Copertina di Emanuele Velluti

Transcript

Copertina di Emanuele Velluti
Copertina di Emanuele Velluti
Indice dei racconti:
Un’altra prospettiva
pag.6
L’Ideale
pag.10
L’accordo dissonante
pag.11
Spacciatore di sogni
pag.18
L’eroe
pag.23
Fruscio1
pag.27
Le gloriose imprese di Teseo
pag.28
Overdose2
pag.47
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Introduzione alla lettura di “Ritratti notturni”- Edizione II
Dell’autore
“Ritratti notturni” è una raccolta di racconti brevissimi, scritti in periodi diversi spalmati
nell’arco di circa un anno.
Questa antologia non è nata come idea prima dei racconti, bensì sono i questi che, nati e
sviluppati autonomamente, mi hanno suggerito di metterli tutti insieme in questa piccola
raccolta che, sviluppata in generi che vanno dallo storico al fantascientifico, raccontano
“storie umane, storie di uomini”, ritraendoli in diversi momenti della loro vita, del loro
essere.
Le persone che ho raccontato credo che vivano in ognuno di noi; le società in cui sono
calati assomigliano un po’ alle nostre.
Le storie che ho scritto sono frutto della mia fantasia, ma soprattutto del mondo in cui
vivo e del quale ho una visione a modo mio.
Ho quasi finito di tediarvi con questa introduzione per lasciarvi a quella che mi auguro
non sia una noia ancora più lunga;
Vorrei concludere dicendovi che io c’ho messo, se non tutto, almeno un po’ di cuore a
scrivere questi racconti, quindi, mi auguro che vi piacciano, che vi divertano un poco e
che vi facciano pensare molto; se invece, parafrasando il Manzoni, fossi riuscito ad
annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta.
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Dedicato a
A Natalina e Lucrezia
Ringrazio:
Bradipoteatar per essere tra le “muse ispiratrici” delle Gloriose Imprese di Teseo
Giovanni Garufi Bozza per il sostegno e la pubblicizzazione
Emanuele Velluti per la copertina
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Un’altra prospettiva
Al paese lo chiamavano Tony <malocchio> . Veniva giù, al borgo, poche volte e solo per
fare
provviste di viveri alla bottega e di libri nella mia libreria.
Il resto del tempo lo passava nella sua casa che era su un altipiano che dava sulla
campagna a ponente e sulla città a levante.
Quel Sabato stavo riordinando alcuni scaffali nella mia libreria quando udii sull’uscio
l’inconfondibile ticchettio sordo di una gamba di legno a me ben nota.
Tony <<malocchio>> era un uomo poco meno basso di un ragazzo, con un occhio
profondamente nero e l’altro, che probabilmente non c’era più, coperto da una benda
nera. Il suo corpo tarchiato era sorretto dall’unica gamba buona, dell’altra non era
rimasto che un piccolo lembo di carne sotto la coscia al quale era stato attaccato un
misero moncherino di legno, che sembrava più un peso che un sollievo.
-Buongiorno Tony, come state?.
Lo salutai tornando dietro al bancone.
-Le solite domande cretine … Come vuoi che stia con questa maledetta gamba che mi da
una fitta ogni tre passi e con voi deficienti del paese che mi chiedete come sto con quelle
vostre facce da pesci lessi !?.
Ringhiò lui.
-Scusatemi l’indiscrezione. I libri che avete ordinato sono arrivati.
Risposi trattenendo a stento male parole e mettendo, con malagrazia, un grossissimo
cartone contenente una trentina di libri vicino alla cassa: opere dell’ottocento, alcune dei
primi anni del nostro secolo e altre contemporanee :
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non si faceva mancare nulla, quel maleducato !
Esaminò ogni libro, come se temesse che io potessi vendergli volumi rovinati o con
pagine mancanti; finita l’ispezione, con molto malgarbo, domandò:
-Ebbene, quanto fa?
-Fanno £ 5 000.
Risposi io con una punta di soddisfazione: al giorno d’oggi, mica sono poche 5 mila
lirozze!
-cinquemila hai detto? Ma cosa fai, li vendi a peso d’oro? Sei il più sporco dei ladri …
Sbottò inviperito.
Certo, uno sconticino avrei potuto farglielo, ma non ho intenzione di fargli risparmiare
neppure una lira per la sua scortesia, soprattutto ora che mi da del ladro!. “Io non ho la
minima intenzione di stare qui a prendere del ladro da questo vecchio zoppo
maleducato” pensai. Ero sul punto di dirglielo, quando cacciò fuori dal portamonete un
provvidenziale Dante Alighieri stampato su una banconota da 10.000, che ricacciò
indietro le brutte parole erano sul punto di uscire dalla mia bocca.
Stavo per prendere il resto dalla cassa quando mi disse di tenermelo e di usarlo per
comprare un pollo con il quale mi augurò di strozzarmi mangiandolo. Non feci in tempo
a replicare che già, con sorprendente velocità dato lo stato delle sue gambe, era uscito
sbattendo la porta e trascinando un piccolo carrellino di legno con i libri.
E’ appurato, pensai ,che quell’uomo sia un cafone, ma se tutti i clienti fossero così mi
farei certamente una posizione!.
Continuai rimuginando sull’accaduto per un'altra mezz’oretta mentre mi affannavo a
pulire e ordinare scaffali, a preparare nuovi ordini alle case editrici e a registrare i nuovi
arrivi, quando decisi di prendermi una pausa:
sfilai il mio meritato mezzo toscano, lo accesi e iniziai a fumare descrivendo ampi cerchi
col fumo.
Proprio mentre iniziavo a rilassarmi e il locale iniziava ad avere quell’aroma dolciastro
che solo un buon sigaro riesce a creare, ecco che entrò trafilato Don Michele, il parroco.
Il prete sembrava appena tornato da una lunga corsa: era rosso in viso, dalla grossa testa
pelata
scivolava qualche gocciolina di sudore e ansimava come un cane.
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-Reverendo. Dissi io –Segga e beva qualcosa!.
-Uh grazie!. Fece quello sedendosi.
-Purtroppo, posso offrirle solo dell’acqua.
Così dicendo mi affrettai a riempire due bicchieri e ad offrigliene uno.
Dissetatosi e ripreso un poco di fiato, il curato, iniziò a farfugliare in modo sconnesso:
-Malocchio … Non sa cosa è successo oggi … Non sa cosa ha fatto …
-Don Michele, beva con calma e racconti tranquillo .
Se il parroco fosse vestito come me e io come lui, si direbbe che lo stessi confessando io
! Del resto non era la prima volta.
Io e Don Michele avevamo avuto rapporti più stretti della comunione domenicale
durante la guerra:
gli americani stavano sfondando la linea gotica e noi eravamo fra due fuochi. Un giorno
al paese arrivarono molte SS e tutti iniziammo ad avere paura in quanto la maggior parte
poi aveva da nascondere qualcosa: vuoi un parente partigiano, un disertore nascosto in
casa, magari qualche arma pronta all’uso al momento opportuno o qualche piccolo
traffico in borsa nera.
Io ero uno dei pochi che non rientrava in nessuno di quei quattro casi, quindi, ero
relativamente tranquillo. La mattina successiva all’arrivo dei tedeschi sentì qualche
sparo e un pochi minuti dopo un forte trambusto sul retro. In quegli istanti persi ciocche
intere di capelli per la paura ,che salì ulteriormente quando vidi il parroco entrare
dicendomi che si doveva nascondere perché le SS lo inseguivano come complice della
resistenza e un sacco di altre cose che, preso dal terrore, non ascoltai. Per fortuna fui
veloce ad afferrarlo per la tonaca e a chiuderlo nello sgabuzzino: pochi secondi dopo
entrò un ufficiale tedesco e mi chiese del parroco. Io finsi di non sapere niente, ma
dovevo essere stato così poco convincente che lui non se la bevve, quindi, preso dalla
disperazione, afferrai “Guerra e Pace” e lo usai per tramortire, solo Dio solo sa come, il
crucco.
In quei giorni dovevamo essere entrambi sotto l’ala protettiva della fortuna: i tedeschi
dovettero scappare in fretta e furia il pomeriggio stesso e nessuno fece caso ad un
ufficiale che tornò solo due giorni più tardi con un grosso bernoccolo in fronte.
Dopo aver vissuto insieme un avventura del genere, due uomini, sono uniti
indissolubilmente per
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tutta la vita da un forte legame di amicizia.
Vedendo che Don Michele iniziava a riprendere colore, domandai:
-Che cosa è successo?.
- La Bia è venuta a dirmi che Malocchio è andato da lei e che ha fatto una cosa
stranissima.
La Bia si chiamava in realtà Antonia ed era una vecchia comare che aveva una merceria
nel lato Ovest della piazza. Quella vecchia strega, come ero solito chiamarla, ce l’aveva
con me da quando, ormai dieci anni fa, rifiutai di sposare quella cagna rabbiosa di sua
figlia, che, se possibile, è peggio
della madre. Ad essere sinceri quelli del lato Est della piazza odiavano per principio
quelli del lato Ovest e viceversa da tempi immemori e senza una ragione ben precisa.
Noi <<estini>> odiamo quando nelle prime ore di sole i palazzi d’Ovest ci facevano
ombra e godiamo quando al crepuscolo siamo noi a proiettare l’ombra su di loro;
malediciamo persino il sole di Mezzogiorno quando è alto sulla piazza e illumina sia noi
che loro con la stessa luce e, al tempo stesso, ci crogioliamo in un brodo di giuggiole
sapendo che anche loro odiano essere illuminati dalla stessa luce che illumina noi!.
Queste sono questioni di paese, certo, voi che siete della città non potete capire. Voi
questo lo chiamate ridicolo campanilismo, noi questioni di principio.
Per esempio, Io, per questione di principio, quando entro da Bigio il macellaio (nonché
sindaco comunista), che sta ad Ovest, non mi levo il cappello e lo saluto dicendo
“Buongiorno signor Podestà” .
Direte che sono uno sfrontato, ma sapete cosa mi combina lui !? Lo sapete!?
Ogni settimana il Bigio o un altro della sua banda mi ordina una copia del “Manifesto
del Partito Comunista”, me lo paga e invece di ritirarlo mi dice che non lo vuole più e di
rivenderlo tranquillamente.
Certo, io ci faccio un buon guadagno ogniqualvolta riesco a rifilarne uno, lo rivendo a
prezzi stellari e per ben due volte, ma ormai ho quasi un intero scaffale occupato da
quell’opera immonda che, per quanto cerchi di tenere nascosta, non riesco ad eliminare
completamente alla vista dei clienti.
