in the collection Żydówek nie obsługujemy, the
17
I. Ostachowicz, Noc żywych Żydów, Warszawa 2012, p. 14.
The Shoah in Contemporary Polish Fiction
empty place is a key category. In these narratives empty places are breaks in the story line (twoor three-page pauses which divide longer parts of stories). All of them – there are five – try to
answer the question of the identity of the eponymous female Jewesses that appear in the novel.
The clues suggest a young woman, an officer, a Moomin and a dog. It is impossible to find a
common denominator for these senseless options. Sieniewicz seems to be trying to show that in
contemporary Poland the word “Jew” is only an empty place, a sinister language sign, without any
given historical sense. After the Second World War there were many empty places in Poland – and
many empty words such as “Jew” or “Jewish”. These words used to define people and items which
no longer exist because they were annihilated in the majesty of the law. In popular mentality they
were punished, and so they had had to be guilty. But their guilt was merely their Jewish blood,
nothing else. That is why the words “Jew” or “Jewish” in contemporary Polish are still negative
categories; likewise – as contemporary literature stresses – they are so in the Poles’ collective
memory and post-memory.
Where do the visions of the Shoah, as reflected in the texts written by the post-Holocaust
generations of writers, come from? They are cultural artefacts, images formed and transmitted
by culture and its conventions rather than by genuine personal memory, impossible in the case
of the second and third post-Shoah generation. One can see it especially in last story of the
collection Żydówek nie obsługujemy by Sieniewicz. The supermarket, which is an enclosed area
of consumerism, seems to be a ghetto or a concentration camp. Each customer has a card with
their own assigned number. The main character is a Jewish woman whom nobody wants to serve
because it is not clear if she is alive. If she wants to be served she must lose her identity, she must
become another person. She decides to stay her Jewish self – and that means death. She is executed
– paradoxically – in a consumerist way: pelted with bread.
Sieniewicz describes the supermarket almost as if it were an enclosed space under Nazi
orders:
Behind the rubbish dump you stop for a moment to give the supermarket a farewell look. In the
doorways bonfires are burning, the Gestapo division has completely cordoned off the area; dogs are
barking fiercely, saliva leaking from their muzzles. Bodyguards are beating their hands together; they
are standing at the trucks, staring bleakly at the captives being rounded up. One important Fritz is
explaining something to an even more important Fritz, maybe to captain Schitke. Gestapo officers
are catching the surviving customers; confiscating their goods, cash and jewellery. They are packing
part of the people into trucks while the others are made to stand against the wall! “Hände hoch!
Hände hoch! Raus, hipermarkttisheschweine!”, an officer shouts through the megaphone, maybe
Citke. With their hands raised and without even the slightest protest, people are letting the Gestapo
place black bands over their eyes. Black! Not yellow, not Jewish – wide death-rags. “Feuer! Feuer!”
–machine-gunfire mows people down like flowers. Crows fly up into the sky18.
It is as if this picture came from a popular TV war-series. This fragment of a description
of the hypermarket is full of elements characteristic of the memories or witness accounts of Nazi
crimes, but at the same time it links us to the modern world and its popular culture.
18
M. Sieniewicz, Żydówek nie obsługujemy, Warszawa 2005, p. 236.
193
Sławomir Jacek Żurek
Metonymy
In conclusion, the last of the four categories analysed here, which may be said to organise
contemporary Polish fiction of the Shoah, is metonymy. One can see this category first of all in
the works of Piotr Szewc and Marek Bieńczyk. The former uses the setting of the interwar city
of Zamość as a canvas for his story. The latter sets the action of his novel in a psychiatric hospital
near Warsaw during the time of the Holocaust. In both cases the narrator and characters do not
refer directly to the Shoah, although Bieńczyk depicts Warsaw and its surroundings during the
Second World War, which can potentially suggest connotations with the Shoah. Szewc points to
the Holocaust via a system of allusions which pulse through the narrative:
The flowers enriched the world with their heady scents and colours, but behind the overblown lilac
bush, behind Icchak Safian’s hovel, behind the stairs of the city hall and in the gate of the house
at the Salt Market – stood Nothingness. It showed its expressionless face and hunting for wagtails
and cocks, goats, roe-deer, dogs and calves; it searched for geraniums in windows, and peonies and
lupines in the gardens19.
194
The novel uses an original narrative device: to explain the sense of the future, it focuses
on the past. In the Arcadian area of the pre-war Polish-Jewish Zamość there appear some
eschatological signs. They appear and slowly build a compelling impression of the forthcoming
end of this mythical space. It is literally the end of summer, but symbolically it suggests the
approaching cataclysm. This catastrophe was, of course, the war and accompanying it the
annihilation of the Jews. Novels by Piotr Szewc represent the Shoah of the Jewish Zamość, and as
a result, the irreparable dissolution of the Polish-Jewish world.20 When interpreting these novels
the metonymy category, introduced into literary studies in the context of the Shoah by Marta
Cuber-Tomczok21, can be helpful. Szewc uses metonymy perfectly. He contemplates a particular
moment in time, which in a second will pass away. In a paradoxical gesture, on the one hand the
author saves the Polish-Jewish world, but on the other, he annihilates it. The same situation takes
place in Paziński’s story, in which the author invites his readers to the land of Nothingness. This
land is a metonymically created vacuum, in which the narrator begins his very secret narration
without a story line, as in the book of Genesis. He says: “Na początku były tory kolejowe” (“In
the beginning there were railway tracks” – yet, the word “tory”, which in Polish, of course, means
“railway tracks”; he also elicits an involuntary association with the plural form of the noun Torah –
in Polish “Tory”). The Jews were transported to gas chambers precisely by “tory” (railway tracks).
This is the beginning of a new mythology and a new world – of “Poland without Jews”. Moreover,
"In the beginning" are also the first words of Torah - in Hebrew “Bereshit”.
19
P. Szewc, Bociany nad powiatem, Kraków 2005, p. 95.
The Polish-Jewish world is first of all a cultural and literary category. Cf. W. Panas, The Writing and Wound. On Polish-Jewish
Literature, trans. Ch. Garbowski, in: Jewish Writing in Poland, «Polin. Studies in Polish Jewry», vol. 28, ed. by M. AdamczykGarbowska, E. Prokop-Janiec, A. Polonsky, S.J. Żurek, Oxford - Portland 2016, pp. 17-30.
21
Cf. M. Cuber, op. cit
20
The Shoah in Contemporary Polish Fiction
*
The four categories of transgression, pop-culture, history and metonymy have a completely
different provenance. The first two come from aesthetics, the third one from historical discourse,
and the last from literary studies. All of them, however, are useful when interpreting the world of
contemporary Polish fiction about the Shoah. To be sure, awareness of the Holocaust in the case
of all the writers discussed here is mediated; they strongly build on artefacts and archival sources
rather than on their own experiences. Yet, as you can see, they try to understand the meaning of
the Shoah and give it a new artistic shape.
Abstract
Sławomir Jacek Żurek
The Shoah in Contemporary Polish Fiction (after 1989)
This article takes a look at contemporary Polish prose dealing with theme of the Shoah. “Contemporary”, in this case, means
fiction published in the 1990s and after the year 2000, thus already in the twenty-first century. It therefore comprises the
last twenty-five years. The fundamental categories used here in the analyses of texts, are the memory and post-memory of
the Shoah. The authors who have published works over the last twenty five years have either been witnesses of these events
(i.e. Children of the Holocaust), or – more often – representatives of the second or third generation after the Shoah. In this
article, contemporary Polish fiction will be exemplified by the prose of Marek Bieńczyk, Piotr Szewc, Igor Ostachowicz,
Mariusz Sieniewicz and Piotr Paziński. Analysis contains four categories which structure both the world represented and the
form of the prose: transgression, pop-culture, history and metonymy.
Keywords: Contemporary Polish prose, Shoah, Transgression, Pop-culture, History, Metonymy, Memory, Post-memory
«pl.it / rassegna italiana di argomenti polacchi», (VII) 7, 2016, pp. 187-195
195
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RECENSIONI
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Walenty Neothebel, Acrostichis własnego wyobrażenia kniaża wielkiego
moskiewskiego, cura e redazione di Grzegorz Franczak, Biblioteka Dawnej
Literatury Popularnej i Okolicznościowej, t. XXV, Wydawnictwo Naukowe Sub
Lupa, Warszawa 2016
La collana “Biblioteka Dawnej Literatury Popularnej i Okolicznościowej” [Biblioteca della
Letteratura Antica Popolare e d’Occasione], recensita da Jacek Głażewski sul numero passato
di questa rivista (6, 2015, pp. 199-204), si è arricchita di un nuovo volume. Si tratta di un
componimento in versi scritto dal pastore luterano Walenty Neothebel, stampata nel 1581 presso
l’editore Melchior Nehring. Il titolo comincia con Acrostichis, appunto perché i versi iniziali e
quelli finali contengono un acrostico (rispettivamente il nome dell’autore e quello di re Stefan
Batory). L’opera è significativa anche dal punto di vista della storia del libro in Polonia, in quanto
fu il primo volume in polacco stampato a Toruń, città che risentiva di influenze sia tedesche sia
polacche.
Acrostichis è un’opera poetica di 890 versi, preceduta da un prologo in prosa contro
Ivan il Terribile. Il curatore, Grzegorz Franczak, nel lungo saggio introduttivo colloca questo
componimento nel contesto della propaganda antimoscovita che accompagnò le campagne
militari dei tempi di Stefan Batory contro la Moscovia. Il poemetto intendeva infondere coraggio
alle truppe, ma anche influenzare l’opinione pubblica, in particolare per convincere la szlachta
ad accettare gli oneri derivanti da questi conflitti. L’opera si inserisce nell’ampio dibattito
rinascimentale svoltosi attorno al concetto di “guerra giusta”, nel caso specifico particolarmente
rilevante, in quanto si trattava di combattere contro un paese cristiano, ancorché, per usare la
terminologia dell’epoca, “scismatico”. Alla luce di queste circostanze la demonizzazione del
nemico diventava parte importante delle strategie di combattimento. Nella retorica della Polonia
dell’epoca, l’accusa di tendenza alla tirannide si rivelava un argomento particolarmente efficace e
sfruttato nelle polemiche di ambiti diversi (da quelle politiche a quelle religiose), soprattutto da
parte dei protestanti.
Franczak illustra con un’accurata verifica delle fonti il modo in cui era costruita dall’autore
l’immagine dell’avversario, richiamando l’attenzione sull’uso di testi preesistenti. In particolare,
viene sottolineata la dipendenza dalla celeberrima Sarmatiae Europeae descriptio del veronese
polonizzato Alessandro Guagnino, pubblicata per la prima volta nel 1574, fonte considerata
all’epoca fra le più autorevoli e attendibili sulla Moscovia. Il curatore però evidenzia il rapporto
spesso dimenticato fra il libro di Guagnino e la relazione approntata da Albert Schlichting, un
tedesco di Pomerania che aveva trascorso a Mosca gli anni dal 1564 al 1570. Proprio questa relazione
sarebbe stata una delle fonti sfruttate da Guagnino. Il complesso intrico intertestuale delineato da
Franczak offre un quadro esaustivo dei modelli di costruzione della narrazione storica e geografica
dell’epoca, delle modalità di creazione dell’immagine dell’Altro e dell’atteggiamento piuttosto
libero di quel periodo verso le fonti utilizzate. A dispetto di ogni assicurazione, Neothebel è molto
lontano da una narrazione originale e storicamente esatta: attinge ai lavori altrui a piene mani e
acriticamente, confondendo le date e le circostanze degli eventi narrati, attribuendo a Ivan IV
episodi che in realtà erano da ricondursi ad altri. Del resto, la ricerca della verità non rientrava fra
gli obiettivi dell’autore, che desiderava invece creare l’immagine di uno zar che fosse il concentrato
della barbarie. E vi riuscì benissimo: Ivan il Terribile è rappresentato come una figura monolitica,
sempre circondata da diavoli, impegnata con sadismo a escogitare sempre nuovi supplizi a cui
199
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI / (VII) 7 / 2016
200
sottoporre gli oppositori, uno stupratore, un sanguinario e bestiale assassino attorniato da una
masnada di truppe speciali (gli opričniki) simili a lui.
