Leggi l`articolo (free!) - Rivista di Studi Italiani

Transcript

Leggi l`articolo (free!) - Rivista di Studi Italiani
Gaetana Marrone
219
IL MITO DI BABELE IN LA PELLE DI CURZIO MALAPARTE:
PATHOS, VEGGENZA, E L'INVENZIONE NEL RACCONTO
CINEMATOGRAFICO
1
La pelle, carta geografica del mondo
• Quando La pelle esce, prima in Francia nel 1949 e poi in Italia nel
1950, Curzio Malaparte è persuaso di aver scritto un'opera d'arte non un
libello politico ο ideologico. Malaparte crede, ο finge di credere, alla realtà
poetica (l'unica verità possibile) del romanzo polemico. Ed egli si riscatta dal
suo inferno esistenziale grazie ad un linguaggio di immagini eclettico,
fondamentalmente barocco, se, come ci ricorda Luigi Baldacci, per barocco
s'intende, nella definizione di Roberto Longhi, "una grande ansia di
abbozzatura, di continua gestazione, di eterno non-finito, cioè, a suo modo,
d'in-finito" . È questo rischioso repertorio di immagini, beffarde, ciniche,
eppur incredibilmente vere, questo registro linguistico-espressivo che si esalta
nella sua stessa scrittura, a fare di Malaparte "un vero mitografo" che sa
modulare le proprie illusioni .
1
2
Ad attrarre Liliana Cavani al romanzo dell'arcitaliano è uno spiccato gusto
visivo e descrittivo: la partitura di immagini sapientemente calibrate, le parole
figurate che assommano dal profondo della memoria, del tempo perduto,
quelle presenze disperse che nella metafora della pelle (fisica e morale)
affiorano in tutta la loro precaria ed emblematica esistenza. L'incontro tra lo
scrittore toscano e la regista di Carpi è del tutto casuale. A metà anni Settanta,
la Cavani acquista all'edicola della Stazione Termini di Roma un libro da
leggere in viaggio. Ne intuisce immediatamente la possibilità di tradurlo sullo
schermo e ne acquista i diritti, che erano liberi: "Lessi per la prima volta La
pelle circa cinque anni fa", dichiara la regista nel 1979, "e subito mi colpì la
forza delle immagini che contiene. È un libro che ha una straordinaria
capacità figurativa: scorrendo quelle pagine già ci vedevo il film che ne
poteva venir fuori" . Lo realizzerà solo nel 1980, quando la Gaumont di
Renzo Rossellini finanzierà il progetto con un cast d'eccezione: Marcello
Mastroianni (Malaparte), Burt Lancaster (il generale Mark Cork), Claudia
3
Gaetana Marrone
220
Cardinale (la principessa Consuelo Caracciolo), Alexandra King (l'aviatrice
Deborah Wyatt), e Ken Marshall (il Marco Polo televisivo) nel ruolo
dell'ingenuo capitano Jimmy Wren di Cleveland, Ohio, che si innamora di
Maria Concetta, la vergine di Napoli, e la sposa.
In un'intervista durante la lavorazione del film, la regista chiarisce
ulteriormente la sua scelta di Malaparte:
Mi ha interessato la maniera di raccontare quel periodo, la seconda guerra
mondiale, di cui tutti hanno sempre parlato e scritto in modo insopportabilmente
retorico. Nel romanzo c'è, è vero, un certo tipo di retorica pietistica sul mondo in
generale, ma anche e finalmente qualcuno che ha un'illuminazione, che coglie il
verificarsi di un grande evento storico e cioè che l'Italia, che Roma non sono più
il centro dell'universo... a Napoli nel '44, pensa, c'erano tutte le razze della terra
sparse per i vicoli, gli inglesi con gli indiani, i francesi coi marocchini, gli
americani...A lui interessò, io penso, la stranezza dell'impatto. Il fenomeno degli
americani che mettono piede in Europa ma non a Parigi, Amsterdam ο Vienna; a
Napoli. In questa città antica come Babilonia dove c'è tutto e tutti sono passati.
L'incontro di una cultura recente con una colma di storia. Da una parte gli
americani, ricchi, ben rasati, con divise splendide, scarpe lucide, saponi,
disinfettanti, deodoranti, penicillina (l'avevano solo loro e gli eserciti gliela
contendevano) erano il trionfo del bene. Ο perlomeno, dal punto di vista della
maggior parte della gente, era quella la linea di condotta del loro intervento in
Europa. Dall'altra parte una città dove non si mangiava da tre anni. Ecco:
l'incontro è questo .
4
In particolare, l'"incontro" costituirà il segno dell'esplicazione dell'idea
inventiva dell'adattamento cinematografico, significativo per la struttura
drammatica di La pelle. La Cavani intende proporre uno stile iperrealistico
per traslare lo "scandalo" di un autore, spesso oggetto di pregiudizi
moralistici e di tonanti invettive politiche (l'accusa di falsità), che descrive
dal di dentro avvenimenti caotici e ambiguamente contradditori,
sperimentando possibilità espressive differenti.