Come se non bastasse, ogni santo giorno all’ora di punta arriva uno dei rossi e mi chiede
se ho qualcosa sul comunismo poi, ignorando la mia risposta, punta dritto al solito
scaffale che sta diventando il più sporco e remoto del negozio, declamando ad altissima
voce la qualità della
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copertina e della carta dei libri di Marx e Engel, invitando tutti a comprarne uno;
assicuratosi che tutti i clienti siano sfilati davanti a quei volumi, gira i tacchi e se ne va.
Siccome non ho intenzione -almeno non ora - di tediarti con queste questioni di
principio, tu lo chiamerai futile campanilismo, ti racconterò ciò che ha combinato
Malocchio dalla Bia.
Secondo le informazioni di Don Michele, che in quanto prete ha la prelazione su tutti i
pettegolezzi del paese e quindi posso dirmi abbastanza certo che le sue informazioni
siano corrette, Tony avrebbe comprato nella merceria della Antonia quasi venti metri di
stoffa buona e le avrebbe lasciato £ 5 000 di resto come ha fatto con me.
Messo da parte il dispiacere che la Bia abbia guadagnato anche lei le cinquemila come le
ho guadagnate io e il piacere di sapere che anche a lei dispiacerà ciò non appena saprà
che anche io le ho prese senza sforzo, ho iniziato a interrogare il parroco :
- Come fa quel vecchio zoppo a potersi permettere di regalare diecimila lire in un
giorno?
Purtroppo Don Michele ne sapeva quanto me: Malocchio aveva una modesta casa
colonica in cima ad un altipiano che dava sulla campagna a ponente e sulla città a
levante.
Scendeva al paese raramente per comprare viveri e libri. Per quanto potessimo sapere,
non possedeva nulla di più del posto dove abitava anche se, come feci notare io,
probabilmente era una persona di lettere. Almeno così sembra dato l’alto livello dei libri
che era solito comperare.
Mentre facevamo congetture, alcune assurde, sul conto del Signor Zoppo -così
l’avevamo ribattezzato- i minuti passavano e per Don Michele venne il momento di
andare a officiare una messa. All’improvviso rimasi solo con il mio mezzo toscano
fumante in bocca, la mia mano che si
divincolava nella tasca e con un grosso dubbio in testa:
Chi è Tony Malocchio ?.
non ricordo con precisione cosa stessi pensando in quei fatidici momenti. Ora so che
altro non è che un uomo triste e abbandonato da tutti, vittima delle malignità mie e di
alcuni compaesani. Allora non ero stolto, ma da qua, si ha … come dire … un'altra
prospettiva.
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Mentre tutto questo frullava nella mia mente, rimasi solo con il mio mezzo toscano nel
frattempo consumato nella bocca rigida, con la mia mano ormai ferma e fredda in tasca e
una triste verità nell’aria:
Ero solo. Semplicemente, desolatamente e fatalmente solo come può esserlo il cadavere
di un libraio morto per arresto cardiaco nella sua bottega.
L’IDEALE
Quando la fiamma brucerà anche l’aria e il fumo oscurerà il cielo finalmente non
parleranno. Forse grideranno.
Presto molta attenzione nell’uscire di casa.
Non avrebbe senso bruciarmi sul portone, proprio oggi, che finalmente decido io, se
vivere o morire.
Cammino bagnato fradicio per le strade sotto il sole cocente. Soldati mi scrutano
sospettosi. I più mi ignorano.
Tra poco non potrete più ignorarmi.
Non potrete più fermarmi.
Forse potrete spegnere la fiamma ardente che brucerà il mio corpo, ma non quelle che
arderanno i cuori di chi mi guarderà.
Per quelle non vi basterebbe il diluvio universale.
Finalmente arrivo nella piazza, ancora vestita di fasti ormai dimenticati. I carri armati
son come avvoltoi in mezzo alla folla, parole concitate girano fra volti impauriti e gesti
inconsulti attraversano le mani intirizzite dal freddo e dal terrore.
I militari latrano ordini incomprensibili liberando una rabbia che pare imprigionata da
secoli. Leggo nei loro occhi il disprezzo, e dentro i miei odo salire il furore per quel
potere troppe volte relegato in altre mani, preso e sparatoci addosso senza remore dai
loro cannoni.
Sento distintamente salire il vento e il vento non lo possono fermare con le mani. Non si
può bloccare, non si può imprigionare, non si può fucilare.
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Neppure la Libertà, per quanti uomini liberi uccidano, possono fermarla. Questo li
spaventa; quando qualcuno la invoca posso leggere la paura nei loro occhi. La paura è
l’anticamera dell’odio, che sale fino ad esplodere nelle canne dei loro fucili.
Arrivo al centro della piazza. L’acciarino è pronto. Una fiamma illuminerà Praga. Quella
fiamma sarò io. Io sarò la speranza di chi è stanco di chinar la testa e tirare avanti. Io
sarò il richiamo per chi ha abbassato il mento per non guardare. Io morirò in questa
piazza, ma otterrò l’immortalità negli incubi degli oppressori.
Sono bagnato di benzina, basterà la scintilla dell’accendino . Basterà una scintilla, anche
molto piccola.
Sale il vento ma non lo possono fermare.
Brillano le stelle ma non le possono spegnere.
Nascono le idee e non le possono imprigionare.
Un ideale è nato. Non lo possono fermare. Non lo possono spegnere. Non lo possono
imprigionare.
Possono solo temerlo.
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L’ACCORDO DISSONANTE
PARTE I
25 maggio 1936
Caro diario,
Stai per leggere le cronache di un assassino, che se non è tale per la legge, lo è per la
sua coscienza. A questo punto tu dirai: “Tu non puoi essere un omicida!” Ebbene, mio
amato diario, mi spiace contraddirti, ma lo sono.
Non sono perseguito dalla giustizia, ma gli occhi di quel bambino, le sue urla, le sue
braccia glabre protese verso le mie, adulte e muscolose, che restavano invece rigide
lungo il corpo, mi perseguiteranno per sempre. Non riuscivo a muovere le membra;
neppure la bocca per gridare: solo gli occhi per guardare la creatura cadere giù fino
alla scogliera, dove si infranse come una statuetta di cera. Mai desiderai di essere sordo
come quando udì le sue grida coperte dal mare prima, e soffocate dalle braccia della
morte poi.
Credo che non metterò mai più piede in questa casa: lui tornerà a prendermi e mi
porterà in cima al precipizio. A quel punto mi darà una spintarella e io cadrò giù. Non è
questo che desidero: io voglio vivere, ma se rimarrò qui da solo, in queste quattro mura,
lui mi catturerà, ne sono certo. No, io devo vivere in un posto dove non può prendermi,
dove non può venire senza essere visto: la piazza . E’ il luogo perfetto. Anche lì però non
sono del tutto al sicuro: nelle notti fredde avvolte dalla nebbia, quando le onde s’alzano
e cavalcano il mare come destrieri demoniaci, lui potrebbe arrivare non visto nel cuore
del paese. In quel momento io dovrò essere pronto a fuggire e non dovrò quindi essere
troppo appesantito da inutili bagagli: prenderò solo te, mio caro diario, un vestito
pesante e il violino, il mio migliore amico.
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Mi volto per guardare casa mia un ultima volta e subito affretto il passo: mi sembra
stranamente sinistra, come se lui fosse appena entrato del retro per prendermi.
Raggiungo quasi di corsa la piazza, dove la gente mi saluta normalmente:
-Buongiorno professore
-Buongiorno maestro
Guardando a destra e a sinistra per prevenire un suo possibile attacco, balbetto distratto:
-Buongiorno a lei
-A lei dottore.
Cerco un angolo della piazza con diverse vie di fuga, dal quale si possa avere una visuale
completa della piazza e che, al tempo stesso, impossibilitasse possibili agguati alle
spalle.
Tremando da capo a piedi, mi dirigo fino al posto che mi sembra rispondere a quei
requisiti.
Prendo il violino e l’archetto, poi, finalmente senza alcun tremore, inizio a suonare.
Non riesco a capire di chi sia la musica che sto suonando. Non l’avevo mai udita prima
d’ora: è un suono struggente, quasi un lamento che sembra gettare l’anima in un pozzo
di velluto dove scivola dolcemente, sempre più in giù, senza mai toccare il fondo.
Eppure mi sembra bellissima: la musica del mio cuore.
La gente mi guarda come se fossi matto. Molti si avvicinano con circospezione, pronti a
scattare indietro, come se avessero paura di essere morsi non appena mi fossero capitati
a tiro. Intorno a me si crea una sorta di cerchio deserto con un raggio di due metri e dal
bordo di questa improbabile figura in molti lanciano compassionevoli qualche sguardo di
pietà.
Noncurante di tutto ciò, suono senza freno fino a quando il sole si rannicchia dietro alle
possenti spalle della notte, lasciandomi così del tutto solo nella piazza. Quando le gambe
iniziano a cedere e le braccia a dolere, mi siedo a terra con la schiena attaccata al muro
di un palazzo e cado in un dormiveglia orrendo, dal quale mi riprendo di scatto
alzandomi ad ogni minimo rumore, temendo che fosse lui.
Lentamente, l’aurora dalle lunghe dita fa capolino, accompagnata di tanto in tanto da un
mio accordo buttato lì a casaccio e la piazza inizia lenta a riempirsi. La gente, come
fosse già diventato un gesto abituale, mi getta un po’ di elemosina non richiesta nella
valigetta del violino, tenendo sempre le distanze.
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Questa mattina, al corteo pietoso si aggiunge anche il giornalaio, che mi getta il
quotidiano locale.
Intorno a mezzodì la piazza si svuota ancora e io inizio a mangiare qualche frutto prima
che marcisca. Cercando qualcosa di buono mi capita sottomano il giornale dove, in
prima pagina, campeggia la mia foto.
Lo spiego e leggo:
“ Il celebre violinista Pierpaolo Rossi è impazzito” Titolava
“L’insegnante del conservatorio e, secondo molte indiscrezioni, prossimo direttore
d’orchestra al Teatro alla Scala di Milano, Pierpaolo Rossi (38 anni) è arrivato ieri
mattina nella piazza del paese con una espressione a dir poco sconvolta e si è
acquattato in un angolo, dove suona tutto il giorno il suo violino racimolando quel po’
di elemosina che gli fanno i suoi compaesani. Il Maestro Rossi, scapolo, membro di
spicco del PNF locale, non aveva mai mostrato segni di squilibrio . Alcuni suoi
concittadini affermano che era un uomo solitario e privo di amici, ma che non aveva
mai, prima d’ora, mostrato segni di una follia tanto evidente . Si continuano a fare
ipotesi sulle motivazioni che possano averlo condotto a questo stato… [continua a
pagina 3]
“Non è vero che non amici” pensai, ma dovetti constatare col passare dei giorni che,
sebbene non venisse mai a mancare l’elemosina, l’articolo diceva il vero:
non solo nessuno non aveva ancora violato quel cerchio vuoto creatosi intorno a me, ma
esso si era anche gradualmente allargato: due metri la prima settimana, che iniziavano a
diventare tre la seconda fino alla terza, cioè oggi, quando il raggio dei questo anello della
solitudine è diventato di quasi cinque metri.
