Giugno 2013 - n° 75

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Giugno 2013 - n° 75
In caso di mancato recapito restituire al mittente che si impegna a pagare la relativa tassa all'ufficio di Varese - Via S. Luigi Gonzaga, 8 -21013 GALLARATE (VA)
Spedizione: Poste Italiane SpA in abb. post. 45% art.2, comme 20/b, legge 662/96 - Autorizzazione Filiale P.T. VARESE
Giugno 2013 - n° 75
Pubblicazione Trimestrale
Gesuiti missionari italiani
Giugno 2013 - n° 75
Pubblicazione Trimestrale
Spedizione: Poste Italiane SpA - in abb. post. 45% art.2, comma 20/b, legge 662/96
Autorizzazione Filiale P.T. - VARESE
PROPRIETARIO
Casa di Procura dei Seminari delle Missioni Estere
della Provincia Veneta della Compagnia di Gesù
via Donatello, 24 - 35123 Padova
in persona di P. Alessandro Mattaini S.I. - Con Approv. Eccles.
TIRATURA DI QUESTO NUMERO
11.000 copie
Entrato in tipografia il 13 - 05 - 2013
DIRETTORE RESPONSABILE
P. Giuseppe Bellucci S.I.
Via Borgo S. Spirito, 4 - Tel. 06/689771288 - 00193 Roma
REDAZIONE
P. Davide Magni S.I.
P. Gianni Di Gennaro S.I.
Grazia Salice
Maurizio Debanne
STAMPA
Arti Grafiche Baratelli s.n.c. - via Ca’ Bianca, 32 - Busto Arsizio - VA
Autoriz. del Tribunale Civile e Penale di Milano - n. 558 del 23/12/’93
Autoriz. Dir. Prov. VARESE del 6/10/1983
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in copertina
silenzio e preghiera
monaco etiope
Editoriale
Un abbraccio tra fratelli
di P. Adolfo Nicolás S.I.
D
omenica 17 marzo, P. Adolfo Nicolás, Preposito Generale della Compagnia
di Gesù, è stato invitato a far visita a Papa Francesco.
Così racconta l’evento: “Su invito personale di Papa Francesco alle 17,30 mi
sono recato alla Casa Santa Marta, la residenza dove alloggiavano i cardinali presenti al Conclave. Lui era all’ingresso e mi ha ricevuto con il consueto abbraccio
in uso tra i gesuiti. Su sua ri chiesta sono state scattate alcune foto e alle mie scuse
per non conoscere il protocollo ha insistito che tenessi con lui l’atteggiamento che
ho con ogni altro gesuita, dandogli del “tu”, così da non preoccuparmi dei titoli di
Santità o Santo Padre.
Gli ho offerto tutte le risorse di cui dispone la Compagnia, dato che nella sua nuova
posizione avrà bisogno di consigli, idee, persone, ecc.
Mi ha mostra to la sua gratitudine e all’invito a visitarci in Curia e pranzare con noi
ha risposto che lo farà con piacere.
C’è stata piena comunione di intenti su parecchi dei temi discussi e sono convinto che
lavoreremo molto bene insieme al servizio della Chiesa in nome del Vangelo.
L’incontro è stato caratterizzato da serenità, gioia e comprensione reciproca sul
passato, il presente e il futuro.
Ho lasciato Santa Marta con la convinzione che varrà la pena collaborare pienamente con Lui nella Vigna del Signore.
Alla fine mi ha aiutato ad indossare il cappotto e mi ha accompagnato alla porta.
Là ho ricevuto un paio di saluti supplementari dalle Guardie Svizzere. Di nuovo un
abbraccio, un bel modo di incontrare e congedare un amico”.
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Indice
EDITORIALE
Un abbraccio tra fratelli - di P. Adolfo Nicolás S.I. - Preposito Generale
NOTIZIE MAGIS
Linee guida della missione del MAGIS - di P. Agide Galli S.I. - Italia
Avanzare con il passo dell’educazione, della cultura e della spiritualità
- di P. Renato Colizzi S.I. - Italia
Corso di Formazione Missiologica - di P. Davide Magni S.I. - Italia
Metodi partecip-attivi per comunicare lo sviluppo - di Ilaria Pilotti e Cristina Orfanò
- volontarie MAGIS - Servizio Civile Italia
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INTERVISTE
Importanza delle ONG come fonte primaria di informazioni a Marilisa Palumbo
- di Maurizio Debanne - Italia
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PROGETTI MAGIS
Tutti a Scuola a Bahar Dar - di P. Umberto Libralato S.I. - Etiopia
Un popolo in cammino - di P. Umberto Libralato S.I. - Etiopia
Luci e ombre sul Cristianesimo in Etiopia - di Grazia Salice - Etiopia
Prevenire è meglio che curare ... l’impegno del MAGIS a Endaselassie
- di Maurizio Debanne - Etiopia
Acqua pulita ... odor di cioccolato - Volontari Gruppo SAM Palermo - Madagascar
Un pic nic fuori programma - di Carmelina Ingrao - Madagascar
TESTIMONIANZE
Pace per questo paese - di P. Dorino Livraghi S.I. - Repubblica Centrafricana
Per amore della nostra patria - di mons. Dieudonné Nzapalainga - RCA
Piccola cattedrale per un grande fabbro - di P. Franco Martellozzo S.I. - Ciad
Al punto di partenza dopo il giro dell’oca - di P. Franco Martellozzo S.I. - Ciad
Dalle piccole sementi di Morros e di Marabá al grande Brasile - di P. Gigi Muraro S.I.
- Brasile
Acqua, aria, terra e fuoco - di Grazia Salice - Amazzonia
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INSERZIONI
Il tuo lascito al MAGIS
Bomboniere solidali
Anche con poco puoi fare molto
Celebrazioni S. Messe per i defunti
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LE SEDI DEL MAGIS - Elenco e Indirizzi
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Italia
Linee guida della
missione del MAGIS
di P. Agide Galli S.I. Presidente MAGIS
L
a rapida evoluzione delle relazioni culturali e finanziarie tra i paesi al
Nord e al Sud del mondo, come pure il cambiamento delle mentalità in
seno alle popolazioni, hanno indotto il MAGIS a intraprendere un’evoluzione dell’espressione missionaria della Provincia d’Italia, alla ricerca di un
adeguamento alle nuove realtà. Al punto attuale della sua evoluzione, il
MAGIS si orienta verso una proposta di collaborazione con opere della nostre provincie africane, di preferenza nel campo della formazione dei giovani. Più particolarmente, il MAGIS intende privilegiare una collaborazione
nel campo specifico di una formazione che prepari i giovani che frequentano
le nostre opere (collegi, scuole professionali, centri sociali e culturali) ad entrare nella società per testimoniare più tardi nella loro vita professionale i
valori del rispetto del bene comune e del servizio del loro paese, ispirandosi alla fede cristiana.
In quanto espressione dello spirito missionario della provincia d’Italia,
il MAGIS si prefigge lo scopo di partecipare alla promozione di attività apostoliche che rispondano alle priorità tradizionali della Compagnia, attraverso
la realizzazione di progetti che si ispirino alle caratteristiche della spiritualità
ignaziana. Noi pensiamo che lo spirito missionario si dovrebbe esprimere oggi per mezzo di una collaborazione piuttosto che attraverso
un’assistenza a senso unico. Davanti alla costatazione della carenza nelle
nostre società, in Africa come pure in Europa, di uomini e di donne che nell’esercizio delle responsabilità pubbliche e professionali si ispirino alla fede
cristiana, il MAGIS si propone di orientare il sostegno finanziario che sarà necessario, verso la realizzazione di programmi specifici di formazione alla
leadership ispirati alla spiritualità ignaziana. Si tratterebbe di proporre a dei
giovani, su loro libera adesione, di accettare di impegnarsi a intraprendere
un programma di formazione non di carattere accademico ma che proporrebbe una formazione teorica di buon livello in parallelo con un accompagnamento spirituale (individuale e di gruppo) come pure delle esperienze
apostoliche, per suscitare in loro una sensibilità alle ingiustizie presenti nella
società. Questi percorsi di formazione avrebbero una durate di due o tre
anni e potrebbero far sorgere delle vocazioni religiose (perché no?), ma soprattutto delle vocazioni al bene comune e al servizio della società.
Un’esperienza di questo tipo è stata fatta a Lomé quando è stata avviata
l’attività del Centre Culturel Loyola sotto la guida di Jean-Luc Enyegué
ed è continuata con coloro che a lui si sono avvicendati. In dieci anni, i risultati sono stati buoni: sette giovani sono entrati in Compagnia (il primo è
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Jean Paul Savi S.I. e Guy Savi S.I. con la madre e il fratello maggiore, il giorno della
loro ordinazione diaconale al Teologato ITCJ di Abidjan – Costa d’Avorio
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stato Nicolas ECLU, ucciso a Kimwenza) mentre altri hanno intrapreso gli
studi universitari dopo un discernimento sulla testimonianza cristiana alla
quale più tardi saranno chiamati nella loro vita professionale. Attività importante del percorso sono stati i campi estivi rivolti alla formazione culturale,
a un’esperienza di vita comunitaria e ad una dimensione ludica.
È una pista di ricerca che potrebbe favorire, nelle nostre comunità cristiane, la
nascita di una tradizione, una cultura della solidarietà e una disponibilità ad assumere delle responsabilità nella gestione della cosa pubblica.
Questi programmi dovrebbero tener conto di un’esigenza propria alla pedagogia ignaziana: l’alternanza tra l’insegnamento e l’azione sociale e apostolica, con lo scopo di formare i giovani alla responsabilità civile. S. Ignazio
ha voluto dei collegi che fossero capaci di formare giovani che potessero e
volessero partecipare con intelligenza e efficacia al bene della società, giovani capaci di fare della loro azione e del loro impegno una decisione nel
senso del “magis”, di un migliore servizio di Dio, dei fratelli e delle sorelle; dei servitori che sappiano amare non a parole ma con dei fatti.
Nello stesso tempo, un tale orientamento, potrebbe contribuire a mettere
meglio in evidenza lo scopo ultimo delle istituzioni di formazione della
Compagnia. L’eccellenza accademica è certo un aspetto di primaria importanza nelle nostre istituzioni, ma essa deve essere in funzione di altri aspetti
della formazione integrale da impartire ai giovani, perché diventino, come
ce lo ha insegnato P. Arrupe, uomini e donne capaci di “servire” secondo
l’insegnamento del Vangelo o, secondo un’altra sua espressione, “uomini
e donne per gli altri”. Questo modo di collaborare con le nostre istituzioni
di formazione in Africa potrebbe porre le condizioni favorevoli a degli incontri tra giovani africani e italiani, interessati alle stesse problematiche. Sarebbe compito del MAGIS proporre questo tipo di incontri interculturali,
offrendo l’opportunità di un approfondimento della dottrina sociale della
Chiesa e creando nello stesso tempo dei legami interpersonali che favoriscano il superamento dei pregiudizi reciproci esistenti.
Italia
Avanzare con il passo della cultura,
dell’educazione e della spiritualità
di P. Renato Colizzi S.I.
L
’ Africa che ho visto in questo viaggio di 13 giorni in quattro paesi è un
continente diverso da quello che avevo lasciato cinque anni fa. All’epoca, quando finivo il mio periodo di formazione in Ciad (P. Renato
ha vissuto i due anni del suo magistero come medico all’ospedale del Buon
Samaritano fondato da P. Angelo Gherardi S.I., ndr.) si parlava già del petrolio e si potevano anche vedere i primi timidi cambiamenti che questo
avrebbe innescato nell’economia africana. Questa volta, però, entrando in
Togo per la strada che attraversa il confine con il Benin e che porta fino al
Ghana, mi sono reso conto del passo accelerato con cui l’Africa si sta muovendo. Certo, come un’onda che trascina via dalla riva ogni sorta di oggetto che riposa sulla spiaggia, è un movimento caotico che porta con sé
persone, famiglie, quartieri: tutto si sposta al ritmo di un commercio vivo,
ma ingiusto e disordinato. La città, ci diceva padre Bernard, sta aumentando ogni anno di nuove abitazioni, mentre si aprono cantieri a basso costo
per allargare strade o per scavare fondazioni per nuovi ponti, al ritmo di
operai cinesi e africani che parlano lingue diverse, ma che si intendono sulla
enormità del lavoro che questo continente, strabordante di ricchezze minerarie, dona loro. L’Africa che ho visto assomiglia ad un cantiere rumoroso e
polveroso che continua ostinato il suo lavoro di trasformazione della terra
rossa, nonostante il caldo, le malattie, le povertà e la corruzione; tutte que-
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Yaoundé-Campus di nkolbisson: P. Renato in compagnia di Zozo Nkoulou Nkoulou,
Professore del Master in gestione delle risorse umane dell'Università Cattolica
dell'Africa Centrale in Camerun con alcuni studenti
ste cose prese e mescolate insieme diventano il nuovo amalgama di un cemento che vuole seppellire la brousse e lasciarsi alle spalle, come un ricordo
scomodo e imbarazzante, l’Africa rurale, quella che cammina a piedi per
chilometri e che non conosce l’asfalto liscio su cui ora il nostro taxi con aria
condizionata sta correndo, mentre approdiamo al grand marchè della capitale. Eppure l’Africa rurale, quella del villaggio e della brousse, è iscritta nel
DNA di questo continente, ed è lì che l’africano ritrova le sue origini anche
se non per forza il suo avvenire. Questa Africa è quella che ho potuto vedere
per le 22 ore di bus (questa volta senza aria condizionata) che dall’oceano
ti portano a Ouagadougou, la capitale di un paese piantato al centro dell’Africa Occidentale e molto più povero e arido di quelli della costa.
È nata in me l’idea chiara che su questo contrasto fra brousse e asfalto, su
questa tensione fra radici e futuro, fra terra dei padri e immigrazione selvaggia si giocherà la felicità di questo continente. Sulla strada tesa fra passato
e presente i gesuiti in Africa vogliono avanzare con il passo dell’educazione, della cultura e della spiritualità. La convinzione sta in questo: che
l’uomo ha energie interiori che possono fermare quel gigantesco processo
per cui l’uomo finisce per essere l’appendice di una betoniera cinese o la
formica che affoga nel mare nero del petrolio che cola a fiumi dalla Nigeria.
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Sono tornato in Italia e ora ho voglia di lavorare, di parlare, di insistere e
di convincere: se le nostre mani restano forti, gli occhi aperti e i nostri
cuori attenti si può fare molto. Non prende sonno il custode d’Israele.
Italia
Corso di Formazione Missiologica
di P. Davide Magni S.I.
L
o scorso 11 maggio, grazie all’ospitalità della Fondazione San Fedele, ha preso il via a Milano l’annunciato Corso di Formazione Missiologica, rivolto a giovani – adulti residenti in Lombardia e orientati a
prestare un servizio di volontariato.
In questo primo incontro, abbiamo presentato l’attività del MAGIS Italia,
soffermandoci in particolare sulle iniziative che più coinvolgono i giovani.
Tra queste, la più significativa è sicuramente la briosa e creativa realtà della
Compagnia del Perù.
Accanto a questa sezione “narrativa”, c’è stato anche un tempo più specificamente accademico, proposto dall’intervento di chi scrive.
L’argomento sul quale ci siamo intrattenuti è la teologia della missione.
Sebbene sia ben noto, non è superfluo ribadire che la teologia e la teologia della missione in particolare, non sono argomenti puramente teorici:
essi, infatti, riguardano la pratica concreta della via della Chiesa.
«Missione» infatti, è la parola che indica quello che da sempre la Chiesa fa:
annunciare la Buona Notizia, ovvero il Vangelo.
La riflessione missiologica, allora, è lo studio che il cristiano compie per
fare incontrare il Vangelo con le culture e le religioni, perché la fede può essere vissuta solo donandola.
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Nella tradizione della Compagnia di Gesù il servizio della fede e la promozione della giustizia costituiscono una sola e indivisibile missione: essi
non possono essere separati, ma devono essere il fattore integrante di tutte
le nostre attività. Tuttavia, la fede che promuove la giustizia è, inseparabilmente, la fede che impegna al dialogo con le altre tradizioni e la fede che
evangelizza le culture.
