Educazione ai media e politica Prof. Jacques Gonnet

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Educazione ai media e politica Prof. Jacques Gonnet
EDUCAZIONE AI MEDIA E POLITICA
Prof. Jacques Gonnet
Università La Sorbonne di Parigi
Il legame tra educazione ai media e iniziazione alla politica viene raramente preso in
considerazione, o perché lo si considera evidente e quindi non occorre parlarne, o perché lo si
considera un argomento assai controverso, come tutto ciò che riguarda la politica del resto, e quindi
da non toccare.
Poiché mi avete offerto l’onore e l’amicizia di invitarmi, vorrei oggi affrontare questa
questione che mi sembra determinante quando si parla degli obiettivi dell’educazione ai media. E
vorrei farlo integrando teoria e pratica. Un intervento solo teorico sarebbe immediatamente tacciato
di idealismo. E d’altro canto citare solo esempi o aneddoti che testimonino l’importanza di lavorare
in classe sulla politica significherebbe trascurare la questione di fondo: ha la scuola il dovere di
preparare l’allievo alle pratiche della democrazia?
1. Come prima cosa vorrei ricordare che un’educazione ai media degna di questo nome non può
esistere in una dittatura. La ragione è evidente: in questo tipo di situazione una rassegna stampa è
impensabile. L’idea di confrontare opinioni diverse, per non dire contrapposte, è per definizione
impossibile. Al contrario, nelle democrazie emergenti, osservo sempre più giovani ricercatori che si
interessano all’educazione ai media come mezzo di iniziazione alla politica (recentemente ho avuto
occasione di vedere molte iniziative di questo tipo soprattutto in parecchi paesi africani). In questo
caso si tratta ovviamente di un’educazione ai media intesa innanzitutto come educazione all’attualità,
al presente, all’informazione. Interrogarsi, per esempio, sul telegiornale, sull’informazione
radiofonica o sulla stampa quotidiana sembra in effetti un ottimo modo di interrogarsi sulla
democrazia nella nostra società, su ciò che essa veicola in termini di valori e di immaginario
collettivo.
Alcuni potrebbero dire: ma è questo il ruolo della scuola? Perché imporre all’allievo,
all’adolescente i giochi crudeli degli adulti? Perché, visto che non chiede nulla, infliggergli le visioni
da incubo della follia del mondo, perché non lasciarlo vivere da bambino, da adolescente?
Queste riflessioni sono inquietanti e personalmente mi toccano molto. Sembrano dettate dal
buon senso. In fondo non si va a scuola soltanto per istruirsi, per conoscere le discipline
fondamentali?
Ma coloro che pensano a una scuola protettrice, scollegata dalla realtà del mondo, a una
formazione a-temporale, non dimenticano l’essenziale? Quando arriva a scuola, lo studente porta
con sé tutto il suo mondo, le sue immagini, le sue domande. Non può depositare tutto questo nel
guardaroba all’ingresso, come un abito preso a prestito, per rinascere in classe. Non significa questo
trascurare il fatto che per lo studente quello che conta è innanzitutto poter fare certe domande e
che, a meno di rinunciare a una parte essenziale della sua missione, la scuola non può ignorare tali
domande? Oggi l’onnipresenza dei media porta i ragazzi a porsi delle domande sul mondo che li
circonda, vicino o lontano che sia. Non dimentichiamo che i ragazzi sono curiosi. Interrogano gli
adulti per capire, e lo fanno a voce bassa, a volte così bassa che non lo si sente nemmeno. Capire le
immagini di violenza viste la sera prima al telegiornale – ma è veramente la realtà? Capire le notizie,
talvolta positive, più spesso tragiche, della vita quotidiana – ma è veramente il nostro universo?
Vedersi come soggetto, riconoscere le proprie paure come il proprio desiderio di cambiare il
mondo.
Certo la scuola non è un istituto terapeutico che ripara le fratture, ma sarebbe insostenibile, in
nome di una neutralità che diventa presto indifferenza, non accogliere questa richiesta di senso.