Ormai sembra che il mondo scivoli davanti a me al ritmo della mia musica, della mia
paura e del mio rimorso. Non mi lasciano neppure la notte: le poche ore di sonno che mi
concedo sono frequentemente interrotte dalle grida di quel bambino.
Mentre il cerchio del deserto si allarga sempre più, il mio terrore sale continuamente,
come un crescendo rossiniano.
E’ ormai notte, mangiucchio qualche cosa che mi hanno gettato i miei così distanti
compaesani, quando d’improvviso dei passi riecheggiano nella piazza deserta. Sono
passi leggeri, di quel bambino.
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Lo sento ormai, il cuore batte a mille, le mani si contorcono, le gambe tremano , i denti
sbattono uno contro l’altro. Si avvicina al cerchio e lo viola. La forza della disperazione
ha la meglio sulla paura e mi accingo ad affrontarlo: mi arriva a malapena alla cintola,
nonostante ciò mi preparo a lottare come se avessi innanzi un branco di lupi :
-Vattene via !!!
Gli urlo furioso, dandogli uno spintone che lo fa cadere all’indietro. Inizia a frignare: le
sue grida non sono come quelle di quel bimbo che abita i miei incubi. Ho sbagliato
persona. Prima che il pentimento prenda il sopravvento in me, le sue urla attirano la
gente, che lo coccola. Mi guardano come si guarda un animale feroce: un misto di orrore
e rabbia, ma di questa sera è un ulteriore allargamento del cerchio della mia desolazione.
La mattina, quando mi gettano l’elemosina, non leggo più la compassione nei loro occhi,
ma terrore.
La paura, come è noto, è l’anticamera dell’odio che rapido conquista dapprima i loro
sguardi, i loro gesti, le loro lingue e infine le loro azioni.
Gli ultimi a violare quel cerchio, infrantosi magicamente per il sollievo del popolo, sono
stati due carabinieri, che sotto braccio mi accompagnano in una automobile e da lì diritti
fino al manicomio più vicino.
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PARTE II
29 giugno 1946
Caro diario,
Ecco come la Treccani del 1934 definisce il posto dove mi trovo io da quasi dieci anni :
”E’ un istituto che accoglie gl’individui in cui elementi di follia s’intrecciano e spesso si
fondono con i fenomeni della delinquenza […]E’ poi un istituto di sicurezza, in quanto
mira a difendere la società contro gli elementi più pericolosi, custodendoli fin che dura
la loro pericolosità …”
A onor del vero devo dire che qui il più pericoloso sono io perchè anche il violino, mio
migliore amico, mi sta tradendo: di tanto in tanto mi parte una steccata terribile. Per il
resto sono circondato da gente che sa volare, altri che non sanno parlare e altri ancora
che credono di conversare con chi non sa proferir parola. Dopo di me il più pericoloso
credo sia Napoleone, che si è messo in testa di conquistare tutto il mondo e di
distruggere ogni città. Ma essendo chiuso qui, senza alcun esercito ai suoi ordini, credo
che non lo si possa considerare una minaccia rispetto a molta gente che è fuori ...
Passo le giornate con le mani sempre incollate al violino e al suo archetto. Le ho
staccate per la prima volta proprio ora, mentre scrivo queste pagine, anche perché non
ne ho mai avuto bisogno: il cibo me lo imbocca una infermiera e non mi alzo neppure
per liberare il mio ventre. Ogni tanto mi cambiano le lenzuola e la camicia da notte,
allora devo smettere, ma è una pausa breve. Credo di essere anche sonnambulo, perché
mi sveglio udendo la mia musica. Lo strumento ormai non suona molto bene, è
praticamente consumato ed emetto un rumore piuttosto flebile.. Nonostante tutto non
smetto mai poiché la paura è ancora molto forte, il suo visino popola il mio sonno e fa
vivere i miei incubi.”
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Rileggo questa pagina di diario. Sono passati ormai vent’anni dal giorno in cui la scrissi.
E’ notte, ho un brutto presentimento. Sento che lui sa dove sono. Odo i suoi passi sempre
più vicini. La porta cigola. Capisco che devo uscire. Sempre col mio fedele violino sotto
mano esco dalla porta. Non lo vedo, ma lo seguo: tutte le porte sono stranamente aperte.
Usciamo fuori. Continuiamo a camminare. So che lui è da qualche parte vicino a me.
Non percepisco la rabbia, solo la determinazione di un giustiziere. Arriviamo sul bordo
di quella scogliera che è poco sotto il manicomio. Una spintarella, un alito di vento o
forse un gemito di solitudine mi spinge e inizio a cadere.
Prima del tonfo tombale suono il mio ultimo accordo dissonante da quell’orchestra di
normali che ha allargato il cerchio della mia solitudine fino a portarmi lì, sulla cima di
quella scogliera. E poi ancora ad allargarlo, sempre di più, sempre più avanti, sempre più
giù, più giù, più giù, più giù ...
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Spacciatore di sogni
How are you? Combien ça coûte? я хочу водки! Schauen Sie sich den Turm! Tony, come back!
Per le contrade di San Marino risuonavano frasi, domande, esclamazioni in mille lingue diverse:
turisti da ogni dove per ammirare la bellezza di quel piccolo paese arroccato sul Monte Titano,
capitale della più antica Repubblica del Mondo.
-Napoli, di qua !!!
Gridava una guida, arrancando su per una salita, seguita da un gruppo di turisti napoletani.
La guida era Nadia, una ragazza sui 17 anni. La Segreteria di Stato aveva offerto agli studenti del
Liceo con le valutazioni più alte, la possibilità di lavorare come guide turistiche per la Segreteria di
Stato al Turismo durante le vacanze estive.
-Queste è la Rocca, nota anche come Guaita o più semplicemente prima torre- Disse indicando un
torrione dalle forme piuttosto rozze, che stava come aggrappato su di uno sperone di rocce lanciato
verso il mare.
-E’ la più antica delle tre torri, venne costruita nell’XI secolo, quando la neonata comunità
sammarinese iniziò a temere la vicina Rimini. All’epoca tutta la città sorgeva ai piedi di questo
edificio e la popolazione, in caso di assedio, si rifugiava dietro alle mura che cingono il baluardo.
-La struttura e la pianta sono molto semplici, ora verrete accompagnati all’interno dalla mia collega
che vi illustrerà il monumento più dettagliatamente.
Ciò detto, completamente ignorata dalla comitiva che, della sua spiegazione, se ne era fregata
altamente per tutta la mattinata, se ne andò e passò il testimone alla sua amica.
I primi giorni, da quelle visite, ne usciva completamente distrutta nell’animo e nell’autostima: era
frustrante documentarsi, studiarsi noiosissimi libri, pianificare i migliori percorsi, le migliori
tecniche per cercare di rendere la visita interessante, per poi non ricevere neppure un minimo di
attenzione dai turisti, attratti dai negozi di armi da softair, spade e coltelli in libera vendita ai
minorenni, invece che dalle testimonianze di una Libertà millenaria, forgiata, temprata e difesa da
centinaia di generazioni prima di lei, proprio un quei luoghi.
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Passata la frustrazione dei primi giorni, Nadia divenne del tutto indifferente al difetto di attenzione
del suo pubblico: ogni pomeriggio prendeva in consegna una comitiva e le faceva sempre fare lo
stesso giro per le contrade, sempre ripetendo la stessa e identica lezioncina mandata ormai a
memoria, sempre con la stessa e identica espressione, sempre con la stessa e identica voce stentorea
e monotona che faceva assomigliare le sue spiegazioni a delle cantilene, poi, finalmente, salutava
con finta allegria il gruppo di turisti e se ne andava a casa.
Pensando alle sue giornate e al suo lavoro di guida, entusiasta e curiosa i primi giorni, stanca e
piatta successivamente, provava un moto di comprensione verso i suoi insegnanti: “Chissà, forse
anche loro, da giovani, hanno provato ciò che sento oggi io: dapprima entusiasmo, voglia di fare e
di rendere accattivanti le loro materie, poi, piano piano, sono diventati i musoni vecchi e stanchi,
che ti ripetono sempre la stessa storia, nello stesso modo, seduti sulla stessa cattedra, scrivendo
sempre gli stessi segni sulla stessa lavagna, leggendo gli stessi appunti dallo stesso libro, facendo
sempre le stesse interrogazioni, le stesse domande, le stesse verifiche, gli stessi voti sullo stesso
registro e, infine, le stesse sentenze anticipate ai soliti colloqui coi genitori e pronunciate fatalmente
sulle solite pagelle.”
Era ormai il crepuscolo e Nadia era stanca, ma non aveva voglia di tornare a casa quella sera.
Decise che avrebbe fatto una passeggiata e che si sarebbe fermata a mangiare qualcosa in un
ristorantino. Non si prese neppure la briga di chiamare casa: nessuno avrebbe notato né si sarebbe
preoccupato della sua assenza.
La Stazione della Funivia era forse il luogo più panoramico del monte: sotto di lei vedeva le pendici
del Monte Titano abbassarsi dolcemente fino a nella Pianura Padana e nel mare di Rimini. Si
scorgeva la Superstrada snodarsi sinuosa da San Marino fino a Rimini, piano piano le macchine
come minuscole formiche colorate accompagnavano il suo sguardo da Borgo, poi Domagnano e
giù, fino a Serravalle, per passare il confine di quello Staterello che era tutto il suo mondo. Passata
la dogana, continuava rettilinea verso il mare e sembrava gettarvisi. In verità erano solo gli occhi di
Nadia a buttarsi in quella distesa marina, nuotare fino all’orizzonte, dove il cielo e il mare sembrano
fondersi, per lanciarsi senza rimpianti più avanti, verso la Croazia, poi più in là, dove sorge il Sole
e ancora diritta, fino all’ultima Thule, dove lasciar morire lo sguardo, l’anima, la stessa voglia di
vivere.
Necessitò di alcuni minuti per riportare la mente alla realtà e per realizzare che si era ormai fatto
buio.
Pensò di andare in un ristorante, ma non aveva fame.
Era molto stanca, ma non voleva andare a stendersi sul letto; anzi, era stanca proprio di casa sua.