Elimina l'intrusione
autobiografica dell'io narrante, troppo ricco, troppo retorico e narcisistico
nell'autocontemplazione della propria abilità di usare la scrittura, optando per
un racconto oggettivo, essenziale, che si condensa in immagini forti . Una
storia a intreccio si sostituisce alla partitura di episodi paralleli che, nel
romanzo, compone l'esperienza molto singolare di Malaparte. Non
diversamente, la regista recupera di La pelle, come momento esemplare, la
storicità dello spirito informatore:
5
Io lo leggo come un documento autentico di quella guerra, come pagine di storia.
Il mito di Babele in La pelle di Curzio Malaparte
221
Del resto, non mi importa neanche tanto di sapere se quella tale cosa è realmente
accaduta in quel posto preciso oppure no: so però che è potuta accadere, e che
probabilmente è successo anche di peggio. Voglio dire che anche se alcuni
episodi sembrano più veri del vero, più crudeli, più macabri, più grotteschi, al
punto da essere scambiati per invenzioni surreali, essi danno invece la vera realtà
di quella guerra...Subito dopo la guerra c'è stato un gran bisogno di dare un
ordine agli avvenimenti, di razionalizzarli, di renderli distanti con il ricorso ai
grandi sentimenti: l'eroismo delle azioni di guerra, la generosità delle
popolazioni. Anche l'apoteosi della Resistenza faceva parte di questa necessità.
Malaparte invece ha raccontato i fatti: abietti, crudeli, veri .
6
È una dichiarazione che trascrive l'intenzione della Cavani di rappresentare
non una realtà veritiera, ma plausibile. È naturale che tale lettura del testo
letterario ha un'elaborazione visiva che renda espliciti temi, motivi e
comportamenti che nel romanzo erano allo stato di abbozzo. Pur conservando
i segni del punto di partenza (l'apologia dei vinti), la regista se ne allontana
per riproporre la dinamica di violenza e desiderio come scenario della storia,
nel dolore delle visioni di guerra, mettendone in discussione la base
ideologica e simbolica. La negazione dei valori culturali, causata
dall'incontro tra gli eserciti di liberazione e un popolo antico (il rapporto non
è conflittuale), si articola attraverso la combinazione di voci (una pluralità del
linguaggio) e la molteplicità di sguardi (Malaparte/Mastroianni non cessa mai
di essere un vistoso voyeur); si configura nella topografia di una città vinta,
corrotta da un flagello nuovissimo, in cui la pelle (l'unica merce di scambio),
con la sua opacità un p o ' mostruosa, diviene "la carta geografica del mondo"
sul piano dell'immagine, della metafora, dell'universale condizione umana .
7
2. La Torre di Babele ο la verifica dei valori
Il romanzo, ambientato nella Napoli del dopoguerra dall'ottobre 1943 al
giugno 1944, narra delle forme di resistenza ed assuefazione all'oppressione
delle forze alleate. È un viaggio nello squallore dei vinti e nelle vergogne dei
vincitori intrapreso da un ufficiale di collegamento, lo stesso Malaparte, al
servizio del Corpo Italiano della Liberazione. Spunto e ragione costitutiva di
una testimonianza affidata al deposito della memoria, il percorso dell'io
narrante delinea l'emblematicità dei tempi: dalle ambizioni ossessive dell'alto
corpo gerarchico militare, votato alla conquista e al mantenimento del potere
(il generale Cork minacciato nella sua corsa alla popolarità dall'arrivo di una
spavalda aviatrice americana), al gioco, crudele ed esasperato, della folla
partenopea disposta a tutto pur di campare (si pensi al mercato dei bambini).
Lo scrittore toscano procede per aggregazioni e frammenti, insigniti di un
Gaetana Marrone
222
gusto cinico, esplicito in parte e in parte implicito, del sensazionale. Ed ecco
il camorrista Eduardo Mazzullo che baratta col generale uno scambio, a peso
e in dollari, dei prigionieri tedeschi delle "quattro giornate" tenuti all'ingrasso
come oche e il venditore di "parrucche" bionde che, indossate dalle formose
bellezze locali, divengono l'oggettivarsi di una creazione fantastica per i
soldati di colore; oppure la principessa Caracciolo, che si offre in dono
compensatore ad un ragazzo affamato. A conquistare i trofei ironici della
vittoria si contrappongono episodi di tetra e primordiale violenza: l'aviatrice
violentata dai suoi compatrioti, l'incidente dell'italiano schiacciato da un
carro armato mentre le truppe alleate fanno il trionfale ingresso a Roma, fra i
ruderi dell'Appia Antica. Pur meditativo, il romanzo è un accumulo di
intenzioni e allegoricità: i giochi di saprawivenza, le tentazioni, le ambizioni
si rivelano fallaci.
In questa prospettiva, la dimensione apertamente politica delle scene tra il
generale Cork (il generale Clark della Quinta armata), Jimmy Wren e
Malaparte è investita del tema della Torre di Babele e della sua imagistica
apocalittica. Il mito della Torre evoca la Babilonia storica (e pure una babele
religiosa), la cui dimensione "carnevalesca" (i banchetti, i corpi grotteschi, i
piaceri libertini) sottende la riflessione polemica e deformante del soggetto
narrante e porta alla creazione di uno stile retorico . La stessa metaforicità del
racconto ce lo dice, ad esempio, nell'eruzione notturna del Vesuvio, il
"mostro orrendo dalla testa di cane":
8
I soldati americani, confusi in quella spaventosa folla che li menava or qua or là
nella sua rapina, voltandoli e percuotendoli, tal bufera infernale di Dante, parevan
anch'essi invasi da un terrore e da un furore antichi. Avevano il viso brutto di
sudore e di cenere, le uniformi a brandelli. Ormai umiliati uomini anch'essi, non
più uomini liberi, non più orgogliosi vincitori ma miserabili vinti, in balìa della
cieca furia della natura; anch'essi inceneriti fin nel profondo dell'animo dal fuoco
che bruciava cielo e terra .
