Untitled - Istoreco

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RICERCHE STORICHE
Anno XXXX
N. 102 ottobre 2006
Direttore
Ettore Borghi
Rivista semestrale di Istoreco
(Istituto per la storia della resistenza
e della società contemporanea in
provincia di Reggio Emilia)
Vice Direttore
Mirco Carrattieri
Direttore Responsabile
Carlo Pellacani
Coordinatore di Redazione ed editing
Glauco Bertani
Foto di copertina, pp.7 e 139:
Meuccio Ruini (per gentile concessione
Biblioteca “A. Panizzi” Fototeca, Reggio
Emilia)
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Barbara Mantovi, Fabrizio Montanari, Francesco Paolella,
Ugo Pellini, Massimo Storchi, Antonio Zambonelli
Direzione, Redazione,
Amministrazione
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e della Società contemporanea
in provincia di Reggio Emilia
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Reggio Emilia n. 220 in data 18 marzo 1967
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ConilcontributodellaFondazionePietroManodori
Indice
Ricerche
Atti del Convegno “Meuccio Ruini e le radici della Costituzione repubblicana”
– Reggio Emilia, 19 novembre 2005
Antonio Zambonelli, Meuccio Ruini (1877-1970);
Franco Bojardi, Meuccio Ruini tra Belle époque e Italia repubblicana;
Roberto Marcuccio, L’Archivio Meuccio Ruini presso la Biblioteca Panizzi di
Reggio Emilia;
Alberto Ferraboschi, Meuccio Ruini e la vita politico-amministrativa a Reggio
Emilia nell’età giolittiana;
Mirco Carrattieri, Tra impegno ed evasione: Meuccio Ruini storico;
Simone Campanozzi, Meuccio Ruini: il pensiero politico e giuridico di un
padre della Costituzione.
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Cleonice Pignedoli, Gli internati slavi a Castelnovo ne’ Monti
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Michele Bellelli, Fabbrico: una battaglia che non s’aveva da fare?
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Note & Rassegne
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Michele Bellelli, 1946 e dintorni: la ricostruzione a Reggio Emilia
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Francesco Paolella, Berneri in Spagna tra guerra e rivoluzione
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Fabrizio Montanari, Vittorio Cantarelli. L’anarchico reggiano che organizzò
un attentato a Mussolini
161
Giulia Frattini, Legittimazione e potere, il sistema ddr. L’antifascismo di
Stato e le pratiche di legittimazione del potere nella Repubblica democratica
tedesca
171
Francesco Paolella, «Rastrellati e deportati». La repressione antipartigiana e
l’internamento nei Konzentrationslager. Istituto storico di Parma, 8-9 maggio
2006
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Recensioni
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Attività dell’Istituto
Il Gruppo Giovani Ricercatori Reggiani
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Ricerche
Meuccio Ruini (1877-1970)
Antonio Zambonelli
Bartolomeo (poi per sempre “Meuccio”) Ruini è nato a Reggio Emilia il 14.12.1877. È
morto a Roma il 6 marzo 1970. È sepolto, per sua espressa volontà, nel cimitero di Canossa,
ai piedi del celebre castello. Dopo le scuole elementari e medie a Reggio, eccolo all’Università
di Bologna dove si laurea in Giurisprudenza nel 1903 con una tesi di Filosofia del Diritto.
L’anno successivo è a Roma con l’intenzione di intraprendere la carriera universitaria. Per
mantenersi agli studi partecipa ad un concorso (piazzandosi al primo posto) per un impiego
al ministero dei LLPP. Lavora, studia, pubblica articoli e saggi su riviste specializzate. Gli
originari, e comunque mai abbandonati, interessi scientifici, diventano ben presto anche
politici. Dalle posizioni prampoliniane della giovinezza emiliana, nel 1906 approda ad
una visione liberal-socialista e pubblica il documento programmatico “Per un movimento
radical-socialista”.
Nel 1907 viene eletto consigliere comunale a Roma e provinciale a Reggio. Varie le riviste
e i giornali a cui collabora: “Critica sociale” di F. Turati, “La Giustizia” di C. Prampolini,
“Il Giornale del Genio Civile”… Come funzionario ministeriale si occupa a fondo della
questione meridionale, in contatto anche col grande meridionalista Giustino Fortunato.
1912: si dimette da consigliere comunale a Roma e viene nominato direttore generale
Servizi speciali per il Mezzogiorno in seno al ministero dei llpp.
1913: è candidato nelle liste radicali, rompendo così definitivamente col socialismo
“marxista”, e viene eletto al Parlamento nel collegio reggiano di Castelnovo Monti. L’anno
appresso viene nominato consigliere di Stato.
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Su posizioni di “interventismo democratico” (come Salvemini ed altri) nel 1915 è
volontario come sottotenente del Genio, poi tenente dei bersaglieri. Decorato di medaglia
d’argento al v.m.
Dal 1916 riprende la sua attività pubblicistica, anche con un mensile da lui fondato,
“La Nuova Rassegna”. Legato alla terra reggiana, trova anche il tempo (agosto 1916) per
commemorare a Canossa la contessa Matilde.
Rieletto al Parlamento nel 1919, sempre come radicale e nel collegio della montagna
reggiana, prosegue un veloce cursus honorum: sottosegretario all’Industria, Commercio e
Lavoro nel governo Orlando, ministro per le Colonie con Nitti, vice presidente commissione
finanze con Giolitti (1920).
Dal 1922 è a fianco di Giovanni Amendola nella fondazione e nella redazione del
quotidiano politico “Il Mondo”.
Fermo oppositore del fascismo, nel 1924 è, ancora con Amendola, protagonista della
fondazione dell’Unione nazionale. Con le leggi eccezionali del 1926 anche “Il Mondo” è
costretto a cessare le pubblicazioni. Amendola sarà vittima della violenza squadrista. L’anno
dopo Ruini rifiuta gli allettamenti di Mussolini per un incarico ministeriale. Viene estromesso
dal Consiglio di Stato.
Avendo rifiutato il giuramento di fedeltà al fascismo, ebbe sbarrate le vie dell’insegnamento
e della professione forense.
Arrangiandosi, negli anni della dittatura, con la modesta pensione e occasionali
collaborazioni anonime, mantiene rapporti con personalità dell’antifascismo. Nel 1942
fonda, in clandestinità, il partito della Democrazia del lavoro. Dopo la caduta del fascismo
è tra fondatori del cln.
Ministro dei llpp (1944) nel Regno del Sud, dopo la Liberazione è ministro della
Ricostruzione nel governo Parri. Nel 1946 è eletto all’Assemblea costituente, diventando
anche presidente della Commissione dei 75.
Senatore di diritto dopo le elezioni del 1948, il 25 marzo 1953 viene eletto presidente
del Senato. Si è nel pieno della violenta polemica su quella “legge truffa” con la quale la
dc puntava (ma non riuscì) a conquistare la maggioranza assoluta. Colpito anche dagli
ingenerosi attacchi delle sinistre, Ruini rifiutò ogni candidatura per ripiombarsi totalmente
(aveva 76 anni…) nella sua attività di studioso. Presidente del cnel dal 1957 al 1959, nel
1963 venne nominato Senatore a vita. L’ultimo dei suoi moltissimi scritti èditi è dedicato al
ventennale della Costituzione e viene pubblicato nel 1967.
Ormai quasi novantenne, ripensando al passato mentre attendeva con serena malinconia
la morte, Ruini ebbe a scrivere queste significative parole: «Il ricordo di aver promosso il
Comitato di liberazione nazionale e diretto i lavori per la Costituzione mi basta per dar
ragione di una non inutile vita».
Con questo fascicolo, “rs” intende dedicare al grande statista – a sessant’anni dalla
Costituente – un insieme abbastanza esaustivo di saggi, frutto di un riuscito convegno ed
opera di studiosi prevalentemente giovani, a dimostrazione del persistente interesse per la
figura del Ruini studioso, parlamentare, oltre che “padre” della carta costituzionale.
Il convegno “Meuccio Ruini e le radici della Costituzione Repubblicana”, svoltosi il 19
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novembre 2005 presso l’auditorium dell’Istituto Musicale “Achille Peri”, è stato organizzato
da anpi-alpi-apc-istoreco con la collaborazione del Comune e della Provincia di Reggio
Emilia, della Comunità Montana, dei Comuni di Canossa e San Polo d’Enza e con il
patrocinio della Regione Emilia Romagna.
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Meuccio Ruini tra Belle époque
e Italia repubblicana
Franco Bojardi
Ho conosciuto Meuccio Ruini nell’estate del 1968, dopo l’arrivo nella mia
casella postale a Montecitorio di un suo bigliettino di felicitazioni per la mia
elezione alla Camera dei deputati.
Non avevamo mai avuto l’occasione d’incontrarci e forse temeva che gli
impegni, soprattutto i miei, di pendolare tra la Circoscrizione Emilia-Nord e
Roma alle prese con fitti ordini del giorno in cui ormai da anni non figurava il
suo nome e riunioni di lavoro dappertutto, continuassero ad impedircelo.
Adesso, ad interporsi, erano anche le sue condizioni di salute, l’impossibilità di camminare, l’essere relegato in casa, se non per qualche adempimento
urgente e irrinunciabile al Senato, portato di peso. C’era, dunque, un’ombra
di rassegnato pessimismo in quel primo invito ad un colloquio tra reggiani,
probabilmente non privo di riferimenti e riflessioni comuni.
In realtà, il primo pomeriggio disponibile l’avevo riservato a lui: un uomo
segnato dalle intemperie di un’esperienza politica gravosa e amara, dagli improperi che per anni gli erano stati riversati addosso, dalla messa da parte
dei suoi contributi, dall’isolamento negli anni del fascismo (dopo il rifiuto
del seggio ministeriale che Mussolini gli aveva offerto dalla costituzione del
suo governo), dai rovesci della vicenda della “legge truffa”. I segni, con ogni
evidenza, se li portava addosso: i segni di una grande modestia nel vivere,
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nel vestire, nell’atteggiarsi, nel giudicarsi, nel tenersi in ombra, nell’affidarsi ai
propri scritti, alle testimonianze, ai ricordi della sua vita. Abitava dal 1908 in
un appartamento di una cooperativa degli impiegati che aveva contribuito a
costruire, disadorno, ma sovraccarico di libri, di documenti che ne contrassegnavano gli impegni di lavoro e di ricerca, innumerevoli faldoni di carte e materiali suddivisi per argomento, rintracciabili, tenuti con ordine ma accatastati
in pesanti scaffalature e, in molti casi, accatastati per terra. Era d’acchito, la
prima impressione che balzava agli occhi, entrando in quella sorta di magazzino sconcertante: che altri non avrebbero potuto utilmente mettervi mano.
Del resto, si sapeva che era ormai il suo compito dominante, adesso, farne un
riordino totale. Il presidente del Senato, Amintore Fanfani, ne aveva deliberato
la sistemazione, raccogliendone in un’apposita collana, da Giuffré, la parte
più consistente, quella che, ancora, meritava d’essere studiata, riproposta all’attenzione di un mondo politico fin d’allora carico di rischiose disattenzioni.
Senatore a vita con decreto 2 marzo 1963, Ruini aveva accettato di predisporre
le sue carte (un bene prezioso) per destinarle alla biblioteca del Senato con
la sua morte. Purtroppo, dopo la consegna, non se ne saprà più nulla, e sono
troppi gli anni trascorsi per sperare nella loro ricomparsa, anche se non è mai
detto. Senza le carte di Ruini mancano sicuramente tasselli importanti alla
comprensione delle nostre vicende storiche. Tra le carte, infatti, si sarebbero
riscoperte mille storie: storie di battaglie politiche, ai confini di moderatismo
liberale e radicalismo, tra democrazia e fascismo, tra guerra, guerre e la ricostruzione del Paese; storie di confronti sociali e culturali tra Nitti e Ruini, tra
Turati, Colajanni e Prampolini, lungo le rassegne e le puntualizzazioni dell’“Avanti” e di “Critica sociale”; storie di vertenze amministrative, sindacali e di
scontri istituzionali, del sorgere di nuove formazioni sociali, di enti pubblici,
di politiche di lavori pubblici.
Era inevitabile che si parlasse di tutto, anche se era quell’ingombro di carte,
che impediva quasi di entrare a prendere la mano. Rimanevano, evidentemente, sullo sfondo i riferimenti reggiani. Era profondamente cambiata la città,
cambiati gli uomini rappresentativi, scomparsi tanti amici. In quel pomeriggio
d’estate, Ruini si avviava a compiere novantun anni, io ne avevo trentasette:
due mondi probabilmente troppo distanti dal potersi rapportare. Eppure la
loro contiguità si era fatta largo senza esitazioni nello scorrere infrenabile
degli argomenti e delle ricognizioni critiche. Verso la sua città nutriva i suoi
principali risentimenti, come se l’avessero dimenticato, tagliato fuori da ogni
opportunità di invito, di richiesta di collaborazione. La sua stessa designazione
al ruolo di senatore a vita era passata quasi sotto silenzio. Per la città sembrava
un cittadino assente, uscito dalle scene, anche se tutti gli anni trascorreva parte
delle vacanze nella sua villa di San Polo. Mai che fosse invitato, in nome del
suo passato o della sua autorevolezza, per una commemorazione ufficiale, per
un discorso di circostanza: era scomparso e lo resterà per anni e anni dall’ordine del giorno. Di lì, probabilmente, la preoccupazione di morire già tranciati i
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fili della memoria, prigioniero di quel mare di carte, di spiegazioni inascoltate,
di definizioni ambigue e pagine oscure.
Il suo “caso”, col passare degli anni, era diventato un assillo.
La Presidenza del Senato, tenuta solamente per cinque giorni tra il 25 e il 29
marzo 1953 per portare a termine l’iter di approvazione della legge elettorale
e il passaggio al sistema maggioritario a ridosso delle elezioni politiche, era
diventata uno scandalo: uno scandalo appiccicoso eppure lasciato in disparte,
inoffensivo e, in pari tempo, incancellabile. In buona sostanza non c’era molto
da dire sul suo operato, ispirato, come aveva dichiarato in alcune occasioni, al
rispetto delle regole democratiche. La situazione gli era sfuggita di mano, ma
solo per l’irrigidimento dello scontro politico. Accettando l’incarico, a Palazzo
Madama, Ruini era convinto, dopo un colloquio avvenuto separatamente con
De Gasperi e con Togliatti di poter negoziare un allentamento dello scontro
e l’avvio di una sorta di normalizzazione del quadro politico, proponendo
una riduzione sensibile del premio di maggioranza. Lo scopo da raggiungere
era di garantire la stabilità del governo senza mettere a rischio la continuità
dei principi costituzionali. Con ogni probabilità, la vicenda politica italiana
avrebbe preso un corso diverso, se a battersi in sostegno del faccia a faccia
che dilaniava il Paese non fosse sceso in campo il segretario nazionale della
dc Guido Gonella col sostegno della destra del suo partito. I comunisti e i
socialisti non avevano avuto neppure il tempo di esaminare la proposta. Del
resto, bisognava stringere con urgenza. I tempi non c’erano e, a ben vedere,
era il solo De Gasperi a mettersi a rischio e a ritrovarsi allo sbaraglio, forse
insieme al solo Ruini. Non a caso, nel settembre del ’53, Gonella si vedrà costretto alle dimissioni dalla segreteria del suo partito lasciandola nelle mani di
De Gasperi. Pagava il prezzo di un errore politico irrimediabile, diluito lungo
scadenze di non immediata percezione, mentre Ruini era tolto di mezzo da
tutti, agli imbocchi di una legislatura che si apriva con l’abrogazione di una
legge elettorale appena giunta al naufragio.
Si era battuto con lucidità e fermezza, aveva perso e si era ritirato in buon
ordine, rinunciando alle candidature al Parlamento, che De Gasperi e Saragat
gli avevano offerto con insistenza. Resterà, quindi, un decennio alla finestra,
sino alla nomina di senatore a vita, senza tuttavia respingere il richiamo di altri
compiti, come quello, nell’estate del 1959, d’assumere la presidenza del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, su proposta del premier Adone
Zoli. Ruini, che aveva saputo metterlo in funzione con abilità e senso della
misura, facendo perno sulle sue straordinarie capacità amministrative, aveva
quindi rinunciato all’incarico di lì a poco più un anno. Il cnel, adesso, era in
grado di camminare da solo e la “occupazione del potere” non era certo materia che riguardasse Ruini, sin dal suo trasferimento a Roma, avvenuto nel 1900.
Si era appena laureato in giurisprudenza e aveva seguito a Roma il maestro
Icilio Vanni per destinarsi agli studi accademici e all’insegnamento. Per mantenersi aveva partecipato a un concorso presso il ministero dei Lavori pubblici
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riuscendo al primo posto. Si sarebbe via via ritrovato tra le figure eccellenti
dell’apparato dello Stato e, dal 1904, tra le file del partito radicale. Aveva, di
sicuro, una bella storia alle spalle: deputato nel collegio della montagna reggiana nel 1913, insignito di medaglia d’argento al valor militare, sottosegretario
all’Industria, commercio e lavoro nel governo Orlando (1919) e nel governo
Nitti (1919-1920), ministro delle Colonie nel secondo governo Nitti, redattore
de “Il Mondo”, tra i fondatori dell’Unione nazionale (1924); nel 1927, per il
suo antifascismo, veniva allontanato dal Consiglio di Stato di cui era membro
dal 1924. Tra i firmatari del manifesto degli intellettuali antifascisti redatto dal
Benedetto Croce, sin dalla fondazione del cln si sarebbe trovato alla testa del
processo di riconquista della democrazia.
Sarebbe stata la “legge truffa” a produrne una sorta di sprezzante cancellazione. Questo il suo rammarico. Sapeva bene di correre il rischio, con tutto
quello che aveva fatto, d’essere ricordato solo per quello. Voleva sfuggire, nonostante la messa a disposizione della sua profonda cultura costituzionale, a
una spietata e invincibile omologazione. Lui non aveva voluto la legge truffa.
In qualche modo, l’aveva subita. Aveva fatto il suo dovere, aprendo strade che
altri avevano cercato d’impedire pregiudizialmente. Sperava ch’io lo capissi.
Per questo aveva voluto forse incontrarmi. E, in effetti, non avrei più tralasciato una sola occasione per farne l’elogio e ribadirne la stima.
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L’Archivio Meuccio Ruini presso la
Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia
Roberto Marcuccio
Meuccio Ruini (1877-1970) vide la luce a Reggio Emilia nel penultimo anno
di regno di Vittorio Emanuele II, quando la parabola risorgimentale aveva da
poco toccato il suo apogeo con la conquista di Roma capitale, e morì nella città capitolina mentre si chiudeva il settennato del presidente della Repubblica
Giuseppe Saragat, nel periodo che vedeva lo sviluppo dei movimenti sociali e
culturali sorti negli anni 1968-19691.
Questo dato basta da solo a rendere conto dell’ampio e diversificato arco
temporale lungo il quale si è dispiegata la carriera dell’uomo politico reggiano,
con una notevole molteplicità di esperienze in campo politico e istituzionale e
una fecondissima attività di pubblicista e scrittore2.
L’Archivio Meuccio Ruini, specchio di questa lunga e variegata carriera,
si colloca a pieno titolo fra gli archivi contemporanei di natura economica e
giuridica della Biblioteca Panizzi, insieme con quelli intitolati a Giovanni Rossi
(1845-1921) e Andrea Balletti (1850-1938), ma tutti questi supera per quantità
e pluralità delle testimonianze documentarie in esso conservate.
Obiettivo principale del presente contributo è di fornire un profilo sintetico ma il più possibile esauriente dell’archivio, con una campionatura delle
tipologie documentarie in esso contenute. Secondariamente, ci si soffermerà
sulla presenza presso la Biblioteca Panizzi di altri nuclei documentari relativi a
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Ruini, sull’esistenza – presso altre istituzioni italiane – di documentazione utile
per lo studio di colui che è stato indiscutibilmente uno dei padri della Costituzione repubblicana del 1948, infine sulla fruizione dell’archivio stesso da parte
dei laureandi nelle discipline giuridiche e storico-politiche.
Acquisizione, storia, consistenza
L’archivio Ruini è pervenuto alla Biblioteca Panizzi il 7 ottobre 1988 mediante donazione da parte di Carlo Ruini, figlio di Meuccio, e grazie soprattutto all’interessamento dello storico reggiano Franco Bojardi, che ha fatto da
tramite tra la famiglia del grande uomo politico e l’Amministrazione comunale
di Reggio Emilia.
Quella che è giunta presso la Biblioteca Panizzi è soltanto una parte, seppure considerevole, del materiale manoscritto, dattiloscritto e a stampa, prodotto
da Meuccio Ruini durante la sua lunga e operosa esistenza e raccolto in quello
che lui amava definire «armadio-cimitero dei miei dattilo e manoscritti»3.
Le lacune più significative sono rappresentate da quelle che lo stesso Ruini
ha definito «perquisizioni e sequestri di carte»4, subiti durante il ventennio
fascista e più verosimilmente a partire dal 1926-1927 – dopo la chiusura del
«Mondo» e l’espulsione di Ruini dal Consiglio di Stato –, e dall’assenza dei
materiali relativi a un organico commento della Costituzione e alla possibile
revisione di alcune sue parti che, nei Ricordi, Ruini dichiara «se non avrò la
forza di completare, verranno conservate presso la biblioteca del Senato»5.
L’archivio Ruini si configura come un grande archivio di persona che raccoglie per la maggior parte quanto prodotto dal grande uomo politico reggiano
nell’esercizio delle sue cariche di consigliere comunale, deputato, ministro e
sottosegretario, costituente, senatore, dirigente di partito e nella sua attività
di alto funzionario dello Stato e intellettuale. Una piccola parte dell’archivio
comprende anche fascicoli di corrispondenza di natura familiare e scritti editi
e inediti relativi a Ruini.
L’archivio si compone di 78 buste archivistiche, che raccolgono complessivamente 173 fascicoli o documenti di carte in gran parte manoscritte e dattiloscritte, 333 fascicoli di corrispondenza, 146 stampati e 295 fascicoli di periodici.
L’archivio Ruini ha le tipiche caratteristiche dell’archivio contemporaneo,
nel quale sono compresenti e strettamente connesse tipologie documentarie
diverse, come opere letterarie e carteggi, documenti e ricordi personali, ritagli
di giornale e fascicoli di rivista, bozze di stampa, ecc. Questi materiali non si
trovano quasi mai raccolti in serie distinte, ma integrati fra loro a comporre
una sorta di dossier organici. Vedremo nel corso della trattazione come ciò sia
spesso avvenuto anche per la genesi dell’archivio di cui si parla6.
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Ordinamento, inventariazione, catalogazione
A partire dal momento dell’acquisizione è iniziato un processo di ordinamento, inventariazione e catalogazione, finalizzato a rendere l’importante
patrimonio dell’archivio Ruini pienamente utilizzabile per il mondo degli studi
e della ricerca.
La prima fase, curata da Adolfo Zavaroni nel 1989, ha visto la realizzazione
di un ordinamento preliminare e un inventario sommario, che servissero da
base per gli interventi successivi.
Si è poi dato il via alla catalogazione completa dell’archivio, che, effettuata nel
1992-1993, ha prodotto l’Inventario scientifico, redatto secondo uno standard
locale di descrizione archivistica e pubblicato nell’autunno del 1993 a cura di
chi scrive7.
La terza e ultima fase, non meno complessa e delicata delle precedenti, è
stata quella dell’assegnazione delle segnature archivistiche definitive e della
sistemazione materiale dell’archivio Ruini in cassette e cartelle dotate delle
indispensabili etichette identificative, curata dal personale della Biblioteca Panizzi, sotto la direzione di chi scrive, nel periodo 2001-2003. Questa terza
fase ha consentito che la descrizione dei documenti manoscritti e dattiloscritti
dell’archivio comparisse, con le segnature definitive, nei due cataloghi speciali
online dei Manoscritti e dei Carteggi della Biblioteca Panizzi8.
L’ordinamento dell’archivio, come si rileva dalla Tabella 1, rispecchia le
tipologie documentarie in esso presenti e i campi di attività di Ruini. L’ultima
colonna a destra contiene l’indicazione delle buste archivistiche relative alle
diverse sezioni.
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Tabella 1
Schema di ordinamento dell’Archivio Meuccio Ruini
Compendi e sommari degli scritti
Scritti autobiografici
Scritti biografici e storici
Politica nazionale e internazionale
Economia e diritto
Costituzione
Discorsi e altri scritti
Scritti apparsi in pubblicazioni periodiche
Corrispondenza
Documenti sull’attività pubblica e privata
Scritti editi e inediti su Meuccio Ruini
Documenti a stampa
Raccolte di periodici
Archivio Ruini 1
Archivio Ruini 2-4
Archivio Ruini 5-16
Archivio Ruini 17-19
Archivio Ruini 20-28
Archivio Ruini 29-33
Archivio Ruini 34-43
Archivio Ruini 44-47
Archivio Ruini 48-57
Archivio Ruini 58-64
Archivio Ruini 65-68
Archivio Ruini 69-73
Archivio Ruini 74-78
M. Ruini, Taccuino con appunti presi al fronte, 1915 ca., c. 1v-2r (Biblioteca Panizzi, Archivio
Ruini 4/5)
L’Archivio Ruini attraverso una descrizione a campione dei documenti in esso conservati
Scritti autobiografici
Fra gli scritti di natura autobiografica, accanto a testi redatti nell’ultima fase
della vita, i nove taccuini contenenti appunti presi al fronte documentano la
partecipazione di Ruini come volontario alla prima guerra mondiale, fatto che
gli fece guadagnare una medaglia d’argento al valor militare. Questi taccuini,
più che di natura diaristica, sono veri e propri rapporti sulla situazione al fronte, vista con gli occhi esperti del giovane funzionario e deputato reggiano9.
Scritti biografici e storici
Negli anni 1922-1926 la collaborazione fra Ruini e Giovanni Amendola fu molto
stretta e questo portò Ruini a progettare successivamente Chi era Giovanni Amendola, un profilo del grande parlamentare e politico liberale, che rimane tuttora
inedito. Su Amendola Ruini raccolse un vero e proprio dossier, che comprende,
oltre all’abbozzo di testo, un saggio dattiloscritto di Umberto Cipollone su Liberalismo tradizionale e democrazia schiettamente mazziniana nel pensiero di Gio-
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vanni Amendola, del luglio 1944, ritagli e opuscoli a stampa dal 1926 al
1965 e la trascrizione dattiloscritta
di articoli pubblicati da Amendola
nel «Mondo» fra il novembre 1922 e
il maggio 192410.
L’attenzione di Ruini storico e autore di biografie si concentrò anche
su personaggi del passato, come
il principe Charles-Maurice di Talleyrand-Périgord e il giurista e politico Pellegrino Rossi. La biografia di
Talleyrand è presente nell’archivio
come dattiloscritto inedito11, mentre quella di Rossi fu pubblicata da
Giuffrè nel 196212.
Economia e diritto
La carriera politica di Ruini ebbe
inizio nel 1907 con le cariche di consigliere al Comune di Roma e alla
Provincia di Reggio Emilia. Quest’ultimo ruolo pose le premesse per la
sua candidatura e la successiva elezione, nell’autunno del 1913, come
deputato del collegio elettorale di M. Ruini, La filosofia dell’economia di Benedetto
Castelnovo ne’ Monti. In questa ve- Croce, 1927-1943 ca., c. 2r (Biblioteca Panizzi,
ste Ruini si interessò molto ai pro- Archivio Ruini 28/6)
blemi economici e sociali delle aree
montane, come documenta una miscellanea di rari opuscoli e bozze di stampa,
apparsi fra il 1912 e il 1919, alla quale egli stesso aveva dato il titolo di Problemi
della montagna13. Ruini sosteneva, infatti, che accanto alla questione meridionale
“di latitudine” vi fosse anche una questione della montagna, vale a dire di “altitudine” e ricorderà molto più tardi di essere stato «il primo a formulare un programma
e suscitare un’associazione nazionale per gli interessi della montagna»14.
L’attenzione al fatto economico ha accompagnato la riflessione di Ruini per
tutto l’arco della sua attività. All’interno della collana editoriale «Scritti di Meuccio
Ruini», pubblicata da Giuffrè fra il 1961 e il 1973, era progettata anche una sezione, che poi non vide la luce, dedicata a «Problemi di economia e diritto». Proprio
in questa sezione della collana sarebbe dovuto comparire un importante saggio
dedicato alla Filosofia dell’economia di Benedetto Croce, non datato ma probabilmente scritto negli anni del cosiddetto “esilio in patria”, finora rimasto inedito15. Da
questo voluminoso autografo emerge un esame puntuale del pensiero di Croce
17
M. Ruini, L’Italia restituita agli italiani, “Il Mondo”, 26 luglio 1943 (Biblioteca Panizzi, Archivio
Ruini 72/19)
in materia economica, sui rapporti tra filosofia ed economia e sulle altre scienze
sociali, come psicologia e sociologia.
Costituzione
È lo stesso Ruini a ricordare che l’elaborazione della Costituzione repubblicana fu accompagnata da un attento esame comparativo delle costituzioni di
numerosi paesi europei ed extraeuropei. A conferma di ciò, come del fatto che
Ruini abbia continuato a lavorare su questo tema anche dopo la conclusione
dei lavori dell’Assemblea costituente, l’archivio custodisce un intero dossier
che comprende un fascicolo di Appunti sulle costituzioni di altri paesi, cui è
allegato il testo di numerose costituzioni straniere16. Gli appunti dattiloscritti
comprendono notizie, per esempio, sulle leggi costituzionali di Afghanistan
(1931), Albania (1946), Andorra (1866 e 1941), Argentina (1949), mentre si
allegano i testi delle Costituzioni di Ecuador, Francia, Brasile, ecc.
Sulla Storia delle costituzioni esiste poi un insieme di fascicoli, manoscritti
e dattiloscritti, che rappresentano un compendio del progettato Commento
sistematico alla Costituzione italiana, che sarebbe dovuto essere pubblicato
da utet nel 1949-195017.
Sono invece editi, e particolarmente significativi, due testi che si collocano
agli estremi della riflessione di Ruini sulla Costituzione.
Il primo è il volume Verso la Costituente18, pubblicato a Roma nel 1945, che com-
18
“Ricostruzione. Quotidiano del Partito democratico del lavoro”, 31 dicembre 1944 (Biblioteca
Panizzi, Archivio Ruini 75)
pendia gli studi e le riflessioni preliminari di Ruini intorno ai temi che costituiranno
l’oggetto del lavoro della Commissione dei Settantacinque che redigerà la carta
costituzionale. Ruini si sofferma, infatti, sulla storia e la struttura delle costituzioni
di altri paesi, sui nuovi diritti e le nuove libertà economiche, sugli organi dello Stato, compresi gli organi di garanzia, e sul decentramento e l’autonomia regionale.
Il secondo è il volume La Costituzione della Repubblica Italiana. Appunti riservati19, stampato a Roma nel 1966 in
poche copie da distribuire a parlamentari
e studiosi, nel quale Ruini raccoglie osservazioni stese in momenti diversi, soffermandosi, articolo per articolo, sullo stato
di attuazione della carta costituzionale e
sulle eventuali modifiche. Una valutazione
critica della Costituzione repubblicana era
peraltro già contenuta nel saggio Come
io pensavo la nostra Costituzione, pubblicato nella “Nuova Antologia” dell’agosto
1947, in cui Ruini sottolineava i due punti
che egli aveva maggiormente caldeggiato
e che lo vedevano in disaccordo rispetto
I. Bonomi, Lettera a M. Ruini, 26 marzo 1944, c. 1r (Biblioteca Panizzi, Archivio Ruini 48/26, doc. 7)
19
alle linee prevalenti: la brevità, essenzialità e chiarezza del testo costituzionale e
il riunire in un preambolo i principi generali che non avevano un esplicito valore
precettivo20.
Scritti apparsi in pubblicazioni periodiche
La collaborazione fra Ruini e Amendola si manifestò in primo luogo nella
redazione del quotidiano “Il Mondo”, che fu pubblicato dal 1922 al 1926 con
un chiaro indirizzo liberaldemocratico e antifascista. Su questo giornale, Ruini
pubblicò numerosi articoli di carattere politico, giuridico ed economico, curando anche la rubrica “La vita economica”21.
“Il Mondo” ebbe poi una rinascita effimera ma altamente simbolica il 26
luglio 1943, in occasione della caduta del governo Mussolini. In quella data
Ruini, il più anziano dei redattori superstiti, pubblica un unico foglio che reca,
sotto la testata, le immagini di Amendola e Matteotti e una sua dichiarazione
dal significativo titolo L’Italia restituita agli italiani22, nella quale rilancia il
progetto della democrazia del lavoro in vista dell’unità delle forze democratiche, ai fini dell’immane compito di ricostruzione che attendeva l’Italia.
“Ricostruzione” fu anche il titolo del quotidiano del Partito democratico del
lavoro al quale Ruini aveva dato vita fra il 1944 e il 194623. I principi ispiratori
del partito, espressi da questo quotidiano, erano tratti da un filone di idee
coltivate da Ruini fin dai primi anni del secolo XX e consistevano in un allargamento dello sguardo dal nazionale al sovranazionale – come recita il titolo
di una raccolta di scritti pubblicata nel 196124 –, in una profonda revisione
degli istituti democratici e parlamentari dello Statuto albertino, in una sintesi
fra liberalismo e socialismo, fra lavoro salariato e imprenditoria produttiva,
fra intervento dello Stato e iniziativa privata, infine, in una rifondazione del
costume etico-politico e nella lotta alla corruzione e al privilegio. Si tratta di
principi i quali, come è facile constatare, mantengono ancor oggi vivi molti dei
loro motivi d’interesse.
Corrispondenza
Le dieci buste di corrispondenza dell’archivio Ruini si suddividono in 322
fascicoli di missive a lui indirizzate, un fascicolo di lettere di Ruini a diversi,
quattro fascicoli di lettere ai familiari e uno di carteggi diversi. I fascicoli intestati ai corrispondenti di Ruini conservano spesso al loro interno anche le
minute di risposta dell’uomo politico reggiano.
Fra i corrispondenti di Ruini figurano politici dell’età liberale (Vittorio Emanuele Orlando, Francesco Saverio Nitti, Enrico De Nicola, ecc.) e dell’età repubblicana (Alcide De Gasperi, Ferruccio Parri, Ugo La Malfa, Aldo Moro, Antonio Segni, ecc.), giornalisti e scrittori (Giulio De Benedetti, Mario Missiroli, Giuseppe Prezzolini, ecc.), il
socialista reggiano Camillo Prampolini e figure di rilievo assoluto nella vita politica
e culturale italiana del secolo XX, come Benedetto Croce e Luigi Sturzo.
Un carteggio particolarmente importante è quello con Ivanoe Bonomi25, che Ru-
20
ini aveva conosciuto a Roma ai
primi del Novecento, insieme con
Filippo Turati e Leonida Bissolati, e
al quale resterà sempre legato da
una profonda amicizia e da una
forte comunanza di ideali politici.
Il fascicolo contiene dieci lettere,
spesso non datate, ma che vanno
dal primo decennio del Novecento al 1950, comprendendo il periodo nel quale Ruini e Bonomi collaborarono nel cln e nel governo.
È del 26 marzo 1944 una lettera
nella quale Bonomi sfoga il suo disappunto per le difficoltà in seno
al cln: «Si discute in sei, si vota in
cinque, si delibera in tre. Aggiungi
ancora la pretesa di La Malfa che
il presidente non debba avere opinioni e debba seguire docilmente
la maggioranza, cioè i tre partiti
onnipotenti costituiti in SottocoAtto fondamentale per il periodo di emergenza, 1944 mitato entro il Comitato...»26.
ca. (Biblioteca Panizzi, Archivio Ruini 61/4, fasc. 4)
La corrispondenza Ruini ospita
anche il carteggio con Giuseppe
Dossetti, presidente del cln provinciale di Reggio Emilia, dirigente della Democrazia cristiana, membro dell’Assemblea costituente e, con Ruini, della Commissione
dei Settantacinque. Dossetti abbandonò la vita politica attiva nel 1951 e fu ordinato sacerdote nel 1959, dando poi vita alla comunità monastica di Monteveglio
nell’Appennino bolognese. La corrispondenza fra Ruini e Dossetti, rappresentata
da quattro lettere del sacerdote reggiano e una minuta di lettera di Ruini, redatte
fra il 1953 e il 1967, non è di natura politica, ma personale e in essa Ruini si confronta con Dossetti sui temi della fede religiosa27.
Appartiene invece alla corrispondenza familiare una lettera non datata, ma
scritta da Roma il 9 agosto 1900, nella quale il giovane Ruini tratteggia per i familiari una dettagliata cronaca dei funerali del re Umberto I, cui aveva partecipato personalmente. Ruini descrive con vivacità e precisione la composizione del
corteo e il clima che si respirava fra i presenti, la sfilata di tutta un’Italia ufficiale e
solenne, ancora legata alle tradizioni del Risorgimento, fra due ali di popolo sinceramente commosso. «Vidi la corona ferrea – scrive Ruini –, piccola, grigia, quasi un
giocattolo che posò sulla testa di tanti re ormai dimenticati, [...], vidi delle corazze,
poi solo, avanti gli altri, Re Vittorio, pallido, con un viso durissimo, proteso, che
rivelava lo sforzo contro una commozione divorante»28. Ruini avrebbe avuto in
21
seguito, durante la sua carriera politica, numerose occasioni di incontro con il re
Vittorio Emanuele III, colto qui agli albori del suo regno.
Documenti
Fra i documenti della vasta attività istituzionale e politica di Ruini, spiccano
quelli dedicati al suo ruolo di oppositore democratico al fascismo, di membro
del cln di Roma ed esponente del governo Parri.
Nel novembre 1924, dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti, Amendola aveva dato vita all’Unione nazionale, movimento antifascista di ispirazione democratica, al cui manifesto avevano aderito, accanto a Giovanni Ansaldo, Ivanoe
Bonomi, Piero Calamandrei, Luigi Einaudi, Nello Rosselli, Luigi Salvatorelli e
altri, i reggiani Meuccio Ruini, Giuseppe Giaroli e Giovanni Costetti. L’archivio
Ruini conserva un fascicolo dedicato a questa esperienza, contenente appunti di Ruini e Per una nuova democrazia, il volume degli atti del Congresso
dell’Unione nazionale29. È lo stesso uomo politico reggiano a citare questo
documento nei Ricordi: «ne ho ancora una copia – scrive –, sopravvissuta agli
autodafè dei fascisti o di chi non volle compromettersi»30. Ruini ricorda come
le relazioni presentate a quel congresso, oltre a proporre soluzioni serie e
concrete, ben lontane dalla retorica fascista, seppero in alcuni casi guardare
oltre, alla ricostruzione che sarebbe stata necessaria dopo il tramonto del regime fascista, ponendo un germe del futuro Stato repubblicano. Fu allora che
si iniziò a discutere di una Corte suprema come organo di garanzia per i diritti
essenziali dei cittadini, di un ordinamento giudiziario non asservito a interessi
di parte, di efficaci istituti di decentramento31.