Il trattamento dei personaggi come figure monolitiche, la presenza di concetti astratti
personificati (per esempio la Coscienza) e l’introduzione di monologhi recitati da soggetti
diversi hanno fatto ravvisare al curatore una somiglianza col genere medievale della “moralità”;
egli conia così la definizione di “moralità politica” per definire quest’opera, che, in effetti,
contiene sì l’esortazione a comportarsi da buoni cristiani ascoltando la voce della coscienza, ma
principalmente mira a suscitare indignazione contro il crudele tiranno combattuto dall’eroico re
Stefan. L’altro genere a cui attinge questo singolare componimento è la pasquinata.
Dal punto di vista artistico, certamente Acrostichis non è un capolavoro, ma è perfettamente
in linea con il carattere della collana, che si propone di rendere accessibili scritti che non
rappresentino i vertici della produzione artistica, bensì la mediocrità che rifletteva la mentalità
dell’epoca e che poteva dare un’idea dell’opinione pubblica del periodo.
L’edizione curata da Franczak è pregevole per diversi motivi. Il testo è edito con rigore
scientifico e accompagnato da un apparato di note che consente di ricostruire gli eventi e i
testi presi a modello e che aiuta, come il glossario finale, a comprendere il significato di diverse
parole ed espressioni fraseologiche che caratterizzano la lingua ostica di Neothebel, talvolta
di difficile comprensione anche per chi ha dimestichezza con il polacco dell’epoca. È presente
anche un’appendice in cui sono pubblicati altri due testi: un epitalamio scritto da Neothebel e
un componimento poetico in onore del suo compleanno. Entrambi i testi sono in latino con a
fronte un’ottima traduzione in polacco fatta dal curatore. Il saggio introduttivo, già menzionato,
oltre a contestualizzare l’opera, rettifica anche le conoscenze pregresse già scarse sull’autore,
puntualizzando, per esempio, con prove documentali il suo luogo di nascita (Lipsia).
Non resta che auspicare che giunga presto a compimento anche l’edizione della citata
relazione di Schlichting, sempre ad opera di Franczak, per la stessa collana, col testo polacco e
latino. Senz’altro fornirà materiale utile per comprendere meglio le peculiari caratteristiche di
quella che possiamo deifinire come una specifica “intertestualità” dell’epoca trattata.
[Viviana Nosilia]
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Drogi duchowe katolicyzmu polskiego XVII wieku, a cura di Alina Nowicka-Jeżowa,
Seria “Kultura Pierwszej Rzeczpospolitej w dialogu z Europą” – Hermeneutyka
wartości, t. VII, Wydawnictwa Uniwersytetu Warszawskiego, Warszawa 2016
Con esemplare regolarità appaiono i volumi di questa Seconda Serie di studi sulla storia e la cultura
della Repubblica delle Due Nazioni, ossia quella Federazione polacco-lituana che dominò la scena
politica e culturale dell’Europa orientale fino al Settecento e che in realtà – come appare da molti
articoli e interi volumi dedicati da questa collana all’argomento – comprese anche le vastissime
regioni che oggi fanno parte di Ucraina, Lituania e Bielorussia. Una lettura anche superficiale
dei titoli della Prima e di questa Seconda Serie fa comprendere quanto il termine “cultura” vada
inteso nel senso più ampio e nelle accezioni di intertestualità e pluralismo concettuale che gli
hanno conferito le più moderne impostazioni metodologiche venute da ogni area geografica, dalla
RECENSIONI
Francia al mondo anglosassone, dalla Germania all’Italia, alla Polonia e agli altri paesi dell’Est
europeo.
Nella Seconda Serie della Collana, il volume VII qui presentato approfondisce le varie
forme e manifestazioni che caratterizzarono il cattolicesimo polacco in epoca post-tridentina. Lo
studio introduttivo della curatrice è seguito da un saggio dedicato alle correnti che esprimevano
atteggiamenti di scetticismo e negazione (M. Hanusiewicz-Lavallee), al giansenismo e
cartesianesimo (M. Chodyko), alle forme di meditazione dei gesuiti e di devozione dei francescani
(A. Kapuścińska), ai modelli di “vita attiva” di oratoriani e ordini di S. Vincenzo (P. Urbański,
B. Puchalska-Dąbrowska), alla produzione letteraria degli ordini carmelitani, in particolare alla
loro scrittura femminile (A. Nowicka-Struska, J. Gwioździk), e a due personaggi profondamente
diversi fra di loro ma di analoga dimensione europea come St. Papczyński (W. Pawlak) e St. H.
Lubomirski ( J. Dąbkowska-Kujko).
Questa pubblicazione, interamente dedicata all’approfondimento della religiosità e del
pensiero cattolici, va però considerato all’interno di tutta la Serie, prevista in 12 volumi. Essa
è stata infatti preceduta da tomi dedicati ai rapporti culturali della Rzeczpospolita con i paesi
del Nord e del Sud (vol. I-II), alle più importanti forme di pensiero e di pratica politica (vol.
III), al monachesimo, alla teologia e all’attività pastorale (vol. IV-V), alle caratteristiche storiche e
culturali dell’epoca che segue il Concilio di Trento (vol. VI). Certamente si riflette in questo tomo
e in quelli precedenti già pubblicati l’interesse ben noto alla critica che la curatrice dell’intera
serie ha sempre manifestato per l’approfondimento degli studi sulla religione e la spiritualità
(ricordiamo i seminali studi che A. Nowicka-Jeżowa dedicò alle espressioni letterarie e filosofiche
della morte, del platonismo, della meditazione spirituale negli anni ’80 del XX secolo quando
questi temi erano decisamente meno favoriti dal regime e dal mondo accademico nazionale
polacco, ma anche internazionale). Tuttavia, come già in quegli anni, A. Nowicka-Jeżowa non
finisce di sorprendere per l’ampiezza della sua curiosità intellettuale e per l’onestà e l’equilibrio
che dimostra affrontando lo studio di tutte le correnti e gli aspetti della letteratura e della
cultura premoderna. Ciò risulta evidente anche dalla lista dei volumi che sono già perfettamente
programmati e vedranno la luce con rapida successione, l’VIII, il IX e il X dedicati rispettivamente
al Luteranesimo, alle altre correnti evangeliche e all’Antitrinitarismo polacco. Significativamente
l’intero volume XI sarà dedicato alla storia e cultura religiosa delle popolazioni ortodosse e grecocattoliche, e l’ultimo affronterà il complesso e delicato problema del passaggio dalla tradizione
premoderna a quella moderna iniziata dall’Illuminismo settecentesco. Come si vede da questo
elenco, la pubblicazione dedicata alle varie strade percorse dal cattolicesimo nella ricerca di quei
“valori spirituali” che danno il titolo a tutta la Serie (Hermeneutyka wartości, Ermeneutica
dei valori), si inserisce in una visione ampia che non perde di vista il più vasto contesto di tutta
l’Europa, le varie manifestazioni della cultura spirituale ed ecclesiastica, della cultura politica,
della diversità conflittuale fra religioni e tendenze, della crisi della modernità.
L’ampiezza degli orizzonti ermeneutici della curatrice e dei suoi collaboratori (in
particolare va menzionata M. Hanusiewicz-Lavallee, che ha affiancato Nowicka-Jeżowa in
tutto il percorso di queste serie e senza la quale forse il progetto non poteva giungere alle attuali
proporzioni e qualità) risulta più evidente tenendo conto che questa Seconda Serie rappresenta
una continuazione e approfondimento degli argomenti trattati dalla Prima. Del contenuto e
della portata intellettuale, ermeneutica ed interpretativa della Prima Serie danno testimonianza
già i primi due volumi programmatici, stampati nel 2009-2010 a Varsavia col titolo Humanitas.
Projekty antropologij humanistycznej [Humanitas. Progetti di antropologia umanistica]. La
201
PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI / (VII) 7 / 2016
202
prima parte (vol. I), che porta il sottotitolo “Paradygmaty – Tradycje – Profile historyczne”
[Paradigmi – Tradizioni – Profili storici] crea la cornice destinata a inquadrare gli approfondimenti
e i contributi specialistici sui più significativi fenomeni, personaggi ed episodi della cultura polacca
premoderna: A. Nowicka-Jeżowa (pp. 11-135) espone le scelte metodologiche sulle quali si basa
il progetto, le principali linee di studi precedenti e il piano generale, articolato in tre sezioni (“Le
sintesi”, “Inedita” e “Polonika” [sic!] in edizioni critiche); J. Domański, W. Pawłak e M. Lenart
presentano alcuni concetti chiave della cultura del XV-XVII sec. (la Paideia e la humanitas di
Cicerone, l’evoluzione del concetto di humanitas) e “figure-mito” come il cavaliere, il pellegrino,
il re, l’amore e la perfezione, il piacere e la virtù (pp. 137-253). Alla dialettica fra l’ampio contesto
della respublica litterarum e la specificità della latinitas nobiliare polacca dedicano i loro studi
specialisti del calibro di S. Graciotti e J. Axer (pp. 255-286). L’ultima sezione (pp. 287-613) è
affidata alla penna della curatrice e di ben noti specialisti (K. Ziemba, M. Hanusiewicz-Lavallee,
M. Cieński, M. Kalinowska, M. Masłowski, E. Paczowska, P. Dybeł) che si soffermano sulla
declinazione della humanitas, quale essa risulta in varie epoche da Kochanowski al Romanticismo
e al Positivismo, fino alla decostruzione fattane dal Modernismo e nel XX secolo. Più precisamente
all’articolazione e allo sviluppo delle correnti filosofiche è dedicata la seconda parte (vol. II), nella
quale il lettore trova delle sintesi preziose sull’aristotelismo e il neoplatonismo, lo stoicismo e
l’epicureismo seguiti nella loro evoluzione dal Rinascimento polacco fino al momento della sua
(reale o solo supposta?) crisi nel XX secolo. Di questa seconda parte sono autori D. Facca, M.M.
Kacprzak, M. Eder e M. Wojtowska-Maksymik, P. Urbański, J. Dąbkowska-Kujko, E. Lasocińska,
E. Kiślak, U. Kowalczuk, P. Dybeł. Mi sono soffermata su questi due volumi che a suo tempo inaugurarono la Prima Serie
della collana, e su un elenco di nomi e di temi in essi affrontati, pur essendo ben conscia che
essi non sono sufficienti a rendere giustizia alla varietà degli argomenti e delle diverse angolature
della materia trattata tanto negli altri volumi della Prima Serie, quanto in quelli della Seconda
che è stata stimolo a scrivere questa recensione. Ogni articolo ed ogni parte o sezione offre una
visione d’insieme delle principali idee, dei conflitti, degli orientamenti filosofici e religiosi, del
pensiero politico e sociale, della cultura e dei miti che costituiscono le varie tessere del complicato
mosaico chiamato “Respublica delle Due Nazioni”, con le sue propaggini evolutive che portano
alla contemporaneità. In tutti i contributi si trovano però anche informazioni importanti su
singoli personaggi, che costituiscono esemplificazioni concrete e furono portatori delle idee e
delle formanti della suddetta visione d’insieme. Al vol. VII della Seconda Serie qui brevemente
descritto si renderà quindi giustizia considerandolo all’interno della complessità del quadro
generale che risulta dall’attuazione del progetto ideato e guidato con instancabile energia e mano
ferrea da Nowicka-Jeżowa.