Ogni giorno che passava desiderava sempre più fuggire, lasciarsi tutto alle spalle: amici, genitori,
professori, scuola, lavoro… Ma ogni volta che pensava a ciò, la vita le piombava addosso come un
macigno, schiacciandola sotto il peso della realtà.
Riprese a camminare, si diresse verso la Cava dei balestrieri, poi a destra scese delle scale fino alla
fontana donata dagli americani, poi ancora giù, fino al Monumento ai Caduti e infine nello spiazzo
vicino alla Stazione delle Milizie e alla Segreteria alla Finanze. Poi imboccò la sinistra, attratta da
una forza irresistibile e dolce, come suono di un flauto di pastore.
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La via era deserta, non molto illuminata. Sembrava che una nebbiolina stesse scendendo pian piano
sul lastricato. I rumori delle macchine che passavano alcuni metri più a sinistra erano
incredibilmente ovattati, ma Nadia era attratta e distratta da quel suono, sempre più forte, che
sentiva nella sua testa.
Dopo una ventina di metri svoltò ancora a destra, in una stradina in forte pendenza che porta al
Luogo di Meditazione. La nebbia era ad ogni passo più fitta e iniziava a nascondere anche il cartello
a pochi metri da lei, che pregava di fare silenzio in quel luogo di preghiera.
Ormai non si vedeva a un palmo, non una luce, non un rumore. La via del ritorno era ormai
smarrita, eppure Nadia camminava tranquilla, come se nulla fosse, con un sorriso un po’… Perso.
Davanti a lei s’apriva un cancello che spiccava nella nebbia, come se brillasse di luce propria.
Lo varcò e d’improvviso la musica s’interruppe: la realtà, come un macigno, si riversò su di lei più
terribile che mai. Si trovava su un sentiero, in piena estate ma con la nebbia, senza sapere la via del
ritorno. Il cancello era ancora visibile, provò ad aprirlo si era richiuso alle sue spalle, come nel più
classico del film horror. Iniziò a battere sul ferro, gridando, invocando aiuto.
Non un solo rumore… E invece sì. Alle sue spalle:
-Buonasera signorina Corbelli.
A parlare era un uomo vestito con una giacca e una tuba simili a quelle dello Zio Sam. Gli occhi e la
carnagione erano mediterranei, il sorriso più candido che mai. Dietro di lui si apriva una spiaggia
caraibica, della nebbia neppure l’ombra. La vegetazione lussureggiante dei tropici si apriva in un
sentiero dove quella strana persona invitava a proseguire.
-E tu chi sei? E tu come fai a sapere chi sono? E io dove sono?
Chiese la ragazza completamente smarrita, guardandosi intorno con occhi spaventati e felici al
tempo stesso.
-Scusami, non mi sono presentato. Il mio nome è… Bè, ne ho tanti. Molti mi chiamano lo
Spacciatore di Sogni e su di lei, signorina Nadia, so tutto. Più di quanto lei stessa sa sul suo conto,
anzi, lei sa tutto, ma non lo vuole ammettere. Le assicuro che lei è in un posto bellissimo.
-Cosa non voglio ammettere? E dove mi trovo di preciso?
-Mi segua, per favore.
-Seguirti dove?
-Mi segua.
Camminando per il sentiero, Nadia ebbe modo di vedere diversi scorci di quel luogo: uomini che
gattonavano sulla spiaggia tirandosi la sabbia, donne completamente nude che si dilettavano in balli
forsennati e un uomo che tirava una fune, saldamente appesa alla cima di un albero apparentemente
senza alcun motivo.
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-Cosa fa quell’uomo con quella corda?
Domandò Nadia, ancora scossa, guardando quest’ultimo.
-E’ un uomo stanco delle notti e del freddo delle genti… Sta cercando di afferrare il sole per non
aver più tenebre e per scaldarsi sempre: io l’ho esaudito. E’ contentissimo, crede di avere il sole in
tasca. Possa darti del tu, piccola?
-Certo… Anch’io?
-Naturalmente puoi. Tu, Nadia, cosa vorresti da me?
-Io? Nulla.
-Ragazza, non mentire. Io so tutto.
-No lei non sa nulla. Io voglio solo andare a casa mia e…
-… E invece no. Se tu avessi veramente desiderato tornare a casa non saresti arrivata qua.
-Ma io non so come ci sono arrivata.
-In cuor tuo lo sai.
-Non è vero.
-Siediti lì, parliamo.
Disse l’uomo indicando un luogo sulla sabbia.
-Bene. Ora che siamo comodi, dimmi cara: che cosa non va nella tua vita?
-Assolutamente nulla. Ho una vita completamente normale.
-Appunto, mia cara. Sei stanca della tua vita, vero?
-Bè un po’… In effetti a volte…
-… A volte vorresti lasciare tutto alle spalle, ma non è possibile. Giusto?
-Sì…
Quell’uomo sembrava capirla e Nadia iniziava a non poter fare a meno di quello sguardo dolce,
scuro, profondo e sicuro.
-E invece è possibile. Loro- disse indicando branco di uomini intenti a pascolare alghe sulla riva- ce
l’hanno fatta.
- Ma sono… Che ne so… Dei pazzi?
-Sono persone che, come te avevano una vita normale che si sono lasciati alle spalle.
-Ma come si sono ridotti?
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-Sono bellissimi, non trovi? Non vedi la gioia trasparire dai loro volti, la libertà sudare da ogni poro
della loro pelle? Trovi nei loro occhi una qualche preoccupazione
-No, ma…
-Non sono pazzi… Erano mendicanti di sogni. Come te, del resto.
-Io?
-Si tu. Qui possono solo venire bisognosi.
-Bisognosi di che?
-Di sogni. Di questa.
Tirò fuori quella che assomigliava ad una caramella arancione.
-Cosa sarebbe?
-La tua via di fuga. La tua unica speranza.
-Droga?
-Sogno. Un sogno che diventa realtà. La droga ti rende schiava, questa ti renderà libera.
-Libera di pascolare alghe sulla riva?
-Di fare qualsiasi cosa.
-No grazie, preferisco…
-Preferisci studiare, poi cercare lavoro, avere un figlio, soffrire, morire, dormire, sognare, forse, un
paio di volte. Piatto. Oltre quel cancello c’è la piattezza. In questa caramella dolcissima c’è un
sogno: il tuo.
-Bè…
-Guarda quegli amici, stesi sotto quelle palme.
-Cos fanno?
-Quello che tu non potrai fare mai.
-Cioè?
-Loro non hanno fretta… Rubano al giorno un po’ di notte, al sonno un po’ di divertimento e…
Dormono beati, senza pensieri. Senza ansie. Prendi questa
Disse porgendole la pillola.
In quel regno incantato, le convinzioni ferree di Nadia si sgretolarono: al di là di quel cancello solo
piattume, malinconia, noia. Le sembrava ormai un altro mondo. Tutto ciò che più desiderava stava
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sul palmo di quella mano morbida e abbronzata, che le porgeva quel signore sorridente: certi treni
passano una volta sola, pensò lei.
Lentamente prese la pasticca nella sua mano, la strinse forte. Un bel respiro, voleva imprimersi
nella mente il momento della Liberazione. Infine la caramella scivolò dolce nella sua bocca.
Esplosione di colori, grida, balli, alghe, acqua, caldo, freddo, sole, luna, amore. Libera. Schiava.
Radici tagliate. Niente da ricordare, da rimpiangere, da sognare. Schiava della sua gioia, della sua
libertà.
Pur sempre schiava.
Un eroe
Vietnam, 1968.
-Qui 17°. Abbiamo fatto saltare il ponte 1. Voi avete concluso?
-Qui 22°. Negativo, stiamo minando il ponte 2.
- Va bene 22°. Posizione musi gialli?
-Cinque kappa emme ad est del fiume. I vostri?
-Si stanno dirigendo verso il vostro ponte da quando hanno sentito l’esplosione.
-Quanto ci metteranno ad arrivare?
-Venti minuti, forse meno.
-Ok.
-Ci vediamo al campo, 22°.
- Roger, passo e chiudo.
Il capitano Ken Smith del 22° interruppe la trasmissione radio. Dovevano sbrigarsi a far
saltare quei dannati ponti o i Vietcong in mezz’ora sarebbero arrivati al campo e li
avrebbero fottuti. Senza ponti li avrebbero costretti a guadare il fiume, impresa lunga e
faticosa a causa, anzi, grazie al diluvio che stava lavando via il sangue da quel paese. Gli
americani avrebbero guadagnato ore preziose per ricevere i rinforzi.
-Ben, quanto cazzo ti manca? Non abbiamo tutto il giorno !!!
-Ho finito capitano. Dobbiamo solo allontanarci e fare salta…
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Si interruppe senza un motivo. Il tempo si fermò, per qualche istante, forse per minuti,
forse per ore e infine un rivolo di sangue scivolò piano dalla bocca del soldato Ben
White, che si afflosciò a terra come un piccolo e fragile fuscello staccatosi brutalmente
da quel grande albero che è la vita e dal vento portato in quell’inferno.
-E’ l’avanguardia !!!
Gridò Smith, lanciando una granata e aprendo il fuoco, imitato dai suoi uomini.
-Non c’è tempo da perdere. Vado a prendere il detonatore e lo facciamo saltare.
-Capitano, e il corpo di Ben?
Obbiettò un soldato. Il superiore rifletté qualche istante poi, imitato dagli altri, si tolse il
cappello, scaricò il suo fucile e sparò alcuni colpi a salve.
- Si meriterebbe molto più, ma non lo si può trasportare. Lo farò saltare col ponte: non
cadrà in mano nemica.
Resi questi onori corse verso il cadavere cercando il detonatore: non lo trovo.
-Dove cazzo è il detonatore !?
-Ce l’aveva in mano Ben, prima di …
-Oh cazzo.
-E’ scivolato nel fiume.
-Cazzo.
Ripeté il capitano. Poi disse:
-Bisogna farlo saltare con la miccia. Devo rimanere su questo ponte.
-Possiamo fare l’estrazione con le cannucce, capitano.
-Branco di deficienti, non l’avete ancora capito che abbiamo appena ammazzato
l’avanguardia dei Vietcong? Questo significa che il grosso ci piomberà fra capo e collo a
momenti.
Silenzio. Tutti si guardavano in faccia senza il coraggio di parlare.
- Jack Miller, ti nomino capitano del 22° fino a nuove disposizioni del comando centrale.
Ora muovetevi, cazzo !!!