Così, l’azione missionaria si articola in tre dimensioni: la promozione della
giustizia, l’inculturazione del Vangelo e il dialogo interreligioso. Questa
azione può essere altrimenti detta nei termini di Diakonìa (Servizio), Koinonìa (Comunione) e Martyrìa (Testimonianza). È su queste tre dimensioni che
si articola questo Corso di formazione che offriamo.
Diakonìa
Il nostro impegno per la giustizia s ociale e per lo sviluppo umano deve concentrarsi sulla trasformazione dei valori culturali che sorreggono un ordine
sociale ingiusto e oppressivo. Avere l’audacia di elaborare cammini di giustizia al servizio dell’uomo è il compito del credente. Ovunque, anche in
Italia, basta aprire gli occhi e guardare.
Koinonìa
La Chiesa deve essere luogo e strumento di riconciliazione fra i popoli. Ciò
deve partire dalle loro culture e valori, spesso basati su una ricca e fruttuosa tradizione. È indispensabile una nuova e costante inculturazione della
fede, affinché il messaggio del Vangelo giunga all’uomo contemporaneo
con le sue variegate forme odierne di cultura. La globalizzazione reale rende
il mondo una sola famiglia; le categorie di missione, terzo mondo, oriente
e occidente sono ormai inadeguate ad esprimere la situazione attuale.
Martyrìa
È necessario che entriamo in relazione positiva con i credenti di altre religioni, perché essi sono i nostri prossimi. Il dialogo interreligioso non è una
possibilità, ma un’inesorabile via dell’annuncio evangelico.
Evangelizzare, allora può essere detto attraverso i due verbi della Vocazione:
lasciare la propria terra per entrare laddove Dio invia. Entrare, nel senso
di instradarsi (eís-odos dice la Bibbia): essere compagni di cammino che
condividono la vita delle persone, alle quali si testimonia il Vangelo. Ma,
per poter davvero entrare nella vita e nella cultura altrui, occorre estradarsi
(ex-odos) dal proprio mondo. È quello che ogni missionario fa, seppur secondo tanti stili e modalità diverse.
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Tra i tanti esempi possibili, data anche l’esperienza personale di chi scrive,
la proposta è stata quella della evangelizzazione in Cina.
La figura di Matteo Ricci (1552-1610) invita a riflettere sullo stile missionario ovvero sulla modalità dell’annuncio del Vangelo.
Primo fra tutti, egli interpretò con intelligenza e umiltà la via dell’inculturazione. Imparò ed insegnò a riconoscere le potenzialità intrinseche ad ogni
civiltà umana e così valorizzare ogni el emento di bene che vi si trova, senza
perdere nulla ma, al contrario, portare tutto a compimento.
Tale atteggiamento fu subito apprezzato dai cinesi stessi con i quali il missionario gesuita entrò in profondissima comunione, al punto da divenire
l’occidentale degno di venerazione e rispetto sempre elevatissimo.
Egli non fu preoccupato principalmente di predicare, ma di incarnare
il Vangelo, entrando in relazione con il popolo cinese, perché, da questa
relazione amicale, potesse germogliare il seme dell’annuncio. La consapevolezza di avere degli interlocutori riconosciuti nella loro specifica dignità rimuove l’arroganza che considera l’altro un sotto sviluppato da far evolvere
e «civilizzare». Studiare, conoscere, amare la cultura altrui, per valorizzarla
e salvaguardarla è un indispensabile impegno quotidiano.
Ebbene, come abbiamo già scritto sul numero di dicembre, oggi, a Macau,
dove Matteo Ricci arrivò nel 1582, la sua opera prosegue: proprio nelle tre
articolazioni sopra illustrate.
La medesima comunità dei gesuiti, infatti, è impegnata in due istituzioni
che portano lo stesso nome del missionario italiano.
Si tratta del prestigioso Macau Ricci Institute: un’istituzione nata con l'intento di sviluppare una più ampia comprensione del dialogo fra l'Oriente ed
l'Occidente attraverso lo studio e la divulgazione scientifica dei testi della
cultura cinese. Ma, accanto, ha Casa Ricci Social Service, un’organizzazione di servizi sociali dei gesuiti: fondata dal compianto Padre Luis Ruiz
Suarez nel 1951 - morto nel 2011 all’età di 97 anni - che ha dedicato l’intera sua vita ai poveri in Macao e nella Cina continentale. Proprio in questa
figura di apostolo umile e tenace crediamo di trovare un esempio entusiasmante per tutti: giovani e non.
IL TUO LASCITO AL MAGIS
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Italia
Metodi partecip-attivi
per comunicare lo sviluppo
Ilaria Pitotti e Cristina Orfanò - volontarie MAGIS - Servizio Civile Italia
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el corso dell’anno scolastico 2012/2013 il MAGIS ha collaborato
con l’Istituto Massimiliano Massimo di Roma ad un percorso didattico di Educazione allo Sviluppo. Obiettivo del progetto “Metodi
partecip-attivi per comunicare lo sviluppo” è stato quello di promuovere
una coscienza critica nei ragazzi su tematiche di attualità, affrontando temi
che riguardano i rapporti socio-economici tra Nord e Sud del mondo, il
concetto di sviluppo e sottosviluppo, le azioni dell’ONU per lo sviluppo, la
globalizzazione e le multinazionali, lo sviluppo sostenibile, il consumo critico e il commercio equo e solidale. Per lo svolgimento del percorso, che
ha coinvolto tre classi del biennio, sono state scelte tecniche didattiche innovative ed interattive per rendere i ragazzi protagonisti del processo di
apprendimento.
Attraverso attività di dinamica di gruppo, è stato possibile provocare la loro
creatività, curiosità, sostenendoli nell’elaborare riflessioni critiche e autonome sulla realtà che li circonda. La nostra “sfida” iniziale di renderli partecipi e consapevoli del loro posto/responsabilità nel mondo e dell’importanza
delle proprie azioni si è concretizzata. In particolare, grazie ad un gioco
educativo sul tema del commercio equo e solidale, abbiamo riscontrato
lo stupore per la scoperta di un sistema socio-economico a loro in parte
sconosciuto e, di conseguenza, il loro entusiasmo a partecipare attivamente
per modificare le situazioni di ingiustizia. Le reazioni positive dei ragazzi
hanno confermato il valore e l’importanza del nostro lavoro; una consapevolezza che ci ha permesso di migliorare, dandoci la giusta grinta per continuare nella direzione intrapresa, sicure che le nostre azioni possano avere
seguito grazie alla sensibilità delle nuove generazioni.
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I giorni
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ivere. Scegli
Scegli le
le bomboniere
bomboniere del
del MAGIS
MAGIS per
per
mondo
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esteggiare ilil tuo
tuo matrimonio,
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la comunione,
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Interviste
Italia
Importanza delle ONG come
fonte primaria di informazioni
intervista a Marilisa Palumbo
Quando a sei anni sognava di fare la giornalista, Marilisa Palumbo
pensava che avrebbe girato il mondo. La valigia sotto la sua scrivania
nella redazione esteri del Corriere della Sera è pronta, nonostante il
giornalismo di esteri subisca maggiormente il progressivo ridursi delle
risorse a disposizione delle redazioni.
Classe 1979, “Obamologa” per passione, Palumbo ha scritto, con
Guido Moltedo, il primo libro italiano su Barack Obama. Non è, però,
di Stati Uniti che vogliamo parlare con lei, bensì dell’importanza che
stanno assumendo come fonte primaria le ONG. «Soprattutto in contesti e regioni del mondo dove la presenza dei giornalisti (occidentali), già “leggera”, è ormai quasi inesistente».
Oggi il caso più lampante è la Siria.
Da quando la rivolta contro Assad si è trasformata in una vera e propria
guerra civile, è diventato quasi impossibile per i giornalisti entrare in Siria.
Qualcuno l'ha fatto coi visti del regime, condizione altamente limitante della
libertà di muoversi e raccontare. Altri, pochi, sono riusciti a entrare dalla Turchia assieme ai ribelli, ma sempre per periodi di tempo relativamente limitati.
E allora da dove vengono i numeri dei morti e dei feriti, i racconti di
quello che accade nelle città?
Molti, moltissimi articoli e lanci di agenzia citano l'Osservatorio siriano
per i diritti umani. La più importante, o quantomeno più visibile, organizzazione per i diritti umani siriana che sta a Coventry, nella casa di Rami Abdulrahman, a pochi minuti dal suo negozio di vestiti. Rami, un attivista che
è stato in prigione tre volte prima di scappare in Inghilterra 12 anni fa, si è
costruito un network di contatti che conta centinaia di persone sul terreno
e resiste, con fatica ma con determinazione, ai tentativi di diffondere disinformazione da parte degli agenti del regime o di gruppi d'opposizione rivali.
Un lavoro titanico, un lavoro da giornalisti, a cui i giornalisti di tutto il mondo
in questi mesi hanno abbondantemente attinto.
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Un tempo erano le ONG a chiedere informazioni ai giornalisti.
Non è più così. Vale oggi per la Siria, quanto tre anni fa per Haiti. Quando
il terremoto del 12 gennaio 2010 distrusse gran parte dell'isola, c'era solo
un corrispondente straniero sul posto, ma moltissimi operatori umanitari.
I disastri naturali conquistano l’attenzione dei media, ma le ultime elezioni in Kenya poco o niente. Perché?
Vogliamo parlare allora della Somalia o del Darfur?
Quanto ne abbiamo sentito parlare negli ultimi anni?
La tendenza dei media, in particolar modo italiani (per ragioni anche storiche: la mancanza di un lungo passato coloniale) a trascurare molte zone del
mondo, Africa in testa, è stato aggravato dalla crisi dell'editoria che ha investito i media negli ultimi 10-15 anni.
Le ONG sanno dunque di avere una potenza di fuoco sul terreno che i
media, a corto di fondi, possono solo sognare, e naturalmente tentano di
usare al meglio questa condizione per avanzare la loro agenda. A volte però
sono le stesse ONG a piegarsi ai criteri di notiziabilità per le storie dal Suddel mondo.
Puoi fare un esempio?
Niente attrae l'attenzione dei media come una foto drammatica, un numero
per la conta dei morti o la notizia glamour come il personaggio famoso di
turno in visita a un campo profughi. Detto questo, nell'Africa dimenticata
dai media, centinaia di milioni di persone hanno comprato un telefonino
negli ultimi dieci anni, centinaia di milioni di persone sono pronte a inviare
la loro testimonianza. Ai mezzi di informazione, ma anche alle ONG.
Un altro aspetto del cambiamento è che quella che era una delle funzioni
fondamentali delle Ong: fornire delle foto o dei "cas e studies" ai media,
può essere oggi assolta direttamente dai protagonisti.
di Maurizio Debanne
Il nostro lavoro ci dà la possibilità
di rispondere agli appelli di tante comunità,
di intervenire nelle emergenze per portare aiuti,
ma è la generosità dei nostri donatori
che ci dà lo stimolo ad andare avanti
e cercare di fare sempre di più e meglio.
Anche con poco, puoi fare molto…
Con 17 euro al mese adotti a distanza un/a bambino/a
Con 50 euro partecipi alla costruzione di un pozzo
Con 100 sostieni l’acquisto di una cucina solare
Con 150 euro contribuisci alla formazione di giovani in Africa
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Progetti
Etiopia
Tutti a scuola a Bahar Dar
L
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a superficie (1.127.127 km²) dell’Etiopia occupa gran parte delle alteterre comprese tra l'Eritrea e la depressione nilotica, con una popolazione di 77.127.000 ab. (stima 2007): ortodossi 50,3%, musulmani
32,9%, altri cristiani 10,8%, animisti/credenze tradizionali 4,8%, altri 1,2%.
L’indice di sviluppo umano è 0,406 (169° posto). Addis Abeba è la capitale
dello Stato che confina con l’Eritrea (N), Gibuti (NE), Somalia (E/SE), Kenya
(S), Sudan (O). L'attuale territorio dell'Etiopia corrisponde sostanzialmente
a quello dei regni, formatisi fin dai primi secoli d. C. e mantenutisi indipendenti, anche a prezzo di qualche concessione territoriale, un caso quasi
unico in Africa, dove gli Stati attuali sono per lo più sorti in seguito all'espansionismo arabo e ad artificiali suddivisioni colonia li.
L'Etiopia è, infatti, l'unico Paese africano riuscito a resistere alla colonizzazione ed ha svolto un ruolo di rilievo nella regione, sviluppando una tradizione politica e culturale propria. È riuscita a conservare la propria identità
grazie a due fattori: il cristianesimo monofisita, fattore legante le varie genti
abitanti l'altopiano, e le condizioni naturali del territorio, simile a un unico
grande bastione difensivo. È una Repubblica democratica dal 1975. In base
alla Costituzione del 1994 il Paese è una Repubblica democratica federale, Stato membro dell’ONU e dell’UA, associato all’UE.
Ethiopia
L'istruzione in Etiopia è
gratuita, in tutti i suoi
cicli e obbligatoria dai
7 ai 13 anni di età.
L'educazione secondaria inizia a 13 anni e
dura per un periodo di
6, diviso in un primo
ciclo di 2 anni, con funzione propedeutica, e
in un secondo di 4, che
può avere indirizzo
classico, commerciale,
tecnico o agricolo.
International boundar
International
boundaryy
National capital
Railroad
Road
Tr
rack
Track
0
0
150 Kilometers
50 100 150
50
100
150 Miles
Nel 2005 la percentuale di analfabeti era
molto alta (54,8%). Gli
studi superiori vengono svolti nell'Università di Addis Abeba, in
quella di Diredaua e in
altri istituti privati.
Il panorama economico del Paese risulta
precario in seguito alla
prolungata situazione
di conflittualità con Eritrea e Somalia.
I problemi fondamentali del Paese sono la carenza di adeguate vie di comunicazione, una forte disparità economica fra i 9 Stati in cui il Paese è
diviso, le difficili condizioni delle popolazioni rurali, le cicliche gravi carestie e l'AIDS. Le frequenti ondate di siccità rendono difficili i progressi nel
settore agricolo, troppo soggetto alla fluttuazione dei prezzi di una monocultura: il caffè.
Grazie ai vasti e cospicui aiuti internazionali, il Paese ha provato a investire nelle infrastrutture, nella sanità, nell'istruzione e nel comparto energetico: le possibilità oggettive del Paese sono notevoli, disponendo di
condizioni naturali favorevoli, con ambienti diversi, che permettono forme
varie di sfruttamento del suolo. L'economia dell'Etiopia è basata sull'agricoltura che occupa circa un 80% della popolazione attiva e contribuisce
per il 43% alla produzione del PIL (2006).
Bahar Dar, città dell'Etiopia nordorientale, è posta sulla sponda meridionale del Lago Tana, sorgente del Nilo Azzurro, a circa 318 km da
Addis Abeba. Bahar Dar si è formata attorno ad una missione gesuita
fondata all’inizio del XVII secolo, data dell'edificio costruito da P.
Pedro Páez S.I.
17
GLI ATTORI DEL PROGETTO
La Diocesi Cattolica di Bahar Dar nella persona del Vescovo, Lesane Christos Matheos.
La Provincia dei Gesuiti dell’Africa Orientale nella persona del Padre
Prov. Orobator Emmanuel
La Comunità dei Gesuiti di Addis Abeba nella persona del Superiore locale P. Groum Tesfaye e di P. Atekelt Tesfay, Gesuita etiope, attuale incaricato locale del progetto.
Fondazione MAGIS, nella persona di P. Umberto Libralato, incaricato e
coordinatore del progetto, e della signora Carla Grossoni, responsabile
della Fondazione MAGIS per i progetti di cooperazione
Una Fondazione privata danese che si è assunta l’onere della costruzione
di parte degli edifici scolastici
18
LA GENESI
Il governo etiope, cosciente dell’urgenza educativa dei propri cittadini e cosciente della fragilità e impossibilità di offrire a tutti i giovani l’accesso all’insegnamento, ha offerto alla Chiesa cattolica, nella persona del Vescovo,
un terreno di circa cinque ettari, con il vincolo di costruire un complesso
scolastico per la scuola materna, la scuola elementare (primo e secondo
ciclo), la scuola media, la scuola superiore. Il Vescovo ha accettato e ha avviato i primi contatti con i Gesuiti, nella convinzione che, a suo avviso, solo
la Compagnia fosse in grado di assumere la direzione e la conduzione della
scuola. Dopo due anni di incontri, confronti, scambi di pareri, e quanto è
stato possibile valutare, la situazione di fatto, alla data del 21 febbraio 2013,
può essere così riassunta. La Fondazione privata danese ha terminato la
costruzione della scuola materna e l’ha consegnata provvisoriamente alla
Diocesi, che ha provveduto, nel frattempo, alla regolare apertura con l’aiuto
di una équipe di insegnanti del gruppo Montessori.
