18 Fabio Pierangeli Università di Roma “Tor Vergata”
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18 Fabio Pierangeli Università di Roma “Tor Vergata”
TRICEVERSA Revista do Centro Ítalo-Luso-Brasileiro de Estudos Linguísticos e Culturais ISSN 1981 8432 www.assis.unesp.br/cilbelc TriceVersa, Assis, v.3, n.1, maio-out.2009 CILBELC DIALOGHI IN POESIA: IL MODELLO DI IACOPONE DA TODI Fabio Pierangeli Università di Roma “Tor Vergata” RIASSUNTO Nel contesto di rinascita spirituale che dal 1200 arriva alle soglie del Rinascimento, attraverso la figura centrale di San Francesco, e determina l’albore della Letteratura italiana, le laudi di Iacopone con originali e potentissimi chiaroscuri, tra tragico e sublime, dotto e popolare, rappresentano il vertice artistico di una coralità che si erge spontaneamente ad onorare il centro della sua vita, eminentemente religioso. Se l'interesse precipuo del poeta non è letterario, il suo linguaggio si distingue da quello delle altri laudari per un forte espressionismo linguistico e per una originale rivisitazione dei modelli poetici medievali, di cui qui si studia in particolare la tenzone e il dialogo teatrale. PAROLE-CHIAVE Iacopone; laudi; dialogo RESUMO No contexto do redescoberta espiritual que desde 1200 chega às portas do Renascimento, por meio da figura central de São Francisco, e determina o marco da literatura italiana, as odes de Iacopone com originais e pontentes chiaroscuri, entre trágico e sublime, douto e popular, representam o vértice artístico de uma coralidade que si ergue espontaneamente a honrar o centro da sua vida, eminentemente religioso. Se o interesse precípuo do poeta não è literário, a sua linguagem se distingue daquela dos demais por um forte expressionismo lingüístico e por uma original revisitação dos modelos poéticos medievais, dos quais aqui serão estudados em particular a tenzone e o diálogo teatral. PALAVRAS-CHAVE Iacopone; lodes; diálogo Raramente nella storia del rito un’epoca ha tanto immaginato e prodotto, guidata dal suo entusiasmo e dalle sue certezze (ROPA, 2000). In questo contesto di rinascita spirituale che dal 1200 arriva alle soglie del Rinascimento, attraverso la figura centrale di San Francesco, e determina l’albore della Letteratura italiana, le laudi di Iacopone con originali e potentissimi chiaroscuri, tra tragico e sublime, dotto e popolare, rappresentano il vertice artistico di una coralità che si erge spontaneamente ad onorare il centro della sua vita, eminentemente religioso. 18 TriceVersa, Assis, v.3, n.1, maio-out.2009 Da questo punto di vista, relativa importanza assumono gli scarsi dati biografici, circondati da un alone di leggenda (PAOLI, 2006; MENESTÒ, 2007; SUITNER, 1999), dove Iacopone risulta essere uno strepitoso personaggio teatrale, con la toccante storia della conversione, gli anni del nomadismo, le lotte con il papa, la follia religiosa, da confrontarsi con il modello del Santo Francesco, al cui ordine appartiene, con la scelta della radicale povertà, rispetto all’altro versante incline invece a cercare una mediazione con la Chiesa ammorbidendo le direttive e la testimonianza del Santo di Assisi. Certamente interpolata da elementi narrativi e perfino fantastici, le biografie di Iacopone, in particolare la più nota la cosiddetta Franceschina, pubblicata con altri testi agiografici in Le vite antiche di Iacopone da Todi, a cura di Enrico Menestò, ci presentano un vero e proprio personaggio, capace di abbandonarsi a stranezze sottolineate con insistente e stupita curiosità, dopo la conversione: episodi emblematici di un programma di vita e di una visione del mondo ereticamente rivoluzionari molto lontani dalla leggerezza agiografica con cui vengono trattati gli episodi della vita di Francesco. L’esperienza della totale dedizione d’amore per Cristo, ha connotazioni agonistiche verso la finzione e il compromesso con la mondanità. Si veda la XC, (“Amore de caritate, perché m’hai così ferito?