TdO 7-2011 seconda parte

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TdO 7-2011 seconda parte
ORTHOviews
Review della letteratura internazionale
EVIDENCE BASED MEDICINE
Ebm: dai princìpi
alla pratica clinica
Uno dei principi su cui si è
sviluppata l’idea stessa di evidence based medicine è che la
ricerca non è tutta uguale e
produce risultati di validità
molto diversa. Questa che
sembra
un'affermazione
piuttosto banale assume però
un significato di grande rilievo quando si parla di ricerca
clinica, dal momento che in
questo campo uno studio
che abbia condotto a risultati non validi può avere serie
conseguenze su di un numero anche molto grande di
persone. E questo non è
certo un rischio solo teorico,
anzi (vedi box sull'aritmia).
La soluzione proposta
dall'Ebm per evitare che i
pazienti paghino gli errori
della ricerca è che il clinico
sia in grado non solo di trovare gli articoli utili ad aiutarlo nel prendere decisioni
sulla salute del paziente, ma
anche di individuare i
migliori tra questi: quelli
che, oltre ad avvicinarsi il
più possibile alla situazione
che si sta affrontando, siano
stati condotti con metodi
che riducano al minimo il
rischio di errori.
Questa lettura critica della
ricerca medica, che gli
anglosassoni chiamano critical appraisal, ha però delle
limitazioni piuttosto evidenti. Per cominciare
richiede un percorso formativo specifico, cosa che fino
a ora non avviene per la
maggior parte dei corsi di
laurea di ambito medico.
Inoltre questo tipo di esercizio analitico di uno o più
articoli può richiedere non
poco tempo, bene che nella
pratica clinica è frequentemente molto limitato.
osservazionale.
Recentemente questa guida
è stata aggiornata ed è consultabile sul sito del Centre
for
Evidence
Based
Medicine (www.cebm.net).
Si tratta sostanzialmente di
una tavola che in ogni riga
riporta le principali domande che un clinico si trova
solitamente ad affrontare e
di seguito il tipo di studio
capace di fornire una risposta, secondo cinque livelli in
ordine decrescente di validità.
Rispetto alla versione precedente, la nuova guida risulta
molto più semplice da consultare: comprende meno
categorie e le domande cliniche sono formulate utilizzando un linguaggio semplice, come quello che potrebbero utilizzare i pazienti. E
infatti, come dichiarato nel
documento introduttivo, la
guida adesso è indirizzata
anche a loro, che grazie a un
glossario potranno superare
il problema del gergo spesso
oscuro della ricerca clinica e
comprendere le caratteristiche essenziali degli studi
elencati.
Una guida per la buona
pratica medica
Nel 1998, con l’intento di
facilitare una pratica evidence based, venne pubblicata
una prima guida per aiutare
il clinico a selezionare in
maniera rapida gli studi
maggiormente validi, sulla
base di una gerarchia della
ricerca clinica fondata sull’assunto che, per esempio,
per quanto riguarda il trattamento, un trial randomizzato fornisce risultati comunque più validi di uno studio
La gerarchia delle evidenze
Una cosa che si nota scorrendo la nuova tabella è
che, con alcune eccezioni,
il livello più alto di validità è rappresentato dalle
revisioni sistematiche.
Queste, quando condotte
in maniera corretta, sono
da considerarsi sintesi dei
migliori studi disponibili,
il che significa che qualcuno con le giuste competenze si è preoccupato, in
vece del clinico, di trovare, valutare e sintetizzare
tutta la letteratura su di
uno specifico argomento.
Ecco allora che se si vuole
conoscere l’efficacia di un
trattamento, il meglio che
possiamo sperare di trovare è una revisione sistematica di trial randomiz-
I LIVELLI DI EVIDENZA SCIENTIFICA
DOMANDA
LIVELLO 1
LIVELLO 2
LIVELLO 3
Quanto
è comune
il problema?
Recente indagine
locale su campione
casuale
Revisione sistematica
di indagini
in situazioni simili
a quella locale
Indagine su campione Serie di casi
locale non casuale
Non applicabile
Il test
diagnostico o
per il monitoraggio è accurato?
Revisione sistematica
di studi cross-sectional
svolti in cieco e che
abbiano impiegato il
gold standard
Singoli studi
cross-sectional svolti in
cieco e che abbiano
impiegato il gold
standard
Studi non consecutivi Studi caso-controllo
o studi cross-sectional
che non abbiano
impiegato il gold
standard
Basato
sui meccanismi
della malattia
Cosa succede se
non si interviene
ulteriormente
(prognosi)?
Revisione sistematica
di studi di coorte
iniziali
Singoli studi di coorte Studi di coorte
iniziali
o singoli bracci di
trial randomizzati
Serie di casi, studi
caso-controllo o studi
di coorte di scarsa
qualità
Non applicabile
Questo
trattamento
è utile?
Revisione sistematica
di trial randomizzati
Singoli trial
randomizzati o studi
osservazionali con
effetti clamorosi
Studi controllati
non randomizzati
di coorte
o di follow-up
Serie di casi, studi
caso-controllo o studi
con controllo storico
Basato
sui meccanismi
della malattia
Quali sono
i danni di questo
trattamento?
Revisione sistematica
di trial randomizzati o
di studi osservazionali
con effetti clamorosi
Singoli trial
randomizzati o studi
osservazionali con
effetti clamorosi
Studi controllati
non randomizzati
di coorte
o di follow-up di
dimensioni sufficienti
Serie di casi, studi
caso-controllo o studi
con controllo storico
Basato
sui meccanismi
della malattia
Questo test
di diagnosi
precoce è utile
(screening)?
Revisione sistematica
di trial randomizzati
Singoli trial
randomizzati
Studi controllati non
randomizzati
di coorte o di
follow-up
Serie di casi, studi
caso-controllo o studi
con controllo storico
Basato
sui meccanismi
della malattia
Fonte: Oxford Centre for Evidence-Based Medicine 2011 - Levels of Evidence
LIVELLO 4
LIVELLO 5
zati, mentre se siamo interessati a un test diagnostico si tratterà di una revisione sistematica di studi
cross sectional.
Al gradino più basso della
gerarchia delle prove
scientifiche sta invece il
ragionamento basato sulla
conoscenza dei meccanismi della malattia. Perché
come troppe volte ha
mostrato la storia della
medicina, questo può
essere un pessimo metodo.
Alcune delle novità sono
in qualche modo sorprendenti. Tra queste la comparsa degli studi osservazionali al secondo livello
della gerarchia sul trattamento. Certamente, sono
ammessi solo quelli che
abbiano mostrato risultati
clamorosi (dramatic nell’originale), ma comunque è come se una categoria di studi, prima relegata
ai margini delle evidenze,
fosse stata sdoganata. A
questo si aggiunga che ai
livelli più bassi trovano
posto anche le serie di
casi, a cui viene riconosciuta una certa utilità
nell’individuare effetti
avversi e generare nuove
ipotesi. Più di uno storcerà il naso, ma almeno
saranno messi a tacere
quelli che hanno da sempre liquidato in maniera
sprezzante la Ebm come
“la medicina dei trial randomizzati”.
E comunque questo rappresenta un ulteriore
passo del percorso che
vede la Ebm passare dall’enunciazione di principi
formalmente corretti, ma
talvolta di difficile applicazione clinica, alla creazione di strumenti capaci
di coniugare rigore scientifico e applicabilità al
letto del malato.
Giovanni Lodi
Università di Milano
Meno aritmia, più mortalità
L’aritmia è una causa frequente di morte tra i
soggetti che abbiano subito un infarto. Dopo
che venne dimostrata la loro efficacia nel ridurre l’aritmia nei pazienti sopravvissuti a un infarto, tre farmaci (encainide, flecainide, e moricizina) vennero approvati dalla Fda per il trattamento di questi pazienti. Più di 200 mila pazienti
presero i farmaci con questa indicazione.
In seguito il Cast, un trial che usava la mortalità
invece dell'aritmia come indicatore di efficacia
(outcome), dimostrò invece che le morti erano
più frequenti tra i soggetti che prendevano i farmaci rispetto a quelli che prendevano un placebo.
È probabile che quell’errore nel disegno dello
studio, basato sull’assunto che se l’aritimia era
causa di morte, allora un efficace trattamento
antiaritmico avrebbe salvato delle vite, abbia in
realtà causato migliaia di morti.
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ORTHOviews
L AVO RO O R I G I N A L E
Trattamento topico delle cicatrici
Come prevenire l’iperproliferazione connettivale
Il processo di guarigione
Le basi biologiche della
guarigione delle ferite
vengono tradizionalmente
distinte in tre differenti
fasi:
“infiammatoria”,
“proliferativa” e “di rimodellamento”, tra le quali
tuttavia manca una vera e
propria separazione temporale e funzionale. Tali
fasi vanno infatti a
sovrapporsi e integrarsi,
orchestrandosi ordinatamente anche grazie all’azione di citochine e fattori di crescita (2).
Il delicato equilibrio tra
tutti i fattori che regolano
il processo di guarigione
delle ferite può talora
alterarsi, e i risultati di
queste alterazioni possono
essere sia un ritardo di
riparazione del deficit tissutale, sia una eccessiva
deposizione di tessuto
connettivo, la quale può
condurre alla formazione
di cicatrici ipertrofiche e
cheloidi (3).
È chiaro quindi quanto sia
importante favorire il
normale processo di riparazione delle ferite,
sostenendo il fisiologico
susseguirsi delle differenti fasi che lo contraddistinguono, facendo in
modo che la cute rigenerata abbia le stesse caratteristiche di quella sana, e
che sia dunque non solo
resistente alle sollecita-
zioni meccaniche, chimiche e fisiche, ma che sia
anche esteticamente soddisfacente.
Questo risulta particolarmente importante nella
disciplina di cui mi occupo - la chirurgia plastica sebbene oggigiorno tutte
le specialità chirurgiche
siano chiamate a porre
particolare
attenzione
non solo all’aspetto funzionale, ma anche a quello estetico delle cicatrici
che residuano al termine
degli interventi.
“
È noto, grazie all’abbondante numero di studi
disponibili in letteratura
internazionale, che tali
polinucleotidi favoriscono la riparazione delle
ferite (4, 5), anche in soggetti che tradizionalmente presentano difficoltà
alla guarigione di soluzioni di continuo cutanee,
come i pazienti diabetici
(6).
Un recente studio (7) ha
valutato le interazioni dei
nucleotidi con alcune
cicline specifiche coin-
riparato, valutata sulla
base del miglioramento
della forza tensile e della
resistenza alla trazione
(vedi grafico).
Di particolare rilievo è
stata la scoperta che i
polinucleotidi, nella fase
finale di riparazione delle
ferite, vanno a inibire la
progressione della proliferazione fibroblastica, limitando quindi la possibilità
di formazione di cicatrici
ipertrofiche e cheloidi.
Ciò dimostra come i polinucleotidi non solo favo-
L'impiego di prodotti
a base di polinucleotidi, coinvolti
nell'inibizione della proliferazione
fibroblastica, consente di limitare
la formazione di cicatrici ipertrofiche
“
La cute è l’organo principale di protezione del
nostro corpo svolgendo,
tra le altre funzioni, un
fondamentale ruolo di
barriera e protezione dall’ambiente esterno. Una
ferita a livello cutaneo
può alterare il funzionamento di tale organo e,
nel momento in cui si
verifica, interviene un
processo di riparazione,
estremamente sofisticato
e organizzato, che tende a
risolvere la soluzione di
continuo che è venuta a
crearsi (1).
e cheloidi, ottenendo un notevole
vantaggio estetico
L’efficacia
dei polinucelotidi
In considerazione di tutti
questi aspetti, dopo anni
di esperienze e di ricerche, ho studiato e creato
un nuovo prodotto Makeskin (Mastelli srl,
Sanremo - Italia) in grado
di favorire una migliore
riparazione delle ferite.
La mia attenzione si è
focalizzata in particolare
sui nucleotidi, piccole
sezioni a basso peso molecolare di Dna, con caratteristiche ben definite per
quanto concerne le metodiche estrattive, le tecniche di sterilizzazione e le
peculiarità chimico-fisiche.
volte nel processo di rigenerazione cellulare e riparazione tissutale (ciclina
D1 e ciclina E) e le loro
rispettive chinasi. Tale
studio,
effettuato
su
modelli murini, ha dimostrato come questi polinucleotidi siano in grado di
intervenire positivamente
sulla regolazione delle
suddette cicline, favorendo il rimodellamento
della cicatrice e migliorando quantitativamente
e qualitativamente il processo di riparazione, come
dimostrato da studi istologici. Inoltre, i polinucleotidi si sono dimostrati
capaci di incrementare
l’efficienza del tessuto
riscano e sostengano una
fisiologica progressione
della diverse fasi della
rigenerazione cutanea, ma
«giochino
un
ruolo
importante nel prevenire
l’iperproliferazione connettivale che può verificarsi durante la riparazione tissutale» (7).
I componenti naturali
L’ipertrofia connettivale
di tipo cheloideo viene
inoltre inibita da un’altra
componente di Makeskin,
ossia l’estratto di cipolla
(allium cepa) al 10%,
noto per la sua azione soppressoria sulla proliferazione fibroblastica (8, 9).
MARCO KLINGER
DAVIDE FORCELLINI
GUIDO CORNEGLIANI
LUCA MAIONE
Università degli Studi di Milano,
UO chirurgia plastica 2
Irccs Istituto Clinico Humanitas - Rozzano (Milano)
Conflitti di interesse dichiarati per il prodotto Makeskin:
la ricerca del Prof. Klinger è stata finanziata da Mastelli srl
Fondamentale risulta poi
essere l’aspetto estetico
finale della cicatrice, il
quale è notoriamente
compromesso da uno stato
prolungato di infiammazione (10), che va ad alterare l’idratazione e l’elasticità del tessuto rigenerato. Proprio per ridurre i
livelli di infiammazione,
nella crema sono presenti
vitamina E all’1%, potente anti-radicalico, e acido
ialuronico all’1%, ad azione fortemente idratante e
protettiva. Questi due
componenti, insieme ai
nucleotidi, favoriscono
anche l’attenuazione di
segni e sintomi eventualmente correlati a uno
stato di infiammazione a
livello della cicatrice stessa: eritema, bruciore e
prurito soprattutto.
Ritengo particolarmente
interessante sottolineare
come tutti i componenti
attivi citati siano sostanze
naturali, testate, perfettamente tollerate, e che il
prodotto è privo di agenti
conservanti. Quest’ultimo
deve essere applicato due
volte al giorno, al mattino
e alla sera, sull’area cicatriziale di interesse, con
un leggero massaggio e per
un periodo di almeno 1-2
mesi. È proprio nelle
prime fasi del rimodellamento della cicatrice che
possiamo intervenire più
efficacemente, con l’aiuto
dei nostri pazienti, nel
limitare al minimo qualsiasi tipo di inestetismo
correlato ad alterazioni
del processo di rigenerazione cutanea, rendendo
esteticamente
sempre
migliori le cicatrici che si
vengono a creare.
Bibliografia
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stem cells’ interaction with skin:
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Valutazione della forza tensile della ferita,
studio in vivo su topi diabetici.
I polinucleotidi incrementano la forza tensile della ferita.
*differenza statisticamente significativa
60
ORTHOviews
ANCA
S PA L L A
Chiodo endomidollare:
più sicuro nel grande
trocantere
Fissazione o artroplastica?
Un algoritmo per decidere
È abbastanza comune, per
gli ortopedici pediatrici,
trovarsi ad affrontare fratture della diafisi femorale e
di solito l’inchiodamento
endomidollare con bloccaggio nei ragazzi e adolescenti viene eseguito con
successo.
Nonostante sia una tecnica difficile, l’inchiodamento presenta vantaggi biologici, perché rispetta la
vascolarizzazione periostale, e meccanici, perché il
chiodo viene messo in
posizione neutra rispetto
all'asse della diafisi femorale.
Una complicanza rara ma
grave è data dalla necrosi
avascolare della testa del
femore. Si è ipotizzato che
il punto di inserzione del
chiodo possa esercitare
un’influenza sul rischio di
necrosi avascolare e in letteratura sono stati pubblicati diversi articoli in
merito.
Risultano documentati tre
punti di inserzione: l’apice
del grande trocantere, la
faccia laterale del grande
trocantere e la fossa
piriforme. Storicamente si
registra una tendenza dei
chirurghi a orientarsi progressivamente dalla fossa
piriforme alla parte apicale
del grande trocantere, proprio per minimizzare l’eventualità di necrosi avascolare, ma nessuno aveva
ancora verificato se il
rischio si riduce realmente.
Tre ricercatori canadesi,
del Clinical Research
Centre di Halifax, hanno
avviato una revisione sistematica degli studi scientifici finora portati a termine
per tentare di ricavarne
indicazioni utili a orientare
la scelta del chirurgo. Dei
1.277 articoli individuati
in letteratura, solo 19 sono
risultati rilevanti per gli
obiettivi che si erano prefissati gli autori; in tutti i
casi si è trattato di studi
retrospettivi e non c’è stata
una distribuzione uniforme
dei pazienti nei tre gruppi,
con l’inserzione nella fossa
piriforme nettamente più
utilizzata delle altre due (in
239 pazienti su 458).
Anche i periodi di follow
up sono stati diversi da uno
studio all’altro (da sei mesi
fino a dieci anni dall’intervento), ma nonostante
queste limitazioni gli autori
canadesi hanno fornito una
sintesi interessante.
Si conferma che il passag-
gio verso un più frequente
ricorso all’inserzione sul
grande trocantere è giustificato dalla effettiva diminuzione dei rischi di
necrosi avascolare. La percentuale di insorgenza di
questa complicazione è
stata infatti del 2% quando l’inserzione del chiodo
è avvenuta a livello della
fossa piriforme, è scesa
all’1,4% con il posizionamento a livello dell’apice
del grande trocantere,
mentre non è stato registrato nessun caso di
necrosi avascolare con la
scelta di un punto d’inserzione sulla faccia laterale
della prominenza ossea. I
pazienti trattati con questa
tecnica sono stati appena
80, una base statistica non
ampia, ma sufficiente per
indicarla come l’approccio
migliore per ridurre al
minimo il rischio.
R. T.
Macneil JA, Francis A, ElHawary R. A systematic
review of rigid, locked, intramedullary nail insertion sites
and avascular necrosis of the
femoral head in the skeletally
immature. J Pediatr Orthop
2011 Jun;31(4):377-80.
«Il trattamento delle fratture
omerali distali nel gomito
adulto continua a essere problematico. L’anatomia ossea
dell’omero distale crea difficoltà nella fissazione della
frattura, specialmente se
aggravata dalla comminuzione e dall’osso osteoporotico».
Sono le parole di Thomas L.
Mehlhoff e James B. Bennett,
del
Texas
Orthopedic
Hospital di Houston e il
punto di partenza del loro
approfondimento, pubblicato
sulle colonne del Journal of
shoulder and elbow surgery,
dedicato proprio alle fratture
più complesse, quelle pluriframmentarie di tipo C secondo il sistema di classificazione Ao-Asif.
Partendo da considerazioni
epidemiologiche e passando
attraverso un esame delle
modalità diagnostiche, i due
ortopedici analizzano le possibilità di trattamento, indicano i principi base per
affrontare nel modo migliore
la riduzione a cielo aperto
con fissazione interna e suggeriscono in quali circostanze
è opportuno considerare la
possibilità di un intervento di
artroplastica.
Gli autori propongono un
interessante algoritmo che ha
lo scopo di orientare i chirurghi verso il trattamento più
opportuno nelle fratture
omerali distali. Si tratta in
realtà di due alberi decisionali distinti alla radice per età,
poiché le scelte da compiere
sono diverse tra i giovani
adulti e i soggetti di età superiore ai 65 anni.
Tra i pazienti più giovani,
ribadiscono Mehlhoff e
Bennett, occorre fare tutti i
tentativi possibili per operare
una
riduzione-fissazione.
L’artroplastica totale di gomito non è un’opzione per questi soggetti. Ci si aspetta una
buona qualità dell’osso, al di
là della presenza di una dislocazione e della quantità e
grandezza dei frammenti
principali. Nei casi di non
unione dopo la fissazione,
l’algoritmo prevede un intervento di revisione, innesto
osseo e release capsulare. In
caso di artrosi post traumatica, l’artroplastica per interposizione fasciale può essere l’unica opzione.
Le fratture distali omerali nei
pazienti più anziani presentano sfide più impegnative.
Devono essere considerati il
grado di comminuzione, l’osso osteoporotico, la scarsa
qualità dei tessuti molli, l’intolleranza a un’immobilizzazione articolare e le esigenze
funzionali del paziente, per
esempio nel sollevare oggetti
pesanti con il braccio.
L’esame di questi fattori porta
a far rientrare il paziente
anziano in uno dei tre gruppi,
42 studi riferiti a mancate
consolidazioni della tibia.
Le medie delle guarigioni
sono risultate del tutto
simili: 82% per la chirurgia e 81% per la stimolazione biofisica con campi
elettromagnetici pulsati.
Analizzando le casistiche
più dettagliatamente, si è
visto che in presenza di
infezione diminuiscono le
percentuali di consolidazione dell’approccio chirurgico, mentre il successo
della stimolazione biofisica rimane inalterato.
Impossibile citare il gran
numero di lavori pubblicati sull’utilizzo della stimolazione biofisica per il
trattamento dei ritardi di
consolidazione delle fratture o nelle mancate consolidazioni, ma è interessante segnalare l’esistenza
di una qualificata produzione scientifica di specia-
listi italiani. Il primo studio italiano è stato condotto da Fontanesi che,
nel lontano 1983, ha
dimostrato come in 40
pazienti con frattura diafisaria di gamba, il tempo
medio di guarigione si
fosse ridotto a 85 giorni
nei pazienti trattati con
stimolazione
biofisica
induttiva rispetto ai 109
giorni riscontrati nel gruppo di controllo. Marcer
nel 1984, Rinaldi nel
1985, Traina nel 1986,
Marchetti nel 1988, fino a
Impagliazzo e Meani nel
2006 e agli studi più
recenti, pur considerando
diverse casistiche e utilizzando dispositivi medici
diversi, hanno evidenziato
regolarmente percentuali
di guarigioni molto elevate, dal 73 al 90%.
È importante sottolineare
però che la decisione di
che gli autori riassumono in:
“si può”, “non si può” e “non
si dovrebbe” procedere alla
fissazione. Insomma, si vuole
sottolineare che, nonostante
l’iniziale suddivisione per età,
in diversi casi il chirurgo si
trova di fronte a osso di
buona qualità anche nel
paziente anziano e, in questi
casi, la riduzione a cielo aperto con fissazione interna può
essere coronata da buon successo. Quando invece i frammenti sono troppi o quando
l’osso non costituisce un supporto adeguato, anche il chirurgo più esperto deve accantonare l’ipotesi di una fissazione e procedere all’artroplastica totale di gomito.
Nonostante le difficoltà connesse a questo intervento e le
restrizioni imposte al paziente, a volte può trattarsi dell’unica soluzione percorribile e
tale comunque da garantire
risultati soddisfacenti, come è
testimoniato da molti studi in
merito. Può anche essere
presa in considerazione l’emiartroplastica, che però non
ha ancora riscontri significativi in letteratura.
Giampiero Pilat
Mehlhoff TL, Bennett JB.
Distal humeral fractures: fixation versus arthroplasty. J
Shoulder Elbow Surg 2011; 20,
S97-S106.
B I O F I S I C A I N O RTO P E D I A
Una terapia efficace
su diverse tipologie di fratture
Chiuse o aperte, semplici
o multiple, composte o
scomposte, di origine traumatica o secondarie ad
altre patologie: le fratture
non sono tutte uguali. A
seconda della tipologia e
del distretto anatomico, la
moderna ortopedia ha sviluppato decine di trattamenti diversi, sia chirurgici che conservativi.
La biofisica ortopedica
traumatologica è una
metodica che ha dato ottimi risultati sia nel trattamento di fratture recenti,
sia nella cura di ritardi di
consolidazione, che di
pseudoartrosi.
La stimolazione biofisica è
in grado di accelerare il
processo di consolidazione
ossea nelle fratture recenti: diversi studi clinici,
alcuni condotti con i rigorosi criteri della randomizzazione con gruppo di con-
trollo o in doppio cieco,
hanno evidenziato una
riduzione media del periodo di consolidazione dal
25 al 30 per cento.
In particolare, i risultati
migliori si ottengono nel
trattamento di fratture a
rischio di guarigione, che
potrebbero quindi sfociare
in un ritardo di consolidazione o addirittura in
pseudoartrosi. Fratture di
gamba a cui sono stati
applicati gesso o fissatori
esterni, fratture particolarmente complesse, esposte,
o con danni ai tessuti
molli, grazie alla stimolazione biofisica sono guarite meglio e con maggiore
rapidità.
Una statistica effettuata
negli Stati Uniti stima che
una frattura su dieci sia a
rischio di consolidazione o
di evolvere verso una
pseudoartrosi: in questi
casi il bilancio tra costi e
benefici è ovviamente
favorevole all’uso della stimolazione biofisica dell’osteogenesi.
Quando si ha a che fare
con una frattura che presenta un ritardo di consolidazione o con pseudoartrosi, il ricorso alla biofisica ortopedica è particolarmente utile. È in quest’ambito che si sono sperimentate le prime applicazioni dei campi elettromagnetici pulsati e in cui
si dispone del maggior
numero di contributi
scientifici, a partire dagli
studi di Bassett dei primi
anni Ottanta, che già
riportano percentuali di
successo tra il 75 e l’80%.
Gossling, qualche anno
dopo, ha messo a confronto il trattamento chirurgico con quello biofisico,
analizzando in particolare
ricorrere a un trattamento
biofisico deve basarsi su
un’attenta analisi dei fattori locali, come la sede
della frattura, la morfologia, la verifica che il
paziente presenti o meno
malattie metaboliche o
sistemiche. Inoltre è fondamentale accertare l’assenza di fattori meccanici
che possono ostacolare la
riparazione del tessuto
osseo, come ad esempio
nelle fratture scomposte,
che devono prima essere
riallineate e ridotte.
Resta quindi al medico il
compito di scegliere, affidandosi all’esperienza e a
un’attenta
anamnesi,
quali pazienti trattare e,
sulla base dei dati disponibili in letteratura, quali
apparecchiature consigliare al proprio paziente.
Renato Torlaschi
62
ORTHOviews
R I A B I L I TA Z I O N E
G O M I TO E AVA M B R ACC I O
Riparazione del tendine bicipitale
Osteoartrosi,
dolore controllato
senza farmaci?
«Il trattamento non farmacologico dell’osteoartrosi è fondamentale per
ridurne in modo efficace i
sintomi e per far fronte
alle limitazioni funzionali». Dato questo presupposto,
tre
ricercatori
dell’Università di Toronto
hanno cercato di scoprire
le novità nel settore effettuando una rassegna della
letteratura recente: un
anno di studi, pubblicati
tra il settembre del 2009 e
lo stesso mese del 2010,
nell’ambito di un’iniziativa promossa dalla rivista
Osteoarthritis and Cartilage
per tracciare le linee di
tendenza della ricerca su
questa patologia.
Sarebbe più corretto parlare di trattamenti, al plurale, poiché gli approcci
sono molti e diversificati:
se alcuni si affidano alla
tecnologia per generare
ultrasuoni o elettrostimolazioni, altri ricorrono alle
tecniche millenarie dell’agopuntura o del Tai Chi.
Una valutazione scientificamente attendibile dell’efficacia di queste soluzioni non è semplice, a
causa delle difficoltà di
individuare sistemi appropriati di verifica unita a
quella di costituire dei
gruppi per valutazioni in
doppio cieco. Infatti i tre
canadesi hanno individuato solo pochi studi di
buona qualità; ricordiamo
però che hanno analizzato
solo le ricerche pubblicate
in 12 mesi. «Nel complesso - riferiscono gli autori i risultati mostrano benefici modesti rispetto ai
gruppi placebo e tuttavia
un impatto notevole
rispetto all’assenza di trattamenti».