Ruini, che nemmeno durante il ventennio fascista aveva interrotto i contatti con
gli oppositori alla dittatura, promosse con Bonomi, tra la fine del 1942 e gli inizi
del 1943, un coordinamento delle forze antifasciste che il 9 settembre 1943, all’entrata delle truppe tedesche in Roma, si trasformò in Comitato di liberazione
nazionale (cln). Iniziò così il periodo della cosiddetta “esarchia”, cioè il governo dei sei partiti che componevano il cln: democristiani, comunisti, socialisti,
liberali, azionisti e democratici del lavoro. Questa fase è documentata da un
voluminoso dossier, che contiene fra l’altro i primi documenti del cln, come per
esempio l’Atto fondamentale per il periodo di emergenza32. Questo documento
auspica un governo di emergenza che sia emanazione del cln, preannuncia,
a guerra finita, un referendum istituzionale – mentre dichiara fino a quel momento l’astensione dei partiti da qualsiasi forma di propaganda in proposito –,
infine dichiara la necessità che il governo provvisorio si impegni nella revisione
delle leggi e degli organismi ereditati dal fascismo e nella ricostruzione.
All’attività di Ruini come ministro per la ricostruzione, carica occupata dal
giugno al dicembre 1945, sono legati trenta fascicoli dattiloscritti, corrispondenti ad altrettanti pareri di esperti circa le più urgenti questioni della ricostruzione postbellica. Ruini, infatti, come ricorderà più tardi, aveva raccolto,
intorno al ministero e al Comitato interministeriale per la ricostruzione, «in
22
volontaria ed assidua collaborazione i più bei nomi degli economisti italiani,
tecnici ed amministratori valenti»33. Fra questi Luigi Einaudi, allora governatore
della Banca d’Italia, che aveva presentato una memoria Sul cambio dei biglietti, datata 12 settembre 194534, nella quale, come ricorderà Ruini, il grande
economista manifestava la sua contrarietà al cambio della moneta35.
Non mancano infine nell’archivio Ruini documenti relativi alla nota e controversa vicenda della presidenza del Senato e dell’approvazione della legge
elettorale con premio di maggioranza, la cosiddetta “legge truffa”. A questo
episodio, che nella primavera del 1953 segnò una cesura nella carriera politica
dell’anziano Ruini, si riferiscono documenti manoscritti, dattiloscritti e a stampa36, ritagli a articoli stralciati dalla stampa di partito e d’informazione e dagli
“Atti parlamentari” del Senato”37, messaggi di solidarietà pervenuti a Ruini in
occasione della sua elezione a Presidente del Senato e in seguito alla burrascosa seduta del 25 marzo 195338.
Altri interessanti documenti sono quelli relativi alla presidenza del cnel, tenuta da Ruini nel 1958-1959. Di questo periodo rimangono, separati dal resto
della corrispondenza, quaranta fascicoli con 371 lettere e minute di lettere39,
che documentano il ruolo di Ruini nella creazione di un organismo che aveva
sostenuto fin dal primo dopoguerra40.
Scritti e documenti di Ruini in altri fondi della Biblioteca Panizzi
La Biblioteca Panizzi conserva altri documenti, manoscritti e a stampa, relativi a Ruini, cui si accenna per maggior completezza.
A parte tredici opere a stampa, pubblicate prima del 1970 e non presenti nell’archivio41, ci sembra interessante richiamare due fascicoli di corrispondenza,
contenenti rispettivamente lettere di Ruini ai reggiani Naborre Campanini e
Cirillo Manicardi.
Le dieci lettere a Campanini42, una delle quali probabilmente diretta ad
altro destinatario, sono relative al periodo 1903-1914, salvo tre non datate, e
sono interessanti per i contatti che Ruini, già residente a Roma, prendeva con
l’amico Campanini per organizzare, sia in veste ufficiale che privata, escursioni
a Canossa, definita da Ruini il “regno” di Campanini. In una delle lettere, non
datata ma collocabile fra il marzo 1902 e il febbraio 1903, Ruini raccomanda
all’amico «il Cav. Di Scanno, segretario di gabinetto dell’On. Balenzano» e gli
consiglia di intrattenersi con lui, anche per valersi del suo aiuto per eventuali
lavori o iniziative in favore di Canossa, data la vicinanza fra il Di Scanno e il
ministro dei Lavori pubblici. In più, aggiunge Ruini, «il Di Scanno è fratello
mio43», alludendo all’adesione alla massoneria, che fino al 1920 avrebbe accomunato Ruini e Campanini. In altra lettera, anch’essa non datata, ma ascrivibile
al periodo 1913-1919, Ruini sottopone a Campanini l’idea di una visita a Canossa dell’ambasciatore statunitense Thomas Nelson Page e di quello francese
Camille Barrère, aggiungendo ironicamente «ma uno basta»44.
23
Da segnalare anche la lettera di Ruini al pittore Cirillo Manicardi, non datata
ma relativa agli anni 1910-1914. Qui Ruini dà prova del suo interesse per l’arte
e del profondo legame con la sua terra d’origine, lamentandosi della mancata
visita al pittore, perché distratto dal fratello Carlo e da Antonio Vergnanini
(“Tognola”), interessati alle questioni della cooperazione. Ma, conclude Ruini,
«si aspetti una di queste domeniche l’invasione di un reggiano che ha caro
chi rende onore a Reggio e persegue, in un silenzio modesto, idealità altissime»45.
Infine, un semplice ma significativo atto di testimonianza da parte di Ruini,
durante il ventennio fascista e il cosiddetto “esilio in patria”, è la sua firma nel
registro delle condoglianze esposto a Milano, il 30 luglio 1930, in occasione
della morte di Camillo Prampolini46.
Documenti relativi a Ruini conservati presso altre istituzioni
Il processo di relativa dispersione subito, come abbiamo visto, dall’archivio
Ruini, rende ancora più importante segnalare documenti relativi a Ruini, presenti presso altre istituzioni.
Senza proporci un impossibile panorama esaustivo, ci sembra però di una
qualche utilità accennare ad alcune carte conservate a Roma.
L’Istituto Luigi Sturzo conserva, nel fondo Giuseppe Spataro, quindici documenti attinenti all’uomo politico reggiano. Si tratta di una minuta di lettera
di Spataro a Ruini (23 agosto 1943), di dodici lettere di Ruini a Spataro dal 22
agosto 1944 al 1963 e di due fogli di appunti di Ruini, datati rispettivamente
1° agosto 1945 e 19 dicembre 1963. L’uomo politico democristiano Giuseppe
Spataro (1897-1979), che con Ruini aveva contribuito alla nascita del cln, ricoprì numerosi incarichi istituzionali e di partito e la corrispondenza fra i due
politici è legata essenzialmente alla loro attività istituzionale47.
Sempre presso l’Istituto Luigi Sturzo, si conserva un fondo librario intitolato a Meuccio Ruini e comprendente circa duecento titoli, fra cui molte opere
di Ruini, pubblicazioni ufficiali del Governo e delle Camere e altri testi che
documentano gli interessi di lettura del Nostro, come opere sul Risorgimento
italiano e le costituzioni.
L’Archivio storico del Senato conserva invece il fascicolo personale di Ruini,
relativo alla sua nomina a senatore nella prima legislatura repubblicana (19481953), con la documentazione della sua attività in quella veste.
Considerato l’apporto decisivo di Ruini nell’elaborazione della carta costituzionale del 1948, il fondo Assemblea costituente (1946-1948), conservato
presso l’Archivio storico della Camera dei Deputati, può offrire utili elementi
per lo studio di Ruini costituente. Questo fondo è inserito nell’archivio del
periodo di transizione istituzionale, che comprende anche i fondi: Ricostituzione ed epurazione (1944-1947), Consulta nazionale (1945-1946), Referendum
istituzionale (1946)48.
24
Fruizione dell’Archivio Ruini
La fruizione dell’archivio Ruini della Biblioteca Panizzi avviene secondo
le norme generali in vigore per il materiale raro e di pregio, che prevedono
la consultazione in sala sorvegliata, previa presentazione di valido documento d’identità, e l’eventuale riproduzione mediante strumenti (scanner digitale,
microfilm, fotocamera digitale) in grado di produrre copie cartacee o digitali,
garantendo la massima tutela degli originali.
L’utilizzo dei documenti dell’archivio ai fini della ricerca ha subito un notevole incremento grazie ai premi per tesi di laurea in discipline storiche, politiche, giuridiche, economiche e sociali, legate all’attività culturale e politica
di Ruini, banditi dall’Associazione culturale “Meuccio Ruini”, nata su iniziativa
di Anna Ruini Montessori, Carlo Ruini, Marieli Ruini e Gino Montessori il 2
ottobre 1991.
Da quel momento, numerose sono state le tesi redatte su diversi aspetti
della vita e del pensiero di Ruini e, di queste, il fondo Tesi della biblioteca raccoglie i lavori di Enrico Pieraccini, La pubblica amministrazione nel pensiero e
nell’opera di Meuccio Ruini (Università di Firenze, Facoltà di Giurisprudenza,
a.a. 1994-1995), Francesca Barletta, Meuccio Ruini in qualità di sottosegretario
al Ministero di industria, commercio e lavoro nel biennio 1919-1920 (luiss,
Facoltà di Giurisprudenza, a.a. 1997-1998), Stefano Grifone, Meuccio Ruini e
la legge elettorale del 1953 (luiss, Facoltà di Scienze politiche, a.a. 2000-2001),
Enrico Fanticini, Il pensiero e l’opera di Meuccio Ruini nei lavori dell’Assemblea
Costituente (Università di Bologna, Facoltà di Scienze politiche, a.a. 20002001), Matteo Cristoni, Meuccio Ruini tra liberalismo e fascismo, 1922-1926
(Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 2001-2002).
Non si può infine dimenticare che, dalla rielaborazione della tesi di dottorato, condotta anche sui cospicui materiali dell’archivio e conseguita presso il
Dipartimento di Studi politici dell’Università di Torino, nasce la prima opera
che affronta in modo ampio ed esaustivo la biografia politica e intellettuale di
Ruini, vale a dire Il pensiero politico e giuridico di Meuccio Ruini, di Simone
Campanozzi49.
Conclusioni
Questa panoramica sull’archivio Ruini può dare soltanto un’idea indicativa
di tutto ciò che esso contiene e degli svariati percorsi di ricerca, in parte ancora inesplorati, che esso apre allo studioso. Basti pensare che le pubblicazioni
edite in vita dall’uomo politico reggiano si estendono in un arco di tempo di
settant’anni, dall’articolo su Maeterlinck moralista del 189950 alla biografia di
Casanova ripubblicata nel 196951.
Ciò che emerge è il ruolo di Ruini come “padre fondatore” della Repubblica
25
Italiana, al di fuori dei grandi schieramenti politici e ideologici. Meuccio Ruini
ha, infatti, saputo mettere la sua matrice mazziniana e democratica, legata al
Risorgimento e alla monarchia costituzionale, al servizio di un progetto di
Stato repubblicano moderno, anticipando molte soluzioni poi effettivamente
adottate e contribuendo in modo primario a dotare l’Italia, distrutta dal fascismo e dalla guerra, di una legge fondamentale considerata esemplare per iter
di formazione e contenuti.
È questa la sua eredità vera e su questo, come su altri snodi cruciali della
nostra storia recente, i documenti dell’archivio Ruini hanno ancora, crediamo,
molto da dire.
–––––––––––––––––––––––––
1
Su Meuccio Ruini vedi i recenti contributi L. D’Angelo, Meuccio Ruini dal radical-socialismo
alla presidenza del Senato, in Biblioteca Panizzi, Archivio Meuccio Ruini. Inventario, a cura di
R. Marcuccio, Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia 1993, pp. 9-30; G. Monina (a cura di), La via
alla politica. Lelio Basso, Ugo La Malfa, Meuccio Ruini protagonisti della Costituente. Atti della
giornata di studio. Roma, 19 dicembre 1997, Angeli, Milano 1999; S. Campanozzi, Il pensiero
politico e giuridico di Meuccio Ruini, Giuffrè, Milano 2002; Meuccio Ruini: la presidenza breve.
26 maggio 2003, Roma, Sala Zuccari, Rubettino, Soveria Mannelli 2004. Per ricostruire l’intera
vicenda personale e pubblica di Ruini è poi fondamentale il volume autobiografico M. Ruini,
Ricordi, Giuffrè, Milano 1973.
2
Secondo quanto ci risulta, non esiste al momento un’organica ed esaustiva bibliografia relativa
a Meuccio Ruini. Bibliografie delle opere di e su Ruini stanno in Monina (a cura di), La via alla
politica, cit., pp. 168-176, con una scheda sull’archivio alle pp. 177-178, e in Campanozzi, Il pensiero politico e giuridico di Meuccio Ruini, cit., pp. 323-327, mentre notizie sulle pubblicazioni
di Ruini si possono ricavare dal volume Biblioteca Panizzi, Archivio Meuccio Ruini. Inventario,
cit., pp. 31-33, 45-67, 161-164.
3
Ruini, Ricordi, cit., p. 142.
4
Ivi, p. 67.
5
Ivi, p. 114. Di alcuni documenti relativi a Ruini e conservati presso altre istituzioni si parlerà
in un paragrafo successivo.
6
Sui manoscritti e gli archivi di età moderna e contemporanea, e segnatamente su quelli conservati all’interno delle raccolte della Biblioteca Panizzi, cfr. R. Marcuccio, La descrizione dei
manoscritti di età moderna e contemporanea nell’esperienza della Biblioteca «A. Panizzi» di
Reggio Emilia, in A. Paolini (a cura di), Manoscritti librari moderni e contemporanei. Modelli
di catalogazione e prospettive di ricerca. Atti della Giornata di studio, Trento, 10 giugno 2002,
Provincia autonoma di Trento, Servizio beni librari e archivistici, [Trento] 2003, pp. 41-87.
7
Biblioteca Panizzi, Archivio Meuccio Ruini. Inventario, cit.
8
I cataloghi online (opac) dei Manoscritti e dei Carteggi sono consultabili presso il sito Internet
della Biblioteca Panizzi, all’indirizzo <http://panizzi.comune.re.it/>. Il catalogo dei Manoscritti,
creato nel 1995 e interamente rinnovato nel 2002-2003, contiene circa 5850 notizie descrittive.
Le ricerche possono essere condotte sulle seguenti liste: Collocazione, Autore, Tutti i nomi di
persona o ente, Titolo, Parole del titolo, Data, Luogo, Fondo, Provenienza, Collocazione precedente, Soggetto, Parole del soggetto. È poi possibile effettuare ricerche con combinazioni di
valori, interrogando contemporaneamente più indici. Il catalogo dei Carteggi, creato nel 1993
e rinnovato nel 2003-2004, contiene oltre 10.100 notizie descrittive. Le ricerche possono essere
condotte sulle liste: Collocazione, Mittente, Destinatario, Data, Fondo, Provenienza, Collocazione precedente, Tutti i nomi di persona o ente. Anche il catalogo dei Carteggi consente di effettuare ricerche contemporaneamente su più indici, secondo le modalità accennate più sopra. I
documenti dell’archivio Ruini di carattere più strettamente economico sono anche censiti nella
26
banca dati online dell’Archivio storico degli economisti (ase), a cura della Società italiana degli
economisti, all’indirizzo <http://ase.signum.sns.it/>. I siti Internet cit. in questa e nelle note
successive sono stati visitati il 12 agosto 2006.
9
Reggio Emilia, Biblioteca Panizzi, Archivio Ruini 4/4-11 (d’ora in poi Archivio Ruini).
10
Cfr. Archivio Ruini 12/1-3, M. Ruini, Chi era Giovanni Amendola, [1953-1965 ca.]; Archivio Ruini 14/2, Documenti relativi a Giovanni Amendola, 1944-1965; Archivio Ruini 16/6, G. Amendola,
Articoli per “Il Mondo”, 1922-1924, ma trascritti nel secondo dopoguerra. Umberto Cipollone
aveva aderito nel 1924 al Manifesto dell’Unione nazionale di Giovanni Amendola. Nel saggio
abbozzato da Ruini è riportato un brano tratto dal discorso di Amendola al convegno dell’Unione nazionale del 1924, in cui è chiara l’ispirazione mazziniana, comune allo stesso Ruini: «Gli
uomini che si trovano su questa linea possiedono una coscienza della loro destinazione etica
e della loro partecipazione alla sovranità dello Stato...; sentono lo Stato non già come angustia
tirannica [...], bensì come vasta organizzazione spirituale e legale della società, vivente nella razionale autonomia degli individui e sulla quale poggia solidamente il governo, reso potente così
dalla limitazione dei suoi compiti, come dalla meravigliosa moltiplicazione delle libere energie
individuali che lo circondano e lo sorreggono» (Archivio Ruini 12/2, c. 96r).
11
Archivio Ruini 13/1-2.
12
M. Ruini, Le vite di Pellegrino Rossi, Giuffrè, Milano 1962.
13
Archivio Ruini 21/1.
14
Ruini, Ricordi, cit., p. 25.
15
Archivio Ruini 28/6-7.
16
Archivio Ruini 29/1-5. I testi delle costituzioni di altri paesi si trovano in Archivio Ruini 29/4-5.
Vedi anche i Documenti di legislazione costituzionale comparata in Archivio Ruini 31/5.
17
Archivio Ruini 30/3.
18
M. Ruini, Verso la Costituente. Problemi della Costituzione, Edizioni Europa, Roma 1945 (Archivio Ruini 69/7).
19
M. Ruini, La Costituzione della Repubblica Italiana. Appunti riservati, Aziende tipografiche
eredi G. Bardi, Roma [1966] (Archivio Ruini 70/12).
20
M. Ruini, Come io pensavo la nostra Costituzione, “Nuova antologia”, 82 (1947), 1760, pp. 325341 (Archivio Ruini 71/24).
21
Gli articoli pubblicati da Ruini nel “Mondo” sono raccolti in ritagli, spesso incollati su carta o
cartoncino, in Archivio Ruini 44/4-5, 44/9, 45/1-4, 47/4-6.
22
M. Ruini, L’Italia restituita agli italiani, “Il Mondo”, 26 luglio 1943 (Archivio Ruini 72/19).
23
Archivio Ruini 75-78.
24
M. Ruini, Dal nazionale al sovranazionale, Giuffrè, Milano 1961.
25
Archivio Ruini 48/26.
26
Ivi, doc. 7, cc. 1v-2r.
27
Archivio Ruini 50/29.
28
Archivio Ruini 57/2, M. Ruini, Lettere ai familiari, [1900]-1905, doc. 1, c. 2v. Il testo integrale
della lettera è pubblicato in R. Marcuccio, Un cronista reggiano d’eccezione per i solenni funerali di Umberto I di Savoia, «Strenna del Pio istituto Artigianelli», 5 (1996), 2, pp. 81-85.
29
Per una nuova democrazia. Relazioni e discorsi al I Congresso dell’Unione Nazionale, [di]
Alessio [e altri], Società italiana di edizioni, Roma 1925 (Archivio Ruini 61/1).
30
Ruini, Ricordi, cit., p. 62.
31
Cfr. ivi, pp. 62-64.
32
Archivio Ruini 61/4, fasc. 4, docc. 4-5. Nello stesso fasc. è presente anche l’Atto fondamentale
per la costituzione di un Governo di liberazione nazionale (ivi, docc. 6-7).
33
Ruini, Ricordi, cit., p. 98.
34
Archivio Ruini 59/5, fasc. 9.
35
Cfr. Ruini, Ricordi, cit., p. 99.
36
Archivio Ruini 62/2 e Archivio Ruini 64/7.
37
Archivio Ruini 62/3 e Archivio Ruini 62/5-6.
38
Archivio Ruini 57/6.
39
Archivio Ruini 63/4-7.
27
Cfr. M. Ruini, Il Consiglio nazionale del lavoro, Zanichelli, Bologna 1920.
Biblioteca Panizzi, Archivio Meuccio Ruini. Inventario, cit., pp. 161-163.
42
Reggio Emilia, Biblioteca Panizzi, Mss. Regg. E 190/14 (d’ora in poi Mss. Regg.).
43
Mss. Regg. E 190/14, M. Ruini, Lettere a N. Campanini, [1902 ca.]-1914, doc. 10, recto.
44
Ivi, doc. 8, recto.
45
Mss. Regg. C 478/33, c. 2v.
46
Cfr. Reggio Emilia, Biblioteca Panizzi, Fondo Prampolini.
47
Sul fondo Spataro, cfr. il sito Internet Archivi del Novecento, a cura del Consorzio BAICR – Sistema cultura, all’indirizzo: <http://www.archividelnovecento.it/default1.htm>.
48
Per l’Archivio storico della Camera dei Deputati, cfr. il sito Internet di questa istituzione, all’indirizzo: <http://www.camera.it/index.asp>. A partire da questo sito è possibile consultare
online gli archivi già informatizzati, fra cui quelli qui cit., collegandosi all’indirizzo:
<http://newarchivio.camera.it/archivio.camera/public/application/camera/engine/index.htm>.
49
Campanozzi, Il pensiero politico e giuridico di Meuccio Ruini, cit.
50
M. Ruini, M. Maeterlinck moralista, «Rassegna moderna di letteratura ed arte», 1 (1899), 4, pp.
99-103.
51
M. Ruini, Avventure ed avventurieri della finanza. Law e Casanova, Giuffrè, Milano 1969.
40
41
28
Meuccio Ruini e la vita
politico-amministrativa a Reggio Emilia
nell’età giolittiana
Alberto Ferraboschi
Premessa
L’esordio dell’attività politica di Meuccio Ruini1 , viene generalmente collegato al suo impegno a favore del radicalismo romano dell’età giolittiana2 e
al progetto per la creazione di una corrente radical-socialista all’interno del
partito radicale italiano: progetto al quale lavorò all’inizio del ’900, che lo vide
come uno dei principali trait d’union tra radicali e socialisti riformisti3. Assai
meno conosciuto è invece il ruolo di Ruini nello spazio pubblico reggiano nel
corso dell’età giolittiana. Ruini, infatti, che era presente oltre che nell’assemblea comunale di Roma anche nel consiglio provinciale di Reggio Emilia, nei
primi lustri del Novecento divenne il «nuovo leader della Democrazia radicale
reggiana»4 e fu il principale interprete di quel blocco di orientamento radicalsocialista che si formò anche a Reggio all’inizio del XX secolo tra i ceti medi
intellettuali, ed in particolare tra gli impiegati pubblici.
Tra i massimi esponenti a livello nazionale della corrente radical-socialista,
Ruini, oltre ad incarnare in modo emblematico quella élite tecnocratica destinata a promuovere nuove politiche pubbliche nel breve scorcio tra il dopoguerra
e l’avvento del fascismo5, nella fase iniziale del suo apprendistato politico-amministrativo ebbe un ruolo di primo piano nella nascita e limitata crescita del
radicalismo reggiano intervenendo sulla prassi politico-amministrativa reggiana
29
dell’età giolittiana. Inoltre, alla vigilia della prima guerra mondiale, trasferendo
sul più alto palcoscenico parlamentare tematiche fino ad allora dibattute sul
terreno amministrativo, nella veste di deputato del collegio di Castelnuovo
Monti ebbe modo di porre alla ribalta del dibattito politico nazionale il tema
dello sviluppo e della tutela delle zone montane.
Tra radicalismo e socialismo: Ruini e la democrazia reggiana dalla
Grande armata alle elezioni politiche del 1913
La nascita del radicalismo a Reggio Emilia si colloca in anni di intensa discussione su quale dovesse essere la natura ideologica, politica e organizzativa
della democrazia reggiana di fronte alle sfide del nuovo secolo6. Era evidente
infatti che, con l’aprirsi del XX secolo, il prepotente sviluppo del movimento
socialista, la crisi del liberalismo e il progressivo ingresso dei cattolici nello
scontro per il potere locale, avevano trasformato sensibilmente le circostanze
nelle quali era abituata a muoversi la democrazia ottocentesca che anche nel
reggiano aveva avuto personalità di spicco quali Gian Lorenzo Basetti, notabile di livello nazionale del radicalismo italiano7 . In particolare, per il partito radicale, che ambiva a collocarsi in un luogo “intermedio” fra la sinistra liberale
e i socialisti, la crescente polarizzazione del sistema politico reggiano d’inizio
’900, segnato dalla contrapposizione dell’identità di classe tra forze borghesi e
proletarie, nuoceva grandemente; da un lato, infatti, lo sviluppo del movimento socialista in senso riformista aveva ristretto lo spazio politico che il radicalismo tradizionalmente occupava, corrodendone le già labili radici organizzative
e popolari8. Dall’altro lato, la solida tradizione del moderatismo reggiano9 , così
come il riflesso di arroccamento che accomunava l’area borghese negli anni
delle tensioni di fine secolo, non sembravano lasciare grande spazio alle tendenze democratiche, laiche e progressiste del radicalismo le quali, in assenza
di una valida strutturazione politica, si presentavano essenzialmente sotto le
sembianze di un moderno movimento d’opinione10. Tuttavia, all’indomani delle elezioni del 1904, con il palesarsi dei primi accordi tra cattolici e moderati
in occasione del blocco clerico-moderato della cosiddetta “Grande armata”11, si crearono le condizioni per la costruzione di una convergenza fra l’area della
sinistra liberale ed il partito socialista. In effetti, la svolta clerico-moderata del
liberalismo locale12, unitamente all’accentuarsi delle tensioni e dei personalismi fra le componenti della borghesia reggiana13 aprì una frattura all’interno
della galassia liberale, isolando la frazione democratica e anticlericale dalla
tradizionale anima moderata filo-cattolica la quale nel 1910 si sarebbe raccolta
attorno ad un nuovo giornale, “Il Corriere di Reggio”14. In questo scenario, fortemente condizionato dalla dialettica e dalle inquietudini presenti all’interno del liberalismo italiano dell’età giolittiana15, a partire
dalla matrice democratica si crearono le condizioni per la costituzione di una
nuova identità partitica in grado di rappresentare il ceto medio emergente,
30
schiacciato tra la borghesia capitalistica e l’aristocrazia operaia. Ed è proprio
all’interno di quel «fervido laboratorio di esperienze politiche e sociali»16 rappresentato dalla Reggio Emilia d’inizio Novecento, considerata a buon diritto
la capitale del socialismo municipale italiano17, che si colloca l’azione decisiva
di Meuccio Ruini per realizzare una convergenza tra radicalismo e socialismo
in nome di una comune cultura riformista e pragmatica, aliena da irrigidimenti
ideologici e protesa a comprendere le contraddizioni di classe18. Del resto, lo
stesso radical-socialismo nella elaborazione del politico reggiano si nutriva
di riferimenti ideologici e sociali che rinviavano direttamente al patrimonio
del socialismo prampoliniano, acquisiti fin da giovane proprio nel particolare
contesto locale19. Dal riconoscimento della tendenza della società verso forme più compiute di socializzazione economica passando attraverso l’importanza attribuita alla cooperazione fino all’attenzione rivolta alla politica delle
municipalizzazioni20, l’approccio ruiniano risentiva fortemente dell’esperienza
riformista reggiana, al punto da pervenire ad una sorta di “contaminazione”
destinata a contemperare il metodo gradualistico del positivismo con i principi
del collettivismo socialista. In tal modo, a partire dal retroterra ideologico del
socialismo prampoliniano, Ruini si faceva propugnatore di una riconciliazione
teorica e pratica del radicalismo con il socialismo per superare il paternalismo
d’impronta conservatrice della vecchia democrazia. Se l’elaborazione ideologica e programmatica del pensiero radical-socialista di Ruini sarebbe stata messa
a punto tra il 1905 e il 190621, sul piano della prassi politica l’episodio organizzativo che sostanziò il radical-socialismo dell’uomo politico emiliano nella
sua città natale fu la formazione di una sezione del partito radicale nella tarda
età giolittiana. Infatti, sulla scia del “risveglio” politico e ideologico del radicalismo italiano d’inizio ’900, animato dai contrasti di linea politica fra innovatori
(tendenza Sacchi) e tradizionalisti (tendenza Marcora) e culminato nel 1904
con la creazione di una struttura nazionale di partito22, anche nel reggiano si
crearono le condizioni per la nascita di un partito radicale. Se la compagine
radicale di Correggio23 fin dal 1907 dalle colonne del “Risveglio democratico”
aveva sollevato un dibattito sul problema della organizzazione di un partito
radicale «il quale concentrasse in sé tutti gli elementi veramente democratici
sottraendoli alla posizione equivoca che tengono negli altri partiti»24, la storia
del radicalismo organizzato a Reggio Emilia cominciò solamente nell’autunno
del 1910 – nel periodo in cui a livello politico nazionale i radicali entrarono
nell’area governativa con il governo Luzzatti – con l’istituzione dell’Associazione democratica reggiana25 destinata a diventare l’affiliazione reggiana del partito radicale italiano26. Come è stato osservato da Sandro Spreafico, «tramontato
ormai l’astro di Igino Bacchi, completamente assorbito il Menada da interessi
industriali e finanziari, Ruini divenne il principale ispiratore e manovratore
di tante operazioni clientelari»; sotto la sua regia l’esiguo gruppo radicale,
espressione della «borghesia lavoratrice, intelligente e colta»27, diretto a Reggio
dall’ingegner Cesare Soncini, da Pietro Curti e Luigi Belluzzi, raccolse consen-
31
si nel ceto impiegatizio, tra gli uomini di scuola più in vista (come Giovanni
Crocioni, Giulio Paiotti e Sebastiano Nicastro), tra gli irredentisti della Società
“Trento-Trieste” e più in generale nella piccola e media borghesia urbana e
proprietaria28. Anche nel reggiano dunque nel corso dell’età giolittiana l’incipiente trasformazione della struttura economica e la conseguente espansione
dell’area delle cosiddette “borghesie numerose”29 crearono le condizioni per
la diffusione delle idee radical-socialiste, in particolare tra i ceti medi intellettuali, i quali in diverse realtà della penisola, all’insegna di un marcato indirizzo
anticlericale, avevano contribuito a saldare in “blocchi popolari” le forze radicali e quelle dell’estrema sinistra30. Il risveglio organizzativo della democrazia
era fiancheggiato e supportato dalla nascita o dalla trasformazione di periodici locali; in particolare, lo storico organo del moderatismo locale, “L’Italia
Centrale”, grazie all’appoggio delle due logge massoniche reggiane (Prospero
Pirondi e Giosuè Carducci) e della banca di Reggio31, «mediante un’oscura e
spericolata operazione di vertice condotta dall’astro sorgente del radicalismo
reggiano, Meuccio Ruini»32, nel 1910 si trasformò nel «quotidiano della democrazia di Reggio Emilia»33 sostenendo con vigore un programma di riforme e
legislazione sociale che rifletteva le istanze e il patrimonio culturale della sinistra radical-riformista e massonica: la riforma della pubblica amministrazione34 e delle autonomie locali35, l’anticlericalismo36, l’istruzione laica come fattore di
progresso37, l’introduzione del suffragio universale38 erano solo alcuni dei capisaldi programmatici della democrazia radicale presenti costantemente sulle
colonne dell’“Italia Centrale”. All’interno di questa operazione, il ruolo assunto
dalle logge massoniche nella costituzione del partito radicale rimanda ai rapporti che il radicalismo reggiano e lo stesso Ruini, membro della loggia massonica “Romagnosi”39, intrattenevano con la massoneria fin dal tardo Ottocento40. In effetti, nel quadro dell’orientamento sempre più democratico e progressista
assunto dalla libera muratoria negli anni giolittiani, anche nel reggiano si rinvengono le tracce di quel processo di politicizzazione della massoneria che
la portarono a divenire una sorta di organo di collegamento tra le forze democratiche e socialiste e la sinistra liberale di più spiccato orientamento laico,
contribuendo al successo di blocchi popolari in varie realtà municipali della
penisola41; non a caso la massoneria fu il maggiore sponsor dell’episodio più
noto delle esperienze bloccarde d’inizio ’900 basate su una decisa avversione
al clerico-moderatismo: la Giunta di Ernesto Nathan, nata a Roma con la vittoria alle elezioni amministrative del 1907 che portarono in Campidoglio anche
lo stesso Meuccio Ruini.
Tornando alle vicende reggiane, l’Associazione democratica reggiana, «sorta
da un nucleo di giovani volenterosi»42, sostenne Ruini nella sua azione politica
tesa a riorganizzare l’assetto politico locale. In effetti, già nel programma del
1910, si affermava che
nella nostra provincia i danni della incresciosa situazione politica generale, sono
32
acuiti da una condizione di cose per cui dal partito clerico-moderato si salta al
socialista. […] Mentre dunque i socialisti, forti della loro perfetta organizzazione, si
preparano a continuare a tradurre in atto il loro programma politico amministrativo, che nelle sue parti migliori è comune al nostro, e mentre contro la loro lenta
e irrefrenabile ascesa i moderati e i clericali non sanno opporre se non le critiche
astiose, le alleanze ora palesi ora nascoste e le proteste platoniche, un nuovo organismo politico, piccolo per ora, ma compatto e volenteroso si intromette fra i due
eterni avversari e domanda di far sentire la sua voce, di far valere il peso dei propri
argomenti, di far risplendere la luce dei propri ideali43. Tuttavia, malgrado gli ambiziosi propositi, ribaditi qualche anno più tardi
in occasione dell’inaugurazione della nuova sede sociale nell’estate del 191344, il partito radicale reggiano degli anni giolittiani rimase un’istituzione debole45, afflitta dall’apatia degli iscritti e dai personalismi46, funzionante essenzialmente
come comitato elettorale dello stesso Ruini47. Sul piano politico la collaborazione di Ruini con i socialisti si concretizzò, oltre che nella collaborazione
alla turatiana “Critica Sociale”48, nella elezione a consigliere provinciale grazie all’appoggio delle organizzazioni economiche socialiste49. Candidato per
il partito socialista nel mandamento di Reggio in occasione della consultazione amministrativa del dicembre 191050, la breve esperienza come consigliere
provinciale, oltre a confermare l’importante ruolo rivestito nell’Italia liberale
dall’amministrazione provinciale come “palestra” per l’apprendistato politico51, rappresentò un passaggio non trascurabile nel cursus honorum di Ruini il
quale ebbe modo di sperimentare per la prima volta sul piano locale la prassi
notabilare del mediatore tra centro e periferia, anticipando in tal modo un
metodo ed una pratica politica destinati ad essere perfezionati in seguito nella
fase dell’investitura parlamentare. A tale riguardo, emblematica della funzione
mediatrice di Ruini nei rapporti con l’amministrazione centrale è il resoconto del sopralluogo effettuato nell’agosto del 1912 dalla Commissione giunta
appositamente dalla capitale per studiare i bacini montani della provincia di
Reggio:
Stamane alle 6, davanti alla Prefettura quattro automobili attendevano i gitanti.
Ecco che arrivano, a piccoli gruppi, da varie parti. C’è il comm. Ruini, il promotore
di questa interessante gita; c’è il comm. Maganzini, l’energico e infaticabile presidente della Commissione idraulico-forestale; ed insieme con lui, venuti da Roma,
vi sono il comm. Sansone, il dotto e competente direttore generale delle foreste,
il comm. Pelleri, ispettore superiore del genio civile per il compartimento del Po,
ed il cav. Pizzolato ispettore superiore forestale da cui dipende la nostra provincia.
Al giovane e valente capo gabinetto del ministro Sacchi ed agli altri funzionari che
lo accompagnano fanno seguito il cav. Cavazzuti ed il cav. Statuto del genio civile
di Reggio, l’ispettore forestale del compartimento di Castelnovo, Colomari ed altri
ancora. Quanta scienza tecnica! C’è da sentire un sacro rispetto reverenziale! Ed
ecco arrivano altri gitanti, l’avv. Mazzoli che dà tanto impulso ai lavori della nostra
provincia, ed i membri della Commissione forestale della provincia, prof. Laghi ed
ing. Bonicelli, opposti di colore politico, ma uniti nell’… amor delle selve! Anche
33
da questa parte c’è un numeroso seguito: l’ing. Pellizzi, il solerte capo dell’ufficio
tecnico provinciale, l’avv. Romolotti, segretario della Provincia, il prof. Vittorageli
della cattedra ambulante. I due gruppi si incontrano e si fondono. Ruini che appartiene a tutti e due nella sua doppia qualità di capo-gabinetto dei lavori pubblici
e di consigliere provinciale è il “trait-d’union”52. In effetti, in virtù dell’esperienza tecnica e teorica maturata presso il ministero
dei Lavori pubblici53 proprio nella stagione del “decollo amministrativo” dello
Stato che caratterizzò l’età giolittiana54 , Ruini, alla luce delle competenze che
la nuova normativa in materia di lavori pubblici attribuiva alla Provincia55, cominciò ad occuparsi anche per il reggiano del problema del regime idraulico-forestale e di bonifica al fine di promuovere una «vasta politica delle acque
e delle selve nell’interesse dell’intera Provincia»56. In particolare, dopo aver
promosso un pronunciamento ufficiale del consiglio provinciale per ottenere
il riconoscimento della classificazione in prima categoria delle bonifiche Bentivoglio e Parmigiana-Moglia57, Ruini nell’estate del 1912 sollevò la questione
della realizzazione di un piano di imbrigliamento delle acque appenniniche,
il cosiddetto “bacino Grisanti”, affinché la deputazione provinciale si attivasse
per usufruire dei benefici accordati dalla legge n. 774 del 13 luglio 1911 sui
bacini montani58. Al tempo stesso in qualità di consigliere provinciale Ruini
nel 1912 – dapprima in occasione della cerimonia pubblica per l’inaugurazione di una lapide commemorativa dedicata a Gian Lorenzo Basetti59 e successivamente nel corso di un «imponente e solenne» comizio – per la prima
volta ebbe modo di proporsi a Castelnuovo Monti nella veste di tutore degli
interessi montanari, trattando «con singolarissima competenza, del problema
della montagna, che è stata sempre asservita alla pianura»60 e rivendicando una
«larga politica di lavoro e di progresso» a favore delle comunità dell’Appennino
reggiano61 .