La medesima Fondazione, assicurata dal vescovo che i Gesuiti avrebbero
partecipato alla costruzione e si sarebbero fatti carico della gestione, ha
iniziato la costruzione del terzo plesso scolastico. I lavori di costruzione
sono stati interrotti in attesa di un segno concreto di partecipazione ai lavori. La diocesi ha deciso di propria iniziativa di iniziare i lavori del secondo
plesso, affidato ai Gesuiti, e ha incaricato una ditta del posto a iniziare lo
scavo e le fondamenta. Il gesto di buona volontà, accompagnato dalla visita di p. Umberto, ha incoraggiato la ripresa dei lavori del terzo plesso e,
allo stato attuale, tale costruzione già al tetto, si avvia ad una rapida conclusione.
P. Emmanuel Orobator, con la sua consulta, ha deciso di assumere la
nuova opera di Bahar Dar come impegno della Provincia, destinando alcuni gesuiti (saranno almeno tre), quando la costruzione sarà completata.
Attualmente P. Tesfay Atekelt sta curando l’avvio dell’opera. Ufficialmente
fa parte della comunità di Addis Abeba, ma sta vivendo a Bahar Dar e prendendo contatto con i problemi della nuova opera. È compito del Padre Provinciale predisporre la casa della comunità che accoglierà i Gesuiti e i loro
diretti collaboratori, ed erigere canonicamente una nuova comunità locale.
Il Vescovo, nel frattempo, in attesa che la Compagnia costruisca la casa
della comunità, necessariamente vicino alla scuola, ha affittato una casa di
lavori in corso... verificati dal Vescovo,
Mons. Lesane Christos Matheos,
e da p. Umberto Libralato S.I.
19
l’edificio sullo sfondo è la scuola che ospiterà questi bambini
al centro, in piedi, P. Groum Tesfaye S.I.
proprietà dei Padri Lazzaristi. La casa, che ho personalmente visitato, sarà
adibita a ufficio per la Curia e al piano superiore ci saranno tre stanze, con
relativi servizi, destinati ai padri gesuiti e inoltre ci sarà l’abitazione temporanea anche del Vescovo. L’edificio ha necessità di essere un po’ rimodernato, ma, nel complesso, è stato da tutti giudicato idoneo allo scopo e
dignitoso per tutti. Nella mia visita - scrive P. Libralato - ho potuto verificare
di persona e constatare la grande attesa da parte di tutti di veder proseguire
e completare l’opera intrapresa. Il progetto esecutivo della costruzione è
sostanzialmente pronto. È stato ideato dall’Arch. Salvatore Baldi, che vive
periodicamente ad Addis Abeba, a suo tempo incaricato dal Vescovo a
predisporre il progetto. Ho personalmente preso contatto con due imprese
locali che hanno già lavorato per progetti finanziati da altre organizzazioni
straniere e ho visitato le opere finite per rendermi conto dello stile del lavoro
e del risultato.
L’impressione è stata positiva per entrambi, ma alla fine mi sono orientato
in particolare ad una, rappresentata dal sig. Giovanni Giordano, un italoetiope, nato e cresciuto ad Addis Abeba, da me incaricato di predisporre,
a stretto contatto con l’Architetto, il disegno esecutivo definitivo, perché
insieme abbiamo constatato alcune inesattezze e irregolarità per la sicurezza degli alunni, nel rispetto della legge locale. Al termine di tutte queste
verifiche la ditta Giordano presenterà un preventivo delle opere da realizzare. In base al preventivo sarà stilato un regolare contratto che prev ede
tempi e modi di realizzazione dell’edificio scolastico. Faccio presente che
il piano finanziario, a tutt’oggi, è ricco di promesse e di attese. Vivo nell’impegno quotidiano di contatto e sensibilizzazione di amici e benefattori che
con noi condividono l’ansia di veder realizzato questo nuovo progetto.
Chiedo sostegno e condivisione degli impegni.
20
di P. Umberto Libralato S.I.
Un popolo in cammino
di P. Umberto Libralato S.I.
D
opo tre viaggi in Etiopia e dopo aver percorso seimila chilometri con
un fuoristrada verso i quattro punti cardinali del paese, credo di poter
davvero dire di aver visto un popolo in cammino.
Ho visto, all’alba di ogni giorno, migliaia e migliaia di studenti che si muovevano, quasi a passo di danza, verso i centri abitati per raggiungere gli
edifici scolastici: una marea sconfinata di divise multicolori, per tutte le età,
affrettarsi verso la festa del conoscere e la gioia dell’apprendere.
Queste immagini ti accompagnano alle prime luci dell’alba, a mezzogiorno,
al cadere della giornata…
Poi, credi di lasciare i centri abitati, di poterti inerpicare nel deserto su nell’altopiano, ma ai bordi delle strade ti fa scorta una processione di giovani,
di adulti, di vecchi che camminano a passo lesto e vanno, vanno: non capisci dove, ma leggi nel loro andare un obiettivo e incroci cantieri di tutti i
tipi dove attorno pullula un alveare di persone che lavorano: la popolazione
è numerosa, mancano abitazioni, manca l’energia elettrica, manca l’acqua
per le case e per i terreni da coltivare.
E fino a quando il sole regala la sua luce percepisci che un’energia misteriosa mette in movimento tutte quest e persone. Arriva il buio e rallenta i
ritmi, raduna le famiglie, i villaggi, le città… la vita si fa comunità che racconta il proprio giorno e poi scompare nel buio della notte per un silenzio
di mistero, per dare vita ad un buio che ti permette di scoprire l’infinità delle
stelle e del mistero che ci circonda.
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all’ombra del grande albero l’edificio già ultimato della scuola dell’infanzia
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In questo mondo all’inizio del milleseicento sono arrivati per la prima volta
anche i gesuiti: i religiosi delle “Missioni impossibili”. Convinti di trovare
degli infedeli da convertire o degli eretici destinati alla perdizione, ma forse
anche piuttosto ignari di quanto il cristianesimo etiope fosse radicato nel
cuore del popolo e nel Vangelo e quanto il resto del mondo cristiano li
avesse lasciati lon tani da casa, hanno visto in breve tempo distrutta la loro
missione.
Lì a Bahar Dar, sulle sponde del lago Tana, la presenza dei gesuiti si è conclusa anche tragicamente, lasciando qualche segno e niente di più. Per secoli il vuoto e il dramma sono rimasti nella memoria del tempo che ha
segnato il cammino di questa regione con le fatiche della sopravvivenza e
i drammi politici e sociali che non hanno impedito la salvezza di millenari valori di fede e di vita semplice e coraggiosa.
Arrivando in Etiopia, qualcuno si meraviglia e crede di trovarsi in un mondo
chiuso, diffidente verso tutto quello che viene da fuori… Dimentichiamo facilmente di aver fatto violenza ad un mondo che non ci apparteneva, che
non era nostro! In Etiopia, oggi, tutto ciò che è straniero è guardato con sospetto e diffidenza. Lo stato etiope è sospettoso nei confronti della religione
che viene da fuori. Per quanto si può riferire alla religione cattolica attualmente sono tre le entità riconosciute dal governo. Le suore di Madre Teresa
di Calcutta che hanno diritto di cittadinanza perché lavorano per e con i più
poveri. La Società di don Bosco, perché lavora per i giovani e li educa alla
vita nel senso più ampio del termine. La Chiesa cattolica che fa da ombrello
a tutte le altre istituzioni religiose sia maschili che femminili, perché lavora
per il popolo senza farsi propaganda. Sotto questo ombrello ci siamo anche
noi, Compagnia di Gesù: ci sono i pochi Gesuiti etiopi presenti nella comunità di Addis Abeba che insegnano nelle varie università e si occupano di
gruppi di professionisti (CVX), presenti a Debre Zeit, in una casa di esercizi
spirituali e ... saranno presenti nella prima sede storica di Bahar Dar.
Il governo etiope ha dato al vescovo copto cattolico, Christos Matheos
Lesane, un terreno su cui erigere una scuola per i giovani in difficoltà: potremo chiamare questa scuola “collegio”. Il vescovo ha chiesto ai Gesuiti di
prendere in mano la costruzione e la gestione di questa scuola. Per il Padre
Provinciale dell’Africa orientale non è stato facile accettare la sfida. Il Governo etiope si fida della chiesa cattolica. Il vescovo si fida dei Gesuiti e del
loro impegno e capacità educative… Il Padre Provinciale si è fidato della
Provvidenza… La Fondazione MAGIS ha un po’ tergiversato, poi ha affidato a p. Libralato l’incarico di seguire il progetto nella fase di realizzazione
della costruzione e della formazione dell’équipe di gestione educativa.
Le strade da percorrere sono sempre piene di imprevisti e sorprese: mentre i soggetti della chiesa cattolica discutono, una fondazione protestante,
accettando l’invito di un cristiano italo-etiope, ha costruito l’edificio della
scuola materna e sta portando avanti il secondo edificio per la scuola primaria: proprio così! MAGIS, sta prendendo il largo… nella fiducia di tutti i
sostenitori e chiedendo materialmente l’elemosina a tutti. Le grandi imprese hanno bisogno del sost egno morale e materiale di tutti.
Grazie a tutti
23
Luci e ombre sul
cristianesimo in Etiopia
di Grazia Salice
L
’ appassionante storia di un popolo da raccontare a chi ancora non la
conosce, a chi l’ha dimenticata o, magari intrigato dal racconto, la vorrà
approfondire. Una storia nella cui trama, come in tutte le storie, s’intrecciano fili di grandezza e di umani errori, ma nella quale Dio è il Signore.
Origini del cristianesimo in Etiopia
L'Etiopia rappresenta l'unico caso di cristianesimo "africano" autoctono,
e, secondo la tradizione, di diretta derivazione apostolica: attorno al 35 d.C.
l’eunuco, ministro della regina d’Etiopia, evangelizzato da Filippo (At. 8,2739), portò nel regno di Cush il seme del Vangelo. Ancora più suggestiva è
la versione secondo cui uno dei tre
magi fosse proprio un etiope che, ritornato in patria, avrebbe evangelizzato la sua gente, pronta a ricevere
questo annuncio, perché la regina
di Saba, che secondo la storiografia locale era la principessa del
regno adulitico, da Axum andò a
Gerusalemme per incontrare re Salomone, si convertì alla sua fede e
da allora non volle più pregare il sole
ma il suo creatore, il Dio di Israele.
Della visita a Gerusalemme, avvenuta tra il 1000 ed il 950 a.C., vi è menzione nel Talmud ebraico, nella Bibbia, nel Corano e nel Kebra Nagast, Gloria dei re, il libro fondamentale per
la storia dell'impero degli altopiani, elaborato in Etiopia nel XIV secolo.
24
Dati storici
I primi evangelizzatori, storicamente documentati, Frumenzio e il fratello
Edesio, diffusero nel IV secolo il cristianesimo nel Regno di Axum. Lo storico latino Rufino (morto nel 410) attesta che Frumenzio vi predicò il vangelo per 20 anni, convertendo «un numero infinito» di axumiti, si recò ad
Alessandria dal patriarca, il grande Atanasio, gli parlò di questa comunità, sollecitando l’invio di qualcuno che se ne prendesse cura. E Atanasio,
ascoltato il giovane, disse: “Mando te” e lo ordinò vescovo, avendolo giu-
icona rappresentante i re di Axum
Abrahà (Ezana) e Atsbhà (Sezana)
con Abba Salama e santi
dicato all’altezza. Frumenzio accettò, ritornò ed fu
il primo vescovo di Axum.
Una conversione dall’alto verso il basso
Nella seconda metà del IV sec. il re di questo
regno, Ezana, si convertì al cristianesimo e, con
lui, sua madre, battezzata col nome di Sofia, la famiglia reale e la sua corte. Grandemente stimato
dal popolo axumita, Frumenzio passò alla storia
col nome di Abba Salama, (padre pace), e con
l'appellativo di Chesatiè Brhan (rivelatore della
luce). I due fratelli Ezana e Sezana diventarono
nella tradizione etiopica l'alba e la luce dell'Etiopia
cristiana.
Nelle zone di Axum e Adulis - uno dei più grandi
porti dell’antichità - scavi archeologici hanno portato alla luce iscrizioni cristiane e monete, risalenti
a quel periodo: le monete del successore di Esana, Mehadeyis (360 circa),
mostrano già una bella croce patente (greca) iscritta in un cerchio!
Il cristianesimo etiopico,
nato a corte, si sviluppò
nella corte e fu protetto
sempre. È un tutto uno: gli
imperatori lo ritengono una
priorità assoluta, nel senso
che loro sono il vero Israele,
discendenti di Salomone,
quelli che hanno visto nel
Cristo il compimento dell’attesa messianica.
Il patriarca di Addis Abeba, l’Abuna Paulos recentemente scomparso, così
aveva scritto: “Ritengo che il nostro Paese sia stato benedetto da Dio.
Prima di divenire cristiano nel I secolo, infatti, già da 1.000 anni poteva contare su una forte presenza ebraica. Si può dire che da 3.000 anni ci sia una
continuità giudeo-cristiana in Etiopia e ciò ha reso il mio Paese una terra
molto spirituale, in cui i valori della preghiera, del silenzio, della dedicazione
a Dio, sono sempre stati presenti”.
Nel V secolo, a causa di dissensi cristologici e dottrinali nel Vicino Oriente,
ci furono delle migrazioni specialmente di monaci dalla Siria all’Etiopia - ricordate, documentate e scritte, testimoniate da varie fonti - tra cui l’arrivo
dei “Nove Santi”, nove monaci provenienti, probabilmente, da Bisanzio o
da Bisanzio scomunicati, perché eretici. Tra la seconda m età del V secolo
e l’inizio del VI, troviamo chiari segni di un progresso della diffusione del Cristianesimo: è a partire da questo secolo che la croce compare anche nella
decorazione degli utensili quotidiani di ceramica, segno che il Cristianesimo si era ormai ampiamente diffuso nel Paese.
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icona in cui sono venerati i nove Santi
indicati con i rispettivi nomi
In seguito ai grandi scismi,
quasi inconsciamente, l’Etiopia scivolò tra i monofisiti,
benché non ci siano mai stati
una volontà e un atto di separazione, che invece maturò
per la dipendenza dai patriarchi di Alessandria: l’Etiopia
era obbligata a ricevere il Vescovo da Alessandria.
Se aggiungiamo la predicazione forse non ortodossa dei
monaci e la lontananza dal
resto dell’Oriente cristiano e
da Roma, la sua “fede alessandrina” passò dal significato originario cattolico a quello scismatico ed eretico!
La Chiesa di Etiopia divenne una Chiesa nazionale, le cui sorti rimasero legate alla Chiesa di Alessandria. La denominazione ufficiale della Chiesa
etiopica è Chiesa Ortodossa Teuahdò d’Etiopia: Teuahdò significa «divenuto uno», un vocabolo indicante unità, non solo perché unifica le comunità cristiane di quella terra, ma soprattutto per il suo risvolto teologico: la
cristologia di quella Chiesa è, infatti, "monofisita", perché il Cristo è, sì, una
sola persona, ma ha allo stesso tempo una sola natura nella quale si intrecciano e si fondono divinità e umanità (Card. G.F. Ravasi).
Nel 1000-1100, ci fu un cambio dinastico in Etiopia e salì al trono la dinastia degli Zabuè. A questi re, specialmente a uno, detto Lalibela, è legata
la costruzione di una città, Lalibela, e di moltissime altre chiese, non ancora tutte scoperte, scavate nella roccia: un unicum al mondo.
Una cristianità minacciata
26
Una cristianità che ha
però pagato a caro
prezzo la sua identità.