9
Liliana Cavani sfida la bandiera propagandistica degli americani con
un'accentuazione di degradazione, di orrore, già nel romanzo, ma anche con
un disgusto nei confronti di ciò che è insensatamente crudele; i fatti meno
enormi e il pesante realismo del quotidiano irrompono nella mitologia della
storia. La trasgressione nella vita non ha senso finché non la si colloca nella
estraneità della parola. È la denuncia di un dominio culturale, i cui termini di
interpretazione ci sono dati dagli stessi episodi selezionati: i feticci della
guerra (cibo, vestiti, sesso), l'accumularsi del potere alleato (armi, carri
armati, esplosioni), e scene di distruzione e di corruzione che visualizzano,
Il mito di Babele in La pelle di Curzio Malaparte
223
nella degenerazione del desiderio e nella violenza della morte, la sterilità
sociale. Sovversione ed eccesso sono necessari a denotare una inversione dei
valori. Ecco i monumenti del caos che denunciano l'oscenità della libertà in
una Napoli trasformata nell'archetipo della città infernale, al centro di culture
opposte. Ne risulta un'intricata relazione del modo di vivere e di concepire
un'intera società; una confusione di lingue che si traduce in un vasto corpo di
identificazioni metaforiche, il simbolo della Torre di Babele, la "porta di Dio"
(Bab-ilu in ebraico), divenuta l'architettura dell'eccesso e del disordine. Nella
colonna sonora originale del film, gli attori parlano diverse lingue,
dall'inglese al dialetto napoletano. Mastroianni comunica in italiano, inglese,
francese e quasi napoletano. Il punto strutturale della trasposizione
cinematografica non è l'illustrazione della condizione morbosa di una città
vuota di senso e di immagini di un possibile recupero (dall'inferno
partenopeo non si ritorna), ma il modo eccezionale in cui si mette in scena lo
stato di caos e di grande confusione apportato dai soldati degli eserciti
liberatori, che "composti di tutte le razze della terra, urtavano e ingiuriavano
in tutte le lingue e in tutti i dialetti del mondo" . La città non è solo Babele
per i costumi corrotti ma anche per la diversificazione linguistica.
Il mito della Torre ha conservato attraverso il tempo ricche implicazioni e
associazioni, in primo luogo la punizione divina che lacera l'unità linguistica
dell'umanità rendendo la comunicazione verbale impossibile. L'episodio
biblico acquista il suo più alto grado di presenza nella cultura del mondo
nuovo portata dagli Alleati, ancora in fase di gestazione, indifferenziata. Lo
sbarco dei soldati americani in Europa segna la nascita dell'egemonia di una
civiltà giovane che non si alimenta del passato, del tempo e della memoria. Il
viaggio labirintino di Malaparte entro i meandri della città antica diviene
un'allegoria dissacrante della liberazione, carica di significati più imaginifici
che storici; atto e percorso di testimonianza che opera a due livelli, quello di
fatti ed eventi con particolare funzione ermeneutica nei riguardi
dell'esperienza storica e quello della lingua parlata in quanto adombramento
di un nuovo assestamento sociale . Il topos del viaggio si fa processo
creativo di conoscenza, poiché tale è l'atto del fare cinema per la regista
carpigiana.
L'adattamento cinematografico trasferisce l'arte della parola, che nell'opera
di Curzio Malaparte raggiunge una formulazione celebratoria, all'impegno
della lingua come modello gerarchico e paradigmatico di "scandalo". La
morte si rappresenta sul piano sociale come cerimoniale orgiastico che
collega la catena dei rapporti tra gli eventi; la città è destinata ad annientarsi
(la pioggia di fuoco corrispondente a Babilonia) prima dell'inizio della nuova
egemonia culturale. Nella spettacolare rappresentazione di morte e follia,
10
11
Gaetana Marrone
224
ogni evento nella Napoli della liberazione accentua il suo ritmo catastrofico.
Una certa ripetitività intensifica e prolunga nel tempo ogni incontro, che
diventa esemplare.
In un'annotazione del Journal d'un étranger à Paris (1953) Malaparte
riflette:
Non so quale sia più difficile, se il mestiere del vinto ο quello del vincitore. Ma
una cosa so certamente, che il valore umano dei vinti è superiore a quello dei
vincitori. Tutto il mio cristianesimo è in questa certezza, che ho tentato di
comunicare agli altri nel mio libro La pelle, e che molti, senza dubbio per eccesso
di orgoglio, di stupida vanagloria, non hanno capito, ο han preferito rifiutare, per
la tranquillità della loro coscienza.