Anche sul piano più stretto dell’efficacia dell’apprendimento, occorre partire o almeno tenere in
considerazione gli interrogativi posti dagli studenti.
Dico sempre a quelli che sono più scettici: leggete i giornalini redatti dagli studenti! Se ve ne
sono alcune che non ci toccano per niente, ve ne sono tanti altri che attraverso un disegno, una
poesia, un articolo su un tema di attualità, lanciano dei messaggi agli adulti, delle grida, dei fremiti
che diventano importanti contributi alla nostra società e talvolta, vorrei sottolinearlo, alla nostra
cultura. Paul Klee e Pablo Picasso hanno entrambi parlato della gelosia che suscitavano in loro certe
opere infantili. Senza aprire un falso dibattito sul genio del bambino, riconosciamo almeno che egli
non è soltanto un soggetto seduto su un banco, un soggetto passivo destinato a trangugiare un
sapere perfettamente delimitato. I giornali scritti dai giovani ci parlano della loro attualità, spesso
molto vicina a quella degli adulti, talvolta diversa, deviante. I giovani hanno certamente bisogno
degli adulti per avvicinarsi all’attualità. E se gli adulti avessero bisogno delle domande dei giovani per
prendere le distanze dal mondo nel quale vivono, per immaginare un avvenire più a lungo termine?
In classe, tutto questo viene testimoniato da diverse esperienze: lavorare sull’attualità, in virtù
del nuovo rapporto che si viene ad instaurare tra gli allievi e il professore, permette l’apertura verso
altre visioni, ovvero verso uno spazio mentale diverso in cui l’allievo in difficoltà trova spesso un
altro modo di muoversi. Quante scoperte sorprendenti! Un ragazzo spento improvvisamente si
riaccende davanti a un microfono perché sa che la trasmissione radiofonica verrà effettivamente
mandata in onda… Si passa dal gioco, indispensabile senza dubbio ma anche artificiale, della
redazione, del va e vieni di una copia tra il professore e l’allievo, a una situazione autentica. Lavorare
sull’attualità significa scoprire la responsabilità della scrittura e della parola.
Ma allora, diranno alcuni, i giovani vogliono fare politica? Non è questo il ruolo della scuola!
La “politica”, lo sappiamo bene, viene dal greco “politikos”, “della città”. La stessa parola che ci ha
dato il termine “cittadino”. Non la si potrebbe imparare a scuola? Possiamo rifiutare i metodi che ci
eviterebbero i monologhi manichei, i dispensatori di lezioni, le verità non verificabili? Perché non
imparare che un’“informazione” è forse solo un rumore, che un’immagine è falsa? Perché non
imparare che l’onore di una democrazia sta, giustamente, nel permettere l’espressione del pluralismo
e che è proprio questo pluralismo che legittima la democrazia? Perché non viverlo concretamente
lavorando sull’informazione? Perché non imparare ad ascoltare l’altro, a comprendere, a tollerare?
Arriviamo così al cuore dell’altra missione della scuola: la scuola deve in effetti istruire, ma
deve anche trasmettere i valori di una società. La scuola ha avuto da sempre, dappertutto, questa
doppia funzione. Pertanto, che lo si voglia o meno, non si può fare a meno dei media oggi per
situarsi nel mondo; non aiutare gli studenti ad assumere una distanza critica rispetto ai media
significa ignorare questa dimensione. È vero, però, che lavorare sull’attualità può essere
disorientante. Siamo in una scuola del dubbio. Imparare ad esercitare il proprio senso critico, a
distanziarsi dalla realtà permette di risituarsi senza essere trascinati dalle correnti del tempo.
Instancabilmente, bisogna imparare a controllare le fonti, a confrontarle. L’insegnante orienta le
ricerche verso altri partner: i genitori, i giornalisti, un giudice, un artigiano, un medico, un sindaco,
un imprenditore… tutte fonti di informazione per capire la realtà, echi per tentare di strutturare il
discorso caotico delle informazioni, per costruire dei punti di riferimento.