/ Lo cor tutt’ho partito, ed arde per amore”. “Aggio perduto e core, e senno tutto, / voglia piacere e tutto sentimento”. “Nulla, donqua, oramai più me riprenda / se tale amore me fa pazo gire”), in cui, con accenni tragici ancora dentro il labirinto metaforico del calore, Iacopone illustra la condizione umana di assenza e di grido all’Amore: l’anima creata e cullata non sa vivere senza Dio, in ogni momento della sua esistenza terrena. Abituata dallo stesso Amore a vivere in quella mistica comunanza, non riesce ad adeguarsi a nessuna altra esperienza di evidente minore intensità. Oltre l’Amore c’è solo afasia e silenzio. E l’Amore, come nella XCI, è per sua natura incommensurabile alterità. La stessa esperienza mistica, nella ancora oggi validissima lettura di Giovanni Russo, si rende elemento iperbolicamente destabilizzante, nel modo di intenderlo proprio di Iacopone: “Tutti i mistici profondi, nell’atto del loro misticismo, sono tutti fuori dalla Chiesa, e il misticismo è sempre un’eresia 19 TriceVersa, Assis, v.3, n.1, maio-out.2009 potenziale. L’ala estrema dei mistici francescani, prima che fossero maledetti dalla Chiesa, si erano già scomunicati da sé. Le famose satire di Iacopone non sono un episodio sporadico della sua vita, ma sono l’esplosione necessaria di tutto il suo misticismo” (RUSSO, 1951, p.59). Come è noto, l’autorevolezza di Auerbach, descrive l’evento del francescanesimo come decisa svolta nella evoluzione letteraria italiana ed europea verso una congiunzione di sublime e popolare assolutamente opposta al romanzo cavalleresco coevo: “All’inizio del secolo XIII appare in Italia una figura che personifica in modo esemplare la fusione di sublimitas e humilitas, l’unione estatica, solenne con Dio, e la realtà concreta universale, senza che sia possibile separare l’azione e l’espressione, il contenuto e la forma; si tratta di Francesco d’Assisi. L’essenza della sua natura e il vigore del suo comportamento si fondano sulla volontà di un’imitazione radicale e pratica di Cristo” (Auerbach, 2000, p.177). Se in Europa questo aveva assunto caratteri mistico-contemplativi egli gli diede caratteri pratici, quotidiani e popolari. Tutto quello che fece fu una rappresentazione della vita di Gesù, e in queste rappresentazioni trascinava con se tutti coloro che lo vedevano o ne avevano soltanto notizia. Il modo in cui il Santo si presentava, sottolinea Auerbach, era estremamente teatrale, originando una grande quantità di anedotti sulla sua persona, tra realtà e leggenda. Si legga, a pag. 186, il commento del capolavoro iacoponico, così perfetto nell’amalgama tra sublime e umile, tra colto e popolare, da far apparire le altre opere intonate al medesimo genere impacciate. La grande novità della predicazione di Francesco, apre anche una rinnovata stagione artistica soprattutto in pittura (i grandi cicli francescani di Giotto) così che il grande storico Raffaello Morghen poteva individuare, nel Convegno dedicato a Iacopone e il suo tempo a Todi nel 1959, nei cicli pittorici della vita del santo e nell’innalzamento della Cattedrale di Chartres due capisaldi (e capolavori) del Medioevo, Iacopone “fu anche grande poeta, e per istinto un grande attore di se stesso, evocò per primo le forze drammatiche del sentimento italiano e della lingua italiana”. La lauda, tra le più celebri, la LV secondo la numerazione dell’Ageno, con quell’incipit memorabile “Ke farai frate Jacopone / hor se giunto al 20 TriceVersa, Assis, v.3, n.1, maio-out.2009 paragone” , racconta alcuni episodi della biografia del poeta. In una prima “sezione”, l’assedio al Palazzo Colonna di Palestrina da parte delle milizie di Bonifacio VIII, allorquando il frate si schiera con gli avversari dell’esacrato Bonifacio VIII, la prigionia durissima subita per questa sua avversione risultata sconfitta, a cui il poeta dedica versi di un vigoroso tono beffardo, sulle strette catene dal suono persistente di una danza