Nei suoi 17 secoli di
vita, infatti, la Chiesa
etiopica si è dovuta difendere da minacce ed
invasioni, conservando
però intatto i l cristianesimo dei primi secoli,
penetrato così profondamente nelle istituzioni familiari, sociali e
politiche del paese,
che i cristiani etiopici
hanno resistito a pressioni e persecuzioni
esterne ed interne fino
a quella scatenata per 17 anni (1974-1991) dalla dittatura marxista di Mengistu, il genocida. Secondo una definizione cara agli etiopi, l’Etiopia è
un’isola cristiana in un mare di pagani e trovò sempre la forza di resistere alla pressione dell’islam, penetrato dal Nord e sempre minaccioso dal
Mar Rosso. Dopo quasi tre secoli di guerra tra musulmani e cristiani, la potenza dell'Etiopia cristiana toccò l'apice con il negus Zara Yakob (14341468), che promosse contatti con l'Occidente: fu inviata una delegazione
al Concilio di Firenze, che mirava alla riunificazione delle Chiese d'Occidente e d'Oriente; il 4 febbraio 1441 in Santa Maria Novella fu letta la Bolla
“Cantate Domino quondam magnifice fecit” che sanciva l'unione con la
Chiesa copta (perciò anche con l’etiope, sotto la giurisdizione del patriarcato di Alessandria).
Troppi interessi poco spirituali in gioco
Nel 1487, Vasco de Gama apriva la strada, lunga ma sicura, tra l’Europa,
l’Africa Orientale e l’Asia e i velieri portoghesi veleggiavano verso l’Asia
sotto gli auspici dei Papi Eugenio IV e Niccolò V che con le loro Bolle
concedevano al re del Portogallo tutte le terre strappate ai saraceni e ai nemici della fede; privilegi allargati e sanciti con la Bolla di Alessandro VI
(Inter Coetera, 1493) che assegnava al re portoghese i diritti di conquista di tutte le terre non cristiane scoperte, ma anche di essere vicario pontificio per inviare missionari in quelle conquistate. L’Etiopia, regno
cristiano, era di per sé esclusa dal diritto di conquista e quindi anche dal
patronato portoghese, ma era in un luogo strategico... Il negus Lesana
Denghel, accolse con onore i delegati portoghesi, rivolgendosi al papa
Eugenio IV con una lettera: “… Inginocchiato in terra, ti dico umilmente,
Santo Padre, perché non hai mandato nessuno per avere notizie più vere
della mia vita? … Un pastore non dovrebbe dimenticarsi del suo gregge né
mi devi considerare troppo remoto dalle vostre terre…”. E il papa rispose
al negus con una lettera tuttora conservata nell’archivio di corte.
All'inizio del XVI la pressione militare islamica aumentò in misura allarmante, sostenuta dalla conquista turca dell’Egitto (1517). Scoppiarono
guerre tra le più sanguinose, costose e inutili, durante le quali l’intero impero e la sua cultura rischiarono di essere spazzati via. Una concorrenza
spietata per controllare le ricche rotte commerciali che collegavano gli altopiani etiopici con il Mar Rosso fece sperimentare le armi da fuoco, fornite dall’Arabia meridionale e dal sultano di Zeila (porto sul Mar Rosso) in
cambio di schiavi cristiani e scoppiò una vera e propria Jihad contro l’Etiopia cristiana. Le armate islamiche, sia del sultanato ottomano che del sultanato di Adal, intendevano conquistare definitivamente il controllo delle
piste carovaniere che collegavano le coste del Corno d'Africa al Mediterraneo.
Un tragico fraintendimento
Nel 1535, a Bologna, Papa Clemente VII ricevette lettere e regali dal negus
e la sua professione di obbedienza. Ma veramente l’Etiopia dichiarava di
voler essere un membro della Chiesa universale? Così fu inteso! mentre
proprio l’incombente pericolo induceva il negus Lebna Denghel a rivolgere
27
un disperato appello d’intervento militare ai portoghesi, che ritennero parte
integrante della richiesta la volontà, mai in quell’occasione esplicitata dal
negus, di una fattiva unione della Chiesa di Etiopia con Roma.
Lebna però moriva nel 1540, lasciando un erede diciottenne, Galawdewos. Un anno dopo, al comando di Don Cristovão de Gama, arrivarono
400 moschettieri portoghesi che, sbarcati a Massaua, subirono una dura
sconfitta sul lago Tana. Fu l’inizio della rovina: molte delle più belle chiese
e dei più bei monasteri d’Etiopia furono ridotti a un cumulo di macerie, insieme ai loro preziosi manoscritti, alle reliquie e ai paramenti sacri.
Nel 1545 Papa Paolo III assicurò al negus che presto avrebbe inviato
“uomini egregi in virtù e scienza” insieme ad un Nunzio apostolico!
Speranze e pregiudizi: la Riduzione gesuitica etiope
Appena nata, la Compagnia di Gesù ricevette dal Papa le terre d’Etiopia
come campo d’apostolato e il Padre Ignazio accolse con entusiasmo l’insistente richiesta del re Giovanni III del Portogallo. Infatti, non appena incaricato dall’ambasciatore portoghese a Roma di provvedere all’invio di un
patriarca e di altri padri, diede la personale e piena disponibilità a partire.
Nel 1553 – come scrive P. John O’ Malley S.I. - scelse i gesuiti acconsentendo, nonostante avesse deciso di evitare incarichi episcopali e prelature
per la Compagnia, all’ordinazione di tre: João Nunes Barreto (il patriarca),
Andrés de Oviedo e Melchor Carneiro (vescovi) e scegliendone altri dodici
come loro compagni per la missione in Etiopia. Si pensò ad un 5° voto per
il quale coloro che av essero ricevuto autorità ecclesiastica si obbligavano
ad ascoltare il consiglio del Padre Generale e a seguirlo, se fosse apparso
migliore del proprio. S. Ignazio erigeva la Provincia gesuitica d’Etiopia
e per quella Riduzione dette le celebri Istruzioni, che, come nota P. Urbina
S.I., scrisse sulla base delle informazioni ricevute, ma fino che punto veritiere? Circolavano voci, infatti, che gli etiop i fossero sì cristiani benché non
sottomessi a Roma, ma che tra loro si fossero introdotti costumi e usi
ebraici se non addirittura pagani! “S. Ignazio riteneva che in quella regione
la mescolanza di errori recherebbe più ostacoli all’opera apostolica che se
si trattasse di terre pagane.”
Nelle Istruzioni però raccomandava che accanto al processo dall’alto verso
il basso (dal re al popolo) che sembra tendere a conversioni di massa, fosse
curato il processo di lenta formazione di una nuova generazione e, con larghezza di vedute, che si formasse un ottimo clero indigeno, sviluppando
anche la Compagnia con elementi indigeni. Non ci fu invece da parte di
nessuno la sensibilità ad inviare vescovi e un patriarca di rito orientale. Sant’Ignazio raccomandava di introdurre, con prudenza, le rubriche latine del
Battesimo e della Comunione e che non fossero imposte, ma che il patriarca operasse secondo i suggerimenti della realtà delle cose. Finalmente, correva l’anno 1555, il drappello partì da Lisbona per Goa.
28
I primi gesuiti sull’altopiano: una sventurata avventura
Il vicere dell’India aveva però giudicato prudente che al negus fosse annunciato l’arrivo del patriarca e dei vescovi e, per la missione, scelse P. Gonçalo Rodriguez che “… appena giunto in quel regno e introdotto all’udienza
icona della Vergine, velata,
per indicare il senso del Mistero
del re, incominciò un discorso
che verteva sull’autorità del
Papa… Il re, chiamato Claudio
(Galawdewos), rimase offeso da
questo discorso e li costrinse ad
uscire dal suo regno”... “i quali,
contravvenendo alle direttiva di
sant’Ignazio, non tutti, ma in
parte,… allora questi ritenuti
eretici portarono a conversione…” Non appena il negus
Galawdewos realizzò quale
fosse il progetto missionario dei
portoghesi, lo rifiutò categoricamente, dicendo che di preti
dotti ne aveva abbastanza nel
suo regno! I gesuiti giunti a Goa,
loro porta d’ingresso in Etiopia,
decisero che solo Oviedo vi andasse, mentre il patriarca e Carneiro sarebbero rimasti a Goa,
dove morirono pochi anni dopo.
L’opera di Oviedo e dei suoi
quattro compagni diede buoni
frutti nonostante lo sfavore di
Galawdewos, alla cui morte il suo successore inflisse tali persecuzioni ai
cattolici che Oviedo fu costretto a chiedere aiuti al Portogallo. Oviedo morì
in miseria nel 1577.
La missione per la quale S. Ignazio aveva nutrito le più alte speranze, apparve un totale fallimento. C’è però un particolare a margine: nel 1557 i gesuiti portarono con loro in Etiopia, come tutti i missionari in partenza per le
nuove terre di missione, una copia dell’icona della Madonna di Santa Maria
Maggiore in Roma, poi rielaborata dai pittori etiopi: il tema della “Salus populi romani” divenne in tal modo dominante nei secoli successivi. Uno dei
più chiari segni della Chiesa primitiva è il culto a Maria, di cui confessano
la perpetua verginità, la sua maternità divina, la sua mediazione universale
presso Cristo e la sua assoluta santità, escludente qualsiasi ombra di peccato, affermando implicitamente l’Immacolata Concezione.
L’avventura continua …
Nel frattempo, i Portoghesi, dalla base di Goa, avevano raggiunto l’Etiopia, opponendo all’Islam ed altre tribù insorte una decisa resistenza e riconquistando al cristianesimo il paese. L’esercito vi si stabilì e la sua cura
spirituale fu affidata ai gesuiti di Goa che nuovamente si adoprarono per
l’unione con Roma della Chiesa etiopica. Questa seconda missione fu
guidata da P. Pedro Paéz (1603 - 1622) incontrando però la resistenza dei
monaci: tra congiure e macchinazioni morirono i due imperatori, Za Denghel (1604) e Yacob (1607), che avevano abbracciato la fede cattolica, e più
29
il gesuita, P. Pedro Paéz Jaramillo
volte ci furono attentati alla vita di Susenyos, convertito da P. Paéz, con il fratello, ras Selà Cristòs, e Malacotavit,
moglie del viceré Za Cristòs, il cui esempio fu seguito da altri maggiorenti della
regione. Il negus favorì l'attività della
Compagnia di Gesù e la diffusione del
cattolicesimo nell'impero, in notevole
progresso dai primi anni del secolo.
Giunti a quel primo e ambito traguardo,
i missionari progettavano di estendere
la predicazione al popolo, fondando
nuove case nei territori dell'Impero.
L’imperatore Susenyos chiese ai Padri
di Goa l'invio di duecento missionari
nel suo paese, ma né a Goa né in Portogallo era possibile trovarne un numero così alto. Il gesuita P. Franceschi
scrisse una lettera al granduca di Toscana, chiedendo aiuti: la missione
non aveva i mezzi necessari a soddisfare le pretese del patriarca Alfonso
Mendes (uomo intransigente e ostile alla cultura locale, nominato dai
Portoghesi, che avevano il patronato sulla missione, e successore del Paéz)
né a mantenere i padri nelle zone più lontane. In quel momento decisivo
della missione, il 12 maggio 1626, il negus era stato obbligato dal patriarca
Mendes a dichiarare solennemente l'adesione al cattolicesimo, provocando con questo gesto anche l'ostilità della popolazione.
L’inizio della fine
Se'ela Krestos, il potente fratello di Susenyos, capo dell'esercito e cattolico convinto, fornì a P. Franceschi il sostegno materiale di cui aveva bisogno e P. Franceschi si legò a lui con sincera amicizia, avvertendo però, col
passare del tempo in Susenyos una certa freddezza, derivante dal crescente disappunto dell'i mperatore per dover imporre il suo nuovo credo ai
sudditi con la forza delle armi e non con quella della persuasione, dalla
quale egli stesso era stato convinto. Bisogna ricordare che l’arrivo dei gesuiti aveva innescato anche nel clero etiopico delle dispute interminabili
sull’unzione e sulla natura di Cristo, dispute che sfociarono talvolta in lotte
feroci e sanguinarie, con guerre e massacri di interi monasteri. Né Mendes
né gli altri gesuiti compresero la gravità della situazione. Del tutto inaspettata, nel 1632, giunse notizia che Susenyos il 24 giugno aveva deciso di
permettere la libertà di culto - preludio al ritorno alla confessione ortodossa - per poi abdicare, e che era morto poco dopo la cessione del trono
al figlio Fâsiladas.
L’annientamento della missione
La reazione ecclesiastica e popolare contro il negus, i portoghesi e i gesuiti, indusse il successore Fâsiladas, che fissò la sua capitale a Gondar,
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verso l’isola del monastero, sul lago Tana, in cui furono confinati i gesuiti
a politiche xenofobe e a proibire il culto cattolico, ordinando l'espulsione
dei gesuiti. Alcuni riuscirono ad imbarcarsi e riparare a Goa, altri furono
fatti prigionieri dai turchi, altri sei, tra cui P. Franceschi, P. Bruni, P. D'Almeida si nascosero nella regione del Tigrè, ma l’insistenza di voci su una
spedizione portoghese, mai realizzata, per ristabilire l’ordine precedente,
eccitarono ancora di più l'animo degli etiopi contro i padri. Così nel 1637
il loro protettore li consegnò a Fâsiladas. Quando il tribunale, sotto la
spinta del clero locale copto (l'abuna di Alessandria mantenne un atteggiamento più benevolo) li condannò a morte, Fâsiladas avocò a sé il giudizio, commutando la pena dapprima in carcere duro, quindi in esilio
perpetuo nel territorio degli Agaôs. Poiché anche tra loro i gesuiti ricominciarono a esercitare il loro ministero, Fâsiladas ordinò di confinarli in
un'isola del lago Tana, dove sorgeva un monastero. Tra il 14 e il 16 giugno
1638 giunse l'annuncio della condanna a morte. Erano rimasti in tre: si
confessarono a vicenda, vennero impiccati a un albero, lapidati e i loro cadaveri furono dati in pasto ai cani.
Un’opera che ebbe così promettenti inizi – come ha scritto P. Ortiz de Urbina
S.I. – andò a perdersi nella catastrofe, ma una cosa è certa: i gesuiti lasciarono al paese una preziosa eredità, il loro sangue, ma anche i loro libri.
Proprio P. Paéz, cui si deve la scoperta delle sorgenti del Nilo Azzurro, lasciò la prima storia attendibile del paese, la Historia de Etiopia. Ad altri
missionari si devono resoconti dettagliati sulla vita culturale, economica
e sociale dell’Etiopia.
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Prevenire è meglio che curare...
l’impegno del MAGIS a Endaselassie
di Maurizio Debanne
I
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n Etiopia un passato illustre si scontra con un presente non certo roseo.