In questi ultimi anni, ho viaggiato spesso, e a lungo, nei paesi dei vincitori e in
quelli dei vinti, ma dove mi trovo meglio, è tra i vinti. Non perchè mi piaccia
assistere allo spettacolo della miseria altrui, e dell'umiliazione, ma perchè l'uomo
è tollerabile, accettabile, soltanto nella miseria e nell'umiliazione. L'uomo nella
fortuna, l'uomo seduto sul trono del suo orgoglio, della sua potenza, della sua
felicità, l'uomo vestito dei suoi orpelli e della sua insolenza di vincitore, l'uomo
seduto sul Campidoglio, per usare una immagine classica, è uno spettacolo
ripugnante .
12
La pelle, come documento psicologico e autobiografico, non è quanto
interessa Liliana Cavani a un intellettuale inquieto incline al protagonismo,
che negli anni '70 era alquanto dimenticato e impopolare (il revival di
Malaparte si data agli anni '80). È piuttosto una "visione disincantata delle
umane vicende" , un certo cinismo classico della filosofìa, in bilico tra la
testimonianza di una cruda realtà e violento camuffamento, che la regista
ripropone nella luce di un ripetuto viaggio nella miseria e nella morte, come
teatro dei mutamenti della storia. Lo "spettacolo ripugnante" del vincitore
chiude il film con una battuta di Mastroianni che, alludendo all'angoscia
luttuosa della liberazione, si rifiuta di entrare a Roma al seguito della colonna
armata americana e dice a Jimmy: "Tu vacci, tu hai vinto". Queste parole
suggellano il grido del festeggiatore travolto sotto i cingoli di uno Sherman,
ridotto a "un tappeto di pelle umana" . Sullo sfondo della catastrofe,
Mastroianni/Malaparte rassicura lo spettatore, non foss'altro che attraverso
questo rifiuto.
13
14
3. Cristo era napoletano: i mercati della sopravvivenza
Nel romanzo, Malaparte è il personaggio del perpetuo dissenso, ma è anche
una voce poetica che tende a comunicare una verità autonoma attraverso un
Il mito di Babele in La pelle di Curzio Malaparte
225
suo linguaggio di immagini che ipotizzano un mondo alieno da vestigia
umane: l'effervescenza macabra delle feste e delle danze popolari, la
trasparenza del corporeo ("mettete pure con il dito" esorta il padre della
vergine di Napoli), il furore della jouissance collettiva. Al repertorio
imagistico attinge direttamente la Cavani. L'approccio stilistico del film si
rivela nella varietà tematica degli episodi e nel modo in cui vengono
rappresentati come una serie di "vagabondaggi" nel ventre tumido di una città
labirintina, piena d'ombre, di sofferenze, d'orrori, "con le sue bolge fatte dai
suoi infiniti mercati della sopravvivenza": ecco lo spazio trasgressivo della
mercificazione in cui "le vittime si lasciano andare al piacere di rinascere" .
L'architettura narrativa di La pelle, costituita dallo scenario di "bolge",
permette di visualizzare l'articolazione erratica delle traversate di Malaparte
in una città in cui si esibiscono tutte le lacerazioni della vittoria,
un'esperienza di fondamentale tensione verso qualcosa di scandaloso; la
tensione allo spettacolo nel consueto inferno della miseria. È un giro intorno
alle situazioni disperanti della lotta "per vivere", che, a livello iconico, si
rispecchia nella cornice di ogni evento visitato: dalla prefigurazione della
dispersione sociale (la prostituzione) al rito profano della "figliata" coi
simulacri fallici, al soldato americano sventrato, con il tenero gesto della pietà
umana di Maria Concetta. In questo quadro, l'identità spettatoriale della
cultura popolare partenopea, la flânerie, è ugualmente reificata. Malaparte
intraprende i percorsi tutti incrociantisi della città dedita ad un traffico
abbrutente: dai cunicoli dei Quartieri alle caverne della scogliera, dai tuguri
dei "bassi" alle ville solitarie sulla marina. Lungo tale cammino, il rapporto
tra interno e esterno assume varie figurazioni: la strada tende ad estendersi a
interno, e quest'ultimo, a sua volta, a strada; un richiamo alle relazioni
spaziali nuove e addirittura imprevedibili che rafforzano la dinamica fisicoemotiva dell'esperienza personale e collettiva .
È a Napoli che s'insediano, come un corpo estraneo, i falsi eroi apportando
corruzione alle carenze tradizionali d'una città in cui il popolo è protagonista.
Torme di donne imbellettate, quasi nude, con al seguito turbe di soldati e
bande di ragazzi cenciosi iscrivono la marginalità del desiderio nella mobilità
spaziale: sono le vittime sensibili che concretizzano la destituzione di una
Napoli assuefatta da sempre alla lotta "per non morire", ma non a quella del
"vivere". C'è, poi, evidente, una galleria di ritratti che struttura l'ottica
percettiva di questo teatro del nuovo. Evitando i dettagli estetizzanti e
compiaciuti dello scrittore toscano, la Cavani amplia il campo visivo a
panoramiche preludio del caos (spesso da angolazione alta), a close-up di
volti e oggetti che comunicano la natura precaria e ossessiva del reale. I lenti
spostamenti di macchina, che accompagnano l'occhio nomade di Mastroianni
15
16
Gaetana Marrone
226
di piazza in piazza, di vicolo in vicolo, di casa in casa, configurano la
topografia di una Napoli che ha conquistato un'ironica epifania nelle
immagini che dissacrano i valori canonici dell'Italia postbellica e dei
personaggi positivi di Roma città aperta e Paisà. L'immagine più manifesta
della degradazione umana seguita alla liberazione è la "peste" .