Urlò il capitano. Quando gli altri se ne andarono, trascinò il cadavere di ben sopra ad una
carica di dinamite. Non diede fuoco alla miccia, ma dalla tasca del suo giubbotto spuntò
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fuori il famoso detonatore. Chiuse gli occhi e premette il pulsante. “Meno male, non ce
l’avevo ancora fatta” pensò il capitano. Poi pensò qualcos’altro, ma l’esplosione coprì
quel pensiero. quell’ultimo pensiero.
New York, sei mesi prima.
- Smith, Ken.
Chiamò una voce. Ken entrò nello studio dell’ufficiale del servizio di leva volontaria.
-Buongiorno
-Buongiorno, signore.
-Ho analizzato attentamente la tua richiesta di entrata nelle forze armate per andare nel
Vietnam.
-Bene, signore.
-E- Continuò come se non lo avesse neppure sentito- Non posso fare altro che rigettarla.
I due si guardarono negli occhi.
-Signore, io ci devo andare.
-Non puoi, temo.
-Non potrebbe fare qualcosa, signore?
-Lo sto già facendo, ragazzo: ti lascio vivere serenamente quello che ti resta.
-Io non voglio, signore
-Prego?
-Non voglio morire qua, in un letto di ospedale, signore.
-Senti ragazzo, la tua cartella clinica parla chiaro: hai sette mesi, otto al massimo, da
vivere …
-Si, ma lo sappiamo solo io, lei e il dottore che mi ha diagnosticato il tumore, signore
-Quindi?
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-Quindi i miei genitori e mia moglie non lo sanno. A loro ho raccontato che è tutto a
posto, che c’era stato uno scambio di cartelle, signore.
-Ebbene, dica loro la verità.
-Non ho intenzione di farlo, signore.
-Come desidera. Ma in tutto questo cosa c’entrano le forze armate degli Stati Uniti?
-Niente, signore.
-Esatto e noi non accettiamo pazienti terminali, temo.
Disse prendendo lo stampo per certificare la non idoneità.
-La prego, non lo faccia, signore.
-E perché no? Non preferisci morire in famiglia invece che come un
quell’inferno?
cane in
-No . Voglio che mia moglie, e fra otto mesi mia figlia, piangano un eroe, non un
bugiardo.
L’ufficiale guardò quegli occhi morenti. Li penetrò con lo sguardo e timbrò: “Idoneo”.
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Fruscio
Un bzz di finestrino che scende, la voce piena di eccitazione, numeri disegnati dalle
mani nell’aria, segni di diniego col viso, poi gli occhi indugiano rapidi un poco sotto e
quindi di assenso col mento e con la bocca bagnata dalla lingua.
Un ciak-ciak, poi un pum discreto: sono dentro.
\Qualche bestemmia: dov’è quella cazzo di levetta? Trovata! E che cazzo, era ora! Poi
silenziosi scendono i sedili.
Per la Madonna, siamo in mezzo alla strada, accosta di più.
Sì, cazzo hai ragione.
Un sedile sale ancora. Poi un frettoloso accendersi della macchina, rapido si gira il
volante e poi stridio sommesso di freni.
Silenzio d’eccitazione, poi come belve le mani sul cappotto che vola di dietro: sotto non
c’è niente.
Fruscio di gambe che si aprono, hai dieci minuti. Corpo di pietra sotto, corpo di fremiti
sopra. Sì, oh sì, oh sì, oh sììììì. Bene, hai fatto. Sì, ma ho altri cinque minuti, porca troia.
Va bene. Rianimazione del membro immediata, entra in bocca. Su e giù, ci pensa da sé.
Mascella di marmo. Poi viene ancora. Ingoia, puttana. Mhbff-fatto. Tempo finito. Ecco i
soldi, adesso esci puttana.
Giù dalla macchina. Fa freddo fuori.
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Poi i fari di un’altra automobile ad illuminare la mia vita: adesso no, non lo faccio più,
questa è stata l’ultima.
Poi le luci di quella macchina mettono in ombra la dignità e si gettano come lupi sulle
lacrime, sulle piaghe di dentro e sui lividi di fuori.
Ancora fruscio di gambe aperte per non udire il tonfo d’un bastone sul volto.
LE GLORIOSE IMPRESE DI TESEO
Proemio ( cioè invocazione alla musa e alla pietà del lettore) :
Cantami o Diva dell’Egeide Teseo le fulgide imprese, l’effimera gloria e la morte
impietosa, così come il volere del Fato decretò.
Nelle mille furbizie, virtù e vizi del prode Re d’Atene, conducimi o Dea immortale; tu
che puoi dare ispirazione ad ogni aedo e ad ogni cantore, te ne prego, sussurra qualche
parola nelle mie orecchie (per il sacrificio poi ci mettiamo d’accordo N.d.A.).
Passano le lune negli occhi di ragazzine in calore e i fiumi si prosciugano sotto i ponti,
ma della tua soave voce, cara Calliope, non n’è giunto neppure l’eco.
Dato che questa mia preghiera pare inascoltata e poiché questa mia Musa insolente
avrebbe in ogni caso lasciato tutta la fatica dello scrivere, il tuo dileggio, il tuo sputo e le
monetine che lancerai, pur intascandone una buona parte, a me soltanto, credo che
continuerò io solo quest’opera tutt’altro che ispirata.
Sappiate, voi che leggete, che questo non è un tentato omicidio, ma un tentato romanzo
del capro sottoscritto.
Può un cervello ruminante come il mio elaborare trame malefiche con lo scopo cavare
gli occhi e/o la salute mentale ad un ignaro lettore? No. Dunque, se non vi ho già fatto
perdere la voglia, continuate a leggere senza troppa paura per i vostri lobi oculari o per la
vostra mente.
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Ora, caro lettore temerario che ancora non hai chiuso questa modesta opera, a noi tre:
me, te e Teseo.
Capitolo I- Notte prima della grande prova
Alla pallida luce della luna, due corpi nudi erano distesi sulla spiaggia. Codeste scorze
mortali potevano fregiarsi di appartenere a nientepopodimeno che alla principessa di
Creta, Arianna. e al principe ereditario di Atene, Teseo.
Questa unione in un altro periodo storico sarebbe stata l’emblema della “distensione”,
infatti, Atene e Creta avevano combattuto aspramente anni orsono. Poiché il Fato volle
concedere la vittoria a quest’ultima, la prima venne costretta a mandare, ogni anno, sette
giovinetti e sette giovinette sull’isola come pasto al Minotauro, mostruoso figliastro di
Minosse, re della città vincitrice.
Giunta all’amplesso, Arianna ritornò ad essere una ragazza timorata degli dei. Tutta casa
e tempio, per intenderci. Ancora ansimante si stese al fianco del suo amante.
-Ti è piaciuto?
Domandò Teseo
-Ero un po’ tesa all’inizio, sai com’è … La prima volta …
-Si, ma rispondimi: ti è piaciuto?
Per dare più forza alla domanda, le prese il mento fra due dita e spostò dolcemente la
faccia dell’amata verso la sua.
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-Si, molto.
-Bene. Comunque se questa è davvero la prima volta- E qui la penetrò, questa volta solo
con uno sguardo indagatore- sei veramente portata: sei stata una furia!
Lei arrossì violentemente e non rispose.
-Se ti va- Continuò lui- Domani sera possiamo rifarlo.
Gli occhi di lei si riempirono di lacrime; lui la abbracciò teneramente e sussurrò:
-Amore, l’ho buttata là, così, si fa per dire … Ma se non ne hai voglia fa lo stesso.
“Invece non fa lo stesso, per Zeus. Se non me la dai mi incazzo per davvero: non sono
mica venuto a Creta per respirare l’aria buona. E smetti di piangere, santo cielo: hai
goduto come una porca e non ti ho neanche bucata dappertutto”
Pensò lui, dall’animo ben più impietoso di quanto lasciasse trasparire dai suoi gesti e
dalle sue parole.
Lei ancora in singhiozzi gli rispose:
-Amore mio, domani sera tu non ci sarai più. Fra poche ore andrai dentro il labirinto
come pasto per mio fratello, per quel mostro.
-Tuo fratello è così terribile e mostruoso come si dice?
-Anche di più. E’ alto quanto un tre uomini uno sopra l’altro. Le gambe sono umane, ma
il busto e la testa, così come il cuore, sono di un toro. Le sue corna sono affilatissime e
formidabilmente mortifere: le ha anche fatte ricoprire di bronzo per incutere terrore. A
quanto ne so io, parla solo con grugniti e muggiti. E’ la belva più terrificante che io
abbia mai visto.
Teseo iniziò a spaventarsi, ma non lo diede a vedere e domandò con una certa
spavalderia:
- Com’è possibile che tu sia la sorella di una siffatta creatura?
-Perché mia madre è una depravata e una pervertita: In quel periodo lo scettro e la
corona di mio padre diventavano sempre più potenti, ma per ciò che sta sotto la cintola
stava avvenendo il processo inverso. Così quella zozza, non essendo più soddisfatta dal
marito, pensò bene di unirsi con un toro … Un toro vero!
-Per Atena, che scempio!
-Ecco vedi? Devi fuggire di qui, mio amato!
-E come potrei fare?
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-Non lo so, ma devi farlo!
L’offerta lo allettava assai, ma senza un piano non sarebbe uscito vivo da quella
fortezza, se avesse tentato di fuggire.
L’ansia attanagliava il suo cuore, quella di andare lì era stata la sua più grande
stupidaggine.
O meglio, non andò esattamente così come verrà raccontata da tutti gli aedi: la sua
“eroica” decisione di partire fu dettata da quella sgualdrina credulona che spifferò tutto.
Ora ti spiegherò bene come andò. Un paio di notti prima della fatidica partenza per
Creta, la gioventù ateniese si divideva in due grandi fazioni:
Gli uni si chiudevano a pregare e a fare sacrifici nei templi, implorando di non essere
estratti per diventare il dessert della bestia.
Gli altri giovinetti si segregavano invece nei talami, certo non per dormire soli: “In
fondo”, pensavano, “Se dobbiamo crepare sotto i denti di un toro, ciò è già stato scritto
nel fato, quindi, tanto vale godersi quel che resta da vivere”.
Come avrai certo intuito, la ragazza colpevole della partenza di Teseo apparteneva alla
seconda categoria. Orbene ella era assai vogliosa, ma anche tesa per il fratello e se
stessa. Talmente preoccupata da non riuscire a far l’amore. Poiché le preoccupazioni la
rendevano, agli occhi di Teseo, ancora più bella, mentre erano distesi a letto e lei era
molto simile ad una statua di marmo, l’eroe pensò bene di farle una promessa per
scioglierla:
-Cara, ti giuro che non accadrà mai più questa orrenda strage: io, Teseo, principe
ereditario di Atene, giuro che domani partirò con i miei giovani compatrioti per uccidere
la belva feroce e porre fino a codesto scempio. Lo giuro sugli dei e sulla testa di mio
padre.