Ma come formare all’attualità? Chi conosce l’attualità? Per definizione l’attualità è rottura, le
informazioni ci scombussolano obbligandoci ad adattarci ogni giorno. Ed è proprio per questo che
bisogna avere l’onestà di dire che è meglio non lavorare mai sull’attualità a scuola piuttosto che farlo
senza metodo. Un insegnante che non ha mai integrato questa dimensione nel suo insegnamento
non potrà rispondere in modo pertinente e sereno il giorno in cui, a caldo, si verificherà nel mondo
un dramma (l’11 settembre ha fornito a questo proposito numerosi esempi) perché è in certo senso
troppo tardi. In realtà non dimentichiamo che questo approccio colloca gli insegnanti e gli alunni in
una situazione fondamentalmente nuova per la scuola. Si scopre insieme. Non si sa. Non so nulla
del conflitto tra due paesi o del risultato di un’elezione o ancora di un processo in corso. Bisogna
dunque inventare una relazione pedagogica fondata sullo scambio, sulla pratica circa i metodi di
reperimento delle notizie, una relazione che esige il lavoro di tutta la classe, un progetto: quali sono
gli elementi di questo progetto? Quali apporti possono dare la storia, le lettere, le scienze, le arti
plastiche al progetto che mettiamo in cantiere? Non rientrando nell’economia di questo breve
intervento, non posso sviluppare oltre questo punto. Tuttavia basti notare l’estrema ricchezza di
questo approccio. È un approccio che de-drammatizza, che autorizza ad una prima strutturazione.
L’insegnante occupa un posto privilegiato, nuovo sotto molti punti di vista, ma il suo lavoro
deve nascere, per essere condotto serenamente ed efficacemente, dall’impegno di tutta una
comunità educativa. E dunque, ben inteso, da tutte le diverse famiglie di spirito che compongono un
paese, che partecipano alla vita della democrazia.
Su questa idea capitale di iniziazione alla democrazia, in Francia il Clemi ha già dato prova sul
campo che non siamo nel regno dell’utopia. Da più di vent’anni, il Centro ha fatto incontrare
genitori, giornalisti, rappresentanti politici, sindacati, associazioni, movimenti di ogni tendenza. La
Settimana della Stampa nella Scuola ricorre ormai da 16 anni, più di 4 milioni di alunni discutono
ogni anno di politica, di elezioni (parecchie volte la Settimana si è tenuta in pieno periodo di
elezioni…), ma anche di ecologia, di fatti diversi, di educazione, ecc. Nessuna lamentela ha mai
toccato questa iniziativa unica in Europa.
È emersa un’altra costante: la posta in gioco è tale che mai nessun partner è venuto meno al
suo ruolo. Formare i giovani all’attualità è questione che interessa tutti, e tutti sentono di dover
contribuire. È una posta in gioco che interessa tutta la società. Occorre individuare delle
articolazioni con le strutture esistenti (per esempio, gli enti locali) per promuovere la partecipazione
di tutti i partner potenziali, per far sì che il progetto non solo sia inattaccabile ma possa anche
divenire un interesse di tutta la comunità educativa e servire anche – perché no? – alla formazione
degli adulti, ai loro interrogativi, a una messa in comune delle idee. Veri e propri laboratori di
democrazia. Veri e propri atti di cittadinanza.
Vorrei ora descrivere brevemente la situazione dell’educazione ai media in Francia.
L’originalità è senza dubbio e prima di tutto strutturale. Il Clemi, organismo statale, ha la
missione di promuovere questa educazione e di valutarla. Esso dispone di un budget annuale
allocato dal Ministero dell’Educazione nazionale. Aggiungo che ho avuto l’onore di fondare il Clemi
nel 1982 e che dopo più di 20 anni di direzione (e di contatti con 10 Ministri dell’educazione, con
sensibilità talvolta assai diverse) ho chiesto a François Fillon, Ministro dell’educazione nel 2004, di
lasciare questa responsabilità. Ora è una collega universitaria, France Renucci, che ha preso il mio
posto.