L’opera nel suo complesso non è una storia della letteratura o della cultura, non è
un’enciclopedia, non è una semplice raccolta di studi dedicati agli argomenti cui abbiamo
accennato. È qualcosa di profondamente nuovo perché applica a una messe di dati estremamente
ampia delle griglie strutturali e delle metodologie interpretative molto moderne e attuali,
sfruttate non in maniera pedissequa ma con grande flessibilità e intelligenza, adattate alla realtà
culturale, socio-politica e filosofica della Polonia, per meglio dire della Federazione polaccolituana, caratterizzata da una varietà etnica, linguistica, confessionale e culturale che, nonostante
la pressione cattolica post-tridentina e polonocentrica, sopravvisse fino alle Spartizioni (e
parzialmente fino al 1939). Dai volumi delle due serie della collana risulta un quadro poliedrico
ma strutturalmente organizzato di idee, opere e scrittori che hanno creato una realtà “polacca”
RECENSIONI
ricca e varia, profondamente originale e specifica, ma anche totalmente “europea”.
Un unico rammarico: quest’opera meriterebbe di comparire nelle sale di consultazione
di ogni biblioteca ampiamente umanistica del mondo. Com’è ovvio e naturale essa è scritta in
polacco: per questo esiste il serio rischio che essa resti inaccessibile al maggior numero di potenziali
lettori. Ci auguriamo ciò nonostante che riesca a circolare nel mondo scientifico internazionale
e a fornire a studiosi e lettori di ogni paese informazioni utili per inserire la conoscenza della
ricchezza della humanitas polacca in quella della tradizione umanistica rinascimentale di tutto
il mondo occidentale a cui la cultura polacca appartiene e al cui sviluppo ha dato un contributo
fondamentale, troppo spesso ignorato dagli studiosi della tradizione rinascimentale d’Europa e
d’America. I mezzi d’informazione bibliografica oggi non mancano e “cliccando” alcuni dei nomi
che ho appositamente citato si può risalire a molti altri e ai contributi dei rispettivi specialisti.
Sarebbe forse utile, tuttavia, se un prospetto e una breve sintesi illustrativa dell’intero progetto
venisse inserito, in inglese e altre lingue occidentali, in uno dei grandi data base cui oggi ogni
studioso fa riferimento: questo forse favorirebbe una più ampia diffusione delle amplissime
conoscenze veicolate dai volumi che abbiamo qui sommariamente e purtroppo solo parzialmente
descritto.
[Giovanna Brogi]
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Lena Seauve, Labyrinthe des Erzählens. Jean Potockis Manuscrit trouvé à
Saragosse,Winter Verlag, Heidelberg 2015
Sono trascorsi dodici anni dalla pubblicazione dei primi tre volumi delle opere di Jan
Potocki per i tipi di Peeters e della biografia dello stesso, uscita per Flammarion, entrambi frutto
delle ricerche congiunte di una coppia formidabile di studiosi, François Rosset e Dominique
Triaire. Ai primi tre volumi, contenenti i Voyages (i primi due) e il teatro, gli scritti storici e politici
(il terzo), hanno fatto seguito nel 2006 altri due titoli, il romanzo Manuscrit trouvé à Saragosse,
pubblicato in due versioni, quella incompleta del 1804 e quella del 1810 (volumi IV, 1 e IV, 2)
e infine il quinto volume contenente la corrispondenza. L’edizione critica delle opere (la prima
nella storia) e la biografia di quello che senza dubbio va considerato come uno dei massimi scrittori
della letteratura europea, oltre ad essere uno dei più grandi viaggiatori nella storia umana, ingegno
multiforme e uomo di somma erudizione, è un evento di dimensioni storiche che ha cambiato
irreversibilmente la nostra immagine del panorama letterario dell’epoca di passaggio tra tardo
illuminismo e primo romanticismo. La scoperta, fatta dai due studiosi, di manoscritti finora ignoti
del romanzo conservati negli archivi di stato di Poznań, assieme a un’attenta opera di collazione di
tutti i documenti, autografi e non, del romanzo, ha permesso di stabilire ben tre tappe di formazione
del Manuscrit (1794, 1804 e 1810), con la conseguente pubblicazione delle due ultime versioni
come varianti d’autore di pari valore letterario. Questa edizione in due varianti ha definitivamente
squalificato le precedenti, quella incompleta di Roger Caillois (1958) e quella “completa” di René
Raddrizzani (1989), quest’ultima integrata per le parti di cui mancava l’originale francese con
la traduzione polacca profondamente rimaneggiata di Edmund Chojecki. La nuova edizione ha
dunque costretto il pubblico degli studiosi e dei lettori a rileggere il romanzo come fosse un’opera
nuova. Fortunatamente per Potocki e per tutti noi la pubblicazione di questi testi fondamentali
203
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(mi riferisco ovviamente sia ai testi primari che a quelli secondari, mai come in questo caso di
pari importanza e dignità) invece di porre fine, come spesso accade, a un’epoca di ricerche durata
almeno tre lustri, ha richiamato al contrario una nuova generazione di studiosi, inaugurando così,
senza soluzione di continuità con il primo, un secondo rinascimento di studi potockiani. Questa
seconda stagione di studi ha portato ulteriori sensazionali scoperte ed è a tutt’ora in piena fioritura.
Sono stati ritrovati interi nuovi blocchi di corrispondenza, scritti di contenuto politico, saggi di
geologia. Il genio di Jan Potocki è come un vulcano che si riattiva dopo due secoli e riprende ad
eruttare. Molto probabilmente altre sorprese ci aspettano. A tutto ciò si accompagna, come era
inevitabile, un rinnovato interesse critico e storiografico di dimensioni veramente europee che
dai paesi francofoni passa per l’Italia e la Polonia per raggiungere la Norvegia e la Germania.
Nell’ultimo decennio infatti sono usciti vari studi sul Manuscrit, che per forza di cose sono
anche i primi saggi critici a tener conto della nuova situazione editoriale del romanzo. Tra questi
non posso non citare: Luc Fraisse, Potocki et l’imaginaire de la création, Presses de l’Université
Paris-Sorbonne, Paris 2006; Marius Warholm Haugen, Jean Potocki. Esthétique et philosophie
de l’errance, Peeters, Leuwen 2012; Isabella Mattazzi, Il labirinto cannibale. Viaggio all’interno
del Manoscritto trovato a Saragozza di Jean Potocki, Arcipelago ed., Milano 2007. Infine sette
convegni hanno riunito il team internazionale degli studiosi di Potocki, rispettivamente nel 2007
(Montpellier), nel 2008 (Cracovia), nel 2009 (Kiev), nel 2012 (Toulouse) e nel 2015, anno del
bicentenario della morte (Łańcut, Francoforte sul Meno, Parigi). Gli atti dei rispettivi convegni
(solo quelli di Kiev hanno avuto vicende editoriali sfavorevoli e stanno infine per uscire assieme
agli atti di una delle conferenze del 2015) sono altrettante raccolte di studi: Jean Potocki ou le
dédale des Lumières, a cura di François Rosset e Dominique Triaire, Presses universitaires de
la Méditerranée, Montpellier 2010; Jean Potocki à Nouveau, a cura di Émilie Klene, Rodopi,
Amsterdam 2010; Jean Potocki. Pérégrinations, a cura di Kinga Miodońska-Joucaviel, Presses
universitaires du Mirail, Toulouse 2013. Oltre alle comunicazioni degli studiosi, essi hanno avuto
il merito di rendere accessibili quasi in tempo reale le scoperte di nuovi testi che nel frattempo
erano venuti alla luce. Sono infine in preparazione gli atti delle tre conferenze tenutesi lo scorso
anno in occasione del bicentenario della morte dello scrittore (le comunicazioni di Łańcut e di
Parigi usciranno in un unico volume).
In questo imponente panorama editoriale non esisteva ancora una monografia sul
Manuscrit in lingua tedesca (l’unica era una tesi di dottorato del 1982). Questa è infine arrivata
alla fine dell’anno del bicentenario. Labyrinthe des Erzählens di Lena Seauve, francesista alla
Humboldt-Universität di Berlino, il saggio che qui presentiamo, vuole essere un tentativo
innovativo di abbandonare il tradizionale approccio intertestuale al romanzo, che aveva avuto in
René Raddrizzani uno dei suoi principali rappresentanti e ne aveva favorito una lettura in chiave
postmoderna, a favore di un metodo che si avvale di strumenti concettuali mutuati dalla teoria
della letteratura quale il concetto di modello e di citazione di modello (Modellzitat) nonché di
entrelacement, ques’ultimo evidentemente inteso come termine tecnico ben noto ai medievisti
di area romanza, ma anche agli italianisti studiosi dei poemi cavallereschi, ad indicare l’intreccio
delle trame, continuamente sospese e riprese, ed adattato alla peculiare struttura narrativa del
Manuscrit.
Come scrive la studiosa (p. 19): “Rispetto alle ricerche intraprese sinora intorno
all’intertestualità del Manuscrit, il metodo cui aspiriamo presenta il vantaggio di puntare meno
al rinvenimento di singole referenze testuali, cosa che – come si mostrerà più avanti – nel caso
di Potocki è spesso difficilmente realizzabile. Il Manuscrit trouvé à Saragosse, questa è la tesi di
RECENSIONI
partenza della presente ricerca, si richiama meno a singoli testi o a tradizioni di genere letterario,
quanto a schemi narrativi ricorrenti che qui verranno definiti modelli letterari”. Il concetto di
modello letterario dunque, cruciale per la comprensione del metodo qui impiegato, è anche lo
strumento meno perspicuo al lettore non avvezzo ai territori specialistici della teoria letteraria
e quello che più richiede di essere definito, anche perché nell’accezione qui proposta esso
costituisce una novità. Ciò avviene all’inizio del capitolo IV, dove viene riconosciuta la filiazione
architettonica del concetto di modello inteso sia come riproduzione semplificata di una realtà
preesistente che come modellino (francese maquette) di un edificio da costruire. Dal momento
che la sua applicazione alla letteratura è una novità, esso va inteso in questo senso come un
neologismo. L’obiezione che facilmente si può avanzare è che il modello è un concetto estraneo
alla poetica dell’epoca in cui Potocki si trovò a operare. Tuttavia Seauve premette fin dall’inizio
che il modello va inteso come una costruzione euristica trasversale ai generi letterari, pertanto,
come in ogni teoria scientifica, va giudicato solo in base alla sua maggiore o minore efficacia ai
fini della descrizione dell’oggetto di studio. Secondo la studiosa dunque i modelli (Modelle)
riproducono oggetti, processi o stati esistenti e costituiscono a loro volta i prototipi (Vorbilder)
per nuove realizzazioni. Il modello si troverebbe così a mediare tra la realtà e l’opera letteraria.
Questa infatti non imiterebbe più la realtà bensì il suo modello. Ciò che essi rappresentano non
è la realtà, bensì strutture, forme e contenuti di testi letterari. A titolo di esemplificazione la
studiosa riporta il modello del giovane che parte in cerca di avventure, un motivo rinvenibile sia
nel romanzo cavalleresco, che in quello picaresco, di formazione ecc. “Il modello letterario […]
costituisce un momento di passaggio tra un gruppo di singoli testi storicamente preesistenti e
un nuovo singolo testo, nel quale esso trova nuova realizzazione, ovvero viene individualmente
formato per mezzo di diverse trasformazioni” (p. 98). Il modello però, “a differenza del testo/dei
testi di partenza e della sua attuale realizzazione non possiede alcuna concreta forma fenomenica
letteraria, bensì può assumere forme diverse in quanto parte costitutiva di un metadiscorso: da
un costrutto immaginario, non fissato per iscritto, prodotto dall’autore e/o dal lettore, fino a una
poetica normativa come quella della doctrine classique sono pensabili innumerevoli varianti, nelle
quali intervengono modelli” (p. 99). Svincolando così il modello da un genere letterario preciso
l’autrice ritiene di rendere meglio ragione della fitta trama di riferimenti testuali che da sempre
hanno suscitato l’interesse degli studiosi. Il vantaggio inoltre di incentrare l’analisi sui modelli
deriva anche dalla loro maggiore stabilità rispetto ai generi letterari i cui confini sono spesso labili
e tendono a mutare col tempo.