Il Paese è agli ultimi posti per quanto riguarda l’Indice di sviluppo umano
(indicatore di sviluppo macroeconomico utilizzato, accanto al PIL, dalle
Nazioni Unite per valutare la qualità della vita nei paesi membri). La speranza di vita alla nascita è di 47,6 anni, il 78% della popolazione non ha
accesso sostenibile all’acqu a potabile, l’80% della popolazione ha un reddito inferiore a 2 dollari al giorno. Il reddito pro capite è bassissimo ed elevato è l’analfabetismo: nella città di Endasellassie, nel Nord Ovest, solo il
23% delle femmine e il 28% dei maschi di età tra i 6 e i 12 anni frequenta
la scuola e solo una percentuale molto bassa di giovani accede all’università. Una situazione che ha spinto, nel 2003, il g overno della regione a chiedere al Vescovo della Chiesa Cattolica di Tigray, Mons. Tesfasellassie
Medhin, una presenza di religiose che operassero nel campo dei servizi di
educazione, ma anche di sanità e promozione delle donne. A raccogliere l’appello sono state le Suore della Carità di San Giovanna Antida,
arrivate in Etiopia il 14 novembre dello stesso anno. Dopo qualche mese di
adattamento e apprendimento della lingua Tigrinya, la Municipalità di
Shiré ha concesso loro un terreno di 30mila mq a Endasellassie, per costruire la loro residenza, una scuola materna, una clinica, e un centro di
promozione femminile. Le costruzioni iniziate nell’ottobre del 2004 si sono
concluse due anni dopo. A questo punto è intervenuto il MAGIS con progetti in ambito educativo e sanitario. L’ultimo, finanziato dalla Fondazione
Nando Peretti, garantisce l’assistenza medica di primo soccorso e il so-
educazione alla salute: non è mai troppo presto
stegno ai malati di AIDS. Sebbene l’UNAIDS (programma delle Nazioni
Unite per accelerare, intensificare e coordinare l'azione globale contro
l'AIDS) abbia rilevato una significativa riduzione dei casi, l’Etiopia rimane
comunque uno dei paesi maggiormente colpiti dalla diffusione di questa
malattia. L’aiuto del MAGIS, dunque, si è concentrato nel rafforzare il numero e la qualità dei servizi sanitar i e di supporto ai pazienti sieropositivi. Questo progetto guarda anche agli orfani e ai figli dei pazienti ancora
in vita, registrando la loro presenza e proponendo un sostegno non solo
economico ma anche psicologico. La cura, però, in questi casi arriva
quando la situazione è difficilmente recuperabile. Ecco perché una parte significativa del progetto è stata dedicata ad attività di prevenzione. Vere
e proprie lezioni di educazione sanitaria sono state tenute ai pazienti, agli
studenti, alle famiglie nei villaggi, così da diffondere un maggior livello di
consapevolezza su temi quali l’igiene, le malattie infettive, i vaccini, la cura
del neonato e delle madri. Ancora una volta, infatti, la malattia e la povertà
possono essere battute in anticipo dalla conoscenza.
registrazione presso il centro
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Madagascar
Acqua pulita...
odor di cioccolato
Volontari Gruppo SAM - Palermo
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L’inizio dell’avventura …
Gli abitanti del villaggio di ManohiranoSAKAROA, che sorge a circa 30 Km dal
capoluogo Fianarantsoa nella parte
centro-orientale della regione dell’Alta
Matsiatra in Madagascar, il 5 agosto
2011, avevano inoltrato al Presidente del MAGIS una richiesta per un acquedotto di circa1.500 mt. che portasse dalla sorgente al villaggio acqua
potabile, per sconfiggere le ricorrenti epidemie. A dare autorevolezza alla
richiesta c’era la firma del parroco del distretto missionario di Nasandratrony, del sindaco del comune rurale di Ambondrona, del responsabile del
settore amministrativo di Ambalamahatisni SAKAROA e del responsabile
del villaggio.
Il progetto, già vagheggiato da P. Emanuele Bruni S.I., parroco del distretto
di Nasandratrony, rientrato in Italia, aveva confidato il suo sogno a Fr. Benedetto Ingrao S.I. … che, inoltratolo e ricevutane l’approvazione, coordinando i volontari del Gruppo SAM di Palermo - Mauro Castorina, tecnico
idraulico, la moglie, Carmelina Ingrao, veterani di queste missioni, Sandro
Sciuto, alla sua prima esperienza, e la dottoressa Honorine, una giovane
malgascia residente a Roma che aveva voluto partecipare, fornendo un prezioso aiuto logistico al gruppo operativo – li ha fatti volare in Madagascar.
Atterrati ad Antananarivo dopo 12 ore di volo, il 2 settembre 2012, ad attenderli c’era sr. Angela, delle Suore del S. Cuore di Ragusa, originaria
del villaggio di Sakaroa, che provvedeva al trasferimento – altre 6 ore - a
Fianarantsoa, dove erano attesi da P. Sante Zocco S. I. Di là, il mattino seguente, con una vecchia auto, lungo una strada dissestata, ha avuto inizio
l’avventura. Benché il villaggio fosse ancora distante, si avvertiva la presenza della gente accorsa per accoglierli con canti, danze al suono di tamburi e flauti, lancio di fiori: una gioia straripante e commovente per il tanto
atteso dono dell’acqua.
Il lavoro, iniziato il giorno successivo, ha richiesto due settimane: completamento delle vasche d’acqua e scavi per la posa delle tubazioni, poi il
trasferimento del materiale, con la partecipazione di tutti: gli uomini portavano gli attrezzi e zappavano il terreno, le donne trasportavano la sabbia e
le pietre per coprire la sorgente. L’ultimo giorno i volontari hanno consegnato il lavoro finito: l’acqua arrivava con una forte pressione a tutte le sei
fontane, installate in varie parti del villaggio. E allora, ringraziamenti a non
finire a tutti ma in particolare a P. Sante Zocco S.I., colui che aveva reso
possibile il miracolo dell’acqua grazie anche ai benefattori: Emilia ed Enrico di Napol i, Nuccia di Reggio Calabria con i nipotini Adriana e Alberto di Catanzaro, papà Felice e l’ing. Giuseppe di Palermo. E, come
annota Honorine, un’ammirazione grande per questi volontari, per la loro instancabile tenacia di fronte alle difficoltà e alla fatica quotidiana: partire prestissimo la mattina da Fianarantsoa e ritornarvi la sera, stracotti, con mezzi
di fortuna, su quella che era difficile chiamare strada – 2 ore per percorrere
30 Km! - ogni volta in condizioni peggiori rispetto al percorso precedente…
ma soprattutto sapendo che non ci erano capitati per caso, ma che da anni
portano avanti questa missione. Mi sono permessa di raccontarvi tutto questo – è sempre Honorine – perché io stessa pensavo che andare in missione fosse una passeggiata, una vacanza. Invece bisogna rivestirsi di
coraggio e di tanta pazienza. Ci vuole una ferrea volontà e sicuramente
l’aiuto di Dio.
A questo punto, sono necessarie due parole sul titolo: “acqua pulita …
odor di cioccolato”. È una storia iniziata qualche anno fa, quando nonna
Nuccia incominciò ad educare i suoi nipotini a condividere i loro momenti
di gioia con chi era privo del necessario, chiedendo, in occasione di una ricorrenza, che il regalo fosse in denaro … per un progetto missionario!
È stato così che una consistente offerta ha permesso di sostenere le spese
per la colonia estiva di 10 giorni per 200 bambini. Ma nonna Nuccia, che
gestisce un laboratorio per la lavorazione del cioccolato, quest’anno ha utilizzato una parte degli utili per la condotta idrica di Sakaroa.
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le grosse pietre proteggono la sorgente
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Lettera di ringraziamento
Noi cristiani di Sakaroa inviamo questa lettera di ringraziamento tramite
Fr. Ingrao agli amici del SAM e in particolare ai benefattori, indicati nelle
belle e celebrate magliette che i nostri bambini hanno indossato con
grande gioia.
… Noi cristiani e tutti gli abitanti siamo lieti di ringraziarvi per l’impianto
che porta acqua potabile nel nostro villaggio.
Grazie per l’aiuto in denaro e per i grandi lavori fatti per noi. Grazie per aver
mandato qui dei vostri volontari che con grande impegno hanno compiuto
i lavori coadiuvati da noi tutti.
Ci scusiamo con loro degli inconvenienti e della mancanza di molte cose
che li hanno provati come le difficoltà di comunicare in malgascio, il cibo
non adatto a loro, in particolare il luogo lontano dalla città.
Speriamo molto che la nostra reciproca conoscenza continuerà anche in futuro per il progresso di tutti noi, bisognosi di tutto.
Vi auguriamo ogni bene in particolare le Grazie e la benedizione del Signore
nostro Gesù Cristo, che certamente vi ha sostenuto per portare a buon termine tutti i lavori necessari.
Noi cristiani di Sakaroa e tutti gli abitanti preghiamo per voi, uniti nella riconoscenza ai responsabili del comune di Ambondrona
Il presidente della Chiesa: Raketemanana Benoit
Il catechista: Randrianantenaina Fidèle
Il capo quartiere: Ralailohetsy L.
Un pic-nic … fuori programma
di Carmelina Ingrao
F
ianarantsoa, settembre 2012, ultima realizzazione di una condotta
idrica per il villaggio di Sarakoa. I tre del gruppo SAM – la sottoscritta,
Mauro e Santo – la mattina seguente sono in viaggio per essere, all’ora
di pranzo, a Ikalamavoni. Cinque ore d’auto per 120 Km! Nel pomeriggio,
altri 50 Km per raggiungere Solila prima del tramonto, grazie alla ricostruita strada, dono di una generosa benefattrice, che le autorità locali
hanno intitolato a suo nome: Via Emilia.
Alla guida dell’auto, P. Jean Baptist, Superiore del Distretto missionario di
Ikalamavoni. Cantava allegramente, felice per la festa che avrebbe fatto la
gente di Solila e in particolare i bambini per il ricordo delle colonie estive
fatte insieme negli anni precedenti. Ma ecco l’imprevisto! Dopo tre ore di
viaggio, l’auto dà segni di malessere e, all’improvviso, si ferma. Non vuole
saperne di ripartire. Ci troviamo in una zona completamente deserta, neanche l’ombra di una capanna. P. Jean Baptiste, il cellulare in mano, non riusciva a trovare campo. Tranquillizzandoci, si allontanò per salire su una
vicina montagna, sperando di poter avere un contatto telefonico e chiedere aiuto, avvertendo chi ci stava aspettando.
Trascorse alcune ore, lo vediamo ritornare sorridente: il contatto con Ikalamavoni era riuscito ma non sapeva dopo quanto sarebbe arrivato il soccorso.
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Provvidenzialmente, un passante in bicicletta, diretto a Solila, aveva dato
l’allarme al villaggio così, alle tre del pomeriggio, un automezzo si ferma, ne
scendono due suore con cibo e acqua. Era il primo pic-nic che facevamo
in Madagascar, dopo oltre vent’anni di queste esperienze missionarie. Tutto
finì con una risata generale che allentò la tensione che si era via via accumulata sotto il cocente sole equatoriale.
Dopo otto ore di attesa, alle 17.30, i soccorsi: arrivo a Ikalamavoni non all’ora di pranzo ma in piena notte, però senza P. Jean Baptiste: era rimasto
sul posto, dormendo in macchina, perché a lasciarla incustodita avrebbe
corso il rischio di non ritrovarla più l’indomani!
Per noi è stata solo un’avventura, ma i missionari che operano quotidianamente in queste zone deserte, con s trade che spesso sono solo piste, sono
da ammirare e dovremmo sentire il dovere di aiutarli e sostenerli, non
solo con la preghiera ma anche con la condivisione di quello che abbiamo
e possiamo dare. Non farli sentire soli è un grande atto di carità, di amicizia, di amore.
Due giorni di lavoro per riparare l’auto e il dover rivedere il programma d’incontri con i missionari.
A Solila, dove abbiamo promesso che saremmo ritornati presto, ci hanno
chiesto di aiutarli per la costruzione del “posto sanitario” e poi di poter
dare continuità alle colonie estive.
Rientrati a Fiaranantsoa, abbiamo visitato il Centro apostolico diretto da
P. Gianfranco Bergero S.I. che da anni attende e spera che il SAM organizzi o sostenga una colonia estiva per i ragazzi della sua parrocchia.
Siamo stati a Fandana a trovare Fr. Fazio: visita molto gradita perché inattesa. Anche lui, oltre alle tante necessità che si presentano ogni giorno per
portare avanti il progetto “Esodo urbano”, ci chiedeva di inserire nei nostri
programmi delle colonie per i ragazzi dei sette villaggi di Fandana, la cui popolazione ha ormai raggiunto il ragguardevole numero di oltre 4.000 abitanti.
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Un incontro importante è stata la visita alla Casa Famiglia per disabili. Visitando la nuova struttura ci siamo accorti che dai rubinetti non usciva
acqua … Interpellato P. Garvey, responsabile della Casa e anche lui disabile a causa di una malattia, sul perché mancasse l’acqua, con un sorriso
ci rispose che era stato stipulato il contratto con l’acquedotto comunale,
ma per mancanza di fondi non erano stati eseguiti i lavori di allacciam ento
alla rete. La sera ci siamo consultati su che cosa si potesse fare e Mauro –
lui il tecnico di impianti idraulici - è sbottato dicendo che se l’indomani ci
fosse stato il materiale, il problema sarebbe stato facilmente risolto. La mattina seguente, mentre Santo dirigeva i lavori di scavo per la posa delle tubazioni, Mauro andava a prendere il materiale occorrente nei magazzini
di P. Zocco. Come previsto, dopo tre ore di lavoro, l’impianto idrico della
casa era allacciato alla rete comunale. Quando però di aprì il passante e
tutti eravamo pronti a festeggiare l’arrivo dell’acqua corrente in casa, siamo
rimasti sorpresi, perché l’acqua usciva sì dai rubinetti, ma anche … dalle
giunture dei tubi e dei raccordi. Purtroppo il collaudo ha fatto scoprire che
l’impianto non era stato eseguito a … regola d’arte! Siamo rimasti tutti
molto amareggiati e Mauro avrebbe voluto provvedere a riparare i difetti,
cosa impossibile perché, nella nostra tabella di marcia il giorno seguente
saremmo dovuti partire per A ntananarivo e imbarcarci per l’Italia.
Chiudo il racconto di questa esperienza con due messaggi. Il primo è un
caloroso ringraziamento ai Padri gesuiti malgasci che ci hanno ospitato a
Mahamanina e, in particolare, al Superiore e al Ministro di casa.
Il secondo è la segnalazione agli AMICI per la richiesta di aiuto per il “Posto
sanitario” di Solila.
Un saluto dal SAM ai Gesuiti malgasci, con la promessa che non li dimenticheremo. Il Signore possa suscitare tanti benefattori che anche con una
piccola offerta possano contribuire a questa realizzazione.
Le offerte vanno indirizzate al MAGIS.
un aiuto concreto?
un modo vero per aiutare i missionari
nella loro vita di tutti i giorni?
un segno di fraternità?
FAR CELEBRARE UNA MESSA
PER I DEFUNTI!
tra le causali del bollettino (padre)
aggiungere “Messa”
ccp 909010
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Testimonianze
Repubblica Centrafricana
Pace per questo paese
di P. Dorino Livraghi S.I.
D
omenica 14 aprile: tre settimane
da quando i ribelli della SELEKA
hanno preso Bangui.
È forse venuto il momento di cominciare
a fare un piccolo bilancio.
Dopo scontri anche molto duri, soprattutto con le truppe sudafricane che
hanno perso almeno 13 uomini … se
non due o tre volte di più – i ribelli che
hanno perduto centinaia di combattenti
– sono entrati in Bangui domenica 24
marzo, di primo mattino, e si sono immediatamente diretti verso la presidenza, pensando forse di trovarvi ancora Bozizé, che, in elicottero, con due figli e un ufficiale, si era prima
diretto verso il Congo Democratico, che non ha voluto dargli asilo. Si è allora rivolto al Cameroun, che ha accettato di ospitarlo in attesa che trovi un
paese che lo accolga. Sembra che il Benin abbia finalmente risposto positivamente alla sua domanda di asilo.
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Da tre settimane, la SELEKA è padrona di Bangui … e di tutto il paese, perché contemporaneamente le loro truppe si sono dirette verso Ovest e verso
Sud-Ovest per imporre il loro potere in tutte le prefetture e in tutte le cittadine e villaggi del paese. Se i ribelli avessero agito veramente da liberatori
del popolo oppresso dal regime di Bozizé, sarebbero stati accolti da applausi e grida di gioia. Invece sono arrivati a Bangui, certo come nemici di
Bozizé, ma anche come lupi affamati nei confronti della popolazione. Poche
sono le famiglie e le comunità che non sono state molestate, e ci si domanda perché abbiano goduto di questo favore. Forse perché sono luoghi
dove i predatori non pensavano che avrebbero trovato pane per i loro
denti? Oppure perché, anche tra i ribelli, c’è gente che ha sentimenti un
po’ più elevati, o dei capi che hanno dato disposizioni perché certe categorie di persone non fossero aggredite? È possibile. È forse il nostro caso.
Una sera, davanti al cancello di casa nostra ho parlato con un ufficiale della
SELEKA, un colonnello mi ha detto, che si è informato se fossimo stati visitati. Ho dovuto dirgli che il mattino stesso del loro ingresso in Bangui una
pattuglia di uomini armati, era venuta da noi portandosi via un veicolo del
JRS (Jesuit Refugee Service). Ha fatto una smorfia di dispetto e mi ha chiesto: “Ma non siete una casa di Dio?” Sì … ma questo non ha impedito ai
suoi uomini di venirsi a prendere quanto hanno voluto.