La peste è la visione di uno stato di desolazione, di dissoluzione; è la
rivelazione di un'autentica condizione di morte interiore; è l'allegoria
dell'oscena baldoria a cui è costretta una città ferita, malata, che non ha altro
orizzonte che l'immensa nube nera di lapilli infuocati. La peste, fenomeno
assillante per la sua portata culturale, non è una profezia apocalittica, ma la
ripetizione monotona, raccapricciante dello stesso evento drammatico e
tragicamente concluso:
17
L'onore di esser liberato per primo era toccato in sorte, fra tutti i popoli d'Europa,
al popolo napoletano: e per festeggiare un così meritato premio, i miei poveri
napoletani, dopo tre anni di fame, di epidemie, di feroci bombardamenti, avevano
accettato di buona grazia, per carità di patria, l'agognata e invidiata gloria di
recitare la parte di un popolo vinto, di cantare, batter le mani, saltare di gioia fra
le rovine delle loro case, sventolare bandiere straniere, fino al giorno innanzi
nemiche, e gettar dalle finestre fiori sui vincitori .
18
Il film non si apre in inedia res come il romanzo ("Erano i giorni della peste
di Napoli"), ma con una scena appena sfiorata nel capitolo intitolato "Il
pranzo del generale Cork": quando i primi soldati americani, armati di fucili
mitragliatori, sbarcano a Capri il 16 settembre del 1946 e vanno all'assalto di
una piazza di folla festante. Alle panoramiche del reparto in missione di
guerra si alternano i close-up dell'impresa aviatoria del generale Mark Cork,
ossessionato dalla visibilità strategica della vittoria americana. Accanto a lui,
Malaparte, elegante nella sua impeccabile divisa. Dall'aereo, il protagonista
della liberazione assapora l'atterraggio come una presa di possesso storico,
una violenza culturale capace di far nascere una nuova Italia: ma il risvolto
dello slancio eroico del generale, nell'effettuale realtà di una missione fedele
all'interesse, è l'orrore della città di Napoli. L'entusiasmo eroico avrà, nella
successiva descrizione dei vagabondaggi di Malaparte, nelle strade delimitate
da insegne off limits, i riferimenti visibili di un possesso impossibile, con
l'orrendo contagio; insegne affisse ai muri come gli scudi dei forti si
appendevano alle muraglie delle torri antiche. La Napoli che accoglie il
conquistatore è quella della povertà, della rassegnazione, della scaltrezza,
della decadenza suprema.
Intorno a un libro che vero intreccio non ha, la Cavani costruisce una verità
Il mito di Babele in La pelle di Curzio Malaparte
227
tragica, grottescamente realistica, in forza dell'esperienza fondamentale che
si fa sul corpo, col corpo, come unico strumento di comunicazione . Il corpo
diventa la forma blasfema della pluralità linguistica che assomma a
deviazione e intolleranza, desiderio e repressione. Sul corpo si iscrive il gesto
brusco, violento, di una nuova lingua universale denotata dalla ferocia
(culturale) del liberatore. La peste essenzialmente illumina la compagine
fisica del mondo sensibile degli istinti primordiali, entro la cui sfera, forme di
comunicazione ellittiche assurgono a simboli di oppressione, evocando la
ripugnanza della sopravvivenza. Da qui l'esibizione iterativa di immagini
escatologiche, le "carni nude" immolate su tavoli/altari sacrificali: "la
Sirena", il pesce-bambina disteso sulla schiena in mezzo a un letto di verdi
foglie di lattuga; il corpo insanguinato della "giovinetta" esposto sulla fastosa
tavola del Principe di Candia; il soldato Fred "dal viso puerile" sventrato da
una mina; "la mano" del goumier apparsa nell'immenso vassoio di kouskous;
"i cani" squarciati degli esperimenti militari a cui sono state tagliate le corde
vocali; "l'informe cadavere" del festeggiatore. Da immagini come queste,
espressive di una mise en abîme iconica, si struttura l'architettonica
prefigurativa di vittoria e confusione. La morte diventa evento spettacolare,
nella luce di un ripetuto viaggio nella indifferenziazione. Le figure
rappresentative della liberazione illustrano l'anima ormai scaduta a oggetto
arido. La violenza della peste si rivela nel suo mettere a nudo l'anima del
vinto, e del vincitore, con una ricostruzione filologica nei costumi, negli
ambienti, nei gesti, fotograficamente artigianale, della materia visitata . Nel
dedalo dei vicoli, la voluttà dei sensi è trasgressione, superamento dell'orrore.
Questa opacità conferisce alla peste un grande potere evocativo e estetico.