In particolare nei tre capitoli centrali del saggio vengono prese in analisi tre tradizioni
narrative che hanno prodotto modelli peculiari sia dal punto di vista del contenuto che della
forma e della struttura: la novellistica, il romanzo picaresco e il romanzo gotico. Nel capitolo
sulla novellistica l’autrice si interroga sul valore edificante (e dunque sulla funzione parenetica)
dei racconti. In quello sul romanzo picaresco indaga il racconto menzognero, cioè lo statuto del
narratore inaffidabile e come la consapevolezza dell’inganno possa o meno influire sulla ricezione
della narrazione (nel patto tra narratore e destinatario della narrazione possono essere altri i criteri
di valutazione di una storia, non necessariamente solo quello della sua verità). Il tema del capitolo
sul romanzo gotico infine verte sull’inspiegabile e sul sovrannaturale. Alla domanda sullo statuto
dell’inspiegabile si avrà una risposta alla fine del romanzo che, in piena sintonia con il razionalismo
settecentesco, smaschererà la finzione, senza peraltro metterne in discussione il valore. La scelta
di questi tre modelli è evidentemente parziale, ma non arbitraria, dal momento che numerosi
modelli rinvenibili in altri generi possono essere ricondotti a questi tre.
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PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI / (VII) 7 / 2016
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Richiamandosi alla riflessione di Andreas Böhn, al concetto di modello viene affiancato
quello di citazione, citazione di un modello, il cui scopo non è quello di riprendere una forma del
passato, ma al contrario di sottolineare una differenza, di dar luogo a una riflessione critica sulle
stesse. Il confine tra la realizzazione di un modello e la sua citazione è labile. In questa prospettiva
il riutilizzo del concetto di entrelacement in riferimento al romanzo di Potocki viene ad assumere
una valenza nuova rispetto al contesto medievistico da cui è stato mutuato, quella appunto di
entrelacement di modelli e di citazioni su cui si fonderebbe la struttura del Manuscrit.
A questo aggiungiamo la funzione della cornice narrativa che nel romanzo di Potocki
non si limita a quella di introduzione, come avveniva ad esempio nella novellistica del passato
(basti pensare al Boccaccio), bensì interviene nel cuore stesso delle narrazioni per effetto della
moltiplicazione dei narratori ai vari livelli e per il fatto che ogni racconto viene sempre fatto per
un concreto destinatario che spesso interviene interrompendo per commentare o, se non lui, altri
ascoltatori. Dalla combinazione di citazioni, entrelacement e cornice nasce una rete di molteplici
riferimenti che permettono di organizzare il testo a vari livelli. Inoltre in questo modo la ricezione
delle storie narrate viene ulteriormente messa in scena, visto che i narratori e gli ascoltatori portano
avanti un discorso di carattere metatestuale che mima e influenza la ricezione del lettore esterno.
Questi è invitato a una notevole autonomia nell’interpretazione che si fonda tutta sulla capacità
di combinazione. Non esiste una sola interpretazione giusta nel senso di intentio auctoris.
L’analisi della funzione dei modelli e dell’entrelacement, che occupa il cuore dello studio, è
preceduta da due capitoli introduttivi (il secondo e il terzo), ma di fondamentale importanza, nei
quali vengono trattati rispettivamente il rapporto di Potocki e del suo Manuscrit (la distinzione
allude ai concetti di intentio auctoris e intentio operis di echiana memoria) con il genere del
romanzo e la tematizzazione dell’atto del narrare. È qui che l’autrice si pone la domanda cui darà
piena risposta solo alla fine dello studio, cioè: se e come Potocki nella scrittura del Manuscrit
abbia tenuto conto della coeva poetica del romanzo. Significativa è in questo senso l’analisi di
come vengano presentati i personaggi che leggono romanzi nel Manuscrit. Con sottile e ironica
allusione a opinioni correnti nel XVIII secolo si gioca con la presunta nocività del genere
romanzesco e allo stesso tempo il Manuscrit è strutturalmente disseminato di procedimenti
volti ad impedire l’identificazione con i personaggi caratteristica dello stereotipo romanzesco e
a favorire il distacco critico nei confronti delle vicende narrate. Anche il capitolo dedicato alla
tematizzazione del narrare affronta il ruolo che svolgono i vari livelli della narrazione per favorire
questo complesso procedimento di straniamento e distaccamento del lettore: la comunità dei
narratori, i narratori interni, i commentatori e infine il lettore implicito, un concetto mutuato da
uno studio di Wolfgang Iser, che nel romanzo di Potocki è strettamente legato ai commentatori (in
particolare Rébecca e Velasquez). Questi infatti sono dei lettori fittizi che in più di un’occasione
incarnano ricezioni stereotipate delle storie narrate. La loro funzione non è quella di guidare la
ricezione del lettore, ma al contrario di renderlo vigile e di stimolarlo a prendere una posizione
propria, distinta dalla loro.
Nell’accattivante interpretazione di Lena Seauve i Gomelez sono una comunità di narratori,
il processo di iniziazione di Alfonso è un’iniziazione alla lettura e alla capacità di riconoscere i
confini tra realtà e finzione, il metallo che viene estratto nella miniera dei Gomelez e sul quale si
fonda la loro potenza “sono le storie che possono essere intrecciate in sempre nuove combinazioni
a partire dai modelli delle tradizioni narrative europee ed extraeuropee. Alfonso viene introdotto
nell’arte del racconto e come erede di narratori di storie fonda una nuova, inesauribile tradizione
narrativa, la cui base alla fine del romanzo depone in forma di manoscritto nella cassette de fer
RECENSIONI
presso la famiglia di banchieri Moro” (p. 243).
Rimane forse solo il rimpianto che l’autrice non abbia sfruttato di più nella sua
interpretazione le differenze strutturali tre le due versioni del romanzo, quella del 1804 e quella
del 1810. È vero che questa decisione viene annunciata e adeguatamente motivata all’inizio del
libro (del resto in più di un’occasione la studiosa non manca di fare riferimento alle differenze
tra l’una o l’altra versione) e tuttavia in questa scelta di basarsi sostanzialmente sulla versione del
1810 si ha l’impressione che si sia persa un’occasione per provare a capire meglio cosa muti con
il nuovo riordinamento della narrazione nella seconda versione, dato che uno dei cambiamenti
più macroscopici di questa è proprio una notevole semplificazione dell’entrelacement. Ma forse
questo può essere il tema per un prossimo studio.
[Emiliano Ranocchi]

Alessandro Amenta, Le parole e il silenzio. La poesia di Zuzanna Ginczanka
e Krystyna Krahelska, Aracne Editrice, Roma 2016
Nel libro Le parole e il silenzio. La poesia di Zuzanna Ginczanka e Krystyna Krahelska,
pubblicato recentemente nella nuova e promettente collana “Polonica”, edita da Aracne Editrice,
Alessandro Amenta analizza in chiave comparativa la produzione poetica di due poetesse polacche
di talento: Zuzanna Ginczanka (1917-1944) e Krystyna Krahelska (1914-1944).
Benché in Italia il nome di Krystyna Krahelska risulti ancora pressoché sconosciuto, quello
di Zuzanna Ginczanka non è del tutto nuovo. Nel 2011, infatti, è uscita in lingua italiana una
raccolta di poesie di Ginczanka dal titolo Krzątanina mglistych pozorów / Un viavai di brumose
apparenze (Austeria, Cracovia-Budapest 2011), nella traduzione di Amenta. E ancora nel 2014 è
stato dedicato alla poetessa il film documentario La poesia spezzata. Zuzanna Ginczanka 19171944, regia di Mary Mirka Milo, sceneggiatura di Amenta e Milo.
Tragicamente scomparse in giovane età durante il secondo conflitto mondiale, le due
poetesse sono divenute in patria figure emblematiche: Ginczanka è stata innalzata a simbolo
dell’Olocausto e del tragico destino del popolo ebraico, mentre Krahelska è passata a personificare
il sacrificio patriottico dei figli della Polonia durante la Seconda guerra mondiale. Ancora oggi le
due poetesse funzionano nell’immaginario polacco come simboli di segno opposto: Ginczanka
è percepita come la “bella ebrea”, estranea alla cultura polacca, oggetto di venerazione e al tempo
stesso di ostilità; Krahelska, invece, è vista come eroina della patria in linea con la tradizione
romantico-martirologica. Attorno alle loro vite si è venuto a creare un vero e proprio mito che per
molto tempo ne ha eclissato l’opera, anche se, come nota l’autore nell’introduzione: “Da un lato
questo mito ha garantito la sopravvivenza del loro ricordo nella memoria collettiva, dall’altro ha
ostacolato o persino impedito una reale comprensione della loro opera poetica” (p. 15).
Nel caso di Krahelska, per esempio, la maggior parte dei testi critici a lei dedicati presentano
un carattere prettamente memorialistico e biografico, forniscono talvolta nuove notizie sulla sua
vita, ma non sulla sua opera. Il saggio di Amenta si propone, dunque, da un lato di colmare questa
lacuna e dall’altro di approfondire in un’ottica comparativa le due produzioni liriche, vagliando
alcuni topoi ricorrenti nella poetica di entrambe le poetesse: urbanesimo e antiurbanesimo,
mitologia e folclore, desiderio e soggettività femminile, religione e spiritualità, politica e storia.
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In tal modo l’autore rivela interessanti analogie e sostanziali discrepanze, nonché le profonde
connessioni esistenti tra l’opera delle due autrici e il contesto culturale dell’epoca.
Ginczanka è autrice sia di satire sociopolitiche sia di un’opera poetica che inizialmente
è influenzata da Bolesław Leśmian, dai poeti skamandriti e in seguito, dopo un breve periodo
di sperimentazioni futuriste e dadaiste, è approdata al catastrofismo. Gli scritti di Krahelska
includono i componimenti poetici, che sono ispirati al folclore popolare e all’universo fiabesco,
e le canzoni patriottiche, che all’epoca riscossero grande popolarità tra i soldati della resistenza
polacca.
Alla guerra sono sopravvissuti circa centosettanta componimenti di Ginczanka: le poesie
manoscritte contenute in due quaderni risalenti agli anni 1932-1934, che attualmente sono
conservati presso il Museo della Letteratura di Varsavia, le liriche e le satire date alle stampe sulle
riviste del tempo, i componimenti raccolti nel volume O centaurach [Sui centauri] e l’ultima
poesia manoscritta [Non omnis moriar] composta durante la guerra. Negli anni 1991-1994,
in Polonia è uscita l’edizione critica delle opere di Ginczanka a cura di Izolda Kiec, di cui nel
2014 è stata data alle stampe una nuova edizione. Della produzione poetica di Krahelska ci sono
pervenute circa duecentocinquanta poesie contenute in alcuni quaderni e fogli manoscritti che
sono custoditi nell’archivio privato di famiglia. La poetessa riuscì a far pubblicare solo due liriche
sulla rivista «Droga pracy» nel 1938, mentre altre poesie uscirono postume in antologie e riviste.