Ma la breve stagione dell’esperienza radical-socialista di Ruini sia sul piano
ideologico che su quello politico-amministrativo si stava ormai esaurendo. Infatti la guerra di Libia e la candidatura di Ruini alle elezioni politiche del 1913
nelle file radicali incrinarono definitivamente i rapporti con i socialisti reggiani;
l’avventura coloniale che l’Italia nel quarto ministero Giolitti compì in Africa
a partire dall’autunno del 1911 riecheggiò anche a Reggio Emilia portando ad
una polarizzazione delle prospettive con conseguenze decisive sul quadro
politico-amministrativo locale62 . Tramontava con l’impresa libica ogni reale
possibilità di alleanza tra socialisti, radicali e democratici di varia estrazione:
mentre Ruini ed i radicali reggiani, ormai in piena sintonia con gli indirizzi nazionali del partito, privilegiavano la collaborazione con il governo giolittiano
sostenendo la campagna di Libia63, il partito socialista si attestò su posizioni
intransigenti64. Inoltre, l’adesione di Ruini alla corrente ministeriale di Ettore Sacchi (del quale diventò capo di Gabinetto quando nel marzo del 1910
l’uomo politico cremonese fu nominato ministro dei Lavori pubblici) e la sua
candidatura alle elezioni con i radicali proprio nella stagione della cosiddetta
34
“giolittizzazione” del radicalismo, la quale prevedeva che il radicalismo si distinguesse nettamente da repubblicani e socialisti, sancirono l’eclisse dell’effimera stagione reggiana radical-socialista di Ruini: le dimissioni del leader della
Democrazia reggiana dalla carica di consigliere provinciale65, comunicate il 9
novembre 1912 ai consiglieri dal presidente della Deputazione provinciale di
Reggio Emilia, rappresentarono simbolicamente l’atto conclusivo dell’originale
esperienza radical-socialista dell’uomo politico emiliano. In effetti, la decisione
di Ruini, pur motivata con il sorgere di dissensi e polemiche contingenti con il
giornale socialista “La Giustizia”66 circa la sua candidatura alle elezioni politiche dell’anno successivo67, rivestiva un evidente significato politico, in quanto
sanciva la rottura della collaborazione tra socialisti e radicali e la progressiva
presa di distanza dello stesso Ruini da quella prospettiva radical-socialista a cui
aveva lavorato negli anni di esordio della sua attività politica.
Dall’amministrazione al parlamento: Ruini deputato della montagna
Mentre proseguiva la sua brillante carriera amministrativa assumendo nel
1912 la Direzione generale dei servizi speciali per il Mezzogiorno68, Ruini fu
eletto alla Camera dei Deputati nelle prime elezioni a suffragio quasi universale maschile69. Infatti, Ruini si presentò candidato nelle liste radicali per il collegio di Castelnuovo Monti e alle elezioni del 26 ottobre 1913, svoltesi secondo
il sistema del collegio uninominale, fu eletto al primo scrutinio, ottenendo
6045 voti contro i 3620 del clerico-moderato conte Rinaldo Cassoli ed i 1872
di Camillo Prampolini70. Il collegio appenninico di Castelnuovo Monti in età liberale rappresenta il
caso emblematico di una comunità locale che si pone “contro” l’assetto scaturito dai rivolgimenti risorgimentali e dà corpo a questa limitata ribellione
attraverso la scelta di deputati delle forze democratico-progressiste; il collegio
infatti restò in mano radicale a partire dall’elezione di Angelo Brofferio nel
1861 e poi grazie alla longeva vita parlamentare di Gian Lorenzo Basetti, deputato radicale per circa trentacinque anni consecutivi, tra il 1874 e il 1908. In
questo modo la circoscrizione elettorale di Castelnuovo Monti71, anche a causa
della sua fisionomia economica e sociale, ancora all’inizio del ’900 risultava
scarsamente permeabile all’influenza socialista, costituendo la fedele roccaforte della tradizione radicale nel reggiano.
I rappresentanti delle forze liberali e democratiche della montagna reggiana
avevano proclamato candidato Ruini fin dal marzo 191372 e l’organo della Democrazia del capoluogo, “La Provincia di Reggio”, aveva commentato positivamente la scelta presentando l’alto funzionario del ministero dei Lavori pubblici
come una candidatura di prestigio, dotato di vaste relazioni, conoscenze ed
amicizie negli ambienti della capitale73. Dopo l’accettazione ufficiale della candidatura74, Ruini con il sostegno del «vecchio nucleo basettiano, democratico,
radicale» di Castelnuovo Monti75 si gettò in un vero e proprio forcing propa-
35
gandistico giacché l’allargamento del suffragio e la diversificazione del corpo
elettorale comportava l’esigenza di coinvolgere le fasce dei nuovi elettori; nel
contempo “Il Popolo della Montagna”76, il settimanale della Democrazia di
Castelnuovo Monti, in vista delle elezioni inaugurò, a partire da agosto, una
vivace campagna contro il conte Cassoli il quale, rifiutando di partecipare ai
contraddittori77 e avvalendosi di diversi organi di stampa (in primis il settimanale dell’Associazione costituzionale montanara, “La Montagna reggiana”)78 ,
non riuscì a spezzare l’incertezza e il disorientamento dell’elettorato cattolico
prodotti dal “patto Gentiloni”79, ulteriormente amplificati dai contrasti interni
alla direzione diocesana80. Ruini, da parte sua, presentandosi nelle vesti di
seguace ed erede di Gian Lorenzo Basetti nel collegio che fu a lungo il feudo
elettorale del deputato radicale si propose come un progressista e ministeriale: il 22 giugno a Castelnuovo Monti, nel corso di un gremito comizio Ruini
espose il proprio programma incentrato su un moderno riformismo democratico caratterizzato da un concreto impegno in favore della montagna81. In
particolare, attingendo ad un suggestivo repertorio retorico e culturale82, Ruini individuò nel “risveglio” e nella rigenerazione delle coscienze montanare
il principale argomento legittimante della propria candidatura parlamentare.
Nelle settimane successive, durante vari tour per il collegio accompagnati da
una mobilitazione organizzativa assolutamente inedita per la montagna83 e
destinata a trasformare la campagna elettorale del candidato radicale in una
vera e propria «marcia trionfale»84, Ruini incontrò gli amministratori ed i maggiorenti della politica locale; sollevando la discussione sui problemi concreti
dello sviluppo e in particolare della dotazione infrastrutturale del territorio appenninico reggiano, con l’obiettivo di avvalorare la propria candidatura come
passaggio decisivo per la loro soluzione, Ruini, a partire da un approccio
pedagogico imbevuto di cultura positivista85, rilanciò la questione della modernizzazione infrastrutturale della montagna come veicolo per una effettiva trasformazione culturale, politica e socio-economica delle comunità locali:
dalla strada Ramiseto-Castagneto86 al ponte di Pecorile87, dalla carrabile Villa
Minozzo-Quara88 agli acquedotti di Ramiseto89, nella prospettiva radical-massonica di Meuccio Ruini, la modernizzazione infrastrutturale rappresentava la
porta della modernità e dello sviluppo in grado di «dare la spinta al progresso»
e contrastare l’influsso delle forze clericali90. Oltre agli interventi a favore delle
opere pubbliche, la solerzia dimostrata da Ruini nel seguire presso i ministeri
l’esame delle pratiche inoltrate dalle amministrazioni locali – dall’istituzione di
ricevitorie postali91 alla concessione di sussidi vari – contribuì alla costruzione
di un modello tipicamente notabilare con forti elementi clientelari, associata
ad una notevole ed abilmente coltivata valenza carismatica del personaggio92. In effetti, i notabili locali riconoscevano nel ministeriale Ruini, un «gagliardo
assertore dei diritti della montagna»93 in grado di patrocinare in Parlamento
gli interessi della montagna grazie alle sue aderenze ministeriali e alla «piena
conoscenza degli organismi burocratici e tecnici dello stato»94 ; dunque, in un
36
contesto connotato da una debolezza strutturale delle forze socialiste95 che
portò alla candidatura di bandiera di Prampolini96 contro l’alleato del recente passato97 , il candidato radicale riuscì ad assicurarsi l’appoggio decisivo di
una parte consistente dell’elettorato cattolico. Ripetutamente accusato per le
sue posizioni sul divorzio98 , sull’impresa libica99 e per la sua appartenenza
massonica100, Ruini nella «temuta Vandea clericale»101 con astuzia retorica fece
appello al «caro e venerato nome»102 di Basetti e alla sua militanza massonica103, smorzando i toni più aspri dell’anticlericalismo della tradizione radicale che
colpivano i sentimenti religiosi di larga parte dell’elettorato; in tal modo,
la campagna elettorale del Ruini si rivelò una passeggiata: presentandosi come
erede della tradizione garibaldina, come discepolo prediletto del Basetti, rispettoso
della religione purché il prete non si trasformi in un agente elettorale e stia al di
sopra della mischia, egli ri[uscì] a coagulare quel composito e singolare elettorato
di montagna, che, fieramente indipendente, già mezzo secolo prima mandò alla
Camera i Guerrazzi ed i Brofferio, e che, ora, se risulta ancora impermeabile alla
predicazione socialista, a causa della struttura stessa della sua economia basata
sulla piccola proprietà e sulla pastorizia, riconosce[va] l’autorità del sacerdote solo
nelle cose di fede e di morale104. Nel contempo, grazie ad un intreccio inscindibile tra interessi personali e
professionali e la dimensione della rappresentanza politica, il discusso “metodo ruiniano”105 – denunciato dapprima dai socialisti106 e poi dai clerico-moderati del conte Cassoli107 – poté garantire il consenso presso «quell’elettorato
montanaro che non [era] mai stato né socialista, né moderato, né clericale, ma
che v[oleva] strade, ponti, acquedotti e sgravi fiscali»108. Mutuando dal sistema
giolittiano l’uso spregiudicato e strumentale dell’appoggio della macchina governativa, sia attraverso la concessione di favori che mediante le pressioni e i
ricatti delle autorità prefettizie109, Ruini si collegava al tradizionale circuito elettori-deputato-governo, rendendo superflua la dimensione partitica organizzata
e in gran parte anche quella politico-ideologica.
Ma al di là dell’effettivo svolgimento della competizione elettorale quali
furono le ragioni che portarono alla vittoria Meuccio Ruini nella prima tornata
elettorale a suffragio allargato? Anzitutto occorre evidenziare le ragioni di natura politica legate alla condizione del collegio di Castelnuovo Monti. In effetti,
le cause che determinarono la vittoria elettorale di Ruini nella consultazione
elettorale del 1913 sono in gran parte riconducibili alle condizioni socio-politiche del collegio di Castelnuovo Monti, segnate ancora nell’età giolittiana da
una marcata arretratezza della società civile, che facevano della circoscrizione
elettorale montana un collegio a forte vocazione “ministeriale”; di conseguenza, la condizione di partito di governo che nel 1913 il radicalismo poté esibire
per la prima volta condizionò in misura determinante il successo di Ruini il
quale ebbe modo di apparire nel contempo “progressista” e “ministeriale”110. Nel contempo i risultati elettorali furono indubbiamente condizionati dall’al-
37
largamento del suffragio; in effetti, il radicalismo nella montagna era una forza
democratica e popolare che, grazie all’eredità di Gian Lorenzo Basetti da un
lato e alla congenita debolezza del partito socialista dall’altro lato, era in grado
di intercettare una percentuale consistente dei nuovi elettori111. Non a caso,
come si è detto, Ruini, si presentò come delfino ed erede di quel Gian Lorenzo
Basetti che era stato il nume tutelare della Democrazia reggiana nella fase di
passaggio tra Otto e Novecento112. Tuttavia, alle ragioni connesse alle condizioni socio-politiche del collegio
sono da aggiungere le motivazioni di natura personale, legate alla posizione
occupata da Ruini all’interno del collegio (per nascita e per attività professionale) e alla sua capacità di gestire una rete di relazioni personali ramificata e consolidata come strumento di canalizzazione del consenso113; infatti, il
candidato radicale aveva partecipato alla vita pubblica locale già prima delle
elezioni in qualità di consigliere provinciale ed inoltre, in quanto «reggiano di
nascita, ma oramai romano per elezione»114, Ruini poteva contare sull’orgoglio
che la comunità locale riservava ad un «figlio autorevole di queste terre che
aveva conquistato a Roma una meritata posizione, e non si dimenticava dei
giusti interessi delle sue regioni natie»115. Il fattore del radicamento territoriale,
decisivo in regime di collegio uninominale, valeva a maggior ragione per una
circoscrizione elettorale montana come quella di Castelnuovo Monti, caratterizzata da una notevole dispersione territoriale dove i reticoli relazionali di
norma facevano capo ad un grande elettore che poteva disporre di una forza
elettorale praticamente incontrastata. In effetti, in occasione della consultazione elettorale si assistette alla creazione di diversi comitati elettorali a favore di
Ruini116 in cui figuravano i personaggi più influenti della montagna:
Francesco Bellini, Antonio Pignedoli, Pietro Agostini ed Enrico Canovi a Castelnovo Monti; imitati da Luigi Azzolini a Vetto, da Mario Muzzarini, Paolo Pattacini, Prospero Govi a S. Polo, da Ernesto Menozzi e Luigi Fontana a Ciano; Tienno Ferrari
e Zeo Terenziani hanno coagulato voti per il deputato radicale a Quattro Castella;
analogo il ruolo di Vincenzo Ferrari, Giacomo Catelli e Luigi Giaroli a Vezzano; di
Fiorino e Gino Coloretti, Medardo Maseroli, Domenico Baroncini, Paolo Andreoli,
Giuseppe Merciadri a Villaminozzo; di Candido Fioroni, Eugenio Farioli, Beniamino ed Ippolito Baroni a Toano; di Francesco Ovi ed Attilio Cavalletti a Carpineti;
di Prospero Serri e Tito Marchi a Casina; di Amerigo Ferretti e Cesare Penserini a
Collagna; dell’avvocato Guglielmo Perroso a Busana; del dottor Filippo Bertoldi e
del causidico Luigi Corradi a Ramiseto117.
Si trattava in gran parte di proprietari, medici, avvocati e tecnici della montagna che, disegnando un complesso sistema di rapporti gravitanti sulle gerarchie notabilari locali, rendono inequivocabile testimonianza della radice
prevalentemente borghese del notabilato radicale della montagna.
Dunque, nonostante il processo di democratizzazione rappresentato dall’estensione del suffragio, la vicenda elettorale di Ruini sembra confermare
38
la forte impronta personale della lotta politica la quale, ancora in tarda età
liberale, manteneva in gran parte inalterati i propri tratti notabilari. Del resto
lo stesso Ruini, rivolgendosi agli elettori di Casina nell’estate del 1913, non
mancò ripetutamente di ribadire la forte connotazione personale del voto:
Ma è giusto (e me ne appello a tutti gli onesti) che gli elettori nel dare il loro voto,
giudichino ciò che i candidati hanno fatto, per giudicare se saranno capaci di fare
il deputato. Sento che, se non avessi una lunga preparazione amministrativa e non
mi fossi dedicato da tempo alla polemica, come pubblicista, e nei consigli comunali e provinciali, non oserei chiedere il vostro suffragio. Come dissi altra volta,
l’elettore deve scegliere la persona che crede essere capace a rappresentare le idee
che trova più giuste. In questo senso l’elemento personale non può cancellarsi; e
sarebbe una colpa prescinderne, ed una imperdonabile leggerezza dei candidati
non sentire la grande responsabilità che si assumono chiedendo l’altissimo mandato, senza sentir prima la forza delle loro spalle118. D’altro canto, non vanno trascurati i fattori di innovazione e modernizzazione che la vicenda dell’ingresso di Meuccio Ruini nell’Assemblea parlamentare contribuisce a mettere in luce. In effetti, l’elezione a deputato nel
primo parlamento a suffragio universale maschile (1913-1919) permise all’uomo politico emiliano di trasferire sul più alto palcoscenico nazionale le iniziative fino ad allora sostenute sul terreno amministrativo, non solo come
consigliere provinciale ma anche come funzionario del ministero dei Lavori
pubblici119 . In particolare, oltre a partecipare attivamente ai lavori parlamentari
riguardanti la riforma della pubblica amministrazione120, inserendosi nel solco
di un dibattito aperto all’inizio del secolo dal deputato liberale Luchino Dal
Verme e successivamente dal cattolico Giuseppe Micheli, Ruini caratterizzò
la fase iniziale del suo mandato parlamentare per una intensa attività volta a
formare e promuovere una nuova e moderna cultura politica orientata allo
sviluppo globale delle zone montane della penisola, in grado di assicurare
benefici all’intera comunità nazionale121. Contribuendo all’acquisizione di una
prospettiva sempre meno locale e sempre più nazionale, nel dar voce alle
popolazioni dell’Appennino reggiano Meuccio Ruini ebbe modo di impostare
la questione del “riscatto” della montagna come grande questione nazionale
per la modernizzazione e lo sviluppo della società italiana. Infatti, il deputato
emiliano insieme a Giuseppe Micheli negli anni della crisi dello Stato liberale
fu il principale sostenitore dell’esistenza di una questione montanara intesa
come «problema nazionale risolvibile solo con una organica politica di intervento dello stato»122. A tale scopo Ruini appena eletto, riprendendo una felice
intuizione di Gian Lorenzo Basetti d’inizio secolo123, costituì il Comitato degli
amici della montagna (in seguito Comitato parlamentare per la montagna)124 al
quale ben presto aderirono un centinaio di deputati di collegi montani di tutta
Italia e di diverso orientamento politico125. Pochi mesi dopo, nel settembre
1914, in un convegno a Castelnuovo Monti promosso dallo stesso Ruini venne
39
approvato un manifesto-programma con il quale si lanciava da «Castelnuovo
una voce serena a tutela degli interessi montanari in tutta Italia»; in particolare,
a partire dalla constatazione che in Italia «accanto ad un problema di latitudine esiste anche un problema di altitudine» si proponeva il varo di una nuova
legislazione a favore delle aree montane: la sistemazione idroforestale dei
territori montani, il miglioramento delle vie di comunicazione, la creazione
e lo sviluppo dei servizi igienico-sanitari nei comuni montani e il sostegno
dell’istruzione avrebbero dovuto costituire quel «quadrilatero di provvedimenti» per la montagna che, a loro volta, presupponevano un risanamento delle
condizioni finanziarie dei comuni126. Un nuovo impulso a realizzare interventi
legislativi a favore della montagna sarebbe venuto ancora dallo stesso Ruini,
principale promotore di un convegno dedicato all’aumento della produzione
in montagna ed organizzato dall’omonima associazione il 14 aprile 1918 a
Reggio Emilia127. Peraltro, nonostante le difficoltà politiche ed economiche
del primo dopoguerra avessero fatto cadere in secondo piano il dibattito sulla
questione montanara128, la battaglia del deputato radicale a favore degli interessi della montagna trovò un concreto sbocco istituzionale nel travagliato
contesto postbellico grazie all’Associazione dei comuni italiani la quale, raccogliendo l’impulso di Meuccio Ruini e di Luigi Sturzo, diede vita nel 1919 al
Segretariato della montagna. L’ente che può essere considerato precursore dell’attuale Unione dei comuni e delle comunità montane e aveva il compito di
fornire assistenza tecnica e amministrativa ai municipi montani nella gestione
di boschi e pascoli comunali, fu presieduto nella fase iniziale da un tecnico di
grande fama come Arrigo Serpieri129. Ma al di là del forte sapore tecnocratico dell’impegno politico del deputato
radicale, le contraddizioni e le ambiguità del tirocinio politico-amministrativo
di Meuccio Ruini nelle vicende reggiane d’inizio ’900 testimoniano in modo
paradigmatico non solo il travaglio politico-ideologico degli eredi della democrazia mazziniana ottocentesca ma anche la metamorfosi dello stesso sistema
politico giolittiano nel passaggio verso la politica di massa del XX secolo; da
un lato, infatti, le condizioni della società locale e l’appartenenza al radicalismo, sprovvisto di una organizzazione partitica strutturata, incisero fortemente
sulla formazione della candidatura politica di Ruini, imponendo al candidato
radicale nello specifico momento elettorale una concreta prassi notabilare per
la costruzione del consenso; dall’altro lato, nel corso della stabilizzazione della
rappresentanza parlamentare Ruini interpretò in modo innovativo il proprio
ruolo di deputato ed il rapporto con il collegio elettorale di riferimento, proiettandoli all’interno di una dimensione nazionale attraverso una moderna legittimazione ideologica volta a promuovere una compiuta democratizzazione della società e del sistema politico italiano. Dunque, così come sul piano politicoideologico, anche sul versante delle pratiche politiche il deputato radicale si
collocò in una originale posizione di “frontiera”; realizzando una problematica
sintesi fra forme politiche di antica sedimentazione e nuovi complessi riti della
40
moderna politica, la costruzione della leadership di Meuccio Ruini evidenzia
in modo emblematico il carattere di “età di cerniera” della stagione giolittiana130, stretta tra l’Italia post-risorgimentale e l’Italia contemporanea.
–––––––––––––––––––––––––
1
Sulla figura di Meuccio (Bartolomeo) Ruini, nato a Reggio Emilia nel 1877 e morto a Roma nel
1970 cfr. F. Caffè, A. Staderini, M. Ruini (1877-1970), in A. Mortara (a cura di), I protagonisti dell’intervento pubblico in Italia, Franco Angeli, Milano 1984, pp. 241-283; F. Bojardi, Meuccio Ruini, in
F. Bojardi (a cura di), Giuseppe Dossetti, Leonilde Iotti, Meuccio Ruini. Interventi alla costituente.
Contributi reggiani, Analisi, Bologna 1986, pp. 193-224; cfr. S. Campanozzi, Il pensiero politico e
giuridico di Meuccio Ruini, Giuffrè, Milano 2002; per una ricostruzione biografica dell’uomo politico emiliano è fondamentale cfr. M. Ruini, Ricordi, a cura di C. Ruini, Giuffrè, Milano 1973; inoltre,
cfr. R. Marcuccio (a cura di), Archivio Meuccio Ruini. Inventario, Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia
1993.
2
Si veda in proposito, G. Orsina, Anticlericalismo e democrazia. Storia del Partito radicale in Italia
e a Roma, 1901-1914, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002.
3
Tra gli studi dedicati alla corrente radical-socialista cfr. L. d'angelo, Radical-socialismo e radicalismo sociale in Italia (1892-1914), Giuffrè, Milano 1984; G. Orsina, Senza chiesa né classe. Il partito
radicale nell’età giolittiana, Carocci, Roma 1998.
4
Cfr. S. Spreafico, La chiesa di Reggio Emilia tra antichi e nuovi regimi, Cappelli, Bologna 1982,
vol. II, p. 953.
5
Cfr. G. Melis, Storia dell’amministrazione italiana, Il Mulino, Bologna 1996, p. 191.
6
Le vicende del partito radicale reggiano d’inizio ’900 a tutt’oggi non sono ancora state ricostruite
in maniera esaustiva, né sotto il profilo della ideologia né sotto il profilo più propriamente organizzativo. Per una contestualizzazione della attività politica di Meuccio Ruini all’interno dell’ambiente
politico-amministrativo reggiano in età giolittiana, fra i vari lavori disponibili, cfr. A. Balletti, Storia
di Reggio nell’Emilia. Seconda parte 1859-1922, Diabasis, Reggio Emilia 1996, pp. 206-209; M. Anafu, Tutti gli uomini di Camillo. Questione sociale e movimento cooperativo nel reggiano dal 1880 al
1914, Tecnostampa, Reggio Emilia 1987; E. Ferrari, Governo e organizzazione amministrativa di
una città padana: Reggio nell’Emilia nel primo novecento, in C. Mozzarelli (a cura di), Il governo
della città nell’Italia giolittiana. Proposte di storia dell’amministrazione locale, Reverdito, Trento
1992; S. Magagnoli, Élites e municipi. Dirigenze, culture politiche e governo della città nell’Emilia
del primo ’900 (Modena, Reggio Emilia, Parma), Bulzoni, Roma 1999; Spreafico, op. cit.; A. Zavaroni, La linea la sezione il circolo. L’organizzazione socialista reggiana dalle origini al fascismo, Edizioni Quorum, Reggio Emilia 1990, pp. 57-66; M. Sagrestani, Un collegio elettorale nell’età giolittiana: Correggio, Li Causi, Bologna 1984; Aa.Vv., Un territorio e la grande storia del '900. Il conflitto,
il sindacato e Reggio Emilia, Ediesse, Roma 2002, vol. I; G. Sapelli, Comunità e mercato. Socialisti,
cattolici e “governo economico municipale” agli inizi del XX secolo, Il Mulino, Bologna 1986.
7
Su Gian Lorenzo Basetti (1836-1908), deputato radicale per circa trentacinque anni consecutivi,
dal 1874 al 1908, ed animatore della lega per l’abolizione della tassa sul macinato cfr. R. Marmiroli,
Gian Lorenzo Basetti. Medico garibaldino e deputato radicale, Nuova Poligrafica Reggiana, Reggio
Emilia 1962; F. Bojardi, Gian Lorenzo Basetti. La tassa sul macinato, Analisi, Bologna 1987; sul
ruolo di Basetti all’interno del partito radicale ed in particolare nella fase di fondazione del partito
radicale italiano del 1904 allorché a Basetti venne offerta la presidenza del congresso nazionale cfr.
Orsina, Senza chiesa..., cit., pp. 157-177.
8 Sulla polverizzazione organizzativa del mondo radical-borghese reggiano della seconda metà
dell’Ottocento cfr. F. Cammarano, Consorteria moderata e propaganda socialista. Reggio Emilia dall’immobilismo sociale alla cultura politica, in P. Pombeni (a cura di), All’origine della forma partito
contemporanea, Il Mulino, Bologna 1984, pp. 146-154.
9
Sul moderatismo reggiano della seconda metà del XIX secolo mi permetto di rinviare a A. Ferraboschi, Borghesia e potere civico a Reggio Emilia nella seconda metà dell’Ottocento (1859-1889),
Soveria Mannelli Rubbettino, 2003.
41
10 Sulla stampa radicale del “Grido Liberale” negli anni della crisi di fine secolo cfr. S. Chesi, Ultimo
’800 a Reggio Emilia, age , Reggio Emilia 1971, pp. 117-122.
11
Sulla vicenda della Grande armata sia consentito rinviare a A. Ferraboschi, Agrari e nuovi ceti
urbani: la “Grande armata” a Reggio Emilia all’alba del XX secolo, in “Ricerche Storiche”, n.
98/2004, pp. 11-41.
12
Cfr. Spreafico, op. cit., p. 618.
13
Cfr. Ferraboschi, Agrari e nuovi ceti urbani..., cit., in particolare p. 22.
14
Su questo cruciale passaggio all’interno della parabola discendente del liberalismo reggiano cfr.
Spreafico, op. cit., p. 950 e pp. 961-963; Sagrestani, op. cit., p. 63.
15
Sull’intenso dibattito concernente le opzioni strategiche delle organizzazioni politiche liberali
italiane nella stagione giolittiana, tra i vari lavori disponibili, si segnalano cfr. H. Ullrich, Ragione di
stato e ragione di partito. Il “grande partito liberale” dall’Unità alla prima guerra mondiale, in G.
Quagliarello (a cura di), Il Partito politico nella belle époque, Giuffrè, Milano 1990, pp. 166-173; G.
Guazzaloca, Fine secolo. Gli intellettuali italiani e inglesi e la crisi tra Otto e Novecento, Il Mulino,
Bologna 2004, pp. 256-299.
16
“La Provincia di Reggio”, 4 agosto 1913.
17
Cfr. R. Balzani, Le tradizioni amministrative locali, in R. Finzi (a cura di), L’Emilia-Romagna,
Einaudi, Torino 1997, p. 620.
18
Cfr. Campanozzi, op. cit., p. 108.
19
L’influsso del socialismo reggiano sul pensiero dell’uomo politico reggiano è stata riconosciuto
dallo stesso Ruini in diverse circostanze; ad esempio, commemorando la figura di Camillo Prampolini, Ruini non ha mancato di sottolineare che «ho cominciato a formare la mia mente, me stesso,
in un ambiente emiliano, Reggio, che qualcuno ha chiamato oasi ed avanguardia del socialismo.
Ho vissuto e lavorato con quei socialisti senza prendere la tessera del loro partito» (M. Ruini, Profili
di storia. Rievocazioni - studi - ricordi, Giuffrè, Milano 1961, p. 138).
20
Cfr. Orsina, Senza chiesa..., cit., p. 39; D’Angelo, Radical-socialismo..., cit., p. 70.
21
In particolare, nel 1906 Ruini in un opuscolo anonimo intitolato “Per un movimento radicalsocialista” si sforzò di «approfondire, di precisare e di conferire una più organica e ampia articolazione alle sue idee, nella speranza, risultata vana, di stimolare su di esse un proficuo dibattito in
seno al partito» (D’Angelo, Radical-socialismo..., cit., p. 72).
22
Cfr. Orsina, Senza chiesa..., cit., in particolare pp. 157-176.
23
“A Correggio le elezioni del 1904 vedevano per la prima volta rompersi il sodalizio fra i socialisti,
la forza maggioritaria nell’ambito dell’Estrema, e i radicali, gruppo di modeste dimensioni facente
capo a Mario Cattania, che proprio all’inizio dell’anno cominciavano ad organizzarsi e si dotavano
di un organo di stampa, Il Risveglio democratico (Sagrestani, op. cit., p. 34).
24
Sulla opportunità di organizzare un forte partito democratico nella provincia, in “Il Risveglio
Democratico”, 3 febbraio 1907.
25
«Ieri l’altro un nucleo di primi aderenti all’iniziativa del Comitato promotore si è riunito nella
Sede della Società degli Impiegati. Dopo un’interessante discussione si è costituita l’Associazione
Democratica Reggiana sezione del Partito Radicale Italiano», in “L’Italia Centrale”, 27 novembre
1910.
26
Ivi, 31 dicembre 1910.
27
Ivi, 27 novembre 1910.
28
Cfr. Spreafico, op. cit., p. 953.
29
Sul processo di trasformazione socio-politico dei ceti borghesi nella Reggio d’inizio Novecento
sia consentito rimandare a Ferraboschi, Agrari e nuovi ceti urbani..., cit.; più in generale, per un
inquadramento del tema della configurazione borghese nell’Italia agli esordi del XX secolo, tra i
diversi lavori disponibili, cfr. F. Socrate, Borghesie e stili di vita, in G. Sabbatucci e V. Vidotto (a cura
di), Storia d’Italia. Liberalismo e democrazia, Laterza, Roma-Bari 1999, vol. III, pp. 363-442.
30
Oltre alla nota esperienza dell’amministrazione bloccarda guidata a Roma dal sindaco Ernesto
Nathan tra il 1907 e il 1913, si può citare il caso delle amministrazioni bloccarde nel Veneto giolittiano. Al riguardo cfr. R. Camurri (a cura di), Il Comune democratico. Riccardo dalle Mole e l’esperienza delle giunte bloccarde nel veneto giolittiano (1900-1914), Marsilio, Venezia 2000.
31
Cfr. Spreafico, op. cit., p. 953.
42
32
Cfr. Sagrestani, op. cit., p. 81.
33 «I signori Bedogni dottor Armando, Curti Piero Piccinini rag. Guglielmo, Ruggeri Giuseppe,
Soncini ing. Cesare avendo determinato di costituire in Reggio e provincia un partito democratico
radicale, nell’intendimento di provvedere a questo partito un quotidiano che ne interpreti le idee
e faccia opera di propaganda, hanno convenuto e stipulato col proprietario dell’“Italia Centrale”
quanto segue:
1. Il proprietario dell’Italia Centrale fa ai predetti signori la concessione del giornale stesso per
l’esplicazione del loro programma;
2. La proprietà e l’amministrazione del giornale e tutte le spese ed introiti relativi rimangono a
carico dell’attuale proprietario;
3. L’esplicazione del programma di cui sopra si fa cenno, rimane di diritto e in modo assolutamente
indipendente ai sopradetti signori i quali si costituiscono in comitato direttivo politico che dovrà
tracciare al direttore del giornale la condotta da seguire» (“L’Italia Centrale”, 7 dicembre 1910).
34
Ivi, 5 febbraio 1911.
35
Ivi, 30 novembre 1911.
36
«Il nostro maggior nemico, naturalmente è il clericale. Voi non immaginate quale influenza possano esercitare nell’anima semplice dei nostri montanari, i preti delle nostre canoniche» (Ivi, 10
dicembre 1910).
37
La scuola come coefficiente di progresso, in Ivi, 1 dicembre 1910.
38
Ivi, 17 dicembre 1911.
39
«Mi iscrissi ad una loggia chiamata “Romagnosi”; non mi dispiaceva ed anzi mi attrasse il fondo
di deismo che vi era nei suoi riti; non rinnegavo nel mio pensiero Dio, anche se non aderivo al
clericalismo ed agli atteggiamenti della Chiesa cattolica, che non riconosceva la nuova Italia; né si
erano ancora delineati i movimenti di democrazia e di riforma sociale, nel segno cristiano» (Ruini,
Ricordi, cit., p. 13); peraltro, è da notare che «ad ogni buon conto conservò sempre una notevole
indipendenza di pensiero, tanto da esserne espulso nel 1920 per essere entrato nel 2° governo
Nitti nonostante il veto posto dal Grande Oriente d’Italia». (L. D’Angelo, Meuccio Ruini dal radicalsocialismo alla presidenza del Senato, in Marcuccio (a cura di), op. cit., p. 10); sul rapporto di Ruini
con la Massoneria si vedano anche i diversi richiami presenti in Orsina, Senza chiesa..., cit.
40
Cfr. Ferraboschi, Borghesia e potere civico..., cit., p. 188.
41
Cfr. F. Conti, Storia della massoneria italiana. Dal risorgimento al fascismo, Il Mulino, Bologna
2003, p. 210.
42
“L’Italia Centrale”, 27 novembre 1910.
43
Ivi, 27 novembre 1910.
44
Una simpatica festa della Democrazia reggiana, in “La Provincia di Reggio”, 3 agosto 1913.
45
Nell’ottobre del 1912 si istituì una nuova associazione democratica che «pur non essendo una
sezione del partito radicale italiano (appunto perché non composto, come disse qualcuno dei più
autorevoli fra essi, di radicali ufficiali) essa avrà col nostro partito e col sodalizio nostro un’azione
convergente in prò delle idealità democratiche» (“L’Italia Centrale”, 26 ottobre 1912).
46
Per una adunanza di democratici, in “L’Italia Centrale”, 17 aprile 1912; più in generale sui limiti
organizzativi del radicalismo italiano cfr. Orsina, Senza chiesa..., cit., p. 185.
47
Al riguardo si può segnalare il vivace dibattito sui caratteri del partito radicale reggiano e la sua
natura strumentale all’attività di Ruini, sviluppatosi nell’agosto del 1913 tra “La Giustizia” e l’organo
della democrazia, “La Provincia di Reggio”.
48
Ad esempio, cfr. M. Ruini, Il socialismo reggiano, in “Critica Sociale”, a. XVII, n. 13-14, 1-16 luglio
1907, pp. 210-213.
49
Ruini «ha ricordato di aver accettato, due anni fa, la candidatura al Consiglio Provinciale, offertagli dalle organizzazioni economiche reggiane, in base ad un patto semplice e chiaro: che, lasciando
libera ogni parte del suo atteggiamento politico (e lo mostrò il dissenso per l’impresa di Libia)
rendeva possibile la collaborazione per gli interessi della Provincia e per quelli della cooperazione»
(Un forte discorso di Meuccio Ruini a Castelnovo-Monti, in “L’Italia Centrale”, 30 ottobre 1912); il
rapporto privilegiato di Ruini con il mondo della cooperazione e in particolare con Antonio Vergnanini, «il maggiore e vero organizzatore, il dirigente di tutto il movimento» è documentato dallo
stesso Ruini: «è con Vergnanini […] che ebbi più immediati e continui rapporti; era più anziano di
43
me, ma vi fu tra noi due amicizia fraterna, e lavorai con lui, nella mia indipendenza di idee ma
in fervore di collaborazione. La formula di “cooperazione integrale” si può dir nata a mezzadria
fra noi due; veniva dalle sue iniziative e se ne valse; io cercai di darle rilievo teorico sulla Critica
sociale e in altri scritti» (Ruini, Profili di storia..., cit., p. 143).
50
“La Giustizia”, 9 dicembre 1910; rievocando la vicenda della candidatura in consiglio provinciale,
Ruini ebbe modo di osservare che «i socialisti portarono me, senza tessera e senza mio preventivo
consenso all’amministrazione e pensavano a me come presidente della provincia» (ivi, p. 142).
51
Sul tema delle amministrazioni provinciali come luoghi di selezione della classe politica nazionale cfr. V.G. Pacifici, La Provincia nel Regno d’Italia, Gruppo Editoriale Internazionale, Roma 1995;
per una rassegna sullo stato degli studi riguardanti il ruolo della Provincia nel reclutamento del
personale politico cfr. G. Nicolosi, Per una storia delle amministrazioni provinciali, in “Le carte e
la storia”, 1/2000, pp. 158-172.
52
In giro per i bacini montani, in “L’Italia Centrale”, 14 agosto 1912 (corsivo mio).
53
Ruini venne assunto al ministero dei Lavori pubblici nel 1903 dove lavorò prima alla Divisione
idraulica e poi a quella delle bonifiche, fino a diventare nel 1912, come si vedrà più innanzi, Direttore generale dei servizi speciali per il Mezzogiorno. In questa veste Meuccio Ruini ebbe modo di
elaborare il concetto di “bonifica integrale” che successivamente sarebbe stato ripreso nel periodo
fascista da Arrigo Serpieri cfr. O. Gaspari, La montagna alle origini di un problema politico (19021919), Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma 1992, pp. 44-45.
54
Cfr. G. Melis, L’amministrazione, in R. Romanelli (a cura di), Storia dello stato italiano dall’Unità
a oggi, Donzelli, Roma 1995, pp. 187-205; Id., Storia dell’amministrazione italiana, cit., p. 15-268;
S. Sepe, Amministrazione e “nazionalizzazione”. Il ruolo della burocrazia statale nella costruzione
dello Stato unitario (1861-1900), in M. Meriggi, P. Schiera (a cura di), Dalla città alla nazione, Il
Mulino, Bologna 1993, pp. 307-341.
55
I bacini montani, in “Rivista Agricola Commerciale”, luglio 1912, n. 7; Atti del Consiglio Provinciale di Reggio Emilia, sessioni straordinarie 1911-1912, seduta del 2 luglio 1912, Tipografia
Calderini, Reggio Emilia 1913, p. 258.
56
Ivi, sessioni straordinarie 1911-1912, seduta del 2 luglio 1912, Reggio Emilia 1913, p. 266.
57
Ivi, sessioni straordinarie 1910-1911, seduta del 31 marzo 1911, Reggio Emilia 1912, pp. 252253.
58
Ivi, sessioni straordinarie 1911-1912, seduta del 2 luglio 1912, Reggio Emilia 1913, pp. 255-270;
approfondendo questo problema Ruini pervenne anche alla stesura di uno studio relativo ai bacini
montani, «distribuito in tutti i principali centri della montagna» (“L’Italia Centrale” 4 ottobre 1912)
cfr. M. Ruini, I bacini montani, Società Anonima Cooperativa fra Lavoranti Tipografi, Reggio Emilia
1912. Nel 1910 venne approvata la legge sui «provvedimenti per il demanio forestale di Stato e per
la tutela e l’incremento della silvicoltura», integrata dalla legge n. 774 del 13 luglio 1911 sulle opere
di sistemazione idraulico-forestale e di bonifica e dal relativo testo unico approvato con decreto
del 21 marzo 1912. Sul dibattito parlamentare riguardante la legge forestale del 1910 cfr. Gaspari, La
montagna alle origini..., cit., pp. 23-33.
59
La solenne inaugurazione della lapide a G.L. Basetti, in “L’Italia Centrale”, 17 giugno 1912.