Lei, felice e contenta si sciolse e per quella notte non ci furono problemi, che sorsero
però con l’avvento dell’aurora: la ragazza spifferò tutto e nel giro di poche ore il
giuramento solenne del principe, passando anche per i latrati dei cani, giunse
all’orecchio del re Egeo.
Quest’ultimo era combattuto da due sentimenti: da una parte l’ammirazione per il
coraggio del figlio, che già si era distinto contro alcuni briganti, e il desiderio che egli
ottenesse sempre più gloria, dall’altra il timore che il primogenito non tornasse più da
quella che sembrava un’ impresa disperata.
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L’istinto paterno gli urlava nelle orecchie di tenersi il figliolo stretto e di abbracciarlo
,ma lo scettro era sempre più pesante e gli impediva di fare qualsiasi cosa fuorché
consegnarli una vela bianca, oltre alla nera per lutto in dotazione alla nave, con l’ordine,
che sapeva di supplica, di issarla qualora fosse tornato vivo e la raccomandazione di
vender cara la pelle … E la carne!
-Padre- Disse Teseo pentitosi della bravata- Se questa mia scelta ti arreca dolore, io non
partirò.
-Figlio mio, questa tua decisione è per me ben più dolorosa di una pugnalata in cuore;
tuttavia io conosco e apprezzo il tuo desiderio di gloria e mi auguro che tu riesca
nell’impresa.
Rispondeva con un sorriso tirato il buon Egeo
-Padre, l’ultima cosa che voglio è saperti sofferente: il mio desiderio di gloria viene dopo
la tua felicità, quindi, resterò.
-No, non pensare a me: parti.
Quel tira e molla, davanti a tutti i dignitari della città, stava diventando ridicolo per
entrambi, dunque, al calar del sole, sette fanciulli, sette fanciulle e il principe Teseo, che
tentava di ostentare un atteggiamento più eroico di quello che gli sarebbe venuto naturale
in quel momento, salparono alla volta di Creta.
Da quel fatidico momento era appena passata una giornata e di lì a poche ore sarebbe
stato sbattuto dentro al labirinto.
Vista l’impossibilità della fuga, pensò a come uscire vivo da quella struttura immensa:
-Cara, hai qualche consiglio da darmi per uccidere tuo fratello?
-Non sono esperta nella lotta, amore mio. Tuttavia, anche se tu dovessi riuscire ad
ammazzarlo, non potresti uscire da quella costruzione: mio padre fece costruire il
labirinto dal grande architetto Dedalo, che edificò un palazzo pieno di svolte, vicoli
ciechi e diavolerie varie. Basta imboccare una via sbagliata e sei spacciato. Qui invece ti
posso aiutare.
-E come?
Lei sciolse dolcemente l’abbraccio e si diresse verso il punto dove aveva lasciato le sue
vesti, le scostò e prese un gomitolo di lana.
-Entrerai con questo gomitolo- Disse lei- Mano a mano che ti addentrerai nel labirinto lo
srotolerai e, se vincerai lo scontro col mio fratellastro, lo riavvolgerai su se stesso,
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ritrovando così la strada per l’uscita. Fuori dal labirinto ci sarò io, che terrò l’altro capo
del filo.
Ora questa mia Musa impietosa, nonostante le rinnovate preghiere ed i sostanziosi
sacrifici, non vuole dirmi se Teseo accettò questo dono della concupita perché credeva
che gli sarebbe stato utile o per la disperazione di chi non vede appigli e si aggrappa
anche al più piccolo sperone di roccia, pur di attutire la caduta.
Indipendentemente da quelle che furono le motivazioni di Teseo, possiamo affermare
con ragionevole certezza che prese il gomitolo e che gli fu molto utile in un futuro
prossimo.
Capitolo II- Il Minotauro
Distogliamo ora lo sguardo dalle sempre più stanche e nervose effusioni dei due
giovincelli e spostiamolo, anche se non di molto, dentro ad una enorme costruzione
vicino alla spiaggia privata di Minosse.
Questo enorme palazzo risponde al nome di labirinto, per la cui descrizione rimando
sopra.
Non aveva finestre, ma piccole fessure dalle quali l’aria poteva entrare. Una di queste,
col passare del tempo e delle intemperie, si era allargata fino a permettere di vedere ciò
che accadeva fuori. Il Fato volle che questa improvvisata finestrella desse proprio
sull’improbabile talamo di Teseo e Arianna. Sempre la sorte volle che, durante la notte
movimentata dei due, un occhio non proprio umano si posò sull’apertura e vide, pur
senza udire le parole dei due giovani, ogni cosa accaduta sulla spiaggia.
Quel lobo oculare aveva l’onore di appartenere a nientepopodimeno che al celeberrimo
Minotauro.
La descrizione che la sua dolce sorellastra aveva fatto al nuovo amato non corrispondeva
del tutto alla realtà:
il “mostro” era alto quanto un uomo di alta statura e ben piazzato. Il torace e le gambe
erano molto pelose e in testa aveva due grosse corna bronzee: tutto ciò riconduceva alla
sua paternità taurina, ma anche alla sua dignità regale.
Il Minotauro, stanco di fare il guardone, tornò nella stanza centrale della sua prigione. Al
fioco lume delle torce, l’ambiente circolare appariva piuttosto comodo: qualche trono di
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legno attaccato alla parete, delle anfore e soprattutto grandissime librerie piene di
pergamene e di papiri dall’Egitto. Cosa assolutamente improbabile per un mostro che
parla solo con muggiti.
Anche quest’ultimo mito venne sfatato poco dopo, quando iniziò a parlare:
-Oh anima mia infelice! Avrò pace un giorno? Partorito per disgrazia, cresciuto per
obbligo, disprezzato, maltrattato e rinchiuso in questa prigione da mio padre, il tutto
nell’indifferenza e nel disgusto di mia madre. Tacciato come mostro in tutta l’Ellade,
temuto dai fanciulli non solo d’Atene, ma anche da quelli dei popoli barbari.
Ridicolizzato dalle madri come spauracchio per salta fossi birichini. Dipinto come una
belva senza intelletto e senza cuore da ogni poeta.
Sono stanco di questa prigionia, di questa condizione inumana, di questo mostruoso
trattamento. Quanto vorrei farla finita. Non che non ci abbia provato, ma all’ultimo
momento, quando la lama è già puntata al mio collo, l’anima pronta a scendere nell’Ade,
lo sguardo pronto a sfumare nel buio di questo palazzo, la bocca a vomitare sangue…
Ecco la mia mano che, come presa da un fremito irresistibile, s’abbassa e rimane inerte
lungo il fianco.
Oh dei, che banchettate con ambrosia e che di gloria toccaste gli apogei, io che invoco
pietà sono un mostro, nato dalla depravazione di una squilibrata e da un istinto animale;
quella che codesta disgraziata creatura implora non è una grazia grande: solo vi chiedo
di poter volare via, anche senza questo corpo atroce. Di poter fuggire da questa prigione,
da queste barbarie che faccio per sopravvivere in questa mia indecente esistenza: stronco
giovani vite di innocenti.
Forse questo ragazzo focoso, Teseo, è il segno che avete accolto le mie suppliche?
Questo giovane uomo, all’apparenza così spavaldo e coraggioso, sarà in grado
finalmente di uccidermi? Me lo auguro per lui e per Arianna: non mi lascerò mai
sconfiggere volutamente, è contro la mia natura. Spero quindi che riesca a battermi: non
voglio che mia sorella venga privata di un altro affetto, tantomeno per causa mia.
Povera ragazza, sembra che le sue disgrazie non possano mai avere fine: prima io, suo
fratellastro mostruoso e pericoloso. Poi, qualche anno fa, nostro fratello Androgeo,
vincitore delle olimpiadi in tutte le gare, lanciato verso la gloria eterna, venne ucciso
così giovane dagli ateniesi, invidiosi della sua bravura. Per questo il mio patrigno,
Minosse, attaccò Atene, la vinse, e la costrinse a mandare il suo orrendo tributo qui, fra
le mie orrende fauci.
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Ecco le tue disgrazie, oh Arianna, che fra poche ore, per causa di questo suo atroce
fratello, potrebbe perdere anche il suo ultimo affetto, il suo primo amore !
Ah infelice sorella, vorrei tanto aiutarti: non mi hai mai parlato, mai guardato, eppure io
so che tu mi vuoi bene e anch’io te ne voglio. Ciò mi fa doppiamente soffrire: vedo una
persona cara così impaurita, così angosciata per colpa mia, ed io non ho la possibilità di
aiutarla.
Eh, vita mia crudele: cosa ho fatto di male?Senza neppure essersi accorto di aver dato voce ai suoi pensieri, in quanto la solitudine
lo aveva spinto a parlare anche da solo. Anche coi suoi pensieri.
Si diresse tranquillo verso uno scaffale, dal quale prese una cetra e iniziò a suonarla:
lentamente note drammatiche vibravano nelle corde e si propagavano nel labirinto.
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Capitolo III- Le lacrime amare di Arianna
Nel frattempo negli appartamenti reali, la principessina Arianna era già stata ricomposta,
pulita, profumata e vestita dalle sue schiave che, su suo ordine, la lasciarono sola.
Una volta in solitudine, si avvicinò al grande specchio nella stanza, vi si sedette di
fronte, prese un pettine di corno e iniziò a passarselo fra i dolci boccoli biondi: un modo
come un altro per pensare.
Notte dolce, notte scura, notte amara.
Nel palazzo aveva tutto, eppure, affacciandosi dalla sua finestra e guardando il mare, le
sembrava così dolce morire fra quelle braccia scure e forti. Già con l’accenno d’un
sorriso sulle labbra, immaginava la sua anima scivolare, affondare, nuotare per il mare
fino a sfociare nello Stige.
Proprio quando stava per issarsi sul davanzale per gettarsi nel regno di Poseidone, la
schiuma delle onde sembrava disegnare sullo specchio dell’acqua l’immagine del suo
grande amore, ancora sconosciuto.
Ora, quell’immagine tante volte veduta nel mare sembrava aver preso vita in Teseo:
l’eroe che la libererà da Creta, da suo padre e da suo fratello.
-Oh, Teseo, Teseo, Teseo … Il mio cuore battendo sembra scandire il tuo nome, sillaba
per sillaba ed io me ne sono accorta solo ora: misera me, che ho vissuto una sola notte
d’amore, poiché, io lo so, il mio tesoro non sopravvivrà allo scontro con il Minotauro.