lugubre, sulla precarietà del cibo, sulla “granne freddura”. Una seconda parte compone l’ invettiva contro la stolta e peccaminosa cupidigia della Chiesa e del francescanesimo stesso, a cui gli “spirituali” si oppongono (si noti ancora un paragone cucito attraverso l’immagine dell’ovile, della stalla, della mangiatoia), mentre una terza insiste sugli anni, seguiti alla conversione, del vagabondare da bizocone, alla cui radicale povertà corrisponde il momento della prova della prigionia. Sia pur notissimi, non sarà inutile riportare i versi della quarta strofe, di un realismo violento, nel descrivere i termini e gli esiti della prigionia. Iacopone ricorre ad immagini materiali e animali, tra le quali spicca per antitesi, nella V strofa, l’accostamento metaforico della latrina che non odora di muschio e nella seguente la rabbiosità repressa del leone ingabbiato: So arvenuto probendato Chè ‘l cappuccio m’è mozato: perpetuo encarcerato, ‘ncatenato co leone. Come giova ricordare, nel mezzo della invettiva pronunciata contro i confratelli da quella prigione, la dichiarazione in cui si spende l’uso dell’io, così poco importante e raro nella tradizione della Lauda umbra, proprio per rivelarne la vile caducità, l’odio verso qualsiasi forma di compiacimento esteriore e fisico. Iacopone rivendica la sua identità in quello stato, la dignità superiore, (“lo mio campione armato”) derivante dalle rinunce per la conquista della vera vita. In questa non vi è odio, se non per se stessi: nel dono di una forza maggiore. Non si guardi solo al primo elemento, quello del digiuno e della frustrazione del sé, ma agli obiettivi finali: la consolazione, la carità, il perdono dei nemici. La metafora militaresca congiunge in un tessuto immaginifico l’ultima parte della lauda, in una concisione mirabile, sostenuta 21 TriceVersa, Assis, v.3, n.1, maio-out.2009 da un ritmo straordinariamente incarnato, intessuto in una parola essenziale e ricca allo stesso modo. Del corpus delle 92 laude finora accertate di sicura attribuzione iacoponica, ben trentadue sono in forma dialogica; altre presentano un monologo rogativo che non prevede risposta, rivolto ad un Tu divino, nelle forme dell’invocazione, nei toni ora tragici ora traboccanti d’amore corrisposto o negato, tipici del poeta tuderte. Lo stile dialogico narrativo “originale e creativo”, vicino a ricerche coeve in campo iconografico di avvicinamento al modello evangelico, si deve a questa primaria, se non unica, necessità di “confessare la fede”. Una fede, rileva acutamente Cacciotti e non è l’ultima ragione del rinnovamento anche artistico, teatrale e iconografica, nella ricerca di un maggior movimento, dell’idea della sequenza, del racconto, del dialogo, che non inventa Dio, ma si apre ad un rapporto che richiede reciprocità e obbedienza a Lui, premessa una radicale affermazione, qualsiasi sistema filosofico, etico, pedagogico o culturale che voglia offrirsi come garante della salute umana è alienante. Può essere fonte di rifiuto o di accettazione ma l’orizzonte è chiaro: l’uomo consiste nella volontà di un Altro. L’allegoria amorosa sarà usata in tutte le sue forme peculiari per arricchire una predicazione di fede che i francescani sapranno mediare nelle più disparate realizzazioni. (CACCIOTTI, 1998, p.271) Il movimento e la dialettica nella storia concreta, quotidiana, si giocano allora nel doppio segno della caducità e della risoluzione (in gran parte metanoia) verso una vita nuova. L’irruzione di questo elemento nella pittura del tempo, di pari passo con la poesia religiosa nelle sue più alte espressioni mi sembra dato ormai incontrovertibile e si potrebbe ben verificarlo con tenendo presenti le categorie su cui si basa il modo di relazionarsi francescano con l’altro, in grazia di Dio, composto, come ancora possiamo affermare ricorrendo a Cacciotti, “tenerezza, delicatezza, piccolezza, struggimento, lacrime e gioia, doloroso amore e letizia” (1998, p.283), come