Per capire meglio, entriamo nel dettaglio delle
diverse tecniche terapeutiche analizzate.
L’agopuntura tradizionale cinese è un esempio
delle difficoltà di creare
un doppio cieco adeguato,
affrontata in genere con
l’applicazione degli aghi
in punti diversi da quelli
raccomandati dalla tecnica corretta. L’antica medicina cinese comporta l’inserimento di aghi a una
profondità variabile dai 5
ai 40 millimetri in posizioni individuate in modo
preciso lungo i cosiddetti
meridiani dove, secondo
la tradizione, fluirebbe
un’energia vitale. Esiste
però la cosiddetta agopuntura sham, in cui gli
aghi sono applicati più
superficialmente e non
nei punti prescritti. Si è
visto che i risultati sono
positivi, ma pressoché
simili nelle due tecniche.
Gli autori della revisione
ne deducono che «l’effetto analgesico dell’agopuntura potrebbe essere parzialmente mediato dal
comportamento dell’agopuntore», in linea con
altri studi che in precedenza avevano mostrato
come certi cambiamenti
neurofisiologici possano
essere attivati o rafforzati
dalle aspettative del
paziente.
La stimolazione Tens
(transcutaneous electrical
nerve stimulation) è
ampiamente utilizzata per
controllare condizioni di
dolore acuto e cronico e
anche nell’osteoartrosi.
Gli studi pubblicati nell’ultimo anno sono stati
relativamente piccoli e di
scarsa qualità scientifica: i
risultati vanno dunque
presi con cautela, tuttavia
ne emergono indicazioni
di benefici piuttosto
modesti.
Un interessante studio
randomizzato controllato
in doppio cieco riporta
invece
miglioramenti
notevoli ottenuti grazie
agli esercizi di Tai Chi.
Anche in questo caso si
tratta di una tradizione
cinese e precisamente di
un’arte marziale la cui
pratica rafforza l’equilibrio, la forza e la flessibilità e aveva già mostrato
di ridurre il dolore, gli
stati ansiosi o depressivi
in gruppi di pazienti affetti da diverse patologie
croniche. 12 settimane di
Tai Chi sono risultate utili
anche nei casi di osteoartrosi associata a sintomatologia dolorosa, sia per la
componente fisica degli
esercizi che per gli effetti
che si producono a livello
psicologico.
Renato Torlaschi
Hawker GA, Mian S, Bednis
K, Stanaitis I. Osteoarthritis
year 2010 in review: nonpharmacologic
therapy.
Osteoarthritis
Cartilage
2011 Apr;19(4):366-74.
Le rotture del tendine distale del bicipite brachiale si
osservano soprattutto in
uomini di mezza età in seguito ad attività fisiche che
comportano un caricamento
dell’avambraccio flesso e
supinato. Il trattamento
conservativo non è indicato,
in quanto comporta una
notevole perdita di forza nei
movimenti di flessione e di
supinazione del gomito. La
chirurgia permette invece di
ottenere ottimi risultati e,
anche se si tratta di eventi
relativamente rari, sono
state proposte diverse tecniche e si è sviluppata una piccola controversia in merito
al migliore trattamento; in
particolare esistono due
tipologie di approccio, a singola e doppia incisione.
Jay D. Keener, uno specialista che lavora presso il dipartimento di chirurgia ortopedica della Washington
University a Saint Louis, si è
incaricato di fare una revisione critica dei metodi di
ricostruzione e ha pubblicato
i risultati del suo approfondimento sul Journal of shoulder
and elbow surgery. Per la
verità, saltando subito alle
conclusioni, possiamo notare che non c’è una tecnica
che si impone all’altra e
Keener afferma che «la riparazione chirurgica del tendine del bicipite può essere
eseguita con successo e in
sicurezza sia con l’incisione
singola che con la doppia».
L’approccio più seguito - e
quello preferito dall’autore comporta una tecnica a dop-
pia incisione modificata, ma
le metodiche a incisione singola anteriore mostrano
un’efficacia analoga, purché
venga opportunamente protetto il nervo radiale. Inoltre
esiste una gran varietà di
opzioni di fissazione proposte
negli ultimi anni e in genere
forniscono ottimi risultati,
lasciando in ultima analisi la
scelta alle preferenze e all’esperienza del chirurgo.
Nell’esame delle due principali alternative, l’autore si
sofferma, oltre che sulle tecniche e sui risultati, anche
sulle complicazioni che possono associarsi a questa chirurgia e che possono verificarsi dopo l’intervento. «Si
tratta di un fattore chiave sostiene Keener - poiché
risultati clinici affidabili e
con un basso numero di
rirotture possono ottenersi
sia con le riparazioni a incisione singola che doppia, ed
è proprio il rischio di complicanze che storicamente
ha influenzato i trend prevalenti negli approcci ricostruttivi».
Le complicanze riportate in
letteratura sono di diverso
tipo: formazione di osso eterotopico, sinostosi radioulnare prossimale, paralisi ai
nervi (generalmente transitorie), perdita di range of
motion a livello di gomito e
avambraccio, rirottura del
tendine, persistente debolezza e complicazioni legate alla
ferita.
Di queste, le due evenienze
più comuni sono la formazione di osso eterotopico
(con o senza sinostosi) e le
lesioni ai nervi. La prima è
piuttosto comune in entrambi gli approcci, ma sembra
evidenziare un rischio maggiore nella tecnica a due
incisioni con fissazione e
sutura transossea secondo
Boyd e Anderson. Per contro, il rischio di lesioni nervose, che fortunatamente
hanno un carattere generalmente transitorio, appare
superiore nelle tecniche a
incisione singola: ma anche
in questo caso, la differenza
tra le due tecniche si riduce
e tende ad annullarsi negli
studi più recenti.
G. P.
Keener JD. Controversies in the
surgical treatment of distal biceps tendon ruptures: single versus double-incision repairs. J
Shoulder Elbow Surg 2011
Mar;20(2 Suppl):S113-25.
O RT O P E D I A P E D I AT R I C A
Impatto delle fratture
sulla frequenza scolastica
Per molte famiglie può essere un problema serio: quando un bambino in età scolare subisce una frattura, la frequenza scolastica comporta
difficoltà che possono durare
per giorni o mesi, per tutta la
durata del trattamento riabilitativo. Per approfondire
questo argomento, lasciato
normalmente in carico ai
familiari dei piccoli pazienti,
un gruppo di ortopedici
pediatrici degli Stati Uniti
hanno condotto un sondaggio presso i colleghi.
Obiettivo
dichiarato:
«determinare i tassi di prevalenza attraverso la nazione
dei bambini che trovano difficoltà nel frequentare la
scuola dopo un trauma che
ha comportato una frattura
agli arti inferiori». I risultati
dello studio sono stati comunicati sulle pagine del
Journal
of
Pediatric
Orthopaedics.
Nella maggioranza dei casi, i
chirurghi che hanno aderito
al sondaggio non hanno
riportato eccessive difficoltà
di frequenza scolastica nei
bambini con arti ingessati.
Sono meno della metà i casi
in cui le assenze si protraggo-
no oltre le quattro settimane, potendo così costituire
un impedimento a portare a
termine regolarmente l’anno
scolastico. Tuttavia gli autori hanno rilevato le numerose eccezioni di ortopedici
che, su base regolare, hanno
notato situazioni critiche in
molti dei propri pazienti.
Un’analisi più approfondita
ha portato a delineare alcune caratteristiche che accomunano le casistiche più
problematiche: la più evidente è stata la correlazione
tra la frequenza scolastica e
la dimensione, in termini di
popolazione, della comunità
in cui i bambini vivono. Può
destare una certa sorpresa
che gli ostacoli maggiori si
presentino nelle città, mentre i pazienti con ingessature
che abitano in zone rurali o
suburbane hanno maggiori
probabilità di riuscire a frequentare regolarmente le
lezioni. In particolare, lo studio evidenzia i problemi
affrontati dai bambini di
New York, che nel 70% dei
casi devono rimanere lontani dalle lezioni per più di un
mese in seguito a fratture
che comportano ingessature
agli arti inferiori, tutori e l’utilizzo di stampelle. Gli ortopedici interpellati riferiscono che il dato dipende
soprattutto dai direttori degli
istituti scolastici: nelle città,
adducono più spesso ragioni
di sicurezza o l’impossibilità
di offrire un’assistenza personalizzata per far fronte ai
bisogni dei bambini, e di
conseguenza ne sconsigliano
o proibiscono l’accesso alle
aule scolastiche.
R. T.
Hyman JE, Gaffney JT, Epps
HR, Matsumoto H. Impact of
fractures on school attendance.
J Pediatr Orthop. 2011
Mar;31(2):113-6.
ORTHOviews
RICERCA
LE ONDE D’URTO
IN ORTOPEDIA
Prevenire l’osteoporosi
prima del parto
Nel tentativo di comprendere meglio l’osteoporosi,
i ricercatori esplorano da
tempo numerosi fattori
che si ritiene possano
esporre a un maggior
rischio di contrarre la
malattia. Dopo aver raggiunto un valore di picco
nel periodo di crescita, si
assiste negli adulti a una
continua perdita ossea, la
cui progressione è stata
associata in vario modo
all’esercizio fisico e al
regime alimentare. Fattori
ambientali e predisposizione genetica non sembrano sufficienti a spiegare la variabilità di massa
minerale ossea che si
osserva nella popolazione
e da qualche tempo si ipotizza che questa caratteristica delle persone adulte
e anziane dipenda da una
condizione che risale
molto a ritroso nel tempo
e precisamente al peso al
momento della nascita.
Per verificare l’esistenza
di una correlazione statistica
statisticamente
significativa, Janis Baird e
alcuni colleghi della
University
of
Southampton
hanno
deciso di esaminare la
presenza e la forza degli
studi scientifici condotti
su questo tema.
I risultati sono stati positivi e hanno anche permesso di compiere interessanti distinzioni sulla
base di diverse variabili:
ciascuno dei 14 studi selezionati ha infatti preso in
esame condizioni specifiche che aiutano, nel loro
complesso, a tracciare un
quadro generale.
Il responso complessivo
fornito dalla revisione
consiste nella conferma
dell’associazione tra il
peso alla nascita e il contenuto minerale dell’osso
da adulti, nei siti della
spina lombare e dell’anca.
L’assunto si è dimostrato
valido in soggetti di età
variabile, dai 18 agli 80
anni, in uomini e donne.
L’associazione è particolarmente forte in queste
ultime, se si considera il
contenuto minerale osseo
(Bmc) nel tratto lombare
del rachide. In generale,
la meta analisi ha dimostrato che a 1 chilo d’aumento del peso alla nascita si associano mediamente 1,49 grammi in più di
Bmc alla spina lombare e
1,41 grammi all’anca.
Le evidenze sono minori
nel caso di ricerche che
hanno cercato la correlazione tra peso alla nascita
e Bmc in altri siti anatomici, come il collo del
femore, il radio e l’ulna.
In modo analogo, pochi
studi hanno valutato la
relazione tra il contenuto
minerale osseo negli adulti e il peso a un anno di
età: soltanto tre, che però
segnalano, anche in questo caso, un’associazione
positiva soprattutto a
65
livello delle vertebre
lombari.
Come si possono spiegare
i risultati ottenuti?
«La consistenza dell’associazione - sostengono gli
autori della revisione - è
stata osservata in un’ampia gamma di situazioni e
fornisce l’evidenza di una
programmazione intrauterina dello sviluppo
scheletrico
attraverso
l’infanzia fino all’età
adulta». Ne derivano
indicazioni a favore di
una prevenzione dell’osteoporosi talmente precoce da precedere il
momento della nascita.
Secondo Janis Baird, si
dovrebbero mettere a
punto «strategie per ottimizzare la nutrizione
delle madri nel periodo di
gravidanza e per favorire
la crescita intra-uterina,
che potrebbero far parte
di programmi di salute
pubblica orientati a ridurre il futuro carico individuale, sociale ed economico delle fratture osteoporotiche».
Renato Torlaschi
Baird J, Kurshid MA, Kim M,
Harvey N, Dennison E,
Cooper C. Does birthweight
predict bone mass in
adulthood? A systematic
review and meta-analysis.
Osteoporos
Int
2011
May;22(5):1323-34.
Presentate per la prima volta nel campo della fisica, le onde
d'urto possono essere definite come onde acustiche ad alta
energia. Le applicazione si sono dimostrate molteplici e
hanno trovato spazio anche nel campo della medicina contemporanea per la loro capacità di generare una forza meccanica che può essere utilizzata per diversi trattamenti.
L’espansione dell’onda all’interno del nostro corpo è strettamente vincolata dalle caratteristiche del mezzo attraverso il
quale passa: cute, sottocure, grasso, muscoli, ossa. Anche se
con diversa efficacia, le onde d’urto, stimolano in tutti i
distretti i processi naturali di riparazione, facilitano il microcircolo aumentando la possibilità di far fluire i mediatori dell’infiammazione e, qualora il paziente sia in terapia sistemica
antalgica, possono migliorare la diffusione del farmaco.
Non tutte le onde d’urto sono uguali: diverso il macchinario
che le produce, diverse le modalità tecniche con le quali sono
generate e diverso l’effetto che posso ottenere. Esistono
ovviamente parametri internazionali che protocollano l’uso
delle onde d’urto a seconda della patologia e dell’effetto che
si vuole ottenere. In ortopedia quasi sempre si cerca di risolvere lo stato infiammatorio e quindi di ottenere un'azione
antalgica. Le linee guida internazionali non sono solo una
sicurezza per il paziente a anche un valido supporto per il
medico specialista, che può affidarsi con tranquillità a protocolli di trattamento ampiamente testati e studiati. Esistono ad
esempio delle controindicazioni assolute che il medico deve
conoscere per poter sconsigliare il trattamento: si tratta di
infezione acuta dei tessuti molli, epifisiolisi del punto focale e
stato di gravidanza.
Le principali indicazioni delle onde d'urto in ambito ortopedico si rifescono a tre principali distretti: osso, tessuti molli e
tendini. Nel primo caso la terapia si applica principalmente
nei ritardi di consolidazione, per stati di algoneurodistrofia o
in fratture da stress. Condrocalcinosi dell’anca e del gomito
possono trovare beneficio, come le miositi ossificanti e le
fibromatosi muscolari. Sicuramente però l’elezione si riscontra in tutti quegli stadi di infiammazione tendinea e para tendinea come epicondilite, trocanterite, tendinite del rotule e
fascite plantare.
Il suggerimento resta sempre quello di inquadrare correttamente il paziente, tenendo presente che esistono opportunità
non chirurgiche che possono portare alla guarigione della sintomatologia.
Lorenzo Castellani, Matteo Laccisaglia
G O M I TO E AVA M B R ACC I O
Rigidità post traumatica
e approccio artroscopico
La rigidità di gomito è
una delle complicazioni
che si associa a traumi
anche relativamente poco
importanti e che può
interferire pesantemente
nello svolgimento delle
più comuni attività quotidiane. Risultato di cause
intrinseche (intra-articolari), estrinseche (extraarticolari) o miste, queste
contratture
vengono
affrontate inizialmente in
modo conservativo, ma
spesso non è sufficiente e,
dopo qualche mese, il
paziente decide di affrontare un intervento chirurgico.
La valutazione di diverse
variabili, tra cui l’eziologia della rigidità e l’entità
del danno funzionale, è la
premessa per una scelta
ottimale del tipo di
approccio chirurgico. Per
anni gli interventi standard erano di chirurgia a
cielo aperto, ma oggi l’artroscopia sta conquistando spazi sempre maggiori.
La decisione, da parte di
un paziente, di sottoporsi
a un intervento chirurgico dipende anche dalle
sue esigenze funzionali.
Secondo gli esperti, i
bisogni minimi in termini
di range of motion (Rom)
per poter svolgere normalmente le attività della
vita quotidiana sono di
100
gradi
in
flessione/estensione
e
sempre di 100 gradi in
pronazione/supinazione.
Ma in alcune categorie
(come ad esempio gli atleti professionisti) anche un
leggero deficit in estensione può essere considerato
insufficiente. Partendo da
queste premesse, due ortopedici olandesi, Irma Cefo
e Denise Eygendaal,
hanno condotto uno studio allo scopo di valutare i
risultati clinici e in particolare il miglioramento di
Rom dopo il trattamento
con artrolisi artroscopica
su contratture di gomito
post traumatiche. Ne
sono emerse indicazioni
del tutto positive, anche
se entro i limiti statistici
determinati dall’esiguità
del campione esaminato.
Le autrici hanno infatti
incluso nello studio appena 27 soggetti, dell’età
media di 42 anni, che in
conseguenza a trauma
avevano perso almeno 20
gradi nel movimento di
flessione.
Dopo l’intervento artroscopico di release dei tessuti molli i pazienti hanno
ricevuto terapie fisiche
per sei mesi e sono stati
valutati a tre mesi, uno e
due anni. Oltre alla funzionalità (elbow function
assessment - Efa) e al
Rom, è stato misurato il
dolore, secondo la scala
Vas (visual analog scale)
preoperativamente e un
anno dopo la chirurgia.
Tre mesi dopo l’artroscopia questi valori sono tutti
invariabilmente migliorati in modo netto, per poi
far registrare ulteriori piccoli progressi nei controlli successivi, fino a una
stabilizzazione; in particolare, il Rom è passato da
una media di 99 gradi
prima dell’artroscopia ai
125 gradi del primo controllo fino ai 128 gradi a
uno e due anni di distanza
dall’intervento.
Le complicanze sono state
minime: solo un caso di
infezione superficiale post
operatoria, trattata con
successo con antibiotici
orali. Non si sono invece
registrate complicazioni
vascolari o neurologiche.
Le conclusioni rappresentano dunque una promozione completa dell’artroscopia: «il release capsulare artroscopico - affermano le autrici dello studio è un trattamento efficace
e sicuro per la rigidità
post traumatica di gomito
e comporta un miglioramento nella flessione,
nell’estensione e nella
funzionalità dell’articolazione».
Giampiero Pilat
Cefo I, Eygendaal D.
Arthroscopic arthrolysis for
posttraumatic elbow stiffness. J Shoulder Elbow Surg
(2011) 20, 434-439.
66
ORTHOviews
O RT O P E D I A P E D I AT R I C A
LA FASCITE
PLANTARE
Chirurgia ortopedica
e sicurezza stradale
«Tutti i bambini, compresi a
maggior ragione quelli che
hanno specifiche necessità
dovute a problemi di salute,
dovrebbero avere accesso a
equipaggiamenti adatti che
consentano un trasporto
automobilistico sicuro». È
una delle raccomandazioni
dell’American Academy of
Pediatrics (Aap), emessa in
considerazione del fatto che
gli incidenti stradali costituiscono la principale causa di
morte tra i bambini negli
Sati Uniti.
Numerosi provvedimenti di
legge sono stati predisposti
allo scopo di minimizzare le
conseguenze degli incidenti
per adulti e bambini: questi
ultimi, nelle auto americane,
devono essere posizionati
diversamente a seconda dell’età, per ridurre il più possibile i problemi di sicurezza. I
neonati devono essere posti
su seggiolini rivolti in senso
opposto al senso di marcia,
dai due anni in poi su seggio-
lini girati in avanti e infine
sui booster seats, che assicurano una posizione corretta
con le cinture dell’auto sulle
spalle. In Italia le norme
sono piuttosto simili e il trasporto dei bambini sui veicoli è regolato dall'articolo 172
del codice della strada, dalla
normativa europea e con
una circolare attuativa del
ministero dell'Interno.
Tuttavia per i bambini che
per problemi di salute hanno
difficoltà di movimento, può
essere difficile utilizzare
equipaggiamenti standard.
Ad esempio dopo un intervento chirurgico per displasia evolutiva dell’anca o
displasia spastica dell’anca,
ai bambini viene applicato
un apposito tutore che
garantisce l’immobilità: in
questi casi è praticamente
impossibile seguire le regole
generali per il trasporto in
auto.
Un recente studio indica la
necessità di sviluppare stra-
tegie per migliorare la possibilità di trasporto dei piccoli
immobilizzati con i tutori e
per permettere l’aderenza ai
protocolli prescritti per un
trasporto sicuro. Ne è autore
Martin J. Herman, con alcuni colleghi del dipartimento
di chirurgia ortopedica presso il St Christopher’s
Hospital for Children di
Philadelphia. I medici
hanno preso in esame 35
bambini da uno fino a 13
anni (età media: cinque
anni) che indossavano questo tipo di tutori. Dopo
un’attenta valutazione, nessuno dei bambini è stato
ritenuto adatto a essere trasportato in sicurezza su seggiolini standard: a 12 di loro
è stato consigliato di servirsi
di ambulanze e agli altri 23
di ricorrere a seggiolini realizzati su misura. I ricercatori
hanno anche verificato che
solo in pochi casi i genitori
hanno seguito le indicazioni
fornite dagli specialisti men-
POLSO E MANO
Un trasferimento tendineo
molto complesso
La paralisi dell’estensione del
polso è tipica della lesione
ostetrica del plesso brachiale,
nelle lesioni totali C5-T1 e
quando i livelli danneggiati
sono C5-C6-C7. In quest’ultimo caso si assiste più spesso
a un recupero spontaneo,
mentre nelle lesioni complete l’estensione di polso e dita
non recupera in circa un soggetto su quattro - oltre al fatto
che per la maggior parte
rimangono sostanziali deficit
alla spalla e al gomito e deficit di movimento all’avambraccio. In caso di mancato
recupero spontaneo, un preciso e dettagliato esame del
paziente e una corretta valutazione permettono al chirurgo di scegliere tra le molte
opzioni di intervento.
In letteratura sono pochi gli
studi che hanno documentato i risultati di un trasferimento tendineo effettuato in
bambini con lesione ostetrica
del plesso brachiale allo
scopo di ripristinare l’estensione del polso. È un intervento reso delicato per la presenza di muscoli denervati e
la giovane età dei pazienti e
proprio una sua valutazione
clinica e funzionale è l’obiettivo che si è posto David E.
Ruchelsman dell’ Harvard
Medical School con un grup-
po di colleghi.
Questi bambini devono essere valutati attentamente da
un team multidisciplinare
prima di essere sottoposti a
intervento chirurgico. I tendini donatori non sono facili
da trovare e devono svolgere
diverse
funzioni.
L’innervazione sensitiva della
mano è una delle più complesse del corpo ed è fondamentale per l’esecuzione di
tutti i movimenti, i gesti e le
prese. Per poter disporre di un
muscolo-tendine trapiantato
valido è necessario che si presenti al trapianto in condizioni ottimali ed è quindi importante massimizzare la forza
del muscolo donatore.
Anche la fase post-operatoria
è delicata, a partire da una
adeguata protezione della
sutura tendinea per non
vanificare i risultati dell’intervento, e l’utilizzo normale
della mano si raggiunge solo
dopo diverse settimane.
«I bambini con deficit di
estensione del polso rappresentano una tipologia di
pazienti con caratteristiche
uniche
–
fa
notare
Ruchelsman – e i dati di trasferimenti tendinei rilevati su
altre serie di pazienti non
possono essere estesi a questi
soggetti». Gli autori dello
studio hanno così esaminato
tre gli altri hanno continuato a utilizzare i metodi di trasporto più facili, anche senza
le opportune garanzie di
sicurezza.
Gli autori dello studio riconoscono che può trattarsi di
una situazione difficile da
affrontare per le famiglie in
cui sono presenti bambini
con tutori all’anca. Secondo
Herman, la soluzione passa
attraverso programmi di
aiuto economico, sia perché
i genitori possano acquistare
seggiolini personalizzati sia
perché abbiano garantito
l’accesso a mezzi di trasporto
speciali, come le ambulanze,
nei casi più critici.
Renato Torlaschi
Herman MJ, Abzug JM,
Krynetskiy EE, Guzzardo LV.
Motor vehicle transportation
in hip spica casts: are our
patients safely restrained? J
Pediatr
Orthop
2011
Jun;31(4):465-8.
21 bambini (11 maschi e 10
femmine) sottoposti a trasferimento tendineo per ripristinare una corretta estensione
del polso. Otto di questi
pazienti presentavano lesioni
ai tre nervi cervicali C5, C6 e
C7 mentre gli altri 13 avevano paralisi globale C5-T1. Al
momento dell’intervento
chirurgico, i bambini avevano un’età compresa fra i tre e
gli otto anni, con una media
di cinque anni e mezzo e sono
stati poi seguiti per un periodo medio di follow-up di 36
mesi; durante i controlli, la
misura dell’estensione del
polso è stata effettuata in base
alla scala funzionale di
Duclos e Gilbert. Al momento dell’ultima valutazione, il
66% dei bambini ha mostrato una capacità di estensione
del polso di almeno 30 gradi;
questa percentuale è però la
media tra il 100% ottenuto
quando le lesioni erano limitate ai livelli C5-C6-C7 e il
46% nei casi di lesione totale
C5-T1: tra questi si sono
avuti anche molti fallimenti
(quattro su 13). Gli autori si
sono soffermati anche sulla
scelta ottimale del tendine
donatore, facendo però notare che non ci sono indicazioni univoche da parte degli
esperti.
Giampiero Pilat
Ruchelsman DE, Ramos LE,
Price AE, Grossman LA,
Valencia H, Grossman JA.
Outcome after tendon transfers to restore wrist extension
in children with brachial
plexus birth injuries. J Pediatr
Orthop 2011 Jun;31(4):455-7.
Come suggerisce il nome, la patologia colpisce elusivamente i fasci fibrosi della pianta del piede. Possiamo definirla come un'entesite della fascia plantare del piede,
ovvero un'infiammazione della giunzione fascia-osso a
livello della base del piede.
Quella monolaterale spesso è la conseguenza di malformazioni congenite del piede o di errato appoggio durante la
deambulazione, riscontrabile più tipicamente a livello
sportivo nei podisti.
I sintomi, che non sempre sono così netti e definiti, possono comparire come un dolore intenso a livello del tallone, o più precisamente all’inizio della volta plantare.
Molto spesso dopo pochi giorni la sintomatologia si irradia a tutto il piede, con conseguente infiammazione di
tutto il fascio plantare del piede. Rari sono i casi nei quali
la sintomatologia risale la gamba e si diffonde nel territorio del tendine d’Achille. Non solo la tipologia del dolore
può essere differente ma anche la durata non è sempre
costante: in alcuni casi raggiunto l’apice della sintomatologia per diversi giorni il paziente può riferire di star bene,
sentendo il piede come indolenzito; in altri casi il dolore è
costante con picchi alla mattina durante i primi passi o la
notte prima di coricarsi. Può essere così intenso da impedire la normale deambulazione.
Molto spesso sottovalutata, sia dal paziente che dal medico, è una problematica che se non curata e affrontata tempestivamente può cronicizzare, rendendo pessima la qualità della vita. La patologia, infatti, non regredisce spontaneamente, lo stato di infiammazione con il continuo
deambulare e sostenere il peso del corpo aumenta gradatamente fino a divenite una patologia cronica, molto più
difficile da curare e risolvere.
Come accennato le cause possono essere varie: un'iper
pressione a livello del tallone, una malformazione congenita che sovverte la corretta distribuzione del carico sulla
pianta del piede andando ad aggravare l’appoggio sul retro
piede. Un eccessivo sollecitamento durante l’attività sportiva. Malformazioni ossee legate non tanto alla distribuzione del carico quanto all’anatomia dell’osso del calcagno. Strappi o rotture del tendine d’Achille con "caduta"
del calcagno e quindi iper appoggio: avere il piede piatto
o cavo. In alcuni casi si associa alla spina calcaneare, spesso con diagnosi non corretta.
La corretta deambulazione, una valutazione baropodoscpopica del cammino può fornire informazioni fondamentali sull’atteggiamento del piede e quindi prevenire o correggere stati patologici. In ottica preventiva si rivela
importante anche il controllo del peso corporeo e l'utilizzo di calzature adeguate, soprattutto durante l’attività
sportiva.