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Ah mostro bastardo, belva feroce: tu, fratellastro mio, non sai fare altro che uccidere e
mangiare carne umana. Sei rivoltante, lo sei sempre stato. Ora non ti accontenti di
popolare i miei incubi col tuo muso orrendo che si alza, grondante di sangue e vomitante
di carne umana, dal ventre di uno di quei poveri ragazzi che sbrani ogni anno. No, non ti
basta questo: adesso vuoi anche uccidere il ragazzo che amo!
Teseo, amore mio, ti chiedo, ti prego, ti supplico di liberarmi da quella fiera crudele e di
portarmi via con te ad Atene o ovunque tu voglia andare. Io sarò sempre al tuo fianco, in
ogni luogo, in ogni burrasca, in ogni difficoltà, te lo giuro! Io ti amo, ti amo come non
ho mai amato nessuno. Pensando a te il mio stomaco sembra riempirsi di insetti
svolazzanti, le gambe tremare, i capelli fremere , il naso sentire il tuo odore, la bocca
baciare le tue labbra.
Mio povero amore, lo so bene, tu non sopravvivrai allo scontro di domani. Oh padre
mio, re di Creta, a lungo t’ho implorato di lasciare libero Teseo, al posto suo avresti
potuto mandare uno, anche due, schiavi. Nessuno avrebbe provato dolore, né patito la
loro mancanza: ce ne sono tanti di quei figli di nessuno. Invece tu hai detto di no, no, no,
testardo come tuo solito, brutale come solo tu ne sei capace. A volte credo che quella
dell’unione di un toro con mia madre sia solo un’invenzione: quel mostro può essere
opera tua, infatti, il carattere crudele è all’incirca lo stesso. Quanto alle corna, bè, sono
assai stupita che non ti sia ancora cresciuto un palco degno d’un cervo adulto.
Ti odio Minosse, padre malvagio. Ti odio Minotauro, mostro bastardo.
Eh, vita mia crudele: cosa ho fatto di male?
Così dicendo (era solita parlare da sola) si portò, molto teatralmente, una mano sulla
fronte e si lasciò cadere sul bellissimo letto, affondò la testa nel morbido cuscino e
Morfeo la accolse fra le sue braccia ristoratrici, che lavano via ogni male.
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Capitolo IV- Il concilio degli dei
Suono di cetre, canti di muse, rumori di stoviglie e chiacchiericcio: gli dei a congresso
gozzovigliavano allegri a banchetto.
Il nettare scorreva a fiumi, bagnando le bocche già colme d'ambrosia.
Quando gli stomaci divini furono ben pieni di ogni vivanda, Zeus, dio del tuono e re
dell'Olimpo, s'alzo e disse:
-Fratelli, sorelle, figli, figlie, cugini, cugine, nipoti, amanti e colleghi carissimi. Ora che
siete sazi e che il nostro vino divino vi ha sciolto le lingue e le menti, credo sia bene
iniziare a pensare a quei disgraziati che vivono alle pendici di questo nostro monte
fatato.
Udendo quelle parole tutti tacquero e, come per miracolo, le stoviglie sparirono,
lasciando il posto a scudi lucentissimi. I più grandi erano posti lungo le pareti, gli altri,
poco più larghi di un piatto, stavano davanti ad ogni posto occupato da un dio.
Tutte le ninfe, che servivano come ancelle, si ritirarono e nella stanza scese una
sensazione di incredibile solennità.
Ahimè, lettore mio, non posso descriverti in modo particolareggiato gli dei, poiché
questa mia musa premurosa e impietosa al contempo, non mi regala nulla se non una
loro visione sfocata. Posso tuttavia sentire benissimo e capire, come per magia, il nome
di colui o di colei che parla.
-Come alcuni di voi sapranno- Proseguì il Cronide - Quattordici ragazzi ateniesi sono
arrivati a Creta come tributo per il Minotauro, figliastro di Minosse. Quest'anno …
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-E' uno scempio, padre mio! Bisogna immediatamente fermare tutto questo!
Lo interruppe, gridando, Atena, dea della saggezza e patrona di Atene.
-Taci, sorella. Uno spargimento di sangue è sempre l'ideale per rallegrare qualche
giornata estiva. Sei accecata dall'amore per la tua città
La zittì Ares, dio della guerra.
-Ha parlato il filo-spartano! Capisco il tuo nervosismo, fratello mio adorato. Immagino
che ricevere sacrifici decenti solo da barbari bestiali come quegli spartani che ti amano
tanto, sia frustrante...
Lo canzonò la dea patrona d'Atene.
-Come stanno quei filosofi effeminati che ti erigono templi? Appagano il tuo desiderio di
attenzioni? Eh, mia povera sorella, immagino sia deprimente essere adorata solo da
qualche intellettualoide senza attributi, quanto mi dispiace per te...
Disse rispondendole per le rime il dio guerriero.
-Brutto leone spelacchiato ignorante! Come ti permetti?! Gli ateniesi non sono …
-Silenzio!
Li interruppe il padre di tutti gli dei.
-Smettetela di litigare come dei bambini mortali- Continuò Zeus- Ora, come stavo
dicendo, i fanciulli sono giunti ad Atene. Quest'anno, tuttavia, non sono soli: con loro
c'è il principe d'Atene, Teseo.
Alla notizia, nella sala, si levò un brusio, subito soffocato da uno sguardo del re degli
dei.
-Fra poche ore il figlio di Egeo entrerà nel labirinto. Un evento del genere, sarete
d'accordo con me, merita senz'altro la nostra attenzione: verranno cantate per i secoli a
venire le imprese che accadranno al sorgere dell'aurora. Per farci un'idea più dettagliata
di ciò che sta avvenendo e che è avvenuto circa questo caso, useremo il nuovo
prodigioso marchingegno del nostro miracoloso fabbro, Efesto- Il dio citato chinò il capo
in segno di ringraziamento- Prego quindi le ninfe addette di azionarlo.
A quelle sue ultime parole, come d'incanto, gli scudi precedentemente posti lungo le
pareti e le tavolate si illuminarono come di luce propria e iniziarono a proiettare
immagini e suoni, che narravano le vicende che la mia musa m'ha ispirato di dirvi
qualche minuto fa.
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I sentimenti degli dei erano molto vari guardando quelle scene:
pianti, risate, schiamazzi, grida sguaiate, battute sarcastiche, silenzi assordanti e parole
mute.
Qualcuno, come Dioniso, reso arrabbiato dal vino e invaghitosi di Arianna, iniziò a
inveire contro Teseo, prospettandogli morti dolorosissime, ognuna diversa dalla
precedente, e sciagure infinite.
Anche Poseidone, che mal reggeva l'alcool, venne attratto dal fascino della principessa
di Creta, dicendosi pronto ad accoglierla come regina nel suo regno. Questa
dichiarazione, come prevedibile, diede il via ad una rissa verbale fra il dio della vite e il
re del mare, subito placata da Zeus, che dovette nuovamente prendere la parola:
-Ora, insigni familiari e colleghi, è necessario decidere il da farsi. Personalmente
propongo di accogliere le richieste di tutti e tre i mortali. Chi è contrario?
Vuoi per l'assennatezza della proposta, vuoi per la poca fiducia nello spirito democratico
del re degli dei, nessuno si disse contrario.
-Bene- Proseguì soddisfatto il dio non vedendo mani alzate- Direi che la mozione è stata
approvata all'unanimità. Andrei a vedere la situazione ad Atene.
Una voce fuori campo annunciò- Hermes chiede la linea, mio signore.
-Ok perfetto. Linea ad Hermes, in diretta da Atene.
Sugli scudi apparve l'immagine del messaggero degli dei, che aveva una faccia
decisamente contrariata:
-Buonasera, divini colleghi. Mentre voi stavate banchettando con nettare e ambrosia, io
mi sono dovuto camuffare da pastore puzzolente e cenare con una fetta di formaggio
ammuffito e del pane raffermo. Senti, Zeus, questa situazione inizia a stufarmi.
Comunque, eccovi le notizie: in città il morale è basso. Sono tutti convinti di stare per
perdere il loro principe, il re è il più preoccupato. Da quando è partito suo figlio, Egeo si
consuma sul balcone che dà sul mare, aspettando di vedere la nave tornare, auspicando
di non avvistare le vele nere in segno di lutto.
Fuori città alcuni boscaioli stanno già iniziando ad accatastare legna per la pira funebre,
qualora si riuscisse ad ottenere il cadavere di Teseo.
Da Atene è tutto, linea all'Olimpo.
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-Grazie caro.- Rispose dolcemente Zeus-Ti prometto che entro due secoli penserò ad
una revisione delle tue mansioni.
Ora dobbiamo agire: abbiamo solo poche ore. Atena, figlia mia, ho già provveduto a fare
addormentare il principe d'Atene. Tu entra nel suo sogno e ispiragli fiducia. Al resto
provvederà il Fato.
La dea obbedì al padre: scese dall'Olimpo e saltò nel sonno popolato da tori mostruosi
del prode eroe Teseo.
Cap. V - Il risveglio di Teseo
I primi raggi di sole penetravano nella stanza di Teseo.
Le camere da letto dei tributi ateniesi erano singole e molto confortevoli. Forse per fare
godere loro l'ultima notte o per semplice senso di ospitalità: non mi è dato saperlo.
Il figlio d'Egeo si risvegliò da un sonno incredibilmente ristoratore. La paura e
l'angoscia della notte precedente erano svanite, lasciando il posto ad un confortevole
senso di sicurezza e di determinazione.
Tutte queste sensazioni sembrarono brillare come una stella nel cielo scuro, quando
Teseo entrò nella sala comune degli “ospiti”, dove dei servi distribuivano loro una
abbondante colazione- forse per renderli più appetitosi: gli altri giovani sedevano afflitti,
con gli occhi lacerarti dalle occhiaie e ustionati dalle lacrime, con le bocche mute che
invocavano invano la mamma e le cere pallide, mentre l'Eroe aveva dormito benissimo e
si sentiva capace di spaccare una montagna con una sola mano. Questo contrasto gli
conferiva un aspetto e un portamento principesco, perlomeno in mezzo a quella folla di
disperati.
Preso da un coraggio non suo, l'Egeide salì in piedi su di un tavolo e, sempre con un
carisma che puzzava di Atena, iniziò a parlare:
-Compagni! In quest'ora fatale segnata dal destino, gli dei ci chiamano a rivendicare ciò
che ci spetta di diritto e che loro ci hanno dato nel momento in cui noi tutti nascemmo: la
libertà e la vita.
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L'orrida belva che si nasconde nel labirinto non ha il potere di toglierci tutto ciò, e per
questo noi combatteremo fino allo stremo, finché le gambe non cederanno, fino al
momento in cui l'alito della vita non uscirà dalle nostre bocche per guadare lo Stige!