elementi di una creaturalità minuta capace di restituire negli affetti e nei sentimenti familiari il rapporto tra uomo e Dio. Iacopone non parla nel suo 22 TriceVersa, Assis, v.3, n.1, maio-out.2009 individualismo, ma dentro la consapevolezza dell’appartenenza ad un ordine, ad un popolo. Esaminiamo allora, brevemente, alcune laudi in cui prevale l’azione dialogata su tematiche a nostro avviso centrali dell’universo iacoponico. Nella lauda XI “Segnore, damme la morte”, l’abisso dell’ingratitudine crea una distanza insopportabile tra il divino rivelatosi nell’intima quotidianità tanto da diventare soggetto del dialogo, di un contrasto perenne, sospeso tra amore e duro ammonimento: “Segnore, non t’è iovato / mustrannome cortesia / tanto so stato entrato / e pieno de villania. / Pun fine a la vita mia, / che gita t’è contrastanno”. L’animo ‘contrastato’ (dal peccato, come per San Paolo chi è nel peccato è schiavo del peccato) ‘contrasta’ l’azione del Signore: “’nante a far male so acceso; / condanna ormai questo appeso, / ché so caduto nel banno”. Si avverte la tensione spasmodica dell’invocazione radicale, incapace, inizialmente, di trovare una strada di redenzione tra il peccato e la morte. Questa viene infatti invocata, teatralmente, come espiazione preventiva della possibilità di offendere di nuovo il Signore: “Meglio è si tu me occide, / che tu Signore, si offeso”, visto che il cuore è tutto infiammato (stessa metafora troveremo rovesciata a declinare l’intensità dell’Amore mistico) dalla potenza del male, responsabile di azioni malvage e turpi contro i fratelli, ai quali, con spirito dialettico intrinseco, chiede di usare vendetta contro di lui. Eppure (e qui l’intensità del dialogo sfiora una intimità comunque latente, sempre possibile sull’orizzonte della metanoia più decisamente che in altre laudi) il cuore non potrà sopportare la lontananza col Signore e finalmente, di fronte a questa coscienza, il pianto del pentimento potrà sgorgare. Anche se questa volta la voce antagonistica (del Bene) non appare direttamente, sale dall’intimo con il ripensamento, quel soffio gratificante del perdono da immaginare, teatralmente, come parola interiore soffocata, sommessa e poi dirompente, rispetto alla egoistica dichiarazione della richiesta di morte perché non si è capaci di cambiare, di attuare la metanoia: “O cor, e co ‘l pòi pensare / de lassare turbato Amore / facennol de te privare, / o’ patèo tanto labore? / Or piagne ‘l suo descionore / e de non gir curanno”. 23 TriceVersa, Assis, v.3, n.1, maio-out.2009 La lauda sottolinea, pur senza dialogo, la necessità di una Presenza, rivelatasi concreta fin nelle corde più intime, in lotta con il male, per indurre alla conversione, continuamente necessaria, a cui sempre rinnovare la dichiarazione di fede e d’amore, nel chiaro scuro potentissimo del mondo iacoponico. Il correlativo oggettivo del pianto, prima forma necessaria del pentimento, diventa impossibile, bloccato dalla tristezza e dal dubbio, fin quando non si intuisce nel volto di Cristo, riflesso in quello dei fratelli di fede, la possibilità di percorrere una strada illuminata verso la verità. L’antagonista è sempre necessario allo spirito di Iacopone, nelle forme più varie, dalla invocazione, alla esortazione, alla confidenza, alla tenzone, e soprattutto al contrasto, carattere precipuo perfino del Cristo, preoccupato delle sorti della Chiesa, che viene apostrofata duramente per la sua corruzione nella LII: “Vedete el mio cordoglio, a che so mo redutto! / Lo falso clericato sì m’ha morto e destrutto, / d’onne mio lavoreccio me fo perdir lo frutto: / maiur dolor che morto da lor aio portato”. La ripresa di modelli poetici tipicamente medievali, trova la sua potente originalità nella dimensione concreta con cui si descrive la vita cristiana. L’umanità di Cristo viene raffigurata nella Lauda XL, in dialoghi vivaci, descrittivi dell’amore reciproco e assoluto dell’anima per il suo