60
Ibidem.
61
Un forte discorso di Meuccio Ruini a Castelnovo Monti, in “L’Italia Centrale”, 30 ottobre 1912.
62
«Ma l’idillio fra radicali e socialisti non avrebbe retto al ministerialismo senza riserve dei primi,
entrati infatti nella compagine formata da Giolitti nella primavera del 1911, e soprattutto all’impresa
di Tripoli che segnava l’insanabile contrasto tra chi, in nome dell’etica internazionalista, bollava a
fuoco la nuova avventura africana voluta da una borghesia militarista e rapace ormai in preda al
“delirio nazionalista” e difendeva, appellandosi anche all’eredità ideale del risorgimento, il principio della libertà per tutti i popoli, e chi, i radicali, si abbandonava nell’”ora storica” all’esaltazione
del patriottismo e dei valori nazionali accentuata dall’accusa di sabotaggio rivolta agli “affini” per
la condanna sistematica della guerra nella quale si riconosceva concordemente l’intero paese»
(Sagrestani, op. cit., p. 64).
63
La nostra bussola, in “L’Italia Centrale”, 14 gennaio 1912; più in generale sull’atteggiamento dei
radicali italiani nei confronti della guerra libica, condizionata da una concezione umanitaria del
colonialismo, cfr. Orsina, Senza chiesa..., cit., pp. 87-90.
44
Sull’accesa polemica tra radicali e socialisti sulla guerra di Libia sviluppatosi anche sugli organi
di stampa locale, tra i vari interventi pubblicati nel corso del 1913, particolarmente significativo è
l’articolo pubblicato sulle colonne della “Provincia di Reggio” il 1 giugno 1913. è da notare che la
spaccatura con i socialisti sulla guerra di Libia anticipò la rottura che sarebbe riemersa in occasione
dell’ingresso nella 1° guerra mondiale: «La guerra era fatale e tutti vi si piegarono. I giovani accorsero tutti volonterosi o rassegnati, ma accorsero: l’onorevole Ruini, che pur tante aderenze aveva
nel campo socialista, si pronunciò per la guerra e combattè davvero» (Balletti, op. cit., p. 195).
65
Atti del Consiglio Provinciale di Reggio Emilia, sessioni straordinarie 1912-1913, seduta del 9
novembre 1912, Tipografia Calderini, Reggio Emilia 1914, p. 31.
66
«Il 6 ottobre, nella Giustizia Domenicale, Prampolini poneva la famosa nota sui “metodi” del
Ruini che ruppe il ghiaccio, suscitò nel Ruini una reazione vivace, dimissioni da consigliere provinciale, proteste, ecc.» (Zavaroni, op. cit., p. 87).
67
“L’Italia Centrale”, 11 novembre 1912; sulla vicenda relativa alla travagliata candidatura nel collegio montano alle elezioni politiche del 1913 cfr. Ivi, pp. 86-87.
68
“La Provincia di Reggio”, 5 gennaio 1913.
69
Nel 1912 la legge elettorale voluta da Giolitti permise di votare a tutti coloro che avevano prestato servizio militare e a tutti gli analfabeti dopo i trent’anni. Nel 1918 anche queste piccole restrizioni
furono abolite. Sulla consultazione elettorale del 1913 cfr. M.S. Piretti, La giustizia dei numeri. Il
proporzionalismo in Italia (1870-1923), Il Mulino, Bologna 1990, pp. 152-169.
70
Cfr. Zavaroni, op. cit., p. 87. Ruini risultò in maggioranza in nove comuni, Cassoli in tre e Prampolini in due (Quattro Castella e Vezzano sul Crostolo, entrambi situati nella zona pedecollinare
ed influenzati dal contesto politico del capoluogo). Per il dettaglio dei voti di preferenza raccolti
da ciascun candidato nelle diverse sezioni elettorali del collegio cfr. appendice. Sulle elezioni del
1913 nel reggiano cfr. N. Cattabiani, Le prime elezioni politiche a suffragio universale maschile nei
cinque collegi elettorali del reggiano (ottobre-novembre 1913), in “Ricerche Storiche”, 1981/43, pp.
39-51; in particolare, sulle vicende del collegio di Correggio cfr. Sagrestani, op. cit., pp. 63-68; più in
generale sulla fisionomia politica dei collegi elettorali reggiani in età liberale cfr. F. Bonini, I collegi
elettorali reggiani, in “Memoria e Ricerca”, n. 3/1994, pp. 25-44; infine, per un inquadramento delle
vicende delle elezioni politiche del 1913 rispetto alla situazione politica reggiana alla vigilia della
Grande guerra cfr. R. Cavandoli , La grande guerra, in M. Festanti , G. G herpelli (a cura di), Storia
Illustrata di Reggio Emilia, aiep, San Marino 1987, vol. II, pp. 529-530.
71
In base alle disposizioni legislative del 1891, che sancirono il ripristino del collegio uninominale,
il collegio di Castelnuovo Monti comprendeva i comuni di Castelnuovo Monti, Vetto, San Polo, Ciano d’Enza, Quattro Castella, Vezzano sul Crostolo, Casina, Carpineti, Villa Minozzo, Toano, Busana,
Collagna, Ramiseto e Ligonchio; per la configurazione montuosa del territorio, l’elettorato risultava
legato essenzialmente alla piccola proprietà terriera, alla pastorizia e al mondo contadino. Per
quanto riguarda la morfologia sociale ed economica della circoscrizione elettorale di Castelnuovo
Monti diverse informazioni sono reperibili in A. Duri (a cura di), Statistica generale della provincia
di Reggio Emilia, Amministrazione provinciale di Reggio Emilia, Reggio Emilia 1910.
72
Castelnuovo nei Monti per la candidatura di Meuccio Ruini, in “La Provincia di Reggio”, 18
marzo 1913.
73
La candidatura Ruini a Castelnuovo Monti, Ivi, 16 aprile 1913.
74
Il comm. Meuccio Ruini accetta la candidatura, ivi, 11 aprile 1913.
75
“La Provincia di Reggio”, 2 settembre 1913.
76
“Il Popolo della Montagna”, organo settimanale della democrazia, nato «per combattere con tutto
il fervore della fede e la correttezza dei mezzi la buona e bella battaglia democratica nel nome
di Meuccio Ruini a Castelnovo Monti», venne pubblicato dal 17 agosto al 26 ottobre 1913, per un
totale di undici numeri.
77
«Il conte Cassoli non ha accettato di parlare in contraddittorio col commendator Meuccio Ruini
e si presenta quindi agli elettori senza far sapere chi è e che cosa vuole, che cosa sa fare, come
saprà difendere gli interessi della nostra montagna» (La fuga del Conte Cassoli, in “Il Popolo della
Montagna”, 26 ottobre 1913).
78
“La Montagna reggiana”, organo dell’«associazione che si era costituita col preciso scopo di
stringere le file costituzionali contro il blocco radico-socialista e col sincero proposito di svolgere
64
45
un’azione attiva e collettiva pel benessere della nostra montagna», uscì dal 30 marzo al 24 ottobre
1913.
79
«Risulteranno di scarso peso persino i ripetuti interventi del Vescovo Brettoni che, sconcertato
dalla confusione creatasi tra i cattolici della montagna, esce dal naturale riserbo, ora, per censurare
il comportamento di parroci, quali don Cipriano Ferrari e don Tondelli di Canossa, che “andrebbero fomentando dissenso fra i cattolici facendosi credere autorizzati a far votare i cattolici per Ruini”»
(Spreafico, op. cit., p. 969); inoltre, «pochi giorni prima delle elezioni, il 17 ottobre, scoppiava poi
una vera e propria bomba politica: l’“Avvenire d’Italia”, il quotidiano cattolico di Bologna, dava
notizia, in una corrispondenza da Castenuovo Monti dovuta al cav. Guido Meroni, che a Roma era
stato mantenuto il non-expedit per il conte Cassoli. La notizia, pur smentita da una lettera del conte
Gentiloni, doveva suscitare notevole scalpore e polemiche» (cfr. Cattabiani, op. cit., p. 44).
80
Cfr. Spreafico, op. cit., p. 966.
81
Il discorso programma di Meuccio Ruini a Castelnuovo Monti, in “La Provincia di Reggio”, 24 giugno 1913; tale programma elettorale venne ripreso e discusso criticamente anche dalla “Montagna
reggiana” il 27 giugno 1913. Sulla rilevanza del discorso elettorale come strumento di legittimità e
modulo comunicativo all’interno del sistema politico dell’Italia liberale cfr. il denso numero monografico di “Quaderni Storici” n. 117/2004 dedicato a “Discorsi agli elettori”.
82
«Vi fu un tempo in cui la pianura era tutta una grande palude, coperta di boscaglie e di cespugli. La civiltà si era annidata in alto, sui gioghi dell’Appennino, ove non giungeva la malaria e la
pestifera influenza del pantano. La montagna era allora la dominatrice […] Pensate ai tempi della
contessa Matilde che disseminò, ovunque era un colle una sua chiesetta ed un suo castello turrito.
Canossa potè essere la capitale di uno stato largo la terza parte dell’Italia […] La montagna fu sorpassata, dimenticata e trascurata […] divenne la cenerentola d’Italia. Tutti i lavori più costosi si fecero in pianura. Ai montanari si impose […] il vincolo sulle loro terre, a vantaggio dei pianeggiani,
minacciati dalle piene» (Montagna e pianura, in “Il Popolo della Montagna”, 14 settembre 1913).
83
«Io non vengo meno a quella catena di idee, è forse anzi la prima volta che si fa quassù una così
minuta propaganda democratica» (Il vivace contraddittorio di Casina tra Ruini e Negretti, in “La
Provincia di Reggio”, 30 luglio 1913).
84
Ad esempio cfr. Il giro trionfale del comm. Meuccio Ruini nel collegio di Castelnuovo Monti, in “Il
Popolo della Montagna”, 17 agosto 1913; Un altro giro trionfale di Meuccio Ruini, in “La Provincia
di Reggio”, 19 ottobre 1913.
85
Cfr. Orsina, Senza chiesa..., cit., p. 31.
86
“Il Popolo della Montagna”, 14 settembre 1913.
87
Ivi, 24 agosto 1913.
88
Ivi, 21 settembre 1913.
89
Ibidem.
90
«Ma si dirà ci sono i preti, ed i montanari sono clericali […] Il modo migliore di controbilanciare
questa influenza non è quello di fare delle vane tirate verbali, ma di interessarsi dei montanari, di
far sorgere accanto alla chiesa la scuola, di nominare il medico che è un propagandista di civiltà,
di aprire le strade che portano le idee nuove e danno la spinta al progresso» (La democrazia montanara, ivi, 21 settembre 1913).
91
La collettoria postale, ivi, 14 settembre 1913.
92
Una efficace testimonianza del carisma esercitato da Ruini sugli elettori della montagna reggiana
è offerta dal resoconto de “Il Popolo della Montagna” del 17 agosto 1913 dedicato all’accoglienza
riservata al candidato radicale dalla popolazione di Ramiseto la quale sui muri delle case del paese
aveva riportato la seguente scritta:
«Noi tutti compatti/Vogliamo Ruini/Il qual ci redima/Dai duri destini/In cui giacque avvolta/La
nostra contrada/Dacchè G. Lorenzo/Depose la spada/Ma ora a impugnarla/Poi nostri Appennini/
Vogliamo Ruini/Vogliamo Ruini».
93
“Il Popolo della Montagna”, 26 ottobre 1913.
94
Sintomo eloquente, in “Il Popolo della Montagna”, 31 agosto 1913.
95
«Il socialismo è difficile che possa attecchire quassù. Un arguto socialista diceva che “il socialismo
non è pianta che prosperi nella zona dei castagni”. Infatti manca quella struttura economica, quella
antitesi fra capitale e lavoro, quel proletariato senza cui non è possibile quello che il socialismo è,
46
e cioè una “lotta di classe elevata a partito”. Prima di arrivare a questa fase bisogna ancora creare
le condizioni del capitalismo e della civiltà moderna nella dimenticata montagna» (La democrazia
montanara, in “Il popolo della montagna”, 21 settembre 1913).
96
In effetti, come ha osservato Renato Marmiroli «la candidatura di Prampolini era un’affermazione
di principio e di partito» (R. Marmiroli, Camillo Prampolini, Tecnostampa, Reggio Emilia, 1992, p.
155).
97
«Fra la Provincia e La Giustizia si è accesa da qualche tempo una vivace polemica dalla quale
la democrazia, quella di nuovo conio ruiniano, ne esce un pochino male» (La parola agli amici di
ieri del Comm. Ruini, in “La Montagna reggiana”, 24 agosto 1913). Sui rapporti tra Ruini e socialisti
anche Marco Sagrestani ha osservato che «nella montagna, ormai era guerra aperta fra Prampolini
e il giovane, abilissimo manovratore che con pieno successo aveva dato la scalata al vertice della
democrazia reggiana, Meuccio Ruini (per nulla interessato quest’ultimo a riannodare il dialogo con
l’alleato di ieri che gli aveva consentito l’elezione a consigliere provinciale nel 1910, ma semmai
teso a strumentalizzare le divergenze e ad approfondirle per precostituirsi una solida posizione di
potere)» (Sagrestani, op. cit., p. 65).
98
Fin dall’avvio della campagna elettorale l’organo dell’associazione costituzionale ha denunciato
le posizioni di Ruini sul divorzio evidenziando che «è favorevole al divorzio poiché nel programma
radicale vi è sostenuto anche questa riforma» (La lotta elettorale, in “La Montagna reggiana”, 27
giugno 1913); al riguardo cfr. anche “Il Popolo della Montagna”, 24 agosto 1913.
99
«Perché dunque a Castenuovo Monti i preti, con e senza sottana, sostengono che la guerra l’ànno (sic!) voluta i democratici, presumendo così di sfruttare l’argomento con volgarissima falsità, a
benefizio elettorale?» (L’equivoco degli avversari sull’impresa libica, in “Il Popolo della Montagna”,
24 agosto 1913).
100
Ad esempio, si vedano alcuni dei numerosi interventi pubblicati sulla “Montagna reggiana” cfr.
La Massoneria, in “La Montagna reggiana”, 11 maggio 1913; Una riunione massonica a Roma, in
“La Montagna reggiana”, 4 luglio 1913; Guerra alla massoneria, in “La Montagna reggiana”, 30
settembre 1913. Peraltro, lo stesso “Popolo della Montagna” non mancava di rilevare che «il conte Cassoli è uno dei firmatari del famoso patto… e si è dato, completamente, in braccio al clero
della montagna. I suoi galoppini, i suoi … fonografi compiono una propaganda, per il Collegio,
veramente pietosa: agitano e gonfiano a modo loro la questione massonica e quella del divorzio,
della impresa libica, descrivono il commendator Ruini come un incendiario di chiese, un bau bau
della religione e minacciano le pene eterne a chi non li ascolterà» (“Il Popolo della Montagna”, 21
settembre 1913).
101
“La Provincia di Reggio”, 21 ottobre 1913.
102
Il vivace contraddittorio di Casina tra Ruini e Negretti, in “La Provincia di Reggio”, 30 luglio
1913.
103
«Meuccio Ruini non si è mai dichiarato massone; ha invece detto che non l’offende essere considerato tale, perché massone fu Gian Lorenzo Basetti, deputato di Castelnuovo Monti per trent’anni»
(“Il Popolo della Montagna”, 14 settembre 1913).
104
Cfr. Spreafico, op. cit., p. 969.
105
Al riguardo, si veda la replica dell’organo della democrazia reggiana agli attacchi a Ruini de “La
Giustizia”: «La verità vera è che “La Giustizia” – di fronte alla candidatura democratica del Ruini
– perde, ce lo permetta, la sua serenità. Dopo aver rimproverato in fatti al nostro amico, e per
tanto tempo, di basare la sua candidatura sulle promesse di vantaggi per il collegio; allorché egli si
va affaticando con lealtà nel dimostrare che i diritti della montagna saranno tutelati non dalla sua
influenza o dall’altrui, ma semplicemente dalla legge, “La Giustiza” esclama tutta sorridente – con
l’aria di scoprire una cosa utile – ma allora [...] o se gli elettori dessero il voto al moderato?» (In
materia di democrazia, in “La Provincia di Reggio”, 27 giugno 1913).
106
“La Giustizia settimanale”, 3 novembre 1912.
107
“La Montagna reggiana”, 24 ottobre 1913.
108
Cfr. Spreafico, op. cit., p. 953.
109
«L’on. Cipriani è chiamato dal Prefetto il quale tenta imporgli con dolce violenza dichiarazioni
favorevoli al Ruini in occasione di una asserita sua adesione alla candidatura Cassoli e gli si fa firmare una rettifica, che viene poi da lui stesso modificata prima della pubblicazione, per consiglio
47
degli amici. I sindaci e gli esattori tutti sono chiamati dal Prefetto e sono esortati a far propaganda
per Ruini se no si fanno temere i pericoli derivanti da un loro diverso atteggiamento» (“La Montagna
reggiana”, 24 ottobre 1913).
110
Ruini e il governo, in “Il Popolo della Montagna”, 7 settembre 1913.
111
«Quassù i partiti tesserati non hanno le loro associazioni; ma qui sono le correnti democratiche
che per tanti anni furono fedeli al Basetti; ed è mio orgoglio che la vecchia guardia della democrazia siasi raccolta attorno a me, per restituire alla parte nostra, sia pure sul nome modesto di un
giovane, il collegio che fu di Guerrazzi, Brofferio e Basetti.» (Il vivace contraddittorio di Casina tra
Ruini e Negretti, in “La Provincia di Reggio”, 30 luglio 1913).
112
«Venni quassù a far le campagne elettorali per Basetti; scrissi io molti anni fa il programma per
la montagna in un convegno che con Basetti ed altri si tenne a Castelnovo; e se io, per un riserbo
doveroso, non ho mai parlato delle idee di Basetti su me, vi fu però una persona di gran valore, il
Cocchi, che affermò pubblicamente avere il Basetti pensato a me come suo successore» (Ibidem).
113
Sulla rilevanza nell’Italia liberale della fitta trama delle relazioni sociali quale fattore strategico
per la costruzione del consenso ai fini elettorali, tra i molteplici lavori disponibili, si segnala l’accurata ricerca di E. Mana, La professione di deputato. Tancredi Galimberti fra Cuneo e Roma (18561939), Pagus, Treviso 1992, in particolare pp. 235-308, oltre al numero monografico del semestrale
“Memoria e Ricerca”, 3/1994, dedicato a I collegi elettorali nell’Italia centrale e padana, a cura di
F. Conti e S. Noiret.
114
Cfr. Marmiroli, Camillo Prampolini, cit., p. 155.
115
“Il Popolo della Montagna”, 24 agosto 1913. Peraltro, lo stesso Ruini nei suoi Ricordi non ha
mancato di evidenziare che «i montanari sapevano che avrei tutelato i loro interessi, e soprattutto
sentivano con qualche orgoglio che ero uno dei loro» (Ruini, Ricordi, cit., p. 26).
116
Ai comitati pro Ruini in “La Provincia di Reggio”, 19 ottobre 1913.
117
Cfr. Spreafico, op. cit., p. 970.
118
Il vivace contraddittorio..., cit. in “La Provincia di Reggio”, 30 luglio 1913.
119
«Non è da oggi che Meuccio Ruini ha sollevato il problema della montagna ed ha dedicato le sue
energie alla risoluzione di problemi concreti a cui è legato l’avvenire delle nostre terre alte. Vivo
ancora Basetti, egli lo accompagnò, e stese in un ritrovo, nel capoluogo del Collegio un ordine
del giorno in cui sono in germe idee che egli venne poi propagando nella stampa, nei discorsi,
nel consiglio provinciale» (Per la Democrazia e per la Montagna, in “Il Popolo della Montagna”,
24 agosto 1913).
120
In effetti, Ruini intervenne sui problemi della riforma della macchina burocratica e dello stato
degli impiegati; ad esempio cfr. M. Ruini, Per la riforma dell’Amministrazione. Discorso pronunciato
alla Camera dei Deputati il 14 maggio 1914, Tipografia Nazionale Bertero, Roma 1914; più in generale sulla attività parlamentare di Ruini cfr. M.S.Piretti, G.Guidi (a cura di), L’Emilia-Romagna in
parlamento (1861-1919), Centro Ricerche di Storia Politica, 1992, vol. II, pp. 267-268. 121
Occorre notare che l’impegno politico di Ruini a favore della montagna è rimasto a lungo trascurato
dalla storiografia. Infatti, come ha osservato Oscar Gaspari «sebbene le figure di Ruini e di Serpieri
siano state analizzate più volte e sotto vari punti di vista, poco o nulla si sa della loro azione per
la montagna. Sembrerebbe proprio che la diminuzione dell’importanza della montagna dal punto
di vista demografico ed economico in favore della pianura vada di pari passo con la diminuzione
dell’interesse storiografico verso di essa, in particolare di vera e propria rimozione si può parlare
per il Ruini “montanaro”» (O. G aspari, Il segretariato per la montagna (1919-1965), Ruini, Serpieri
e Sturzo per la bonifica d’alta quota, Comitato consultivo montagna, Presidenza del Consiglio dei
Ministri, Roma 1994, p. 46); più in generale sull’attività politica di Ruini a favore della montagna
cfr. O. Gaspari, La montagna alle origini..., cit. 122
Ivi, p. 8.
123
«Parecchi anni fa, a Castelnuovo, in un convegno di democratici, fu lanciata l’idea di una Lega
per la montagna, che rivendicasse i vostri sacrosanti diritti. Presiedeva, da tutti venerato ed amato,
Gian Lorenzo Basetti, e gli era accanto un giovane di ingegno e di cuore che Basetti amava come
figlio. Quel giovane che propose l’ordine del giorno e condusse la discussione, era Meuccio Ruini»
(“Il Popolo della Montagna”, 14 settembre 1913).
124
Ruini divenne segretario generale del Comitato parlamentare per la montagna e in tale veste nel
48
maggio del 1915 stese un intervento per la rivista “Politica e finanza locale” offrendo un eloquente
quadro della situazione della montagna italiana; tale intervento è stato recentemente ripubblicato
con un commento di Massimo Bella in “Montagna Oggi”, n. 12/1989, pp. 19-22.
125
Cfr. Gaspari, La montagna alle origini...,cit., pp. 51-53.
126
Per gli interessi della montagna. Il convegno di Castelnuovo Monti del 29 settembre 1914, Tipografia della Camera dei Deputati, Roma, 1914; sul convegno di Castelnuovo Monti, cfr. G aspari, La
montagna alle origini..., cit., p. 53.
127
Cfr. Gaspari, Il segretariato per la montagna..., cit., p. 15.
128
Cfr. Gaspari, La montagna alle origini..., cit., pp. 57-58;
127
Cfr. Gaspari, Il segretariato per la montagna..., cit., p. 15.
128
Cfr. Gaspari, La montagna alle origini..., cit., pp. 57-58.
129
L’organizzazione, che aveva amministrazione autonoma, sopravvisse anche alla scomparsa
dell’Anci e continuò nella propria azione in favore dei comuni montani fino allo scioglimento
voluto dal fascismo nel 1936. Rifondato nel 1946 come ente parastatale per volontà del ministero
dell’Agricoltura, ormai senza più alcun legame con i comuni, venne sciolto nel 1965. Sull’istituzione
del segretariato della montagna cfr. Gaspari, Il segretariato per la montagna..., cit.; per un inquadramento della vicenda del Segretariato per la montagna in relazione allo sviluppo del movimento
dei comuni italiani nel corso del XX secolo cfr. O. Gaspari, L’Associazione nazionale dei comuni
italiani dalla nascita alla rifondazione nel secondo dopoguerra, in P. D ogliani, O.G aspari (a cura
di), L’Europa dei comuni dalla fine dell’Ottocento al secondo dopoguerra, Donzelli, Roma 2003, in
particolare pp. 38-41.
130
Come noto, la definizione è di A. Aquarone, Alla ricerca dell’Italia liberale, Napoli 1972.
Appendice
ELEZIONI POLITICHE DEL 26 OTTOBRE 1913.
RISULTATI DEL COLLEGIO DI CASTELNUOVO MONTI SUDDIVISI PER SEZIONI ELETTORALI
Sezioni Sezioni
Iscritti Votanti Prampolini
Ruini
Cassoli
49
Voti
Nulli
1
Castelnovo
786
567
42 (7%)
412 (72%)
106 (19%)
7
2
Castelnovo
687
497
41 (8%)
324 (65%)
131 (26%)
1
3
Castelnovo 655
462
228 (49%)
167 (36%)
66 (14%)
1
(Felina)
4
Vetto
554
341
21 (6%)
209 (61%)
110 (32%)
1
5
Vetto
413
259
6 (2%)
210 (81%)
42 (16%)
1
6
San Polo
542
425
141 (33%)
201 (47%)
81 (19%)
2
7
San Polo
418
324
55 (17%)
196 (60%)
72 (22%)
1
8
Ciano
508
375
127 (34%)
137 (37%)
109 (29%)
2
9
Ciano 671
297
9 (3%)
192 (65%)
92 (31%)
4
(Monchio)
10
Quattro Castella
704
467
198 (42%)
109 (23%)
160 (34%)
-
11
Quattro Castella 458
379
257 (68%)
29 (8%)
92 (24%)
1
(Montecavolo)
12
Quattro Castella 288
(Puianello)
13
Vezzano sul Crostolo
14
Vezzano sul
Crostolo
249
126 (50%)
77 (31%)
41 (16%)
2
500
413
176 (43%)
111 (27%)
126 (31%)
-
366
280
103 (37%)
69 (25%)
107 (38%)
1
15
Villaminozzo
499
315
6 (2%)
145 (46%)
164 (52%)
-
16
Villaminozzo 462
292
1 (0%)
103 (35%)
186 (64%)
2
(Minozzo)
17
Villaminozzo
451
328
0 (0%)
232 (71%)
94 (29%)
2
(Sologno)
18
Villaminozzo
573
293
0 (0%)
184 (63%)
104 (35%)
5
(Asta)
19
Villaminozzo
592
246
0 (0%)
154 (63%)
89 (36%)
3
20 Toano
543
383
1 (0%)
193 (50%)
184 (48%)
5
21
Toano (Cavola)
447
367
7 (2%)
144 (39%)
209 (57%)
7
22
Toano
295
227
0 (0%)
110 (48%)
114 (50%)
3
23
Carpineti
755
434
75 (17%)
165 (38%)
191 (44%)
3
24
Carpineti
745
377
19 (5%)
175 (46%)
183 (49%)
-
25
Casina
746
535
56 (10%)
368 (69%)
107 (20%)
4
26
Casina
632
471
33 (7%)
203 (43%)
228 (48%)
7
27
Collagna
697
440
10 (2%)
401 (91%)
27 (6%)
2
28
Busana
560
427
47 (11%)
188 (44%)
190 (45%)
2
29
Ligonchio
648
430 19 (4%)
283 (66%)
128 (30%)
-
30
Ramiseto
543
423
31 (7%)
345 (81%)
45 (11%)
2
31
Ramiseto 414
285
34 (12%)
209 (73%)
42 (15%)
-
(Pieve San Vincenzo)
1.872 (16%)
6.045 (52%) 3620 (31%)
TOTALE
17.151 11.614
Nota: Tra parentesi sono riportate le percentuali dei voti di preferenza raccolti da ciascun
candidato.
(Fonte: “La Giustizia settimanale”, 2 novembre 1913)
50
71
Tra impegno ed evasione
Meuccio Ruini storico
Mirco Carrattieri*
Premessa: un dilettante di talento
Parlare di Meuccio Ruini come storico potrebbe sembrare stravagante quando non velleitario, trattandosi fondamentalmente di un giurista e politico (o,
nella sua definizione, di un «vecchio burocrate e tecnico della legislazione»);
cioè di chi, nonostante i molti interessi, non fu mai storico di professione1. Ma
l’idea si è fatta strada in me, credo non del tutto illegittimamente, allorché, nel
corso di ricerche sulla storiografia italiana nel periodo fascista, mi è capitato
più volte di imbattermi nel nome di questo illustre ma per molto tempo misconosciuto concittadino.
Approfondendo l’argomento mi sono accorto di come il tema sia in effetti
tutt’altro che peregrino, ove si considerino tre elementi fondamentali: innanzi
tutto il fatto che Ruini fu un grande appassionato di storia, che a questa disciplina si dedicò attivamente in tutto l’arco della sua lunga vita; in secondo
luogo che proprio nella storiografia egli trovò conforto negli anni del fascismo,
nei quali gli furono interdette l’attività politica e quella forense, ottenendo tra
l’altro un notevole riscontro tra gli specialisti; ed infine che il caso di studio
costituito da Ruini come scrittore di storia offre indicazioni non banali circa la
vicenda della storiografia italiana del ventesimo secolo e più in generale sul
ruolo della storia nella cultura e nella vita civile del nostro paese.
In virtù di tali considerazioni, mi è sembrato utile (quando non doveroso),
tematizzare la vicenda di Ruini come storico, offrendo in questa sede almeno
*Desidero ringraziare il dott. Roberto Marcuccio e tutto il personale della sezione Conservazione
della Biblioteca “A. Panizzi” di Reggio Emilia per la collaborazione offerta nel corso delle mie
ricerche sull’Archivio Ruini conservato in questa sede.
51
alcune osservazioni preliminari; senza peraltro con ciò fare assumere all’oggetto dimensioni che non gli sono proprie né nella biografia del politico reggiano
(che resta soprattutto uno dei padri della Costituente e dei «protagonisti dell’intervento pubblico»)2; né nel quadro della storiografia nazionale (che a ben
altri nomi deve la sua connotazione).
Chiariti il valore e i limiti di questa proposta, occorre subito aggiungere
che il compito si è rivelato tutt’altro che semplice, non solo perché, come si
è anticipato, Ruini si dedicò alla storia in tempi e con intenti molto diversi tra
loro, ma anche perché spaziò su un arco di temi talmente vasto da essere difficilmente controllabile da uno specialista di oggi; senza contare poi l’estrema
frammentarietà della sua produzione, comprendente testi editi, riediti, incompleti, inediti.
Dello studioso ottocentesco Ruini conservava infatti l’ampiezza e la dispersività di interessi e insieme la cura per il testo, anche nella sua dimensione editoriale; ma le tormentate vicende del Novecento lo trasformarono da dilettante
di genio in autore impegnato e poi in autorevole memorialista.
Alla luce di questi sviluppi, ho scelto di ripercorrere il rapporto tra Ruini e
la storiografia in chiave strettamente cronologica, seguendo una scansione che
riprende, con qualche variazione, quella in quattro «tempi di vita» da lui stesso
individuata nelle memorie3; salvo poi riservare l’ultima parte del mio intervento ad alcune considerazioni generali sulla vicenda ruiniana e a qualche breve
nota, da questa ispirata, sulla storiografia italiana del Novecento.
Da promettente studioso a burocrate illuminato
La giovinezza di Ruini, come si addiceva ad un borghese di fine Ottocento,
fu fortemente improntata alla storia: quella tardoromantica del Risorgimento
come mito nazionale, incarnata dal padre come volontario garibaldino; ma anche quella positivista incentrata sui fatti, che lo stesso genitore rappresentava
in quanto insegnante di matematica.
Bartolomeo (questo il suo nome di battesimo) studiò con profitto al Liceo
classico, dove ottenne nel 1895 la licenza d’onore con dispensa dagli esami. Frequentò inoltre nomi illustri della storiografia reggiana, come Andrea
Balletti, Naborre Campanini e Giuseppe Ferrari, tutti amici paterni4; da loro
trasse fra l’altro gli interessi canossiani e la curiosità per la secolare presenza
a Reggio di ebrei e svizzeri.
Ottenuto il diploma, Ruini tentò il concorso alla Normale di Pisa, ma fu
bocciato da Alessandro D’Ancona «per i suoi dubbi gusti letterari»; si iscrisse
quindi alla Facoltà di Giurisprudenza di Bologna, frequentando però anche
le lezioni di Carducci (e leggendo un autore allora poco noto come Alfredo
Oriani). Manifestò in questa fase qualche ansia decadente, come dimostravano
gli articoli sul “Tesoro” di Lipparini e sulla “Rassegna Moderna” di De Frenzi (e
le poesie pubblicate sul “Marzocco”).
52
Ma ben presto si concentrò sugli studi giuridici, seguendo con passione i
corsi di filosofia del diritto del preside Icilio Vanni e quelli di diritto e storia
costituzionale di Luigi Rossi5. Da questi maestri trasse un’impostazione evoluzionista e comparativista che lo portò ad avvicinarsi anche alla sociologia di
Roberto Ardigò. Nel 1899 si laureò comunque con Vanni con una tesi nella
quale spiccava la preoccupazione «di calare lo stato di diritto nella storia»6.
Vinta una borsa di perfezionamento interno, seguì il maestro a Roma aspirando ad una carriera accademica: nella capitale d’inizio secolo si applicò
quindi nello studio di alcuni grandi emiliani dell’età dei Lumi (Gioia, Rossi,
ma soprattutto Romagnosi7); tramite Achille Loria ottenne anche un incarico
per insegnare storia del pensiero economico; e frequentando il Caffè Aragno
ebbe modo di conoscere tra gli altri Antonio Labriola. Da tutte e tre queste
direzioni trasse spunto per leggere Marx, che apprezzò come studioso senza
tuttavia condividerne la passione politica. Intanto si era iscritto anche alla facoltà romana di Filosofia; e durante un esame l’insigne antichista Julius Beloch
gli propose di studiare storia con lui dopo averlo visto dissertare alla lavagna
di «battaglie di eserciti e di idee».
Indicativa di tutta questa sua stagione giovanile, piena di storia sotto forma
di fiducia nella patria e nel progresso, è la cronaca dei funerali di re Umberto
che egli inviò ai genitori per lettera8; da essa peraltro emergeva anche quella
facile vena di scrittura che ne segnò pregi e difetti come storico. In ogni caso
all’inizio del secolo Ruini sembrava avviato con successo agli studi storicogiuridici; e aveva stabilito «salde radici accademiche»9 in un terreno compreso
tra l’erudizione locale, lo specialismo tecnico e quella che di lì a poco Croce
avrebbe definito «scuola economico-giuridica»10.
Ma nel 1903 il giovane reggiano vinse inaspettatamente un concorso del
ministero dei Lavori pubblici e le sue prospettive cambiarono improvvisamente; vista sbarrata la strada in ambito accademico dalla morte di Vanni e dalla
infelice situazione concorsuale, egli si applicò infatti alla nuova carriera con
brillanti risultati, distinguendosi ben presto come funzionario11 e poi come
amministratore12, politico13 e giornalista14.
I suoi interessi storici peraltro non vennero meno; ed anzi ebbero modo
di sostanziare le indagini tecniche sul meridione15; gli interventi parlamentari
sulla questione montana16; i numerosi articoli sulla politica dei consumatori, la
cooperazione integrale e la sindacalizzazione dell’impiego pubblico17.
La Grande guerra: la nazionalizzazione delle masse e i suoi problemi
Non c’è bisogno di insistere in questa sede sull’incidenza della Grande
guerra nella storia del Novecento; vale tuttavia la pena di ricordare come essa
abbia rappresentato uno spartiacque anche per la storiografia italiana. Il rinnovamento avviato dalle riflessioni di Croce trasse infatti da questa esperienza
notevoli sviluppi (non sempre, peraltro, in linea con le indicazioni dell’ispira-
53
tore), dando vita ad una stagione di studi sempre più interessata a (e condizionata da) politica e attualità.
Anche gli storici, infatti, furono mobilitati a sostegno della nazione: oltre
che docenti d’accademia essi diventarono opinionisti sui quotidiani quando
non ufficiali dei servizi di propaganda. Esemplari in questo senso i casi di
Gaetano Salvemini e Gioacchino Volpe, entrambi medievisti che passarono
proprio in questi anni ad occuparsi di storia contemporanea; furono pionieri
della storia della politica estera; si impegnarono consapevolmente come divulgatori e militanti, seppur su sponde opposte. Il problema fondamentale, dopo
Caporetto e Vittorio Veneto, diventò per tutti quello di rintracciare le origini
e l’itinerario della nazione finalmente unita, sublimata dalla vittoria e, almeno
nelle speranze, destinata alla potenza; si moltiplicarono così i progetti di grandi opere sulla storia d’Italia18.
Anche Ruini (coetaneo ad esempio di Corrado Barbagallo) faceva parte di
questa «generazione della guerra»: pur dubbioso verso i governi in carica, egli
sostenne infatti pienamente «lo sforzo solidale della nazione in armi»; e ruppe
con i socialisti proprio a seguito delle loro prese di posizione contro la guerra
di Libia e dell’espulsione di Bonomi e Bissolati.
Sottufficiale volontario del Genio, passò ai bersaglieri nel luglio 1916 e conquistò sul Carso i gradi di tenente, una medaglia d’argento al valor militare e
il pubblico encomio del generale Diaz. Non stupisce quindi di trovare le sue
competenze storiche declinate con accenti di schietta propaganda antitedesca
nei discorsi rivolti alle truppe19; in particolare va segnalata la commemorazione della contessa Matilde tenuta a Canossa nell’agosto 191620, dove «nostra
signora Matelda» era evocata come «grande italiana», il vescovo Ildebrando
(futuro Gregorio VII) salutato per il «trionfo sul Cesare tedesco» e il Ventasso
diventava «un piccolo Cervino» (toni epici che favorirono l’inserimento del
brano in diverse antologie scolastiche)21.
Queste orazioni estemporanee ma particolarmente suggestive trovavano
spazio sulle pagine di varie riviste militanti; e Ruini stesso ne diresse una,
“Nuova Rassegna”, nella quale avviò la pratica di compilare brevi e felici ritratti
dei grandi protagonisti della politica (ed ospitò tra gli altri Adolfo Omodeo)22.
Concluso il conflitto, l’interventismo democratico di Ruini (membro dell’Unione parlamentare e poi dell’Intesa democratica) si tradusse in sostegno
ai programmi di rinnovamento liberale23 e ad un equilibrio europeo regolato
dalla Società delle nazioni24: sottosegretario al Lavoro di Maggiorino Ferraris
(il direttore della “Nuova Antologia”) nel ministero Orlando dal gennaio 1919
poi brevemente ministro delle Colonie con Nitti (incarichi che gli costarono
tra l’altro la sospensione dalla massoneria)25, Ruini ampliò lo spettro dei suoi
interventi al quadro internazionale, sostanziandoli ancora una volta con una
prospettiva storica che li accomunava ormai a quelli di accademici-pubblicisti
di successo come Ettore Ciccotti o Pietro Silva (rispetto ai quali però dimostrava minori fervori espansionistici)26.
54
Non a caso il suo libretto su Wilson27, nel quale si profondeva in lodi per il
presidente americano e la sua politica delle nazionalità, venne favorevolmente
recensito da due storici democratici come Ettore Rota e Giorgio Falco28; e così
anche un suo scritto coloniale29, nel quale si schierava per un’opera di civilizzazione senza avventurismi e promuoveva la nascita di parlamenti locali, trovò
accoglienza positiva presso un esperto come Gennaro Mondaini30.