Ciò detto sguainò la spada, la puntò diritto davanti a sé e proseguì:
-Vi giuro miei prodi che questa mia spada affilata trapasserà la carne del mostro e lo
ricaccerà nel Tartaro! Io, vostro principe, vi difenderò fino a che avrò sangue in corpo,
poiché ogni palpito del mio cuore è dedicato alla nostra Patria!
La fiera crudele che ci accingiamo a combattere possiede forza bruta, ma è un essere
ottuso e stupido: la sua mente sottosviluppata non potrà reggere il confronto con le
nostre.
Ora, compagni miei, avanti: seguiamo la fugace avventura e addentriamoci nel labirinto
senza timore, poiché gli dei sono con noi!
Il prode eroe Teseo concluse il discorso incerto sul significato delle locuzioni “Palpito
del mio cuore” e “In quest’ora fatale segnata dal destino”, forse provenienti dal ben più
fornito vocabolario ispiratogli a sua insaputa da Atena.
Mentre il dubbio gli attanagliava la mente, la sala si riempiva di applausi e di grida di
giubilo per il loro grande principe, che impettito stava scendendo dalla tavola per
dirigersi al salone dove erano attesi i tributi: l'anticamera del labirinto era ad ogni passo
più vicina.
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Cap. VI- Il lamento del Minotauro
Udita attraverso una fessura del muro l'orazione del prode eroe, il Minotauro tremò
d'indignazione:
“Quell'illetterato, quello sbarbatello che ha una posizione solo per il suo sangue reale,
quel buono a nulla semianalfabeta, come osa dire che io sono una bestia stupida e
ottusa? Come diamine si permette? Io ho letto e studiato Omero, Euripide, Apollodoro,
Platone, Sofocle, Tucidide, Eschilo, Zenone e compagnia, mentre lui difficilmente potrà
comprendere le favolette di Esopo!
Furente si allontanò dallo spioncino nascosto e iniziò a passeggiare per il labirinto, fino a
trovarsi nel centro dell’edificio, si sedette su una sedia, appoggiò con aria pensierosa un
gomito sul ginocchio e pose il muso sul pugno chiuso di quel braccio.
Con voce tragica e frustrata parlò:
-Dei immortali, semidei gloriosi, uomini senza peccato, ascoltate questa mia preghiera,
questa mia maledizione.
Prima di scivolare lentamente nel gelo della morte arida e non compianta che m’attende,
voglio che i numi siano testimoni del rancore che serbo per tutti voi che vivrete ancora,
poiché per colpa del vostro disprezzo e della vostra cecità io sono esistito per anni in
questa sordida prigione:
chi deriderà il mio aspetto e la mia sconfitta, possa subire dai suoi simili il trattamento
che io ho ricevuto; chi spargerà le mie ceneri in terra maledetta e riprenderà tranquillo il
cammino, giunga anch’egli disperato alla pira col tramonto di fuoco; la madre mia, che
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celerà dietro una falsa lacrima il piacere di non darmi memoria, possa ogni notte trovare
una ruga nuova sul suo bel viso.
Ora invoco te, Teseo, ignorante e stolto, ma coraggioso. Tu mi affronterai assistito dai
numi, ma non potrai vincere questo duello: sarò io a porvi fine come meglio disporrò.
Qualcosa ,però, mi dice che tu uscirai da questo posto. Se così avverrà non abbandonare
mia sorella, l’unico essere che mi abbia mia amato, ne sono convinto.
Adesso, che l’alba è ormai alta, è quasi giunto il momento della verità. Ti aspetto,
principe di Atene: fai in fretta!
Si alzò dal trono, prese una cetra e continuò una melodia iniziata chissà quando…
Cap.VII- La battaglia
Teseo entrò per primo nel labirinto. Con circospezione mosse i primi passi, affidando al
Fato e al filo di Arianna la prima e le successive svolte.
Man mano che procedeva, incontrava di tanto in tanto vicoli ciechi che lo costringevano
a tornare indietro.
In cuor suo ringraziò profondamente la principessa cretese per avergli fornito il suo
aiuto: dopo le prime due svolte non sarebbe stato più in grado di tornare indietro, senza il
suo gomitolo.
Nel buio dell’edificio, l’Eroe provò una malinconia lancinante: una prigione fredda,
umida, senza carcerieri. Solo un detenuto, prigioniero dell’ingiustizia e dell’odio. La
solitudine era palpabile, sembrava perforare il cuore e il cervello, opprimendo i sensi e la
voglia di vivere.
Proprio quando la disperazione diventava schiacciante, una musica proveniente da lì
vicino lo risvegliò.
Si avvicinò. Entrò in una stanza illuminata. Eccolo lì, il terribile Minotauro,
spaparanzato sul trono a suonare la cetra.
Quando vide Teseo, subito si ricompose e si alzò.
-Salve, figlio di Egeo. Quale decreto avverso del Fato ti ha portato in questo sordido
luogo di solitudine?
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-Taci orrida belva. Sono venuto qua di mia spontanea volontà per porre fine all’offesa
che la mia Patria subisce a causa tua.
-Mangerei benissimo della carne bovina, suina o ovina, se me la mandassero. E’
L’istinto di sopravvivenza che mi spinge a mangiare carne umana: non ho abbastanza
forza per lasciarmi morire di fame, ma ho abbastanza autocontrollo da non dilaniare il
tuo corpo, principe di Atene, e di rimandarlo alla tua città affinché vengano officiati gli
onori funebri competono al primogenito d’un re.
-No, tu non manderai il mio cadavere alla mia gente. Sarò io ad avere le tue spoglie:
lontane le porterò da casa tua, e nel mio paese diventeranno pasto per cani e avvoltoi!
Gridò fuori di sé Teseo. Gli dei rabbrividirono: a tutto c’è un limite.
La bestia non si scompose.
-Sei molto coraggioso, eroe Teseo. I miei rispetti.
-Basta con questa pagliacciata! Rivolgi agli dei le tue ultime preghiere, mostro
immondo.
Oh Minotauro infelice! Assai più della Chera di morte che oggi ti vuole, t’uccide forse il
disprezzo di queste parole. Ad ogni mortale, Zeus mesce in egual misura le fortune e le
disgrazie. A cert’uni da più beni che mali, ad altri il contrario. A te, sciagurato, il Padre
degli dei ha dato solo lutti infiniti! L’unica fortuna che hai è forse il tuo essere mortale:
la Parca, tagliando il filo della tua vita, potrà porre fine alle tue sofferenze. Così gli dei
decretarono, misera creatura!
Il silenzio fra i due, riempito solo da occhiate fugaci e feroci, venne rotto da un urlo di
Teseo, che si lanciò verso il semiumano come una furia, brandendo la spada. Il
Minotauro facilmente lo disarmò e lo spinse contro il muro. Il principe non si diede per
vinto e si slanciò a mani nude verso l’avversario, che anche questa volta parò l’attacco,
senza però offendere.
In un’ultima disperata offensiva, l’ateniese impugnò un pugnale e con foga si gettò sulla
bestia. Anche questa volta, il cretese bloccò la mano armata e i visi dei due si trovarono
ad un palmo di distanza:
-Lurida bestia, ebbene sono alla tua mercé, fa ciò che l’istinto tuo animalesco ti
suggerisce!
-Non ti farò del male Teseo, tu sei la mia benedizione. La mia manna dal cielo. Non
capisci?! Gli dei finalmente hanno deciso di liberarmi.
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Prese il pugnale dalla mano dell’avversario e, dolcemente, si trafisse il petto, poi
continuò con voce strozzata:
-Vai Teseo. Ama mia sorella, ti prego: ha bisogno d’amore. Torna a casa e fanne tua
sposa. E infine, se puoi, abbi pietà di questa povera creatura: non disprezzarmi, non l’ho
voluto io tutto ciò. Ti prego, Teseo …
E finalmente l’anima prese il volo, ma ancora non riesce a sognare con noi, misero paria
degli inferi. …
-Cretino! Si è ammazzato da solo… Ma io dico che hanno fatto bene ad internare questo
qui, puha. Tenermi quel gran pezzo di troia della sua sorellastra? Fossi scemo…
Ciò detto, tagliò una corna dalla testa del mostro e, seguendo a ritroso il filo fornitogli da
quel gran pezzo di troia, tornò all’uscita.
Venne accolto da grida festanti e abbracci alle ginocchia.
-Amici! La belva ha lottato con tutte le sue forze e io altrettanto: è stato un avversario
valoroso, ma è ormai morto.
A suffragio delle sue parole lanciò la corna del Minotauro in mezzo alla stanza e, seguito
dagli ateniesi e da Arianna, che fu obbligato da quel po’ di coscienza ad accogliere, salì
sulla nave, coperto di gloria e allori.
Nel frattempo l’Olimpo rumoreggiava. Dopo aver sentito le opinioni di tutti, Zeus disse:
-Che Teseo festeggi pure. Si goda la gloria immeritata …
A quelle parole molti dei protestarono, ma il padre di tutti gli dei li mise a tacere con una
sentenza definitiva e senza appello:
-Per ora. Per poco ancora.
Nel frattempo la nave dalle vele nere viaggiava spedita alla volta di Atene…
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Overdose
In uno scroscio di luci e di colori, dove la musica sembra aria, la balena pare dormire
sulla cima d' una montagna, tu salti ed io cado.
Poi quella balena con uno sbuffo mi lancia in aria e il mondo s'apre sotto di me, mentre
il mare spalanca i suoi orizzonti alle mie braccia di gabbiano improvvisato.
E il promontorio indietro sparisce in uno spruzzo d'onda marina che lo ricopre di sale;
ancora più avanti, io tiro diritto verso l'orizzonte rossastro che sembra chiamarmi, come
luce fatale telefona alla falena.
Eppure quella linea dove il sole tramonta cala sempre più giù e le tenebre la vincono in
un duello senza sosta. Avanti, indietro, rincorsa, poi gettato dentro ad una minuscola fica
buia. Le ali di gabbiano hanno lasciato il posto a quelle d'una cavalletta, per risalire per
canali misteriosi fino alla bocca, che mi sputa fuori in un rivolo di bava, fra una risata e
l'altra.
Allora i ricordi iniziano a sfumare in un odore di tabacco e di alcool, vedo solo ciò che
mi raccontano.
Dicono poi che mentre scivolavo da quella bava, immerso in un sabba di grida e di
ipocrisie, chissà come affogavo in una pozza di cocktail e di vomito.
Affogavo in una pozza di cocktail e di vomito come chi muore d'overdose in discoteca:
come chi muore come me.
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