Salvatore, nel constatare la meravigliosa congiunzione tra l’effimero e l’eterno. Tale sentimento produce una domanda ingenua quanto intima e toccante, infilzata nel cuore dell’evento cristiano, rilevandone la smisurata dimensione “povera”: perché mai il Figlio di Dio si è voluto affiancare, nudo pellegrino, al cammino dell’uomo per le strade di malvagità e penitenza del mondo? D’altronde è anche la Chiesa, come depositaria degli insegnamenti rivolti agli apostoli, ad ammonire con durezza i fedeli traviati dall’attrazione smodata e viziosa dei beni terreni, seguendo modalità drammaturgiche composite nella LIII. Di fronte al pianto della Ecclesia, un figlio le domanda le motivazioni, suscitando il monologo di lei, nelle vesti concilianti e dure alternativamente (come nella I) di una Madre. Il dialogo fittizio, attraverso un modello per altro consueto della figurazione Madre-Chiesa, si costruisce attraverso continui e angosciosi punti interrogativi, intorno ai risvolti più realistici del paragone 24 TriceVersa, Assis, v.3, n.1, maio-out.2009 instaurato: figli disobbedienti e bastardi, la vedovanza, la diffusione del termine “meretrice” (altro topos) presso gli infedeli, a causa delle continue lotte e impudicizie dei fratelli. In tempi di relativa tranquillità, dopo persecuzioni ed eresie, la Chiesa vive un’amara pace, dove più facilmente si insinua il serpente adulatore. Lo spirito violento di Iacopone non accetta qui alcuna consolazione, lasciando, piuttosto, scoccare il colpo di frusta: “Null’è che venga al mio corrotto, / en ciascuno stato sì m’è Cristo morto: / o vita mia, speranza e deporto / en onne coraio te veio soffocato”. La stessa meraviglia dell’incrocio tra ‘effimero ed eterno’, si offe più delicatamente quando, come in uno scorcio della II lauda, si esprime il punto di vista di Maria, di fronte alla quotidiana incommensurabile convivenza con il suo Figlio e Salvatore, in particolare nel tratto conclusivo, dove lo sguardo del poeta immagina la scena del sublime miracoloso dentro il quotidiano, intessuto di dialoghi e silenzio, di materialità, con tale trasporto da trasmetterci il desiderio di vivere quella scena, esserci, in una mimesi plastica, spontaneamente teatrale: “O Maria, co facivi, quanno tu lo vidivi? / Or co non te morivi de l’amore affocata? / Con non te consumavi quanno tu gli guardavi, / che Deo ce contemplavi ‘n quella carne velata? / Quann’esso te sugìa, l’amor co te facìa, / la smesuranza sia esser da te lattata?” La “smesuranza” teneramente avvinghiata al seno di una ragazza, è immagine vulgata ma intensissima nel contesto iacoponico, degna del miglior Dante, in cui si afferra il cuore poetico dell’evento cristiano, sospeso tra meraviglia e senso di pace. Lo stupore domina questi versi, in cui la semplice scenografia raccoglie gli interrogativi più profondi e problematici del teatro religioso e non solo: la lontananza del divino, la richiesta del non essere abbandonati nella valle di lacrime di ogni tempo. Gli interrogativi di un dialogo interiore non segnano qui l’angoscia, ma la gratitudine di poter assistere di nuovo, rievocandola, a quella scena, paradigma umanissimo della divina Incarnazione. Poi l’ardente impazienza di sapere, di immergersi nella perfezione tanto infangata, strugge di nuovo Iacopone, dentro le consuete immagini materiali, sino all’invito perentorio ai fratelli di venire a vedere colui che, ora in fasce, vivrà in eterno per la 25 TriceVersa, Assis, v.3, n.1, maio-out.2009 salvezza del mondo: “Accurrite, accurrite, gente, co non venite? / Vita etterna vedite co la fascia legata. / Venitel a pigliare, chè non ne po’ cucciare, / che dega arcomparare la gente desperata” Vera e propria narrazione, in cui il personaggio viene chiamato a raccontare la propria storia, nella XVI, dove una suora, creduta in odore di santità, denuncia, da morta ad un vivo, il peccato di superbia. La possibilità di raccontare a “qualcuno” ancora in vita, le scuce