Come sapete, la Francia è un paese molto centralizzato in cui la maggior parte delle decisioni
viene presa a Parigi. Tuttavia, nel caso del Clemi, è interessante notare che ogni università
(amministrativamente la Francia è divisa in una trentina di università) è dotata di una propria
autonomia nella promozione delle attività di educazione ai media. È il rettore, rappresentante del
Ministro dell’Educazione nella sua università, che decide le priorità. Il Clemi ha dunque un ruolo di
coordinazione, di stimolo, ha anche in qualche maniera la missione di perorare presso gli insegnanti,
e più in generale presso tutti i partner che intervengono nell’educazione (soprattutto i genitori degli
alunni), la necessità di questa educazione.
Da oltre 15 anni, come ho appena detto, per dare visibilità alla sua azione, il Clemi organizza
una “Settimana della stampa e dei media a scuola” il cui successo è una prova dell’interesse dei
giovani nell’affrontare il tema dei media e soprattutto quello dell’informazione. Solitamente oltre 4
milioni di giovani partecipano nel mese di marzo (la 17a settimana si terrà quest’anno dal 13 al 18
marzo) a tutta una serie di azioni estremamente diverse che mobilitano ovviamente gli insegnanti,
ma anche i genitori degli alunni e l’insieme dei media. Da notare che è un’iniziativa interamente
basata sul volontariato e in quanto tale dovrebbe avere tutti le ragioni per non funzionare! Gli
insegnanti non amano troppo il volontariato, e non li si può biasimare per questo; i media hanno
ben altre cose da fare che andare nelle scuole; i genitori degli alunni non hanno certo un rapporto
semplice con questo tipo di tematiche!
La prima spiegazione da dare per capire il successo di questa operazione viene dunque dalla
motivazione degli studenti. A scuola, accompagnati dai loro insegnanti e con il sostegno del Clemi
(che si occupa, per esempio, di pubblicare delle schede pedagogiche), i giovani approfittano di
questa opportunità per fare tutta una serie di domande e far vivere la scuola in un altro modo:
Come funzionano i media? Come viene prodotta l’informazione? Qual è il ruolo della pubblicità?
Quali sono i limiti della libertà di espressione? Qual è il potere della stampa? Come si evolve il
paesaggio mediatico?
Queste sono solo alcune delle decine di domande da cui hanno origine i progetti.
Vorrei anche sottolineare qui che i sindaci, i consiglieri generali, i deputati e senatori, in altri
termini l’insieme della rappresentanza nazionale, partecipano a questo gioco di educazione civica
che consiste nell’andare nelle scuole e cercare di rispondere a domande talvolta difficili o, ancor più,
finanziano quei progetti che testimoniano dell’importanza per un paese di riflettere sulle sue
pratiche democratiche. Cito alcuni esempi.
Nel rapporto annuale della “Settimana della stampa e dei media nella scuola”, ho notato
questa osservazione fatta dal presidente del Consiglio generale della Maine-Loire, Cristophe Bechu:
«Quest’anno ho voluto che il dipartimento partecipasse all’operazione “la stampa in classe”. In
questo modo quasi 500 studenti appartenenti a province diverse, hanno potuto imparare a leggere la
stampa scritta e a proporre i propri contributi sotto la supervisione di giornalisti professionisti. Ho
voluto questa collaborazione perché la posta in gioco civile e pedagogica di questa operazione è
essenziale. Infatti la formazione dei giovani alla cittadinanza passa anche dall’accesso
all’informazione, alla sua comprensione e alla padronanza della scrittura. È dunque senza esitazione
che il Consiglio generale della Maine-Loire si è impegnato finanziariamente e politicamente in
questo progetto».
Un’altra testimonianza:
«Nella nostra università – spiega Odile Chenevez – abbiamo voluto lavorare con la televisione.