19
20
4. La Galleria: uomini vivi, in un mondo morto
Il romanzo è "una galleria di abiezioni, degradazioni, nefandezze", scrive
Mino Argentieri e, lamentando nella Cavani la mancanza di un temperamento
barocco, riporta palesemente il film a "un presepe iperrealistico" . Eppure la
Napoli cinematografica svela, con precisa consapevolezza, ciò che è fisso
sotto il fenomeno della liberazione. Nell'atmosfera segreta dei vicoli e nella
tortuosità di nicchie, grotte e porticati, si stagliano i gesti infami e pietosi
compiuti da un popolo ferito per volontà di pace. In La pelle lo sguardo
mobile e ozioso di Malaparte si posa su una galleria di commerci vitali, in cui
risalta supremo il corpo della meretrice, che si veste del mito della grande
Babilonia. In questa prospettiva, è rilevabile come figurativamente la galleria
si associ ad una stazione sotterranea, ad uno spazio socialmente trasgressivo,
nel quale si affresca la negazione di ogni valore . Dalla tratta grottesca dei
21
22
Gaetana Marrone
228
dei prigionieri teutonici, dei soldati negri (il sogno degli scugnizzi), e delle
nane al baratto terribile di bambine e ragazzi, l'immonda città del guadagno è
visualizzata come luogo fantasmatico della voluptas mundi:
Donne livide, sfatte, dalle labbra dipinte, dalle smunte gote incrostate di belletto,
orribili e pietose, sostavano all'angolo dei vicoli offrendo ai passanti la loro
miserabile mercanzia: ragazzi e bambine di otto, di dieci anni, che i soldati
marocchini, indiani, algerini, malgasci, palpavano sollevando loro la veste ο
infilando la mano fra i bottoni dei calzoncini. Le donne gridavano: "Two dollars
23
the boys, three dollars the girls!
AU'imaginario barocco del folclore locale, quello dei "bassi" coi panni stesi,
si sostituisce una Napoli noir e misteriosa, le cui vetrine del desiderio
prefigurano i loci spettacolari della confusione e dello sparagmos. È chiaro
che al gioco delle trasgressioni nell'oscura attesa di un mondo liberato si
contrappone il gioco delle espressività iconiche: nella gestualità grottesca dei
corpi si consuma la deviazione dai codici morali gerarchizzati, l'esperienza
più nuda e rivelatrice del vinto. In questo senso, l'iperrealismo della Cavani
rappresenta, attraverso immagini pregne (i dialoghi sono ridotti al minimo),
l'essenza della liberazione puntando verso la tensione erotica, verso l'orrore
nell'accezione etimologica di "vedere troppo". Il piacere del vincitore è
morboso; e il piacere di Malaparte, il delirio della visione.
Se si assume la galleria come l'architettura vistosa degli incontri cittadini,
un tempio di ritratti-documento, allora si può più propriamente alludere a
rituali carnevaleschi che celebrano lo spazio privilegiato della marginalità.
Da un'angolazione di poetica carnevalesca, l'incontro evoca reminiscenze
sadiche, pur precisando che per Sade la violenza e la morte hanno fruizione
conoscitiva. Malaparte si trova al centro di una esperienza particolare, le cui
radici sono nel profondo, tra corpo e anima, caos e silenzio. Le vetrine della
galleria rappresentano le epifanie dello spettacolo. Dalle schiere di efebi
proletari all'esorbitante tableau della vergine di Napoli, al rito paganoomossessuale della "figliata", la sregolatezza dei corpi, nell'esuberanza
violenta dei gesti e delle grida convulse, è una manifestazione dell'inganno
che regna nella città invilita: la rivelazione del disfacimento nella morte,
nell'effusione della carne. In una scenografia del genere, il corpo è esibito in
posizioni fisse (nel film ci sono pochi movimenti di macchina), simulacro
dell'irrimediabile rovina di ogni valore. Da un lato, Napoli è caratterizzata da
un'animalesca agonia ed è custode di forze dissacranti; dall'altro si avverte
un'anima sensibile che subisce pena. In altri termini, si denuncia che il vero
nemico non è il fascismo ma la corrosione di una città posta
nell'impossibilità dell'eroico. L'itinerario di Malaparte mostra che la visione
di questo tipo di morte è la sua ultima vittoria.
Il mito di Babele in La pelle di Curzio Malaparte
229
In La pelle, la città mercificata diventa necropoli. Il gioco della fantasia
linguistica, rivoltato in decadenza e caos, si proietta in un presente
compendiato nel piacere "sadico" di cedere alla vita. Interprete sensibile della
cultura contemporanea, Liliana Cavani si pone contro ogni totalitarismo
radicale, presentando un'umanità che si interroga drammaticamente
nell'alienazione quotidiana del qualunquismo morale: "Io credo che il
compito dell'uomo di cinema oggi più che mai sia di indagare a fondo nel
labirinto delle nostre strutture grazie, anche alle libertà, peraltro ancora
limitate, che offre la nostra democrazia; di indagare a fondo a qualsiasi costo,
qualunque sia lo scotto che bisognerà pagare per questo tipo di ricerca" . Qui
si registra lo sforzo dell'artista di resistere contro la violenza della storia, e la
perfidia del tempo.
La destituzione del reale nasce dal fondo del mare, o, preannunciata da un
cielo livido, s'effonde dalle voragini di fuoco del dio vendicatore: lo stupro di
Deborah è impregnato dalle esalazioni sulfuree del Vesuvio. La Cavani
frantuma la codificazione ideologica della liberazione consegnando ad un
contesto sociale la nuova realtà cittadina. Lo stato agonico diventa l'essenza
stessa della vittoria. E altro non si dà di questa Napoli che la moltiplicazione
di riti macabri e grotteschi nell'unico continuo evento della occupazione
alleata, rivisitata senza alternative di rigenerazione. In una sorta di città della
malattia e della morte, quale è quella traversata da Mastroianni/Malaparte,
l'oscurità non si schiude alla luce. Ed è così che su una delle città più antiche
d'Italia, la liberazione impone un donativo di morte.