di dosso l’abito ipocrita, denudando l’anima, mangiata dalla superbia, in un aspetto, tra verità e finzione, tra forma e maschera, che avrà fortuna indelebile nella storia del teatro moderno. Senza interlocuzione dialettica, in un modulo pre-dantesco, non si potrebbe ottenere quella viva confessione, dove la luce della verità esplora un contrasto violento, soffocato dalla stessa superbia così esteriormente ben celata. La ripresa del gusto medievale dell’alterco (D’ANCONA, 1966, DOGLIO, 1995) tra concetti personificati, viene intesa ora con una incontenibile verbosità, ora, più originalmente, varata con la speciale forza tragica del linguaggio: già nella V si pongono al tavolo drammaturgico i cinque sensi, con il proposito di descrivere la brevità delle loro essenze effimere. Molto più complesse altre laudi drammatiche, con svariati personaggi che interpretano un numero notevole di concetti anche teologicamente problematici, lontane, si diceva, dai tempi del teatro: si veda la LI, tra le altre. Dei più celebri contrasti basterà richiamare la ripresa di alcuni topos medievali nell’ambito dell’originalissimo linguaggio poetico, nella misura potente del realismo colto, dove la personificazione si avvale di immagini a tutto tondo, icastiche nelle laude più riuscite, nella loro brevitas, dentro un omogeneo reticolato semantico, materico e corporale, come nella celebre III, tra l’anima e il corpo, dove l’attualità e la profondità del dialogo risiede non tanto nell’aspettativa del futuro premio della salvezza, quanto nella dialettica del presente, sulla felicità, o sulla vanità di questa asserita dall’anima a cui il corpo obietta di essere invece ben nutrito nei piaceri che non sono affatto tristi né presentiti nel loro carattere transeunte. Difficile pensare che Iacopone non abbia fatto piena esperienza dei piaceri mondani, avvertiti ancora come attraenti, a cui solo l’ascesi, condotta con i mezzi di 26 TriceVersa, Assis, v.3, n.1, maio-out.2009 un’altrettanta vigorosa materialità nella rinuncia corporale, può porre rimedio. Si tratta tuttavia di un agone tra titani, dagli esiti spesso incerti. In senso più teorico, ma poeticamente suggestivo, Iacopone elenca, in IV, i possibili rimedi alla schiavitù del peccato: “En tre modi pareme divisa penitenza: / contrezione è prima, ch’empetra la ‘udulgenza / l’altr’è confessione che l’anema radenza; / l’altr’è satisfacenza de devoto pagato”. E in V sono i sensi chiamati a dialogare con mossa teatralità, nella individuazione, talvolta malsicura, della loro brevitas, rispetto alla fulgida speranza della vita eterna dell’Anima, espressa comunque senza ombre, con giubilo di certezza di un piacere maggiore, non ingannevole e passeggero: “Anema mia, ti sì etterna, / etterno voi delettamento; / li sensi e lor delettanza / vide senza duramento; / a Deo fa’ tu salimento, / esso sol te po’ empire: / loco el ben non sa finire, / ch’è etterno el delettare”. Se il furore lacerante e annichilente è la cifra predominante della prima parte delle Laudi nella edizione Ageno, non bisogna trascurare i versi della pacificazione tra creatura, creato, Creatore, espressi, come in un a parte teatrale, riflettendo a voce alta, dalla coscienza liberante con cui si torna a scorgere, nelle esperienze vissute, un filo persistente di grazia. Si può immaginare, similmente, una lettura drammatizzata ad esempio della XLIX, in cui la voce invocante si rivolge alla propria anima, in una tipica confessione solitaria in pubblico, se ci è concesso il paradosso, intonata ad una parola rara in Iacopone: “repuso”, riposo. La vita, in questo riposo, appare una festa, costruita lietamente sull’obbedienza alla giustizia, nel nome della quale anima e corpo si avviano nella medesima, silenziosa, strada. Ma ecco che da qualche parte del palcoscenico, invocata, l’anima prende forma e voce, spiegando di essere ragionevolmente in riposo, poiché: “Iustizia sì è en amare / e messo i è te ‘n man en