All’inizio degli anni Venti, dunque, Ruini aveva ormai scelto la sua strada
come politico, ma continuava a coltivare gli interessi storici come base delle
proprie competenze e orizzonte della propria azione. Il fascismo contribuì
però a trasformare nuovamente la storia in qualcosa di più di una pur preziosa
risorsa cognitiva.
Nell’Italia fascista
Il Ventennio viene più volte rievocato nelle memorie di Ruini come «quarantena» o «esilio in patria»; e nell’«ozio forzato imposto dal regime» la storia
è chiamata in causa ora come diversivo, ora come conforto, ora come esercitazione teorica in preparazione del futuro31. «Pensare per non pensare» è un
suggerimento che gli viene da Croce; ed egli lo mette puntualmente in pratica
dedicandosi a «studi silenziosi e sinceri»32.
Questa ricostruzione assai lineare risente però degli inevitabili effetti di distorsione propri dell’autopercezione del protagonista, che oltretutto ne scrisse
solo nel 1951; né manca in alcune pagine una certa civetteria nel ribadire l’intenzione di «scrivere solo per sé stesso»33. Mi pare invece opportuno articolare
meglio la vicenda di Ruini negli anni del fascismo; ricostruire con attenzione i
termini (e i limiti) del suo rifugio nella storia; inserire questo suo atteggiamento (e i risultati che ne derivarono) nel quadro complessivo della storiografia
italiana degli anni tra le due guerre.
È utile a questo proposito dividere il periodo in tre fasi: gli anni di affermazione del regime, dal 1922 al 1926, nei quali la crescente opposizione di Ruini
trovò ancora modo di svolgersi in termini politici; quelli del consolidamento,
dal 1927 al 1933, nei quali la storia sembrò rappresentare effettivamente una
via per reagire non passivamente alla situazione; e infine il decennio 19341943, in cui il silenzio di Ruini denunciò la chiusura degli spazi anche indiretti
di contestazione e insieme la raggiunta consapevolezza di dover operare con
altri mezzi e in tempi più lunghi.
Per quanto riguarda i primi anni Venti, appare soprattutto significativo il fatto che Ruini sia stato, all’interno del frastagliato mondo liberale, uno dei primi
a smarcarsi dal fascismo, cogliendone tutta la pericolosità per le istituzioni democratiche, e a prenderne le distanze in nome della difesa dello Stato e delle
conquiste della democrazia; tempestività e fermezza che gli vennero prontamente riconosciute da un liberale giovane e “scomodo” come Piero Gobetti.
Il dato è ancor più notevole se si considerano le matrici che accomunavano
55
il fascismo al radicalismo ruininano (si pensi all’idea della politica in chiave di
unità nazionale piuttosto che di lotta scomposta tra fazioni34; o alle forti critiche al comunismo)35; e le non poche consonanze tra le posizioni del politico
reggiano e quelle dei principali tecnocrati del regime (basti pensare ai progetti
di riforma amministrativa o di bonifica integrale – e in generale all’approccio
organicistico alla politica proprio di una intera generazione, formatasi sotto
Nitti, che comprendeva tra gli altri anche Paratore e Beneduce).
Ma fu lo stesso Ruini a sciogliere questi nodi e a esplicitare chiaramente
le differenze, ribadendo, ancor prima della chiamata al governo di Mussolini,
l’imprescindibilità dell’elemento democratico in termini di Stato di diritto, di governo delle leggi e di tendenziale uguaglianza delle opportunità36. Già nel 1920,
scrivendo a Nitti, all’epoca assai più disponibile, egli si schierò infatti contro la
«minaccia estremista» rappresentata dalle camicie nere; e la sua intransigenza gli
costò un posto nel Blocco nazionale già alle elezioni del 1921.
Collaboratore del “Mondo” dall’agosto 1922 al 1926 (e su quelle pagine
criticò duramente «la falsa politica di risanamento del fascismo»)37, membro
fondatore dell’Unione nazionale nel novembre 1924 (e relatore al primo – e
unico – Congresso del giugno 1925)38, firmatario del manifesto Croce del 1°
maggio 192539, Ruini continuò dunque a combattere la battaglia politica finché
restava questa possibilità40; e la sua tenacia non passò inosservata a Mussolini,
che non a caso, dopo aver eliminato gli spazi a disposizione per qualunque
protesta (con la soppressione dei partiti di opposizione e delle riviste critiche),
gli impose direttamente il silenzio con il rd n. 16 del 9 gennaio 1927 che estendeva alle magistrature civili la legge 2300 del 24 dicembre 1925 sulla dispensa
politica dei dipendenti pubblici: nel febbraio 1927 il politico reggiano venne
infatti espulso dal cnel (una sua creatura)41 e poche settimane più tardi fu interdetto dall’avvocatura e dall’insegnamento.
Il breve sodalizio con il gruppo di Amendola rappresentò comunque un
momento importante per la maturazione di Ruini, aggiornando i termini della
sua concezione democratica; tanto che egli conservò anche in seguito un’opinione positiva dell’esperienza dell’Aventino. Ma quegli anni furono significativi anche per la sua idea della storia, che ebbe modo di approfondire a contatto
con studiosi come Guglielmo Ferrero, Ernesto Buonaiuti e Luigi Salvatorelli;
figure che, pur provenendo da esperienze diverse (e facendosi portatori di
istanze non sempre compatibili), erano accomunate dallo sforzo di dare una
solida base storica all’antifascismo.
La storia come rifugio (nel solco di Croce)
Il regime inaugurato dalle “leggi fascistissime” mise comunque in crisi gli
intellettuali dell’opposizione, costringendoli a faticosi esami di coscienza e a
difficili scelte di vita. Non pochi cedettero al conformismo imperante; altri, ma
furono una minoranza, scelsero la strada dell’esilio volontario. I più rimasero e
56
cercarono di adattarsi alla situazione a seconda delle loro inclinazioni ideali e
delle possibilità materiali, scendendo a compromessi con il fascismo, limitando il più possibile i danni e ritagliandosi nell’attività professionale o nella vita
privata residui spazi di libertà.
Anche Ruini, costantemente vigilato e più volte perquisito, fu costretto a
notevoli sacrifici (e in seguito ricordò spesso le parole di Macaulay a proposito
della «storia fatta di compromessi»): integrò la scarna pensione come consigliere di Stato con l’esercizio dell’avvocatura per conto terzi e con consulenze
sotto falso nome. Ma rifiutò qualunque concessione ideale e si impose «un
imperativo categorico di resistenza»: recependo tramite Croce il motto di De
Sanctis secondo cui «tutto ciò che si fa di buono e di utile in qualunque campo
è buona politica», egli individuò nell’attività culturale l’unico spiraglio attraverso il quale far sentire la propria voce ed eventualmente far passare qualche
spunto di riflessione critica nell’opinione pubblica; convinto che «l’avvenire si
prepara con la storia», si dedicò quindi con rinnovato entusiasmo al culto di
Clio42.
I disagi di questa posizione, sottoposta alla discrezionalità dell’oppressore,
sempre a rischio di strumentalizzazioni, non priva di ambiguità e timori, furono chiaramente espressi da Ruini in una lettera a Bonomi del 1927:
Dacché non è oggi possibile alcuna attività politica (e la nostra coscienza ripugna
da forme di lotta clandestina e violenta) non ci resta che un’attività di pensiero,
rivolta a problemi generali, non del solo nostro paese, come fa da par suo il Croce
nel campo che gli è proprio. Attività non inutile, io penso, anche se non destinata
– per qualche altra materia – a sboccare in pubblicazioni che potrebbero essere
interpretate come (impossibile) opposizione o, peggio, come rinuncia alla nostra
coerenze spirituale43.
Ruini comunque si reinventò come storico, riprendendo una vocazione
antica, innestandovi l’ormai ineludibile magistero crociano e cercando poi una
nuova modalità, insieme espressiva e comunicativa, nel genere biografico.
Nell’arco di tre anni infatti egli scrisse e pubblicò tre testi di notevole valore:
nel 1929 fece uscire sotto pseudonimo sulla “Nuova Rivista Storica” il saggio Le
quattro vite di Pellegrino Rossi44; nello stesso anno per Laterza uscì a sua nome
Luigi Corvetto genovese, ministro e restauratore delle finanze di Francia45; nel
1931, infine, pubblicò, sempre presso l’editore barese, La Signora di Staël46.
L’interesse per Rossi, nato nel corso degli studi di finanza, era sfociato in
un progetto di ricerca avviato nel 1927 e fortemente promosso da Francesco
Ruffini, che gli prestò alcuni volumi e lo indirizzò al francese Vidal e all’ungherese Ledermann, i principali studiosi dell’epoca. Condotte ricerche d’archivio
(che lo portarono a Carrara, a Correggio e a Bologna, dove si avvalse della
collaborazione di Albano Sorbelli), Ruini abbozzò una cornice biografica che
finì in mano a Croce, il quale ne promosse la pubblicazione e la salutò poi con
entusiasmo sulla “Critica”.
57
La vita di Rossi, pur breve, era stata molto intensa47: originario della
Lunigiana, aveva studiato a Correggio e poi a Bologna, dove aveva partecipato all’avventura muratiana. Fuggito in Svizzera aveva vissuto a Ginevra una
vera e propria rigenerazione: vi aveva infatti insegnato diritto penale (e storia
delle rivoluzioni); aveva frequentato Sismondi e il circolo di Coppet; aveva
addirittura partecipato alla redazione dello statuto della confederazione. Dopo
la bocciatura del suo progetto costituzionale si era poi trasferito a Parigi, dove
era succeduto a Say sulla cattedra di economia politica del Collège de France e
aveva quindi inaugurato quella di diritto costituzionale alla Sorbona; redattore
della “Revue des deux mondes”, pari di Francia dal 1835, era stato scelto come
ambasciatore straordinario a Roma nel 1845, dove aveva appianato i dissapori
tra il papato e la Francia sui gesuiti. Travolto insieme alla Monarchia di luglio
era infine tornato in Italia, proprio nello Stato pontifico, dove aveva tentato
di salvare le recenti conquiste costituzionali, finendo però assassinato nel novembre 1848, solo dieci giorni prima della fuga del Papa a Gaeta.
Dell’«avvocatino carrarese», di cui si sentiva compaesano (e di cui ricordava
la statua a Valle Giulia), Ruini seguiva dunque l’avventuroso «pellegrinaggio di
patrie», rilevandone la statura come studioso ma anche il coraggio politico e la
sorte sfortunata. Rispetto ad autori precedenti, come Giovagnoli48, egli appariva poi particolarmente interessato ad esaltare gli orizzonti europei e liberali
del suo pensiero e della sua azione politica.
Ciononostante il saggio dell’autore reggiano ricevette notevoli apprezzamenti, non solo da chi lo aveva incoraggiato, come Croce, Ruffini e Ferrero;
ma anche da parte di nomi illustri legati al fascismo come Ettore Pais («un
testo assai raro in Italia, serio e ad un tempo vivace»), Pier Silverio Leicht e
Alessandro Luzio (che lo recensirono positivamente sul “Corriere della Sera”
e sul “Telegrafo”)49.
La figura di Rossi, riportata alla ribalta da Ruini, incontrò poi un notevole
successo negli anni Trenta50; ma i meriti dell’autore reggiano vennero rapidamente oscurati dal sarzanese C.A. Biggini, futuro ministro fascista, che dopo
la tesi in scienze politiche a Torino, pubblicò un saggio sullo stesso tema ma
politicamente più allineato, nel quale si esaltava in Rossi soprattutto lo spirito
unitario e nazionale51.
L’ingombrante intrusione di Biggini (e la propria naturale tendenza a moltiplicare i fuochi di interesse) indussero Ruini ad abbandonare la ricerca, nonostante i numerosi incoraggiamenti ricevuti. Ancora al momento della ripubblicazione degli scritti ruiniani, oltre trent’anni dopo, solo le prime due parti
dell’opera risultarono completate52; ma anche in questa forma il lavoro ottenne
una notevole attenzione53, dando il via ad una nuova stagione di studi su
Rossi54, culminata in un recente convegno internazionale55.
58
Sapere e potere
Nel frattempo Ruini, sempre col sostegno di Croce, ebbe modo di pubblicare nella loro interezza le biografie di Luigi Corvetto e di Madame De Staël, gli
unici due lavori storici che uscirono col suo vero nome e dotati di un adeguato
apparato critico.
Anche Corvetto, come Rossi, era stato un tecnico italiano di notevole (seppur
passeggero) successo all’estero: già membro del direttorio della Repubblica di
Genova, egli era diventato consigliere di Stato di Napoleone e poi, dopo averne rifiutato l’appello durante i cento giorni, ministro di Luigi XVIII, per il quale
aveva varato e diretto la cassa di ammortamento dei debiti accumulati dall’Impero; salvo poi concludere la propria vita in solitudine nella madrepatria.
Il volume di Ruini faceva uscire la figura del finanziere genovese dallo specialismo economicistico56; e utilizzava la sua emblematica vicenda come chiave di accesso al mondo della Restaurazione, non senza esplicitare le analogie
col clima del primo dopoguerra in termini di riconversione di un’economia di
guerra e risanamento del bilancio dello Stato dopo una fase di emergenza57.
Anche in questo caso la ricezione fu molto positiva, non solo sui giornali
locali58, ma anche da parte della corporazione degli storici59; ma si palesò una
diversa inclinazione tra recensori fascisti e antifascisti. I primi infatti colsero
soprattutto l’occasione per esaltare l’italianità di Corvetto60, mentre gli altri si
soffermano piuttosto sulle doti di Ruini61.
In particolare va rilevato l’entusiasmo non solo di Croce, che su segnalazione di Luigi Albertini aveva promosso la pubblicazione, ma anche dei
suoi principali “luogotenenti”62: Guido De Ruggiero sulla “Critica” parlò infatti
di «ampia e vigorosa ricostruzione biografica» che «ricorda i migliori modelli
francesi»; ravvisò come attraverso una figura di secondo piano («quelle che
salvano la continuità storica») Ruini riuscisse ad offrire il quadro di un’epoca,
disegnando di fatto «una vera e propria storia della Restaurazione paragonabile a quella del Gorge, ma più critica e meno apologetica»; apprezzò infine
le qualità dello storico, in quanto non strettamente professorale ma «animato
dalla vita63». Anche Omodeo su “Civiltà Moderna” presentò Ruini come «uno
storico di doti superiori», capace di fondere universale e concreto, risolvendo
la storia economica «in una più umana storia»64.
Un giudizio simile lo storico siciliano espresse anche l’anno successivo
allorché Ruini pubblicò, sempre per Laterza, ma stavolta su raccomandazione
di Adolfo Tino, la biografia della figlia di Necker. Il volume, ancora una volta
condotto con taglio strettamente cronologico, ma non privo di rilevanti spunti
concettuali, riusciva infatti a coniugare una piena padronanza della letteratura
sul tema65 con uno stile accattivante, che lo rendeva appetibile anche per il
grande pubblico66.
In questo caso però le analogie con l’attualità erano assai più esplicite (e
pericolose): l’ampio spazio dedicato alle critiche della De Staël al dispotismo
napoleonico venne infatti colto dagli antifascisti come rivendicazione di libertà
59
rispetto al regime67; e così pure dovettero vederlo i fascisti, che infatti accentuarono le critiche, trincerandosi per lo più dietro rilievi tecnici (peraltro non
infondati)68.
Non è insomma casuale il fatto che nel 1932 Ruini fosse costretto a pubblicare il libro successivo sotto pseudonimo; e che scegliesse di far riferimento ad una fase storica più lontana e meno compromettente come il pieno
Settecento.
Bellettrista e recensore
Nel 1932 uscì infatti a nome Carlo Meucci, Casanova finanziere. Avventure
di denaro e d’amore, pubblicato da Mondadori nella collana “Le Scie”69. Il
volume raccontava un’altra di quelle vita nelle quali si intrecciano vicende
private e grande storia, tra finanze, viaggi e progetti destinati al fallimento; e
lo faceva ancora una volta rifacendosi alla migliore bibliografia internazionale
sul tema70.
Ma era evidente, prima di tutto al suo autore, come, al di là del notevole
successo commerciale (ebbe numerose ristampe e incassò oltre 2000 lire), il
libro segnasse una ulteriore deriva verso la bellettristica d’evasione; e come
tale, pur apprezzato dagli specialisti71, risultò meno gradito a Croce, che pur
ribadendo le lodi per l’autore, mostrò qualche dubbio sul tema scelto.
Ruini decise allora di non proseguire su questa linea; ma continuò a scrivere
di storia, pubblicando rassegne e recensioni su riviste come “Civiltà Moderna”
di Codignola, “Ricerche Religiose” di Buonaiuti o “Educazione Nazionale” di
Giuseppe Lombardo Radice. Su quest’ultima in particolare uscirono nel corso
del 1933 tre suoi testi significativi: prima un saggio sul Risorgimento di ispirazione mazziniana72; poi il resoconto del convegno Volta sull’Europa del 193273;
infine la recensione del Pisacane di Nello Rosselli74.
Tutti e tre i testi mostravano il tentativo di non lasciare al fascismo il monopolio del tema della nazionalità, valorizzando nella tradizione italiana voci che
gli associassero le idee di libertà e di Europa piuttosto che le ansie di primato.
Nel far questo Ruini si inseriva nel solco tracciato dalle correnti più avanzate
della storiografia, che cercavano nella Restaurazione europea le basi di un liberalismo rinnovato, in grado di recuperare le conquiste dell’età romantica al
di là dei suoi gravi esiti irrazionalistici75.
Anche le modalità di pubblicazione erano un marchio di antifascismo:
le riviste di opposizione, destinate a vita stentata (come la “Nuova Rivista
Storica”)76, alla chiusura (come quelle di Buonaiuti e Lombardo Radice) o addirittura a non nascere (come dimostra il tentativo di Rosselli)77; la casa editrice
Laterza78; l’uso di sigle e pseudonimi79.
Ma il filo conduttore, pur non sempre esplicito, era rappresentato dalla
ricezione di Croce: ancora criticato nei primi anni Venti per le sue posizioni
antidemocratiche80, il pensatore di Pescasseroli era diventato nel decennio suc-
60
cessivo il punto di riferimento della storiografia ruininana, fornendole motivazioni, spunti, stimoli. Del resto i suoi volumi, i suoi interventi sulla “Critica”, le
sue terze pagine sparse fissarono in qualche modo i termini (e i limiti) dell’opposizione intellettuale al fascismo; e dettarono i canoni di uno storicismo che
si opponeva all’ambiguo atteggiamento del regime verso la storia, ora rifiutata
in omaggio al futurismo o al presentismo di un malinteso attualismo (ridotto
spesso a mero opportunismo), ora strumentalizzata attraverso precursorismi
esasperati e mitologie strumentali.
Non è un caso che la vocazione storica di Ruini si fosse rivelata in seguito
alla lettura della conferenza crociana sui Contrasti d’ideali politici in Europa
dopo il 1870 che Bonomi gli aveva inviato per lettera nel novembre 192781:
questo saggio era stato infatti concepito come premessa a quel lavoro sulla
Storia d’Italia che solo un anno dopo sconvolse il panorama nazionale, stabilendo con l’Italia in cammino di Volpe un confronto serrato che polarizzò il
campo storiografico non più attorno a scelte metodologiche, ma piuttosto alle
posizioni politiche degli autori82.
La sovrapposizione di motivi metodologici e ideologici può del resto essere chiamata in causa per giustificare anche al di là dei suoi meriti oggettivi,
la benevolenza verso Ruini di critici altrimenti assai severi come Omodeo o
Maturi: quest’ultimo in una famosa rassegna del 1930 che in qualche modo
compendiò il denso dibattito in corso (e insieme annunciò l’imminente cambio generazionale nella storiografia italiana) citò infatti anche Ruini tra gli storici romanzieri che «in varie maniere cercano felicemente di superare il mero
individualismo»83.
Il decennio silente
Dopo il decennale, peraltro, anche la strada della disputa storiografica come
surrogato della battaglia politica divenne più ardua. Non solo perché il fascismo impose anche in questo campo una stretta organizzativa e ideologica, ma
anche perché l’intera politica culturale del regime realizzò un salto di qualità:
il tramonto dell’egemonia gentiliana (affiancata ora da istanze neocattoliche e
dalle nuove ambizioni imperiali); l’avvento di personaggi come Starace e De
Vecchi; la costituzione del ministero Stampa e propaganda, resero infatti ancor più precarie le possibilità di dissociarsi dall’opinione dominante. A queste
condizioni i più avvertiti oppositori si videro costretti a rinunciare a qualunque
forma di intervento o a sperimentare gli equilibrismi propri delle varianti storiografiche dell’ermetismo, del nicodemismo e dell’entrismo84.
Ciò, è bene precisarlo, non significa negare valore in blocco alla produzione storiografica degli anni Trenta, come ha fatto per troppo tempo la memoria
antifascista, rendendo un cattivo servizio anche alla propria causa85; né del
resto stabilire una consolante coincidenza tra buona storia e antifascismo a
tutela della memoria corporativa86.
61
La modernizzazione socioculturale, avvenuta per molti aspetti proprio negli anni del regime (il che non significa necessariamente grazie ad esso), non
comportò infatti solo sviluppi funzionali all’ansia propagandistica del regime,
come indubbiamente avvenne nei casi della storia antica e della geopolitica;
ma anche l’ampliamento e il rinnovamento del campo storiografico nel suo
complesso. La concentrazione degli studi in grandi istituti di ricerca coordinati
da una Giunta centrale; lo sviluppo e l’istituzionalizzazione di nuovi settori
disciplinari, soprattutto nel campo della storia politica (si pensi alla storia del
pensiero politico o a quella delle relazioni internazionali); la storicizzazione,
pur non del tutto disinteressata, del passato prossimo; furono alcuni degli elementi caratterizzanti della storiografia italiana del Ventennio che meritano una
ricostruzione non pregiudiziale.
Così anche il fiorire della divulgazione storica non può essere interamente
ridotto alla politica storiografica del regime: esso ebbe infatti anche a che fare
con il diffuso bisogno di evasione da un presente che si rivelava sempre meno
brillante; e con il pieno sviluppo di un nuovo «mercato della storia» su grande
scala. Si può ovviamente discutere su quanto questa linea fosse tollerata o
addirittura incoraggiata dal fascismo, che indubbiamente ne apprezzava gli
esiti di depoliticizzazione dell’opposizione; ma non si può trascurare il fatto
che l’esilio nel passato, non meno di quello letterario, rappresentò spesso una
forma se non di protesta, certo di resistenza.
Il lungo silenzio di Ruini negli anni Trenta segna però drammaticamente
la sopravvenuta impraticabilità di una esplicita scelta antifascista, le cui poche
eccezioni (prima fra tutte quella crociana) non fanno che confermare la regola:
di fronte al consenso per l’Etiopia e all’avvicinamento alla Germania, anche la
strada del lavoro culturale divenne infatti più lunga ed aspra; e, come è stato
più volte notato, il maggiore danno compiuto dal fascismo in questo campo
va individuato proprio nelle linee di ricerche che contribuì a sbarrare, non
solo con espliciti interventi repressivi, ma anche con l’inibizione di autori e
temi, con il condizionamento dei contesti di lavoro, con le più o meno forzate
autocensure che provocò.
Lo studioso reggiano capì che la difesa dell’autonomia disciplinare sul piano strettamente procedurale non era più sufficiente; ma anche che la stessa
scelta della divulgazione rischiava ormai di cedere al consumismo, con effetti
controproducenti rispetto a qualunque intenzione pedagogica. Di qui la dolorosa scelta di ritrarsi dal dibattito pubblico, come male minore rispetto ad
eventuali equivoci o compromissioni, che in altri casi non mancarono; senza
peraltro che ciò significasse rinnegare il valore della storia o rinunciare alla
battaglia culturale.
Ruini continuò infatti a riempire i suoi cassetti e, come dimostrano le memorie (dove a più riprese si parla di lezioni e colloqui) e il nutrito epistolario,
non esitò a condividere con una pur ristretta cerchia di amici le sue fatiche di
scrittura. Risalgono infatti a questi anni le lunghe conversazioni con Zottoli,
62
Tino e Ruffini (ma anche Ferruzzi e Giuffrida) alla Biblioteca nazionale; o le
animate discussioni con Antoni, Calamandrei, Levi e Treves durante le vacanze
estive sulle Dolomiti (o a Nervi).
Dalla storia scritta a quella fatta
Non può comunque sorprendere il fatto che, appena ne intravide l’occasione, Ruini, come non pochi altri, abbandonò la storia per tornare alla politica:
fin dal 1942 egli si attivò infatti per la costruzione del Partito democratico del
lavoro87; partecipò alle riunioni del comitato di oppositori che dopo l’8 settembre diede vita al Comitato di liberazione nazionale; e dopo la liberazione della
capitale divenne membro del Consiglio di gabinetto di Bonomi e poi ministro
dei Lavori pubblici.
Il passaggio, tante volte auspicato, dal pensiero all’azione, non determinò
peraltro una drastica rinuncia alla storia: non solo perché Ruini partecipò pienamente dell’atmosfera della Resistenza come “secondo Risorgimento”88; né
perché durante la clandestinità egli ebbe occasione di incontrare altri eminenti
studiosi che tennero vivi i suoi interessi in materia89; ma soprattutto perché la
fiducia nell’imminente crollo del fascismo e nell’apertura di nuovi scenari per
il paese lo spinsero una volta di più a ritornare alla storia, per dare a questo
rinnovamento basi solide e feconde. Di qui lo studio sulle costituzioni moderne, nel quale Ruini riprese le vesti dell’esperto di storia del pensiero economico e giuridico, integrando però queste competenze specifiche con gli ampi
orizzonti offerti dallo storicismo crociano90.
Dopo la Liberazione poi il politico reggiano figurò come ministro della
Ricostruzione del governo Parri e come presidente del Comitato interministeriale per la ricostruzione da lui stesso concepito (e sorto ufficialmente il 21
giugno 1945). In questa fase egli tra l’altro si distinse, nonostante l’intransigenza ideale e morale, per il rifiuto di abrogare tutte le norme varate in periodo
fascista, con particolare riferimento alla riforma della Pubblica amministrazione e si mostrò assai severo contro l’antifascismo tardivo e spesso distruttivo di
molti colleghi.
Allorché De Gasperi non gli garantì il ministero delle Finanze, necessario
per completare il processo di conversione dell’economia nazionale, Ruini rifiutò la vicepresidenza del Consiglio, senza peraltro portare rancore al leader
dc; accettò infatti il seggio alla Consulta e quello al Consiglio di stato, dove
succedette a Santi Romano come presidente. Ma nella stagione dell’immediato dopoguerra il principale incarico di Ruini fu indubbiamente la guida della
Commissione dei 75 nell’ambito dell’Assemblea costituente, sede nella quale
egli ebbe modo di affermare le idee sulla riforma dello Stato già avanzate negli anni precedenti91, connotando come probabilmente nessun altro il dettato
costituzionale92.
Nel 1948 Ruini risultò poi tra i senatori di diritto della prima legislatura re-
63
pubblicana, aggregandosi al gruppo misto dove tra l’altro conobbe e apprezzò
l’antichista Gaetano De Sanctis. Il 25 marzo 1953 fu poi chiamato a presiedere l’assemblea nel delicato frangente dell’approvazione della legge elettorale;
compito che portò a termine con dignità, pur fra critiche di varia provenienza,
in nome della difesa delle prerogative parlamentari, salvo poi dimettersi pochi
giorni dopo93.
La stagione della ricostruzione del paese coincise comunque per Ruini con
una rilevante svolta personale, sancita dal riavvicinamento alla fede cattolica
e dalla formalizzazione del nome Meuccio (a partire dal 1946). Ma i riferimenti politici rimasero quelli di sempre: egli continuò infatti a spendersi per un
rinnovamento della democrazia che passasse attraverso il «binario nazionelavoro»94. In particolare la questione nazionale fu il terreno sul quale egli si
espresse in maniera più sistematica ed originale, chiamando a raccolta anche
le sue competenze storiche.
Il 19 gennaio 1946, in un famoso discorso alla Consulta, Ruini ribadì ad
esempio la distinzione tra il nazionalismo come degenerazione da deprecare e la nazione come valore da tenere alto; l’anno successivo, aprendo la
Costituente, fece esplicitamente riferimento a Mazzini; nel 1948 partecipò alle
celebrazioni del centenario con interventi di carattere assai più che commemorativo95.
Comune a queste occasioni e a diversi altri testi dell’epoca, fu il tentativo
di valorizzare nel pensiero italiano la dimensione più aperta all’Europa, individuando nella disponibilità alla mediazione piuttosto che nell’ansia di conquista il vero carattere nazionale. In questo senso andava la ripresa di personaggi
come Durando e Mancini96: il primo definitivamente sottratto al sabaudismo; il
secondo ricordato, sulla scia di Ruffini, come fondatore del diritto internazionale piuttosto che come iniziatore della politica coloniale italiana97.
Ma soprattutto ricorse in questa fase il nome di Mazzini, ripetutamente
indicato da Ruini come «colui che ha influito di più sul mio pensiero». Contro
«i veleni nazionalisti», ma anche contro «le reazioni che negano la patria»,
Ruini seguì infatti il pensatore genovese sulla via del pieno coordinamento
tra nazione ed Europa, apprezzandone gli accenti epici (ritenuti necessari per
coinvolgere i giovani) e la preoccupazione per la coscienza societaria (vista
l’importanza attribuita al «piano del costume»); ma recuperandone anche, in
contrasto con l’opinione dominante, le avvertenze istituzionali98.
Se il Mazzini da lui evocato era assai più salvatorelliano che gentiliano99,
l’idea di nazione promossa da Ruini era ormai chiaramente quella liberale maturata durante la Restaurazione europea, variamente recuperata in quella fase
da tutta la storiografia liberale italiana, da Antoni, a Chabod, a Morandi100; su
entrambi i terreni erano poi palesi le convergenze con le posizioni di Adolfo
Omodeo101.
Già studioso di Rousseau e della De Staël, Ruini compendiò la sua posizione sul tema in una storia della Svizzera che pubblicò prima come saggio
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sull’“Acropoli”102 (non a caso la rivista di Omodeo) e poi in volume con il
significativo titolo di Breve storia della Svizzera come nazione e società di
nazioni103. L’opera, pur riconoscendo l’eccezionalità della vicenda elvetica,
cercava nel modello svizzero la strada per una “sintesi nazionale” di carattere
pienamente storico, in contrapposizione tanto al naturalismo tedesco che al
volontarismo francese; e coglieva in qualche modo in essa la prefigurazione
di quegli Stati uniti d’Europa considerati ormai l’orizzonte ineludibile del liberalismo europeo.
Il lavoro venne recensito ancora una volta in modo positivo da Croce104,
che trovò modo proprio in questa occasione di rievocare i suoi rapporti con
Ruini, conosciuto in parlamento come deputato irrequieto e poi riscoperto
come studioso di «molta e non superficiale dottrina storica» e «scrittore limpido
e vivace». Molto positivo fu anche il giudizio di Pier Fausto Palumbo105, il medievista che aveva nascosto Ruini durante la latitanza ed aveva poi abbracciato
il movimento europeista, varando quella rivista “Europa” alla quale collaborò
anche il politico reggiano106.
Storia e memoria
Dopo lo scacco del 1953, la carriera politica di Ruini apparve in declino,
nonostante l’incarico di presiedere l’amato cnel (1957-59) e la nomina a senatore a vita da parte di Antonio Segni (nella stessa tornata di Parri e Merzagora)
nel 1963. «Cadavere politico», «odiato dagli uni per la sconfitta subita ed evitato
dagli altri per l’errore commesso», egli si ritirò nuovamente negli studi107, trovando ancora una volta nella storia la miglior chiave della politica, o meglio la
sua naturale prosecuzione.
Va infatti segnalato come nel secondo dopoguerra, ancor più che non nel
primo, Ruini si sia preoccupato di trasferire direttamente dalla cronaca alla
storia le sue vicende governative e parlamentari, non solo in omaggio ad una
perdurante «smania o mania di segnare le impressioni sugli uomini che incontravo», ma anche come contributo costruttivo alla «storia di domani».
In particolare nel corso degli anni Cinquanta egli pubblicò una serie di
profili storici108 che gli permisero di «rivedere e rivivere il passato rimanendo in
disparte»; non biografie né elogi, ma «ricordi di storia» che, come notò un benevolo recensore, testimoniavano soprattutto della sua perdurante «fede nella
democrazia»109. Il saggio su De Gasperi del 1954 indusse la stampa cattolica a
valorizzare il «ritorno alla religione» di Ruini110; mentre quello su Turati di tre
anni dopo testimoniò la sua residua vicinanza al socialismo riformista111.
Non meno rilevante è poi il fatto che Ruini si sia fatto anche puntuale memorialista di se stesso, perseguendo un ampio progetto autobiografico e la
ripubblicazione ordinata e revisionata di tutti i suoi scritti, compresi anche quei
«volumi sonnolenti» che per le difficoltà del contesto o per semplice scrupolo,
erano rimasti nei cassetti. Aprire quello che, ispirandosi a Bentham, chiamava
65
«l’armadio-cimitero» ed estrarne «gli scartafacci» fu per lui un modo di ripercorrere la propria vita e testimoniarne il costante sforzo per il bene del paese.
Le opere complete di Ruini cominciarono ad uscire nel 1961 presso l’editore Giuffrè per interessamento di Fanfani e Segni; ma il piano di XV volumi
venne più volte variato in corso d’opera112 e rimase interrotto dalla morte
dell’autore (il figlio Carlo, infatti, pubblicò postumo solo il primo volume dei
Ricordi, rifiutandosi di dare alle stampe gli altri due e in generale ciò che il
padre aveva ritenuto ancora provvisorio).
Anche in questa versione mutila, la raccolta dava comunque ampio spazio
alla storia, che occupava interamente la sezione seconda (Profili di storia): tra
il 1961 ed il 1969 vennero infatti ripubblicati in questa veste i saggi su Corvetto
e la De Staël (volumi 3 e 4 – congiunti) e il Casanova (volume 7); ma ad essi
si aggiunsero poi anche le due ricerche inedite su List e Law (volumi 2 e 7),
due raccolte di saggi brevi (volumi 1 e 6)113 e il testo, limitato alle prime due
vite e a qualche abbozzo delle successive, su Rossi (volume 5).
Il lavoro su List attivista di pensiero e d’azione risaliva alla fine degli anni
Trenta, dopo l’uscita delle opere complete dell’economista tedesco; e con esso
Ruini intendeva esplicitamente opporsi alle interpretazioni «fascionaziste» che
attribuivano al nazionalismo economico una portata reazionaria114. Si trattava
del testo più teorico e sistematico tra quelli di Ruini, tanto da meritare anche
l’attenzione della storiografia economica più recente115.
La ricerca coeva sul Miracolista Law, ispirata da un colloquio con Lloyd
George e dagli studi di Einaudi e Ruffini, fu invece associata a quella su
Casanova col titolo di Avventure ed avventurieri della finanza: ciò che le
accomunava, al di là della diversità tra i personaggi e i rispettivi contesti, era
infatti secondo Ruini la parabola di rapida ascesa e drammatica caduta dei due
finanzieri, che avevano vissuto «vite che non hanno bisogno di essere romanzate per essere romanzi»116.
Ma la storia era presente anche in altre sezioni della raccolta: nel volume dei
ricordi come testimonianza su mezzo secolo di vicende italiane; nelle raccolte
sulla nazione e il lavoro come storia di idee politiche; nei testi sulla Costituzione
come attenta ricostruzione della storia del diritto pubblico europeo.
Anche nei volumi rimasti sulla carta, la storia avrebbe avuto largo spazio:
le bozze conservate nell’Archivio Ruini contengono infatti una serie di saggi
di storia del pensiero economico e giuridico che avrebbero dovuto confluire
nella parte V; vari altri profili, tra i quali uno (non meramente apologetico) di
Salvemini; alcune note sulla storia italiana e in particolare sul fascismo. Queste
ultime insistevano sulla fatalità del fenomeno nell’Europa del primo dopoguerra («era storicamente inevitabile dopo la guerra rivoluzionaria portatrice
di insoddisfazioni e esasperatrice del nazionalismo»); e insieme sulla necessità
di storicizzarne pienamente gli effetti117.
Ma dagli appunti è possibile ricostruire anche il disegno di due opere storiche di più vasto respiro: una biografia di Talleyrand e un lavoro sul Novecento.
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La prima, avviata fin dagli anni Trenta e più volte annunciata, rappresenta un
ulteriore esempio di biografia avventurosa, spezzata tra segmenti di vita svoltisi in contesti anche molto diversi; e costituisce forse il principale tassello di
quella ricostruzione della Restaurazione cui Ruini si era dedicato con fervore.
In un panorama storiografico fermo ai medaglioni di inizio secolo e alle
traduzioni118, il testo ruiniano si distingue in effetti per la finezza psicologica e
la sapiente contestualizzazione del pensiero del grande diplomatico francese;
e dimostra di aver acquisito i risultati della più recente storia diplomatica, da
Capasso a Maturi, rifiutandogli le accuse di «gelido traditore» ed apprezzandolo invece come «costruttore dell’Ottocento» di statura pari ai Cavour e ai
Bismarck, (preso però nella drammatica contraddizione tra piacere di vivere e
responsabilità pubbliche)119.
Ma Ruini aveva dedicato particolare attenzione soprattutto a quello che
avrebbe dovuto essere il volume conclusivo della serie, che considerava come
opus magnum e come vero e proprio testamento intellettuale120. Dai frammenti manoscritti che ne sono rimasti esso si presenta in effetti come summa della
visione ruininana sul presente e l’immediato futuro, con una struttura che fa
riemergere in forma evoluta e raffinata la sua impostazione positivistica. La
ricostruzione storica si articola infatti via via in una terna di fili (rapporti tra gli
Stati, lotta politica dentro lo Stato, trasformazioni della società), in un quadrilatero di forze (relazioni internazionali, sviluppo democratico, riforme economiche, evoluzione del costume), in un decalogo di valori (tra i quali spiccano
la libertà, la giustizia e la pace).
Al di là di queste cornici, che riempiono (e complicano) il primo capitolo
(dedicato al metodo) e il sesto (su storia e geografia), è interessante rilevare
l’insistenza con la quale Ruini pone nella prima guerra mondiale la svolta
periodizzante tra l’età contemporanea in senso classico e quella che definisce
«età attuale» (o «del proletariato», dopo quelle cortese e borghese); essa gli
appare infatti caratterizzata da trasformazioni fondamentali come l’avvento
del comunismo e la scoperta dell’atomo e quindi necessita a suo parere di
una revisione concettuale adeguata, imperniata sul rapporto tra democrazia e
comunità. Non c’è bisogno di rilevare come, pur espresse in forma inattuale e
imprigionate in schematismi eccessivi, queste intuizioni conservino notevole
interesse e affrontino problemi ancora all’ordine del giorno; e colpisce soprattutto la lucidità con la quale Ruini coglie il dilemma tra la complessificazione
propria di ogni analisi e la necessità di sintesi, anche al limite della semplificazione, per coinvolgervi le masse.