I possibili approcci terapeutici
I trattamenti sono dati principalmente dal riposo meccanico: mettere in scarico l’articolazione, non affaticarla, evitare l’appoggio riduce drasticamente il livello di infiammazione. Il riposo può essere anche di diverse settimane. Se il
paziente si presenta con una sintomatologia importante può
essere utile iniziare con un ciclo di infiltrazioni locali con
cortisonici. Si possono poi proporre cicli di onde d’urto
focalizzate, che trovano un riscontro e un beneficio già dalla
seconda applicazione. Sicuramente va consigliato lo studio
sia statico che dinamico del piede ed eventualmente è utile
proporre plantari fatti su misura. Vi è poi la valutazione
radiografica o con tecniche di imaging più approfondite
della conformazione ossea del piede, per stabilire se vi sia
l’indicazione a un approccio chirurgico.
In sostanza come ogni problematica così sfumata deve essere correttamente inquadrata anche e soprattutto nell’ottica
del tipo di paziente che si ha davanti. Le esigenze di un
podista professionista sono differenti da chi non pratica
sport e questo è molto importante nella scelta della terapia.
In alcuni casi selezionati si può pensare a una cura che
incida maggiormente sul dolore, ma che a lungo termine
non presenti la completa scomparsa della sintomatologia.
È però importante spiegare al paziente che per svolgere la
propria attività in modo corretto dovrà sottoporsi a un iter
terapeutico che a volte può protrarsi per alcune settimane.
Lorenzo Castellani, Matteo Laccisaglia
ORTHOviews
69
S PA L L A
A L I M E N TA Z I O N E
Frattura di clavicola
Quale trattamento in età pediatrica?
Epidemiologia
dell'ipovitaminosi D
Non si può fare molto per
prevenirle, perché sono
quasi sempre conseguenza
di traumi sportivi, cadute
o incidenti; in compenso
le fratture alla clavicola
guariscono spesso da sole a
patto di immobilizzare efficacemente l’osso, anche
per ridurre il dolore e il
rischio di eventuali complicanze.
Recentemente l’opzione
chirurgica è tornata in
auge in seguito a studi
scientifici che hanno
segnalato diversi casi di
non-unione, dolore, deficit funzionali della spalla e
in generale una scarsa soddisfazione dei pazienti sottoposti al trattamento
conservativo, che rimane
comunque la prassi più
seguita.
In particolare, una metaanalisi
effettuata
da
Zlowodzki nel 2005 sulla
base di una revisione sistematica della letteratura
internazionale ha riportato una riduzione dell’86%
del rischio di non-unione
ottenuto grazie all’intervento chirurgico su fratture del corpo mediale della
clavicola rispetto al bendaggio immobilizzante.
Data la situazione, alcuni
ortopedici di diversi centri
ospedalieri di Denver, in
Colorado, hanno deciso di
effettuare un sondaggio tra
tutti i membri della
Pediatric Society of North
America per conoscere gli
orientamenti degli esperti.
Come si può intuire dalla
scelta dei destinatari, l’indagine si è svolta con riferimento a fratture occorse in
bambini e adolescenti e
restringendo il campo a
quelle localizzate nel corpo
mediale, che sono comunque le più frequenti.
Le risposte fornite mostrano una notevole disparità
nelle preferenze di trattamento a seconda che si
considerino adolescenti
già più vicini all’età adulta
oppure soggetti più giova-
ni e bambini.
Gli ortopedici pediatrici
americani si sono quasi
unanimemente espressi a
favore del trattamento
conservativo per i ragazzi
fino ai 15 anni.
Negli adolescenti con età
superiore, le opinioni sono
meno omogenee, anche se
solo una minoranza degli
esperti ritiene opportuno
ricorrere alla chirurgia.
Agli ortopedici pediatrici
consultati è stato anche
chiesto se la loro scelta di
intervenire
chirurgicamente su un paziente
oppure decidere per un
trattamento conservativo
dipenda dalle indicazioni
della letteratura scientifica
riguardo alle fratture negli
adulti o da altri fattori.
È emerso che i risultati
degli studi recenti documentati in letteratura e
l’età del paziente sono elementi ritenuti validi per
operare una buona scelta.
Gli autori della revisione
trovano molto interessante la considerazione simultanea di questi due fattori,
«perché in letteratura non
sono stati fatti tentativi si
determinare l’età a partire
dalla quale il trattamento
chirurgico dovrebbe essere
preso in considerazione;
anzi, tutti gli studi pubbli-
cati hanno considerato
adulti e adolescenti come
un’unica popolazione».
Il fatto che la clavicola
rotta sia in corrispondenza
dell’arto dominante ha
un’influenza sulla scelta
del 23% degli ortopedici,
mentre circa la metà di
loro tende a valutare più
favorevolmente la chirurgia se il paziente è uno
sportivo.
Il sesso del paziente non
esercita invece nessuna
influenza sulla scelta operata dal medico e anche il
fatto che l’ortopedico sia
un uomo o una donna non
determina orientamenti
differenti verso l’opzione
chirurgica o quella conservativa.
Renato Torlaschi
Carry PM, Koonce R, Pan Z,
Polousky JD. A survey of physician opinion: adolescent
midshaft clavicle fracture
treatment preferences among
POSNA members. J Pediatr
Orthop.
2011
JanFeb;31(1):44-9.
LA SINOVITE TOSSICA
A dispetto del suo nome inquietante, la sinovite tossica non è una malattia pericolosa: associata nella
mente dei pazienti a qualcosa di estremamente negativo possiamo invece definirla come un'infiammazione
transitoria della sinovia a quasi esclusione dell’articolazione dell’anca.
Generalmente di breve durata, presenta dei piccoli
segni prodromici come la zoppia, deambulazione scorretta, vago dolore diffuso e irradiato al ginocchio.
Colpisce generalmente i bambini in età pre puberale,
maggiormente i maschi rispetto alle femmine, con una
prevalenza di 4 a 1.
I sintomi che iniziano sfumati sono quasi sempre unilaterali, vengono indicati dal bambino con un vago
dolore all’arto inferiore e osservati dai genitori con
una evidente zoppia di fuga, una mancanza di voglia
nel gioco e una riduzione spontanea dell’attività fisica.
Quasi sempre si associa una febbricola, mai importante, che si aggira intorno ai 37.5-38 gradi.
Alcuni studi associano questa condizione a pregresse
infezioni virali (citomegalovirus, varicella, herpes,
mononucleosi), che causano una risposta autoimmune
capace di generare uno stato di infiammazione generale e localizzata.
La sinovia dell’anca durante l’età dello sviluppo è
sicuramente sottoposta a stress meccanici notevoli: il
gioco e lo sport gravano quasi totalmente sul cingolo
pelvico, rendendo questa zona particolarmente delicata e facilmente soggetta a transitori stati di indebolimento.
Alla comparsa dei sintomi il medico deve principal-
mente fare diagnosi differenziale con l’artrite settica,
così da impostare una adeguata terapia (sia nel primo
ma soprattutto nel secondo caso).
Una volta inquadrato bene il problema clinico, sono
possibili alcuni accertamenti diagnostici come l’ecografia e la radiografia convenzionale, che possono aiutare a confermare il sospetto diagnostico.
Il trattamento, che può essere assolutamente nullo
nei casi di una forma estremamente leggera, varia in
funzione dell’età del bambino e della condizione clinica.
Si possono dare cure sintomatiche che nell’immediato
risolvano dolore e febbre, fino a consigliare periodi di
riposo, astensione dal carico e la quasi immobilità dell’arto inferiore.
Normalmente il decorso fisiologico della patologia è
di 7-10 giorni, con graduale scomparsa dei dolori e
ripresa delle normali funzioni articolari. Nella maggior
parte dei casi non si assiste a recidive, che comunque
vengono segnalate sempre e solo durante il periodo di
accrescimento e maturazione dello scheletro.
Al giorno d’oggi non esiste una prevenzione che possa
segnalare i soggetti a rischio rispetto a quelli che non
saranno colpiti da questo problema.
Resta quindi al medico, e nello specifico allo specialista pediatra od ortopedico, la capacità di una diagnosi
rapida e corretta, nell’impostare ove necessario una
terapia farmacologica e nel tranquillizzare i genitori
riguardo alla moderata pericolosità della malattia.
Lorenzo Castellani, Matteo Laccisaglia
È ben noto il ruolo della
vitamina D nel favorire
l’assorbimento del calcio
assunto attraverso l’alimentazione e la sua importanza
fin dall’età evolutiva. Lo
stato della vitamina D nell’organismo è generalmente
accertato misurando la concentrazione plasmatica di
25-idrossivitamina D (25OH-D) che è il precursore
della forma attiva della
vitamina. Non si è ancora
raggiunto un accordo tra
gli specialisti nello stabilire
i valori normali di riferimento, ma nel caso dei
bambini una recente revisione scientifica ha suggerito le soglie di 20 e 32 ng/ml,
rispettivamente come indicatori di deficienza e di
insufficienza di 25-OH-D.
Obesità,
pigmentazione
scura della pelle, alimentazione carente in vitamina D
e scarsa esposizione al sole
sono ritenuti fattori di
rischio per l’ipovitaminosi
D nei bambini, mentre l’interesse degli ortopedici è
soprattutto rivolto a curarne gli effetti, che comprendono un’aumentata difficoltà di guarigione dopo
fratture o interventi chirurgici.
Joshua
Parry
della
University of Texas ha
coordinato un gruppo di
studio per determinare i
livelli di vitamina D tra i
pazienti pediatrici sottoposti a interventi di chirurgia
ortopedica, quindi proprio
tra i soggetti in cui l’ipovitaminosi è particolare fonte
di problemi. Su un campione composto da 70 bambini, da cui erano stati esclusi
i soggetti con disturbi di
metabolismo osseo, i medici di Houston hanno ottenuto risultati preoccupanti:
il 90% dei giovani esaminati aveva livelli di 25-OH-D
inferiori ai 32 ng/ml e il
16% presentava gravi
carenze con concentrazioni
inferiori a 12 ng/ml.
I risultati dello studio confermano alcuni dei fattori
di rischio comunemente
accettati per l’ipovitaminosi D ma non altri. L’etnia
africana, un’età più elevata
(quindi i soggetti adolescenti più dei bambini) e la
stagione invernale sono
state associate a insufficiente vitamina D. In particolare, gli adolescenti di etnia
africana mostrano ipovitaminosi D più spesso degli
ispanici e questi ultimi più
dei ragazzi di origine nordeuropea. Questo dato era
già stato quantificato in
maniera impressionante da
uno studio precedente che
aveva indicato probabilità
20 volte superiori di carenze severe di vitamina D tra i
giovani
afroamericani
rispetto ai bianchi.
Parry e colleghi non hanno
invece trovato conferma di
ricerche che indicavano un
maggior rischio tra le ragazze rispetto ai coetanei
maschi. In modo analogo
non sono state rilevate concentrazioni più alte di 25OH-D tra i bambini provenienti dal Messico che
erano presenti nel campione studiato, come era invece stato suggerito da altri
lavori, che avevano spiegato i risultati con l’abitudine
dei piccoli messicani di passare più ore all’aria aperta
rispetto agli statunitensi. La
variazione dell’idrossivitamina D con le stagioni è
stata invece rilevata come
previsto, con livelli più
bassi in inverno, ma simili
in primavera, estate e
autunno.
Lo studio dei ricercatori
texani ha un valore epidemiologico, ma non si è
spinto a verificare la probabile relazione che intercorre tra la concentrazione
plasmatica di 25-OH-D e le
complicanze degli interventi chirurgici o la rapidità della guarigione dell’osso,
approfondimenti
suggeriti per ulteriori indagini.
G. P.
Parry J, Sullivan E, Scott AC.
Vitamin D sufficiency screening in preoperative pediatric
orthopaedic patients. J Pediatr
Orthop
2011
AprMay;31(3):331-3.
ORTHOviews
M E D I C I N A D E L LO S P O RT
Onde d'urto
per la cura della sindrome
degli ischiocrurali
Onde d’urto contro la tendinite: il nuovo studio è
comparso su una rivista
americana - The American
Journal of Sports Medicine ma è a firma italiana. Non
a caso, perché questo tipo
di trattamento è più diffuso in Europa che negli
Stati Uniti. Ne è autore
l’aquilano
Angelo
Cacchio, del dipartimento
di clinica e terapia medica
all’Università La Sapienza
di Roma, che ha coordinato un gruppo internazionale di ricercatori. Esperto
nell’utilizzo delle onde
d’urto nella riabilitazione,
il dottor Cacchio si è
occupato stavolta della
tendinopatia dell’inserzione prossimale degli ischiocrurali sulla tuberosità
ischiatica. È un problema
piuttosto diffuso tra gli
sportivi, che può essere
causato da un sovraccarico
funzionale o da precedenti
lesioni distrattive prossimali dei muscoli. Il quadro
clinico è noto come sin-
drome degli ischiocrurali
ed è caratterizzato da un
dolore alla piega glutea
che si può irradiare alla
coscia e che si presenta
tipicamente in seguito a
prolungata posizione seduta oppure durante esercizi
fisici come la corsa, i salti
o i calci a un pallone.
Esistono opzioni chirurgiche ma, come per altri tipi
di patologie tendinee,
diverse terapie conservative riescono spesso a
migliorare la situazione:
dal riposo alla terapia fisica. È anche possibile ricorrere a un trattamento farmacologico, che può offrire sollievo alla sintomatologia dolorosa, ma è contestato da molti esperti che
ne evidenziano gli effetti
temporanei e possibili
conseguenze deleterie a
lungo termine per la struttura del tendine.
Gli autori dello studio italiano propongono un
approccio piuttosto innovativo, anche se il tratta-
mento con le onde d’urto è
già stato sperimentato,
con risultati contrastanti,
in un’ampia gamma di problematiche ortopediche e
di traumi sportivi, dopo
che terapie più conservative non hanno permesso di
ottenere i risultati sperati.
Angelo Cacchio e il suo
team hanno reclutato per
il loro studio - randomizzato controllato - 40 sportivi
professionisti nel rugby,
nel calcio e nell’atletica,
con tendinopatia dell’inserzione prossimale degli
ischiocrurali. 20 di loro
sono stati assegnati al
gruppo di test e hanno
ricevuto una terapia con
onde d’urto per quattro
settimane: 2.500 impulsi
ogni sessione, con densità
del flusso di energia a 0.18
mJ/mm 2 , applicati senza
anestesia. Gli altri venti
pazienti, che hanno costituito il gruppo di controllo, hanno avuto invece un
tradizionale trattamento
conservativo a base di far-
71
maci antinfiammatori non
steroidei, fisioterapia ed
esercizi muscolari.
Diamo qui la sintesi dei
risultati ottenuti, dopo un
follow-up medio di 10.7
mesi.
Il dolore, misurato secondo la scala Vas (scala visiva analogica), era mediamente a livello 7 prima del
trattamento. Dopo tre
mesi è sceso a 5 in chi ha
ricevuto la terapia conservativa tradizionale e a 2
negli appartenenti al gruppo trattato con onde d’urto. Anche le misurazioni
effettuate secondo la scala
Nprs (numerical pain
rating scale) hanno confermato i medesimi effetti.
A tre mesi dal trattamento, l’85% dei pazienti curati con le onde d’urto ha
avuto una riduzione del
dolore di almeno il 50%,
mentre nel gruppo di controllo la percentuale è
stata del 10%. La terapia
con le onde d’urto non ha
comportato complicazioni
importanti e si è dunque
mostrata efficace e sicura.
Giampiero Pilat
Cacchio A, Rompe JD, Furia
JP, Susi P, Santilli V, De
Paulis F. Shockwave therapy
for the treatment of chronic
proximal hamstring tendinopathy in professional athletes. Am J Sports Med 2011
Jan;39(1):146-53.
S PA L L A
Soluzioni chirurgiche
per l'instabilità posteriore
Difficile da diagnosticare e
ancora più difficile da trattare: l’instabilità posteriore
di spalla è molto meno frequente dell’anteriore ed è
interessante che quasi contemporaneamente siano
comparsi due articoli che
trattano di questa patologia.
Gli autori cercano di
approfondire le cause del
problema e le possibilità di
soluzione offerte dalla chirurgia, con particolare
attenzione all’artroscopia,
che viene considerata
un’opzione particolarmente
valida nel caso di instabilità
di origine traumatica e con
lesioni
relativamente
modeste.
Spesso la lussazione posteriore acuta, derivante per
esempio da un trauma subito durante lo svolgimento
di una attività sportiva,
non viene riconosciuto e
finisce per cronicizzare. Ma
la classificazione dell’insta-
bilità di spalla comprende
anche una sublussazione
ricorrente, che può essere secondo Romsey - di origine displastica, acquisita o
psicogena. Quest’ultima si
riferisce a una specie di tic
che in alcuni soggetti porta
alla ripetizione di movimenti intesi a scaricare tensioni emotive, ma che finiscono per produrre sublussazione.
Il primo degli articoli citati è
firmato da Alexander Van
Tongel, a capo di un team
del dipartimento di chirurgia
ortopedica e traumatologia
dell’ospedale universitario di
Gand, in Belgio, che sottolinea innanzitutto come «i
pazienti con instabilità
posteriore possano presentare una miriade di sintomi
diversi». Spesso si rivolgono
al medico riferendo un fastidio nella zona posteriore
della spalla che si accentua
con movimenti che comportano un carico, come le
distensioni da panca piana.
L’esame fisico è diretto a
riprodurre i sintomi, che
però spesso non sono specifici; esistono comunque dei
test appositi, come per esempio il test del cassetto posteriore, in cui il paziente riferisce dolore o sensazione di
scatto articolare quando la
testa viene spinta posteriormente. Anche le tecniche di
imaging forniscono a volte
solo indicazioni parziali: «le
radiografie standard spesso
appaiono normali, ma servono per verificare l’anatomia
ossea del glenoide e della
testa omerale; l’artrografia
con risonanza magnetica
può essere usata per le lesioni capsulolabrali, mentre la
tomografia computerizzata è
più utile per controllare l’anatomia ossea e l’orientamento delle superfici articolari».
Il principale trattamento
per i pazienti con instabilità
posteriore ricorrente è la
riabilitazione dei rotatori
esterni, in particolare del
muscolo infraspinato.
Ma esistono anche le soluzioni offerte dalla chirurgia;
perché abbiano successo,
l’instabilità deve essere
dovuta a fattori meccanici
modificabili dall’intervento
e lo studio belga ne fa una
rassegna esaustiva, indicando come possano essere
trattati. A seconda delle
indicazioni ricavate dall’analisi di questi fattori, si
può scegliere tra diverse
tecniche di chirurgia aperta
e di artroscopia, che oggi si
sono perfezionate abbastanza da offrire generalmente
buoni risultati.
Il secondo articolo si concentra su una di queste tecniche: la ricostruzione artro-
scopica posteriore con plicatura capsulo-labrale posteriore e sutura con ancore. Si
tratta di un piccolo studio
clinico condotto da specialisti di diversi centri del
Southern
California
Orthopedic Institute su un
campione piuttosto omogeneo di 29 pazienti, tutti con
instabilità posteriore di spalla ricorrente, traumatica,
involontaria e unidirezionale. I risultati di questa metodica artroscopica sono stati
senz’altro ottimi: solo in un
caso si è prodotta di nuovo
un’instabilità ricorrente,
mentre l’84,6% dei pazienti
ha ripreso una normale attività sportiva e il 96.6% si è
dichiarato soddisfatto dell’intervento che, ricordano
gli autori, è comunque indicato solo per lesioni non
eccessivamente importanti.
Renato Torlaschi
Van Tongel A, Karelse A,
Berghs B, Verdonk R, De Wilde
L. Posterior shoulder instability:
current concepts review. Knee
Surg Sports Traumatol Arthrosc
2010 Oct 17.
Bahk MS, Karzel RP, Snyder
SJ. Arthroscopic posterior stabilization and anterior capsular plication for recurrent
posterior glenohumeral instability. Arthroscopy 2010
Sep;26(9):1172-80.
72
ORTHOviews
ANCA-GINOCCHIO
GINOCCHIO
Abuso di alcol e complicanze
in chirurgia protesica
Una scarsa
propriocezione
può causare
osteoartrosi
L'abuso di alcol potrebbe
portare a complicanze dopo
un intervento chirurgico alle
articolazioni. Per abbassare il
rischio sarebbe necessario
effettuare uno screening dei
pazienti e fornire counseling
a quanti risultano fare un uso
eccessivo di bevande alcoliche.
Lo studio, pubblicato sul
Journal of Bone and Joint
Surgery da Nicholas Giori e
colleghi della Stanford
School of Medicine di Palo
Alto, in California, si è basato sull'analisi delle complicanze in 185 pazienti sottoposti a intervento chirurgico
per artroplastica totale del
ginocchio o dell'anca. Gli
uomini, tutti ex militari,
sono stati curati in
California tramite le strutture della Veterans Health
Administration.
Ogni anno, al check-up
annuale, i pazienti afferenti
alla struttura completavano
il questionario Audit-C
(Alcohol Use Disorders
Identification Test), che
misura l'abuso di alcol in una
scala da 0 a 12. Nel test si
chiedeva: «Quante volte ha
bevuto un drink alcolico lo
scorso anno?» oppure
«Quanti drink beve in un
giorno?» e anche «Quante
volte ha bevuto sei o più
drink in una sola occasione
lo scorso anno?». Secondo il
test Audit-C, un consumo di
alcol più di tre volte la settimana, più di nove drink in
un solo giorno o più di sei
drink in media al giorno
sono da considerarsi abuso di
alcol.
Gli uomini che affermavano
di bere più alcolici avevano
più complicanze nel periodo
post-operatorio rispetto a
chi
non
beveva.
Correggendo i risultati per
l'età e lo stato di salute, ogni
punto in più del test AuditC oltre il punteggio 1 corri-
spondeva a un aumento del
29% del numero medio di
complicanze. Tra le complicanze le più frequenti erano
la polmonite, l'ictus, l'embolia polmonare, le infezioni
potenzialmente letali, l'emorragia gastrointestinale,
le anomalie cardiache, le
infezioni delle vie urinarie e
lo shock.
Non è chiaro perché l'alcol
aumenti il numero di complicanze. I ricercatori ipotizzano un effetto sul sistema
immunitario e sul cuore.
Inoltre, il mancato consumo
di alcol dovuto al ricovero
ospedaliero potrebbe creare
una risposta di astinenza,
portando a ulteriore morbilità postoperatoria. In più,
alti punteggi del test AuditC sono stati associati con un
maggiore rischio di fratture,
forse a causa di una maggiore probabilità di incidenti e
traumi fisici.
«Alla fine, il nostro obiettivo non è solo valutare il
rischio, ma anche ridurlo scrivono i ricercatori -. Con
una chirurgia elettiva come
l'artroplastica totale, uno
strumento di screening che
predice il rischio postoperatorio di complicanze è molto
importante,
soprattutto
quando sono legate a un fattore di rischio potenzialmente modificabile come l'abuso
di alcol. Ulteriori ricerche
devono essere condotte per
valutare se gli interventi
preoperatori in pazienti con
un punteggio alto del test
Audit-C potrebbero ridurre
le complicanze».
I ricercatori fanno infine
notare come lo studio sia
stato effettuato su un segmento della popolazione
particolare, cioè ex militari
maschi. Questo gruppo di
persone ha caratteristiche
diverse, in termini di malattie e problematiche sociali,
dal resto della popolazione.
Ad ogni modo, altri studi di
chirurgia, condotti su fasce
più ampie della popolazione,
hanno dato risultati simili.
Claudia Grisanti
Harris AH, Reeder R, Ellerbe L,
Bradley KA, Rubinsky AD,
Giori NJ. Preoperative alcohol
screening scores: association
with complications in men
undergoing total joint arthroplasty. J Bone Joint Surg Am
2011 Feb;93(4):321-7.
COLONNA
Scoprire la causa del mal di schiena
con la risonanza magnetica
Anche in assenza di neoplasie, di fratture o di
artropatie infiammatorie,
il mal di schiena è un
fenomeno enormemente
diffuso.
Si parla di mal di schiena
“meccanico”, in molte
situazioni in cui la patologia che ne è causa non è
facilmente identificabile e,
nella maggior parte degli
studi epidemiologici, le
casistiche sono costituite
sulla base dei sintomi
riportati direttamente dai
pazienti. È d’altra parte
vero che molti soggetti
presentano anomalie di
vario tipo alla colonna
vertebrale senza per questo
avvertire particolari sintomatologie dolorose.
Per cercare di mettere un
po’ di ordine in una situazione tanto variegata e
complessa, Alison Endean,
Keith T. Palmer e David
Coggon, dell’Università di
Southampton,
hanno
deciso di ricorrere a una
revisione sistematica della
letteratura. L’obiettivo era
di avere a disposizione una
grande quantità di studi
che li aiutassero a esplorare le potenzialità offerte
dalla risonanza magnetica
nucleare nel determinare
le cause principali di questi mal di schiena.
È noto che questa tecnologia ha aperto nuove possibilità di classificazione
nella ricerca epidemiologica. I tre studiosi, che lavorano
appunto
presso
l’Epidemiology Resource
Centre
dell’università
inglese, sapevano che
diversi tipi di anomalie
possono essere evidenziate
tramite
la
risonanza
magnetica, «tuttavia - riferiscono - prima che una
qualunque di queste potesse essere identificata come
elemento causale della
lombalgia e non come fattore accidentale, servivano misurazioni ripetute in
diverse occasioni, in modo
da costituire un’evidenza
scientifica».
Come scrivono su un
recente numero di Spine, il
loro lavoro ha portato
all’identificazione di 220
studi, la maggior parte dei
quali erano stati condotti
su soggetti in età lavorativa, mentre una quantità
più ridotta riguardava persone anziane.
Gli studiosi inglesi hanno
individuato diverse condizioni associate al mal di
schiena, a volte definite
diversamente da uno studio all’altro. Alla fine ne è
risultata una specie di classifica, come spiega la dottoressa Endean.
«La nostra analisi indica
che la protrusione discale è
l’anomalia rilevabile attraverso la risonanza magnetica nucleare che più fortemente risulta associata a
lombalgia, seguono la degenerazione discale, le zone
ad alta intensità o le fessurazioni anulari e poi lo spostamento o la compressione
della radice nervosa». I
risultati relativi ad altre
anomalie riscontrabili nelle
immagini - come la stenosi
del canale vertebrale, i nodi
di Schmorl, la spondilolistesi o l’artropatia delle faccette articolari - sono risultate più sparse e richiedono
ulteriori conferme.
Ma molti dubbi permango-
no anche rispetto alle anomalie più frequentemente
associate a una sintomatologia dolorosa: «su base
individuale - continua
infatti Alison Endean nessuna di queste indica
con certezza che la lombalgia sia effettivamente
attribuibile alla patologia
rilevata».
Dalla vasta documentazione esaminata dai ricercatori di Southampton si
conferma che la risonanza
magnetica costituisce uno
strumento formidabile di
indagine, ma anche che il
mal di schiena è talmente
subdolo e complesso da
sfuggire a qualunque tentativo di identificazione.
Renato Torlaschi
Endean A, Palmer KT,
Coggon D. Potential of
magnetic resonance imaging
findings to refine case definition for mechanical low back
pain in epidemiological studies: a systematic review.
Spine (Phila Pa 1976). 2011
Jan 15;36(2):160-9.
La propriocezione è quella
particolare sensibilità grazie
alla quale riusciamo a percepire e a riconoscere la
posizione del nostro corpo
nello spazio e lo stato di
contrazione dei muscoli,
senza l’utilizzo del senso
della vista. Da un paio di
decenni è stata avanzata l’ipotesi che una carenza
nella capacità propriocettiva costituisca un fattore di
progressione dell’osteoartrosi di ginocchio, la più
comune fra tutte le patologie articolari; sarebbe inoltre responsabile di dolori al
ginocchio e limitazioni nei
movimenti.