transatto, / e nullo volisti far patto”. Personificazioni monologanti, nei lamenti verso la violenta corruzione del mondo, assumono tratti teatrali, quando il poeta si rivolge a personaggi storici, appellandoli senza fronzoli retorici: il fratello Francesco, Bonifacio VII, Pietro da Morrone, Frate Ranaldo. La vita di Francesco, con accenti spettacolari, nella LXI, introduce il dialogo con fini discussioni teologiche, a 27 TriceVersa, Assis, v.3, n.1, maio-out.2009 seguito dell’ invito inappellabile di Cristo:“La ecclesia è sviata, repara lo suo stato”. A Iacopone stesso non sfugge che la lunghezza e certe ardui scorci teologici di questa e di altre laudi potrebbero allontanare qualche uditore e, fedele alla sua linea pedagogica, dichiara di voler riassumere, in modo conciso, in sette punti, il discorso prima di allungarlo inutilmente. Più interessante, dal punto di vista della teatralità, la seconda lauda su Francesco, seguente nell’ordine stabilito dalla Ageno, LXII, movimentata da una dialettica non lontana da furori manichei, nello sforzo di rappresentazione realistica: ab origine vi è il nemico che si oppone a Dio e da Lui è scacciato attraverso il Mistero della Incarnazione, con la rinuncia e la povertà vissuta fino al sacrificio supremo dal Cristo. Quando il Nemico si rialza, urgente ritorna la necessità di un altro scontro con il Cavaliere di Dio, appunto Francesco, armato di tre Virtù: povertà, obbedienza, castità. Questo il racconto, quasi lunga didascalia, introduttivo di un dialogo estremamente teatrale, con il diavolo che tenta Francesco e il Santo capace di respingerlo con gli stessi mezzi proposti dal tentatore: come ad esempio, quando viene sbandierato il piacere fisico dell’amore ecco che, in vincente replica, si evoca il modello d’amore di Chiara. Il gusto del contrasto medioevale si arricchisce di una arguzia poetica fondata, mi sembra, ancora una volta sulla superiorità materiale della vita cristiana, capace comunque di dare “piacere” e gioia, insieme alla sofferenza e alla rinuncia, in una pienezza ben più solida del peccato, già nella vita terrena, in previsione della conquista di quella eterna, dove la felicità sarà duratura. I tempi teatrali del dialogo si amalgamano con il ritmo serrato della poesia, con quartine ben alternate di settenari dall’uno all’altro dei due antagonisti. Se Francesco ottiene una vittoria piena, il finale profetizza una lotta senza quartiere tra il Bene e il Male, con la minaccia di Satana, sconfitto, di ricorrere all’Anticristo. La lauda dimostra l’efficacia del dialogo, proposto nella seconda metà , a dare mossa vivacità da uno spunto già divulgato con le tentazioni del diavolo e ancor di più con una realistica raffigurazione umana nel dipingere l’incertezza con cui si pone a sfidare 28 TriceVersa, Assis, v.3, n.1, maio-out.2009 l’unto del Signore: “S’egli è Cristo non me iova / ch’esso vencerà la prova: / non so guerra che me mova, / si par dotto ed ammastrato”. La tragicità della vita cristiana, anche quando si è sulla strada della fede, viene espressa nel motivo dialettico, dialogato, dell’anima abbandonata che si rivolge a Dio, in uno dei momenti, a mio modo di vedere, più moderni dell’ispirazione religiosa e umana di Iacopone poeta, come nella lauda LXVII, col suo incipit memorabile: “Amor, diletto amor, perché m’hai lassato amor?”; e nella LXXV, ancora una volta attraverso la profondità offerta dal dialogo teatrale, in cui l’esigenza di mimesi riesce a descrivere due situazioni opposte sulla via del cammino di fede, con tutta probabilità istanze possibili nell’animo contrastato di un fedele, ovvero nell’animo sensibile e mai pacificato dello stesso poeta. La lauda drammatizzata si sviluppa qui senza alcuna didascalia o premessa: la concitazione e l’unità formale vengono assicurate dalla presenza di un campo metaforico organizzato intorno al “calore” e alla personificazione della Croce. Il tema è, ancora una volta, esplicitamente, il