A decretare il successo di Krahelska fu la sua canzone patriottica Hej chłopcy, bagnet na
broń! [Ehi ragazzi, baionetta in canna!, 1942], il cui scopo era quello di mantenere alto il morale
fra i partigiani, ricordare lo scopo della battaglia e riaffermare il sentimento patriottico. La canzone
riprende stilemi tipici dei canti legionari: il senso d’incertezza verso il futuro che non deve avvilire
o suscitare paura, ma che invece deve essere accolto come un incoraggiamento a combattere.
Quasi tutte le canzoni riprendono questo motivo popolare secondo cui, superato il torpore e la
sofferenza, bisogna avere speranza nel futuro e impugnare in mano le armi e lottare. In tutte le
sue canzoni Krahelska si ispira ai canti e alle musiche tradizionali, come nel caso delle liriche
Kujawiak (1941) e Kołysanka [Ninnananna, 1941]. In esse la poetessa ricorre spesso a metafore
e similitudini naturalistiche per menzionare la guerra. Lo stesso modus operandi è ravvisabile
nella poesia di Ginczanka, dove il conflitto è trasfigurato sempre in modo metaforico e allegorico,
mediante visioni apocalittiche in linea con le rappresentazioni del mondo dei catastrofisti. In
diversi componimenti le sorti del paese e il suo destino personale incerto vengono raffigurati
con l’allegoria romantica di una nave in mezzo a un mare in tempesta. Questa immagine, molto
probabilmente di ascendenza mickiewiczana, compare per la prima volta nella poesia Żegluga
[Navigazione, 1936], contenuta nella raccolta O centaurach, in cui un novello Noè “su una nera
ermetica arca” si trova in balia di uno spaventoso diluvio. Il pericolo avvertito all’orizzonte desta
negli animi sgomento, anche se persiste ancora una fievole speranza di salvezza, un approdo in
una terra edenica di meli in fiore. Il motivo della primavera associata alla guerra compare anche in
una poesia di Krahelska, Wiosna zawiedzionych [La primavera dei delusi, 1940], in cui l’angoscia
e la disillusione scaturiscono da una stagione primaverile – ossia la fine dei combattimenti – che
non accenna ad arrivare. Questo topos fonda le sue radici nell’ammirazione che le due poetesse
nutrono per la natura, che diventa specchio dei loro stati d’animo, delle loro emozioni, dei loro
amori, della loro gioia di vivere, ma anche delle loro angosce, dei loro turbamenti e delle loro
delusioni.
Al contrario della grigia e alienante metropoli, la natura costituisce uno spazio familiare,
rassicurante e un universo sereno, umano e pieno di vitalità. Al motivo bucolico viene affiancato
RECENSIONI
il recupero delle tradizioni, della storia, del folclore e delle radici rurali polacche. Benché la natura
venga rappresentata in modo diverso dalle due poetesse, in maniera simbolica in Ginczanka e
descrittiva e metaforica in Krahelska, per entrambe l’ambiente naturale si carica di significati
metafisici o di fascinazione sensuale. Il sensualismo di stampo leśmianiano, soprattutto di W
malinowym chróśniaku [Nella macchia di lamponi, 1920], affiora in Wiśnie i słowa [Ciliegie e
parole] e [Kalinowym mostem chodziłam] [Su un ponte di viburno camminavo] di Krahelska e
nell’immagine dell’ovario inturgidito dei fiori ravvisabile in Bunt piętnastolatek [La rivolta delle
quindicenni, 1933] di Ginczanka. Nella poesia di quest’ultima il frutto che matura è un’immagine
particolarmente ricorrente, si pensi a La-lita szuka serca [La-lita cerca un cuore, 1932] e Powieść
dla młodzieży [Romanzo per ragazzi, 1933].
Nella produzione lirica di Ginczanka madri feconde sono in intima comunione con
l’essenza fertile del creato. Anche nelle liriche giovanili di Krahelska, accanto alla percezione
sensuale della natura (Miłość, L’amore; Przedwiośnie, Preannuncio di primavera), emergono
desideri inconsci di maternità come in Kołysanka jesienna [Ninananna autunnale] e Kołysanka
klonowa [Ninananna dell’acero].
Tuttavia, la rappresentazione della soggettività femminile nelle due poetesse diverge
moltissimo: la donna di Krahelska appare stereotipata, impersonale, dedita alla cura della
famiglia, in attesa che l’amato ritorni dal campo di battaglia (Wiersz o nas i chłopcach, Poesia
su noi e i ragazzi; Do Stacha, A Stach; Modlitwa o Stacha, Preghiera per Stach). A differenza
dell’immagine muliebre convenzionale di Krahelska, la donna di Ginczanka è una figura moderna
e anticonformista, rifiuta gli stilemi tradizionali e gli stereotipi culturali (Przypadek, Un caso),
manifesta il proprio pensiero liberamente, affronta il tema del desiderio e del corpo. Quest’ultimo è
legato sia all’autodeterminazione (Kobieta, Donna; Wyjaśnienie na marginesie, Nota a margine)
sia alla sofferenza e alla malinconia dell’autrice, in cui la rappresentazione del sé appare frantumata
e distorta (Fizjologia, Fisiologia; Futro, Pelliccia).
Se a rendere famosa Krahelska è la sua ultima canzone Hej chłopcy, bagnet na broń!,
anche Ginczanka deve la sua popolarità in particolare al suo ultimo componimento senza titolo
che inizia con le parole “non omnis moriar”. Questa lirica è il testamento della poetessa, scritta
a matita nel 1942, dopo essere stata denunciata alle autorità naziste, e pubblicata postuma nel
1946 sul numero 12 della rivista «Odrodzenie». È ispirata al poema Testament mój [Il mio
testamento, 1839-1840] di Juliusz Słowacki, anche se Ginczanka ne riformula i motivi principali.
Se nel testo słowackiano il liuto è il simbolo della poesia, nel componimento dell’autrice gli
oggetti posseduti assumono la funzione di muta testimonianza, diventano simbolo del tragico
destino sia personale sia di tutto il popolo ebraico: “Non omnis moriar, i miei possedimenti, /
Prati di tovaglie, roccaforti di armadi, / Distese di lenzuola, preziosa biancheria / E vesti, vesti
chiare mi sopravviveranno” (p. 188). Tuttavia, mentre Słowacki credeva nella forza salvifica e
demiurgica della poesia, Ginczanka reputava la parola poetica in grado di descrivere la realtà, ma
non di crearla. Nella visione poetica dell’autrice, dunque, non è la parola (ossia Dio) a creare il
mondo, ma è quest’ultimo che dà vita alla parola. Il divino permea l’universo materiale, mentre
l’individuo funge da canale di comunicazione tra la dimensione terrena e quella spirituale.
Ginczanka ricorre sì a motivi veterotestamentari e neotestamentari nei suoi componimenti,
come in Proces [Processo], Canticum Canticorum, Poznanie [La conoscenza], ma li sottopone a
radicali rielaborazioni. A dominare, soprattutto nella produzione giovanile, è una visione vicina
al neoplatonismo e al panteismo, come in Piosenka o przygodzie [Canzone sul tempo], Celowość
[Finalità], Panteistyczne [Panteistico]. Da questo punto di vista sono riconoscibili diversi elementi
di contatto con alcune liriche di Krahelska, dove è possibile scorgere motivi pagani e animistici
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PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI / (VII) 7 / 2016
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in linea con il suo interesse per i miti e le credenze popolari (si veda Cząber, Santoreggia; Olcha,
L’ontano).
Nella lirica di Ginczanka il tema del divino e della religione assumono un tono pessimistico
come nel caso del componimento Świętokradztwo [Sacrilegio, 1938], in cui emerge la ricerca
del senso ultimo delle cose in un mondo che si avvia alla sua ineluttabile catastrofe. Krahelska,
mantenendo sempre la speranza, nelle sue liriche intrise di retorica patriottica ricorre spesso alla
supplica mariana per avere un supporto spirituale e un aiuto concreto in un momento drammatico
per l’intero paese.
In Krahelska la fede cattolica è sempre legata alla tradizione e alla dimensione familiare.
Fonti d’ispirazione della poetessa sono il folclore locale e i costumi non solo nazionali, ma
anche ucraini, russi, bielorussi e soprattutto delle terre polacche di confine (i cosiddetti “Kresy”).
Krahelska, studiosa di etnografia, attinge soprattutto alle tradizioni popolari, alle leggende e alla
mitologia slava (per esempio, come la poesia dedicata al demone meridiano Południca), alle fiabe
e ai canti bielorussi e ucraini, soprattutto alle ballate e alle nenie, come nel caso di Ballada o
szaleju [La ballata sulla cicuta], Ballada o księżniczce [La ballata sulla principessa] e molti altri
componimenti.
In Ginczanka svolgono un ruolo rilevante la mitologia, la cultura e la storia greco-romane,
affiancate da un interesse giovanile per l’esotismo. La poetessa spazia dalla mitologia grecoromana, Mitologia radosna [Mitologia gioiosa], Agonia, O centaurach, Powrót [Il ritorno], alla
mitologia norrena Zygfryd [Sigfrido], dalla cultura orientale nel ciclo dedicato alla figura di Lalita al folclore russo in Żar-Ptak [L’Uccello di Fuoco]. La mitologia e il folclore nell’opera di
entrambe le poetesse, pur avendo un ruolo importante, non danno vita a un universo mitico e
complesso come nel caso di Leśmian. Questi miti vengono raccontati rispettandone la fabula
originale, anche se spesso sono sottoposti a un procedimento di reinterpretazione in cui vengono
riletti o adattati alle esigenze della realtà contemporanea per esprimere in maniera allegorica il
proprio mondo interiore e la propria identità.
Nel suo volume l’autore, svincolando l’opera dalla “biografia simbolica” delle due poetesse,
analizza in chiave comparativa la ricchezza di motivi, linguaggi e ispirazioni presenti in entrambe
le produzioni poetiche alla luce dei legami con la letteratura e la storia della Polonia del periodo
interbellico. Alessandro Amenta consegna alla comunità scientifica una monografia preziosa
sull’opera di due poetesse che, al di fuori degli addetti ai lavori, restano quasi o del tutto sconosciute
in Italia. Si tratta di un contributo critico avvincente che mette in luce convergenze e divergenze
tra le due poetiche, nonché aspetti dell’opera di Ginczanka e di Krahelska poco indagati dalla
stessa critica polacca.
Le voci poetiche di Zuzanna Ginczanka e di Krystyna Krahelska, che raccontano di una
Polonia sconvolta dal dramma della guerra e dall’occupazione, restano oggi di fondamentale
importanza non solo perché hanno assunto il valore di testimonianza storica e hanno rappresentato
un tentativo di resistenza, ma anche perché restituiscono il giusto rapporto tra le parole e il silenzio
di uno degli episodi più tragici della storia europea.
[Andrea F. De Carlo]
RECENSIONI

Stefan GrabiŃski, Il demone del moto. Racconti fantaferroviari, traduzione e
cura di Mariagrazia Pelaia, Stampa Alternativa, Viterbo 2015
Negli ultimi anni si assiste a un interesse sempre maggiore nei confronti dell’opera di Stefan
Grabiński (1887-1936) sia in patria sia all’estero. Nel 2011, in occasione del settantacinquesimo
anniversario della morte, e nel 2012, nel centoventicinquesimo anniversario della nascita, sono
uscite molte pubblicazioni dedicate allo scrittore polacco. Si tratta di studi che analizzano la
complessità e la profondità della produzione novellistica di Grabiński in chiave psicoanalitica o
addirittura parapsicologica. L’opera grabińskiana è dunque riletta secondo nuove interpretazioni
che arricchiscono e aggiornano le problematiche e le ispirazioni messe in evidenza dalla critica
precedente.