Molti articoli sono comparsi in letteratura, ma solo di
recente è stata effettuata
una revisione degli studi
con l’obiettivo di stabilire
qualche punto fermo su un
tema su cui ancora resta
molto da scoprire: siamo
infatti ancora lontani da
una precisa e condivisa
conoscenza dei meccanismi
che stanno alla base del
fenomeno e degli impatti
sull’osteoartrosi di ginocchio.
Come spiegano gli autori
dell’articolo, comparso su
Osteoarthritis and Cartilage,
«si suppone che la propriocezione sia necessaria
come forma di protezione
contro movimenti eccessivi, per la stabilizzazione
nelle posture statiche e per
la coordinazione dei movimenti, costituendo di conseguenza un importante
fattore di prevenzione dei
danni alle articolazioni».
In letteratura si distinguono due diversi aspetti del
fenomeno, la percezione
della posizione e il senso
del movimento, che probabilmente sono legati alla
stimolazione di recettori
differenti. Così si sono
seguite due strade anche
nell’approntare protocolli
di misurazione; i test per
rilevare la capacità di percezione della posizione che
sono più rilevanti dal
punto di vista funzionale e
quelli per misurare il senso
del
movimento
che
appaiono più affidabili.
Gli autori della revisione
auspicano lo sviluppo di
nuovi protocolli che sappiano unificare i due
aspetti, combinando i
benefici dei sistemi esistenti.
La revisione ha individuato
molti studi in cui si dimostra come effettivamente i
pazienti di osteoartrosi al
ginocchio soffrano spesso di
un indebolimento della
capacità propriocettiva.
Curiosamente, anche nei
casi in cui l’osteoartrosi è
unilaterale, l’indebolimento della propriocezione si
estende in genere a entrambe le articolazioni.
I ricercatori, pur avendo
individuato nei database
scientifici ben 4133 citazioni dell’argomento, sottolineano i molti punti ancora
da chiarire. Per esempio, le
cause della propriocezione
sono ancora sconosciute,
anche se si sono avanzate
diverse ipotesi: le principali
assegnano un ruolo al deterioramento dei recettori
sensoriali sensibili alle sollecitazioni meccaniche e
all’indebolimento muscolare. Al momento non esistono inoltre evidenze che colleghino l’accuratezza della
capacità propriocettiva con
l’insorgenza dell’osteoartrite al ginocchio, anche se la
maggior parte degli studiosi
ritiene che possa costituire
un fattore che ne favorisce
la progressione.
L’ultima e cruciale considerazione riguarda la possibilità di sottoporre i pazienti
a una terapia efficace e gli
studi pubblicati offrono
risposte generalmente positive. Esistono esercizi di rieducazione propriocettiva,
da eseguire sotto la guida di
un fisioterapista, che servono a ridare al soggetto la
capacità di avvertire come
le proprie articolazioni sono
poste in statica e in dinamica. I risultati appaiono
buoni, in termini di riduzione del dolore e di recupero
delle funzionalità.
Renato Torlaschi
Knoop J, Steultjens MP, van der
Leeden M, van der Esch M,
Thorstensson CA, Roorda LD,
Lems
WF,
Dekker
J.
Proprioception
in
knee
osteoarthritis: a narrative
review. Osteoarthritis Cartilage
2011 Apr;19(4):381-8.
ORTHOviews
75
L AVO RO O R I G I N A L E
Revisione di protesi d'anca
e malattia da debris
Un caso di malattia da debris in portatore
di artroprotesi d’anca con ampio bone loss
periacetabolare e presenza di pseudotumore intrapelvico
La revisione di un’artroprotesi d’anca fallita con
presenza di ampia perdita
di tessuto osseo (bone
loss), sia periacetabolare
ma anche femorale, risulta un atto chirurgico
impegnativo nelle mani
anche dei più bravi chirurghi d’anca.
Le principali cause di fallimento di un’artroprotesi
d’anca sono la malattia da
debris di polietilene, l’infezione, le lussazioni
ricorrenti e le fratture
periprotesiche.
La maggioranza dei problemi a carico di una protesi d’anca si localizzano a
livello cotiloideo e sono
frequentemente causati
Fig. 1: le zone di Gruen
dall’ondata di microparticelle di polietilene che si
genera a livello delle due
interfacce testa protesicainserto e inserto-metal
back e che procede in
direzione cefalo-caudale
coinvolgendo anche la
componente femorale.
Fra le altre cause di mobilizzazione della componente acetabolare si
annotano il riassorbimento osseo a livello dell’interfaccia protesi-osso per
errori di tecnica, la lisi
enzimatica all’interfaccia
protesi-osso
o
ossocemento per infezioni
profonde o ipersensibilità
ai materiali protesici e
inoltre fattori predispo-
nenti come ad esempio
l’obesità, la qualità ossea e
la conformazione acetabolare.
L’intervento di revisione
Il problema più importante che ha il chirurgo nel
caso di grave bone loss
acetabolare è quello di
scegliere l’impianto protesico più adatto per l’anca
da revisionare, ma anche
quello di ricreare un’impalcatura meccanicamente sufficiente sotto di esso
e per di più quello di permettere al tessuto osseo
rimanente di rigenerarsi.
Dalla letteratura si evince
che la sola componente
acetabolare è interessata
nel 40% dei casi di revisione, entrambe le componenti lo sono nel 37%,
mentre nel 22% dei casi
risulta coinvolta la sola
componente femorale (1).
Attualmente le classificazioni maggiormente usate
per il bone loss periacetabolare sono quelle del
Gruppo italiano di riprotesizzazione e la classificazione secondo Paprosky
(2).
La valutazione dell’entità
di bone loss acetabolare
viene effettuata tramite
uno studio radiografico
convenzionale con l’esecuzione non solo della
proiezione anteroposte-
GLI AUTORI DELL’ARTICOLO
A destra il dottor Arturo De Michieli, direttore dell’unità
operativa di ortopedia e traumatologia dell'Ospedale
di Albenga; a sinistra il dottor Savvas Dynamidis, dirigente
medico chirurgo ortopedico presso la stessa struttura
Fig. 2: radiografia dell'anca
destra dove si evidenziano le
zone di osteolisi in sede
sovracetabolare, a livello del
femore prossimale e a livello
delle zone 3 e 5 di Gruen. Si
noti un frammento metallico
filiforme in sede intrarticolare
facente parte dell’inserto in PE
Fig. 3: tomografia
computerizzata preoperatoria
dove si evidenzia l’importante
osteolisi periacetabolare e la
presenza dello pseudotumore
intrapelvico
Fig. 5: l’articolazione protesizzata risultava colma
di un materiale simil-granulomatoso
Fig. 4: scansione coronale
della tomografia computerizzata
del bacino; risulta ancora
meglio visualizzabile
la perdita di tessuto osseo
sovracetabolare e la perdita
della parete mediale
Fig. 6: radiografia del bacino dopo la rimozione della protesi d’anca
76
ORTHOviews
ORTHOviews
Fig. 7: tomografia
computerizzata dopo
la rimozione della protesi.
Si noti il bone loss
periacetabolare esteso fino
all’ischio e il pseudotumore
intrapelvico ancora presente
Fig. 8: tomografia computerizzata bacino eseguita a maggio
2010, a due mesi dall’intervento di rimozione della protesi
riore ma anche di quelle
oblique
secondo
Letournel e Judet (3),
iliaca e otturatoria, e
completata eventualmente da un esame di tomografia computerizzata del
bacino. Frequentemente
la classificazione viene
conclusa intraoperatoriamente.
Raramente, una perdita di
tessuto osseo periacetabolare in portatore di protesi d’anca può essere associata a una reazione granulomatosa pseudotumorale con localizzazione
intrapelvica. I dati e i casi
clinici in letteratura su
questo argomento sono
limitati. La causa della
formazione di tali masse
sarebbe da ascrivere a una
osteolisi indotta dalle
micro particelle di polietilene. Queste masse pseudotumorali possono frequentemente
essere
misconosciute dopo esecuzione del solo esame
radiografico convenzionale e spesso necessitano di
un esame Tc del bacino
per la valutazione dell'estensione e dei rapporti
anatomici con le strutture
intrapelviche limitrofe.
In letteratura sono presenti casi di pseudotumori
granulomatosi associati a
protesi con tribologia
metallo-metallo; inoltre
sono state descritte complicazioni nervose come
ad esempio la paralisi del
nervo femorale o del
nervo otturatorio dovuta
alla presenza di queste
masse (4).
Il caso clinico
Nel mese di febbraio 2010
abbiamo visitato nel
nostro ambulatorio il
paziente D. T. di 74 anni,
uomo, che lamentava
algie presenti soprattutto
sotto carico a livello
inguinale a destra in esiti
di intervento di artropro-
tesi d'anca non cementata
eseguita circa dieci anni
prima.
In questa sede è stato
visualizzato l'unico radiogramma convenzionale
del bacino in proiezione
antero-posteriore eseguito
dal paziente ed è stato
effettuato l'esame clinico.
La funzionalità dell'articolazione
protesizzata
interessata è stata valutata con la scala Harris Hip
Score (5), nella quale il
paziente ha ottenuto 25
punti.
Al controllo radiografico
standard che il paziente
aveva portato in visione si
evidenziava una zona di
osteolisi interessante la
parte trocanterica femorale ma soprattutto la zona
sovracetabolare, dove si
evidenziavano due zone
principali di iperdiafania
coinvolgenti inoltre il
tessuto osseo intorno alle
due viti di stabilizzazione
della componente aceta-
bolare. Altre zone di
osteolisi si localizzavano a
livello delle zone 3 e 5 di
Gruen (figg. 1 e 2) (6).
Una volta visionato l’esame radiografico abbiamo
ritenuto opportuno eseguire un esame di tomografia computerizzata (Tc)
del bacino. Nella Tc si
evidenziava l’ampio riassorbimento di tessuto
osseo periacetabolare e
soprattutto
in
sede
sovraacetabolare interessante le viti di stabilizzazione del cotile. Inoltre il
paziente presentava una
voluminosa formazione
intrapelvica in comunicazione con lo spazio articolare attraverso soluzione
di continuo della parete
mediale acetabolare (figg.
3 e 4).
Successivamente nel mese
di marzo 2010 il paziente
è stato sottoposto a intervento chirurgico di rimozione della protesi d’anca.
Intraoperatoriamente la
Fig. 9: posizionamento del sostituto osseo di origine naturale
cavità articolare risultava
colmata da tessuto similgranulomatoso, che è
stato asportato nella sua
interezza
(fig.
5).
Successivamente venivano asportate le componenti acetabolare e femorale. Il tappo-centratore
dello stelo primario non è
stato subito rimosso,
anche per evitare il riempimento del canale femorale da tale raccolta granulomatosa. Le componenti protesiche sono
state rimosse senza difficoltà.
Una volta rimosse le componenti protesiche abbiamo potuto confermare il
grave bone loss evidenziabile nella Tc con ampia
osteolisi della porzione
superiore acetabolare e
grave deficit del pavimento mediale e della parete
anteriore.
A causa della pessima
qualità e quantità di tessuto osseo abbiamo deciso
di seguire una procedura
two-step e di procedere
con l’impianto definitivo
a distanza di pochi mesi.
Il decorso post operatorio
si è svolto nei limiti della
norma e il paziente ha
risposto il modo soddisfacente alle cure mediche.
Durante il periodo di
degenza è stato eseguito
un controllo radiografico
standard del bacino (fig.
6) ed è stata ripetuta la Tc
del bacino (fig.7).
Il paziente è stato dimesso
dal nostro istituto con
carico non concesso sull’arto inferiore destro e ha
eseguito un’adeguata profilassi antitromboembolica con eparina a basso
peso molecolare.
A distanza di due mesi dal
primo
intervento
il
paziente è stato sottoposto a un’ulteriore Tc del
bacino, nella quale si
notava chiaramente lo
“svuotamento” del contenuto del pseudotumore
dalla sua sede intrapelvica
verso la cavità articolare
ormai vuota dalla protesi.
Probabilmente ciò è
dovuto alla diretta comunicazione dell’articolazione con il pseudotumore
intrapelvico attraverso
una soluzione di continuo
del pavimento acetabolare mediale e favorito
anche dalla pressione
intraddominale positiva.
Attraverso elaborazione
con apposito software
della scansione Tc abbiamo per di più ottenuto
una ricostruzione tridimensionale
dell’anca
destra, che ci ha aiutato
nella pianificazione dell’intervento di reimpianto
e nella scelta delle componenti da impiantare
(fig. 8).
Nello stesso mese il
paziente è stato sottoposto all’intervento di reim-
pianto. Per il riempimento delle zone di osteolisi
sovracetabolare e del
fondo acetabolare abbiamo fatto uso di un sostituto osseo di origine naturale (Orthoss, Geistlich
Pharma AG) (fig.9).
Sul fondo dell’acetabolo
sono stati posizionati due
flaconi di sostituto osseo
da 7 gr ciascuno, per un
totale
di
40
cm 3 .
Dopodiché la parete
mediale acetabolare è
stata riforzata posizionando apposito sostegno
(Trabecular
Metal
Restrictor, Zimmer) interamente in metallo trabecolare (tantalio), diametro
di 38 mm (fig. 10), e su
questa base solida abbiamo cercato di ricostruire
la parete anteriore con
apposito “augmentation”
in tantalio dal diametro
58 mm e spessore 10 mm,
stabilizzato anteriormente
con due viti.
Successivamente è stato
posizionato cotile in
metallo trabecolare - tantalio dal diametro 60 mm
stabilizzato con 3 viti. Su
questa base solida è stato
successivamente cementato cotile in polietilene
(Durasul Low Profile Cup
Cemented, Zimmer) diametro 48mm e interno
36mm.
A livello femorale è stato
impiantato uno stelo
lungo (Wagner, Zimmer)
Fig. 10: posizionamento del trabecular metal restricor
sul fondo dell’acetabolo
Fig. 12: controllo radiografico a tre mesi dall’intervento chirurgico definitivo
Fig. 11: controllo post-operatorio; nella foto in ingrandimento si vede
la matrice minerale utilizzata sul fondo dell’acetabolo,
che presenta un’immagine radiografico microgranulare (freccia rossa)
Fig. 13: controllo radiografico a un anno dall’intervento chirurgico.
Si evidenzia una buona integrazione della matrice ossea con trasformazione graduale
dell’aspetto granulare della matrice in un’immagine radiografica sempre più omogenea
di lunghezza 265 mm e
diametro 15 mm senza uso
di cemento, mentre la
testina protesica metallica
era del diametro 36 mm
con
lunghezza
collo
medio. L’apice del gran
trocantere è stato cerchiato con cerchiaggi metallici e apposita graffa metallica.
Dopo l’intervento chirurgico è stato eseguito un
controllo
radiografico
(fig. 11).
Il decorso post-operatorio
si è svolto nei limiti della
norma e il paziente è stato
dimesso a circa dieci giorni dal’intervento chirurgico.
Abbiamo eseguito controlli radiografici a tre
mesi e a un anno dall’intervento chirurgico (figg.
12 e 13). Il paziente non
si è presentato al controllo radiografico programmato a sei mesi dall’intervento chirurgico.
Risultati
Al controllo clinicoradiografico eseguito a un
anno dall’intervento chirurgico
definitivo
il
paziente si presentava
soddisfatto.
La funzionalità dell’anca
destra è stata valutata con
l’uso della scala Harris
Hip Score, nella quale il
paziente ha ottenuto 60
punti, rispetto ai 25 punti
nel preoperatorio.
All’esame
radiografico
eseguito a un anno dall’intervento chirurgico si
osserva una buona integrazione del sostituto
osseo di origine naturale
utilizzato sul fondo dell’acetabolo, trasformandosi
da un’immagine simil-granulare a una zona radiograficamente più omogenea. Tale immagine si
nota soprattutto a livello
del fondo acetabolare e
della zone sovracetabolare
che accoglie alcune delle
viti di stabilizzazione del
cotile.
Conclusioni
L’utilizzo di un sostituto
osseo di origine naturale
come Orthoss, con elevata osteoconduttività, che
si integra rapidamente ed
entra nel normale processo di rimodellamento,
consente di ricostruire
una base solida su cui
posizionare le componenti
protesiche e offre uno
scaffold per la rigenerazione ossea nel caso di grave
bone loss.
L’associazione di un trabecular metal restrictor per
la chiusura del difetto
della parete mediale ha
consentito la gestione di
un caso di grave difetto
periacetabolare.
77
Bibliografia
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80
ORTHOviews
ORTHOviews
L AVO RO O R I G I N A L E
zione, per essere lavorata
prima con iniziatore di
canale per valutare anche
la direzione dello stesso
ottenuta con la manovra e
in seguito con raspe dedicate con manico a doppia
curvatura in dotazione allo
strumentario.
Il manico, aiutato da una
giusta manovra, renderà
agevole la preparazione
dell’epifisi per l’alloggiamento sia di steli anatomici (Abg2) sia di steli retti
(Accolade) o steli retti
cementati (Exeter), tutti
sistemi con unico aggancio.
Se la rotula ha raggiunto i
90° di extra rotazione, le
raspe potranno essere
orientate verticalmente o
con qualche grado di intra
rotazione; in caso contrario bisognerà intraruotare
le raspe per tanti gradi
quanti ne mancano ai 90
richiesti.
Chirurgia mininvasiva dell’anca
con la via anteriore diretta
Suggerimenti di tecnica operatoria
DOTT. GIANCARLO DE MARINIS
Direttore UOC di Ortotraumatologia, Ospedale Civile di Latina
1.
Fig. 1
POSIZIONE DEL
PAZIENTE E LETTO
OPERATORIO
Un accurato planning
preoperatorio è fondamentale per la corretta
esecuzione dell'intervento
di chirurgia mininvasiva
all’anca (Mis) con la via
anteriore diretta (Daa).
Occorre un letto operatorio che abbia la possibilità
di articolare i supporti per
gli arti inferiori possibilmente in maniera indipendente.
Nello specifico l’arto da
operare dovrà avere la
possibilità durante l’intervento di essere posto in
leggera estensione (30°-
40°), quindi il bacino
verrà posizionato in corrispondenza dello snodo.
L’arto contro laterale in
abduzione (possibilmente
45°).
Il paziente dovrà essere
posizionato supino (fig.
1), non al centro del letto,
ma lateralizzato dal lato da
operare, con una pelotta
di spinta sull’ala iliaca
contro laterale, braccio
omo laterale in sovra elevazione, l’altro su un reggi
braccio con gli accessi
venosi.
Il campo operatorio va
preparato come di consuetudine lasciando libero il
solo arto da operare, dalla
radice della coscia al
piede.
2.
Fig. 2
Fig. 3
REPERI ANATOMICI
E INCISIONE
CUTANEA
Palpate la spina iliaca
anteriore superiore (Sias)
e marcatela. Palpate il
grande trocantere e marcatelo. Potete adesso palpare con i polpastrelli il
solco tra tensore della
fascia lata e sartorio.
Praticate una incisione
cutanea di lunghezza
approssimativa di 6/10 cm
che parta prossimalmente
due dita trasverse distalmente e lateralmente
dalla Sias e che decorra
rettilinea lungo il decorso
del tensore (fig. 2).
Da notare che la lunghezza dell’incisione cutanea è
indicativa e dipende generalmente dalle caratteristiche del paziente: sesso,
età, qualità dell’osso, corporatura, sviluppo delle
masse muscolari, dimensioni dell’impianto valutate nel planning preoperatorio.
Indicativamente si può
suggerire una incisione da
5 a 10 cm, oppure una lunghezza pari a una volta e
mezzo il diametro presunto dell’impianto acetabolare (ad esempio in caso di
cotile 50 mm: 50+25=75.
L'incisione sarà di 7,5
cm).
3.
INDIVIDUAZIONE
DEL VALLO
MUSCOLARE
E DEL PACCHETTO
VASCOLARE
Incidete cute e il sotto
cutaneo lungo tutta la
lunghezza dell’incisione;
arrivate alla fascia muscolare e con il dito palpate
per via sottocutanea la
Sias, che deve risultare
mediale (fig. 3).
Incidete la fascia del tensore lungo il decorso delle
fibre muscolari che non
vanno incise; alzate delicatamente la fascia e con
il dito raggiungete medialmente il vallo inter
muscolare fra tensore
(lateralmente) e sartorio
(medialmente).
Accertatevi di aver divaricato lateralmente tutto il
tensore senza essere penetrati tra le fibre (fig. 4).
Applicate due normali
divaricatori a branca per
verificare il vallo che, nel
suo pavimento, metterà in
evidenza del tessuto grasso. Non aprite questo spazio longitudinalmente, per
non ledere il pacchetto
vascolare.
Fig. 4
Applicate i primi due
divaricatori di Homan
dello strumentario Mis
dedicati:
Homan smusso al limite
prossimale dell’incisione a
divaricare lateralmente la
muscolatura pelvi trocanterica. L’Homan deve scivolare lungo il collo femorale ed avvolgerlo in senso
latero-posteriore.
Homan stretto a punta,
al limite distale dell’incisione cutanea in corrispondenza del grande trocantere per divaricare
lateralmente la muscolatura.
Al centro dei due Homan,
se ben posizionati (fig. 5)
comparirà dopo accurata
liberazione il pacchetto
dei vasi collaterali (branca
ascendente), che andranno ben isolati e legati
accuratamente sia medialmente che lateralmente e
quindi sezionati.
Le tecniche di legatura
possono essere varie, ma è
importante ricordare che
le stesse saranno sollecitate durante l’atto operatorio e quindi dovranno
essere stabili.
Con uno scolla periostio
scollate il retto femorale
dalla capsula e divaricatelo medialmente applicando un Homan smusso a
contornare il collo femore
medialmente al di sopra
del piccolo trocantere.
Continuate a scollare
bene la capsula fino ad
avere una buona visione
dell’intera capsula anteriore.
Sarà così possibile individuare il tendine riflesso del
retto che prossimalmente si
fonde alla capsula.
4.
CAPSULA
ARTICOLARE
La capsula può essere incisa a T oppure a seconda
delle abitudini del chirurgo.
Se si intende asportare la
capsula se ne deve asportare quasi tutta la parte
anteriore, precedentemente isolata.
5.
OSTEOTOMIA
FEMORALE
Controllate che i due
Homan già applicati
avvolgano posteriormente
il collo femorale, uno in
senso latero posteriore e
l’altro medialmente al di
sopra del piccolo trocantere.
Applicate una vite da
rimozione di testa e applicando anche una trazione
manuale sull’arto provate
a lussare la testa, che potrà
essere quindi osteotomizzata in maniera tradizionale; se questo non avviene
per le condizioni anatomiche, dovrete effettuare la
tecnica della doppia osteotomia in situ qui di seguito
riportata.
Si pratica una prima osteotomia a livello usuale per
lo stelo, da praticare con
rotula allo zenit.
La lama verticale inclinata
di circa 40° latero-medialmente (taglio protesi
dipendente).
Seconda osteotomia sottocapitata (taglio non protesi dipendente) al fine di
isolare un cilindro di collo
da poter asportare che permetta di estrarre la testa
femorale con il comune
Fig. 5
ferro a vite per estrazione.
L’osteotomia si può praticare praticamente a tutti i
livelli, per poter applicare
anche steli a conservazione di collo.
6.
PREPARAZIONE
ACETABOLO
Asportata la testa si deve
procedere al posizionamento degli Homan dedicati per l’esposizione e preparazione della cavità acetabolare.
Homan largo sul fondo
acetabolare
oppure
Homan asimmetrici destro
e sinistro.
Homan smusso a contornare la parte distale
dell’acetabolo applicando
la punta smussa nel forame
otturatorio con una buona
evidenziazione del legamento trasverso.
Homan stretto a punta
applicato sul tetto acetabolare (fossetta dello
psoas) ortogonale alla congiunzione tra Sias e sinfisi
pubica (con particolare
attenzione a rimanere aderenti all’osso). Per il suo
inserimento può risultare
utile l’apposito applicatore
dello strumentario.
Gli Homan che ben delimitano la cavità acetabolare vanno tenuti senza
eccessive trazioni con la
tecnica della finestra
mobile.
Homan a punta (opzionale) sul bordo supero
esterno.
Dopo aver completato la
pulizia sia di eventuali
osteofiti e di residui capsulari si può procedere alla
fresatura dello stesso con
le apposite frese innestate
nel porta frese a baionetta,
in dotazione con il manico
stabilizzatore girato per il
lato destro e sinistro.
L’applicazione della coppa
acetabolare seguirà le
usuali metodologie legate
anche al tipo di impianto,
emisferico a press-fit
(anche con viti) tipo
Trident o Abg.
Usare l’applicatore dedicato anch’esso a baionetta
sia per le prove sia per la
componente definitiva.
Al momento dell’impianto
si verificherà il posizionamento del bacino; l’angolo
di copertura intorno ai 45°
e l’angolo di antiversione
da quasi neutro a 10°.
Anche aiutandosi traguardando le spine iliache palpabili sotto i teli si può
verificare l’asse dell’intero
corpo.
Dopo l’applicazione della
coppa si potrà procedere
alla messa in situ anche
dell’inserto definitivo scelto.
7.
ISOLAMENTO
E PREPARAZIONE
DELL’EPIFISI
FEMORALE
Dopo aver esteso l’arto da
operare di circa 30° si può
applicare un Homan apposito al di sotto del grande
trocantere. Si procederà se
necessario con il bisturi
elettrico a un parziale
release da dentro a fuori
della capsula posteriore,
fino a quando la manovra
(eseguita da un collaboratore) di seguito descritta
risulterà agevole, senza
praticamente applicazione
di forza.
Si potrebbe in questa fase
inserire un uncino all’interno del canale per verificare quanto si solleva l’epifisi e quindi decidere di
procedere al release.
Gestendo ginocchio e
collo piede portare l’arto
in estensione di 30°, adduzione di 20° ed extrarotazione di 90°.
Tale manovra va eseguita
delicatamente, senza forzature, procedendo in ordine
e interagendo fra operatore e aiuto.
A questo punto l’Homan
sotto il trocantere porterà
l’epifisi nella giusta posi-
8.
APPLICAZIONE
DELLO STELO
DEFINITIVO
E ASSEMBLAGGIO
FINALE
DELL’IMPIANTO
Lo stelo definitivo può
essere applicato come di
consuetudine. Si applicherà un collo e una testina di prova, si ridurrà la
protesi e si verificherà la
sua congruenza e stabilità.
Con il riferimento bimalleolare si verificherà la
lunghezza dell’arto rispetto
al contro laterale, anche
servendosi delle spine iliache. Si procederà quindi
all’applicazione delle componenti definitive.
9.
CHIUSURA DEL
SITO CHIRURGICO
Verifica
dell’emostasi;
verifica dei punti applicati
81
all’inizio dell’intervento;
drenaggio se desiderato.
Si procederà alla sola chiusura della fascia del tensore della fascia lata, con
l’accortezza del controllo
dei rami del nervo femorocutaneo che decorrono
medialmente nello sdoppiamento della fascia del
tensore.
Sutura sottocute e cute
come consuetudine del
chirurgo. Medicazione elasto-compressiva.
ORTHOviews
COLONNA
Quale trattamento
per la scoliosi idiopatica?
La scoliosi idiopatica proprio idiopatica non è. Si
sa che con molta probabilità le cause sono genetiche e forse dal Dna arriverà una cura definitiva.
Per ora esistono diversi
trattamenti, opzione chirurgica inclusa, che permettono comunque di
migliorare la sintomatologia dei pazienti. Nicholas
D. Fletcher dell’Emory
Orthopaedic and Spine
Center di Atlanta si è
focalizzato sulla scoliosi
idiopatica in età pre-adolescenziale e, con alcuni
colleghi, ha avviato
un’indagine per conoscere
quali sono i trattamenti
preferiti dagli ortopedici
pediatrici americani.
La suddivisione classica è
tra scoliosi infantile (nei
primi tre anni di vita) e
giovanile (fino ai dieci
anni di età) e una delle
preoccupazioni legate alla
malattia è legata ai rischi
di uno sviluppo polmonare anomalo, segnalato nei
bambini al di sotto dei
cinque anni; alcuni studi
hanno evidenziato in questi pazienti tassi di mortalità superiori ai coetanei e
queste
considerazioni
inducono sempre più spesso ad affrontare un trattamento, anche se è noto
che la maggior parte dei
casi
si
risolverebbe
comunque
spontaneamente.