piacere, preludio alle laudi di carattere mistico, con l’Amore per la Croce ossessivamente dilatato in ogni aspetto dell’esistenza, ma la cui espansione dona una alternanza spesso tragica tra gioia e dolore, testimoniata da parole-gesto materiali, con cui pur si indaga nella psicologia dell’uomo di fede. Il dualismo presentato, probabilmente, rispecchia le contraddizioni e gli atteggiamenti di un solo individuo: da una parte il fedele meno addentro al cammino cristiano pacificato dalla fede, dall’altra il più “maturo” mosso invece da una tensione tragica insopportabile, consumata da quel calore inestinguibile e niente affatto pacificante. Ci si scotta continuamente ai raggi dell’amore assoluto, in una tensione crescente, colta in significativi parallelismi dell’uno e dell’altro davanti alla Croce. Nella celeberrima Donna de Paradiso, la scena presenta una innovazione di movimento e profondità tragica incontestabile. Nella evidente significanza della corporalità, in un momento così tragico, capace di rievocare il sacrificio di Cristo a favore dell’intera umanità, notevole la funzione degli sguardi imploranti, in un clima poetico di una intensità poche volte raggiunta con le 29 TriceVersa, Assis, v.3, n.1, maio-out.2009 parole e che ricorda certo più il Crocifisso di Cimabue che le opere del ciclo francescano attribuibile in gran parte a Giotto di Assisi ma che preludono a sviluppi ulteriori tra pittura e teatro verso uno scioglimento della staticità delle figure. Si pensi che del corpus delle 92 laude finora accertate di sicura attribuzione iacoponica, ben trentadue sono in forma dialogica; altre presentano un monologo rogativo che non prevede risposta, rivolto ad un Tu divino, nelle forme dell’invocazione, nei toni ora tragici ora traboccanti d’amore corrisposto o negato, tipici del poeta tuderte. Riassume con chiarezza Paolo Cannettieri: “Se nelle laude drammatiche la teatralità è esplicita, in altre erompe con l’insorgere improvviso del discorso diretto e in altre ancora è implicita e mascherata sotto le forme dell’apostrofe, dell’invettiva e perfino dell’effusione lirica: e in questo caso le parole si rivolgono sferzanti o sarcastiche, persuasive o estatiche ad un “tu” silenzioso, ma non per questo assente dalla scena, che può essere il poeta stesso, il pontefice corrotto, l’Amore, o magari un interlocutore da persuadere o da ammaestrare” (CANNETTIERI, 1992, p.148). RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI AUERBACH, E. Mimesis: Il realismo nella letteratura occidentale. Torino: Einaudi, 2000 CACCIOTTI, G. La vita e l’opera di Iacopone da Todi. Roma: Anthoniam, 1998, p.271. CANNETTIERI, P. Iacopone da Todi, Laude. In: Letteratura italiana: Le opere, diretta da A. Asor Rosa. Torino: Einaudi, 1992. v.1. D’ANCONA, A. Origini del teatro italiano. Roma: Bardi, 1966. DOGLIO, F. Il teatro in Italia. Medioevo e Rinascimento. Roma: Studium, 1995. MENESTÒ, E. La vita e l’opera di Iacopone da Todi. Atti del Convegno di Studi, Todi, 3-7 dicembre 2006, a cura di MENESTÒ E. Spoleto: Fondazione di Studi sull’Alto Medioevo, 2007. PAOLI, E. La leggenda iacoponica. In: Iacopone da Todi e l’arte in Umbria nel Duecento. Catalogo della Mostra, Todi, Palazzi Comunali, Museo Pinacoteca, dicembre-2006-magio 2007. Milano: Skira, 2006. 30 TriceVersa, Assis, v.3, n.1, maio-out.2009 ROPA, G. I testi liturgici. In: Lo Spazio letterario del Medioevo I: La produzione del testo. Roma: Salerno, 2000. t.2 RUSSO, L. Iacopone da Todi mistico-poeta (1926): Ritratti e disegni storici, III parte, Studi sul Due e Trecento. Bari: Laterza, 1951. SUITNER, F. Iacopone da Todi. Poesia, mistica, rivolta nell’Italia del medioevo. Roma: Donzelli, 1999 TODI, Iacopone da. Laudi, Trattato e Detti. A cura di F. Ageno. Firenze: Le Monnier,1953. Riportando il numero progressivo di questa edizione, ci è sembrato superfluo indicare ogni volta il numero della pagina. 31 TriceVersa, Assis, v.3, n.1, maio-out.2009