È certo che tra gli uomini della SELEKA ci sono degli autentici banditi, dei
predoni che si sono impegnati al seguito dei capi della ribellione non per
motivi ideologici o per un’ideale di giustizia, ma semplicemente per fare
bottino. Arrivando a Bangui, questa gente ha accolto nei suoi ranghi i banditi della capitale, che hanno fatto presto a vestire una tenuta militare e a
prendere un fucile. E anche quando non si sono camuffati da ribelli, si sono
uniti a loro nelle manovre di saccheggio.
I capi della SELEKA si trovano ora, e già lo erano fin dall’inizio, prigionieri
della strategia che hanno ad ottato. Per avere truppe più numerose hanno
fatto appello a tutti gli sbandati della RCA, del Ciad e del Darfour. Non
avendo risorse economiche per dare loro una ricompensa soddisfacente,
hanno dovuto lasciare che si pagassero a spese degli abitanti. Ora che il
tempo è venuto di ricostruire il paese e di rimettere ordine nei vari settori
della vita pubblica, si rendono conto di non avere autorità alcuna sulle loro
truppe, di non essere in grado di bloccare la loro frenesia di guadagno a
spese del popolo dei quartieri, delle cittadine di provincia e dei villaggi.
I racconti di estorsioni e di saccheggi sono quotidiani. In questi giorni
sembra che le autorità stiano organizzandosi per dare sicurezza alla città,
grazie alla collaborazione delle truppe della FOMAC (Forces Multinationales de l’Afrique Centrale) e francesi, che già pattugliano le vie principali
della città. Questo significherebbe obbligare i vari militari della SELEKA a
consegnare le armi e ad accantonarsi nei campi militari previsti per loro.
Ma molti non vogliono affatto deporre le armi e hanno fretta di procurarsi
un bottino abbastanza sostanzioso per tornarsene a casa loro, fieri dell’impresa. Allora cominciano ad adottare tattiche da veri e propri banditi: ag-
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ingresso dei ribelli a Bangui
gressione di persone e di famiglie per sottrarre dei soldi, kidnapping di persone, liberate poi contro un riscatto … Ogni giorno la musica delle armi ci
fa spesso sobbalzare, ci strappa al sonno e alla pace. Quanto tempo ci
vorrà perché le cose si normalizzino, che si possa ancora uscire nelle strade
senz’avere paura di essere molestati da persone armate o colpiti da pallottole vaganti?
Stamattina Radio Francia diceva che nella giornata di ieri ci sono stati una
ventina i morti nei quartieri di Bangui. La gente racconta che i militari della
SELEKA passano di casa in casa e, con il pretesto di ritirare le armi in possesso dei civili, saccheggiano tutto quanto trovano: TV, soldi, frigo, vestiti,
letti e materassi … Njotoida dal canto suo afferma che le armi, fatte distribuire ai civili da Bozizé, sono utilizzate per resistere all’opera di pulizia e di
messa in sicurezza dei quartieri.
La gente si chiede, con angoscia, fino a quando durerà questa situazione.
Nessuno sembra in grado di ristabilire l’ordine e un ritorno ad una vita normale e serena.
Quali saranno le decisioni del prossimo summit della CEEAC destinate a
salvare la Repubblica Centrafricana e a mettere fine ai disordini di quest o
paese?
LA STORIA
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1° Summit Straordinario della CEEAC a N’Djamena
Quando, nella prima metà di dicembre, la SELEKA ha cominciato a muovere i suoi passi verso la conquista del paese, il mondo intero si è messo
in agitazione, e soprattutto i paesi vicini alla RCA, quelli che fanno parte
della CEMAC (Communauté Monétaire et Economique del’Afrique Centrale) comprendente la RCA, il Ciad, il Congo Brazzaville, il Gabon, la Guinea Equatoriale, Sao Tomé e Principe, e il Cameroun e quelli della CEEAC
(Communauté Economique des Etats de l’Afrique Centrale) comprendente,
per dare solo un’idea dell’equipaggiamento ...
oltre ai sei paesi sopra elencati, il Congo Democratico, l’Angola e il Burundi. Soprattutto il Ciad – Idriss Débi è presidente del Ciad e presidente
in esercizio della CEEAC – figura ombra del colpo di stato di Bozizé dieci
anni fa, ha deciso di intervenire anche militarmente per evitare il peggio.
Truppe ciadiane hanno preso posizione sulle piste che conducono dal
Nord-Est a Bangui con l’intenzione di bloccare l’avanzata della SELEKA.
Fumo negli occhi o intenzioni serie? Nella prima settimana di gennaio, Idriss
Débi ha convocato d’urgenza un primo summit della CEEAC a N’Djamena
per cercare soluzioni pacifiche alla crisi centrafricana.
Dopo quest’incontro, N’Djamena ha cambiato atteggiamento rispetto a
quanto affermato in partenza. Idriss Débi si è accontentato di agire nel
contesto delle truppe della CEMAC, forze cui era attribuita una funzione
di interposizione e comunque nettamente insufficienti per impedire ai ribelli
di conquistare Bangui. Perché questo cambiamento di atteggiamento da
parte del presidente ciadiano? Reazione di collera davanti al rifiuto di Bozizé di scegliere N’Djamena come luogo del dialogo di pace?
Oppure disaccordo su problemi economici: lo sfruttamento del petrolio nel
Nord-Est della RCA, che ridurrebbe la falda petrolifera ciadiana?
La presa di distanza tra il Ciad e la RCA aveva cominciato ad apparire da
qualche tempo, soprattutto da quando, mesi fa, le truppe ciadiane che costituivano la guardia presidenziale di Bozizé, erano state ritirate. Bozizé si era
allora rivolto al Sud Africa, a Jakob Zuma, che ha accettato di mandare
qualche centinaio di uomini, non sappiamo in seguito a quali promesse di
vantaggi economici. Bozizé ha fatto ancora una corsa in Sud Africa poco
prima della sua caduta, senz’altro per sollecitare che forze più consistenti si
impegnassero direttamente nel conflitto contro la SELEKA. Qualche altro centinaio di soldati sudafricani sbarcarono in RCA, ma non abbastanza numerosi
e non preparati. Jokob Zuma dovrà mostrarsi molto convincente con i suoi
concittadini per far accettare questo scacco diplomatico e militare.
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10-11 marzo - Libreville: secondo summit straordinario della CEEAC
sulla RCA
Presenti a quest’incontro per l’elaborazione di un piano per uscire dalla
crisi, oltre a Bozizé e ai rappresentanti della SELEKA, dell’opposizione democratica centrafricana, della società civile della RCA, dell’arcivescovo di
Bangui e di altri esponenti religiosi, i capi di stato o dei loro rappresentanti.
I lavori sono stati condotti a ritmo accelerato. Si sfugge difficilmente all’impressione che le parti centrafricane in conflitto siano state forzate a sottoscrivere le decisioni che erano loro imposte dall’assemblea, preoccupata di
non lasciare che l’incendio centrafricano si estendesse ai paesi della regione.
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Di ritorno a Bangui, l’attuazione di questi accordi è apparsa molto più complessa di quanto si fosse pensato a Libreville. Nicolas Tiangaye, nominato
primo ministro, ha creato il governo di unione nazionale come previsto.
Ma tanto Bozizé quanto i rappresentanti della SELEKA non sono rimasti
con le mani in mano. Bozizé si è ritenuto autorizzato a nominare dei ministri delegati in tutti i ministeri, in cui le personalità scelte non erano di suo
gradimento. In più ha mobilitato la popolazione civile di Bangui a vigilare
contro le infiltrazioni della SELEKA, scatenando una caccia all’uomo nei
confronti di coloro che erano originari delle regioni da cui la ribellione veniva. Ha cercato anche, oltre al Sud Africa, di coinvolgere la Francia. Qualche centinaio di militari francesi sono di fatto giunti a Bangui, ma per
proteggere i francesi e gli stranieri della capitale, ed eventualmente favorirne l’evacuazione, non per favorire Bozizé.
Dal canto suo la SELEKA non ha mai smesso di conquistare nuove regioni,
nuove città e di continuare la sua opera di devastazione del paese, accusata dai sostenitori di Bozizé di non rispettare gli accordi di Libreville.
La SELEKA replicava negli stessi termini, esigendo la liberazione delle persone imprigionate e che fosse rimandato a casa il contingente sudafricano:
paralisi completa. Nel frattempo ciascuno si preparava al peggio. Ciò avvenne nella settimana dal 17 al 24 marzo.
LA SELEKA AL POTERE
Uno dei primi atti dei nuovi padroni del paese fu di proclamare un nuovo
presidente della repubblica al posto di Bozizé, Michel Djiotoida, capo riconosciuto della SELEKA, autoproclamatosi presidente della RCA non
senza qualche contestazione da parte di altri capi. Nel mondo intero, ONU,
Unione Africana, Unione Europea, Francia e altri capi di stato … un coro di
voci ha disapprovato questa modo di procedere: più nessuno accetta che
un presidente prenda il potere tramite un colpo di stato autoproclamandosi tale. Djotoida ha riconfermato Nicolas Tiangaye nella funzione di
primo ministro, alla quale era stato elevato dopo Libreville.
Due giorni fa il CNT, composto di 97 membri di ogni orizzonte politico, ha
tenuto la sua prima riunione ed ha proclamato, per acclamazione, Michel
Djiotoida presidente della RCA.
Quella sera si dice che le scariche d’armi che ci hanno fatto sobbalzare
sulle nostre sedie, fossero spari gioia, per festeggiare il nuovo eletto! Non,
però, così dappertutto, visto che in certi quartieri ci sono stati ancora saccheggi e morti!
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Michel Djiotoida
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CONSIDERAZIONI
La RCA ha un presidente legittimo, ma questo, per il momento non cambia
nulla alla situazione tragica che il paese attraversa. Djotoida non ha autorità
sui suoi uomini e non riesce ad ottenere che rendano le armi e cessino
il saccheggio. Quale ricompensa può dare loro perché accettino il disarmo
e tornino alla vita civile o si facciano integrare nell’esercito? Le casse dello
stato sono vuote, il paese è in ginocchio, perché da mesi tutte le attività produttive sono bloccate o anche distrutte dalla ribellione. L’amministrazione è
completamente disorganizzata, le strutture amministrative, sistematicamente
saccheggiate e distrutte, sono inesistenti. Tutto è da ricostruire, tutto è da
riorganizzare. Con quali mezzi? Non c’è più un esercito nazionale, non c’è
più gendarmeria né servizi di polizia. Chi potrà riportare sicurezza e tranquillità, che permettano alla popolazione di rialzarsi e di riprendere le attività? Da
due mesi o più i funzionari non hanno ricevuto salario. Per di più, molti di loro
sono stati depredati dai ribelli e dai banditelli del luogo loro alleati. Hanno
fatto la fame e non hanno potuto curare i loro malati. Le banche sono chiuse
- il grosso dei loro capitali all’estero - nel timore di un possibile saccheggio.
Non dispongono di grandi riserve di liquidità per pagare gli stipendi. Possono
tutt’al più darne una parte. Ma quando un primo tentativo è stato fatto, gli
uomini della SELEKA sono arrivati con i loro fucili e hanno tentato di impadronirsi dei fondi delle banche. La coda dei funzionari, che attendevano con pazienza di ricevere qualcosa, si è volatilizzata come fumo nel vento. Speriamo
che i paesi della CEMAC, l’ONU, l’Unione Europea e l’Unione Africana si mobilitino per aiutare questo paese a rimettersi in piedi e non solo per una decina d’anni, ma per un avvenire nuovo e prospero.
il cambiamento? nuovi rifugiati verso i campi profughi dei paesi oltre confine
Un bisogno urgente, oltre all’apporto di fondi da investire, è la creazione di
una forza di sicurezza nazionale in grado di imporre la legge tanto ai ribelli
refrattari quanto ad ogni altro tipo di opportunista che approfitta della situazione confusa che il paese conosce. Rimettere in piedi un esercito nazionale
è un’impresa di ampio respiro e qui non c’è molto tempo. La gente soffre e
non si può accettare che questa situazione si prolunghi all’infinito. Bisogna
che nel quadro più appropriato (CEMAC o UA o ONU) delle forze di sicurezza
siano rapidamente mandate in RCA per ridare speranza alla gente e permetterle di rialzare la testa.
Speriamo che il governo - atteso per i prossimi giorni - guadagni la fiducia
di quelli che possono dare una mano. Che soprattutto cessi di essere un
governo che anziché al servizio del bene comune del paese, mette il paese
e le sue risorse al servizio di interessi personali o clanici.
Che ne è stato dell’esercito nazionale, le FACA (Forces Armées Centrafricaines)? Poco numeroso, poco armato, non preparato a battersi, non
motivato per rischiare la vita per il paese e il suo governo, le rare volte che
è intervenuto in qualche scontro, ha subito grosse perdite e ha rapidamente
abbandonato le posizioni, il più delle volte, prima ancora che lo scontro
con i ribelli avvenisse. Nelle vicinanze di Bangui sono state le truppe sudafricane a dare del filo da torcere ai ribelli, non le FACA. Bozizé, in dieci anni
di potere, non ha mai cercato di formare un esercito su cui poter contare,
diffidando dei suoi ufficiali, probabilmente temendo che potessero giocargli lo sc herzetto che egli stesso aveva giocato a Ange Félix Patassé, di cui
aveva preso il posto, tramite un colpo di stato nel 2003. In un discorso pub-
47
blico, poco tempo prima dell’arrivo dei ribelli a Bangui, aveva accusato
l’esercito e le forze di polizia di aver tradito il paese, perché rifiutavano di
battersi contro i ribelli. Non erano certo questi discorsi a risvegliare slanci
eroici nelle sue truppe!
Ci sarebbero ancora molte altre questioni da affrontare, ma sarebbe troppo
lungo ed io stesso non dispongo di documenti che permettano di avanzare ipotesi fondate. Ne formulo solo alcune...
Quali le vere intenzioni di Michel Djotoida? Soltanto rivendicare maggiori
condizioni di giustizia per le popolazioni della sua regione (il Nord-Est del
paese), che tutti i governi precedenti hanno trascurato, o è in atto un progetto di islamizzazione della RCA, quale piattaforma di diffusione dell’Islam in Africa? Ci sono dei documenti scritti da Djotoida che vanno in
questa direzione. Sono solo dei testi destinati ad ottenergli sostegni economici da parte di paesi arabi o c’è dietro di più?
Da quando la SELEKA è giunta a Bangui, il Qatar ha aperto un’ambasciata all’hotel Ledger Plaza, là dove appunto ha preso dimora il nuovo
presidente della RCA. Puro caso o intesa?
Chi ha finanziato la SELEKA? Migliaia di uomini ben armati, con veicoli in
quantità, che hanno potuto spazzare via ogni resistenza delle FACA ed
avanzare a ritmo estremamente rapido… Chi c’è dietro tutta questa realtà?
Dei paesi come il Qatar, che non sa cosa fare dei suoi miliardi? E’ vero che
nell’Est della RCA ci sono diamanti, c’è oro, c’è uranio ed altre ricchezze,
che non bastano, però, a spiegare la forza della SELEKA che, nella sua
avanzata, contrariamente alle esperienze passate, ha molestato e saccheggiato anche le missioni cattoliche: il vescovo di Bambari e dei sacerdoti di Alindao sono stati picchiati e spogliati dei loro beni. Si è detto
… ma sarebbe da verificare in che misura sia vero, che i negozi dei mussulmani non sono stati saccheggiati, che sono anzi questi commercianti
che ricompravano ai ribelli le merci predate, per andare poi a rivenderle nei
paesi vicini. Questo insinua l’idea di un conflitto a base religiosa che
può avere conseguenze molto gravi nell’avvenire. Delle persone hanno
anche ricevuto dei messaggi SMS o e_mail, in cui si diceva loro che ormai
non è più nelle chiese che bisogna andare a pregare, ma nelle moschee …
opera di qualche fanatico islamista o espressione di una realtà più consistente?