24
GAETANA MARRONE
Princeton University,
Princeton, N. J.
NOTE
1
a
"Introduzione", in Curzio Malaparte, La pelle, l ed. 1978, Milano: Mondadori,
1987, p. VII.
Ibid., p. VI. Quando uscì, La pelle fu bollato di razzismo dai giornali di sinistra,
messo all'indice dal Sant'Uffizio, e al bando morale dalla città di Napoli. Per
l'accoglienza critica del romanzo, si veda Edda Ronchi Suckert, Malaparte, Ponte
delle Grazie: 1994, in particolare il Vol. 9, Parte I.
Daniela Pasti, "Sotto la pelle della Cavani", La repubblica, 21 settembre 1979, p. 13.
Maria Teresa Rienzi, "Napoli, una Babilonia al centro del mondo", L'unità, 29
gennaio 1981, p. 11. Si veda anche l'intervista con Aurora Santuari: "Ritengo sia
necessario guardare nelle mezze ombre e nelle ombre. La pelle mi è piaciuto perché è
un modo di vedere certe vicende attraverso reazioni di stati d'animo, al di fuori dello
2
3
4
Gaetana Marrone
230
scrivere pagine di storia, che ci sono, ma stanno sempre fuori". "Liliana Cavani:
Positiva ambiguità", Paese sera, 29 maggio 1980, p. 19.
Cfr. Γ intervista della Cavani con Lietta Tornabuoni, "La pelle è la nostra bandiera",
La stampa, 23 maggio 1981, p. 3.
Pasti, "Sotto la pelle della Cavani", p. 13.
Il Press Kit della Gaumont porta in copertina l'iscrizione: "Ogni pelle umana ο di
cane è la carta geografica del mondo". Nell'intervista con Giuseppe Bocconetti la
regista ribadisce l'intenzione di universalizzare la storia: "Il film non parla solo dei
mille modi di salvare la pelle: la pelle è carne, riguarda soldati e civili, donne e
uomini, bambini e vecchi, coraggiosi e vili". "La pelle di Napoli", ibid. (Archivio
privato). Tutte le citazioni sono per gentile concessione della regista.
Il film ha suscitato vivaci polemiche e prese di posizioni violente. Anche la sorella
di Malaparte, Edda Suckert Ronchi, denuncia l'adattamento cinematografico ed in
particolare il ruolo voyeuristico del personaggio interpretato da Mastroianni. Si
vedano Silvestro Serra e Maria Simonetti, "Sulla pelle di Curzio", Panorama, 24
novembre 1980, pp. 178-82; Giordano Bruno Guerri, "Quell'addormentato di
Mastroianni non assomiglia a mio fratello", Domenica del corriere, 13 giugno 1981,
pp. 58-65.
Gianni Grana parla di una "medievale oratoria". Malaparte, Il Castoro n. 13,
Firenze: La Nuova Italia, 1968, p. 113. È Luigi Baldacci a definire La pelle "un
carnevale all'inferno", essendo l'inferno un'irrimediabile tappa d'arrivo, senza
ritorno. "Introduzione", in Malaparte, La pelle, pp. IX-X. Per le pratiche sociali
associate al carnevalesco, si rimanda a Robert Stam, Subversive Pleasures: Bakhtin,
Cultural Criticism, and Film, Baltimora-Londra: The Johns Hopkins University Press,
1989, pp. 93-94.
Malaparte, La pelle, pp. 224-25.
Ibid., p. 5. La Cavani individua nella Babele delle lingue uno degli assi portanti
della narrazione filmica. Si veda l'intervista con Gian Luigi Rondi, "Liliana Cavani:
'La pelle' ricordando Malaparte", Il tempo, 22 marzo 1981, p. 12. Per il campo
figurale proprio del mito della Torre di Babele, cfr. Maria Corti, Il viaggio testuale,
Torino: Einaudi, 1978, pp. 245-49.
Lo storico americano Robert Katz, a cui la regista si rivolge per la sceneggiatura,
commenta su alcuni cambiamenti apportati al romanzo: "La cosa che ci interessava
era il contrasto di due civiltà. Napoli 1944: è qui che è nato il mito postbellico
dell'America che dà da mangiare a tutti. Malaparte lo ha registrato come cronaca, ma
non poteva, allora, approfondirne il significato storico, anche se era ben conscio dei
drammi in atto e li ha descritti meglio di chiunque altro. Tuttavia, non credo che
Liliana veda il film principalmente come veicolo di idee; Liliana vuole creare uno
spettacolo e La pelle sarà un formidabile spettacolo". Gideon Bachmann, "La pelle
senza Malaparte", Gioia, 27 aprile 1981, p. 36. La regista conferma che il film non è
né "una pagina di 'Storia' né un Documento né un Discorso, ma soltanto un filmfiction che l'autore racconta per il piacere di raccontare". E aggiunge sul personaggio
di Malaparte: "Nel film non è il discusso personaggio che fu, ma semplicemente il
protagonista di una storia così come lo è appunto nel romanzo. Non si sa se le altre
persone del romanzo siano esistite tutte quante ma si ha il sospetto di sì. Si suppone
che anche i cani siano realmente esistiti. Esistiti tutti attraverso la loro pelle, delicata,
5
6
7
9
10
11
Il mito di Babele in La pelle di Curzio Malaparte
231
offensibile: la bandiera che Dio fece a propria immagine e somiglianza". "La pelle un
film di Liliana Cavani" (Press Kit); rist. L. Cavani, "La pelle", L'araldo, 22-23
maggio 1981, pp. 8-9.