Di fronte a questo ampio quadro di interessi storici, resta forte il rammarico
non solo per l’incompletezza imposta ai testi dalla morte dell’autore, ma anche
per le molte pagine andate distrutte o perdute nel corso delle perquisizioni
di cui Ruini fu vittima; a partire dalle pagine su Romagnosi e Cattaneo da lui
stesso evocate. Anche di questo, pur con le avvertenze esposte in precedenza,
va fatto carico al fascismo.
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Ruini storico
Ripercorrere la traiettoria di Ruini come storico e appassionato di storia
non è solo un modo per restituire alla luce una faccia non secondaria di una
personalità prismatica e affascinante; da questo percorso è infatti possibile
ricavare anche alcune osservazioni non banali sull’itinerario dell’intera storiografia nazionale nel primo Novecento. Il caso del politico e studioso reggiano
appare infatti particolarmente indicativo di quel passaggio dal positivismo allo
storicismo che caratterizzò gli studi italiani di inizio secolo e soprattutto dopo
la Grande guerra; e del ruolo fondamentale ma tutt’altro che lineare svolto in
questa fase da Benedetto Croce.
Come si è detto Ruini apparteneva per formazione e mentalità al clima
tardo-ottocentesco; e lui stesso nelle memorie ricordava la sua incondizionata fiducia giovanile nella formula «astrazione teorica, isolamento scientifico,
certezza della verità». Ma in questo quadro irruppe poi con il suo fascino intellettuale e la sua potenza euristica la filosofia idealistica, che gli rivelò tutto
il peso e valore della storia. Ruini tentò dunque di innestare lo storicismo
sul positivismo; ed è emblematico che egli cercasse contemporaneamente di
riconciliare tra loro anche a livello personale due uomini così diversi e divisi
come Ferrero e Croce (che nemmeno la comune opposizione al fascismo riuscì ad unire del tutto).
L’importanza dell’influenza crociana su Ruini (come su tutta la sua generazione) deve tuttavia essere meglio precisata per non alimentare il mito di una
egemonia che fu tale solo in un senso molto peculiare. Mi pare opportuno
sviluppare in proposito tre considerazioni, sollecitate dal confronto con la biografia ruiniana: esse riguardano la priorità dell’elemento ideologico su quello
metodologico; l’estrema elasticità, al limite del fraintendimento, nella ricezione
del dettato crociano; e infine il rapido decadimento di questo magistero, rispetto al quale la preminenza politica guadagnata da cattolici e comunisti nel
dopoguerra svolse un’azione di inesorabile erosione.
Per quanto riguarda il primo aspetto, appare per molti aspetti evidente
come la statura di Croce come maestro fosse legata più al suo ruolo nel campo
intellettuale, prima come banditore della nuova Italia, poi come baluardo della
libertà, piuttosto che da effettive consonanze teoriche. Se, come si è detto, fu
l’antifascismo di Ruini a fargli guadagnare le simpatie della “Critica” e a fargli
ottenere poi una particolare indulgenza come storico, non è men vero che nel
suo passaggio «dal positivismo a Hegel» contarono forse più i fattori personali
e le contingenze politiche che non l’adesione filosofica al sistema crociano o
la condivisione dei suoi metodi di ricerca.
Quanto all’estrema plasmabilità, al limite della manipolazione, del magistero crociano, vale senz’altro la pena ricordare come la rielaborazione della lezione ricevuta sia da sempre il primo merito dei bravi allievi; e come anche da
equivoci e fraintendimenti possano ricavarsi esiti scientifici di notevole rilievo.
Resta tuttavia l’impressione che nel caso di Croce e della sua ricezione in Italia
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nella prima metà del Novecento il limite tra interpretazione e appropriazione
sia stato sovente varcato (e ne sono indizio per quanto indiretto, le non rare
palinodie crociane rispetto ad alcuni autori da lui stesso scoperti o riscoperti
e poi più meno rapidamente rinnegati). Nel caso di Ruini, come peraltro della
maggior parte dei discepoli ideali, più che di deliberata sofisticazione del messaggio crociano bisogna parlare di filtro selettivo e di integrazioni al limite dell’eclettismo; come è evidente a proposito del giudizio sull’Illuminismo, che nel
politico reggiano appariva assai più positivo e costruttivo che non in Croce,
nonostante la parziale rivalutazione fattane da quest’ultimo nel dopoguerra.
Del resto la diversa valutazione della democrazia che li aveva caratterizzati all’inizio del secolo si ritrovò per molti versi nell’atteggiamento tenuto
negli anni Quaranta, quando l’ispirazione crociana a combattere il fascismo in
nome della libertà non velò in Ruini come in altri crociani convinti (si pensi
a Omodeo, De Ruggiero, in parte Chabod) la necessità di superare i limiti del
vecchio Stato liberale121. Di qui la battaglia ruininana per «la riconferma ma
anche la rinnovazione liberale»; di qui anche il diverso spazio guadagnato da
Ruini nell’Italia postfascista rispetto ad altri «veterani della democrazia» come
Nitti o Bonomi, a lui molto vicini ma assai meno capaci di prendere le misure
alla nuova realtà repubblicana.
La stessa “conversione” di Ruini al cristianesimo presentava numerosi punti
di contatto col «non possiamo non dirci cristiani» dell’ultimo Croce: il politico
reggiano parlava infatti nei suoi appunti di «bisogno di religione in senso storico
e terrestre»; e proprio citando Croce richiamava in altra sede la necessità «di profeti e apostoli che sappiano evocare sentimenti e non solo idee o interessi».
Ma si avvertiva poi nel suo riavvicinamento al cattolicesimo, pur in forma
laica e non clericale, una maggiore sensibilità per i fattori irrazionali della vicenda storica e un più radicato bisogno di saldi punti di riferimento valoriali.
Così capita di trovare in Ruini un accostamento disinvolto tra «posizioni cristiane, immortali principi e mazzinianesimo del risorgimento»; di sentirgli evocare
«espressioni e formule più religiose» dei grandi principi morali, ritenute necessarie «per parlare al cuore dei giovani» e dare una scossa ad una democrazia
troppo placida nei suoi formalismi; o ancora di leggere nei suoi ricordi passi
come il seguente: «Io sento ogni giorno dappiù salire in me il bisogno profondo di stabilire - per la condotta sociale e politica – principi che non dipendano
soltanto da una valutazione storica; ma che agiscano come criteri assoluti sulla
mentalità delle masse»122.
L’approccio di Ruini alla pratica storiografica rimase peraltro caratterizzato
da un sottofondo empirista e umanista che emergeva esplicitamente nei frammenti inediti dove egli negava rilievo a ipotetiche leggi metastoriche, provvidenziali o immanenti che fossero, e rivendicava invece il valore della diade
mazziniana pensiero-azione123.
Se è vero che egli non rifuggiva dall’indagine delle grandi idee-forza, come
la nazione o il lavoro, va riconosciuto come la misura propria della storiogra-
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fia di Ruini sia stata soprattutto quella della biografia. La via più efficace per
affrontare i processi della grande storia era infatti da lui individuata nelle vite
dei singoli, che gli consentivano di penetrare in profondità le situazioni e di
esprimere al meglio i contesti124; offrendo tra l’altro spunti avventurosi superiori anche alle più sfrenate fantasie.
Ruini si interessò infatti di persone appartenenti ad una storia «di secondo
piano», ma a loro modo eccezionali nella capacità di vivere, nell’arco di una
sola esistenza, esperienze anche assai diverse125: egli narrò soprattutto vite di
migranti; di professori fattisi politici; di sognatori spesso delusi ma mai domi.
Proprio questo taglio gli consentì del resto di sfoderare quelle notevoli doti
«di narrazione e di potenza evocativa»126 in cui trovavano realizzazione la sua
naturale facilità di espressione e la lunga esperienza di conferenziere; qualità
che rendono i suoi testi, anche quelli di carattere più tecnico o zeppi di citazioni, tutt’altro che aridi, ma anzi di piacevole lettura.
Conclusioni: i mille volti dello storico italiano
Il caso di Ruini sollecita del resto interrogativi di più vasta portata circa la
sovrapposizione, molto evidente nel contesto italiano, tra chi la storia la fa
e chi poi la scrive. In effetti per chi non si interessi specificamente di storia
della storiografia l’aspetto più interessante della vicenda ruiniana è costituito
proprio dall’estrema permeabilità tra il suo ruolo come attore e quello come
autore di storia.
Fa ormai parte del senso comune, non solo disciplinare, l’idea che la storia
abbia giocato in Italia un ruolo sociale notevolissimo e che tuttora rappresenti
uno dei nodi del sistema educativo e del dibattito pubblico. Non può quindi
stupire che la storia italiana sia piena di studiosi che hanno assunto cariche
di rilievo in campo politico (anzi è forse sorprendente che tali casi non siano
stati di più o di maggior peso rispetto ad altri paesi in cui la storia ha senz’altro minor riconoscimento pubblico); e anche Ruini ebbe modo di conoscere
e frequentare molti di questi storici-politici, da Salvemini a Ciasca, da Parri a
Spadolini.
L’esempio ruiniano impone però di dare rilievo anche al fenomeno opposto: quello cioè di politici, amministratori, giudici, diplomatici, generali che
non solo si interessano di storia o si dedicano alla memorialistica, ma si applicano come storici veri e propri, con risultati tutt’altro che disprezzabili, soprattutto dal punto di vista della ricezione.
Si tratta di una tendenza che negli ultimi anni si è ulteriormente accentuata,
portando anche a derive non prive di rischi la naturale sovrapposizione tra
giornalismo e storia contemporanea; ma che in altre stagioni, allorché, come
si è detto, la storia rappresentava uno dei residui spiragli per affermare la propria voce pubblica, ha conosciuto interpreti di primissimo livello: e basterebbe
ricordare, al fianco di Ruini, uomini come Nitti o Bonomi127.
70
Certo in questi autori non mancano i difetti di chi non è del mestiere: nei testi storici del politico reggiano, ad esempio, non è difficile riscontrare un abuso di analogie, soprattutto in chiave teleologica; un’ansia definitoria che sfocia
nell’enciclopedismo; un ricorso eccessivo alle citazioni dirette; la tentazione
ricorrente di dare spazio a ipotesi controfattuali; e in generale una tendenza
pericolosa all’eclettismo piuttosto che alla tanto auspicata integrazione.
Conviene peraltro ricordare come più d’un conoscente ferrato in materia
(basti pensare a Croce, anch’egli del resto, non un accademico) abbia riscontrato in Ruini «l’animo e le doti dello storico»; per cui di fatto solo le circostanze
della vita gli impedirono di essere maestro anche in questo campo, come fu
invece in politica (e, si potrebbe dire, in civismo).
Ma soprattutto, rifiutando le rivendicazioni corporative, vale la pena di ricordare la distinzione proposta da De Ruggiero, proprio a proposito di Ruini,
tra professionismo e professionalità. Come è noto il politico reggiano si è battuto in più sedi e occasioni per eliminare il valore giuridico dei titoli di studio:
ebbene mi pare che sia opportuno ribadire come anche gli storici, patentati o
meno, vadano distinti poi più che altro in capaci e meno, giudicandoli sulla
base dei risultati piuttosto che dei certificati; e in quest’ottica non vi è dubbio
che Ruini meriti di stare tra i primi.
Specialista di storia del pensiero economico, erudito locale, professore,
propagandista, cronista, bellettrista, storico impegnato, memorialista, Ruini ha
praticato nell’arco della sua lunga vita l’intero spettro della storiografia, mostrando una duttilità estrema (senz’altro straordinaria per il XX secolo) e rivendicando, pur con l’umiltà del dilettante consapevole, la legittimità di questo
suo essere «storicamente vagabondo». Nel rendergli omaggio per i suoi alti
meriti istituzionali mi pare giusto ritagliare uno spazio anche per questo magistero senz’altro meno nobile, ma non meno prezioso.
–––––––––––––––––––––––––
1
Per un quadro complessivo della vicenda di Ruini cfr. L. D’Angelo ,“Meuccio Ruini” in
Parlamento italiano, Nuova Cei, Milano XIV, p. 401; e soprattutto S. Campanozzi Il pensiero politico e giuridico di M. Ruini Giuffrè, Milano 2002.
2
Cfr. F. Caffè, A. Staderini, Meuccio Ruini in A. Mortara (a cura di), I protagonisti dell’intervento
pubblico in Italia, Franco Angeli, Milano 1984 p. 241.
3
Cfr. M. Ruini, Ricordi, Giuffrè, Milano 1973.
4
Cfr. O. Rombaldi, Storici reggiani tra Otto e Novecento, “Contributi”, 1985/17, p. 51.
5
Cfr. A. Falchim, L’opera di Icilio Vanni e i problemi della gnoseologia, della sociologia e della
filosofia del diritto, Ss 1903; e Studi di diritto costituzionale in onore di Luigi Rossi, Giuffrè,
Milano 1952.
6
Cfr. M. Ruini, La distinzione tra società e stato e la teoria dello stato di diritto, Roma 1905.
7
Cfr. M. Ruini, Romagnosi nel pensiero moderno, Roma 1902 (poi in Id., Pensatori e politici del
Prerisorgimento e Risorgimento, Giuffrè, Milano 1962, p. 112) – si tratta del discorso per l’inaugurazione del circolo massonico omonimo di Roma; ma si vedano anche la conferenza del 1899
all’analogo circolo di Reggio e il testo del 1903 per il centenario dell’insegnamento romagnosiano a Parma (cfr. Campanozzi, op. cit., p. 65). La letteratura su Romagnosi era allora ferma di
71
fatto a Cantù; ma avrebbe conosciuto una sensibile svolta nel 1935, quando, in occasione del
centenario della morte, uscirono sull’autore termale opere di G.A. Belloni, A. Credali, G. Del
Vecchio, A. Levi, P. Orano, F. Orestano (cfr. E. Di Carlo, Bibliografia Romagnosiana, Corselli,
Palermo 1936).
8
Cfr. R. Marcuccio, Un cronista reggiano d’eccezione per i solenni funerali di Umberto I, “Strenna
del Pio Istituto Artigianelli” 1996/2, p. 81.
9
La definizione si trova in F. Lanchester, Ruini tra forma di Stato e forma di governo in Meuccio
Ruini: la presidenza breve Rubbettino, Catanzaro 2004, p. 43.
10
Cfr. B. Croce, Storia della storiografia italiana del secolo decimonono, Laterza, Bari 1921.
11
Ruini fu impiegato all’ ufficio idraulico, a quello delle bonifiche e a quello delle colonie durante il ministero Gianturco; con Sacchi divenne capo Gabinetto (nel 1910) e direttore generale
dei servizi speciali per il mezzogiorno (nel 1912). Entrò a far parte del Consiglio di Stato nel
febbraio 1914. Cfr. la tesi di E. Pieraccini, La P. A. nel pensiero e nell’opera di Meuccio Ruini,
discussa nel 1995 a Firenze con U. Allegretti.
12
A partire dal 1907 fece parte del consiglio comunale di Roma e di quello provinciale di
Reggio, risultando in entrambi il membro più giovane; cfr. G. Barbalace, Riforme e governo municipale a Roma in età giolittiana, Liguori, Napoli 1994.
13
Nel 1904 Ruini partecipò alla fondazione del partito radicale come rappresentante del gruppo radical-socialista. Fu poi eletto deputato nel 1913 e confermato nel 1919. Cfr. L. D’Angelo,
Radical-socialismo e socialismo radicale in Italia 1892-1914, Giuffrè, Milano 1984; C. Cardelli
Radicali ieri, ipl, Milano 1992; G. Orsina, Senza Chiesa né classe, Carocci, Roma 1998, e Id.,
Anticlericalismo e democrazia, Rubbettino, Catanzaro 2002.
14
Si vedano in particolare i suoi articoli sul “Messaggero” 1906-18.
15
Cfr. M. Ruini, Le opere pubbliche in Calabria, Bergamo 1913 (e la riedizione uscita nel 1991
presso Laterza con una Introduzione di G. Cingari – se ne veda anche la recensione di G.
Pescosolido in “Storia Contemporanea”, 1992/2). Va ricordato come proprio gli interessi meridionalistica gli fruttarono l’amicizia di Giustino Fortunato.
16
Cfr. L. D’Angelo Introduzione a M. Ruini, Discorsi Parlamentari, Senato, Roma 1997 e O.
Gaspari, La montagna alle origini di un problema politico 1902-1919, Roma 1992.
17
Si vedano in proposito i suoi articoli sulla “Critica Sociale” del 1907-10.
18
Su questo complesso di temi cfr. G. Belardelli, Il mito della Nuova Italia, Lavoro, Roma 1988
e B. Bracco, Storici italiani e politica estera, Franco Angeli, Milano 1998.
19
Cfr. M. Ruini, In una chiesa del Friuli liberato. Per i caduti di San Michele (20-8-1915) in
“Eloquenza”, 1916/1-4 (poi in volume R 1916 e in Id., Profili di storia Giuffrè, Milano 1961 p.
3).
20
Cfr. Id., La grande italiana in “Sapientia” 1916/1-4 (quindi in Id., Profili di storia, cit., p. 18).
21
L’orazione comparve infatti nella raccolta di letture storiche di Gasperoni e Tudertino e nella
antologia di padre Semeria (cfr. P.F. Palumbo, Meuccio Ruini – 1970 – in Id., Storici maestri e
amici, Lavoro, Roma 1985 p. 309).
22
Tra le altre collaborazioni di Ruini in tempo di guerra vanno segnalate quella con la rivista
“Sapientia” di Salvatore Lauro e quella col quotidiano liberale “Giornale di Reggio”.
23
Cfr. M. Ruini, Problemi di guerra e di dopoguerra, Colitti, Campobasso 1917 (si tratta di una
conferenza tenuta in gennaio a Castelnuovo Monti); Id., Dopo la vittoria in “Messaggero”, 16
novembre 1917; Id., Le armi economiche e morali della nostra guerra in “Rivista d’Italia”, 1918/1
p. 129.
24
Cfr. Id., La guerra e la pace per la società delle nazioni e del lavoro (1918) ora in Id., Ricordi
cit. p. 184; e Id., I due concetti della società delle nazioni in “Rivista d’Italia”, 1918/3 p. 22.
25
Cfr. la tesi di F. Barletta, Meuccio Ruini in qualità di sottosegretario del ministero del Lavoro
discussa nel 1998 alla luiss di Roma con S. Sepe.
26
Si segnalano in questa fase i suoi articoli sull’ “Azione”, su “Echi e Commenti” e sulla “Nuova
Antologia”.
27
Cfr. Id., Il pensiero di Wilson, Zanichelli, Bologna 1918.
28
Rispettivamente sull’“Italia che scrive”, 1919, p. 15 e in “Scientia”, 1920, p. 330. Per un quadro
del dibattito su Wilson cfr. D. Rossini, L’America riscopre l’Italia, Roma 1992.
72
Cfr. M. Ruini, L’islam e le nostre colonie, Solco cdc, 1922.
In “Rivista Coloniale”, 1923, p. 50.
31
Cfr. Ruini, Ricordi, cit., p. 67 e p. 221.
32
L’espressione è contenuta negli appunti conservati in Archivio Ruini b.13 f.1.
33
Cfr. M. Ruini, Le vite di Pellegrino Rossi, Giuffrè, Milano 1962, p. II («Quando scrivevo, sotto il
fascismo, non avevo propositi di pubblicazione; scrivevo per me stesso; e mi lasciavo prendere
dalla tentazione di rivedere quei tempi lontani come si vedrebbero oggi»).
34
Ricorre, infatti, negli scritti di Ruini l’idea di costruire una grande coalizione nazionale, talora
anche denominata, con vocabolo allora assai diffuso, “fascio”.
35
Si vedano in questo senso gli articoli pubblicati sul “Resto del Carlino” nel corso del 1921.
36
Cfr. M. Ruini, L’ora della democrazia, “Nuova Antologia”, 1921/1172, p. 169 (e la recensione
anonima in “Rivista Internazionale di Scienze Sociali“, 1922/1, p. 359); ma in generale tutti gli
articoli compresi in Id., La democrazia e l’Unione Nazionale, Corbaccio (Res Publica), Milano
1925 (su cui anche la recensione di A. Bertolino, “Studi Senesi”, 1925, p. 369).
37
L’espressione si ritrova in due saggi inediti conservati in Archivio Ruini b.73 f.24 (Nella lotta
contro il fascismo dell’ottobre 1924 e Contrasti e mutazioni fasciste del novembre successivo).
Qui Ruini contrapponeva il dottrinarismo di De Stefani e l’opportunismo di Mussolini; e notava
come dietro la propaganda fascista vi fossero solo motivi elettorali ma mancasse un nuovo impulso ai lavori pubblici in termini di decentramento e di intervento speciale per il Meridione.
38
Cfr. Per una nuova democrazia, Roma 1925 (e ora Forni, Bologna 1976) – si tratta degli atti
del Congresso. Per un quadro generale sull’Unione Nazionale cfr. S. Colarizi, I democratici all’opposizione Mulino, Bologna 1973; L. D’Angelo, La democrazia radicale tra guerra e fascismo,
Bonacci, Roma 1990; e L. Alteri, Ruini dal radicalismo alla democrazia amendoliana, in “Elite
& Storia”, 2002/2, p. 125. Sulla partecipazione di Ruini rimane utile la raccolta di documenti
contenuta in E. Camurani Dalle carte di Meuccio Ruini in “Ricerche Storiche”, 1976/28 p. 63.
39
Cfr. E.R. Papa, Storia di due manifesti Feltrinelli, Milano 1958.
40
Cfr. G. Manganaro Favaretto, M. Ruini. Un opposant constitutionnel au fascisme in La pensée
democratique, Aix, 1996 p. 303, e la tesi di M. Cristoni, Meuccio Ruini tra liberalismo e fascismo
1922-1926, discussa a Bologna nel 2002 con M. Salvati.
41
Cfr. M. Ruini, Il Consiglio Nazionale del Lavoro, Zanichelli, Bologna 1920.
42
Cfr. M. Ruini, Luigi Corvetto, Giuffrè, Milano 1963, p. I («Il fascismo lo combattemmo a viso
aperto, appena fu possibile; ma allora per prepararci ad agire dovevamo pensare e scrivere)».
43
La lettera del 2 dicembre 1927 è riportata in L. D’Angelo Antifascismo e democrazia nel giudizio di Meuccio Ruini in “Elite e Storia”, 2005/1-2, p. 9 (il testo della lettera è a p. 22).
44
In “Nuova Rivista Storica”, 1929/3-4, p. 271.
45
Cfr. Id., Luigi Corvetto genovese, ministro e restauratore delle finanze di Francia 1756-1821,
Laterza (Biblioteca di Cultura Moderna), Bari 1929 (e ora, Milano 1963, cit., p. 1).
46
Cfr. Id., La Signora di Staël, Laterza, Bari 1931 (e ora, Milano 1963, cit., p. 237).
47
G. Lombroso Ferrero rilevò come in essa vi fosse «la trama non soltanto di una storia, ma di
un romanzo».
48
Cfr. P. Giovagnoli, Pellegrino Rossi e la rivoluzione romana, Forzani, Roma 1898-1911, 3 voll.
49
In particolare Luzio parlò di studio «ottimo, squisito, magistrale» (in “Corriere della Sera”, 27
novembre 1929).
50
Si pensi a G. Maioli, Pellegrino Rossi, Bologna 1930; C. Carradori, Pellegrino Rossi, Nerbini,
Firenze 1931; e soprattutto a G. Brigante Colonna, L’uccisione di Pellegrino Rossi, Mondadori,
Milano 1938, che rappresentava un notevole esempio di storia romanzata in chiave avventurosa
secondo la tradizione della “Collana Verde” di Mondadori.
51
Cfr. C.A. Biggini, Il pensiero giuridico e politico di Pellegrino Rossi di fronte ai problemi del
Risorgimento italiano, La Spezia 1931 (poi Vittoriano, Roma 1937). Va rilevato come nella sua
voce su Rossi nell’Enciclopedia Italiana XXX, p. 145 Biggini non citasse il volume di Ruini. Su
Biggini cfr. L. Garibaldi, Mussolini e il professore, Mursia, Milano 1983.
52
Cfr. Ruini, Le vite di P. Rossi, cit., p. 1.
53
Si vedano le recensioni in “Archivio Storico Italiano”, 1963/1, p. 148; “Nuova Rivista Storica“,
1963/5-6, p. 601; e “Schweizerische Zeitschrift fuer Geschichte”, 1963, p. 268.
29
30
73
In quest’ambito va segnalata anche la ripresa delle rivisitazioni in chiave romanzata con G.
Andreotti, Ore 13: il ministro deve morire, Rizzoli, Milano 1974.
55
Cfr. L. Lacchè (a cura di), Un liberale europeo, Giuffrè, Milano 2001 (che raccoglie gli atti del
Convegno di Macerata del 1998).
56
Cfr. A. Liesse, Portraits des financiers, Alcan, Paris 1908.
57
Queste analogie furono rilevate da A.M. sulla “Rassegna del Mese” e da R.M. in “La Parola e
il Libro”.
58
Si vedano in proposito le recensioni di A. Lumbroso sul “Giornale di Genova” («Ruini rende
giustizia a un generale insigne e troppo dimenticato») e di P.S. sul “Lavoro” di Genova.
59
Di «perspicacia e competenza» parlò J. Tivaroni in “Archivio Storico Italiano”, 1930, p. 181;
positivi anche i giudizi di V. Vitale sulla “Rivista Storica Italiana”, 1930/2, p. 180, e del recensore
anonimo della “Nuova Rivista Storica”, 1931/3-4, p. 335. Il volume di Ruini era l’unico in italiano citato da G. Gallavresi nella sua voce sull’Enciclopedia Italiana XI, p. 560 e da L. Venturini,
Corvetto alla luce di un epistolario inedito, Degli Orfini, Genova 1939.
60
Si veda ad es. la recensione di E. Zuccarini su “Patria degli Italiani” di Buenos Aires 1930/4-5
(«L’autore celebra un italiano dimenticato dall’ingratitudine straniera»).
61
Così F. Nitti in una lettera a M. Menghini conservata in copia in Archivio Ruini b.53 f.13.
62
L’espressione è dello stesso Ruini; cfr. Ruini, Ricordi, cit.
63
Cfr. “Critica”, 20 marzo 1930, p. 128.
64
Cfr. “Civiltà Moderna”, 1930/2 (poi in A. Omodeo, Figure e passioni del Risorgimento,
Mondadori, Milano 1945).
65
Oltre ai classici lavori di A. Sorel e P. Gautier, Ruini citava i saggi letterari di M.T. Porta e di
C. Pellegrini. Per un quadro degli studi dell’epoca cfr. “Annales Constant”, 1990 (Constant, De
Staël et la critique italienne).
66
Un recensore particolarmente attento alla divulgazione come A. Cutolo sul “Roma” poteva
infatti paragonarlo all’agile profilo tracciato da A. Bersanetti in Le donne di Napoleone, Cappelli,
Bologna 1930, rispetto al quale «non perde in leggibilità ma guadagna in fondatezza storica».
Riscontri positivi anche da parte di A.M. in “Rassegna Nazionale” e di G. Gabetti nella voce
omonima in Enciclopedia Italiana XXXII, p. 442. Per valutare il tenore del lavoro di Ruini lo si
può confrontare utilmente con le altre biografie che apparvero di lì a poco in lingua italiana: G.
Borghetti, La nemica di Napoleone, Treves, Milano 1934; e B. Gurgo, Madame De Staël, Napoli
1934.
67
Ad esempio Omodeo (sulla “Critica”, 1931, p. 216) ne apprezzava la «sintesi quasi violenta che
segue il filo della libertà attraverso la rivoluzione» e vi vedeva una «storia della fase occulta e
preparatoria della grande storia della rigerminazione del liberalismo»; C. De Donato sul “Corriere
del Commercio” parlava di libro entusiasmante; ma va riportata soprattutto la commossa testimonianza dell’intellettuale reggiano Giannino Degani («Alla nostra cultura di antifascisti contribuì notevolmente il libro di Ruini sulla De Staël per il suo contenuto alto e degno e la viva e
ammirevole voce di libertà»).
68
Ad es. M. Lelj sul “Giornale di Roma” criticava le troppe citazioni e la mancanza di ardimento
artistico; ma si vedano anche le osservazioni di R.Z. su “Aevum”, 1933/1, p. 132, che parlava di
«profilo troppo rapido», rilevando «lo stile telegrafico» e «la mancanza di date precise».
69
Ora Giuffrè, Milano 1969, p. 87. Sulla collana mondadoriana cfr. A. Colombo, Storia e politica
nelle “Scie” in Editoria e cultura a Milano tra le due guerre, Fondazione Mondadori, Milano
1983, p. 195.
70
Ruini citava A. D’Ancona, Viaggiatori e avventurieri, Firenze 1911, L. Federzoni, L’italiano errante, Ricciardi, Napoli 1913, B. Brunelli, Un’amica di Casanova, Sandron, Palermo 1923, G. Di
Tella, Casanova, Roma 1927; ricordava inoltre i volumi di H. Conrad (1911), C. Samaran (1914),
J. Le Gras (1922) e S. Zweig (1930). Lo studio dell’autore reggiano venne peraltro penalizzato
dalla pubblicazione, poco dopo la sua uscita, della prima edizione critica delle Memorie di
Casanova presso l’editore Corbaccio.
71
Va segnalato in particolare l’apprezzamento di Angelandrea Zottoli, amico di Ruini e in seguito amministratore della Treccani (del quale si veda sul tema Giacomo Casanova, Tumminelli,
Roma 1945, 2 voll.).
54
74
72
Cfr. M. Ruini, Il Risorgimento come processo di nazionalità in “Educazione Nazionale”, 1933,
p. 19. Sulla risorgimentistica di epoca fascista cfr. ora M. Baioni, Il Risorgimento in camicia nera,
Carocci, Roma 2006.
73
Cfr. M. Ruini, Fattori e sintesi storiche di unità europea, ivi, p. 44 e Id., La crisi e l’unità europea, ivi, p. 109 (poi entrambi in Id., Nazione e comunità di nazioni, Giuffrè, Milano 1961,
p. 553). Sul Convegno Volta (e in generale sul dibattito sull’Europa) cfr. D. Cofrancesco, Il mito
europeo del fascismo in “Storia Contemporanea”, 1983/1 e S. Giustibelli, L’Europa nel Convegno
della Fondazione Volta in “Dimensioni e Problemi della Ricerca Storica”, 2002/1, p. 181.
74
Ivi, p. 120 (e la si confronti con quella assai critica a C. Capasso, L’Unione europea e la grande
alleanza del 1871, Firenze 1932, ivi, p. 186). Il riferimento è ovviamente a N. Rosselli, Carlo
Pisacane nel Risorgimento italiano, Bocca, Torino 1932; la recensione di Ruini, per toni e tesi,
può essere affiancata a quelle di Omodeo sulla “Critica”, 1931, p. 130, di Morra su “Solaria”,
1932, p. 58, di Parri sulla “Nuova Rivista Storica”, 1933, p. 161, di Salvatorelli su “Cultura”, 1933,
p. 245. Per un quadro critico della bibliografia su Pisacane, che ricorda le strumentalizzazioni
cui fu sottoposto il suo socialismo nazionale da autori come Y. De Begnac o V. Mazzei, cfr. S.
Rota Ghibaudi, Pisacane nella storiografia italiana in “Cronache Meridionali”, 1957/10, p. 637.
75
Cfr. L. Bulferetti, La Restaurazione in E. Rota (a cura di), Questioni di storia del Risorgimento
e dell’unità d’Italia, Marzorati, Como 1951, p. 166; e G. Imbruglia, Illuminismo e storicismo nella
storiografia italiana, Bibliopolis, Napoli 2003.
76
Cfr. D. Coli, Il filosofo, i libri, gli editori, Napoli 2002.
77
Ruini fu, infatti, coinvolto nel progetto di Rivista di Storia Europea concepito da Nello Rosselli
tra il 1932 e il 1934; cfr. D. Zucaro, In un carteggio inedito di Nello Rosselli, il progetto di una
rivista di storia europea sul “Ponte”, 1972/6, p. 764.
78
Cfr. A. Casali Storici italiani tra le due guerre, Guida, Napoli 1980.
79
Ruini si era già firmato come “MR da Sanpolo” nei testi giovanili (per puro vezzo letterario);
e come “Chantecler” nella Roma giolittiana (probabilmente per tutelare la sua posizione come
funzionario). Sotto il fascismo, per proteggere la sua identità, scrisse per lo più come “M.R.
Buccella” (le iniziali e il cognome della madre) e come “Carlo Meucci”. Non c’è bisogno di rilevare il contrasto che si venne a creare in epoca fascista tra il fiorire di pseudonimi latineggianti
ad uso propagandistico e la situazione di ebrei e dissidenti costretti a pubblicare sotto falso
nome per motivi di sicurezza.
80
Cfr. Campanozzi, op. cit., p. 156.
81
Napoli 1927 (poi in B. Croce, Etica e politica, Bari 1945, p. 302). Ruini gliela restituì in dicembre accompagnandola con la già citata la lettera del 2.
82
Per un quadro sul tema cfr. G. Sasso, La storia d’Italia di Croce cinquant’anni dopo, Bibliopolis,
Napoli 1979; e V. Vidotto, Volpe e Croce storici pubblici in Id., Guida allo studio della storia
contemporanea, Laterza, Bari 2004, p. 122.
83
Cfr. W. Maturi, La crisi della storiografia politica italiana in “Rivista Storica Italiana” 1930/1,
p. 1 in particolare p. 22. Va ricordato come proprio Maturi abbia compilato nel dopoguerra la
breve voce su Ruini in Enciclopedia Italiana Appendice II 1949 II, p. 754.
84
Per un quadro aggiornato su questi sviluppi (e un serio confronto tra tesi storiografiche anche
molto diverse) cfr. G. Turi Lo stato educatore, Laterza, Bari 2002 e G. Belardelli, Il ventennio
degli intellettuali, Laterza, Bari 2005.
85
Come spesso accade, infatti, ne sono scaturite reazioni eccessive, che, indulgendo troppo nel
senso opposto, hanno minimizzato l’azione repressiva del regime e ne hanno sopravvalutato
l’azione razionalizzatrice. Le due posizioni possono essere ben sintetizzate da A. Casali, Gli
storici del Ventennio, in “I Viaggi di Erodoto”, 1990/12, p. 58 e R. De Felice, Gli storici italiani
nel periodo fascista (1983); da ultimo in Intellettuali di fronte al fascismo, Bonacci, Roma 1985,
p. 190.
86
Cfr. B. Vigezzi (a cura di), Federico Chabod e la “nuova storiografia” italiana, Jaca Book,
Milano 1984.
87
Cfr. M. Ruini, Per la ricostruzione, Roma 1944 (ora in Id., Lavoro e comunità di lavoro, Giuffrè,
Milano 1962 p. 257); e Id., Democrazia del lavoro e ricostruzione nazionale, Roma 1944 (ivi,
p. 267). Per un quadro critico cfr. L. D’Angelo, Ceti medi e ricostruzione, Giuffrè, Milano 1981,
75
e Id., Il demolaburismo italiano in A. Landuyt-G.B. Furiozzi (a cura di), Il modello laburista nell’Italia del Novecento, Franco Angeli, Milano 2001, p. 31.
88
Cfr. C. Pavone, Le idee della Resistenza in “Passato e Presente” 1959/7, p. 852; G. Galasso, Il
secondo Risorgimento in Id., La democrazia da Cattaneo a Rosselli, Le Monnier, Firenze 1982,
p. 105; F. Traniello, Sulla definizione della Resistenza come “secondo Risorgimento” in Le idee
costituzionali della Resistenza, Roma 1997, p. 24.
89
Si veda in proposito la testimonianza offerta da cfr. P.F. Palumbo, Il governo dei 45 giorni.
Diario della Resistenza a Roma, Lavoro, Roma 1967.
90
Cfr. M. Ruini, Verso la Costituente, Europa, Roma 1945; e soprattutto i tre volumi sulla Nostra
e le cento costituzioni del mondo, Giuffrè, Milano 1961-1964 (I, Come si è formata la nostra
Costituzione, II Commenti e note alla nostra Costituzione, III Problemi aperti). Va inoltre segnalato il rapporto personale ed epistolare con B. Mirkine-Guetzévich.
91
In merito di cessione di sovranità agli organismi internazionali; di attenuazione del monopolio
cattolico; di istituzione del cnel; di impostazione di norme rigide per la revisione costituzionale.
Per un quadro sul Ruini costituente cfr. F. Bojardi, Meuccio Ruini in Interventi alla Costituente.
Contributi reggiani, Analisi, Bologna 1986, p. 193; G. Quagliariello, Ruini: formazione politico-culturale e impegno costituente in G. Monina (a cura di), La via alla politica, Franco Angeli,
Milano 1999, p. 139; e le tesi di F. Merluzzi (Problemi costituzionali italiani nel pensiero di
Meuccio Ruini discussa nel 1984 a Roma con P. Ridola), E. Fanticini (Il pensiero e l’opera di Ruini
nei lavori dell’Assemblea Costituente discussa a Bologna nel 2001 con C. Bottari) e di L. Alteri
(Politica e costituzione in Meuccio Ruini discussa nel 2002 a Roma con C. Mongardini).
92
Tanto che Salvemini parlò ironicamente di “Costituzione Ruini”.
93
Sulla vicenda cfr. ora Lanchester, op. cit., e la tesi di S. Grifone, Meuccio Ruini e la legge elettorale del 1953 discussa alla luiss di Roma nel 2001 con G. Quagliariello.
94
Cfr. i saggi compresi in M. Ruini, Nazione e comunità di nazioni, cit., e Id., Lavoro e comunità
di lavoro, cit.
95
Cfr. Id., Il parlamento nella nuova Costituzione in Il centenario del Parlamento, Roma 1948,
p. 399 (e in “Europa” 1948/1, p. 1); Id., Il quarantotto romano nel quadro d’Italia e di Europa in
“Nuova Antologia”, 1949/446, p. 3; e Id., Roma capitale d’Italia, ivi, 1952/455, p. 112.
96
Si vedano i saggi raccolti in Ruini, Pensatori e politici del Prerisorgimento e Risorgimento
d’Italia, cit.
97
Il riferimento è a G.L. Capobianco, Mancini iniziatore della politica coloniale italiana, Roma
1933.
98
Cfr. P. Ingusci-M. Ruini, Mazzini e la Costituzione italiana, ami, Genova 1958.
99
Cfr. L. Salvatorelli, Pensiero e azione del Risorgimento, Einaudi, Torino 1943.
100
Cfr. C. Antoni, La lotta contro la ragione, Sansoni, Firenze, 1942; F. Chabod, L’idea di nazione, Laterza, Bari 1961, e Storia dell’idea di Europa, Laterza, Bari 1961 (ma entrambi 1944); C.