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Un’ultima domanda, importante per noi cristiani, che stiamo celebrando
ancora la Pasqua del Signore: che cosa il Signore ci fa capire attraverso
questo disastro, a che scelte nuove ci chiama? Se crediamo quello che
S. Paolo ci dice, che Dio fa volgere verso il bene tutto quanto ci succede,
anche la croce (e quella che viviamo è una croce molte pesante per il popolo della RCA!), qual’ è la grazia che ci sta facendo attraverso questo cammino doloroso, a noi come Chiesa, come cristiani, come religiosi? Finché
non troveremo una risposta convincente, un dubbio sulla bontà e sulla saggezza di Dio può minacciare la nostra fede. Ma se ci è dato di trovare questa risposta, allora potremo cantare di nuovo l’inno della notte di Pasqua:
“Felice colpa che ci ha valso un tale Salvatore”.
Repubblica
Centrafricana
Per amore
della nostra patria
di Mons. Dieudonné Nzapalaiga
E
così, l’arcivescovo di Bagui,
mons. Dieudonné Nzapalainga,
ha testimoniato: “nella mia memoria
di centrafricano, nella mia vita, non ho
mai assistito a nulla di tutto questo. Si
tratta di persone che sono fuggite e che
si sono rifugiate nell’Hôpital Communautaire, che accoglie al momento
1.400 persone. Scene di desolazione, bambini piccoli sul pavimento senza
nulla da mangiare. Al momento i cristiani sono negli ospedali impegnati
nella preparazione dei pasti da offrire ai loro fratelli e alle loro sorelle, senza
alcuna distinzione di credo, di razza o di provenienza, perché tutti gli uomini
sono creati a immagine di Dio e il messaggio di Gesù Cristo è un messaggio universale”.
Questa crisi è politico-militare: non è religiosa.
La Repubblica Centrafricana è un Paese laico: c’è libertà di religione e ciascuno può professare la propria fede. Il voler ora imporre o introdurre un
elemento religioso nella sfera politica è qualcosa cui diciamo no e lo diciamo in modo forte e chiaro a coloro che tentano questo tipo di trappola,
che vogliono farci cadere su questa buccia di banana: dobbiamo essere
vigili, dobbiamo tenerli fuori, isolarli!
Ecco perché lanciamo un messaggio solenne a tutti i responsabili, affinché
si assumano le loro responsabilità e dicano apertamente che è fuori questione qualsiasi maltrattamento nei riguardi di preti e suore, che è fuori
questione commettere ancora ingiustizie e violenze nei loro riguardi.
È tempo di porre, e in fretta, un termine ad atti ingiusti che potrebbero provocare, nella testa della gente, sentimenti antireligiosi o che potrebbero far
pensare che questa crisi o questi avvenimenti abbiano come obiettivo i cristiani, essendo contro di loro. Bisogna che preti, pastori e imam siano protetti. Parlo per tutti. Gli uomini di Dio devono essere protetti. Questa è una
crisi politica; non bisogna permettere che svolti verso una deriva religiosa. Quando si è responsabili, si è responsabili di tutti. Un presidente è
il presidente di tutte le religioni, senza alcuna eccezione”. (da sito Radio
Vaticana) Ancora più incisiva la denuncia, la terza domenica dopo Pasqua,
nella sua coraggiosa omelia.
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un’amulanza raccoglie per strada i feriti
Il Cristo risorto invita noi, come gli apostoli e in particolare Pietro, a rendere
conto della nostra fede. La principale missione degli apostoli è quella di annunciare il Cristo risorto per renderlo presente agli altri. Un annuncio che
non si può tacere ... Pietro e gli apostoli non si lasciano scoraggiare dalle minacce e dalle persecuzioni delle autorità di Gerusalemme. Con coraggio, rispondono che "bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini". (...)
I numerosi abusi subiti dalla popolazione centrafricana, in generale, e dai
cristiani in particolare, mostrano una decisa volontà di nuocere alla pratica
della legge cristiana e d’impedire l'opera di evangelizzazione:
- Più di un centinaio di veicoli e motocicli rubati;
- Edifici di chiese e altri oggetti religiosi profanati (a Mobaye nell a parrocchia di San Giuseppe, la Madonna della Concezione di Batangafo e altri);
- Le radio cattoliche e centri pastorali saccheggiati e devastati;
- Celebrazioni liturgiche disturbate;
- Colpi sparati nella cattedrale di Notre Dame a Bangui al termine della celebrazione della Domenica delle Palme;
- Assalto a sacerdoti e religiosi: tra cui a suore, a sacerdoti di Mbrès Alindao, Bangui, Bossangoa e anche al Vescovo di Bambari;
- Impedimento agli spostamenti di operatori pastorali (3 vescovi, sacerdoti
e suore bloccati a Bangui dopo la Settimana Santa).
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Deploriamo anche la contro testimonianza di quei cristiani che hanno partecipato attivamente al saccheggio e alla distruzione di proprietà.
ragazzini armati e combattenti, di entrambi gli schieramenti:
dall’inizio del conflitto, secondo UNICEF, il loro numero ha superato i 600.000
Gesù domanda a Simon Pietro: “Simon Pietro, figlio di Giovanni, mi ami tu
più di costoro?".
Cristo ci rivolge la stessa domanda, perché vuole che noi lo amiamo per comunicare il suo amore ai nostri fratelli e alle nostre sorelle e, di fronte alla
crisi militare e politica del nostro paese, chiediamoci allora se amiamo davvero la Repubblica Centrafricana. Amiamo le strutture dello stato come
le scuole, gli ospedali, i municipi, le prefetture? Amiamo i centrafricani che
hanno servito il loro paese in qualità di alti funzionari? Amiamo veramente
i deboli, i poveri e gli indifesi? Amiamo i malati, bisognosi di cure adeguate?
Amiamo e rispettiamo davvero i morti che chiedono solo di essere sepolti
con dignità?
Sorgono dei dubbi sull'amore che nutriamo per il nostro paese se consideriamo alcuni atti spregevoli che sono stati commessi:
- Minacce, terrore e torture psicologiche;
- Stupri di giovani ragazze e di donne, alcune delle quali si sono suicidate;
- Reclutamento di bambini soldato e nella milizia;
- Umiliazione pubblica di alcuni soldati del FACA e di poliziotti.
- Costringere la popolazione a rifugiarsi nella foresta o nei boschi;
- Tagliare la fornitura di farmaci e materie prime ad alcun e città;
- Taglio d’energia elettrica e d’acqua anche negli ospedali e negli obitori;
- Carenze di beni di prima necessità e l'inflazione;
- Taglio delle comunicazione con alcune città fuori di Bangui;
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- Edifici pubblici, ospedali, scuole, case private saccheggiate, confiscate o
distrutte;
- Furti e confisca dei veicoli.
Di fronte ai saccheggi, agli atti di distruzione e di umiliazione sistematica,
di fronte ad un tessuto sociale imbrogliato dalle menzogne, dal tradimento
e dall'odio, di fronte alla caccia alle streghe, al clima di sfiducia e di insicurezza, noi corriamo il rischio di arrivare all’a postasia, rinnegando la nostra
fede, di alimentare in noi lo spirito di vendetta o di vivere nella paura.
La Parola di Dio, però, ci ricorda che anche in queste situazioni tragiche
siamo chiamati, come gli apostoli, a dare una vera testimonianza di Cristo,
vincitore della paura, dell'odio, della violenza e della morte, e Signore della
speranza, dell’amore, della pace e della vita ...
Ai responsabili de lla politica dico: “ciò che voi volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa è la Legge e i Profeti" (Mt 7,12).
Voi sapete che il nostro paese è in crisi per non avere rispettato le parole
date, per decisioni sbagliate, per scelte politiche rivelatesi dannose per la
nostra sorte, per una sfrenata ricerca del potere.
In questo momento, i problemi più urgenti sono, innanzitutto , la sicurezza
del paese, il funzionamento coerente, libero e democratico del Consiglio
Nazionale di Transizione, il disarmo e l’acquartieramento dei combattenti,
il rimpatrio dei mercenari, l’effettiva ripresa del lavoro e delle attività scolastiche, la ridistribuzione di funzionari, gendarmi e agenti di polizia su tutto
il territorio, il pagamento dei salari.
Per amore della nostra patria, chiediamo ai politici di lavorare per la giustizia, la pace, l'armonia, il buon governo, il rispetto reciproco e il bene
comune.
A tutti i cristiani e a tutti gli uomini e donne di buona volontà dico: cari
fratelli e sorelle in Cristo, uomini e donne di buona volontà, come abbiamo
visto nel Vangelo, i discepoli, scoraggiati per la morte del loro Maestro, si
sono sentiti abbandonati. Riprendono la loro vita ordinaria e ritornano alla
loro attività di pescatori. Hanno faticato tutta la notte senza prendere nulla.
E' a questo punto che il Cristo risorto li raggiunse presso il lago di Tiberiade
e li invita a gettare di nuovo la rete sul lato destro della barca: "la gettarono
e, questa volta, non riuscivano a tirarla su tanti erano i pesci." Noi stiamo
facendo, a nostro modo, l'esperienza degli Apostoli dopo i tragici eventi
che stanno mettendo a dura prova il nostro paese. Tuttavia, Cristo non abbandona il suo popolo in Africa Centrale. Come a Pietro e agli Apostoli, egli
viene a noi e ci dice da che parte lanciare di nuovo la rete della riconciliazione, della giustizia e della pace. Resi forti dalla presenza di Cristo che
scaccia dai nostri cuori la paura, ritroviamo la via del dialogo nella verità,
del rispetto interreligioso e della fraternità nell'amore per la ricostruzione del
nostro paese lacerato.
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Dio benedica il Centrafrica!
Ciad
Piccola cattedrale
per grande fabbro
di P. Franco Martellozzo S.I.
P
rima di tutto vorrei chiudere la bocca ai critici
che brontolano: "Una cattedrale a Mongo con
tanta gente che muore di fame?” Ma al di là del
titolo pomposo "cattedrale”, un puntino sulle « i » vorrei metterlo anch'io. E' bellissima, in pietre bianche di
granito, tagliate a mano da una squadra formata dagli
amici italiani di Verceia in Valtellina, capitanati da Giordano Angel.
Ma potrebbe cadere sotto la minaccia di Gesù: «Di queste pietre non resterà pietra su pietra» se in concomitanza non ci fossero « le pietre vive»
delle nostre comunità cattoliche che irraggiano nella regione (a 95 per cento
mussulmana) fratellanza e sviluppo socio-culturale.
Detto questo vorrei lasciare la penna a qualcuno il cui cognome finisce per
« Sconi » originario dell'alto milanese, ma non si tratta del cavaliere.
L a parola non gli manca, specialmente quando un folto pubblico pende
dalle sue labbra, ma prova una ripugnanza invincibile per lo scritto e così
purtroppo debbo sacrificarmi.
53
Burkina-Faso: fr. Rusconi con i suoi collaboratori
mostra soddisfatto le prime cucine solari
Ha passato un mesetto in Burkina dove, a velocità supersonica, ha fatto
partire a razzo un'officina di cucine solari, una prima per il Burkina.
E QUESTA È UN'IMPRESA EROICA, perché contemporaneamente abitava
dal sultano locale sempre assente, aveva un'immensa camera con due
grandi letti a tre posti da indurre in tentazione e una bellissima televisione
che non funzionò mai. Ma soprattutto una cuoca spec iale che preparava
sempre la solita pasta stracotta alla francese e una salsetta locale a base
di peperoncini. Così è arrivato tra noi a Mongo dopo un viaggio tremendo,
con un diavolo per capello e con una bella patacca nel fondoschiena che
volgarmente chiamano emorroidi. Fr. Alberto lo rimise in forma in tre giorni
pronto a partire via sparato per l'ultima impresa :
operai allavoro nel piccolo e semplice atelier
dove si stanno allestendo le cucine solari
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il grande portone, ancora a terra, in fase di assemblamento
• costruzione di un portone enorme per la cattedrale, a fisarmonica, che
domanda una precisione da fuso orario (7m71 x 4m47)
• costruzione di 16 quadri metallici per la posa dei vetri della cattedrale.
Ognuno di questi quadri comporta più di trecento buchi ... roba da andare
fuori di testa (4m74 x 1m73)
Va detto che il nostro eroe non viene per rubare il lavoro ai saldatori locali
ma per formarli. Quindi, per prima cosa, ha costruito quello che noi chiamiamo « gabarit » (o modello) sia per il portone sia per i quadri.
È a partire da questo gabarit che i due saldatori da lui formati hanno poi saldato le porte e i quadri. Le porte sono già finite e installate, i quadri non ancora ma ormai i due saldatori, Mahamat e Hamat, se la cavano da soli.
Grazie, Pietro, a nome di tutta la diocesi di Mongo e arrivederci l’anno
prossimo per altre grandi imprese.
Ed ecco, quasi incredibile, che Fr. Rusconi, il fabbro della cattedrale, scrive..
P. Franco Martellozzo mi propose questo lavoro perché nessuno s’impegnava a farlo: un po’ difficile e, per di più, pesante. Non c’erano disegni
adeguati e ci voleva coraggio per affrontarlo. Ho un po’ tentennato, rendendomi conto dell’impegno… poi ho iniziato e, con sorpresa di tutti, è andato
avanti e tutti venivano a vedere il procedere del lavoro. Oltre al portale d’ingresso, il lavoro più importante, ho dovuto affrontare la parte più difficile:
tutta la parte superiore della cupola è in ferro come anche la croce. Poi ho
dovuto realizzare le intelaiature in ferro dei 16 finestroni – l’edificio della
chiesa è a pianta ottagonale - che dovranno contenere le vetrate colorate.
Ce l’abbiamo fatta! – questo era l’obiettivo - ma posso dire che quella è
stata la mia quaresima: ho trascorso la maggior parte delle ore in ginocchio, sotto un sole cocente; è stato grazie alla buona volontà, anche senza
l’attrezzatura necessaria, che abbiamo fuso non solo il ferro ma anche le
due religioni!
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Ciad
Al punto di partenza
dopo il giro dell’oca
di P. Franco Martellozzo S.I.
A
56
Baro, sede di una nostra parrocchietta, abbiamo una scuola elementare, un liceo e tra le altre attività sociali anche un bel dispensario
che Fratel Alberto Chiappa visita periodicamente assieme agli altri
due dispensari a lui affidati, Bardangal e Dadouar. Ma per Alberto non è
una novità, poiché all'inizio della sua carriera missionaria (1968) fece le sue
prime armi proprio qui a Baro per rimpiazzare un fratello gesuita, Fratel Vial,
partito amareggiato per le angherie subite da parte dei ribelli che avevano
saccheggiato il dispensario e fracassato il suo microscopio. Fu una gavetta
molto dura per Alberto che dovette lavorare in un clima generale di insicurezza e di precarietà e vide il suo confratello spagnolo Perez morire nel ’73,
mitragliato dai ribelli sulla strada che va da Bitkine a Mongo: i missionari europei erano genericamente presi di mira, perché sospettati di essere in
combutta con i governativi e di nascondere armi. Trascorsi 6 anni - ormai
tutta la regione era stata occupata dai ribelli - le autorità militari e civili obbligarono i padri a ritirarsi da Baro, perché ritenuti testimoni scomodi. Fr. Alberto non poté perciò più lavorarvi e venne a raggiungermi a Bousso-Bailli,
dove collaborammo per 12 anni e dove lanciò un po’ dappertutto dei piccoli centri sanitari autogestiti. Quante avventure vissute insieme in quelle
vaste savane! Un ricordo speciale va alla nostra collaboratrice preziosa,
suor Piera Scazzosi di Santo Stefano Ticino, che adesso ci assiste dal
Cielo. Fu là che Fr. Alberto con Sr. Margherita, consorella di Sr. Piera, delle
Suore di Nostra Signora degli Apostoli avviò un’interessante esperienza
pastorale di formazione rivolta alle giovani coppie in preparazione al matrimonio cui partecipavano anche coppie musulmane. Da Bousso-Bailli Fr.
Alberto passò a Kiabé, per collaborare con dei gesuiti spagnoli e lì sfruttò
particolarmente la sua dote di rabdomante per costruire pozzi in zone dove
l'acqua era molto difficile da trovare e dove, per lui, ci fu l’incontro/scontro
con la cooperazione elvetica che aveva stipulato dei contratti con il governo ciadiano per progetti di sviluppo in ambito sanitario, ma fr. Alberto
con molto senso pratico, d’accordo con il sotto prefetto, mise come condizione che fossero scavati dei pozzi, perché senz’acqua pulita la salute
va a farsi benedire, e la spuntò! E, sempre nell’ambito del progetto salute,
gestì un deposito di medicinali che aveva sede nel mercato di Kiabé.