Grabiński è autore di originali racconti fantastici a sfondo metafisico, insoliti sia per l’epoca
sia per la tradizione letteraria del suo paese. Infatti, ciò che attrasse ed entusiasmò la maggior parte
dei critici letterari a lui coevi fu innanzitutto la singolarità della sua opera. L’universo grabińskiano
non solo riesce a proiettare i fantasmi dell’irrealtà in immagini reali, ma consente ai personaggi di
entrare in un altro mondo, un aldilà segreto, inquietante e oscuro.
L’amico Karol Irzykowski lo definì il “Poe polacco”, mentre Stanisław Lem lo paragonò
a Lovecraft. Tuttavia, quest’opera così complessa e originale, che la critica odierna annovera nel
genere del weird, del noir oppure semplicemente dell’orrore, è difficilmente catalogabile e ogni
accostamento risulta essere riduttivo. Ma in che cosa consiste in concreto questa unicità della
produzione grabińskiana? A detta dell’insigne critico polacco Artur Hutnikiewicz, fra l’altro il
primo a dedicare un ampio saggio allo scrittore, il carattere originale dei racconti di Grabiński
è dato da tre presupposti essenziali: la convinzione della superiorità dello spirito sulla materia;
la concezione pluralistica del mondo, ispirata alle teorie espresse in A Pluralistic Universe di
William James; il dinamismo nell’esistenza, che si concretizza nel ciclo continuo di morte e
rinascita, concetto desunto dalle speculazioni filosofiche di Eraclito, Nietzsche e Bergson. A queste
tre premesse vanno aggiunti altri interessi dell’autore quali la parapsicologia, la psicopatologia, le
scienze occulte, i miti e le leggende popolari.
La raccolta Demon ruchu [Il demone del moto, 1919] è la più famosa della sua produzione
novellistica, poiché riscosse un consenso unanime di critica e di pubblico. Nell’opinione comune
di Karol Irzykowski, Artur Hutnikiewicz, Stanisław Lem, Krzysztof Varga e Wojciech Tomasik,
Grabiński resta essenzialmente uno scrittore di racconti ferroviari. Nonostante ciò, Il demone del
moto non è solo il frutto del fascino che la tecnologia e la civiltà umana esercitano sullo scrittore
polacco, ma si tratta di testi in cui Grabiński sviluppa il tema fondamentale di una realtà parallela
diversa, altra, rispetto a quella conosciuta dall’uomo. Per tale motivo, considerare Grabiński solo
come un appassionato dei trasporti ferroviari o semplicemente etichettarlo come un autore di
letteratura fantastica impoverisce significativamente il valore della sua opera.
Irzykowski afferma che Grabiński appartiene all’ultima generazione della Giovane Polonia
(1890-1918). Un aspetto importante di questo movimento letterario è il sincretismo non solo tra
correnti e stili diversi, ma anche tra tendenze filosofiche e letterarie europee che vengono arricchite
di motivi esotici. A tutto ciò anche lo scrittore non si sottrae: dalle concezioni filosofiche delle
religioni orientali, di cui aveva subito il fascino, attinge l’elemento del dinamismo, l’incessante
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PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI / (VII) 7 / 2016
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moto evolutivo, che è il cuore di tutti i sistemi metafisici del pensiero braminico e buddista.
Grabiński scrive nel periodo in cui sono ancora vivi i motivi del modernismo, dell’espressionismo,
dell’intuizionismo di Bergson e della psicoanalisi di Freud. Gli intellettuali europei dell’epoca
riscoprono la metafisica, nonché la misteriosa e inquietante profondità del subconscio. Se nel
romanticismo l’aspetto irrazionale è solo un elemento decorativo, un mero divertissement della
fantasia oppure simbolo o allegoria, nel modernismo esso si alimenta di tutti gli esiti delle scoperte
scientifiche dell’epoca, della psichiatria e della psicopatologia, come anche della tradizione mistica.
Dall’età romantica viene ereditato anche il satanismo, i cui rappresentanti nel modernismo
polacco sono Stanisław Przybyszewski e Tadeusz Miciński. Di quest’ultimo Hutnikiewicz scrive
che era un poeta esoterico unico nel suo genere, un mistagogo e visionario, la cui erudizione
comprendeva quasi tutte le filosofie, le religioni, i sistemi occulti e teosofici di tutti i tempi
e di tutti i popoli. Przybyszewski invece rivolge la sua attenzione in particolare alla psicologia
dell’individuo, soprattutto a quegli stati di coscienza alterati in cui l’io viene meno e l’anima può
manifestarsi nella sua “nudità”. Dal misticismo egli attinge il concetto di naga dusza (anima nuda)
e lo reinterpreta in chiave psicoanalitica: liberandosi della parte “civilizzata”, l’anima esprime la sua
essenza istintuale, primigenia e universale. Al pari dei suoi contemporanei, dunque, Grabiński è
affascinato dal mondo irrazionale, e può contare su un’erudizione eclettica che include campi sia
umanistici sia scientifici, fra cui le ricerche della psicoanalisi e le nuove scoperte della fisica.
Ciò che colpisce subito della prosa grabińskiana è l’estremo realismo dell’ambientazione.
L’elemento fantastico affiora dalla quotidianità più ordinaria. La banale e indolente vita di provincia
viene turbata da eventi inspiegabili e talvolta raccapriccianti. Nel primo racconto, La zona morta
(Ballata ferroviaria), un’entità inquietante si manifesta in una stazione abbandonata e dismessa,
affidata a un controllore in pensione. Oppure come accade ne Il treno fantasma (Leggenda
ferroviaria) l’improvvisa apparizione di un misterioso convoglio ferroviario crea allarmismo
tra la popolazione. Enrico Damiani, in Novellieri slavi (De Carlo Editore, Roma 1946, p. 379),
asseriva che si tratta di “morbose possibilità di contagio d’un fenomeno di suggestione collettiva”.
Queste storie “fantaferroviarie” sembrano rivelare la potenza demoniaca e distruttiva della
macchina. Ancora strani fenomeni sono ravvisabili nella storia raccontata in Binario morto o nel
racconto che dà il titolo all’intera raccolta, Il demone del moto. L’eroe principale Tadeusz Szygoń
periodicamente viene posseduto da un’entità inspiegabile che lo spinge a viaggiare per l’Europa
a bordo di un treno. In Ultima Thule un uomo solitario ed eccentrico, che lavora in una remota
stazione di confine, ha premonizioni oniriche: in particolare una casa diroccata gli consente di
vedere affacciato alle finestre chi è in procinto di lasciare la sua esistenza terrena.
La terza edizione – mai realizzata – del Demone del moto prevedeva l’inserimento di un
altro racconto dal titolo L’engramma di Szatera (tradotto in italiano dalla versione inglese e
inserito nell’antologia Il villaggio nero. Racconti fantastici, introduzione e traduzione di Andrea
Bonazzi, presentazione di China Miéville, Edizioni Hypnos, Segrate 2012), e come epilogo La
parabola della talpa di galleria, pubblicato sulla rivista «Polonia», 141 (pp.11-12), 147 (p. 12),
154 (pp. 11-12 ), 161 (p.12) e ristampato nel 2013, a cura di Adrian Mianecki, su «Litteraria
Copernicana», 1/11, pp. 249-281. Secondo il curatore polacco, nelle intenzioni di Grabiński
questo racconto voleva essere un congedo dalla tematica ferroviaria. Secondo Pelaia, invece, si
tratterebbe piuttosto di un’agnizione: “mostra la fonte a cui attingono i suoi strani treni fantasma,
i suoi binari morti e il suo bizzarro corteo umano fantastico-ferroviario: […] Un mondo in cui
l’umano, il bestiale e il vegetale si uniscono e comunicano, cercando di difendersi dal mondo della
tecnica, della guerra, della distruzione […]” (p. 253).
RECENSIONI
Non tutti i racconti inclusi nella scelta antologica curata da Pelaia riguardano le ferrovie,
ne L’amante di Szamota è invece presente la tematica del doppio. Il protagonista è innamorato
di un’aristocratica bella e irraggiungibile, Jadwiga Kalergis, che, dopo esser sparita dalla città per
qualche tempo, ritorna in circostanze misteriose. Tra questa donna enigmatica e Jerzy Szamota
iniziano degli incontri passionali, durante i quali il protagonista si rende man mano conto che in
realtà l’amante è solo una sua proiezione, il frutto di uno sdoppiamento psicologico.
In Italia Stefan Grabiński fu scoperto e tradotto ancora in vita. I racconti Il treno fantasma
e Segnali, entrambi tratti da Demon ruchu, comparvero già nel 1928 a Torino sulle pagine de
«La Stampa», nella versione dello slavista Enrico Damiani. Nello stesso anno alcuni estratti
di questi racconti furono inclusi nel volumetto I narratori della Polonia d’oggi (Roma 1928).
Stefania Kalinowska, attiva nell’ambiente culturale italiano come traduttrice dal polacco, dopo
aver conosciuto personalmente Grabiński a Venezia, tradusse un altro racconto, La chiamata,
pubblicato nel 1929 su «La Gazzetta di Venezia» e, nello stesso anno, sul numero di ottobre
della rivista «Tutto». Da allora l’autore è rimasto pressoché dimenticato fino al 2011, quando
sulle pagine della rivista «Hypnos» vennero pubblicati i racconti L’area e Nello scompartimento,
nella traduzione di Andrea Bonazzi. L’anno successivo per le Edizioni Hypnos, sempre nella
versione dello stesso traduttore, usciva la summenzionata antologia Il villaggio nero, che
presentava sia racconti provenienti dalle raccolte Demon ruchu (quest’ultimo racconto che dà il
nome alla raccolta, assieme a L’engramma di Szatera); Szalony pątnik [Il pellegrino folle] (La
stanza grigia, Saturnin sektor, L’area); Niesamowita opowieść [Storie incredibili] (Lo sguardo,
L’amante di Szamota, A casa di Sara); Księga ognia [Il libro del fuoco] (Il bianco lemure, La
vendetta degli elementali), sia racconti singoli apparsi sulla stampa dell’epoca: Czarna wólka
(Il villaggio nero, su «Wiadomości Literackie», 28, 1924), Opowieść o grabarzu (La storia del
becchino, «Tygodnik Ilustrowany», 25-26, 1922). Con una scelta metodologica ed editoriale
decisamente inadeguata alla moderna teoria e pratica traduttologica, la traduzione italiana del
volume curato da Bonazzi era stata eseguita sull’edizione in lingua inglese: S. Grabiński, The Dark
Domain, traduzione e introduzione di Mirosław Lipiński, postfazione di Madeleine Johnson,
Dedalus, Sawtry 2004.
Assai più correttamente, la raccolta proposta da Mariagrazia Pelaia, pubblicata dalla casa
editrice Stampa Alternativa, è stata tradotta dall’originale polacco, più precisamente dal primo
dei tre volumi delle Utwory wybrane [Opere scelte] di Grabiński, curato e commentato da
Hutnikiewicz, edito da Wydawnictwo Literackie a Cracovia nel 1980. Questa antologia ci offre
racconti derivati in gran parte da Demon ruchu e quindi, oltre all’omonimo racconto, comprende:
La zona morta (Ballata ferroviaria), Una strana stazione (Fantasia futurista), Binario morto
e Ultima Thule. Inoltre, Pelaia include nella sua scelta di racconti la versione ormai obliata di
Enrico Damiani de Il treno fantasma e un frammento di Segnali. Aggiunge un racconto di
recente riscoperta, La parabola della talpa di galleria, e racconti appartenenti ad altre raccolte:
Un caso (da Namiętność [Passione], 1930) e L’amante di Szamota (da Niesamowita opowieść
[Storie incredibili], 1922).