Il trattamento della scoliosi a insorgenza precoce
si è modificato nel corso
degli anni e si è arricchito
di tecniche nuove, sia
conservative che chirurgiche. Il corsetto gessato
non viene più utilizzato in
modo continuato per
tutto il periodo evolutivo,
ma solo per brevi periodi
per riportare le curve a
livelli accettabili oppure
in fase pre-operatoria. I
ricercatori
americani
hanno considerato nella
loro indagine l’utilizzo dei
sistemi di trazione Halo
messi
a
punto
in
California fin dagli anni
Cinquanta e degli speciali
lettini gessati, ipotizzando
che la disponibilità di
queste attrezzature facesse
propendere più spesso gli
ortopedici verso un trattamento conservativo.
La chirurgia oggi dispone
di nuove tecniche ed è
considerata la soluzione
più indicata per certi casi
gravi o a spiccata tendenza evolutiva: le metodiche
più recenti prevedono una
correzione per via laterale
o anteriore direttamente
sui corpi vertebrali. Gli
autori hanno anche verificato il ricorso alle barre
di titanio espandibili in
lunghezza (growing rods)
nel trattamento delle
gravi scoliosi infantili,
soluzione che, attraverso
sistemi di fissazione temporanea, permette di
mantenere sotto controllo
la progressione della scoliosi.
Le risposte al sondaggio
inviato ai membri della
Pediatric
Orthopaedic
Society of North America
mostrano che i corsetti
restano il trattamento
preferito e sono prescritti
comunemente dall’89,1%
degli ortopedici. Anche le
growing rods hanno un
largo impiego: il 64,1%,
mentre la toracoplastica è
83
praticata dal 39,1% di
coloro che hanno risposto
all’indagine ed è riservata
ai casi più gravi. Il sondaggio indica che il 66%
degli ortopedici pediatrici
americani dispone di lettini gessati e il 77% di
sistemi di trazione Halo,
ma se i primi sono largamente utilizzati (il 62%
del totale: quindi quasi
tutti quelli che ne hanno
la disponibilità ne fanno
uso), i secondi sono, tra
tutte le soluzioni considerate, la meno popolare,
con una percentuale del
27%.
In generale, il trattamento conservativo è largamente preferito per i
pazienti molto piccoli,
fino ai due anni, mentre
due ortopedici su tre
ritengono utile ricorrere
alla chirurgia su bambini
intorno ai cinque anni
con ampie curve scoliotiche.
Renato Torlaschi
Fletcher ND, Larson AN,
Richards BS, Johnston CE.
Current treatment preferences
for early onset scoliosis: a survey of Posna members. J
Pediatr Orthop 2011 AprMay;31(3):326-30.
EPIDEMIOLOGIA
Le fratture da osteoporosi
diminuiscono in termini relativi
Osteoporosis International
ha pubblicato una revisione sistematica della letteratura scientifica condotta
allo scopo di delineare uno
scenario epidemiologico
riguardo
all’incidenza
delle fratture osteoporotiche, in particolare quelle
dell'anca. Già interessante
per la messe di dati forniti,
lo studio offre un ulteriore
e più promettente spunto
di riflessione per il fatto
che riesce a tracciare un’evoluzione della malattia,
lasciando intravedere che
alcuni fattori potrebbero
invertirne l’espansione.
Per individuare qualche
nota ottimistica, tuttavia,
bisogna proprio leggere tra
le cifre, perché il primo
impatto è quello di una
patologia dai risvolti
sociali ed economici enormi, soprattutto per le conseguenze delle fratture vertebrali, distali d’avambraccio e d’anca. Nell’anno
2000 sono state stimate in
9 milioni le fratture osteoporotiche nel mondo,
delle quali 1,6 milioni
all’anca, 1,7 milioni all’avambraccio e 1,4 alla
colonna vertebrale. Per
avere un’idea dell’impatto
economico, basti citare
uno studio comparso su
Lancet nel 2002 che azzarda le cifre astronomiche di
20 miliardi di dollari negli
Stati Uniti e 30 miliardi di
euro nell’Unione Europea.
Il problema sembra destinato ad aggravarsi a causa
dell’aspettativa di vita che
risulta in crescita in tutto
il mondo: le stime delle
sole fratture d’anca si
proiettano verso i 6,3
milioni nel 2050. Ma la
distribuzione geografica
desta qualche sorpresa e
mostra che l’età non è il
solo fattore di cui bisogna
tenere conto. Le statistiche aggiustate per età
mostrano incidenze di fratture che in Scandinavia e
in America Settentrionale
sono fino a sette volte
superiori a quelle registrate nei paesi dell’Europa
mediterranea. Anche in
Asia e America latina la
situazione appare migliore
e, in generale, le popolazioni che vivono nelle aree
rurali sembrano più protette rispetto agli abitanti
delle città.
Gli studi riportano un
generale aumento delle
fratture d’anca nella
seconda metà del secolo
scorso, ma negli ultimi due
decenni si è notato un
cambiamento: le cifre
complessive continuano a
salire, ma le percentuali di
fratture tra individui della
stessa età hanno fatto
segnare una stabilizzazione
e in certi casi addirittura
un calo.
La sfida è ora quella di
capire le ragioni di questo
declino - che comunque
non è generalizzato - per
poter mettere in atto misure efficaci di prevenzione.
L’aumento registrato dagli
anni cinquanta in poi
viene attribuito in genere
a una maggiore tendenza
alla sedentarietà, all’insufficiente apporto di vitamina D e all’aumentata
sopravvivenza fino a tarda
età di persone fisicamente
fragili, grazie ai miglioramenti della medicina.
Le ragioni per cui alcune
curve di incidenza delle
fratture hanno raggiunto
un plateau dalla metà degli
anni novanta per poi
mostrare una certa discesa
sono difficili da individuare. È proprio in quel periodo che fu approvato l’utilizzo
in
Europa
e
Nordamerica dei primi
bisfosfonati, tuttavia l’impiego di questi farmaci è
stato inizialmente limitato
e quindi non può spiegare,
da solo, il calo di fratture
LA TECARTERAPIA
osservato. Un contributo
potrebbe derivare dalle
mutate abitudini alimentari degli anziani, da una
maggiore
propensione
all’esercizio fisico e da una
minore diffusione del consumo di tabacco. L’uso di
estrogeni nel periodo di
post-menopausa è generalmente diminuito, ma questo avrebbe dovuto portare
all’aumento delle fratture
anziché alla loro relativa
diminuzione. Insomma,
non è al momento possibile fornire una singola spiegazione convincente che
renda conto delle variazioni che si sono registrate
nell’epidemiologia delle
fratture osteoporotiche ma
questo, come ribadiscono
gli autori dello studio,
dovrebbe essere solo uno
stimolo per i ricercatori.
Giampiero Pilat
Cooper C, Cole ZA, Holroyd
CR, Earl SC, Harvey NC,
Dennison EM, Melton LJ,
Cummings SR, Kanis JA;
The IOF CSA Working
Group
on
Fracture
Epidemiology. Secular trends
in the incidence of hip and
other osteoporotic fractures.
Osteoporos
Int
2011
May;22(5):1277-1288.
Sviluppata nel corso degli ultimi anni la Tecar è sicuramente una tecnica terapica che sta largamente prendendo piede,
con indici di riscontro positivo davvero interessanti.
Utilizzata e sviluppata presso centri specialistici, la terapia si
avvale della stimolazione dei tessuti dall'interno.
Ma facciamo un po’ di chiarezza: utilizzando strumentari
dedicati quello che si ottiene è un "trasferimento" di
energia all’interno dei tessuti interessati. Il principio è
semplice: ampliare e stimolare i processi riparativi a livello osteoarticolare dell'organismo. Come tutti sappiamo
dove vi è un danno spesso i processi biologici riparativi
possono essere rallentati. La Tecar, attraverso il suo trasferimento di energia, accelera e incrementa la possibilità di
una riparazione più efficace.
Come ogni terapia non possiamo considerarla la panacea
di tutti i mali: il quadro clinico deve essere ben definito
dallo specialista prima di decidere se far sottoporre il
paziente a più applicazioni di questa terapia.
La chiave di volta che fa della Tecar una novità nelle
terapie antalgiche non invasive è il meccanismo attraverso il quale "muove" l’energia che permette di accelerare i
processi riparativi: mentre la radar o la Marconi terapia
utilizzano energia proveniente dall’esterno, la Tecar
richiama le cariche elettriche del nostro organismo.
Paragonando il modello a quello di un banale condensatore, le cariche elettriche vengono accumulate ai due capi
di esso; se viene collegato a un generatore di corrente,
ecco che avremo un accumulo di cariche sulle due piastre
del conduttore. La variante in questo caso è che una delle
due piastre è il tessuto biologico. Nella zona di interesse,
dove stiamo applicando la terapia, si avrà allora un flusso
di cariche capace di creare un effetto termico endogeno.
Possiamo dire che non esistono effetti collaterali riscontrati. È necessario però avere l'accortezza di inquadrare
correttamente il paziente, essere sufficientemente documentati ed esperti nel maneggiare il macchinario e conoscere la tempistica e la durata della terapia.
Lorenzo Castellani, Matteo Laccisaglia
86
FORMAZIONE CONTINUA
?
LA
Il Q u e s i t o D i a g n o s t i c o
SOLUZIONE A PAGINA
A cura di Giorgio Castellazzi
110
TC (2), finestra
per osso, sezione
coronale a
Marco è un ragazzo di 35 anni, che vive e lavora a
Massa Carrara come insegnante in un liceo classico: in passato (circa sei mesi fa) ha subito un trauma da caduta al piede destro, con interessamento
dell’astragalo.
Attualmente, dopo una puntata febbrile intorno ai
39 gradi, durata per circa due giorni e poi regredita, il paziente ha iniziato a manifestare algie a caviglia-retropiede destra, che non sono regredite dopo
opportuna terapia antalgica.
TC (2), finestra
per osso, sezione
coronale b
Esame Obiettivo e di Laboratorio
Marco è stato visitato dall’ortopedico di fiducia, che
ha riscontrato un lieve gonfiore atraumatico dei tessuti molli di caviglia-retropiede, senza arrossamenti o
incremento della temperatura locale.
Le indagini del sangue hanno rivelato un netto rialzo
degli indici di flogosi, soprattutto di Ves e Pcr, senza
alterazione della funzionalità epatica e degli esami
delle urine; gli indici reumatologici sono risultati
negativi.
Indagini Strumentali
?
RX (1) caviglia dx, pr. frontale
TC (2), finestra
per osso, sezione
coronale c
RX (1) piede-caviglia dx, pr. LL
È stata eseguita indagine radiografica (RX 1) in carico
di piede-caviglia destra.
In proiezione frontale, è visibile irregolarità del profilo
corticale dell’astragalo per la tibia con addensamento
dell’osso subcondrale del domo astragalico.
È stata eseguita anche indagine di tomografia computerizzata (TC 2) per meglio studiare la situazione dell’osso e confermare i reperti radiografici.
Si conferma aspetto addensato e disomogeneo dell’osso subcondrale al domo astragalico, con aree di
riassorbimento di aspetto geodetico e di addensamento eburneo, con collasso della superficie articolare per
la tibia e minute scalinature posteriori.
TC (2), finestra
per osso, sezione
coronale d
TC (2), finestra per osso, sezione sagittale a
Ipotesi Diagnostiche
• Osteomielite acuta del domo astragalico
• Lesione espansiva del domo astragalico con interessamento articolare
• Pseudoartrosi di pregressa frattura dell’astragalo
• Necrosi avascolare del domo astragalico con artrosi
secondaria della tibio-tarsica
TC (2), finestra
per osso, sezione
assiale a
TC (2), finestra per osso, sezione sagittale b
TC (2), finestra
per osso, sezione
assiale b
TC (2), finestra per osso, sezione sagittale c
89
FOCUS ON
Proiezioni da premio
L'attualità della tradizione
Le tecniche radiologiche tradizionali si confermano estremamente rilevanti
nella diagnostica traumatologica e sono una base imprescindibile per sfruttare
al meglio le potenzialità delle sofisticate tecnologie contemporanee
La location è il Palazzo dei Congressi di Riccione
lo scorso aprile, l'occasione il 14° congresso
nazionale della Federazione tecnici sanitari di
radiologia medica (Tsrm), l'evento il premio
assegnato ai tecnici Tiziana Mari e Gianluca
Galbulli Cavazzini del dipartimento di radiologia
e diagnostica per immagini dell'Azienda
ospedaliero-universitaria di Parma, autori di un
poster sulle proiezioni speciali del ginocchio, che
pubblichiamo integralmente nella pagina a
fianco.
Un premio davvero degno di nota anche, e forse
soprattutto, per la motivazione di merito con la
quale la commissione ha voluto sottolineare il
valore scientifico e culturale del contributo dei
due tecnici parmigiani: «uno sguardo dal passato
verso il futuro» è stato il commento della giuria.
Il passato al quale ci si riferisce è la radiologia
tradizionale. Un "passato" che nel poster insignito
emerge, invece, con un duplice ruolo di
incontestabile attualità: quello di strumento
diagnostico tuttora imprescindibile, in particolar
modo in ambito ortopedico, e quello di strumento
didattico sempre fondamentale per
l'apprendimento dei canoni delle tecniche di
imaging.
Nessuno spunto nostalgico, dunque, nello sguardo
di Mari e Galbulli, consapevoli anzi - come qui
spiegano in prima persona - che a tener vivo
l'interesse per la radiologia tradizionale è anche
il suo potenziale di continuo aggiornamento
attraverso le innovazioni tecnologiche.
Quali contenuti
particolari del vostro
poster sulle proiezioni
radiografiche del
ginocchio hanno
suscitato maggiore
interesse al congresso?
Durante l’esposizione del
nostro lavoro al congresso
di Riccione abbiamo
notato un grande interesse da parte di giovani colleghi e, soprattutto, di
giovani studenti, che
hanno fotografato con i
loro telefonini il nostro
poster.
Il motivo? Per tutti la
risposta è stata la stessa:
semplicità di esposizione
di proiezioni radiografiche
complesse, foto, descrizione dettagliata e immagini
reali delle proiezioni eseguite sui pazienti.
Il contenuto del nostro
lavoro è semplice e immediato come devono essere
gli esempi e gli insegnamenti.
Se dovessimo definire
questo poster con un solo
termine diremmo che è
didattico.
Esso è dedicato ai nostri
studenti e alle nuove
generazioni di Tsrm che
lavorano quotidianamente nelle radiodiagnostiche
del nostro Paese al servizio della comunità.
Perché avete sentito il
bisogno di rimarcare il
ruolo della radiologia
tradizionale nella
diagnostica ortopedica?
L’ambito della radiologia
tradizionale è oggi spesso
sovrastato dalle tecnologie pesanti (Tc, Rmn,
Pet), apparentemente più
attraenti e ricche di contenuto informativo diagnostico.
In realtà la radiologia tradizionale
comprende
ancora oggi tecniche
estremamente rilevanti
nell’attività quotidiana, e
soprattutto nel settore
della traumatologia costituisce per i tecnici radiologi la base formativa e la
prima tappa del tirocinio
e della formazione sul
campo.
Le attività di radiologia
tradizionale, e in particolare di radiologia ortopedica e traumatologica,
richiedono
esperienza,
conoscenza approfondita
dell’anatomia
umana,
integrazione professionale
con gli ortopedici allo
scopo di ottimizzare e
standardizzare le procedure e dare una risposta rapida ed efficiente, che consenta il trattamento
appropriato nel più breve
tempo possibile.
In che modo, nell'iter
diagnostico, la
radiologia tradizionale
può essere di supporto
alle tecnologie pesanti?
La radiologia tradizionale
mantiene una notevole
importanza nello studio in
elezione della struttura
ossea per quel che riguarda
le fratture, le lussazioni, le
degenerazioni di tipo
artrosico. In questi casi,
quando l'esame è eseguito
in modo corretto, l’informazione ottenuta è generalmente sufficiente a
risolvere il quesito diagnostico.
In ogni caso, le “semplici
radiografie” sono il primo
passo verso la diagnosi. Tc
e Rm integrano le informazioni che derivano dalla
radiologia tradizionale. Si
parte sempre dalla base per
raggiungere la vetta.
Inoltre, il costo di una
radiografia è irrisorio se
rapportato ad altri esami
eseguiti con apparecchiature pesanti.
Vi sono casi nei quali la
radiologia tradizionale
trova addirittura
indicazione elettiva?
In radiologia tradizionale
ortopedica esistono esami
insostituibili ancora oggi.
Sono esami prettamente di
tipo specialistico, effettuati seguendo specifici protocolli e procedure.
Per esempio, lo studio del
rachide in toto in ortostasi
negli adolescenti per
sospetta scoliosi: l’esame si
esegue con l’ausilio di lunghi chassis o lastre reticolate che permettono al
medico radiologo o all’ortopedico di misurare eventuali curvature patologiche. Altri esempi sono lo
studio degli arti inferiori
per sospetta dismetria, la
valutazione preoperatoria
dei piedi in carico per alluce valgo o piede piatto e lo
studio delle patologie
femoro-rotulee.
Quanto contano la
competenza specifica e
l'esperienza del tecnico
nel determinare il valore
diagnostico
dell'indagine
radiologica?
Tantissimo. La competenza specifica come pure l’esperienza crescono, maturano e si formano continuamente in ogni Tsrm
con il tempo e attraverso il
confronto quotidiano con
le richieste dei diversi specialisti.
Ogni operatore è conscio
dei propri limiti, ma col
passare del tempo diventa
“padrone” della propria
professione e della propria
professionalità.
Con il suo bagaglio di
esperienza e competenza il
Tsrm diventa l’artefice di
un risultato che si concretizza nelle immagini finali
con le quali il medico
radiologo e l’ortopedico
possono fare diagnosi e
dare al paziente la possibilità di accedere alle terapie
più adeguate.
Che spazio ha oggi
l'attività di ricerca nella
vostra professione?
La nostra professione si è
notevolmente
evoluta
negli ultimi vent'anni.
La figura del tecnico di
radiologia è arrivata a
livelli sempre più alti e
qualificati grazie a una
continua formazione che
gli permette di avere una
propria autonomia professionale e la possibilità di
Qui sopra, la sala refertazione Ris-Pacs del dipartimento
di radiologia e diagnostica per immagini
dell'Azienda ospedaliero-universitaria di Parma
Tiziana Mari e Gianluca Galbulli Cavazzini
altri sbocchi, come appunto la didattica e la ricerca.
Da anni giovani Tsrm frequentano le facoltà di università europee grazie a
progetti come Erasmus.
Ma anche nell’attività
quotidiana il radiologo è
ormai coinvolto in progetti di sviluppo e ottimizzazione delle tecnologie utilizzate, oltre che nella
gestione delle immagini.
Volendo capovolgere il
senso della motivazione
al premio assegnatovi e
cercare anche il futuro
dentro il passato, quali
sono le innovazioni
tecnologiche più recenti
che contribuiscono a
fare della radiologia
tradizionale uno
strumento diagnostico
“moderno”?
L’evoluzione tecnologica
in radiologia negli ultimi
tempi è stata enorme. Le
ultime generazioni di Tc,
Rm, Pet/Ct, Pet/Rmn
costituiscono una costante
sfida formativa e professionale.
Eppure la radiologia tradizionale non è stata a guardare.
Il passaggio dai sistemi
analogici a quelli digitali
ha segnato una pietra
miliare per questa disciplina. Il sistema Cr prima e
Dr in seguito hanno permesso alla radiologia convenzionale di tenere il
passo con le altre metodiche di imaging - basti pensare alla riduzione di dose
e alle applicazioni in
campo pediatrico - mantenendo attuale quella complementarietà che la diagnostica tradizionale ha
sempre avuto.
Quali ulteriori
prospettive di sviluppo
si possono prevedere
per la radiologia
tradizionale nell'ambito
dell'ortopedia?
Attualmente gran parte
dell’attività diagnostica in
ambito ortopedico parte
dalla radiologia tradizionale. Perché questo sia possibile anche in futuro, occorrono apparecchiature sempre più sofisticate e avanzate che permettano di ottenere risultati diagnostici
perfetti.
L’evoluzione tecnologica
nel settore diagnostico
compie passi da gigante ed
è continua: nella radiologia
tradizionale, con l’ingresso
dei sistemi digitali, le
immagini si trasformano in
file e si trasmettono tramite
rete all’interno di un ospedale o tra ospedali diversi,
arrivando ovunque siano
richieste e aprendo le porte
anche a esperienze di
"home radiology". Con la
radiologia domiciliare si
può arrivare addirittura a
casa di pazienti disabili o
disagiati.
Grazie ai sistemi Ris-Pacs
di gestione delle immagini
queste possono essere
refertate dal medico radiologo, visualizzate direttamente sul proprio Pc dagli
ortopedici o su maxischermi nelle sale operatorie e
infine archiviate in appositi database, dove restano
a disposizione dell’utente
per parecchio tempo.
Oltre che allo sviluppo tecnologico, il futuro della
radiologia tradizionale resta
comunque legato alla
costante e stretta collaborazione multidisciplinare.
Monica Oldani
92
PREVENZIONE E STILI DI VITA
Prevenzione e benessere
con il resveratrolo
Proprietà dimostrate e presunte del resveratrolo, polifenolo dell’uva
dall’elevato potere antiossidante, alleato di salute e benessere a ogni età
D
i resveratrolo, l’ormai celebre polifenolo
contenuto
principalmente nell’uva
nera e nei frutti di bosco,
si è cominciato a parlare
una ventina d’anni fa,
quando uno storico studio
pubblicato sulla rivista
Lancet (1) sottolineò
quello che da allora tutti
conoscono come il “paradosso francese”, corrispondente alla bassa frequenza di patologie cardiovascolari riscontrate
Oltralpe a dispetto di
un’alimentazione tendenzialmente ricca di grassi
animali, dimostrato fattore di rischio per i processi
aterosclerotici, l’infarto
miocardico e l’ictus.
Il vino rosso, consumato
abitualmente ai pasti,
sembrò almeno in parte
giustificare il fenomeno in
ragione dell’elevato contenuto di sostanze antiossidanti protettive e, in
particolare, proprio grazie
al resveratrolo. Da allora,
le proprietà di questo
composto, come di altri
suoi analoghi potenzialmente utili per la salute,
sono state ampiamente
indagate, ottenendo, di
volta in volta, prove d’ef-
ficacia più o meno solide
in svariati contesti clinici.
Oltre all’azione anti-radicalica, per il resveratrolo
nel corso dell’ultimo
decennio sono state evidenziate attività antinfiammatorie, antineoplastiche e immunoregolatorie, sfruttabili per prevenire l’insorgenza di numerose condizioni patologiche e degenerative e per
migliorare il benessere
generale dell’organismo.
Eccone una breve rassegna.
Le proprietà
antiossidanti
Benché non tutti gli studi
condotti per testare gli
effetti di svariati composti
antiossidanti (per esempio, le vitamine C ed E)
siano arrivati a conclusioni univoche in merito ai
possibili benefici associati
a un loro maggior apporto, è opinione comune
che i processi ossidativi
costituiscano un importante fattore promuovente e/o aggravante di molte
patologie umane e che le
sostanze in grado di contrastarli possano risultare
in qualche misura utili in
termini preventivi o di
supporto alla terapia specifica.
Le marcate proprietà
antiossidanti del resveratrolo sono state verificate,
in particolare, nell’ambito
di uno studio condotto su
globuli rossi umani in
vitro, nei quali il polifenolo dell’uva contribuiva
a proteggere i lipidi di
membrana dalla perossidazione a opera degli idroperossidi (2).
Oltre che vantaggiosa ai
fini della protezione cardiometabolica, l’attività
antiossidante del resveratrolo si è dimostrata utile
per contrastare i processi
degenerativi a livello tissutale e per controbilanciare il declino associato
all’età dell’efficienza dei
sistemi endogeni di detossificazione cellulare: due
effetti chiave per rallentare l’invecchiamento dell’organismo.
L'azione antiaging
L’azione antiaging del
resveratrolo appare legata
anche alla sua capacità di
influenzare l’espressione
genica di enzimi chiave
del metabolismo energeti-
co e proteine coinvolte
nelle vie di trasduzione
del segnale dalle quali
dipendono funzioni cellulari critiche, come alcune
proteinchinasi attivate da
Amp ciclico (Ampk).
In particolare, studi condotti su lieviti (S. cerevisiae), Drosophila melanogaster e Caenorhabditis elegans hanno indicato che
l’aumentata sopravvivenza di queste specie determinata dalla supplementazione nutrizionale con
resveratrolo è mediata
dalla capacità del polifenolo di promuovere l’espressione del gene Sir2,
codificante per una deacetilasi Nad-dipendente
coinvolta nei processi
ossidativi cellulari (3). Il
corrispondente gene presente nel topo e nell’uomo (Sirt1) è influenzato
dal resveratrolo in modo
analogo.
In particolare, nel topo, il
resveratrolo è risultato in
grado di determinare un
allungamento
della
sopravvivenza paragonabile a quello ottenibile
attraverso la restrizione
calorica (4) così come di
controbilanciare gli effetti negativi di una dieta
troppo ricca (5).
Attraverso la modulazione dello stato di fosforilazione delle proteinchinasi, il resveratrolo riesce
invece a regolare, ottimizzandolo, il metabolismo
lipidico a livello epatico e
a ridurre la sintesi endogena di colesterolo.
In proposito, uno studio
condotto sui topi ha
segnalato che gli animali
nutriti con aggiunta di
resveratrolo presentavano
velocità metaboliche e
resistenza alla fatica superiori rispetto a quelli che
non ricevevano la supplementazione (6).
Antinfiammatorio
e immunomodulante
L’attività antinfiammatoria del resveratrolo sembra
dipendere principalmente
dalla sua capacità di inibire l’attività del fattore di
trascrizione Nfkb, essenziale per avviare la sintesi
del Tumor necrosis factorα (Tnf-α), di citochine
proinfiammatorie come Il6 e Il-1β e delle ciclossigenasi di tipo 2 (Cox-2),
enzimi notoriamente coinvolti nell’insorgenza e nel
mantenimento della flogosi tissutale e sistemica (7).
Parallelamente, il resveratrolo aumenterebbe i livel-
IL RESVERATROLO NELLE FORMULAZIONI NUTRACEUTICHE
Il resveratrolo (trans-3,4,5-triidrossistilbene) è un
polifenolo vegetale contenuto principalmente nelle
cuticole e nei semi dell’uva nera, nei frutti di bosco
(in particolare, in mirtilli), nelle noccioline e nel
Polygonum cuspidatum (caprifoglio giapponese),
una pianta erbacea perenne originaria dell’Est
asiatico.
Poco dopo essere stato assorbito, il resveratrolo
subisce processi di sulfonazione e glucoronidazione a livello duodenale ed epatico che lo trasformano nei sui principali cataboliti organici. La copresenza di quercetina (altro potente antiossidante
vegetale) tende a ridurre l’efficienza di questa conversione, aumentando la biodisponibilità di resveratrolo trans.
In genere, il picco di concentrazione ematica del
resveratrolo si registra dopo 30 minuti dall’assunzione a stomaco vuoto, ma a parità di quantità
ingerita il livello massimo raggiunto varia da persona a persona poiché il tasso di assorbimento intestinale è soggettivo. L’emivita plasmatica del resveratrolo tende a essere breve: in media, pari a 1-3
ore dopo una singola dose e a 5-6 ore dopo assunzioni ripetute.