Pertanto, in collaborazione con France 3, ci siamo dati l’obiettivo di formare dei telespettatori attivi
sviluppando negli alunni il gusto di informarsi dando loro le chiavi per comprendere l’attualità. Il
Clemi accademico ha pilotato questo progetto e assicurato la formazione degli insegnanti che vi
hanno preso parte. Gli alunni studiano e analizzano il funzionamento dei meccanismi di produzione
di senso nell’informazione televisiva. Essi scrivono, sotto la direzione dei professori, una notizia
televisiva su un argomento di attualità e poi si incaricano anche di curare la realizzazione tecnica
(riprese e montaggio). Dei giornalisti di France 3 intervengono aiutando i ragazzi a realizzare la loro
“notizia”».
Un’altra testimonianza è quella di un insegnante “documentarista” in una scuola superiore di
Le Monastier-sur-Gazeille:
«La posta in gioco è importante: avere a disposizione, con l’obiettivo di un’apertura al
pluralismo, un gran numero di giornali e riviste da presentare agli alunni il prossimo marzo. Ho
informato i miei colleghi di diverse discipline. Con loro, nel quadro della mia missione pedagogica,
avrò presso il Centro di documentazione e informazione materiali a sufficienza per formare e fare
riflettere gli alunni sull’informazione e sul suo trattamento. Gli alunni del Club Presse sono anch’essi
avvertiti. Nuove sfide ci attendono. Prepareremo certamente il chiosco presso il Centro di
documentazione e di informazione, ma soprattutto sapremo motivare gli altri giovani a leggere la
stampa, li inciteremo a informarsi, a interessarsi ad altri campi, in breve li renderemo curiosi e
cittadini».
Infine permettetemi di concludere queste mie osservazioni con un esempio che riguarda i
nostri due paesi. A Clermont-Ferrand, con il loro professore di italiano, gli alunni hanno lavorato
alla realizzazione di una “Una” a partire dalle informazioni selezionate nell’edizione online di tre
quotidiani nazionali il 3 marzo 2005. Parallelamente in Italia una classe di un liceo di Rimini ha
realizzato lo stesso lavoro con il suo professore di francese. Le due classi hanno così analizzato e
selezionato le informazioni più importanti del giorno, nel loro paese, poi hanno realizzato delle
“Une” che illustrano il frutto delle loro riflessioni nella lingua della classe partner in maniera da
poterle scambiare e mettere in prospettiva.
Potrei citare anche le centinaia di esempi contenuti nel rapporto annuale della “Settimana della
Stampa e dei Media nella scuola” (Clemi). Ci insegnano che i giovani, quando gli si chiede di fare
delle domande, sono pronti a impegnarsi, a proiettarsi verso il futuro, a capire. Pertanto, affrontare
l’informazione, le notizie, l’attualità significa aprirsi alla politica, ma non in uno spirito polemico,
bensì in uno spirito di tolleranza, anche grazie agli insegnanti che stabiliscono le regole del gioco ed
offrono una metodologia adeguata. Rimane, è vero, il fatto che non siamo dinanzi a una disciplina
classica, ma ad un campo nel quale l’emozione irrompe bruscamente a scuola per cui non si
possono trascurare i problemi specifici che questa nuova dimensione pone.
Un grande pedagogista francese del XX secolo, Georges Snyders, soleva dire: «Per insegnare il
latino a Jean, bisogna conoscere il latino e Jean». Certamente con i media, l’informazione, l’attualità,
vere fonti di emozione, compare un nuovo parametro: la necessaria conoscenza di se stessi, del
proprio rapporto con il mondo. Infatti, lavorare su questi argomenti esige non solo una certa
metodologia, ma anche una certa distanza, una certa maturità nel rapportarsi agli altri. Si possono
ben capire le reticenze di coloro che non si sentono preparati ad affrontare un programma simile.
Tuttavia non è più pericoloso fare finta di credere a un mondo razionale che non esiste? Sarebbe
grave che la scuola si disinteressasse della vita quotidiana perché non ha la capacità di tradurla in
equazioni. Si tocca qui il cuore stesso dell’utilità dell’educazione ai media. Non si tratta di una
semplice aggiunta nel mestiere del professore. Questa opzione ridà senso a questo mestiere e alla
sua funzione in una società democratica: trasmettere saperi, certo, ma anche trasmettere valori…