Per la sua traduzione del titolo della raccolta di Grabiński, nella postfazione (pp. 234-270),
Pelaia spiega le ragioni per cui ha scelto di tradurre ruch con “moto” anziché “movimento” come è
in uso nelle storie della letteratura polacche e in altre edizioni italiane: la scelta è stata motivata da
una parte del fatto che si tratta “non solo di movimento terrestre di un treno in velocità, ma anche
di movimento in rapporto agli spostamenti del nostro pianeta nello spazio siderale”, dall’altra dal
fatto che sul frontespizio della seconda edizione di Demon ruchu si trova un’epigrafe tratta da
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PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI / (VII) 7 / 2016
un anonimo Tractatus de motu: “Motus est enimspiritus quidam immanens mundi”. La scelta
della traduttrice si fonda sulle osservazioni a suo tempo fatte da Hutnikiewicz nel suo famoso
saggio sull’opera di Grabiński, Twórczość literacka Stefana Grabińskiego (1887-1936) del 1959:
lo studioso affermava, riportando le parole dello scrittore stesso, che la ferrovia è una grande
metafora, simbolo dell’eterna aspirazione dell’uomo a voler imitare, pur con le sue limitazioni,
l’infinita libertà di movimento e il potente moto che muove i pianeti nel cosmo (p. 149).
Mariagrazia Pelaia vanta ormai una consolidata esperienza nel campo della traduzione non
solo dall’inglese ma anche dal polacco: in particolare, è traduttrice di una scelta di racconti di
Cyprian Kamil Norwid (Quid, Santa Marinella 1994) e di alcuni saggi di Stanisław Barańczak
comparsi su riviste scientifiche. Siamo dunque grati a Pelaia per aver finalmente consegnato al
lettore italiano non solo la prima traduzione dell’originale polacco di Demon ruchu, ma anche
una versione che conserva la musicalità cadenzata e la pregnanza lessicale distintive della prosa
grabińskiana.
[Andrea F. De Carlo]

Szymborska, la gioia di leggere. Lettori, poeti, critici, a cura di Donatella Bremer
e Giovanna Tomassucci, Pisa University Press, Pisa 2016
214
La popolarità di cui gode la poesia di Wisława Szymborska in Italia è un fenomeno senza precedenti.
In un paese come il nostro, in cui la letteratura polacca continua ad essere considerata di nicchia,
l’opera poetica della poetessa di Cracovia è stata tradotta nella sua interezza, la si può acquistare
non solo in libreria, ma anche al supermercato. È un trattamento questo che non è ancora mai
toccato a nessuno scrittore o poeta polacco. La Szymborska è citata in ogni possibile occasione, a
proposito e a sproposito, da personalità della cultura e dello spettacolo, sui suoi versi si scrivono
canzoni. In breve è diventata un fenomeno di cultura popolare. I polonisti italiani si sono trovati
impreparati ad affrontarlo. Non è una questione di snobismo, ma vera e propria preoccupazione la
nostra quando si sente parlare (come è capitato a chi scrive) di Wisława Szymborska come di una
“poetessa pop”. Purtroppo bisogna aggiungere che la popolarità della Szymborska non ha aiutato
ad uscire dall’ombra anche altri grandi poeti polacchi come Miłosz, Herbert o Różewicz, anch’essi
tradotti in italiano, eppure ristampati di rado e senza dubbio non altrettanto noti al pubblico dei
lettori italiani. È questo sicuramente un tema degno di analisi sociologica. Certamente al successo
della Szymborska hanno contribuito in parte le splendide traduzioni di Pietro Marchesani (che
cominciò a tradurla ben prima che le fosse assegnato il Nobel e ne tradusse tutte le poesie, eccezion
fatta per l’ultima raccolta postuma), ma vi ha contribuito anche il talento della poetessa polacca nel
riuscire a raggiungere la sensibilità di ogni lettore, indipendentemente dalla sua cultura letteraria,
e decisamente senza bisogno di alcuna previa conoscenza della cultura polacca.
Un altro elemento problematico della ricezione della poesia della Szymborska in Italia era
fino a poco fa la pressoché totale mancanza di qualsivoglia pubblicazione critica sulla poetessa, ad
eccezione degli articoli scientifici che però, come si sa, non escono dalla cerchia degli specialisti.
Recentemente si registrano delle novità anche in questo campo, e merita una particolare menzione
il recente Szymborska. Un alfabeto del mondo, di A. Ceccherelli, L. Marinelli e M. Piacentini
RECENSIONI
(Donzelli Editore, Roma 2016), scritto da tre grossi nomi della polonistica italiana e destinato a
rendere accessibile ad ogni lettore la poetica della poetessa di Cracovia. Più specifica è l’angolatura
proposta dalla pubblicazione che qui presentiamo, che non solo contribuisce a riempire la lacuna
di cui si diceva prima, ma offre un punto di vista diverso, quello di alcuni studiosi e noti intellettuali
non “addetti ai lavori”.
Il volume nasce originariamente come raccolta di atti del convegno tenutosi all’università
di Pisa nel febbraio del 2014. A differenza di quanto di solito accade con gli atti dei congressi, la
presente raccolta si distingue per la molteplicità di approcci al tema. Il volume è infatti suddiviso
in quattro sezioni: una traduttologica, una memoriale-istituzionale, una poetica e una critica.
La sezione traduttologica è costituita da due testi: un intervento fino ad ora inedito di Pietro
Marchesani, pronunciato in occasione di un convegno dedicato alla traduzione poetica, nel quale il
traduttore della Szymborska mette a parte l’ascoltatore (ora anche il lettore) del suo misurarsi con
la poesia apparentemente “semplice” del premio Nobel, e un saggio di Laura Novati, consulente
e custode dell’archivio Scheiwiller, che da vent’anni promuove la poesia della poetessa polacca. Il
saggio di Laura Novati è dedicato alle relazioni tra Pietro Marchesani e il primo editore italiano
della Szymborska, Vanni Scheiwiller, sposato con l’artista polacca Alina Kalczyńska. A questa
dobbiamo elegantissime edizioni di varie raccolte poetiche della poetessa.
La sezione intitolata “Ricordi e progetti” è costituita da piccole miniature memorialistiche
di due amici della poetessa, poeti a loro volta, Jarosław Mikołajewski e Ewa Lipska, e da un testo
del segretario di Szymborska, Michał Rusinek, nel quale per la prima volta viene presentata al
lettore italiano l’attività della Fondazione Wisława Szymborska, il premio di poesia che porta
il suo nome, il premio Adam Włodek, il fondo di sostegno e la borsa di studio Adam Włodek,
destinati agli scrittori e ai traduttori, nonché altri progetti organizzati dalla fondazione.
Una novità, non solo per il pubblico italiano, è la sezione, nella quale tre poeti italiani
contemporanei condividono le proprie impressioni dalla lettura della Szymborska: Anna Maria
Carpi, Paolo Febbraro e Alba Donati. Quest’ultima si pone la domanda perché la Szymborska fosse
così necessaria alla letteratura italiana, in particolare alla poesia, nella quale – secondo l’autrice del
saggio – la peculiare intonazione della sua poesia non trova corrispondenza, ad eccezione forse
della prosa di Elsa Morante che però appunto è prosa. La Donati si sofferma sulla peculiarità
dell’ironia di Szymborska, la confronta con quella di Gozzano e di Montale. Mentre però l’ironia
di Montale serviva a mettere distanza tra il poeta e la realtà, quella di Szymborska al contrario la
ricongiunge con il mondo. Forse però il più interessante tra i tre è il saggio di Paolo Febbraro che
esprime qui i propri dubbi in merito alla poesia di Szymborska. Febbraro infatti non appartiene
alla schiera dei suoi ammiratori. Al massimo nutre nei suoi confronti della stima, ma non sempre
e non incondizionatamente. Di Szymborska gli danno fastidio quel carattere illuminista della sua
poesia, il suo tratto filosofico (per la Szymborska il poeta è qualcuno che, come Socrate, ripete
senza sosta “non so”, mentre per Febbraro, al contrario, il poeta è tenuto a “sapere”, giacché “la
poesia è un’azione della lingua che crea il proprio bersaglio nel momento esatto in cui lo coglie”,
p. 78), infine la sua tanto decantata democraticità: Szymborska “garantisce al lettore la poesia
con un grande risparmio di energia” (ibidem). In altre parole gli dà fastidio la sua accessibilità. La
poesia è “troppo ampia per i cuori semplici o gli spiriti pratici […], ma anche orgogliosa e un po’
chiusa. La Szymborska dice al lettore che siamo tutti sulla stessa barca, piccoli e un po’ ridicoli”
(ibidem). Benché la parola non venga usata, si ha la netta impressione che la poesia di Szymborska
per Febbraro sia non tanto troppo semplice, quanto troppo facile.
La sezione più ricca e più preziosa del libro rimane comunque senza dubbio quella critico-
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PL.IT / RASSEGNA ITALIANA DI ARGOMENTI POLACCHI / (VII) 7 / 2016
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letteraria che da sola occupa quasi metà del volume e consta di quattro saggi.
Nel primo Alfonso Berardinelli, noto e stimato critico letterario, dal 2007 al 2009 direttore
della collana “Prosa e poesia” presso l’editore Scheiwiller, sostiene anche lui, come Alba Donati,
che la letteratura italiana avesse molto bisogno della poesia della poetessa di Cracovia. Questo
non perché alcuni suoi tratti caratteristici come “immaginazione sfrenata e occasioni di vita
quotidiana, inclinazione umoristica e perfino comica […]” mancassero del tutto ai poeti italiani,
ma, se anche c’erano, “erano isolate l’una dall’altra e quindi non si rafforzavano a vicenda” (p.
88). Berardinelli vede, caso mai, determinate analogie con la poesia di alcune poetesse italiane, da
questa constatazione non trae tuttavia conclusioni di genere, giacché paradossalmente la poesia di
queste poetesse si contraddistingue per tratti tradizionalmente attribuiti alla scrittura maschile:
“lucidità intellettuale, spregiudicatezza, coraggio, mancanza di sentimentalismo, distacco ironico,
libertà di pensiero, energia espressiva e comunicativa, indipendenza da modelli” (ibidem).
È una novità anche la proposta contenuta nel saggio di Roberto Galaverni che per la prima
volta opera un sorprendente parallelo tra la poesia di Szymborska e la poetica dell’ultimo Montale.
Mostra il ruolo della “diversione, dell’antifrasi, della tautologia, del rovesciamento”, il cozzare del
“cosmico con il quotidiano, la dimensione metafisica con l’esistenza ordinaria, l’irregolare con il
comune, la differenza con l’indifferenziato, l’individuo singolo con il grande numero” (p. 95).
Entrambi amano trarre le conclusioni da fenomeni o avvenimenti concreti, di qui in entrambi “la
predilezione per l’apologo, il raccontino filosofico a carattere dimostrativo, le clausole gnomiche,
i procedimenti epigrammatici o anaforici” (p. 96). Li unisce anche l’uso di una lingua semplice,
quotidiana, comune, non “poetica”. E tuttavia gli stessi, o quasi, procedimenti poetici servono
nei due poeti a scopi differenti. Tra i due c’è infatti una differenza di tono: la poesia di Montale
è “la poesia di qualcuno che tenta di sopravvivere, mentre il qualcuno che parla e per cui si parla
nei versi della Szymborska cerca ancora di vivere” (p. 100). Galaverni pertanto si sofferma sul
fondamento del fenomeno di qualcosa che potremmo chiamare la “positività” della Szymborska,
ciò che ne costituisce la cifra, ma che proviene anche da una decisione etica, dalla scelta di un
determinato modo di stare al mondo. Tale atteggiamento infatti non è mai dato una volta per
tutte, va bensì conquistato ogni giorno e in letteratura raggiunto tramite un ferreo controllo della
lingua poetica.