Quanto ne serve per ottenere benefici
Studi in vitro hanno stimato che per ottenere un
effettivo beneficio chemiopreventivo la concentrazione plasmatica di resveratrolo deve essere mantenuta almeno intorno a 5 µmol/l (15, 16). Ciò non
significa, però, che anche livelli ematici inferiori
non possano essere vantaggiosi, dal momento che
parte dell’attività protettiva potrebbe dipendere dai
suoi cataboliti coniugati a gruppi solfuro o glucoronidati. Un’assunzione giornaliera di resveratrolo
per bocca pari a 200-400 mg sembra essere sufficiente per assicurarsi un’azione protettiva contro
malattie infiammatorie, sindrome metabolica, diabete di tipo 2 e patologie cardiovascolari in genere, nonché per beneficiare delle proprietà antiaging di questo polifenolo.
Intuitivamente, per l’azione antineoplastica potrebbero essere necessari apporti più consistenti, che
restano comunque da quantificare. Gli effetti benefici del resveratrolo possono essere potenziati dalla
contemporanea assunzione di quercetina, curcumina e pterostilbene, che sembrano esercitare azioni
sinergiche.
I prodotti a base di resveratrolo
Attualmente il resveratrolo è inserito in svariate
tipologie di formulazioni nutraceutiche, da assumere per bocca con differenti finalità, e in numerosi
prodotti topici orientati a tutelare e sostenere il
benessere della pelle (creme, oli, sieri e fluidi rigeneranti-rivitalizzanti), principalmente in un’ottica
antiaging. Unito a omega-3, bioflavonoidi e coenzima Q10, il resveratrolo è proposto per ottimizzare il metabolismo energetico e l’efficienza cardiovascolare dello sportivo. Associato a vitamine, sali
minerali e fosfatidilserina completa un cocktail utile
per supportare le prestazioni intellettive e le capacità di memorizzazione, contribuendo a contrastare l’affaticamento mentale in periodi di studio o
lavoro particolarmente intensi. Insieme a omega-6,
rutina e isoflavoni della soia rientra in formulazioni indirizzate a riequilibrare il metabolismo del
bulbo capillifero, migliorando salute e bellezza
della chioma. Sempre insieme agli isoflavoni, ma a
più elevata concentrazione, e alla passiflora, il
resveratrolo contribuisce a sostenere il benessere
generale della donna nel periodo perimenopausale. Da solo o, di volta in volta, combinato con olio
di borraggine, luteina, licopene, selenio e/o vitamina E aiuta a contrastare l’invecchiamento cutaneo dall’interno, rendendo la pelle più tonica, luminosa, compatta ed elastica.
93
li di Il-10, una citochina
caratterizzata da un’azione
antinfiammatoria (8). Dal
momento che lo stato
infiammatorio dell’organismo è risultato essere correlato alla probabilità di
sviluppare patologie cardiovascolari e neoplasie, le
proprietà antiflogistiche
assegnerebbero al polifenolo dell’uva un ruolo preventivo di primo piano in
questi ambiti.
In aggiunta, il resveratrolo
ha dimostrato di esercitare
una più specifica azione
protettiva sull’endotelio
vasale mediata dall’ossido
nitrico (No), di cui
aumenta la liberazione stimolando l’attività dell’enzima eNos, e dalla contemporanea riduzione dei
livelli di proteina C reattiva (Crp) (9).
Per il resveratrolo è stata
dimostrata anche una più
fine azione immunomodulante, legata all’inibizione
di numerosi composti
coinvolti nella reazione
immunitaria. In particolare, in uno studio condotto
su macrofagi attivati con
lipopolisaccaridi si è visto
che l’aggiunta del polifenolo si associava a una
riduzione della sintesi di
interferone-γ (Ifn-γ), Il-1,
Il-4, Il-6 e Tnf-α e della
concentrazione di lifonciti
immunoregolatori come i
Cd28 e i Cd80.
Tutti effetti simili a quelli
osservati utilizzando un
altro potente composto
antinfiammatorio e immunomodulante, la curcumina, che potrebbero assegnare al resveratrolo un
ruolo favorevole nel contesto di patologie con una
base
autommunitaria,
come per esempio l’artrite
reumatoide o il lupus (10).
La prevenzione
oncologica
Oltre alle implicazioni
generalmente favorevoli ai
fini della prevenzione
oncologica derivanti dalla
riduzione dell’infiammazione sistemica mediata
dall’inibizione di Nfkb e
Cox-2 (verificate in particolare nel cancro della
prostata) (11) e dalle proprietà immunomodulanti,
l’attività antitumorale del
resveratrolo sembra dipendere anche da altre azioni
biologiche più specifiche.
Studi in vitro condotti su
diversi tipi di cellule, per
esempio, hanno dimostrato la capacità di questo
polifenolo, somministrato
a basse dosi, di ritardare
l’avvio della replicazione
cellulare, offrendo una
strategia non citotossica di
controllo della proliferazione tumorale (12). A
dosi più elevate il resveratrolo sembrerebbe, invece,
in grado di indurre l’apoptosi, favorendo l’eliminazione di elementi cellulari
aberranti, potenzialmente
neoplastici.
Il resveratrolo, inoltre,
sembra poter agire come
un fitoestrogeno (analogamente agli isoflavoni della
soia), legando i recettori
per gli estrogeni espressi
da cellule di cancro del
seno. L’interazione tra
polifenolo e recettore
estrogenico promuoverebbe l’apoptosi delle cellule
tumorali interferendo con
una via di trasduzione del
segnale che coinvolge una
fosfoinositide-chinasi
(PI3K) e inibibendo la traslocazione nucleare del
fattore di trascrizione
Nfkb (13).
In aggiunta, si è visto che
la presenza di resveratrolo
a colture di cellule di cancro del seno determina la
stimolazione di Tgf-β2, un
fattore che inibisce la proliferazione cellulare (contrastando, quindi, l’aumento di dimensioni del
tumore). Su queste basi è
possibile che il resveratrolo possa esercitare un ruolo
parzialmente protettivo
nelle forme ormonosensibili di questo tipo di tumore.
Per finire, il resveratrolo
sembra essere dotato di
un’attività antiangiogenetica che potrebbe contribuire a contrastare la crescita tumorale rallentando
lo sviluppo di nuovi vasi
sanguigni indispensabili
per alimentare la neoplasia
(14).
Rosanna Feroldi
Bibliografia
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DALLE AZIENDE
Migliorare la perfusione nell’approccio alle tendinopatie
Le tendinopatie sono condizioni patologiche innescate da insulti
di vario genere, in gran parte dei casi di origine meccanica,
come traumi diretti o accumulo di microlesioni. In presenza o
meno di fattori predisponenti, la causa principale delle tendinopatie è, comunque, il sovraccarico funzionale che provoca spesso
una ridotta perfusione ematica del tendine.
Nell’ambito di una ridotta perfusione sanguigna, l’ossido nitrico
(NO) gioca un ruolo chiave nel migliorare il flusso ematico locale,
agevolare l’apporto di ossigeno e nutrienti, favorire i processi di
guarigione tissutale.
Tenosan (Agave Farmaceutici) permette di migliorare la perfusione ematica del tendine, grazie all’aumento della produzione di
ossido nitrico da parte delle cellule endoteliali. Gli attivi che
mediano questo processo sono l’arginina L-alfa-chetoglutarato,
precursore dell’ossido nitrico, e il vinitrox® che, con l’azione diretta sull’enzima ossido nitrico sintetasi, aumenta il rilascio di ossido
nitrico in circolo, con il conseguente aumento della perfusione sanguigna dei tendini.
Ma nel quadro fisiopatologico delle tendinopatie, non si può prescindere dall’infiammazione, che è possibile contrastare grazie
all’impiego del metilsulfonilmetano (MSM), zolfo organico che
migliora la permeabilità cellulare e favorisce l’eliminazione dei
cataboliti infiammatori, riducendo la flogosi e il dolore. Ad ogni
processo infiammatorio, poi, consegue inesorabilmente la formazione di edema; la bromelina previene l’eccessiva formazione di
edema infiammatorio e riduce l’edema pre-esistente.
Infine, nell’intervento sulla degenerazione strutturale è fondamentale l’apporto di collagene di tipo I con spiccato tropismo per il
tendine. Il collagene di tipo I, nella forma idrolizzata, stimola la
sintesi di collagene endogeno, migliora il trofismo e aumenta la
resistenza e l’elasticità del tendine.
Tenosan, un’associazione di arginina L-alfa-chetoglutarato, vinitrox®, MSM, bromelina e collagene di tipo I, è consigliato in tutti i
casi di sovraccarico funzionale dei tendini, di microtraumi tendinei da lavoro e sport, nel periodo post-operatorio (in particolare
durante la fase di immobilità) e nella fase riabilitativa. Il trattamento prevede la somministrazione di due bustine al giorno – una al
mattino e una alla sera – per due mesi a cicli ripetibili nel corso
dell’anno.
95
FOCUS ON
Polinucleotidi nelle
infiltrazioni intrarticolari
Condrotide apre prospettive
inattese nel trattamento dell’osteoartrosi grazie alle spiccate proprietà biomeccaniche e metaboliche dei polinucleotidi.
Susanna Guzzetti
L’osteoartrosi è in tutto il
mondo la patologia che più
frequentemente interessa le
articolazioni. Circa l’85%
delle persone con più di 65
anni presenta osteoartrosi,
con sintomi che in genere si
avvertono a partire dai 50
anni, quando le alterazioni
legate all’età riguardanti il
collagene e i proteoglicani
iniziano a prendere piede. Le
donne in genere sono più colpite degli uomini.
La sintomatologia della
malattia è data soprattutto
dalla presenza di una infiammazione sinoviale, verificabile dalla presenza nel liquido
articolare dei pazienti di valori significativi di mediatori
infiammatori e di altri marcatori di attivazione delle cellule immunitarie. Anche i
valori della proteina C reattiva nel sangue sono solitamente elevati. I sintomi tipici sono il dolore, la rigidità
mattutina o dopo inattività,
il gonfiore e la riduzione della
mobilità articolare.
Le terapie dell’osteoartrosi
hanno l’obiettivo di ridurre il
dolore, rallentare la progressione della malattia, mantenere la mobilità e contenere
la disabilità.
Tra le varie opzioni le infiltrazioni intrarticolari di viscosupplementi possono rappresentare una valida scelta terapeutica, perché favoriscono
la riduzione dell’attrito
migliorando la funzionalità
articolare.
Fino a poco tempo fa l’unica
molecola a disposizione per
questa terapia era l’acido ialuronico, il quale ha però
mostrato un evidente limite:
esso non sembra avere effetto
sulle cause dell’osteoartrosi e
quindi non è in grado di cambiare la storia clinica della
patologia.
Alla fine degli anni Novanta
è stato presentato uno studio
in cui si dimostrava che una
soluzione ad alta densità di
polinucleotidi poteva indurre
un viraggio metabolico in
una coltura di fibroblasti
cutanei. A questo punto si è
pensato alla possibilità di utilizzare delle macromolecole
in grado di aggregarsi come
un gel ad alta densità, e quindi proteggere dagli sfregamenti i capi articolari, ma
che potessero anche essere
utilizzate come fornitori di
nutrimento per la cartilagine,
stimolando i condrociti a
produrre nuova matrice.
Così in uno studio successivo
si procedeva ad aggiungere al
mezzo di coltura frammenti
di polinucleotidi di diversa
lunghezza con una concentrazione media di 100 µg/ml.
Dopo sei giorni di sperimentazione è stato verificato un
incremento della crescita
degli osteoblasti del 21%
superiore rispetto allo stesso
terreno non addizionato. I
ricercatori sono così giunti
alla conclusione che queste
lunghe catene di polinucleotidi in coltura promuovevano
la proliferazione di osteoblasti
secondo un meccanismo che,
seppur non ancora ben chiarito, pare possa essere mediato dalla stimolazione del
recettore per le purine presente sugli osteoblasti.
In seguito a queste conferme
è stato recentemente immesso in commercio Condrotide,
un device contenente polinucleotidi a elevata concentrazione (20 mg/ml).
In particolare le catene polinucleotidiche di Dna animale vengono sottoposte a vari
processi per essere in grado di
trattenere le molecole di
acqua, formando un gel tridimensionale che, proprio
come l’acido ialuronico, protegge le superfici articolari
dallo sfregamento, integrando il liquido sinoviale,
migliorandone la viscosità e
quindi permettendo una funzionalità meccanica migliore.
La novità di questo trattamento risiede però nel fatto
che i polinucleotidi vanno in
un secondo momento incontro a una fisiologica degradazione enzimatica, con liberazione delle basi azotate, puriniche e pirimidiniche, di
ribosio e di fosfato. In questa
seconda fase della loro azione, essi possono fornire nutrimento alle cellule della cartilagine, facendo in modo che
si verifichi la formazione di
nuova matrice extracellulare,
con riparazione del danno tissutale.
L’attività di Condrotide rispetto alla produzione di matrice
extracellulare e di collagene
di tipo 2 è stata testata in vitro
confrontandola con acido
ialuronico, e in entrambi i
casi si è dimostrata una maggiore produzione nel mezzo
addizionato di Condrotide allo
0,01% rispetto a quello con
acido ialuronico all’1%, suggerendo così un effetto metabolico amplificato.
Presso la Clinica ortopedica
dell’Università di Pavia tra il
2006 e il 2007 è stato condotto uno studio clinico che
confrontava l’efficacia di
infiltrazioni di Condrotide (2
ml di Pn 20 mg/ml) con
acido ialuronico (2 ml di Ha
8 mg/ml) su una popolazione
di 60 pazienti affetti da
gonartrosi secondaria da
almeno due mesi. I pazienti
arruolati avevano un’età
compresa tra 18 e 80 anni e
una diagnosi di osteoartrosi
del ginocchio effettuata in
base alle linee guida
dell’American College of
Rheumatology.
I pazienti sono stati trattati
con cinque iniezioni (effettuate a distanza di una settimana) di uno dei due dispositivi e successivamente controllati per 12 settimane. Lo
studio, in doppio cieco, ha
valutato come endpoint primario la variazione del grado
di dolore a riposo, durante il
carico e nell’attività fisica. La
valutazione è stata effettuata
in occasione di ogni visita
utilizzando una scala visuale
analogica (Vas) da 0 a 10 cm.
Oltre a questi fattori, sono
stati monitorati l’utilizzo di
Fans, lasciati al libero utilizzo
del paziente, la qualità di vita
tramite punteggio Koos
(Knee
Osteoarthritis
Outcome Score), la limitazione della mobilità articolare e la tollerabilità. Il trattamento con Condrotide si è
dimostrato ben tollerato e,
rispetto all’acido ialuronico,
ha dimostrato una più rapida
azione sul dolore già dalla
prima
infiltrazione.
Riduzione della sintomatologia che si manteneva costante al controllo, effettuato a
tre mesi dalla fine del trattamento. Anche per quanto
riguarda il punteggio Koos, la
qualità della vita e l’utilizzo di
antinfiammatori non steroidei, Condrotide sembra avere
un migliore effetto rispetto al
gruppo trattato con acido
ialuronico, anche se il confronto non è stato controllato
statisticamente per tutti gli
endpoint secondari.
Nonostante si attendano
ulteriori studi che confermino questi ottimi risultati,
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97
FOCUS ON
Antiossidanti primari
contro le neuropatie
La supplementazione con antiossidanti primari e acidi grassi essenziali
rappresenta un approccio eziopatogenetico efficace contro le neuropatie
N
elle
neuropatie
compressive (radicolopatie, sindromi
canalicolari) il quadro clinico è caratterizzato da una
sintomatologia algica acuta
che spesso impone il ricorso
ai Fans o ad altri tipi di analgesici. In questi casi, superata la fase acuta o eventualmente in associazione agli
stessi analgesici, risulta utile
l’integrazione con sostanze
ad azione antiossidante e
dunque antinfiammatoria e
neurotrofica.
La supplementazione con
antiossidanti e neurotrofici
rappresenta un approccio
eziopatogenetico, a differenza di quello puramente sintomatico degli analgesici
centrali, con l’effetto non
solo di ridurre la sintomatologia algica e parestesica, ma
anche di ridurre il ricorso a
farmaci analgesici e di evitare la progressione del danno
nervoso.
Le conseguenze
dello stress ossidativo
La compressione meccanica
di un nervo determina una
ischemia dei vasa nervorum
con conseguente sovraproduzione di superossido (O2-),
capostipite di tutti i radicali
liberi dell’ossigeno (Ros).
Lo stress ossidativo che ne
deriva ha diverse conseguenze.
Infiammazione (il O2- è un
mediatore cellulare che
induce biosintesi e rilascio
di citochine infiammatorie,
in particolare Il-1, Il-6 e
Tnf-α).
Stress ossido nitrativo (il
perossinitrito NO3- che si
forma in seguito alla reazione del O2- con l’NO è citotossico e può indurre apoptosi).
Riduzione delle risorse
energetiche cellulari (con-
“
seguente al danno ai mitocondri).
Danneggiamento delle cellule (neuroni, cellule di
Shwann, microglia) e apoptosi (neurodegenerazione).
A livello cellulare (neuroni, cellule di Shwann,
microglia) i Ros attaccano e
danneggiano le membrane
lipidiche cellulari e mitocondriali, il Dna sia cellulare che mitocondriale, le proteine enzimatiche e non,
creando un danno che può
andare da un semplice deficit funzionale fino alla
morte della cellula.
Più in generale, a livello del
nervo, i Ros amplificano
l’infiammazione del nervo
inducendo la biosintesi di
citochine infiammatorie e
molecole chemiotattiche
che richiamano leucociti. I
Ros promuovono in questo
modo l’attivazione delle cellule immunitarie, delle cellule di Schwann e della
microglia, attivazione alla
base del processo infiammatorio a carico del nervo.
L’infiammazione che si
genera a livello del nervo
periferico viene trasmessa
anche a livello centrale
(spinale) attraverso l’attivazione della microglia. È
stato dimostrato che i Ros
sono coinvolti nel processo
di sensibilizzazione spinale
del dolore attraverso l’attivazione dei recettori Nmda
(N-metildestraspartato) a
livello delle corna dorsali
(Tan, 2009; Schwartz,
2009).
L’infiammazione del nervo e
le lesioni degenerative che
ne derivano sono responsabili del dolore neuropatico
e della perdita di funzionalità della trasmissione nervosa (riduzione velocità di
conduzione nervosa, disestesie e deficit motori o autonomici).
Due molecole
antinfiammatorie
Questo spiega perché tra le
molecole più studiate per
ridurre l’infiammazione del
nervo vi sono la superossidodismutasi (Sod) e l’acido
α-lipoico (Ala), entrambe
potenti antiossidanti.
In particolare, la Sod è l’enzima responsabile della
prima reazione di neutralizzazione del superossido e la
sua azione non può dunque
essere eguagliata da nessun
altro antiossidante.
Fra gli antiossidanti l’Ala è
quello che dispone della più
nutrita documentazione di
efficacia clinica nel trattamento delle neuropatie.
L’Ala è stato infatti identificato in una recente review
(Lee, 2011) come l’unico
principio attivo di documentata efficacia nella
terapia su base patogenetica
della neuropatia diabetica.
L’Ala è un potente antiossidante endogeno che svolge
due funzioni principali: agisce come antiossidante e
come coenzima del metabolismo energetico cellulare.
Queste caratteristiche rendono Ala non solo efficace
come antiossidante, ma
anche indispensabile al
nostro organismo per contrastare i danni associati
alla formazione dei radicali
liberi.
La documentazione clinica
di maggior rilievo sull’Ala
riguarda la sua attività su
segni e sintomi delle neuropatie periferiche. Agli studi
che ne dimostrano l’efficacia nel ridurre il dolore e
migliorare la velocità di
conduzione nervosa in una
delle forme più complesse
di neuropatia, la neuropatia
diabetica, si sono affiancati
negli ultimi anni altri studi
che dimostrano l’efficacia
dell’Ala, somministrato per
via orale al dosaggio di 600
mg/die, in altri tipi di neuropatia, in particolare la
lombosciatalgia, la cervicobrachialgia e la sindrome
del tunnel carpale. In questi studi risulta evidente la
significativa capacità di Ala
di ridurre il dolore neuropatico ed i deficit di conduzione nervosa.
L'efficace combinazione
delle molecole
L’integrazione con Ala e
Sod ha lo scopo di potenziare le difese dell’organismo contro questi processi e
di ridurre dunque il dolore
neuropatico e i deficit di
conduzione nervosa. Sia
Ala che Sod hanno dimostrato sperimentalmente di
inibire la biosintesi di IL-1,
IL-6 e TNF-α.
Dagli studi effettuati sulla
Sod è emersa un’attività
antinfiammatoria che si
basa non solo sulla eliminazione dell’anione superossido, ma anche sulla capacità
di limitare la produzione di
mediatori pro-infiammatori
quali Tnf e Il-6, che vengono prodotti in condizioni di
stress ossidativo. È stato
inoltre dimostrato che la
Sod è in grado di inibire l’apoptosi neuronale.
In aggiunta all’attività neuroprotettiva diretta sulle
fibre nervose sottoposte a
stress ossidativo, la Sod
esercita un effetto neuroprotettivo indiretto, in
quanto agisce a livello
vascolare migliorando la
perfusione ematica del
nervo grazie all’aumento
della concentrazione di NO
a livello vasale e alla minor
formazione di perossinitrito
(NO3-), agente citotossico
(Cuzzocrea, 2001).
La Sod somministrata per
via orale, in una formula-
zione appositamente studiata per renderla biodisponibile, ha dimostrato di
esercitare non solo un’azione antiossidante, ma anche
una vera e propria attività
neuroprotettiva.
I meccanismi del rapido
miglioramento sia dei sintomi che dei deficit neuropatici possono essere correlati ad un miglioramento
del flusso ematico dei vasa
nervorum, oltre che alle
ricadute favorevoli sui meccanismi della flogosi a carico della mielina della fibra
nervosa periferica, ma
anche delle strutture del
disco, mediato dall’azione
antiossidante di Ala.
Fra i principi attivi ad azione neurotrofica, l’acido
gamma-linolenico (Gla) ha
una attività strettamente
rivolta alla riparazione delle
membrane nervose danneggiate, in quanto è un costituente delle membrane biologiche con la particolare
funzione di migliorare la
fluidità delle membrane.
Poiché in seguito a infiammazione protratta del nervo
si osserva una deplezione di
acido gamma-linolenico
dalle membrane nervose e
della guaina mielinica,
l’impiego di integratori alimentari a base di acido
gamma-linolenico
può
essere utile a scopo neuroprotettivo in particolare
nelle neuropatie compressive in fase non iniziale.
L’associazione di Ala (600
L’integrazione degli antiossidanti primari
è efficace nel ripristinare le difese dell’organismo
e garantire un’azione antinfiammatoria
specifica sul tessuto nervoso.
Questi integratori alimentari sono utili
in particolare nel ridurre il dolore provocato
e sindrome del tunnel carpale
“
da lombosciatalgia, cervicobrachialgia
Sistema antiossidante fisiologico Sod-Ala
mg/die) e acido gammalinolenico
Gla
(360
mg/die) ha dimostrato di
migliorare la velocità di
conduzione nervosa e la
sintomatologia algica e
parestesica in modo significativo dopo tre mesi di trattamento (Di Geronimo,
2009).
Dott.ssa Rosanna Feroldi
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98
FOCUS ON
99
FOCUS ON
Tecnologie cross-link
per l'osteoartrosi
Per contrastare la patologia degenerativa si sfruttano oggi le proprietà
viscoelastiche dell’acido ialuronico per ripristinare le normali funzioni
dell’articolazione e rallentare la progressione della malattia
Dott. Domenico Culotta
Specialista in anestesia, rianimazione e terapia del dolore, geriatria e gerontologia
Il presupposto fisiologico
alla viscosupplementazione
Alla biochimica funzionale
delle grandi articolazioni
sono ispirate le proprietà di
viscosupplementazione di
alcuni prodotti studiati
appositamente per il trattamento dell'osteoartrosi.
Protagonista di una buona
salute articolare è infatti
l'integrità del liquido sinoviale, e in particolare del
suo ingrediente principale,
l'acido ialuronico. Questo è
un biopolimero non ramificato formato da disaccaridi
di N-acetilglucosamina e
acido D-glucuronico, dove
il collante tra disaccaridi
della catena polimerica è
fornito da legami beta-1,3
glicosidici. Data la completa ionizzazione dei gruppi
carbossilici sia dell'acetilglucosamina sia dell'acido
glucuronico, in vivo la
molecola dell'acido ialuronico risulta altamente
polarizzata, e quindi dotata
di un'ottima idrosolubilità.
Tale affinità per l'acqua lo
rende un composto in
grado di raggiungere alti
livelli di idratazione.
Nel liquido sinoviale delle
articolazioni sane, l'acido
ialuronico è costituito da
catene lineari il cui peso
molecolare è, mediamente,
di 6 milioni di Dalton. Le
sue proprietà idrodinamiche e viscoelastiche garantiscono agli snodi articolari
una costante lubrificazione
e una grande capacità di
resistere ai traumi e agli
stress fisici prodotti dalle
sollecitazioni meccaniche.
Infine, il polisaccaride
denota anche un comportamento da principio attivo di tutto rispetto, ponendosi come efficace antagonista endogeno del processo infiammatorio e come
analgesico.
Dall'acido ialuronico
agli hylan ad alto peso
molecolare: la tecnologia
del cross-link
Fin dagli anni Settanta
l'innovazione in ambito
chimico-farmaceutico ha
permesso di mettere a
punto metodologie che
consentissero di ottenere
derivati dell'acido ialuronico “lineare” avente un peso
molecolare di circa 500
mila Dalton. Ad oggi le
procedure estrattive consentono di ottenere prodotti a base di acido ialuronico lineare con un ampio
range di peso molecolare,
tanto che è diventato di
uso comune parlare di
basso peso (0,5-1,2 milioni
di Dalton - MDa) e medio
peso molecolare (1,2-3,6
MDa).
È stato possibile tuttavia
ottenere preparati a peso
molecolare superiore attraverso una differente metodologia: il cross-link.
Il cross-link è una tecnologia di sintesi che permette
di legare tra di loro più
molecole di acido ialuronico attraverso ponti chimici
in modo da ottenere molecole di acido ialuronico di
dimensioni maggiori e
quindi di peso molecolare
maggiore. La “cross-link
technology” è andata affermandosi nel tempo e, al
giorno d’oggi, consente di
lavorare sulle disfunzioni
delle matrici extracellulari
e di modulare le proprietà
strutturali di composti derivati dell’acido ialuronico a
partire dal suo sale sodico
(ialuronano). Tra questi
composti sono inclusi gli
hylan, polimeri facilmente
manipolabili e ottenuti per
combinazione di catene
polisaccaridiche di peso
molecolare differente. Essi
sono in grado di conservare
le stesse caratteristiche
funzionali dell’acido ialuronico garantendo al contempo la medesima biocompatibilità.
In pratica, con la procedura cross-link è possibile
particolare da un punto di
vista reologico: dovendo
rimpiazzare il liquido sinoviale, il prodotto deve essere in grado di mimare al
meglio le condizioni fisiologiche sane.
Questi studi hanno permesso anche di chiarire
altri meccanismi attraverso
i quali i viscosupplementi
cross-linkati riescono a realizzare un microambiente
che tende a ripristinare la
proliferazione di cellule
della matrice cartilaginea e
ad attivare processi riparativi che concorrono alla
sintesi di acido ialuronico
endogeno sano. Il risultato
è dunque l’innesco di una
sorta di circolo virtuoso
visibile nella parziale ripresa dell’attività biochimica
e fisiologica delle strutture
articolari.
Soluzioni e gel:
la modulazione
del cross-link
Modulando le condizioni
di reazione di questa tecnologia è possibile ottenere acidi ialuronici diversi
tra loro dotati di idrosolubilità, elasticità e viscosità
estremamente variabili.
Tale modulazione dipende
sia dalla quantità che dal
tipo di agente chimico utilizzato per creare i legami
crociati che si formano tra
gli idrossili delle diverse
catene polimeriche, permettendo di sintetizzare
preparati a consistenza crescente: hylan a peso molecolare più alto dell’acido
ialuronico lineare, che
restano in una forma fluida, e hylan in gel.