Morandi, Idea dell’unità politica d’Europa nel XIX e XX secolo in E. Rota (a cura di), Problemi di
storia del Risorgimento, Marzorati, Como 1948, II vol., p. 1875. Per un quadro complessivo cfr.
Nazioni, nazionalismi ed Europa nell’opera di Federico Chabod, Olschki, Firenze 2002.
101
Cfr. A. Omodeo, Difesa del Risorgimento, Einaudi, Torino 1951, e Id., Studi sull’età della
Restaurazione, Einaudi, Torino 1976 (ma 1946). Per un approccio critico cfr. M. Mustè, Adolfo
Omodeo. Storiografia e pensiero politico, il Mulino, Bologna 1990.
102
Cfr. M. Ruini, Tre caratteri della storia svizzera in “Acropoli” 1945/9, p. 391.
103
Roma 1948.
104
In “Giornale d’Italia” 30 ottobre 1948 e in “Quaderni della Critica” 1948/4, p. 98.
105
In “Gazzetta del Mezzogiorno” e “Nuova Antologia” (dove il volume era definito «un esempio e un monito»). Un anonimo parere positivo figurava anche in “Rivista di Studi Politici
Internazionali”, 1949/3, p. 3.
106
Nel dopoguerra Ruini riprese le collaborazioni con la “Rivista di Diritto Pubblico”, con il
“Corriere Amministrativo” e con la “Rivista di Politica Economica”; fu inoltre editorialista della
“Stampa”.
107
P.F. Palumbo parla in proposito di «nuovo intervallo di raccoglimento e silenzio» (cit., p.
308).
76
Cfr. M. Ruini, Profili storici, Cappelli, Bologna 1953.
Cfr. L. Bennati in “Giustizia” 25 giugno 1953; in termini analoghi anche F.A. Cusimano in
“Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto”, 1954, p. 838.
110
Come fa ad esempio il settimanale diocesano “La Libertà”, 1954/10.
111
Si vedano in proposito gli apprezzamenti di L. Valiani, Il movimento socialista in Italia,
Einaudi, Torino 19622.
112
Si veda ad es. il programma riportato in Meuccio Ruini. Vita e scritti, Roma 1965 e lo si confronti con quello in appendice a Ruini, Ricordi, cit.
113
Si tratta di M. Ruini, Rievocazioni studi ricordi Giuffrè, Milano 1961 e del già citato Pensatori
e politici del prerisorgimento e risorgimento d’Italia.
114
Come ad es. M. Troisi, Il pensiero economico di Federico List e l’economia sociale corporativa,
Giornale d’Italia, Roma 1936 (sul punto cfr. Campanozzi, op. cit., p. 218).
115
Si veda ad es. la recensione di G. Mori in “Studi Storici”, 1962/2, p. 412.
116
Dei caratteri della vita di Law, particolarmente adatta a ricostruzioni romanzate, fanno testo
lavori di epoche diverse come G. Oudard, La très curieuse vie de Law, Plon 1927; S. Magri, La
strana vita del banchiere Law, Mondadori, Milano 1956; J. Gleeson, L’uomo che inventò il denaro, Rizzoli, Milano 2000
117
Si vedano in proposito gli appunti conservati in Archivio Ruini b.39 f.1.
118
Cfr. rispettivamente A. Stoppoloni, Talleyrand, Roma 1907; e F. Blei, Talleyrand, Garzanti,
Milano 1936, e R. Duff Cooper, Talleyrand, Einaudi, Torino 1938.
119
Questa posizione ricalca in effetti la voce di Maturi in Enciclopedia Italiana XXXIII, p. 201.
Per un quadro dell’epoca cfr. M. Vinciguerra, Intorno a Talleyrand in “Nuova Rivista Storica”
1940/1-2.
120
Cfr. M. Ruini, Il domani. Una nuova età della storia in Archivio Ruini b.40, 41, 42 e b.73
f.20.
121
Sul punto cfr. le pertinenti considerazioni di D’Angelo, Antifascismo e democrazia nel giudizio di Meuccio Ruini, cit.
122
Cfr. M. Ruini, Ricordi, cit. p. 23.
123
Cfr. Frammenti di metodo (in Archivio Ruini b.21 f.3): «Anche il pensatore non va studiato
come teorico puro bensì nel suo pensiero attivo e nei riflessi che più ha con l’azione».
124
Cfr. Ruini, Ricordi, cit. p. 237: «Inaugurai allora un metodo che seguii anche in seguito: di
cercare in libri ed archivi di ricostruire – attraverso vite – problemi e momenti di storia»; poco
più avanti si parla di compenetrazione tra «tempi di vita e tempi di storia».
125
Cfr. Id., Le vite di Pellegrino Rossi, cit., p. III, («Mi hanno impressionato le vite vissute non
senza unità»).
126
La definizione specifica è di P.F. Palumbo, op. cit.
127
Su Nitti cfr. F. Barbagallo, F.S. Nitti, utet, Torino 1984; Nitti: meridionalismo ed europeismo,
Laterza, Bari 1985; S. D’Amelio, F.S. Nitti, Laterza, Bari 2003 (e sui suoi rapporti con Ruini cfr.
S. Campanozzi, Il carteggio Ruini-Nitti in “Il Risorgimento”, 2000/1, p. 155). Su Bonomi cfr. L.
Cortesi, Ivanoe Bonomi e la socialdemocrazia italiana, Salerno 1971; L. Cavazzoli (a cura di),
Bonomi un protagonista del Novecento, Postumia, Matera 1993; Id. (a cura di), Bonomi riformatore, Lacaita, 2005 (e per i rapporti con Ruini cfr. D’Angelo, Antifascismo e democrazia nel
giudizio di Meuccio Ruini, cit.).
108
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Meuccio Ruini
Il pensiero politico e giuridico
di un padre della Costituzione
Simone Campanozzi
Riassumere il pensiero politico e giuridico di un uomo quale Meuccio Ruini,
tra i protagonisti della storia italiana della prima metà del Novecento, non è
cosa agevole sia per l’ampiezza dei suoi scritti, editi e inediti, sia per la complessa personalità dell’Autore caratterizzata – come ha sottolineato Eugenio
De Marco – «da una notevole ricchezza di interessi culturali, mai disgiunti però
da un fermo e consapevole impegno nella vita civile e sociale del Paese»1.
La relazione che ho inteso proporre al convegno di Reggio Emilia, imperniata sul ruolo di Ruini alla presidenza della Commissione dei 75, ha voluto
rappresentare un omaggio doveroso, a pochi mesi dal sessantesimo del 2 giugno 1946, all’uomo che ha svolto «la funzione individuale di maggior rilievo
nel processo di formazione della carta costituzionale»2.
Si consideri che le idee politiche, giuridiche, economiche e sociali di Ruini
si delineano con un certo rigore sistematico fin dalla sua tesi di laurea del
1899, significativamente dedicata ai rapporti tra Stato e società, tra poteri pubblici e interessi economici, tra istituzioni giuridico-politiche e organizzazioni
associative dei cittadini3; quindi seguiranno le formative esperienze, durante il
decennio giolittiano, in seno alla pubblica amministrazione, dalle quali trarrà
l’esigenza di una sostanziale riforma dei servizi pubblici e dell’apparato burocratico, avanzando tra i primi l’idea di una rappresentanza degli interessi
79
all’interno dei corpi amministrativi4. Egli avvertiva la necessità di riformare
le istituzioni e gli organismi statali per adattarli alle esigenze di una società
sempre più complessa, che si andava strutturando e organizzando nei suoi
interessi plurimi e antagonistici; al contempo, pretendeva anche che tale trasformazione non dovesse indebolire il ruolo dello Stato e dei suoi organi
rappresentativi, necessari alla difesa degli interessi generali contro gli egoismi
particolaristici.
Anche all’indomani della Grande guerra, cui Ruini andò volontario e fu
decorato con medaglia d’argento al valor militare, le preoccupazioni del deputato reggiano, divenuto sottosegretario all’industria, commercio e lavoro prima
nel governo Orlando e poi nel primo governo Nitti, furono quelle di ricercare
un largo consenso dei partiti ai fini di una «ricostituzione»5 del paese, che per
lui voleva dire riformare le istituzioni e gli organi dello Stato per adattarli alle
nuove esigenze della democrazia. Basti leggere il discorso parlamentare del
23 novembre 1918 per avvertire le forti istanze riformatrici (non rivoluzionarie, come andavano sbandierando i socialisti massimalisti dell’epoca) avanzate
da Ruini per la realizzazione di una compiuta «democrazia del lavoro». Pur
assumendosi egli la responsabilità di aver approvato in tempo di guerra le
leggi che limitavano il funzionamento del Parlamento, Ruini non esita a definire ciechi quegli uomini, di parte liberale e conservatrice, che sui giornali e
nei discorsi continuavano a svalutare il ruolo del Parlamento; esso, piuttosto,
rappresentando «l’unica garanzia di salda compagine statale», andava difeso
contro il «Soviet e le adunanze improvvisate e violente di operai e soldati» che,
più simili alla democrazia diretta dei vecchi Cantoni svizzeri, apparivano al
deputato emiliano una forma di regresso politico di fronte al principio rappresentativo. D’accordo con Turati, Ruini indica «la grande via della democrazia
e della rappresentanza inglese, che consente pacificamente quei trapassi e
quegli svolgimenti ai quali il lavoro può aspirare»6.
Riformare il Parlamento per consentirgli di sopravvivere, potremmo sintetizzare così lo scopo precipuo di Ruini, nella convinzione che si dovesse
rendere più efficace ed effettivo il lavoro delle Camere, evitando discussioni
interminabili: «pensare alle Commissioni; oggi che questo tema non è più turbato da sospetti di manovre parlamentari» e, soprattutto, ridefinire gli organi
legiferanti, prendendo atto che «chi legifera oggi nel Paese nostro, non è il
Parlamento, ma il Governo, cioè la burocrazia»7. Particolarmente sensibile ai
rapporti tra politica e amministrazione, egli era consapevole che, soprattutto
nell’ambito dell’industria, i rapporti di forza erano andati sostanzialmente mutando e che occorresse pertanto riconoscere un più ampio spazio politico alle
rappresentanze del lavoro8. La guerra, ammoniva Ruini, aveva creato le condizioni affinché nelle fabbriche si attuasse il passaggio, usando una formula di
derivazione fabiana, dal regime assoluto al regime costituzionale, in cui una
forte organizzazione sindacale e forme di azionariato operaio compensassero
il potere del «Consiglio di amministrazione dell’anonima che dirige l’industria»9.
80
Da radicale riformista egli affermava di nutrire un «profondo ottimismo» verso
una futura convergenza con i socialisti sul programma delle riforme sociali10,
sopravvalutando in tal senso l’influenza esercitata sulle masse e all’interno del
partito dall’amico Turati. È pur vero che, prima della sconfitta definitiva dell’ala riformista del sindacato, sembrò possibile raggiungere – grazie ad un’intesa di massima tra gli industriali e i lavoratori, favorita dal governo Nitti11 – un
accordo circa l’istituzione del Consiglio nazionale del lavoro. E Ruini aveva
in prima persona cercato di tessere intese coi sindacati, sempre più convinto
della necessità di favorire gli interessi collettivi rispetto a quelli meramente
privati e corporativi.
Trasformare lo Stato liberale ottocentesco avviando un processo di integrazione tra cooperazione, municipalità e strutture statali, come andava ripetendo
da anni l’amico e maestro Vergnanini. Non è possibile qui neanche accennare
al complesso dibattito sul concetto di rappresentanza organica che animò alcuni protagonisti politici di quegli anni, in primis Francesco Ruffini, ma basti
rammentare che per Ruini era sbagliato e pericoloso contrapporre o scindere
il riconoscimento degli interessi e delle rappresentanze professionali ed economiche, formate da lavoratori e datori di lavoro, dalla rappresentanza politica
in parlamento, grande conquista della democrazia a suffragio universale. Del
resto le proposte miranti a favorire una rappresentanza professionale al Senato
erano destinate a fallire di fronte al ruolo preponderante che i partiti avevano
assunto col passaggio al sistema proporzionale nel 1919 e alla radicalizzazione
dell’idea della lotta di classe nella sinistra socialista e poi comunista.
Da parte sua Ruini, erede del mazzinianesimo politico, considerava il popolo una categoria più ampia di quella di classe; durante il torbido periodo
che precedette l’avvento del fascismo, tra spedizioni punitive dei ras locali e
incendi alle case del popolo, egli auspicò il recupero delle «vecchie idealità
democratiche di popolo che è più largo di ogni classe; di lavoro, che è meno
ristretto e meno manuale di proletariato; di sovranità popolare che è il contrario di ogni dittatura, di plebe come d’imperio; e di giustizia sociale che è
contro ogni tirannia di classe»12.
Idealità mazziniane, come è evidente, riassunte in un celebre motto dell’eroe risorgimentale riportato dallo stesso Ruini nel clima incendiato di quegli
anni: «Amo la patria mia perché venero la patria di tutti; credo nel mio diritto
perché credo nel diritto; nella mia libertà perché credo nella libertà»13. E quando si tratterà di riconquistare le libertà calpestate da vent’anni di dittatura, agli
inizi del 1943, ritroveremo Ruini impegnato a promuovere la lotta al fascismo
e a delineare le linee programmatiche di principi e ideali mai sopiti.
Nell’abitazione dell’ex presidente del consiglio Bonomi, in piazza della
Libertà al numero civico 4, cominciarono a incontrarsi esponenti antifascisti
liberali, democratici, democristiani e socialisti. «Degli antichi uomini della democrazia – ebbe a sottolineare Bonomi – Meuccio Ruini fu, in quel tempo, il
più alacre a tessere intese, ad abbozzare piani, ad allargare i contatti»14. Invero,
81
mentre Bonomi teneva i rapporti con il liberale Casati, fu proprio Ruini a
contattare De Gasperi nella Biblioteca vaticana, nella consapevolezza che occorresse, innanzi tutto, aggregare le due forze politiche più significative del
periodo antifascista, ossia i popolari e i socialisti. In rappresentanza di questi
ultimi partecipò Romita, in attesa che Nenni tornasse dalla Francia, mentre
non aderirono in questa prima fase organizzativa, né i rappresentanti azionisti, fermi nella loro pregiudiziale antimonarchica, né i comunisti, eccezion
fatta per qualche scambio di idee tra Casati e Marchesi. In casa dell’avvocato
Giuseppe Spataro, in via Cola di Rienzo, si svolsero i primi incontri con gli
esponenti socialisti e venne tracciato un primo piano d’intesa, che impegnava
i partiti a una tregua politica «nell’ora del trapasso e nel periodo successivo
della ricostruzione»15, indicando quale meta comune delle «democrazie unite»16
un regime di libertà nel quale tutti i poteri, anche il più alto, derivassero dalla
volontà popolare17.
Nella primavera del 1943, Bonomi e Ruini decidono di fondare un foglio
clandestino, “Ricostruzione”, il cui sottotitolo, “organo del Fronte unico della
libertà”, stava a significare che esso non voleva essere l’espressione di un solo
partito o di una sola corrente, bensì intendeva riunire tutto l’antifascismo, dai
liberali ai socialisti, dai democratici ai cattolici, giungendo sino ai comunisti18.
Solo da un’azione comune poteva scaturire una vittoria che ponesse, insieme
alla sconfitta del fascismo, le basi per un rinnovato stato democratico.
I due uomini politici, come è noto, diedero anche vita nell’estate del 1943
alla Democrazia del lavoro, trasformata il 13 giugno 1944 in Partito democratico del lavoro19. Al teatro Quirino di Roma, l’8 ottobre del 1944, Ruini nel
delineare il programma del suo partito auspicava, riprendendo il suo vecchio
convincimento già avanzato all’indomani del primo conflitto mondiale, una
democrazia pura e senza aggettivi20, una riduzione del numero dei partiti e
una «concentrazione» delle forze politiche democratiche, «una formazione a
tipo federativo, come nel laburismo inglese, di cui fan parte le leghe, le cooperative oltre a vari gruppi politici»21. Ruini aveva addirittura pensato, tra il 1942
e il 1943, che si dovesse dar vita ad una sola e grande formazione «rimandando la fondazione dei partiti a quando vi fossero le condizioni per cui i partiti
potessero funzionare». Ma non fu così e, aggiungerà in seguito egli stesso «per
alcuni aspetti fu un bene», ripensando ai contrasti ideologici sorti tra le sei
formazioni politiche componenti l’esarchia22. E il ruolo di Ruini si dimostrerà
prezioso proprio nel mediare tra le diverse parti, fin dai contatti clandestini
che tra l’inverno del 1943 e la primavera del 1944 egli seppe intraprendere
all’interno del Seminario pontificio di San Giovanni in Laterano, dove avevano
trovato rifugio alcuni dei più autorevoli rappresentanti dell’antifascismo quali
Bonomi, De Gasperi, Nenni, Saragat, Casati.
La strategia moderatrice di Ruini era quella di rimandare le questioni di
principio che dividevano le forze antifasciste, in primis la pregiudiziale antimonarchica, a dopo la fine della guerra, e di evitare cambiamenti che avrebbero
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potuto pregiudicare la continuità dello Stato liberaldemocratico. Ma quando si
trattava di decidere non era certamente un uomo che si tirava indietro. Entrato
nel governo Bonomi come ministro senza portafoglio, preparò il testo del decreto legislativo luogotenenziale 27 luglio 1944, n. 159 per «le sanzioni contro
il fascismo»23. Quindi, nel secondo governo Bonomi, il leader demolaburista fu
a capo del ministero dei Lavori pubblici e, il 19 gennaio 1945, venne chiamato
a presiedere l’appena istituito Comitato interministeriale per la ricostruzione
(cir). Nel governo Parri viene nominato alla guida del nuovo ministero della
Ricostruzione, da lui fortemente voluto allo scopo di predisporre precisi piani
di sviluppo economico e sociale24.
Dopo la caduta di Parri, nel dicembre 1945, e le pressioni del partito liberale che avrebbero convinto De Gasperi ad offrire il ministero del Tesoro
a Corbino anziché a Ruini, quest’ultimo interpretò tale scelta con la rinuncia
del governo a perseguire un piano di sviluppo economico con investimenti
pubblici ad ampio respiro, e pertanto rinunciò anche alla vicepresidenza del
Consiglio, offertagli dallo stesso De Gasperi, decidendo di uscire definitivamente dal governo25.
Il 9 dicembre 1945 Ruini abbandonava anche la guida del partito democratico del lavoro, accogliendo l’invito dello statista democristiano ad andare a
presiedere il Consiglio di stato: un atto dovuto, come sottolineato dallo stesso
De Gasperi, visti gli indiscussi meriti professionali di Ruini e la sua incompatibilità col regime fascista.
Alle elezioni del 2 giugno 1946, Ruini si presenta nelle liste dell’Unione
democratica nazionale, un movimento sorto grazie all’azione di Bonomi in
cui erano confluiti il Partito democratico del lavoro, il Partito liberale e l’Unione nazionale per la ricostruzione, e si candida nei collegi di Parma-ModenaPiacenza-Reggio Emilia e in quello di Roma-Viterbo-Latina-Frosinone, ribadendo le sue preferenze per un futuro Stato repubblicano26. Egli non scelse di
allinearsi al generalizzato agnosticismo istituzionale manifestato dai principali
esponenti dell’Unione democratica, atteggiamento vituperato allora dalla sinistra non comunista (socialisti, azionisti e repubblicani), che accusava i promotori della nuova formazione liberaldemocratica di offrire in tal modo, come
asseriva perentoriamente Schiavetti, «ai milioni di italiani che ancora portano
nel sangue il veleno dell’opportunismo e del culto dell’interesse particolare un
comodo pretesto per continuare a poltrire nella loro inerzia morale e civile»27.
Il mediocre risultato ottenuto a livello nazionale, appena 1.560.638 suffragi, pari al 6,79 percento del totale dei voti validi, con punte intorno al 20
percento raggiunte in alcune regioni meridionali28, vide Ruini eletto solo nel
collegio unico nazionale, insieme ai compagni di partito Bonomi, Cevolotto
e Gasparotto. Raggiunto l’obiettivo prioritario di partecipare ai lavori dell’Assemblea costituente per offrire così il proprio contributo di giurista e di uomo
politico29, Ruini si inscrive nel gruppo misto30. Aveva così inizio l’ultima e più
impegnativa fase politica della sua lunga vita trascorsa all’interno delle istitu-
83
zioni dello Stato, una fase a lungo attesa e anticipata nei suoi abbozzi di leggi,
negli studi preparatori e nelle proposte di riforme costituzionali, rimaste fino
ad allora sulla carta.
Ricostruire se pur brevemente l’apporto dato da Ruini al dibattito costituente, può servire a comprendere, se ce ne fosse ancora bisogno, la distanza
abissale che separa la notevole perizia tecnica, la capacità e sensibilità politica
di quanti allora contribuirono a scrivere la nostra Costituzione con la scarsa
preparazione e la scriteriata presunzione di quanti, oggi, pensano di riscriverla
a colpi di maggioranze politiche demolendone i fondamenti.
Il 19 luglio 1946 Meuccio Ruini veniva eletto, con quarantasette voti su sessantuno presenti31, presidente della Commissione dei 75, nominata e incaricata
dall’Assemblea costituente di «elaborare e proporre il progetto di Costituzione.
Pur non entrando in nessuna sottocommissione e riservandosi formalmente
di svolgere il ruolo di «notaio»32, Ruini avrebbe condotto direttamente i lavori del Comitato di coordinamento tra la prima e la terza sottocommissione.
Soprattutto presiederà il Comitato di redazione, detto anche Comitato dei diciotto in virtù del numero iniziale dei suoi componenti, a cui viene affidata
una delega dalla Commissione dei 75, con lo scopo di accelerare e armonizzare l’intero progetto di Costituzione. Esso è composto dai sette membri dell’Ufficio di presidenza, Ruini, Tupini, Terracini, Ghidini, Perassi, Grassi, Marinaro,
e da undici deputati, Ambrosini, Calamandrei, Canevari, Cevolotto, Dossetti,
Fanfani, Grieco, Moro, Paolo Rossi, Fuschini e Togliatti33.
Nel suo primo intervento in sede di Commissione dei 75, il 20 luglio 1946,
Ruini esprime il suo parere favorevole alla stesura di un preambolo in cui
condensare una dichiarazione di principi e di tendenze ideali, in modo da
inserire nel testo costituzionale istituti e norme giuridicamente vincolanti e
limitare, al contempo, la lunghezza della costituzione34. La stessa questione
dell’opportunità o meno di inserire il preambolo e di decidere cosa esso dovesse contenere era destinata a provocare una discussione tra quei pochi
che, come Calamandrei e Lussu, avrebbero voluto inserirvi tutti quei princìpi
aventi finalità etico-politica e non sanzionabili giuridicamente, espungendoli
quindi dal testo, e autorevoli esponenti dei tre principali partiti, come Mortati,
Dossetti, Nenni, Togliatti, che opponevano la necessità di inserire nella Carta
fondamentale i grandi princìpi direttivi di natura economica e sociale (anche
non direttamente sanzionabili)35, convinti che la costituzione dovesse spianare
la strada verso futuri provvedimenti legislativi ben più radicali.
Constatata la forte opposizione dei principali esponenti politici al preambolo, il 27 novembre 1946, in una seduta plenaria della Commissione, Ruini
suggeriva di suddividere il progetto di Costituzione in una «prima parte sulla
dichiarazione di diritti e doveri dei cittadini, e una seconda parte sull’organizzazione costituzionale dello Stato»36. Il 10 aprile 1947, davanti all’Assemblea
costituente, egli avrebbe chiarito che pur avendo avanzato l’opportunità di
inserire alcune dichiarazioni generali in un preambolo, rimaneva contrario alla
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proposta di rinviarvi, sul modello francese, l’intera parte dei diritti e dei doveri, inclusi i diritti economici e sociali. A differenza della Francia, che aveva
già posto nelle sue anteriori costituzioni «la tavola dei valori fondamentali di
libertà dei cittadini», in Italia, lo Statuto albertino non menzionava neanche il
diritto di associazione. Né si poteva dimenticare, aggiungeva, «che usciamo da
un grande tormento e che un anelito di libertà deve essere rispecchiato nella
Costituzione»37, affermazioni che esprimono convinzioni di natura etico-politica e non meramente giuridica38.
Dunque per Ruini era necessario che l’Italia si dotasse di una costituzione
realmente democratica quale non aveva mai avuto, e in cui i diritti e i doveri
fossero espressi e sanciti con chiarezza. Nell’estate del 1945, mentre era a capo
del ministero per la Ricostruzione nel governo presieduto da Parri, Ruini aveva
dato alle stampe un volume formato, come per la maggior parte dei suoi testi,
raramente compiuti e organici, da «appunti», «note di prima stesura» e materiale
abbozzato durante gli ultimi anni del regime fascista. Vi si legge che il popolo
«non sceglie sempre bene», ma «la sua funzione è la scelta», sia che si tratti di
delega di poteri o di selezione dei migliori, «che sono due criteri confluenti
nella scelta». E la funzione di scelta, in democrazia, «si esercita col voto; e soltanto col voto, al di fuori del quale non vi è altro potere legale del popolo»39.
Dal momento che tutti i poteri emanano dal popolo è indispensabile la loro
regolazione perché «come la libertà deve essere autodisciplina, così il popolo,
per conservarsi libero e sovrano, evitando la tirannide, deve imporre a se stesso limiti e controlli, nelle forme di una libera democrazia».
Per Ruini la democrazia è una conquista mai definitiva che gli uomini devono essere in grado di realizzare attraverso l’educazione alla partecipazione politica nelle forme e nei limiti indicati dalla legge, ed è intesa mazzinianamente
come sintesi di libertà individuale e giustizia sociale, tale da concernere diritti
personali e doveri sociali: «Preliminare ad ogni altra esigenza è il rispetto della
personalità umana; qui è la radice delle libertà, anzi della libertà, cui fanno
capo tutti i diritti che ne prendono il nome. Libertà vuol dire responsabilità. Né
i diritti di libertà si possono scompagnare dai doveri di solidarietà di cui sono
l’altro ed inscindibile aspetto»40. La democrazia moderna, inoltre, non può che
essere affermata e realizzata sulle basi del lavoro, che si pone quale forza propulsiva e dirigente in una società che tende ad essere di liberi ed uguali. Ecco
che in questi concetti espressi da Ruini durante la guerra rinveniamo in nuce
i primi tre articoli della Costituzione.
Come è noto, nella formulazione del primo articolo i costituenti si spaccarono sul termine lavoratori, proposto dalle sinistre. Il 22 marzo 1947 veniva
discusso in Assemblea l’articolo che aveva già diviso i partiti nella discussione
preliminare all’interno della prima sottocommissione. Togliatti tornò a chiedere
l’inserimento della formula «Repubblica di lavoratori», Fanfani gli oppose la formula «Repubblica fondata sul lavoro», mentre la Malfa presentò un terzo emendamento in cui si affermava che «l’Italia è una Repubblica democratica fondata
85
sui diritti di libertà e sui diritti del lavoro»41. Pacciardi annunciava il sostegno
dei repubblicani e quello del partito socialista dei lavoratori italiani, del partito
democratico del lavoro e del partito d’azione all’emendamento presentato da
socialisti e comunisti, che verrà votato anche da Ruini. Prevarranno, seppure di
poco, i voti favorevoli all’emendamento democristiano42. Del resto, il termine
espunto dal primo articolo lo si sarebbe inserito nel terzo articolo, con la piena
soddisfazione di Ruini, per il quale «il lavoro si pone quale forza propulsiva e
dirigente in una società che tende ad essere di liberi ed eguali»43.
Le veementi critiche sollevate da esponenti di vari partiti alla bozza di costituzione, fin dalle prime settimane di dibattito in Assemblea costituente, suscitarono decise reazione di Ruini, pronto ogni volta a ricordare come la volontà
comune della Commissione dei 75, fin dall’inizio dei lavori, fosse stata quella
di stabilire che oltre alla democrazia puramente politica occorresse «realizzare
una democrazia sociale ed economica»44.
Rimanendo sui principi fondamentali, si può accennare al tanto discusso
articolo 7. Ruini, auspicando che si trovasse una formula atta a evitare il riaccendersi di una guerra religiosa «esiziale per il nostro paese»45, il 25 marzo
espresse il proprio voto favorevole all’inserimento dei Patti lateranensi nella
Costituzione. Vent’anni più tardi, tornando brevemente su quello storico compromesso, egli rivelò che, d’accordo con esponenti di vari partiti compresa la Democrazia cristiana, avrebbe preferito non fossero costituzionalizzati
i Patti lateranensi e si fosse proceduto solo in seguito a eventuali modifiche.
Nonostante un primo assenso dello stesso De Gasperi, la segreteria vaticana
aveva posto in atto forti pressioni sui parlamentari cattolici, al punto che, in un
incontro richiesto dal presidente dell’Assemblea Terracini con i rappresentanti
dei vari partiti per chiarire la situazione, la tenace resistenza nei deputati democristiani apparì tale da sembrare «un’eco del Vaticano». Anche a vent’anni di
distanza, asseriva Ruini, la proposta di modifica dell’articolo susciterebbe nuove ed anche non superabili difficoltà e, pur tuttavia, egli continuava a ritenere
opportuno procedere a nuovi accordi con il Vaticano per modificare alcune
norme chiaramente superate o in contrasto con i princìpi della Costituzione46.
A quasi novant’anni Ruini ribadiva, con pervicace volontà, il suo desiderio
da una parte a rispettare e realizzare quanto sancito nella carta costituzionale,
e dall’altro ad apportare modifiche della carta fondamentale per adeguarla ai
nuovi tempi.
Quanto il nostro Autore fosse più avanti di altri illustri coetanei che parteciparono all’Assemblea costituente, lo dimostra la polemica con l’amico e
maestro Orlando.
Questi, il 10 marzo del 1947, non mancò di sferrare la propria critica al progetto di costituzione che comprendeva ben centotrentun articoli, una ventina
dei quali dedicati ai rapporti economico-sociali, tradizionalmente appannaggio esclusivo del codice civile. Convinto che «le Costituzioni le fanno assai
più il costume, assai più la maniera della loro attuazione, anziché la fredda
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redazione degli articoli», come insegnavano i Romani e gli inglesi che di una
costituzione scritta ne avevano fatto a meno, Orlando ammoniva i colleghi
costituenti a non confondere la costituzione, sostanza dell’ordinamento giuridico di un popolo, essa sì necessaria, con la costituzione come documento47.
Orlando evidenziava una concezione ancorata ai paradigmi dello Stato-persona, basata sulla supremazia della legge sulla Costituzione, in cui è il diritto
pubblico a regolare esclusivamente le relazioni tra gli organi costituzionali,
il funzionamento dell’amministrazione e della giurisdizione, i rapporti tra le
autorità pubbliche e i cittadini. Il potere dello Stato, ossia il potere di fare le
leggi, è sovrano in quanto svincolato tanto dalla Costituzione, che non deve
essere rigida, quanto dalle mutevoli maggioranze politiche e dagli indirizzi di
partito. Non a caso, il 23 aprile 1947, Orlando propose un emendamento per
espungere gli articoli dal 23 al 29 della bozza di Costituzione – relativi come
è noto alla famiglia, al matrimonio, alla salute, alla scuola e all’arte – «sia perché mancano di un effettivo contenuto normativo (come le inutili definizioni
astratte e le promesse dipendenti da una ignota disponibilità di fondi), sia
perché invadono campi riservati alla competenza legislativa ed attualmente
regolati da Codici, cioè da leggi costituenti un sistema che non si può alterare
in una sua parte senza compromettere la certezza del diritto»48. Semmai per
Orlando quei diritti si sarebbe potuto inserirli in un preambolo nel cui contesto, evidentemente, non avrebbero potuto intralciare l’azione legislativa. Così
egli dava per scontato che «una Costituzione è una legge (la qual cosa, mi
pare, si è dimenticata nella discussione di questa nostra Assemblea), una legge
– dico – sia pure di un ordine superiore, sia pure una superlegge; ma è sempre
una legge». Ebbene, proseguiva il giurista siciliano, «una legge deve avere per
contenuto un comando: tu farai la tal cosa, tu non la farai. Se poi essa ha per
contenuto un ordinamento, disporrà: Vi sarà un organo costituito in questa
maniera; queste ne saranno le funzioni, questi i limiti, etc. etc.» 49.
Sull’emendamento di Orlando, Ruini decise di astenersi (insieme ai democristiani Bazoli e Alessandro Scotti), quasi a voler ribadire il suo ruolo di
indipendente e di uomo di mezzo, indisponibile a tornare ad ordinamenti prebellici, invocati dai suoi Maestri (così egli considera Orlando, Croce e lo stesso Nitti, che accusava da par suo i partiti e l’assemblea di un «compromesso
continuo»50), ma pur sempre attento a non spezzare gli esili fili degli equilibri
istituzionali propri dello Stato di diritto, in cui occorreva conciliare sovranità
popolare e sovranità dello Stato.
Nel lungo discorso del 12 marzo 1947 Ruini replicò alle accuse che erano
arrivate da più parti, da destra come da sinistra, e difese fermamente il progetto di costituzione asserendo: «Vi sono due correnti. Una dice: “Quello che
avete fatto è troppo spinto; è addirittura totalitario e rivoluzionario”. Un’altra
invece: “Siete retrogradi; volete attraversare con un assetto arcaico, di ostacoli e di remore, le vie alla nuova democrazia ed alle conquiste operaie”»51.
Dunque erano necessari i compromessi per trovare un punto di equilibrio tra
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istanze politiche ed ideologiche per alcuni versi profondamente differenti.
Del resto il compromesso, precisava Ruini, ricondotto al suo significato
etimologico, equivaleva a una promessa, a un impegno o un patto che più
soggetti assumono e rappresenta, in quanto tale, una «necessità elementare
di vita»; diverso e deleterio è invece «il baratto, il mercato, la combinazione
oscura di interessi, non d’idee» 52. Al punto che esistono anche compromessi
di fatto, non negoziati, che vanno al di sopra delle volontà: «compromessi
storici che si delineano da se stessi» (così li chiama Ruini coniando un termine
destinato, un trentennio più tardi, a assumere una forte valenza politica). Tutti
erano chiamati a sacrificare qualcosa dei loro convincimenti a favore di una
carta costituzionale che rispondesse il più possibile alle nuove esigenze storiche. Ma quali erano queste esigenze per Ruini?
A differenza dell’Ottocento, in cui l’idea animatrice, il «mito» era stato la
libertà, nel presente «invece è il lavoro», e «la fase che si chiamò, più o meno
esattamente, capitalismo è al suo tramonto; e le succede un’altra che si annuncia quale economia del lavoro»53. Pur tuttavia, la libertà non perde, nel
«significato essenziale di autonomia della persona», il suo valore «etico-politico»
e quasi «religioso», correlato con l’altro principio irrinunciabile della giustizia.
Alle libertà giuridiche, di proprietà, di inviolabilità della persona, di domicilio,
sancite e codificate nel secolo decimonono, si dovranno aggiungere i diritti
individuali e collettivi di natura economica, che implicano una necessaria azione dello Stato verso «inevitabili compiti di regolazione e di guida» e «gestioni
collettive» tali da ridurre, pur dove è lasciata, la libertà economica nel vecchio
senso liberista54.
Invero, durante la fase costituente, Ruini giudicò irragionevole la «fobia»
dei liberali di vedere inserita nella Costituzione la parola «piano», non essendo
intenzione dei costituenti concepire alcun piano integrale, coattivo, alla russa, tale da «sopprimere l’iniziativa privata – cosa non ammissibile dalle stesse
norme costituzionali – bensì predisporre un potenziale strumento di coordinamento di interventi pubblici»55, considerando che gli stessi neoliberisti, per
garantire la libera concorrenza dai monopoli, proponevano piani di intervento
statale56. Pur di dissipare un’atmosfera che avrebbe potuto contenere equivoci, a suo giudizio non giustificati, Ruini accetto di sostituire alla parola piano
il termine «programma»57, ma la polemica testimoniava quanto fosse delicata
la stessa scelta dei termini politici, che si prestavano a interpretazioni e fini
diversi58. Assai significativa della sua idea di democrazia e di libertà risulta, a
mio avviso, una frase che Ruini pronunciò nel discorso al Teatro Quirino di
Roma, l’8 ottobre del 1944: «La libertà non può essere sfrenata ed ingiusta, né
ridursi alla libertà di morire di fame. D’altra parte, la giustizia non può essere
intesa come in un carcere o in un ospizio, dove ciascuno ha la sicurezza di
una ciotola di minestra a prezzo della sua servitù»59.
Proviamo adesso ad accennare ad alcune proposte di Ruini relative alla
seconda parte della Costituzione. Il primo maggio 1946 Ruini nel richiamare i
88
valori fondativi del partito democratico del lavoro, ribadiva «la coesistenza di
due princìpi fra cui non vi è contraddizione, la sovranità popolare e l’esigenza
di uno Stato e di un Governo forti», capaci di impedire «le ventate dittatoriali,
da qualunque parte vengano»60. Ruini auspicava un sistema bicamerale, con
una seconda Camera che rappresentasse gli interessi culturali ed economici
del paese; un Governo che avesse la doppia fiducia del Parlamento e del
capo dello Stato e potesse essere rimosso soltanto dai voti delle due Camere
riunite; un’Alta corte costituzionale di garanzia; larghe autonomie regionali e
locali; una magistratura indipendente ed un’amministrazione imparziale che
assicurassero il funzionamento dello Stato di diritto e una buona gestione amministrativa nell’interesse di tutti.
Profondo conoscitore dei modelli politici stranieri, su cui aveva indagato e
scritto durante il suo «esilio in patria» (come egli aveva soprannominato i tristi
anni vissuti sotto il fascismo, estromesso da ogni carica pubblica e finanche
dall’attività di avvocato), Ruini era più volte ritornato sul problema della stabilità dei governi parlamentari. Nell’elencare i principali «tipi»61 di costituzioni,
egli criticava senza mezzi termini l’ultraparlamentarismo ottocentesco ancora
dominante in Francia, così come quelle costituzioni democratiche sorte nel
primo dopoguerra, «fabbricate a serie», ossia improntate alla razionalizzazione
e a «chiudere nella rete del diritto la vita della società, a rimpiazzare il fatto metagiuridico del potere con le regole del diritto scritto»62. Nel tentativo di realizzare forme più ampie di democrazia in cui tutti i poteri emanassero dal popolo
e ne rispecchiassero la volontà, costituzioni come quella di Weimar, l’austriaca,
la cecoslovacca, l’estone avevano, sottolineava Ruini, trascurato di garantire la
forza e la solidità dei governi, elementi senza i quali nessuna vera democrazia
può funzionare, ed erano infine sparite «nelle bufere dell’interguerra, ed ora
della nuova guerra»63. Imparando dal passato, occorreva dunque garantire un
più giusto rapporto tra il potere del governo, che «dovrà comunque essere
forte e capace di tutelare i diritti del popolo», e l’ordinamento costituzionale,
il cui scopo è di proteggere giuridicamente il popolo dagli eventuali abusi del
governo stesso. Convinto che qualsiasi costituzione debba essere innanzitutto retta dal costume e dalla rigorosa autodisciplina delle popolazioni (come
si vede la lezione di Orlando è sempre presente), per Ruini la forma scritta
delle norme può assumere rilievo ed efficacia in quanto conferisca poteri e
crei ordinamenti che necessitano, però, di essere adattati al «suolo» che deve
sostenerne le fondamenta. Le rivoluzioni, ebbe a scrivere Ruini mutuando il
pensiero di Pellegrino Rossi, autore cui egli aveva dedicato profondi studi, avvengono quando vi è disaccordo «fra le istituzioni e le forze vive nel paese, tra
le forme che sopravvivono ed il pensiero che crea nuovi principî»64. La storia
è una «successione di principî dirigenti» che si impadroniscono man mano del
mondo sociale e dominano nei corpi politici dei quali esso si compone.