Finalmente fu destinato a Sarh e fu responsabile della farmacia centrale del
BELACD (Caritas diocesana) per 18 anni, durante i quali, per quattro anni,
dovette anche assicurarne il coordinamento sanitario, poiché, partito il medico spagnolo, lunga fu l’attesa della dottoressa tedesca, inviata da Misereor. Ma la dottoressa curava e operava i malati nell’ospedale di Moissala,
a 190 Km dalla sede del BELACD di Sarh, dove giungeva solo in caso di
necessità. Fr. Chiappa si definiva la ruota di scorta e continuava la supervisione dei centri sanitari, li riforniva di medicinali, provvedendo anche ai due
ospedali di Moissala e Goundi, costruito da P. Angelo Gherardi S.I. Poi,
come passatempo, faceva anche il ministro della nostra piccola residenza,
dove P. Luigi Lomazzi trovava un confratello sempre disponibile ad aiutarlo.
Un’attività, la sua, che ha dato una visibilità tangibile della Chiesa cattolica,
sensibile verso tutti, senza alcuna discriminazione.
Pensava che ... avrebbe potuto ritornarsene in Italia, dopo tanti anni di avventure e di servizio; il Signore invece volle dargli un'ultima penitenza (o
soddisfazione): tornare a Baro, luogo dei suoi primi passi nella vita missionaria, per salvare il nostro progetto sanitario, che stava facendo acqua da
tutte le parti per una gestione disastrosa. In particolare i suoi predecessori
avevano fatto un’ordinazione di medicinali talmente strampalata, che minacciava di far crollare tutto il sistema finanziario del vicariato. Non scendo
nei dettagli, perché fr. Alberto in passato ne ha già parlato, ma un solo
esempio: una caterva di medicinali praticamente scaduti e da buttar via già
dopo un mese dal loro arrivo dalla fabbrica olandese IDA.
Con pazienza da anacoreta, Fr. Alberto riuscì a districare la matassa e a limitare al massimo le perdite. Bisogna ricordare che è Misereor (la Caritas
tedesca) che finanzia in buona parte il coordinamento sanitario di Mongo,
richiedendo, però, verificabilità e trasparenza della gestione! La situazione
trovata da fr. Alberto era … dire caotica è un eufemismo! Allora, benché fumante come una caldaia sotto pressione, con pazienza certosina – non è
mai stata attribuita questa dote a noi gesuiti, ma Fr. Alberto è stata l’eccezione che conferma la regola! - mise mano all’archivio che non era più stato
aggiornato, il che gli ha permesso, incollato ad una sedia, mattina dopo
mattina, di elaborare statistiche dal 2009 ad oggi, il che permette a un
nuovo progetto di ripartire!
Così, finalmente Alberto può rientrare in Italia con la viva speranza che
l'opera della sua giovinezza non andrà perduta.
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Brasile
Dalle piccole sementi di Morros e
di Marabá al grande Brasile
di P. Gigi Muraro S.I.
I
l 17 ottobre 1975 a Morros,
nasce una pargoletta, figlia di
un pescatore sul margine del
fiume Munim: Nélia. Due settimane dopo, battezzai questa
bambina... Dieci anni dopo, celebrai la sua Prima Comunione,
nella chiesetta di San Bernardo.
A 17 anni, Nélia entrò nel Noviziato delle Dorotee, a Messejana, nella periferia di Fortaleza,
nel Ceará. La conclusione delle
sue esperienze religiose è stata
la professione dei suoi Primi
Voti, nell’antica chiesa gesuita di
São Luís, del Maranhão. E io vi
partecipai con soddisfazione.
Qualche anno dopo, la Professione Solenne, nella Basilica di Nazareth, a
Belém del Pará . Già formata, Nélia passò a varie attività, nel corso degli
anni, tra cui: Manacapurú (sul Rio delle Amazzoni), a Manaus (sul Rio
Negro), in un collegio di Belém, e, adesso nella periferia di Marabá, dove
lavora allegra nel giardino infantile delle famiglie povere.
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Il 29 ottobre 1975, giorno del mio compleanno, ero nel Maranhão e, proprio quel giorno, nacque una bambina, chiamata Aparecida. La sua
mamma era devota e così, quando io
celebravo la Messa, vi partecipava
sempre, con la sua bimbetta, sui tre
anni o poco più, che incominciò a imparare... Gli anni passarono... e, sui
10 anni, avevamo l’occasione di incontrarci e parlare ... Arrivarono i famosi 15 anni e le feci un regalo: il
libro “Storia di una anima”, di Santa
Teresina del Bambino Gesù. Aparecida diventò sacrestana, sempre attenta a che in chiesa ci fossero i fiori
freschi e, contemporaneamente, diventò catechista di due gruppi di
alunni. Nel 1991, arrivò il Papa e ogni Parrocchia poteva inviare una sola
persona alla celebrazione eucaristica - 80 mila persone – ed io decisi di
scegliere la piccola Aparecida. Una rivoluzione, ma rimasi fermo nella
mia ostinazione: sapevo che qualcosa sarebbe accaduto... E, infatti, Aparecida decise la sua scelta. Conclusi gli studi liceali, nel dicembre 1993, lasciò la famiglia e partì per il Carmelo: diventò Sr Maria Luisa. Oggi è
Vice-Priora del Convento San Giuseppe, a São Luís del Maranhão.
Dalla famiglia Rabelo, nell’estremo quartiere del paese di Morros, nel 1982,
nacque un bambino. Nel giorno della festività di San Giovanni Battista – 24
giugno – ho sparso su di lui l’acqua del battesimo, nel nome di Bernardo.
Era una famiglia di grande fede religiosa, che fece sì che Bernardo fosse
assiduo alle Messe, al catechismo, nelle devozioni. Arrivato all’età di 16
anni, aiutava nella liturgia e nelle riunioni della Parrocchia. Nel 2001, un
Gesuita di São Luís gli propose la formazione nella Compagnia di Gesù.
Io stavo a Marabá e Bernardo venne nella nostra casa religiosa. Pensavamo che si sarebbe fermato un paio di mesi, per poi proseguire nel Noviziato. Ma un pomeriggio avvenne che, mentre Bernardo stava per entrare
in casa, davanti a lui, sul marciapiede, un assassino freddò con 7 colpi un
giovane. Per Bernardo fu uno shock e preferì tornare a Morros. L’anno seguente entrò nel Seminario Diocesano di São Luís. Seguì gli studi – filosofia, teologia - con egregi risultati e nel 2009 ricevette il diaconato. L’anno
successivo, il 5 settembre 2010,
assieme ad altri due seminaristi
della stessa Parrocchia del Munim,
Bernardo fu ordinato sacerdote.
Fu una grande festa per la sua
Prima Messa, nella nostra grande
chiesa di Morros. Padre Bernardo
fu scelto dal Vescovo a dirigere la
prossima Parrocchia di Humberto
di Campos. Due mesi dopo – in
quel tragico 22 novembre – Padre
Bernardo offrì un passaggio sulla
sua auto ad un giovanotto.... era
un bandito: gli sparò cinque colpi a
bruciapelo e lo buttò in mezzo al
bosco. Benché gravemente ferito,
riuscì a tornare sulla strada, fu portato nell’ospedale, ma inutilmente:
morì subito dopo il ricovero.
Sianne, brava ragazza, abitava a Marabá, nel quartiere Alto Planalto, più
che un quartiere, una favela. La sua mamma era stata abbandonata dal
marito: lavorava come lavandaia. La famigliola era religiosa. Avevo invitato
nella casa di Belo Horizonte due scolastici gesuiti, delle Antille, affinché
potessero organizzare la Comunità Parrocchiale. Sianne conobbe i Gesuiti...
entrò nel lavoro, con entusiasmo. I gesuiti restarono soltanto un mese: poca
cosa, ma il frutto del loro lavoro fu proprio la vocazione di Sianne. Aveva
voglia di servire e aiutare nell’annuncio del Vangelo. Così la scelsi per lavo-
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rare negli accampamenti dei
Senza-Terra, specialmente nella
Bamerindus e nella Pastorisa.
Sianne non si tratteneva pochi
giorni: approfittava delle vacanze
per formare i nuclei comunitari. Arrivò un’equipe di Suore Catechiste
Francescane che invitò la ragazza
ad unirsi a loro. Dopo pochi mesi,
Sianne decise di entrare nella loro
Congregazione trasferendosi a
Mundo Novo, nella Bahia. Come aspirante, poi postulante e, finalmente,
nel 2003, entrò nel Noviziato di Feira di Santana (vicina dei Gesuiti), dove
proferì i suoi Primi Voti. E poiché Sr Sianne era una donna in gamba, dove
la inviò la Superiora? In Patagonia! Tra la neve, senza conoscere la lingua
spagnola! La imparò in poco tempo, abituandosi al freddo: sempre con allegria e buona disponibilità. Tre anni! Tornò in Brasile, a Marabá, per celebrare la sua Professione Solenne, nel giorno 11 febbraio 2012, nella
chiesa di Sant’Antonio, dell’Alto Planalto, proprio quella che io costruii alcuni anni fa. Adesso Sr Sianne sta nel Morro do Chapéu, in mezzo alla regione, povera, arida, della Bahia.
Dall’interno del Maranhão, nel comune di Timbiras, una famiglia scelse di lasciare quella regione per mettersi in viaggio verso Itupiranga, nel Sud del
Pará. Tra loro c’era un bambino di cinque anni, il suo nome: Orazio. Il padre
era pescatore e più tardi anche il figlio lo diventò. Nel 1997, una Suora Teresiana arrivò nella mia casa di Marabá e, senza tante storie, mi disse che
c’era un bravo ragazzo che avrebbe potuto diventare gesuita. Mi chiese di
invitarlo l’indomani stesso. Detto e fatto: Orazio venne e rimase sei mesi.
Una sera, io e Orazio, andammo in un difficile accampamento dei SenzaTerra. Stavamo per addormentarci, quando venimmo a sapere che c’erano
cinque bambini con una grave forma diarroica. Durante la notte, tentammo
di fare qualcosa: inutilmente.
La mattina seguente, sulla mia piccola Fiat, caricammo tre mamme
con i cinque bambini, trasportandoli
a un centinaio di Km, all’ospedale.
Un’esperienza che segnò per sempre Orazio... Entrò nella esperienza
gesuitica, poi al Noviziato di Feira di
Santana, cui seguì il “Carissimato”,
a João Pessoa e poi nella Filosofia
a Belo Horizonte, sempre con voti
alti. Visse due anni nella Compensa,
il quartiere di Manaus, poi entrò
nella Teologia: il 25 settembre
2011, a Marabá, è stato ordinato
Sacerdote.
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(continua)
Brasile-Amazzonia
Acqua, aria, terra, fuoco
di Grazia Salice
A
vrebbe potuto essere il titolo del film “Un giorno devi andare” di
Giorgio Diritti, da aprile nelle sale cinematografiche. In realtà il fuoco,
l’elemento mancante, lo scorso novembre, ha divorato l’Igarapé SAO
JORGE, la favela di Manaus, dove è stata girata una significativa parte del
film e dove la gente ha perso tutto: la stessa dove c'era la sede dell'Equipe
Itinerante, nel barrio dove viveva P. Claudio Perani S.I.
Ho conosciuto questo film grazie a Kiki Perani che ringrazio per avermelo segnalato, perché parla proprio di itineranza geografica ed interiore. Mi ha
molto commosso - scriveva, proponendomi di scrivere le mie impressioni perché mi ha ricordato mio fratello P. Claudio, P. Fernando Lopez e il loro
impegno missionario, il loro bisogno di aiuto, il grande spettacolo naturale
del Rio delle Amazzoni, il modo spontaneo e semplice della gente locale.
Mi sono lasciata tentare a parlarne, perché vorrei che altri lo conoscessero
e si calassero in questa realtà. Non è facile trovare le parole che dicano
l’emozione, la partecipazione di donna, l’incanto per un film che è un richiamo non solo a scoprire un mondo, ma quasi un imperativo ad uscire dal
proprio per aprirsi ad una dimensione più ampia, più profonda dell’esistenza: insomma, all’itineranza interiore. Augusta, la protagonista, dice
“Devi andare, devi essere, devi sperare”. Morte e vita si affrontano in lei
e nel loro duello si dipana una storia che inizia con l’ecografia di un feto,
inerte nel grembo della madre, una storia di lacerante dolore per l’impossibilità di essere madre, di fallimento, di sconfitta, di spogliazion e.
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Da questo lutto ha inizio un imprevedibile viaggio dalle Alpi all’Amazzonia, un pellegrinaggio sì, nello spazio, ma anche dentro di sé, scandito dal
mutare dei luoghi e delle stagioni, ma soprattutto da una sofferta rinascita
interiore, un cammino - l’insistenza della macchina da presa nell’osare
tempi lunghi nelle scene, per significare l’immagine - che porta gradualmente la protagonista all’assunzione dell’essere.
Contrapposizione tra due mondi: la sterilità di Augusta, metafora di una
realtà, la nostra, immobile, tacita, fredda, soffocata nel perbenismo, che
non sa più trovare le parole per esprimere i propri sentimenti – la maschera
tragica del volto della madre di Augusta, la sua chiusura alla vita – né per
dire la gioia o gridare il dolore; solo la fredda fissità del volto dice solitudine,
amarezza, disapprovazione, ed una realtà, l’Amazzonia, che pur apparentemente derelitta, è viva, è un mondo che si muove con ritmo gioioso e vitale come nel ballo, un mondo che sa accogliere ed amare come Arizeta,
donna viva, sapiente e madre, potremmo dire, per vocazione, nella sua favela di Manaus e tra gli indios dove collabora con un missionario medico,
p. Fernando, nell’educazione sanitaria.
Il tema del viaggio o dell’itineranza – ITINERANTE, non a caso, è il nome
della barca che scivola sulla grandi acque amazzoniche – è il filo conduttore del film e l’acqua è il segno della rinascita, segno “battesimale” cui si
contrappone un altro forte segno, la neve, che altro non è che acqua congelata, che continua a imbiancare, tutto coprendo come una coltre immacolata, il montuoso paese nat io, il secolare monastero trentino, dove la
madre di Augusta va a cercare notizie della figlia e dove anche cerca una
risposta che non trova - “Lui non c’è, non si fa sentire” - perché anche il
monastero sembra pietrificato, dentro ad una bolla, in contrasto al pulsare,
fremere della vita nuova che Augusta ha incontrato.
Un film “religioso” non nel senso tradizionale della parola, anche se la religio ne tradizionale fa da sfondo al racconto che da intimistico diventa universale, un racconto dell’invisibile, di un’avventura dello spirito. La
religione tradizionale, così il regista affronta il dilemma, non dà risposte: in
questa itineranza la protagonista non trova il senso, la risposta soddisfacente alla sua ricerca né nella missionaria sr. Franca - professionista dello
spirito così la chiama – n é nel missionario impegnato in un mega progetto
di sviluppo per gli indios - ma l’hanno mai richiesto? - con un partner italiano il cui fine è il businnes.
Augusta ha bisogno di scendere in profondità, per tornare alla terra e l’accompagnerà un libro “In attesa di Dio” di Simone Weil, dono di p. Fernando.
L’evento “religioso” che le permetterà di fare esodo dal suo dolore non sarà
un’illuminazione dall’alto, ma qualcosa che matura in senso orizzontale, attraverso l’incontro con la comunità della favela di Manaus che l’accoglie e
con cui condivide la vita, anche se non vi troverà la risposta piena. Lascerà
tutto per confondersi con la natura. In questo incontro a tu per tu con la
terra, sulla spiaggia, dove sembra smarrirsi nello scatenarsi degli elementi,
di fronte all’immensità del fiume, riceverà il dono di una visita particolare.
È un processo di svuotamento per riempirsi di nuovo, il suo corpo diventa
quello di un’orante, e … l’arrivo del bambino che gioca con lei segna un
nuovo inizio.
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