Nei primi le molecole legate tra loro non sono molte
e possono raggiungere il
peso molecolare fisiologico
di 6,0 MDa. Nei secondi si
crea un insieme più ampio
di molecole tale da assumere una struttura tridimensionale di tipo reticolare. Si forma cioè un reticolo molto grande di molecole di acido ialuronico
tanto da portare ad un
cambiamento di stato fisico: da liquido a gel. Con
questo cambiamento si
arriva persino a superare la
nozione stessa di “peso
Il peso molecolare medio delle catene di acido ialuronico presenti
nel liquido sinoviale sano è 6,0 milioni di Dalton. Anche se in
minor percentuale, all’interno dell’articolazione si possono trovare
però molecole sia a maggiore che a minore peso molecolare
molecolare” in quanto il
passaggio in forma di gel
dovuto all’instaurarsi di
nuovi legami tra le catene
di acido ialuronico ne
rende pressoché impossibile la misurazione. Variando
le condizioni di reazione, si
possono ottenere gel con
una consistenza crescente:
soft gel, gel, hard gel.
Va detto che le diverse
tipologie di preparati sono
dotate di proprietà terapeutiche versatili, con
impieghi che spaziano dall’oftalmologia alla medicina estetica fino all’ortopedia. Anche per quanto
concerne i tempi di permanenza nelle varie sedi
intra-tissutali si nota
un’ampia gamma di comportamenti: all'aumentare
delle catene cross-linked
dei preparati, infatti, corrisponde una diminuzione
della loro idrosolubilità
che ne prolunga il tempo
di permanenza intra-tissutale e quindi l'efficacia biologica. Per questa ragione i
viscosupplementi crosslinkati hanno il vantaggio
di essere somministrati con
un minor numero di infiltrazioni rispetto a preparati
non cross-linkati (lineari).
Dal palliativo alla cura:
il presente del trattamento
dell’osteoartrosi
Tra gli eventi degenerativi
tipici della patologia artrosica rientrano alcuni cambiamenti quali-quantitativi del liquido sinoviale, e
segnatamente della sua
componente in acido ialuronico. In particolare, proprietà intrinseche del polisaccaride, come il peso e le
dimensioni molecolari,
cominciano a modificarsi
per via di uno sbilanciamento del normale rapporto tra anabolismo e catabolismo a favore del
secondo processo, con
conseguente diminuzione
della sua concentrazione e
del suo peso molecolare.
Con lo sviluppo delle tecnologie cross-link è cambiato radicalmente l’approccio al trattamento dell’osteoartrosi. Si è passati
da un intervento di tipo
SCHEDA PRODOTTO
SCHEDA PRODOTTO
Jonexa
Synvisc
Distribuito in Italia da Abiogen, Synvisc
è un dispositivo medico di classe III
prodotto da Genzyme Corporation
(Ridgefield, NJ, Usa).
Si tratta di un derivato viscoelastico
totalmente cross-linkato, a partire da
catene di ialuronano. Synvisc si ottiene
attraverso due passaggi di linking successivi che portano alla produzione di
due diversi hylan: A e B.
Hylan A è un fluido di molecole crosslinkate di acido ialuronico avente un
peso molecolare di 6,0 MDa; hylan B è
un gel in cui le molecole di acido ialuronico, grazie al secondo linkaggio, formano un reticolo che supera il concetto
di peso molecolare in quanto non più
misurabile. Nel suo insieme, Synvisc è
una miscela costituita per l'80% da
hylan A e per il 20% da hylan B.
Grazie alla sua viscoelasticità Synvisc è
l'unico prodotto sul mercato ad avere il
marchio CE per tutte e quattro le grandi
articolazioni del corpo: ginocchio,
anca, spalla e caviglia, per il trattamento del dolore in pazienti affetti da
aumentare il peso molecolare dei complessi polimerici in modo che le loro prestazioni reologiche e biomeccaniche siano in tutto
e per tutto paragonabili a
quelle del liquido sinoviale
di un'articolazione sana,
assicurando, inoltre, un
maggior tempo di permanenza all'interno dell'articolazione.
La letteratura scientifica
conferma
l’importanza
degli sviluppi nell’ambito
delle tecnologie cross-link.
Nei tempi recenti si sono
accumulate evidenze empiriche tese ad avvalorare le
proprietà reologiche di
questi derivati dell’acido
ialuronico, tanto che è
andata sempre più ad avvalorarsi la definizione di
“viscosupplementazione”
(anche per una differenziazione dalle proprietà di
“viscoinduzione” attribuite
agli acidi ialuronici a basso
peso molecolare). L’attività
principale infatti dell’acido
ialuronico cross-linkato è
quella di supplementare,
fisicamente e meccanicamente, l’articolazione del
liquido sinoviale perso (o
degenerato). Questo spiega
anche il perché la continua
tendenza a realizzare preparati il più possibile simili al
liquido sinoviale sano, in
Il cross-link è una tecnologia che, attraverso ponti chimici specifici,
crea dei legami crociati tra più catene di acido ialuronico lineare,
in modo da formare molecole di dimensioni maggiori e quindi di
peso molecolare più alto. Modulando la quantità e il tipo di agente
legante, si possono ottenere reticoli di grandi dimensioni
che passano dallo stato fisico di liquido a gel
L’acido ialuronico è una catena polisaccaridica formata da
migliaia di dimeri (acido glucuronico e N-acetilglucosamina).
Il peso complessivo della molecola è proporzionale al numero di
dimeri e si misura in Dalton
Del resto, le ormai numerose applicazioni mediche
dei viscosupplementi sono
motivate da esigenze
altrettanto numerose. In
alcune di queste è importante utilizzare prodotti in
soluzione dotati di adeguate proprietà reologiche ma
brevi tempi di permanenza,
come in alcuni trattamenti
chirurgici dell'occhio. In
altre invece è necessario
che i derivati cross-linked
offrano il miglior compromesso tra proprietà reologiche e lunga permanenza,
ed è quindi consigliabile
rivolgersi ai preparati in
gel. Il trattamento dell'osteoartrosi rientra nella
seconda categoria di applicazioni. Alcuni acidi
ialuornici
cross-linkati
presenti nel mercato italiano sono Synvisc, Jonexa,
Durolane, Monovisc e
Fermathron S.
osteoartrosi che non abbiano tratto vantaggio dagli analgesici comuni e dal
trattamento conservativo non farmacologico.
Per quanto concerne i tempi di permanenza endo-articolare, l'emivita di
Synvisc è di circa sette giorni, dunque
decisamente maggiore dell'emivita
degli acidi ialuronici lineari (da alcune
ore a uno-due giorni). Il preparato viene
metabolizzato dall'organismo allo stesso modo dell'acido ialuronico.
Sotto il profilo delle prove cliniche,
Synvisc può vantare una documentazione unica, sia per il numero di riferimenti (circa 500) che per la qualità delle
pubblicazioni prodotte (più di 300 articoli indexati su PubMed).
In fase post-marketing Synvisc è stato
ormai valutato su 6 milioni di soggetti,
confermando che nei pazienti con
osteoartrosi del ginocchio la sua somministrazione produce sollievo dal dolore
lungo l'intero anno, con un solo ciclo di
trattamento (tre infiltrazioni a cadenza
settimanale).
Ultimo
ritrovato
di
Genzyme
Corporation (Ridgefield, NJ, Usa) in
questo settore, Jonexa (lanciato in
Italia da Abiogen Pharma nel 2010) è
un soft-gel ottenuto attraverso un solo
passaggio di linking. Il preparato finito
è costituito per l'80% da un gel di
acido ialuronico cross-linkato (anche in
questo caso con peso molecolare non
misurabile) e per il 20% da una fase
liquida formata da catene libere di
acido ialuronico a basso peso molecolare (0,9-1,3 MDa).
Si tratta di un viscosupplemento dotato
di una struttura reticolare le cui maglie
massimizzano la protezione delle cartilagini e la lubrificazione delle articolazioni, migliorando la funzione articolare e alleviando il dolore. Il punto di
forza di Jonexa risiede nella "monosomministrazione" del prodotto: con
una singola somministrazione, infatti,
garantisce un'efficacia terapeutica di
sei mesi.
La formulazione del preparato è un gel
particolarmente fluido (soft-gel) che
facilita la somministrazione e al tempo
stesso permette di attenuare il fastidio
dovuto al trattamento.
La sua efficacia è documentata da una
classica sperimentazione multicentrica
durata 52 settimane complessive, che
ha coinvolto quasi 400 pazienti di cinque Paesi, il 95% dei quali presentava
una osteoartrosi di II-III grado (secondo
Kellgren Lawrence). Il trial clinico, uno
studio prospettico randomizzato controllato in doppio cieco, è stato condotto dividendo il campione in tre gruppi,
due dei quali trattati con Jonexa secondo due protocolli differenti, e uno trattato con 40 mg di steroide.
La sperimentazione clinica ha evidenziato in entrambi i gruppi trattati con
Jonexa una riduzione del dolore statisticamente significativa a sei mesi dall'inizio dello studio (con manifestazioni
avverse simili nei tre gruppi) e in seguito il mantenimento dell'effetto fino a un
anno con una sola somministrazione
aggiuntiva a distanza di sei mesi dalla
prima.
esclusivamente sintomatico, basato sull'uso locale di
cortisonici e pertanto gravato dal rischio di un'accelerazione delle perdite di
sostanza cartilaginea (e
nel caso del ginocchio,
anche meniscale), a un
intervento di tipo più propriamente curativo, che
sfruttando le proprietà
viscoelastiche dell’acido
ialuronico (riprodotte nei
suoi derivati cross-linked),
può porsi il duplice obiettivo terapeutico di ripristinare le normali funzioni
dell’articolazione e di rallentare la progressione
della malattia.
Per tale ragione, attualmente è appropriato parlare di viscosupplementazione, ossia di un programma
riabilitativo che si estende
su un orizzonte temporale
di lungo termine, per arrivare a recuperare una soddisfacente mobilità articolare riducendo al contempo la sintomatologia dolorosa. Da ciò l’importanza
di orientare tanto la ricerca sui nuovi prodotti
quanto la pratica medica
verso viscosupplementi
che, proprio grazie alle
tecnologie
cross-link,
danno maggiori garanzie
di efficacia terapeutica e
di prolungamento dei
tempi di permanenza
endo-articolare, a tutto
vantaggio del paziente, il
quale, oltre al ripristino
della normale funzione
articolare, vede ridursi
anche la frequenza di trattamenti a cui deve sottoporsi.
Da non trascurare il fatto
che la viscosupplementazione è indicata anche in
tutti quei pazienti intolleranti agli antidolorifici o
in soggetti per i quali tali
farmaci abbiano dato
risposte insoddisfacenti o
reazioni avverse.
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(Synvisc) in patients with
symptomatic ankle (talo-crural) osteoarthritis. Foot
Ankle Surg 2008; 14(3):145152.
102
CORSI E CONGRESSI
L’aggiornamento pratico
del Trauma Meeting
La quarta edizione del seguitissimo congresso di traumatologia
avrà un taglio ancora più legato alla pratica clinica. Gli esperti coinvolti
si confronteranno sugli inquadramenti diagnostico-terapeutici più attuali
Il Trauma Meeting è giunto alla sua quarta
edizione e si conferma l’appuntamento più
importante per i traumatologi italiani. Anche
quest’anno sarà ospitato sulla riviera della
Romagna e avrà luogo a Riccione dal 27 al 29
ottobre. Come nell’edizione dello scorso anno, il
congresso affronterà due distinti argomenti: da
una parte, le fratture di spalla, omero, gomito e
avambraccio offriranno lo spunto per presentare
le novità che investono tecniche consolidate,
confermandole o rimettendole in discussione;
dall’altra, verranno approfondite le
problematiche di una chirurgia estremamente
attuale, la traumatologia dell’anello pelvico che,
da dominio di pochi esperti, si impone ora come
pratica a più ampia diffusione, le cui tecniche
devono essere padroneggiate da un maggior
numero di chirurghi.
Anche i presidenti del congresso saranno due,
Angelo Dettoni e Maurizio Sansoni, che ancora
una volta rappresentano l’eccellenza piemontese
in ortopedia e traumatologia. Il dottor Sansoni è
capo dipartimento Dea e direttore della
Struttura complessa di ortopedia e
traumatologia presso l'ospedale San Giovanni
Bosco di Torino, mentre il dottor Dettoni è
direttore della Struttura complessa di ortopedia e
traumatologia dell'ospedale Maria Vittoria,
sempre a Torino. I due presidenti hanno risposto
alle nostre domande per presentare il prossimo
Trauma Meeting ai lettori di Tabloid di
Ortopedia.
Dottor Dettoni e dottor
Sansoni, il Trauma
Meeting da sempre fa
riferimento esplicito
all’attività clinica
quotidiana, alla quale il
congresso vuole essere
supporto; quindi poca
teoria e molta pratica.
Ci parlate di questa
scelta e, più in
generale, dell’approccio
con cui verrà affrontato
l’incontro scientifico?
Si è voluto strutturare un
congresso che non fosse
una fiera delle vanità o
una riaffermazione di presenza, ma piuttosto un’occasione, soprattutto per i
colleghi più giovani, di
ascoltare l’esperienza di
esperti riconosciuti nei
vari capitoli in cui è strutturato questo quarto
Trauma Meeting. Quindi
una trasmissione di nozioni pratiche indirizzata a far
sì che il collega giovane,
che riceve in pronto soccorso il paziente traumatizzato, abbia immediatamente il quadro delle possibilità terapeutiche e fin
dai primi atti della presa in
carico del paziente abbia
una linea precisa, condivisa da massimi esperti, che
permetta il miglior approccio al problema.
Ciò è tanto più evidente
nel caso del secondo tema
del congresso, ovvero la
traumatologia dell’anello
pelvico: in questo campo
le prime decisioni e i primi
atti terapeutici, condotti
in urgenza, possono significare la salvezza o la perdita del paziente, così
come il trattamento successivo può portare, se non
condotto secondo regole
precise e da équipe esperte, a gravi invalidità.
Pertanto, mentre la stabilizzazione delle fratture
dell’anello pelvico deve
essere eseguita in urgenza
dalla maggior parte degli
ortopedici, la chirurgia di
seconda istanza, più complessa e che utilizza tecniche raffinate, deve essere
intrapresa in pochi centri
di riferimento.
Quindi poche casistiche,
che spesso sono molto
ottimistiche e autoincensanti, ma molti inquadramenti diagnostico-terapeutici e consigli pratici
da parte degli esperti, che
devono utilizzare le loro
casistiche proprio per
mostrare non tanto i brillanti risultati, ma gli eventuali problemi.
Perché si è deciso di
valorizzare l’aspetto
didattico e come verrà
sviluppato?
Se si guarda il programma
ci si rende conto che il
Trauma Meeting è strutturato più come un corso
che come un congresso. A
tal fine abbiamo cercato
di dividere i due temi del
congresso in capitoli su
base dell’anatomia topografica.
Per ogni regione è previsto un inquadramento (“il
punto”) che riporti anatomia, classificazione, letteratura e stato dell’arte
svolto da un esperto riconosciuto per quel particolare settore.
Le successive relazioni
dovrebbero mostrare le
varie possibilità terapeutiche, ma si è chiesto ai
relatori, anche qui riconosciuti come particolarmente esperti nel campo
trattato, di dare consigli
soprattutto
pratici,
mostrando in particolare
gli accorgimenti, le metodiche, gli errori più comuni.
In definitiva vorremmo
che l’ascoltatore avesse un
quadro generale delle
varie opzioni terapeutiche
per poter poi utilizzare la
più opportuna in considerazione delle propria esperienza e della realtà in cui
opera.
Il congresso affronterà
due argomenti vasti e
diversi tra loro. C’è
qualcosa che ritiene
utile puntualizzare su
questa scelta di
argomenti e, in
generale, sulle nuove
tendenze in merito a
queste due tipologie di
fratture?
La traumatologia dell’arto
superiore è stata scelta
perché non trattata così
specificatamente nei precedenti Trauma Meeting
(polso e mano esclusi, perché oggetto dell’edizione
dello scorso anno) e perché molte sono le novità
nel campo protesico, nella
sintesi di queste lesioni
ossee o nel trattamento
artroscopico per le lesioni
legamentose.
La traumatologia dell’anello pelvico invece è
stata scelta perché molto
attuale a causa dell’aumento degli incidenti
stradali, ma soprattutto
perché con il miglioramento delle tecniche di
primo soccorso (leggi 118)
questi pazienti che spesso
non giungevano in ospedale perché persi prima
del trasporto, ora fortunatamente giungono al
pronto soccorso, ma i
Angelo Dettoni
primi atti terapeutici
hanno effetti salva-vita e i
successivi trattamenti possono evitare gravi invalidità motorie, neurologiche, sessuali.
Riguardo alle fratture
dell’arto superiore,
avranno ampio spazio
chirurgie complesse
come quelle del gomito
e dell’omero. Quali
problematiche
comportano e quali
sono le novità nelle
tecniche chirurgiche?
In passato il trattamento
delle lesioni ossee e legamentose dell’arto superiore era legato a una filosofia che comportava spesso
di “accontentarsi” di risultati mediocri, ma funzionalmente accettabili.
L’ortopedia moderna ha
spostato il tiro anche per
la traumatologia, quindi
non risultati “accettabili”,
ma ricerca di una teorica
“restitutio ad integrum”, o
comunque di una ottimizzazione dei risultati.
Questo vuol dire una maggiore aggressività chirurgica delle lesioni, un perfezionamento conseguente
delle tecniche e dei mezzi
di sintesi.
In effetti, grandi novità
sono state portate ad
esempio con l’utilizzo
delle placche a stabilità
angolare che hanno un po’
rivoluzionato il trattamento delle fratture della
testa dell’omero e del
gomito
(nonché
del
polso), ma non si possono
dimenticare l’uso dei
chiodi bloccati e la nuova
“primavera” della fissazione esterna.
Inoltre sempre più spazio
acquistano la chirurgia
protesica e quella artro-
IV TRAUMA MEETING
Fratture di spalla, omero, gomito e avambraccio
Traumatologia dell’anello pelvico
Riccione, 27-29 ottobre
Presidenti: Angelo Dettoni, Maurizio Sansoni
Per informazioni: CSR Congressi srl
Tel. 051.765357 - Fax 051.765195
[email protected] - www.csrcongressi.com
www.otodi.com
Maurizio Sansoni
scopica.
Un’attenzione particolare
poi va posta alla rieducazione funzionale: molti
relatori pongono l’accento
su come pazienti, trattati
in modo simile dai medesimi chirurghi, possano
avere risultati di gran
lunga diversi a seconda
del tipo di trattamento
riabilitativo.
Ci potete fare il punto
sulla traumatologia
dell’anello pelvico, altro
tema che verrà discusso
al congresso di
Riccione? Quali sono
gli approcci chirurgici
più attuali; qual è il
ruolo della fissazione
esterna e, in generale,
degli approcci che
tendono a minimizzare
l’invasività?
Ci preme sottolineare
l’importanza di questo
argomento: mentre nella
traumatologia dell’arto
superiore si parte in fondo
da un perfezionamento di
trattamenti e tecniche già
da tempo in uso, nel
campo della traumatologia
dell’anello pelvico apriamo un campo relativamente nuovo. Come già
accennato è una patologia
“nuova”: purtroppo infatti
molti di questi pazienti
più gravi un tempo non
giungevano neanche al
pronto soccorso; ora il
perfezionamento
delle
tecniche del soccorso sulla
strada consentono di far
sopravvivere
questi
pazienti fino al trasporto
in ospedale. Qui nasce il
problema della rete traumatologica, che deve prevedere dei trauma center
di alta specializzazione e
alta tecnologia, che permettano di rispondere al
meglio alle gravi problematiche di questi pazienti.
Ma non è tutto: anche nel
piccolo ospedale con un
pronto soccorso attrezzato
deve esistere la possibilità
tecnica e culturale di trattare in prima battuta questi gravi traumatismi e qui
si inserisce il discorso
della stabilizzazione dell’anello pelvico, anche con
fissazione esterna.
Salvare la vita a questi
pazienti però non è di
nuovo tutto: le importanti
lesioni dell’anello pelvico
sono gravate nei trattamenti tradizionali e meno
aggressivi da postumi con
pesanti lesioni neurologiche, della sfera sessuale e
in generale della deambulazione.
Ecco quindi l’esigenza di
centri specializzati regionali, che verrà sottolineata nel congresso, in cui
queste lesioni, una volta
stabilizzate, possono ricevere il trattamento più
idoneo: questo passa attraverso tecniche chirurgiche sempre più sofisticate
(fino alla minivasività) e
che richiedono ovviamente una lunga curva di
apprendimento; ciò è possibile solo con una vasta
casistica e con la presenza
in questi centri di alte tecnologie, che richiedono a
loro volta grandi investimenti in termini non solo
economici, ma anche di
ricerca.
Renato Torlaschi
104
CORSI E CONGRESSI
Le infezioni
in chirurgia ortopedica
Da sinistra a destra,
Giorgio Burastero,
Guido Grappiolo
e Giovanni Riccio
Nelle giornate di venerdì 21 e sabato
22 ottobre a Pietra Ligure, presso
l'Ospedale Santa Corona, si terrà la
quarta edizione del corso sulle infezioni
in chirurgia ortopedica. A dirigere i
lavori saranno Giorgio Burastero e
Giovanni Riccio, entrambi afferenti alla
struttura complessa di malattie infettive e
ortopedia settica (Mios) del Santa
Corona, insieme a Guido Grappiolo,
direttore della struttura complessa di chirurgia protesica dell'Istituto Clinico
Humanitas di Milano.
Il corso è rivolto a specialisti ortopedici
e infettivologi coinvolti nel trattamento
delle infezioni osteoarticolari o interessati ad approfondire le loro conoscenze
in tale settore. «Abbiamo voluto dare al
programma un carattere molto specialistico - spiegano i tre docenti - rivolgendo la nostra attenzione ad argomenti di
grande attualità che ci proponiamo di
affrontare in maniera approfondita e
dettagliata».
I temi portanti saranno gli aspetti diagnostici e la terapia medica; il trattamento delle infezioni protesiche; il trattamento delle osteomieliti croniche diafi-
sarie dell'arto inferiore. Tutti gli aspetti
di questa complessa patologia vengono
affrontati secondo una logica multidisciplinare che vede il concorso, simultaneo
e sinergico, di specialisti provenienti da
diverse branche mediche (ortopedici,
infettivologi, microbiologi, chirurghi plastici e riabilitatori).
Lo schema ricalca l’organizzazione
della struttura organizzatrice. Il Mios
(Malattie infettive e ortopedia settica) è
infatti la prima struttura italiana dedicata al trattamento delle infezioni osteoarticolari che vede riunite, in un unico
organico, tutte queste differenti specialità. Il corso mantiene anche in questa
edizione la struttura mutuata dal reparto
e questo condiziona la forte connotazione pratica, già sperimentata nelle edizioni precedenti; ampio spazio è previsto infatti per la discussione e la presentazione di casi clinici interattivi.
Per informazioni
Il Cto Maria Adelaide di Torino ospiterà lunedì 28 e martedì 29 novembre un corso avanzato di chirurgia protesica del ginocchio, tenuto dal professor Maurizio Crova, direttore di ortopedia e traumatologia della II Clinica
ortopedica dell'Università degli Studi
di Torino.
Le riprotesizzazioni sono in continuo
aumento, anche solo come conseguenza del numero sempre crescente di
primi impianti. Lo stesso paziente sta
cambiando; l’età del primo intervento
si è abbassata e spesso entrambe le
ginocchia verranno protesizzate; le
richieste in molti casi riguardano il
mantenimento di attività sportiva o di
un lavoro pesante o il ripristino della
funzione articolare dopo gravi fratture.
«Noi ribadiamo il concetto già espresso lo scorso anno: strumentari sempre
più sofisticati e precisi guidano con sicurezza il chirurgo rendendo routinari
molti interventi, ma la soluzione di problemi imprevisti o complessi spesso ha
come guida principale l’esperienza»
commenta il professor Crova. Per questo, come ci ha spiegato il chirurgo, il
corso 2011 offrirà una parte pratica più
ampia, integrata da postazioni computerizzate per rivedere interventi significativi. Verranno proiettati filmati realiz-
Maurizio Crova
zati su cadavere ed eseguiti interventi in
diretta di protesizzazione su ginocchio
con deformità assiale e/o riprotesizzazione; sarà prevista la presentazione di
casi clinici su cui aprire una discussione
fra i colleghi presenti in sala.
Per informazioni
Il Melograno Servizi
Tel. 011.505730 - Fax 011.590940
[email protected]
www.ilmelogranoservizi.com
BBV Italia srl
Tel. 010.354556 - Fax 010.3514044
[email protected]
www.mios.it - www.fondazione.it
Congresso Sitop
Il congresso nazionale della Società italiana di ortopedia e traumatologia
pediatrica (Sitop), giunto alla sua quindicesima edizione, si terrà quest'anno a
Bologna (Centro Congressi CodivillaPutti) da giovedì 17 a sabato 19
novembre e sarà presieduto da
Onofrio Donzelli, direttore della struttura complessa di ortopedia e traumatologia pediatrica dell'Istituto ortopedico
Rizzoli di Bologna.
I temi delle relazioni congressuali sono
stati scelti dal comitato scientifico con lo
scopo di coinvolgere i professionisti
delle diverse discipline che si occupano
quotidianamente dei piccoli pazienti:
pediatri, fisiatri e medici di famiglia su
tutti. Temi come la zoppia, un sintomo
di comune riscontro in ambulatori di
pediatria e fisiatria; la diagnostica prenatale, che interessa l’ecografista, il
ginecologo, il pediatra, il medico legale, il genetista. «Senza tralasciare la
figura dello psicologo - ricorda Donzelli
- con l’atto della comunicazione,
momento delicato che rimarrà nella
memoria di tutto il nucleo familiare.
Questo atto comunicativo dovrà tener
presente il dolore, l’informazione, le
strade da percorrere, le risorse economiche e i diritti della disabilità e non
può essere lasciato come compito così
gravoso alla buona volontà di generi-
Corso avanzato
di protesica del ginocchio
che figure professionali».
Un altro tema chiave del congresso
sarà la sicurezza del bambino trasportato. Sono troppi, infatti, gli incidenti
stradali che coinvolgono giovani e
bambini che vengono mal trasportati o
per ignoranza dei genitori o per una
non corretta conoscenza dei supporti di
trasporto o delle protezioni dello stesso
mezzo di trasporto. «Penso sia compito
di una società scientifica come la nostra
sollevare il problema chiedendo alle
industrie un impegno economico e
divulgativo più forte e allo Stato campagne di prevenzione più mirate» sottolinea l'ortopedico pediatrico.
Alla riunione della Sitop si affronterà
poi un tema di interesse esclusivo dell'ortopedico: gli interventi preparatori
alla protesizzazione dell'anca affetta
da displasia, con una riflessione sulla
reale utilità delle soluzioni chirurgiche
atte a migliorare la centrazione e la stabilità dell’anca, alla luce dei progressi
dei materiali che permetteranno una
protesizzazione anche in età giovanile.
Per informazioni
CSR Congressi srl
Tel. 051.765357 - Fax 051.765195
[email protected] - www.sitop.it
L’accesso mininvasivo
all’anca
Venerdì 14 ottobre a
Genova (Sheraton Hotel)
si terrà un corso sull'accesso mininvasivo all'anca per via anteriore, presieduto
dai
dottori
Franco Pleitavino e
Alberto Federici, rispettivamente direttori della I e
della II divisione di ortopedia dell'Ospedale Villa
Scassi di Genova.
Franco Pleitavino
«Possiamo
osservare
come la chirurgia protesica dell’anca sia in costante evoluzione
e, con il passare del tempo, assistiamo
al progressivo miglioramento dei nuovi
modelli di impianto finalizzato alla ricerca del meglio per quanto riguarda
materiale e disegno - spiegano i due
chirurghi -. Inoltre anche le tecniche di
impianto ricercano vie di accesso sempre più conservative ed efficaci».