"Documenti autobiografici", in Malaparte, La pelle, pp. 295-96. Anche Giuseppe
Pardini, fra gli altri, insiste sul "declino sociale e civile italiano ed europeo" come
tema centrale dell'opera di Mapalarte. Curzio Malaparte: Biografìa politica, pref.
Francesco Perfetti, Milano-Trento: Luni Editrice, 1998, p. 24.
Aldo Tassone, Parla il cinema italiano, vol. II, Milano: Il Formichiere, 1980, p.
142.
Malaparte, La pelle, p. 256.
"La pelle un film di Liliana Cavani" (Press Kit). Cfr. anche Malaparte, La pelle, pp.
25-26.
Per un'acuta analisi del nomadismo legato alla cultura partenopea, si veda Giuliana
Bruno, Streetwalking on a Ruined Map: Cultural Theory and the City Films of Elvira
Notari, Princeton: Princeton University Press, 1993, pp. 45-49.
Malaparte iniziò a scrivere La pelle nel 1945, a Livorno, col titolo originale di La
peste. Quando nel '47 Camus pubblicò l'omonimo romanzo, Malaparte dedicherà alla
peste solo il primo capitolo del libro. Northrop Frye attribuisce alla storia della Torre
di Babele, con le sue immagini apocalittiche, l'ironica epifania della Bibbia. Cfr.
Anatomy of Criticism: Four Essays, Princeton: Princeton University Press, 1957,
p.206.
Malaparte, La pelle, p. 5. In testa al romanzo, si cita l'Agamennone di Eschilo: "Se
rispettano i templi e gli Dei dei vinti, /i vincitori si salveranno". L'altra dedica è di
Paul Valéry ("Ce qui m'intéresse n'est pas toujours/ce qui m'importe"). Annota la
Cavani nel press kit della Gaumont: "I templi sono ogni casa di Napoli, ogni pelle
umana ο non umana. Ogni pelle d'uomo e di cane" (Archivio privato). Cfr. Malaparte:
"È la civiltà moderna, questa civiltà senza Dio, che obbliga gli uomini a dare una tale
importanza alla propria pelle. Non c'è che la pelle che conta, ormai. Di sicuro, di
tangibile, d'innegabile, non c'è che la pelle. È la sola cosa che possediamo. Che è
cosa nostra". La pelle, p. 110. Nel film, l'archetipo supremo del Cristo non è liturgico
ma tragico.
Cavani: "La crudeltà è un mezzo d'espressione che sostituisce tanti discorsi, un
modo di comunicare più profondo delle parole. L'esperienza umana fondamentale e
forte è quella fisica, che si fa sul corpo, col corpo". Tornabuoni, "La pelle è la nostra
bandiera", p. 3.
Cavani: "Ad Armando Nannuzzi, il direttore della fotografia, ho chiesto proprio di
tenersi alle cose esattamente come le vedeva...Il mio rapporto con la realtà, nel film, è
quello di una ricostruzione obiettiva, artigianale, fotografica di una realtà così come la
si può rifare oggi". Gian Luigi Rondi, "Liliana Cavani: La pelle ricordando anche
Malaparte", p. 12. Per il carattere sovversivo della peste, si veda Malaparte, La pelle,
p. 26. Nota René Girard che la peste si associa universalmente a un processo di
indifferenziazione che abroga connotazioni specifiche. La morte ne è la forma
suprema. La danse macabre medievale si ispira difatti alla peste. Tra la peste e il
disordine sociale c'è una affinità reciproca: gli scambi umani crollano provocando il
dissolvimento graduale del nucleo sociale. La peste è una metafora trasparente per una
certa violenza mimetica che si diffonde letteralmente come il morbo e richiede una
12
13
14
15
16
17
18
19
20
Gaetana Marrone
232
vittima occasionale. La crisi socio-culturale apportata dalla peste è di dimensioni
apocalittiche: confusione, desiderio erotico, un gioco di maschere. To Double
Business Bound: Essays on Literature, Mimesis, and Anthropology, Baltimora: The
Johns Hopkins University Press, 1988, pp. 136-54.
"La pelle: Una Napoli da presepe", Rinascita, 23 ottobre 1981, p. 32. Argentieri
prende a modello l'omonimo titolo del libro di John Home Burns (The Gallery, 1947),
in cui la Galleria Umberto I figura come il centro culturale e geografico della vita
napoletana. Ai tempi di La Sfida, Francesco Rosi se ne era ispirato per una
sceneggiatura che non fu mai tradotta in film.
Cfr. Bruno, Streetwalking on a Ruined Map..., p. 44.
Malaparte, La pelle, p. 11.
"Cinema politico in Italia", Rivista del cinematografo (novembre 1970), p. 521, a
cura di Mario Foglietti.
21
22
23
24