Al saggio della germanista Donatella Bremer, coredattrice del volume, sul ruolo e sulla
funzione dei nomi propri nella poesia di Szymborska, chiude il libro un vasto saggio della
redattrice principale, Giovanna Tomassucci, docente di letteratura polacca all’università di
Pisa e organizzatrice del convegno. Il saggio tratta la poetica della tautologia, ovvero per certi
aspetti il metodo filosofico di Szymborska. L’autrice del saggio prende le mosse dall’immagine
cinematografica di Chaplin che taglia con le forbici gli abiti che spuntano fuori da una valigia pigiata.
Szymborska aveva ripreso questa immagine durante il suo discorso in occasione della consegna del
premio Goethe e ne aveva fatto una metafora dello scrittore nella morsa dell’ideologia. Anche
Bertold Brecht nella sua polemica con György Lukács aveva ripreso quell’immagine. L’autrice
del saggio non sviluppa ulteriormente questo motivo, ma questo parallelo appena delineato mi
pare degno di approfondimento. Se è vero quello che scrive Tomassucci, e cioè che la poesia di
Szymborska ha “aspetti comuni con quella del poeta tedesco: l’impianto logico-raziocinante,
dal sottofondo civile, il didascalismo persuasivo, la propensione per una filosofia ironica, per
il paradosso e l’aforisma” (p. 123), proprio quel sottofondo civile, in Brecht dichiarato, ci fa
riflettere sul potenziale politico di una poesia apparentemente tanto apolitica come di solito viene
considerata quella della Szymborska. A mano a mano che proseguiamo nella lettura del saggio di
RECENSIONI
Giovanna Tomassucci, che si occupa solo di poetica, con tanta più insistenza si presenta la domanda
sulla potenziale utilità politica del “metodo” di Wisława Szymborska. La poetessa polacca infatti,
sottoponendoci con ogni componimento a un nuovo esercizio di pensiero, ci insegna a guardare
il mondo da prospettive sempre diverse, mette in discussione i cliché, ci ricolloca nel mondo.
Questo tipo di esercizio – non facciamo finta di non saperlo – non è un’attività sicura e non può
rimanere rinchiuso tra le quattro mura dello studio del critico e dello storico della letteratura. Alla
fine del libro ci costringe dunque a interrogarci se la grandissima popolarità della poetessa non sia
per caso anche un malinteso, un travisamento del potenziale sovversivo che questa poesia, come
ogni grande poesia, in sé contiene.
[Emiliano Ranocchi]
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Gli autori di questo numero
Marina Ciccarini
È professore ordinario di Lingua e Letteratura polacca presso l’Università degli Studi di Roma
“Tor Vergata”. Tra le sue pubblicazioni: Il richiamo ambivalente. Immagini del Turco nella
memorialistica polacca del Cinquecento, 1991; Żart, inność, zbawienie. Studia z literatury i
kultury polskiej [La facezia, l’alterità, la salvezza], 2008, raccolta di saggi di letteratura polacca
dal Cinquecento al Novecento; Ultimi roghi. Fede e tolleranza alla fine del Seicento. Il caso di
A. Ch. Belobockij, 2008. Ha inoltre curato il volume di liriche di Ewa Lipska, L’occhio incrinato
del tempo, 2013.
Andrea F. De Carlo
È professore a contratto di Lingua e Letteratura polacca presso l'Università degli Studi di Napoli
“L’Orientale”. Nel 2010 ha conseguito il dottorato di ricerca presso l’Università del Salento con
una tesi sulla ricezione della Divina Commedia nella Polonia del XIX secolo. I suoi ambiti di
ricerca comprendono la letteratura polacca, i rapporti culturali fra Italia e Polonia e la traduzione
poetica. Ha pubblicato vari articoli su Sienkiewicz, Kraszewski e Kapuściński e curato l’edizione
critica della traduzione polacca della Divina Commedia a opera di J. I. Kraszewski (in corso di
stampa).
Grzegorz Gazda
Professore emerito dell’Università di Łódź, teorico e storico della letteratura, comparatista e
studioso dei generi letterari, ha pubblicato vari libri dedicati al futurismo e all’avanguardia:
Futuryzm w Polsce [Il futurismo in Polonia], 1974; Awangarda – nowoczesność i tradycja
[L’avanguardia – Contemporaneità e tradizione], 1987; Słownik europejskich kierunków i grup
literackich XX wieku [Dizionario europeo delle correnti e dei gruppi letterari nel XX secolo],
2000, 2009; Słownik rodzajów i gatunków literackich [Dizionario dei generi letterari], 2006,
2012.
Paweł Graf
Docente di Teoria della letteratura e di Traduzione presso l’Istituto di Filologia Polacca
dell’Università di Poznań, si occupa di teoria della letteratura, avanguardia letteraria e storia
della scienza. È autore del libro Świat utkany z prawdy i zmyślenia. O świadomości twórczej
Andrzeja Kuśniewicza [Un mondo intessuto di verità e poesia. La coscienza creativa di Andrzej
Kuśniewicz], 2005, e di vari articoli dedicati al futurismo. Sta lavorando a una nuova monografia
sull’antropologia del futurismo polacco.
Monika Gurgul
Insegna presso il Dipartimento d’Italianistica dell’Università Jagellonica di Cracovia. Si occupa
di storia del teatro e del dramma italiano, del futurismo e della letteratura non-fiction; ha dedicato
numerose ricerche ai contatti culturali italo-polacchi. Tra i suoi libri: Teatr Dario Fo [Il teatro di
Dario Fo], 1997; Echa włoskie w prasie polskiej 1960-1939 [Echi italiani nella stampa polacca
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negli anni 1860-1939], 2006; Historia teatru i dramatu włoskiego od XIX do XXI wieku [Storia
del teatro e del dramma italiano dal XIX al XXI secolo], 2008; W drodze do gwiazd. O teatrze i
dramacie włoskiego futuryzmu [Verso le stelle. Sul teatro e sul dramma futurista italiano], 2009.
È coautrice di 5 libri nati da progetti bibliografici dedicati alle traduzioni dal polacco in italiano
dagli inizi della letteratura polacca fino ai nostri giorni, tra cui Od Dantego do Fo [Da Dante a Fo],
2007; Od Boccaccia do Eco [Da Boccaccio a Eco], 2011.
Krzysztof Jaworski
Professore presso l’Università “Jan Kochanowski” di Kielce, storico della letteratura, ha pubblicato
vari libri sul futurismo polacco e ricostruito la biografia di Bruno Jasieński, di cui molte pagine
rimanevano oscure. Ricordiamo i titoli: Bruno Jasieński w sowieckim więzieniu: aresztowanie,
wyrok, śmierć [Bruno Jasieński nelle prigioni sovietiche: l’arresto, la sentenza, la morte], 1995;
Bruno Jasieński w Paryżu (1925-1929) [Bruno Jasieński a Parigi (1925-1929)], 2003; Dandys.
Słowo o Brunonie Jasieńskim [Il dandy. A proposito di Bruno Jasieński], 2009; Kronika polskiego
futuryzmu [Cronaca del futurismo polacco], 2015.
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Barbara Minczewa
Ha conseguito il dottorato di ricerca in Slavistica nel 2016 presso la Facoltà di Lingue e Letterature
Straniere dell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, con una tesi dal titolo Il teatro della
delusione: fra paesaggi distopici e sogni utopici del teatro polacco contemporaneo. Il progetto
di ricerca è stato realizzato in collaborazione con l’Università Jagellonica di Cracovia, dove si
è laureata in teatro e drammaturgia nel 2010. I suoi interessi vertono principalmente intorno
al teatro contemporaneo, con particolare attenzione al teatro politico e alle sue varie forme di
espressione.
Emiliano Ranocchi
Ha studiato slavistica e germanistica all’università di Urbino, ha ottenuto il dottorato all’Università
di Roma “La Sapienza” con una tesi in letteratura polacca. Attualmente è Ricercatore presso
l’Università di Udine. Settecentista e mitteleuropeista si occupa da anni di Jan Potocki di cui, nel
corso di ricerche in Russia, Polonia, Ucraina e Lituania, ha ritrovato svariati manoscritti: lettere,
mémoires segreti e testi inediti. In particolare ha studiato il corpus geologico di Jan Potocki,
composto in gran parte da testi finora ignoti. Ha anche ricostruito l’incontro tra Jan Potocki,
Goethe e Herder a Karlsbad nell’estate del 1785 (Karlsbad. Estate 1785, in: Archeologia,
letteratura, collezionismo, 2008). Sta preparando per l’editore Peeters il sesto volume dell’edizione
critica delle opere di Jan Potocki. Da qualche tempo si occupa anche di modernismo, in particolare
dell’opera di uno scrittore dimenticato, Jerzy Sosnkowski.
Przemysław Strożek
Professore presso l’Istituto dell’Arte dell’Accademia delle Scienze, è specializzato nello studio
dell’avanguardia storica e del modernismo. Autore di molte pubblicazioni di rilievo internazionale,
ha scritto la prima monografia dedicata alla ricezione del futurismo italiano in Polonia
(Marinetti i futuryzm w Polsce (1909-1939). Obecność – kontakty – wydarzenia [Marinetti e
il futurismo in Polonia (1909-1939). Presenza – contatti– eventi], 2012) e un libro sul dadaismo
(Nic, to znaczy wszystko. Interpretacje niemieckiego dada [Niente, ossia tutto. Interpretazioni
del dadaismo tedesco], 2016). Attualmente si occupa del rapporto fra la cultura di massa e le
avanguardie dell’Europa centrale e orientale. Presso il Museo d’Arte di Łódź sta organizzando una
mostra su Enrico Prampolini che si terrà nel 2017.
Giovanna Tomassucci
Professore associato di Lingua e Letteratura polacca presso il Dipartimento di Letteratura,
Filologia e Linguistica dell’Università di Pisa. Ama esplorare i campi ai confini tra culture diverse,
tra cui la complessa civiltà del mondo ebraico polacco nel Novecento: la sua attività di ricerca ha
affrontato i temi della cultura di Rinascimento, Barocco e Romanticismo, della letteratura tra le
due guerre e del secondo Novecento in Polonia.
Sławomir Jacek Żurek
Professore presso l’Università Cattolica di Lublino, dirige il Centro Internazionale di Ricerche
sulla Storia e il Retaggio Culturale degli Ebrei dell’Europa Centro-Orientale. È direttore
dell’Istituto di Didattica della Letteratura, Lingua e Letteratura polacca. Fra le numerose
pubblicazioni ricordiamo: „...lotny trud półistnienia”. O motywach judaistycznych w poezji
Arnolda Słuckiego [“…l’eterea fatica della semiesistenza”. Motivi ebraici nella poesia di Arnold
Słucki], 1999; Synowie księżyca. Zapisy poetyckie Aleksandra Wata i Henryka Grynberga
w świetle tradycji i teologii żydowskiej [Figli della luna. Annotazioni poetiche di Aleksander
Wat e Henryk Grynberg alla luce della tradizione e della teologia ebraica], 2004; Z pogranicza.
Szkice o literaturze polsko-żydowskiej [Zona di frontiera. Schizzi di letteratura polacco-ebraica],
2008; Zastygłe w polszczyźnie. Szkice o świętach w poezji polsko-żydowskiej dwudziestolecia
międzywojennego [Congelati nella lingua. Schizzi sulle feste nella poesia polacco-ebraica del
ventennio interbellico, 2011; (in collaborazione con K. Famulska-Ciesielska) Literatura polska
w Izraelu [Letteratura polacca in Israele], 2012.
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