La via di accesso anteriore diretta
all’anca rappresenta una scelta dettata
da esigenze di risparmio tessutale, di
mininvasività, e di maggiore facilità di
Per informazioni
Il Melograno Servizi
Tel. 011.505730 - Fax 011.590940
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Alberto Federici
ripresa funzionale con riduzione delle
lussazioni. «Pertanto in questa occasione, avvicinandoci a detta metodica,
alla luce dell’esperienza europea e italiana, ci confronteremo su vantaggi e
svantaggi di una via di accesso attualmente riscoperta e rivalutata» ci hanno
detto Pleitavino e Federici.
106
CORSI E CONGRESSI
Congresso
Siommms
Microchirurgia
a congresso
Il congressso annuale
della Società italiana dell’osteoporosi del metabolismo minerale e delle
malattie dello scheletro si
terrà all'Hotel Sheraton di
Roma dal 16 al 19
novembre e sarà presieduto
dal
professor
Salvatore
Salvatore Minisola.
Minisola
«Quest’anno i contenuti
delle sessioni scientifiche sono stati scelti soprattutto tenendo
conto delle esigenze che da più parti i soci hanno sollevato - ha spiegato Minisola presentando il congresso -. Per
questo abbiamo privilegiato contenuti interdisciplinari con
attenzione particolare alle patologie metaboliche dell’osso
meno discusse ma di frequente riscontro nella pratica clinica, nei confronti delle quali dobbiamo dare risposte quotidiane ai nostri pazienti. Vengono affrontate inoltre questioni
cruciali, oggi molto dibattute, sul trattamento con il calcio e
la vitamina D nelle malattie da fragilità scheletrica e su alcune emergenze terapeutiche che il clinico può trovarsi a
dover affrontare».
Ampio spazio sarà dato all’illustrazione e alla discussione
di casi clinici emblematici così come alle comunicazioni
orali e ai poster, così da misurare l’elevato livello scientifico
dei contributi nazionali.
«Infine avremo modo anche di discutere delle problematiche di gestione multidisciplinare del fratturato di femore conclude Minisola - entro un contesto tanto drammatico
quanto probabilmente troppo trascurato dal punto di vista
assistenziale».
Il
XXIV
congresso
nazionale
della
Società italiana di
microchirurgia (Sim) si
terrà quest'anno a
Palermo dal 20 al 22
ottobre
presso
il
Grande Hotel Piazza
Giorgio De Santis
Borsa, nel cuore vivo
della splendida città
siciliana.
Il congresso sarà congiunto con la prestigiosa American
society for reconstructive microsurgery. «Il confronto con
altre società scientifiche a livello internazionale ha evidenziato quanto sia cresciuta qualitativamente la nostra
società» spiega Giorgio De Santis, presidente Sim. In
effetti la Società italiana di microchirurgia è in continua
espansione, proprio per il grande interesse che le tecniche microchirurgiche suscitano nelle diverse discipline,
specialmente tra i chirurghi più giovani.
Il congresso di Palermo avrà una presidenza condivisa
per consentire che l’espressione scientifica sia ampia e
diversificata: a guidare i lavori congressuali sarà il già
citato De Santis con Francesco Moschella.
Il programma scientifico, che si svolgerà prevalentemente in una sola sala per evitare la contemporaneità degli
interventi, come di consueto affronterà gli aspetti della
microchirurgia nei differenti distretti corporei: testa-collo,
tronco e mammella, arto superiore e inferiore, ma sarà
dato più spazio a tematiche quali i trapianti da donatore, la microchirurgia sperimentale e il training microchirurgico degli specializzandi.
Per informazioni
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Aristea
Tel. 06.845431 - Fax 06.84543700
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StudioProgress Snc
Tel. 030.290326 - Fax 030.40164
[email protected] - www.microchirurgia.org
Il congresso della Società
italiana di artroscopia
(Sia) si terrà quest'anno a
Milano
(Ata
Hotel
Executive) da mercoledì 9
a sabato 12 novembre e
sarà presieduto da Enrico
Arnaldi
e
Riccardo
Minola.
Ben tre i topic congressuali: I risultati della chirurgia artroscopica in Italia, le biotecnologie emergenti, le innovazioni della tecnica. Temi
fondamentali, che verranno ampiamente discussi grazie
agli interventi dei numerosi relatori. «Abbiamo coinvolto le nuove generazioni di colleghi artroscopisti per
valutare l’analisi dei risultati relativi alle numerose metodiche chirurgiche artroscopiche utilizzate da anni nel
trattamento delle patologie articolari, affiancandoli a
tutor più esperti con l’obiettivo di stimolare una discussione costruttiva e riuscire a stabilire, dove è possibile,
linee guida che consentano a tutti noi di comprendere
le reali indicazioni, l’efficacia e i limiti del trattamento
artroscopico in patologia ortopedica» ci hanno spiegato Arnaldi e Minola, sintetizzando così il format della
sessione congressuale.
Ampio spazio è stato riservato poi a dei seminari scientifici su temi specifici di chirurgia articolare e non solo,
condotti dai colleghi più esperti. Da sottolineare infine
il contenuto della giornata precongressuale di mercoledì, dove si alterneranno corsi di istruzione di altissimo
livello organizzati in partnership con la Società di artroscopia del Nord America (Aana).
Per informazioni
DALLE AZIENDE
Favorire l’integrità della cartilagine
e la funzionalità delle articolazioni
Cartinutra è un integratore indicato per le osteoartrosi primarie e
secondarie.
L’osteoartrosi è una malattia cronica degenerativa che in Italia interessa circa quattro milioni di persone. Soltanto nel 2-3% dei casi
le osteoartrosi sono causate da infortuni o traumi alle articolazioni, infermità congenite o altre infermità (osteoartrosi secondarie).
La maggior percentuale è rappresentata dalle osteoartrosi primarie (localizzata o generalizzata), che compaiono apparentemente
senza cause scatenanti con l’avanzare dell’età.
Le terapie convenzionali sono solite intervenire attraverso interventi chirurgici, il cambiamento delle abitudini di vita degli ammalati
o con cure farmacologiche. L’impiego di farmaci quali antinfiammatori non-steroidei e corticosteroidi ha un effetto immediato sugli
stati infiammatori responsabili del dolore, ma spesso hanno effetti
collaterali non trascurabili e in più non bloccano l’osteoartrosi.
Negli ultimi anni la ricerca scientifica ha focalizzato il proprio interesse sulla ricerca di principi attivi che rallentino il progredire delle
osteoartrosi e stimolino la riparazione delle cartilagini danneggiate. I composti che hanno maggiormente mostrato di avere queste
caratteristiche sono la glucosamina e il condroitin solfato.
Una sostanza determinante nella sintesi del collagene, che a sua
volta è utilizzato come matrice per la formazione del tessuto connettivo sia della cartilagine che dell'osso, è il silicio organico.
La sintesi del collagene è infatti condizionata dall'attività dell'enzima prolil-idrossilasi, un enzima silicio dipendente.
È stato anche dimostrato come la mineralizzazione dell'osso sia
direttamente proporzionale al contenuto in silicio della dieta.
Studi sperimentali sia in vitro che in vivo in cui gli animali venivano sottoposti a diete povere di silicio, hanno evidenziato anomalie nella formazione delle articolazioni, una crescita endocondrale deficitaria e difetti nella cartilagine articolare. Tali
prove sperimentali indicano, inoltre, che il silicio ha un ruolo
determinante per normalizzare il contenuto di glicosaminoglicani nel collagene, che a sua volta è utilizzato come matrice per
la formazione del tessuto connettivo sia della cartilagine che
XX Congresso Sia
dell'osso. Ne consegue che la presenza di silicio assicura la
normale fisiologica sintesi sia del tessuto cartilagineo sia del
tessuto osseo.
Le recenti acquisizioni sulle implicazioni del silicio nel metabolismo dell'osso e della cartilagine permettono di ipotizzare che il
ricorso alla supplementazione in silicio possa costituire un trattamento sia preventivo che curativo.
Nell’osteoartrosi Cartinutra gioca un ruolo di primo piano poiché è un nutraceutico che contiene sia la glucosamina e il condroitin solfato nelle quantità massime autorizzate dal Ministero
(500 mg/busta), sia 17,5 mg di silicio organico, sostanza
presente nell’Equisetum arvense, una pianta appartenente alla
famiglia delle Equisetacee assai ricca in silicio (10% del peso
secco della pianta). Nell’estratto di equiseto il silicio organico
è altamente biodisponibile. Sono inoltre presenti 90 mg di vitamina C, anch’essa utile per la sua attività antiossidante e condroprotettiva.
Dynamicom srl
Tel. 02.89693750 - Fax 02.201176
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Cadaver Lab
Sigascot
Cinque specializzandi e 30 ortopedici potranno partecipare, nelle giornate di venerdì 18 e sabato 19 novembre, al
cadaver lab organizzato dalla Società italiana di chirurgia
del ginocchio, artroscopia, sport, cartilagine e tecnologie
ortopediche (Sigascot) sulla chirurgia computer assistita del
ginocchio (Cas). Il corso di chirurgia su cadavere si terrà ad
Arezzo presso l'ormai nota Nicola’s Foundation onlus, che
da qualche anno rappresenta il punto di riferimento in Italia
per questo tipo di eventi ad alto valore formativo.
Direttore scientifico del corso è il dottor Claudio Castelli,
direttore del dipartimento di scienze motorie degli Ospedali
Riuniti di Bergamo, che ha stilato un programma in tre sessioni: la protesi, il trattamento del Lca, le osteotomie.
Le esercitazioni pratiche saranno svolte utilizzando nove
postazioni. Ogni postazione avrà a disposizione un sistema
di navigazione e un preparato anatomico per esercitazione
chirurgica sul ginocchio. Ogni gruppo sarà seguito da un
docente e da un bioingegnere esperto nei software di navigazione e verrà effettuata un’esercitazione pratica con i
diversi software a disposizione (in totale nove esercitazioni
da 60 minuti per ogni gruppo).
Al termine di ogni sessione si terrà una tavola rotonda interattiva sotto la guida dei docenti, confrontando le varie
metodiche utilizzate.
Per informazioni
Promo Leader Service Congressi
Tel. 055.2462227 - Fax 055.2462270
[email protected] - www.sigascot.com
108
CORSI E CONGRESSI
Congresso di ortogeriatria
Antonio Aloisi
Luigi Molfetta
Il paziente geriatrico in ortopedia e traumatologia sarà al centro del congresso dal titolo «Ortogeriatria: un approccio interdisciplinare integrato», che si terrà da venerdì 25
a domenica 27 novembre a Lecce.
«Al congresso si affronterà il grande problema dell’ortogeriatria, ossia della moderna
strategia di cura del paziente anziano con
patologia ortopedica e/o traumatologica e
delle problematiche correlate che talvolta
all’ortopedico appaiono così gravi da chiamare lo specialista geriatra a condividere la
gestione clinica del paziente» spiega
Antonio Aloisi, direttore di ortopedia e trumatologia all'Ospedale Santa Caterina
Novella di Lecce.
«L’ortogeriatria è un approccio integrato multidisciplinare che ha lo scopo di salvaguardare la salute dell’anziano affetto da problematiche plurime, spesso in multiterapia e
comunque bisognoso di cure, al di là del
gesto chirurgico, che è necessario ma che è
fonte di possibili complicanze, di scompensi e talvolta di esito infausto» prosegue Luigi
Molfetta, docente presso
il dipartimento di neuroscienze, oftalmologia e
genetica dell'Università di
Genova.
La cogestione dell’anziano
avviene con un percorso
che deve assumere anzitutto il significato di una scelta strategico-operativa nell’azienda sanitaria, di una
collaborazione fra medici
specialisti, di una condivisione delle problematiche, delle responsabilità e delle soddisfazioni. Come sottolineano i due medici, che
presiederanno i lavori del congresso, nell’ortogeriatria occorre anzitutto crederci, investire
risorse e pianificare il programma e i percorsi; occorre dedicarvisi e rendersi complementari. «Tutto ciò che arricchisce reciprocamente
la cultura dell’ortopedico e del geriatra - afferma Aloisi - migliora la qualità dell’assistenza,
la facilità del percorso, l’entità dei risultati finali. In definitiva il bene dell’anziano». Per questi motivi nell’evento scientifico sono coinvolte
le varie figure professionali sanitarie che gravitano nell’orbita dell’ortogeriatria per un
approfondimento e un confronto interdisciplinare: geriatri, gerontologi, ortopedici, traumatologi e fisiatri su tutti.
Per informazioni
Motus Animi
Tel. 0832.521300 - Fax 0832.521300
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Osteosintesi del
polso e della mano
A Pordenone da martedì 8 a venerdì 11 novembre si
terrà la nona edizione del corso teorico pratico di osteosintesi del polso e della mano, organizzato come ogni anno
dal dottor Ruggero Mele, responsabile del dipartimento di
chirurgia della mano dell'azienda ospedaliera Santa Maria
degli Angeli di Pordenone. Questa edizione del corso, che
gode del patrocinio della Società italiana di chirurgia della
mano (Sicm), sarà diretto dal dottor Alberto De Mas, chirurgo del dipartimento di Mele.
«Questa edizione del corso ha subito qualche modifica
rispetto alle precedenti edizioni - spiega il dottor Mele -.
Come di consueto sono previste le parti teoriche, dove sono
La patologia femoro-rotulea
Nelle giornate di venerdì 21 e sabato
22 ottobre la Società italiana di chirurgia del ginocchio, artroscopia, sport,
cartilagine e tecnologie ortopediche
(Sigascot) ha organizzato a Genova un
corso monotematico sul trattamento
della patologia femoro-rotulea, durante
il quale si farà il punto sullo stato delle
tecniche diagnostiche e sul trattamento.
Responsabile del corso è il dottor
Claudio Mazzola, direttore della struttura complessa di ortopedia delle articolazioni all'Ospedale Galliera di Genova.
La prima sessione di lavori sarà dedicata all'introduzione della tematica, passando in rassegna l'anatomia e la biomeccanica dell'articolazione per poi
concentrarsi sulla diagnostica strumentale e sull'esame clinico.
Dopo aver analizzato l'influenza dei vizi
posturali in questa patologia, i relatori si
confronteranno sul dolore anteriore di
ginocchio e sulla rotula stabile dolorosa
con l'analisi del trattamento conservativo
e della lisi del retinacolo laterale.
La rotula instabile sarà il tema di un'intera sessione, che comprenderà cause e
classificazione dell’instabilità rotulea per
poi soffermarsi sulla terapia: il ruolo dell’artroscopia, le controindicazioni della
lisi laterale, la ritenzione artroscopica
del retinacolo mediale, la ricostruzione
del legamento patello-femorale mediale,
il riallineamento prossimale e distale e
la trocleoplastica.
Il sabato sono in programma due sessio-
esposte le tecniche di osteosintesi più accreditate, e i workshop, nei quali sarà possibile prendere diretta visione e utilizzare i materiali presentati. Maggiore spazio rispetto agli
anni precedenti è stato invece dato alla chirurgia dal vivo:
nelle mattinate del corso i partecipanti saranno impegnati
nella visione degli interventi teletrasmessi dalla sala operatoria dell’Ospedale di Pordenone.
«Nell’intervallo fra un intervento e l’altro verranno esposti dei
casi clinici con la consueta discussione fra relatori e corsisti
- prosegue Alberto De Mas, direttore del corso -. Ci sarà infine una sessione aperta al pubblico dedicata alle novità in
chirurgia della mano».
Anche quest’anno il corso potrà vantare la presenza di un
illustre ospite straniero: il professor Marco Rizzo della Mayo
Clinic di Rowchester, oltre alla lettura magistrale, porterà la
sua esperienza durante la discussione nelle varie sessioni
del meeting.
Claudio Mazzola
ni. Si partirà con il trattamento biologico
dei difetti condrali, analizzando le indicazioni delle protesi di rivestimento. A
seguire, nel pomeriggio, si parlerà di
artrosi femoro-rotulea: trattamento chirurgico non sostitutivo e intervento protesico.
Per informazioni
Sig.ra Nives Sagramola
Tel. 055.2399112 - Fax 055.4641490
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www.sigascot.com
Un corso ben strutturato dunque, che secondo gli organizzatori permetterà ai partecipanti di essere in grado di
affrontare le problematiche delle fratture del polso e della
mano in conformità con quanto espresso dalla comunità
scientifica nazionale e internazionale, di conoscere i principi dell’osteosintesi da applicare nelle lesioni traumatiche del
polso e della mano, di conoscere le complicanze, gli esiti
delle fratture del polso e della mano e il loro trattamento e,
aspetto più importante, di applicare nella pratica clinica
quanto appreso durante le esercitazioni sul manichino e le
lezioni teoriche.
Per informazioni
MV Congressi
Tel. 0521.290191 - Fax 0521.291314
[email protected]
DALLE
Nuovi orientamenti terapeutici per le neuropatie periferiche
Le neuropatie periferiche sono patologie caratterizzate da un
danno funzionale o strutturale a carico dei nervi periferici e
fanno capo a una serie di disturbi, conseguenti a cause di diverso genere. Tra le più frequenti, oltre al diabete, ci sono i traumi
e i danni da compressione, soprattutto a livello dei tunnel anatomici (sindrome del tunnel carpale, sindrome del tunnel cubitale) e dei forami intervertebrali (cervicobrachialgia, lombocruralgia, lombosciatalgia).
La comunità scientifica riconosce, nell’insorgenza delle neuropatie periferiche, un modello multifattoriale. I fenomeni infiammatori, sempre presenti, sono accompagnati da un danno mielinico
e da sofferenza assonale, mentre lo stress ossidativo concorre al
mantenimento della patologia.
Axin C (Agave Farmaceutici) interviene sulla flogosi, interviene
sul danno mielinico e sulla degenerazione assonale ed è efficace anche nella riduzione dello stress ossidativo.
Grazie alla curcumina, in forma fitosomiale ad altissima biodisponibilità, Axin C svolge una importante azione antinfiamma-
toria che deriva dall’inibizione di molti fattori flogogeni e dei
processi di degranulazione mastocitaria, intervenendo così nelle
fasi precoci del processo flogistico.
L’azione sulla mielina, invece, è basata su recenti riscontri sperimentali che hanno dimostrato come la curcumina riduca in
modo significativo la percentuale di cellule di Schwann apoptotiche, aumenti il numero e la grandezza degli assoni mielinizzati e migliori l’attività motoria.
Axin C, inoltre, documenta un’attività sulla degenerazione assonale, caratterizzata da danno precoce della funzionalità mitocondriale, in quanto inverte completamente la tossicità dei mitocondri (Experimental Neurology, 2008).
Axin C, in definitiva, è il trattamento che garantisce una neuroprotezione combinata perché interviene sui diversi fattori patogenetici delle neuropatie periferiche: flogosi, danno mielinico e
assonale, stress ossidativo.
Axin C è impiegato alla posologia di due compresse al giorno: una al mattino e una alla sera.
A ZIENDE
110
CORSI E CONGRESSI
L’Agenda dell’Ortopedico
6-8 ottobre
49° Congresso Nazionale SICM
Le perdite di sostanza dell’arto superiore
14-15 ottobre
48° Congresso ALOTO
Torino, Centro Congressi Unione Industriale
Segreteria Organizzativa: Balestra Congressi
Tel. 06.2148068 - Fax 06.62277364
www.balestracongressi.com
6-9 ottobre
The total knee arthoplasty
Cracovia, Polonia
www.orttra.pl/symposium - [email protected]
7 ottobre
Cadaver Lab1 - Chirurgia artroscopica di gomito
Cadaver Lab2 - Chirurgia artroscopica di spalla
Arezzo, Nicola's Foundation
Segreteria Organizzativa: Sig.ra Silvia Piccolomini
Tel. 0543.28698 - Fax 0543.31845
[email protected] - www.sicseg.it
14 ottobre
Convegno di aggiornamento sulla chirurgia
di ginocchio e spalla
Riva del Garda
Segreteria Organizzativa: Dimensione Evento
Tel. 0464.425388 - [email protected]
Tabloid di Ortopedia
Mensile di informazione, cultura, attualità
Anno VI - numero 7 - settembre 2011
Direttore responsabile
Paolo Pegoraro [email protected]
Redazione
Andrea Peren [email protected]
20-22 ottobre
XXIV Congresso Società Italiana di Microchirurgia
Palermo, Sala Congressi Grand Hotel Piazza Borsa
Segreteria Organizzativa: StudioProgress snc
Tel. 030.290326 - Fax: 030.40164
[email protected] - www.microchirurgia.org
21-22 ottobre
Corso SIGASCOT. Il trattamento della patologia
femoro-rotulea: dove siamo?
Segreteria Organizzativa: Sig.ra Nives Sagramola
Tel. 055.2399112 - Fax 055.4641490
[email protected] - www.sigascot.com
Editore: Griffin srl
Piazza Castello 5/E - Carimate (Como)
www.griffineditore.it - [email protected]
Tel. 031.789085 - Fax 031.6853110
Testata associata
Associazione
Nazionale
Editoria Periodica
Specializzata
L’Editore dichiara di accettare, senza riserve, il Codice di autodisciplina pubblicitaria. Dichiara
altresì di accettare la competenza e le decisioni del Comitato di controllo e del Giurì dell’zutodisciplina pubblicitaria, anche in ordine alla loro eventuale pubblicazione.
Tiratura del presente numero: 8.000 copie
Stampa: Artigrafiche Boccia spa
Via Tiberio Claudio Felice, 7 - 84131 Salerno
Tabloid di Ortopedia, periodico mensile
Copyright© Griffin srl
Registrazione Tribunale di Como N. 17/06 del 26.10.2006
Registro degli Operatori di Comunicazione n. 14370 del 31.07.2006
Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003
(conv. In L.27/02/2004 n.46) art 1 comma 1, DCB Milano Taxe Perçue
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Singolo fascicolo: euro 0.25
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Segreteria Organizzativa: Motus Animi
[email protected] - Tel. 0832.521300
23-26 novembre
XLVIII Congresso Nazionale
della Società Italiana di Reumatologia (SIR)
Segreteria Organizzativa: AIM Group International
Tel. 02.566011 - Fax 02.56609045
www.congressosir2011.com - [email protected]
Segreteria Organizzativa: My Event
Tel. 06.916502389 - [email protected]
25-26 novembre
2° Convegno di traumatologia clinica e forense
9° Corso di ortopedia e medicina legale
27-29 ottobre
4° Trauma Meeting
Salsomaggiore Terme (PR), Terme Zoja
Riccione (RN)
Segreteria Organizzativa: CSR Congressi srl
Tel. 051.765357 - Fax 051.765195
[email protected] - www.csrcongressi.com
4 novembre
Congresso "Imaging del bacino e dell'anca"
4-5 novembre
La patologia discale tra innovazione e tradizione
Hanno collaborato in questo numero
Lorenzo Castellani, Giorgio Castellazzi, Guido Cornegliani,
Giancarlo De Marinis, Arturo De Michieli, Savvas
Dynamidis, Rosanna Feroldi, Davide Forcellini, Claudia
Grisanti, Marco Klinger, Matteo Laccisaglia, Giovanni Lodi,
Maurizio Maffi, Luca Maione, Monica Oldani, Giampiero
Pilat, Vincenzo Salini, Renato Torlaschi
Lecce
Puebla de Los Angeles, Messico
Grafica e impaginazione
Minù Art - boutique creativa www.minuart.it
Foto: Archivio Griffin srl
Vendite
Sergio Hefti (agente) [email protected]
Manuela Pavan (agente) [email protected]
25-26 novembre
Congresso Nazionale di Ortogeriatria
Il paziente geriatrico in chirurgia ortopedica e
traumatologica. L’ortogeriatrica: un approccio
interdisciplinare integrato
Rimini
25-29 ottobre
I Congresso congiunto Italo-Messicano
(SIOT-AMOT) di ortopedia e traumatologia
Napoli, Grand Hotel Royal Continental
Direttore commerciale
Giuseppe Roccucci [email protected]
Segreteria Organizzativa: Promo Leader Service Congressi
Tel. 055.2462227 - Fax 055.2462270
[email protected] - www.sigascot.com
Genova
Segreteria di redazione e traffico
Maria Camillo [email protected]
Tel. 031.789085 - Fax 031.6853110
PUBBLICITÀ
Arezzo, Nicola's Foundation
Segreteria Organizzativa: MCA Events
Tel. 02.34934404 - [email protected]
Bologna
Segreteria Organizzativa: CSR Congressi srl
Tel. 051.765357 - Fax 051.765195
[email protected] - www.csrcongressi.com
Segreteria Organizzativa: Keyword Europa
Tel. 02.54122513/78 - Fax 02.54124871
[email protected]
26 novembre
10° Congresso Regionale SVOTO
Castelfranco Veneto (TV)
Segreteria Organizzativa: CSR Congressi srl
Tel. 051.765357 - Fax 051.765195
[email protected] - www.csrcongressi.com
28-29 novembre
Corso di chirurgia protesica del ginocchio
Torino
Segreteria Organizzativa: Il Melograno Servizi
Tel. 011.505730 - [email protected]
5-10 novembre
86e Réunion Annuelle de la Société Francaise
de Chirurgie Orthopédique et Traumatologique
1-3 dicembre
XI Congresso Nazionale della Società Italiana
Chirurghi dell'Ospedalità Privata (SICOOP)
Le nuove frontiere nel trattamento delle patologie
ortopedichee traumatologiche
Parigi, Francia, Palais des Congrès
Reggio Calabria, Hotel Excelsior
[email protected]
Segreteria Organizzativa: Balestra Congressi
Tel. 06.2148065/8 - Fax 06.62277364
[email protected]
8-11 novembre
Corso teorico-pratico di osteosintesi del polso
e della mano
Pordenone
Segreteria Organizzativa: MV Congressi
Tel. 051.290191 - [email protected]
9-12 novembre
XX Congresso Nazionale della Società Italiana di
Artroscopia (SIA)
Milano, Hotel Executive
Segreteria Organizzativa: Agenzia Dynamicom
Tel. 02.89693766 - Fax 02.201176
[email protected] - www.siaonline.it
11-12 novembre
EFORT Instructional Course Basel 2011
Osteoarthritis: joint preserving surgery
of the lower leg
2-3 dicembre
Cadaver Lab chirurgia artroscopica di spalla
Arezzo, Nicola's Foundation
Segreteria Organizzativa: Sig.ra Silvia Piccolomini
Tel. 0543.28698 - Fax 0543.31845
[email protected] - www.sicseg.it
6-7 dicembre
Congresso Rome Spine
Il rachide oggi e domani
Roma, Centro Congressi Crowne Plaza St. Peter's Hotel
Segretria Organizzativa: Management srl
Tel. 06.7020590/702022379
[email protected] - www.romespine.org
Basilea, Svizzera
12-14 dicembre
10° Corso di aggiornamento annuale sulla
chirurgia ricostruttiva articolare dell'arto inferiore
www.efort.org/ic/basel2011
Bologna, Istituto Ortopedico Rizzoli
16-19 novembre
XI Congresso Nazionale SIOMMMS
Segretria Organizzativa: Symposia srl
Tel. 0584.430402 - [email protected]
Roma
Segreteria Organizzativa: Aristea
Tel. 06.845431 - Fax 06.84543700
[email protected] - www.aristea.com/siommms2011
17-19 novembre
15° Congresso Nazionale della Società Italiana di
Ortopedia e Traumatologia Pediatrica (SITOP)
Bologna, Centro Congressi Codivilla
Segreteria Organizzativa: CSR Congressi srl
Tel. 051.765357 - Fax 051.765195
[email protected] - www.csrcongressi.com
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Segreteria Organizzativa: Studioprogress snc
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Fiuggi, Centro Congressi Hotel Silva Splendid
18-19 novembre
Cadaver Lab SIGASCOT
Chirurgia computer assistita del ginocchio (CAS):
protesi, Lca, osteotomie
Or torisposta
Risposta al quesito
di questo numero
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Il paziente era affetto da necrosi avascolare del domo astragalico con artrosi secondaria della tibio-tarsica, patologia trattata con successo mediante protesi della tibio-tarsica.