Quando uno di questi principî è logoro ed esaurito, né basta più ai bisogni morali e politici del popolo, allora avviene una rivoluzione. Il pensiero di
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Rossi, dunque, rafforzava la propensione di Ruini a considerare la complessa
dialettica tra norme giuridiche, principî, forze sociali e vita economica, secondo una tendenza che lo avrebbe indotto spesso a classificare, distinguere e
coordinare i diversi assetti costituzionali stranieri.
Nel discorso del 19 settembre 1947 in Assemblea costituente, Ruini interviene sulla forma di Stato, rammentando che lo Stato parlamentare ottocentesco
si reggeva su due simbolici piloni, il Parlamento e il Re. Fra i due piloni vi era
il ponte, il Gabinetto ministeriale, cosicché regime parlamentare e regime di
gabinetto erano storicamente congiunti. Crollato il pilone regio, si sono venute
delineando due tendenze estreme alternative, quella comunista e quella monarchico conservatrice, entrambe inaccettabili. La concezione espressa dalla
sinistra con Nenni, Togliatti, Laconi, La Rocca tendeva alla sovranità unica,
in cui depositario diventa il popolo che delega tutto il potere al Parlamento,
quasi a prefigurare una sorta di governo assembleare di tipo roussoviano che
non può che rischiare di degenerare in dittatura. L’altra tendenza politica di
matrice liberalconservatrice, espressione della tenace nostalgia verso l’istituto
monarchico, era giunta in taluni casi alla esplicita richiesta – ad esempio da
parte di Condorelli – di ristabilire un pilone equivalente a quello che era stato
il Re, attribuendo il potere di sanzione al Presidente della Repubblica.
Occorreva comprendere – ribadiva Ruini – che sovrano non è il Parlamento
ma il popolo, che ha due emanazioni essenziali della sua sovranità: l’elezione
dell’organo parlamentare e il referendum. In tal senso egli si mostrò contrario
a limitare eccessivamente l’uso dello strumento referendario, come si chiedeva
da parte sia liberale sia socialcomunista, ribadendo che quell’istituto dovesse
trovare un suo giusto riconoscimento all’interno della Costituzione e, più in
generale, occorresse garantire maggiore equilibrio tra i poteri attraverso un
sistema di checks and balances di tipo anglosassone. Oltre al Parlamento,
infatti, vi sono organi che emanano, almeno indirettamente, dalla volontà popolare come il Capo dello stato, e altri ancora, come la magistratura che, pur
nominata attraverso concorsi, esercita la giustizia in nome del popolo65. Al
Governo, però, doveva essere garantita una propria autonomia, ossia la possibilità di poter dirigere e guidare, come gli spetta, la cosa pubblica, limitandone
l’eccessiva instabilità attraverso l’istituto della fiducia e della sfiducia da parte
dell’Assemblea nazionale66. Lungi dal poter rappresentare un pericolo di totalitarismo, come paventato da Orlando, l’Assemblea nazionale avrebbe costituito
piuttosto «un baluardo contro il totalitarismo di una Camera sola»67. Sappiamo
come è finita: l’Assemblea nazionale è stata sostituita, nel testo finale della
Costituzione, da un bicameralismo perfetto, formato da Camera e Senato con
eguali poteri. Per Ruini occorreva preservare la sfera della decisionalità propria
dell’esecutivo e garantire, al contempo, la centralità e la funzione rappresentativa del Parlamento. Come già aveva scritto negli anni precedenti, sebbene
il governo partecipi esso stesso e diriga la legiferazione, con la iniziativa delle
leggi e la competenza di altre norme, e abbia, effettivamente, «in sua mano i
90
poteri dello Stato», è il parlamento a rappresentare pur sempre «l’organo in cui
il popolo si specchia tutt’intero, con le sue tendenze e i suoi partiti» ed è pertanto naturale che, se si deve parlare di «primato, questo in definitiva sarà […]
del Parlamento». Ma ciò non contrastava con la necessità politica di prevedere
meccanismi procedurali utili a regolare i voti di sfiducia e a evitare le facili
“imboscate” del passato riservando, in tal senso, al capo dello Stato «poteri
straordinari di scioglimento delle camere elettive (o di referendum) nel caso
di conflitto col Parlamento per la composizione di un governo»68.
Nelle proposte avanzate da Ruini durante il dibattito costituente, tese a definire e delimitare il ruolo e le funzioni del Capo dello stato, rinveniamo quella
stessa esigenza, già evidenziata nel primo dopoguerra, di garantire l’unitarietà
dello Stato e la sovranità del popolo al di sopra delle differenziazioni politiche
e partitiche, e di predisporre un contrappeso ai poteri di parlamento, partiti e
governo.
Ruini intende il potere esecutivo come un potere «attivo», in quanto il governo e l’amministrazione esercitano, sia pure nei limiti dell’applicazione delle
leggi, compiti e responsabilità proprie di iniziativa e di attività. Anzi, come
sottolineerà in studi posteriori all’entrata in vigore della Costituzione, la pubblica amministrazione «è il solo complesso di organi pubblici che, pur diretto
e guidato da altri, sta immediatamente a contatto ed agisce senza intermediari
nelle attività del popolo, ossia degli individui che ne fanno parte, il solo potere
che si può dire propriamente attivo»69. Il governo, infatti, non deve essere inteso (come aveva ritenuto Kelsen) nelle vesti di «Comitato della maggioranza»70,
in quanto esso rappresenta l’esecutivo «non di un solo partito, bensì di tutto il
popolo e dello Stato»71.
In passato la dottrina pura della separazione dei poteri era stata contestata
dalla giuspubblicistica, per riaffermare l’unità e l’indivisibilità dello Stato sovrano e rigettare o limitare fortemente le istanze di democratizzazione avanzate
dalle classi popolari72.
Intorno alla composizione del Senato e ai criteri per la sua elezione
Ruini si pronuncia sia per una differenziazione di funzioni dei due rami del
Parlamento, allo scopo di evitare inutili doppioni, sia per l’introduzione del
sistema elettorale maggioritario. A tale proposito, contro il sistema proporzionale, sostenuto principalmente dal gruppo democristiano, vengono proposti
due emendamenti: uno per l’introduzione del collegio uninominale, sostenuto
da liberali e comunisti (Laconi, Nitti e Rubilli), l’altro del repubblicano Perassi,
a favore del cosiddetto sistema dei grandi elettori, o elettori a doppio grado.
Nella seduta del 25 settembre 1947, Ruini comunica all’Assemblea costituente
che il Comitato di redazione è diviso poiché «sul profilo tecnico è prevalso il
politico; ed i partiti hanno preso posizione»73. È un’ammissione significativa,
poiché testimonia il logoramento cui è ormai sottoposto il Comitato dei 18,
subalterno alle scelte compiute dalle segreterie dei partiti. Ruini riteneva che
entrambe le forme di elezione proposte avrebbero garantito sia «una maggiore
91
considerazione dell’elemento e del valore personale», poiché «si baderebbe
alla personalità dei candidati più che all’anonimo e complesso fluttuare delle
masse elettorali», sia una spinta al raggruppamento dei partiti «in concentrazioni o alleanza», necessarie all’avvicendamento di due o tre formazioni politiche
secondo «la linea classica del sistema parlamentare, dove è nato»74. Per quanto
concerne la composizione del Senato, invece, l’eterogeneo elenco delle categorie economiche e dei gruppi territoriali e sociali indicate nell’articolo 56 del
progetto di costituzione da Mortati75, non convinceva più Ruini, pur fautore fin
dal primo dopoguerra di elenchi simili (agricoltura, industria, commercio, cultura, professioni libere, pubblici impiegati). Consapevole dei grandi cambiamenti in atto nel mondo del lavoro, Ruini giudicava quella riforma non matura, riconoscendo la difficoltà di attuazione e di «dosatura» nell’assegnazione dei
posti in un Senato a rappresentanza organica, data l’esistenza del conflitto di
classe che divideva imprenditori e operai76. Percorribile gli appariva, invece, la
strada del riconoscimento costituzionale del Consiglio economico del lavoro,
istituto da lui propugnato fin dal primo dopoguerra, dal momento che anche
i socialisti si mostravano favorevoli alla costituzione di un organo consultivo
del lavoro, naturalmente subordinato al Parlamento.
In conclusione, si può asserire che quella di Ruini è stata, durante i diciotto
mesi della Costituente, una presidenza di garanzia, da parte di un uomo che
nei decenni precedenti aveva saputo dire no al fascismo e al comunismo, opponendo sempre all’arbitrio di un partito o di una classe e agli interessi particolari o corporativi, l’azione dello Stato, che solo, a suo giudizio, può regolare
e garantire l’interesse generale nel rispetto delle leggi. Libertà non dallo Stato
ma nello Stato, se è vero, come aveva scritto nello schema di preambolo che
avrebbe desiderato porre a capo della Costituzione, che spetta alla Repubblica
stabilire e difendere con l’autorità e la forza che le viene dalla sovranità popolare «le condizioni di ordine e di sicurezza necessarie perché gli uomini siano
liberati dal timore, e le libertà di tutti coesistano nel comune progresso»77.
–––––––––––––––––––––––––
1
S. Campanozzi, Il pensiero politico e giuridico di Meuccio Ruini, Giuffrè, Milano 2002, p. XIII.
Il presente articolo riprende alcune parti del mio volume, presentato da Leopoldo Elia ed altri
studiosi dell’Università La Sapienza di Roma il 9 ottobre 2003, presso l’Istituto Luigi Sturzo.
2
E. Cheli, Il problema storico della costituente, in Aa.Vv., Italia 1943-1950. La ricostruzione,
Laterza, Roma-Bari 19752, p. 212.
3
La copia originale manoscritta della tesi, dal titolo La distinzione tra società e Stato e la teoria
dello stato di diritto, è conservata presso l’Archivio storico dell’Università di Bologna, fascicolo
3858.
4
Durante il primo congresso degli impiegati del 1909, Ruini presiederà una commissione incaricata di studiare la riforma dei servizi pubblici; un decennio più tardi, all’indomani della
Grande guerra che aveva enormemente accresciuto il ruolo degli apparati amministrativi e della
burocrazia statale, lo stesso Ruini prenderà parte al Comitato per la riforma della pubblica amministrazione, presieduto da Oronzo Quarta, proponendo una riforma per ottenere ruoli aperti,
maggiore autonomia e responsabilità dei direttori generali, accesso per concorso a ruoli unici,
92
pensioni adeguate, l’attribuzione alla Corte dei Conti del controllo costituzionale preventivo su
tutti i decreti reali su quelli ministeriali attinenti ai funzionari. (La relazione fu pubblicata dalla
Tipografia cooperativa sociale, Roma, 1918, cfr. in: S. Cassese, Giolittismo e burocrazia nella
“cultura delle riviste”, in Aa.Vv., Storia d’Italia, Annali 4, Einaudi, Torino 1981, pp. 485-487).
5
Si noti come Ruini utilizzi questo termine all’indomani del primo conflitto mentre, dopo il
disastro della seconda guerra mondiale, parlerà esplicitamente di «ricostruzione».
6
M. Ruini, Discorsi parlamentari, Tip. Camera dei Deputati, Roma 1997, pp. 209-210.
7
Ivi, p. 210.
8
Nell’aprile del 1918 alla Camera Ruini aveva ammonito che, seppure «il Parlamento è destinato
ad assumere sempre più una posizione centrale e sovrana… non può essere tutto. Se vorrà
essere tutto, rischierà tutto domani. Non può da solo il Parlamento guidare uno Stato sì grande,
il nuovo Leviathan che ogni giorno si accresce di nuove funzioni, e controlla e dirige l’economia nazionale. Bisogna creargli accanto le nuove strutture pel domani, il suffragio universale, il
parlamento, la sovranità parlamentare, debbono permanere. Ma accanto deve essere l’organizzazione e la rappresentanza del lavoro e degli interessi economici, la rappresentanza di classe»
(Ruini, Discorsi parlamentari, cit., p. 202, d’ora in avanti dp).
9
Ivi, p. 219.
10
Così affermava Ruini in Parlamento: «Il leader dei socialisti parla di forme pacifiche e serene,
all’inglese, di conquiste evolutive. Oh! Allora in fondo la grande riforma non deve esser lontana;
e se le passioni e le fazioni ci avvelenano, ci unisce in sostanza ciò che può essere domani un
programma comune» (Ibidem).
11
Sui rapporti di Ruini con Nitti negli anni dal 1910 al 1924 si rimanda a S. Campanozzi, Il carteggio Ruini-Nitti, in “Il Risorgimento”, 2000/1, pp.155-186.
12
L’articolo, apparso sul “Resto del Carlino” il 26 gennaio 1921, fu ripubblicato, come molti
altri articoli di quegli anni, in M. Ruini, La democrazia e l’unione nazionale, Corbaccio, Milano
1925, p. 8.
13
M. Ruini, Lo Stato nazionalista, “Il Mondo”, poi in Id., La democrazia e l’Unione nazionale,
cit., p. 171.
14
I. Bonomi, Diario di un anno. 2 giugno 1943-10 giugno 1944, Milano, Garzanti 1947, p. XIII.
15
Ivi, p. XXIV.
16
All’ampio schieramento delle «democrazie unite» Ruini aveva fatto riferimento nell’appello
apparso sulla pagina del “Mondo” la mattina del 26 luglio 1943, in cui si sottolineava come
dopo vent’anni, «la democrazia del lavoro, che allora si stava formando, sorge ora con rinnovato
vigore, ricca delle forze nuove dei giovani». Quella pagina fu la sola che si poté allora pubblicare, in quanto il governo Badoglio occupò la tipografia e soppresse “Il Mondo” (cfr.: L’Italia
restituita agli italiani, poi in: M. Ruini, Lavoro e comunità di lavoro. Al di là del capitalismo e
del comunismo: democrazia del lavoro, Giuffrè, Milano 1962, p. 229).
17
La dichiarazione di intesa, redatta presumibilmente dagli stessi Ruini e Bonomi, e sottoscritta
il 27 aprile 1943, oltre che da De Gasperi e Romita, anche dal comunista Gerratana, affermava
che, una volta crollato il regime, si sarebbe dovuto procedere a costituire un governo impegnato a difendere l’indipendenza e l’integrità nazionale, e a promuovere un «rinnovamento radicale
e profondo degli istituti costituzionali in modo che tutti i poteri, anche il più alto, emanino dal
popolo». Lo scopo sarebbe stato quello di promuovere la giustizia sociale, combattendo le forze
plutocratiche e monopolistiche, e adottando le necessarie misure contro il fascismo e i suoi
profittatori (Il testo del patto verrà pubblicato l’anno seguente, a cura del partito democratico
del lavoro, nell’opuscolo [M. Ruini], Che cosa è il Comitato di Liberazione Nazionale, Roma 1944,
pp. 3-4. Cfr. L. D’Angelo, Ceti medi e ricostruzione. Il partito democratico del lavoro (19431948), Giuffrè, Milano 1981, pp. 54-55.
18
Cfr. Bonomi, Diario di un anno…, cit., p. XXX.
19
Per quanto riguarda l’origine e la storia del partito democratico del lavoro e il ruolo svolto al
suo interno da Ruini, si veda il ben documentato volume di D’Angelo, Ceti medi e ricostruzione.., cit.
20
Come ha evidenziato Lucio D’Angelo nell’ampia introduzione ai discorsi parlamentari, Ruini
già dal gennaio 1921, più di un anno e mezzo prima che idee analoghe cominciassero ad essere
93
agitate da Giovanni Amendola – col quale egli aveva collaborato strettamente tra il 1922 e il
1925 scrivendo interessanti articoli su “Il Mondo” e contribuendo ad organizzare il primo e unico convegno dell’Unione nazionale – aveva messo in risalto l’esigenza di dare vita a un’ampia e
solida formazione politica di centro, in altri termini a un moderno partito democratico di massa,
che egli chiamava «democrazia senza aggettivi», comprendente liberali progressisti, radicali, socialriformisti ed ex combattenti (cfr. Ruini, dp, cit. p. 21).
21
M. Ruini, Democrazia del lavoro e ricostruzione nazionale, Off. Grafiche Stediv, Padova 1945,
p. 6.
Nel tracciare le linee programmatiche del nuovo partito del lavoro, Ruini asseriva: «esistono
oggi tre tappe e tre mentalità: laburismo, socialismo, comunismo. Noi ci fermiamo alla prima».
Naturalmente egli non pretendeva di mutuare un modello politico nato in un contesto culturale
e sociale tanto diverso da quello italiano e, consapevole che le masse operaie italiane si riconoscevano nei due grandi partiti della sinistra, il socialista e il comunista, additava ai propri compagni di partito il compito di organizzare il vasto ceto medio del «popolo minuto» (Ivi, p. 5).
22
A proposito dei contrasti partitici, in una lettera del 26 marzo 1944, Ivanoe Bonomi così aveva
scritto all’amico: «Caro Meuccio […] mi spiace moltissimo che tu sia malato e proprio in quest’ora così grave e delicata […] Io sono come tu sai dimissionario […], l’insistenza degli azionisti
nel volerci legare alla catena dell’ord.d.g. 16 ottobre – interpretata a loro modo – ha fatto traboccare la mia pazienza che pure è abbondante, e forse troppo abbondante. Aggiungi a questa il
modo di agire dei tre partiti sedicenti di sinistra. Si discute in sei, si vota in cinque, si delibera in
tre. Aggiungi ancora la pretesa di La Malfa che il presidente non debba avere opinioni e debba
seguire docilmente la maggioranza cioè i tre partiti onnipotenti costituiti in Sottocomitato entro
il Comitato […] Tuo figlio [Carlo Ruini, ndr] mi ha riferito il tuo rammarico per il sospetto che
io possa credere in un tuo abbandono. Non avere queste preoccupazioni […] Intanto io avrò
riconquistato la mia libertà d’opinione che spero di mettere a profitto del paese prima, della
democrazia poi!» (Archivio Meuccio Ruini, Corrispondenza, Ivanoe Bonomi, A.3.2).
23
La legge costituì, come è stato detto da qualcuno, la «Magna Charta» dell’epurazione (cfr.:
R. Canosa, Storia dell’epurazione in Italia. Le sanzioni contro il fascismo 1943-1948, Baldini e
Castoldi, Milano 1999, p. 50).
Per quanto concerne la proposta di Ruini, poi accolta, di creare sezioni speciali presso le Corti
di assisi ordinarie, si vedano le carte conservate presso l’Archivio Centrale di Stato, Verbali
del Consiglio dei Ministri, luglio 1943-maggio 1948, Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Dipartimento per l’informazione e l’editoria, Roma, 1994, p. 648 sgg.
Alla vigilia del voto del 2 giugno 1946, a proposito del sostanziale fallimento dell’epurazione
Ruini rilevava l’incapacità, e forse l’impossibilità, per l’amministrazione di «autoepurarsi con i
suoi organi», cosicché, a parte i più gravemente colpevoli, «perdono e pace discendono sopra
i fascisti, che hanno, i più, preso la tessera perché era la tessera del pane». Ciò non esimeva,
ribadiva perentoriamente Ruini, dallo sradicare il fascismo «da ogni angolo della vita nazionale»
(M. Ruini, Le elezioni e il compito della Costituente. Discorso tenuto alla radio il 26 maggio 1946
da Meuccio Ruini, “Ricostruzione”, 28 maggio 1946, pp. 1-2). Sempre Ruini, che aveva a suo
tempo prefigurato un organo a sezioni speciali per intervenire secondo una legalità scrupolosa,
anni più tardi ammetterà che sarebbe stato meglio procedere «alla spiccia ed in via di massima:
esonerando i più vasti e minori gradi dalle sanzioni; ed applicandole invece, salvo eccezioni da
accertare, agli alti berretti […] ma seguii quella che mi sembrava la strada maestra del giudizio
per ogni singolo. Il nostro paese purtroppo non seppe esercitare con organi adeguati l’epurazione e le sanzioni» (M. Ruini, Ricordi, Giuffrè, Milano 1973, p. 92).
24
A tale proposito si veda M. Ruini, Le cifre della ricostruzione, Roma, 1945.
La sinistra esprimeva piena fiducia nelle competenze di Ruini, rinvenendo nella sua concezione
economica mirante a promuovere una politica di investimenti pubblici, una garanzia contro le
pretese liberistiche della destra: «La designazione di Ruini per la elaborazione dei piani della ricostruzione, scrive Nenni, significa che si ha intenzione di uscire dal provvisorio, dall’episodico
e dall’improvvisazione per avviarsi verso un’economia pianificata, in cui tutto si armonizzi in
una visione complessiva della rinascita economica della nazione» (P. Nenni, Con il popolo e per
il popolo, “Avanti!”, 19 giugno, 1945, p. 1).
94
Ruini aveva asserito l’opportunità di predisporre piani quinquennali come, del resto, si faceva
non solo in Russia ma anche in Inghilterra (M. Ruini, Le cifre della Ricostruzione. Discorso tenuto
dal ministro Meuccio Ruini il 23 ottobre, Istituto poligrafico dello Stato, Roma 1945, p. 9).
26
In un discorso alla radio, pronunciato in occasione della ricorrenza del 1° maggio, Ruini sottolinea come fin dai tempi della lotta clandestina il partito democratico del lavoro si sia dichiarato
per la repubblica, ma si chiede anche se con i liberali, in maggioranza monarchici, non sarebbe
preferibile concordare «un patto di mutuo rispetto del volere maggioritario ed accordarsi fin
da ora nella sostanza di una Costituzione che risponda a criteri di vera e sana democrazia» (M.
Ruini, Discorso pronunciato alla radio il 1° maggio 1946 da Meuccio Ruini, “Ricostruzione”, 3
maggio 1946, pp. 1-2).
27
D’Angelo, Ceti medi e ricostruzione…, cit., p. 247.
28
Per valutare la delusione del risultato elettorale si consideri che agli inizi di aprile un gruppo
di esperti di statistica aveva previsto, sulla base dei voti conseguiti da ciascun partito alle elezioni amministrative, che l’udn avrebbe dovuto conquistare circa cento seggi (cfr.: Orientamenti
sulla Costituente, “Ricostruzione”, 10 aprile 1946, p. 1).
29
Nel discorso alla radio del 1° maggio egli aveva ribadito di non voler «prendere parte attiva
all’organizzazione ed alla vita dei partiti», e di aver accettato di candidarsi solo in quanto si trattava di «formulare la nuova Costituzione» (Ruini, Discorso pronunciato…, cit., p. 1).
30
Ruini ribadirà tale scelta anche dopo il 22 aprile 1948, quando verrà nominato senatore di
diritto per la prima legislatura repubblicana, confluendo nel gruppo misto del Senato.
31
Gli altri voti andarono a Mastroianni (7), Calamandrei (1), Tupini (1), Zuccarini (1); quattro
le schede bianche (cfr.: La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea
Costituente, Roma 1976, vol. I, p. 1).
32
«Si vuol vedere in me un gerente responsabile, ed un difensore d’ufficio. Questo io so: che
risponderò con molta serenità, obiettivamente, cercando di fare il notaio di ciò che è avvenuto
nella Commissione» (Ruini, dp, cit., p. 303).
33
In base alle presenze complessive alle varie riunioni, si è notato che il Comitato di redazione non si riuniva mai al completo e che, presumibilmente, le decisioni venivano prese non a
maggioranza, ma previo accordo di tutti i rappresentanti dei gruppi, garantendo la presenza
a ogni riunione di almeno un democristiano, un socialista e un comunista. Ruini fu l’unico
a partecipare a tutte le settantasette riunioni del Comitato (cfr. S. Bova, L’elaborazione della
Carta costituzionale nel “Comitato di redazione”, in Aa.Vv., La fondazione della Repubblica, Il
Mulino, Bologna 1979, p. 328.
34
Ruini paventò fin dall’inizio il rischio che anche in Italia venisse redatta una costituzione lunga
e macchinosa, sulla falsariga di altre costituzioni europee postbelliche sempre più simili a dei
codici piuttosto che a Carte fondamentali. Si sarebbe, piuttosto, dovuti giungere a una costituzione «piana, semplice, comprensibile, anche dalla gente del popolo» e «per quanto possibile,
italiana» (cfr. A.C., vol. VI, p. 6).
35
A.C., cit., vol. VI, pp. 70-72.
A proposito del suo illustre conterraneo Dossetti, Ruini così scriveva nell’agosto del 1947: «un
giovane […] che mi ha dato dolori, perché si deve sovra tutto a lui, ed ai suoi accordi con
Togliatti, se venne ostacolata l’idea del preambolo e di una struttura tecnica della costituzione,
quale io vagheggiavo». Dando prova di una non felice intuizione Ruini aggiungeva: «ma debbo
riconoscere il suo ingegno e la sua dirittura; e presagire che sarà un giorno alla testa della democrazia cristiana» (M. Ruini, La nostra e le cento costituzioni del mondo. Come si è formata la
Costituzione, Giuffrè, Milano 1961, p. 210).
36
A.C., cit., vol. VI, p. 64.
37
Ruini, dp, cit., pp. 344-345.
38
«La Costituzione non è una legge semplice. È una superlegge e vi sono elementi che non sono
soltanto di strettissimo diritto, ma attengono a quel campo in cui la politica si congiunge alla
morale. Sono norme che Croce ha chiamate etico-politiche; e chiedono di essere inserite nella
costituzione» (Ruini, dp, cit., p. 311).
39
M. Ruini, Verso la Costituente, Ed. Europa, Roma 1945, p. 50.
40
La citazione è tratta dalla relazione con la quale, il 6 febbraio 1947, Ruini presenta alla
25
95
Presidenza dell’Assemblea Costituente il progetto di Costituzione, elaborato dalla Commissione
dei 75 da lui presieduta. Il testo è stato successivamente ripubblicato su La nostra e le cento
costituzioni…, cit., pp. 85-109, in particolare p. 89).
41
La Malfa espresse una forte critica alla dizione proposta da Fanfani in quanto, oltre a essere
carente dal punto di vista costituzionale, riteneva che il riferimento generico al lavoro si prestasse a molti equivoci in quanto ciascuno avrebbe avuto la possibilità di riempirlo «del contenuto
ideologico e politico che gli è proprio» (A.C., vol. I, p. 575).
42
Prevalgono i no per 239 voti contro 227. Subito dopo veniva votato l’emendamento Fanfani
su cui, a quel punto, convergettero anche i voti della sinistra. Sulla polemica sollevata da La
Malfa, Ruini rammentava che anche gli «immortali principî» erano stati tacciati di indefinitezza,
ma hanno poi avuto «una portata effettiva e concreta» (Ruini, dp, p. 335).
43
Ruini, La nostra e le cento…, cit., p. 88.
44
La Commissione, continuava Ruini, era stata «quasi unanimemente concorde nella necessità
di accentuare questo aspetto nuovo della democrazia che tiene conto dell’avanzarsi delle forze
del lavoro». (Ruini, dp, cit., p. 334).
45
Ivi, p. 316.
46
Questo resoconto è pubblicato in un volumetto di 138 pagine contenente, ancora in forma di
bozze, le proposte di modifica di diversi articoli della Costituzione avanzate – «in via personale
e riservata» – da Ruini (sebbene il nome dell’autore non sia stampato, esso si desume dall’Avvertenza). Sul frontespizio, sotto il titolo, si legge «appunti riservati» e un timbro recante nome
e cognome dell’Autore e l’anno 1966. Nella prima pagina Ruini prega di non dare notizia di tali
appunti prima che «si sia compiuta, in via preliminare, una raccolta di proposte e risposte ed osservazioni», e propone l’istituzione di una commissione pubblica di parlamentari e di studiosi al
fine di avviare il compito di «riesame e revisione del testo costituzionale». (La Costituzione della
Repubblica italiana, Aziende tipografiche Eredi G. Bardi, Roma [1966]). Una copia è conservata
presso l’Archivio Meuccio Ruini, Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, d’ora in avanti amr.
47
Aa.Vv., I dieci discorsi della nuova Italia, cit., p. 69.
48
A.C, vol. II., p. 1156.
49
Ibidem.
50
Aa.Vv., I dieci discorsi…, cit., p. 50.
51
Ruini, dp, cit., p. 322.
52
Ivi, pp. 315-316.
Significativo, a tale proposito, la sintonia delle asserzioni di Ruini con quanto aveva affermato il
giorno prima Togliatti il quale, rifiutando di dare al compromesso un significato deteriore, aveva
affermato che la volontà comune dei costituenti era stata quella di raggiungere una «unità», ossia
di individuare il terreno comune sul quale potevano confluire «correnti ideologiche e politiche
diverse», un terreno comune che fosse abbastanza solido perché si potesse costruire sopra di
esso una Costituzione «cioè un regime nuovo, uno Stato nuovo e abbastanza ampio per andare
al di là anche di quelli che possono essere gli accordi politici contingenti dei singoli partiti…»
(Aa.Vv., I dieci discorsi…, cit., p. 137).
53
Ruini, Verso la costituente, cit., p. 37.
54
Ibidem.
55
Pochi giorni prima, il 9 maggio, Ruini aveva espresso voto contrario all’emendamento presentato dal gruppo comunista che intendeva aggiungere un secondo comma all’articolo 36 sul
diritto di sciopero: «Allo scopo di garantire il diritto al lavoro di tutti i cittadini, lo Stato interverrà
per coordinare e orientare l’attività produttiva dei singoli e di tutta la Nazione, secondo un piano
che assicuri il massimo di utilità sociale». Evidentemente, Ruini considerava tale emendamento
conforme più alla concezione sovietica del piano che a quella da lui difesa, rispettosa dell’iniziativa privata. L’emendamento non passò, ricevendo 174 voti favorevoli e 244 contrari.
56
Il riferimento polemico di Ruini è a Einaudi che, per impedire il formarsi di monopoli privati,
aveva chiesto, per mezzo di un emendamento, di sottoporre a pubblico controllo i monopoli
a mezzo di amministrazione pubblica delegata o diretta. Per Ruini, in tal modo, non si sarebbe
fatto altro che implementare la macchina burocratica con uffici, organi e burocrazia di vigilanza (cfr. ivi, p. 365). Il 10 giugno 1947, nell’annunciare la propria fiducia al quarto governo De
96
Gasperi, Ruini ribadisce che non vi è all’estero Paese che non abbia piani di ricostruzione economica, perfettamente compatibili con l’economia di mercato come i piani guida in Inghilterra
che non distruggono l’iniziativa privata anzi la presuppongono, la indirizzano, la potenziano
(cfr. Ruini, dp, p. 401).
57
Nel testo definitivo della Costituzione, al terzo comma dell’articolo 41 si legge: «La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa
essere indirizzata e coordinata a fini sociali». Ruini aveva dovuto rinunciare al «piano» ma era
comunque passata la sua tenace idea del coordinamento, in questo articolo come nell’articolo
47 («La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e
controlla l’esercizio del credito»).
58
In alcuni appunti sparsi, redatti negli anni ’50, Ruini scrive che «in tema di pianificazione molto
dipende ed è questione di gradi. Minore è il grado d’intensità nei paesi (lasciatemi adoperare
un mio slogan) che hanno nel sangue, più che altri, l’autodisciplina; mentre nei paesi piuttosto
indisciplinati si sente un bisogno maggiore di norme, di precetti o piani». Egli sottolinea come la
pianificazione che sembrò prevalere in occidente dopo la guerra si è arrestata e «la esperimentazione concreta tende ormai a dimostrare che le imprese economiche restano o ritornano ad
essere in gran prevalenza private» (amr, La riforma dello Stato [1918-1940], vedi alleg. appunti su
questioni economiche e sociali, s.d., 66 c. dss.).
59
Ruini, Democrazia del lavoro e…, cit., p. 4.
Il solco che Ruini avrebbe voluto seguire, sebbene consapevole della peculiarità della situazione italiana, era la via laburista, attraverso la sproletarizzazione dei lavoratori, la possibilità
di promuovere e sviluppare uno Stato a base cooperativistica, la socializzazione delle imprese
essenziali.
60
Ruini, Discorso pronunciato alla Radio il 1° maggio 1946, cit., pp. 1-2.
61
Ruini spiegò di essere «stato convertito da Weber alla ricerca dei tipi nelle scienze sociali», ma
di aver ammesso non gli ideal-tipi razionali ed astratti quanto piuttosto «i realtipi che si desumono dalla osservazione della realtà» e non per formulare leggi dal momento che «esistono soltanto
regolarità ed hanno ben minore valore che nel campo delle scienze fisiche» (M. Ruini, Al di là del
capitalismo e del comunismo: democrazia del lavoro, Giuffrè, Milano 1962, p. 20).
62
Ruini, Verso la Costituente, cit., pp. 13-14.
63
Ivi, p. 15.
64
Le vite di Pellegrino Rossi, Giuffrè Milano 1962, pp. 58-59.
65
Per evitare che la magistratura si chiudesse in una sorta di «mandarinato», come lo aveva chiamato Ruini, l’articolo 97 del Progetto prevedeva che metà dei membri del csm fossero designati
dai deputati dell’Assemblea nazionale (cfr., A.C., vol. I, p. LXVII).
Nel testo definitivo, venuto meno l’organo dell’Assemblea Nazionale, si decise di aumentare a
due terzi la percentuale dei membri eletti dai magistrati ordinari e a un terzo quelli eletti dal parlamento in seduta comune. Inoltre, la durata in carica scese da sette a quattro anni prevedendo
anche la non immediata rieleggibilità.
117 L’articolo 87 del progetto prevedeva: «Primo Ministro e Ministri debbono avere la fiducia
del Parlamento. Entro otto giorni dalla sua formazione, il Governo si presenta all’Assemblea
Nazionale per chiedere la fiducia. La fiducia è accordata su mozione motivata, con voto nominale ed a maggioranza assoluta dei componenti l’Assemblea». Per quanto concerne la possibilità
della sfiducia, al terzo comma dell’articolo 88 si legge: «Dopo il voto di sfiducia di una delle
Camere il Governo, se non intende dimettersi, deve convocare l’Assemblea Nazionale che si
pronuncia su una mozione motivata» (A.C., vol. I, p. LXVI).
66
Ruini, dp, cit., p. 543.
67
Ruini, Verso la Costituente., cit., p. 57.
68
Ruini, Problemi aperti: organi costituzionali, Giuffré, Milano, 1964, pp. 96-97.
69
Ruini, dp, p. 563.
70
Ibidem.
A tale proposito, Ruini avrebbe ribadito personalmente a Kelsen, in occasione di una conferenza tenuta dall’eminente giurista austriaco alla Farnesina, la propria convinzione che fra i
poteri non debba esservi «né confusione né separazione ma distinzione ed insieme equilibrio,
97
coordinamento, collaborazione, associazione», intendendo «potere» nel suo doppio significato di
organo e di funzione (cfr. Ruini, Problemi aperti…, cit., p. 210).
71
Con le teorie sulla separazione dei poteri si è dovuta sovente confrontare la giuspubblicistica
contemporanea. Si veda a tale proposito la disamina di Gaetano Silvestri sull’evoluzione che tale
problematica ha avuto dal punto di vista storica e teorico, a partire dalla classica enunciazione
di Montesquieu (G. Silvestri, Poteri dello Stato, in Enciclopedia del diritto, Giuffrè, Milano 1985,
vol. XXXIV, pp. 670-720).
72
Ruini, dp, cit., p. 581.
73
Ibidem.
L’accenno di Ruini alla convenienza a far sì che in Senato sedessero uomini meno condizionati
dalle masse elettorali si deve ricondurre a una inveterata convinzione di stampo ottocentesco,
che vedeva nel Senato un freno agli eccessi democratici della Camera. In particolare pare qui
ravvisarsi l’influenza di Stuart Mill il quale scriveva: «se una Camera rappresenta il sentimento
popolare, l’altra dovrebbe rappresentare il merito personale…» (J.S. Mill, Considerazioni sul
governo rappresentativo (1861), Bompiani, Milano 1946, p. 218).
74
Il giurista calabrese, mirando esplicitamente al superamento della «mentalità parlamentaristica», propone alla Seconda Sottocommissione, di affidare l’elezione del Capo dello Stato, cui
spetta il delicato compito di essere arbitro dei conflitti tra Governo e Camera, a gruppi sociali quali partiti, gruppi territoriali, gruppi economici, professionali e di categoria riuniti in un
Collegio speciale (cfr.: A.C., vol. VII, cit., pp. 895-909).
75
Cfr. Ruini, dp, cit., p. 551.
76
La citazione è tratta da un articolo di Ruini pubblicato su “Nuova Antologia” nell’agosto del
1947, in calce al quale l’Autore inserì la bozza del preambolo e uno schema in 29 articoli della
prima parte della Costituzione da lui redatti un anno prima e resa nota solo «ad alcuni amici».
Nelle parole del Presidente della Commissione, a pochi mesi dal voto finale della Costituzione,
traspare una sottile amarezza «li pubblico ora, a titolo di chiarificazione e di documento; non a
protesta contro l’inevitabile; né ignoro che una eventuale revisione, una terza lettura da parte
dell’Assemblea, avrà obbiettivi ben più limitati» (M. Ruini, Come io pensavo la nostra Costituzione,
“Nuova Antologia”, agosto 1947, ripubblicato in seguito, con una introduzione di Vittorio Poma,
in: “Nuova Antologia”, aprile-giugno 1996, pp.281-304, cfr. in particolare pp. 288-304).
98
Gli internati slavi a
Castelnovo ne’ Monti*
Cleonice Pignedoli
Questa ricerca è nata per caso, mentre cercavo notizie sui deportati di
Castelnovo in Germania. Dai registri dell’Ente comunale di assistenza (eca),
sono emersi nomi stranieri che mi hanno incuriosito. Dopo aver capito di
che cosa si trattava, ho ritenuto che fosse una bella coincidenza: nel cercare
la storia degli italiani deportati dai tedeschi, avevo trovato la storia dei croati
“deportati” dagli italiani.
La ricostruzione delle vicende di questo piccolo gruppo di internati mi è
sembrata emblematica per capire la natura violenta e coloniale dell’occupazione italiana della Jugoslavia, troppo spesso rimossa e negata.
La ricerca si è basata essenzialmente sui documenti dell’Archivio storico del
comune di Castelnovo ne’ Monti, che conserva una copiosa documentazione
del carteggio tra il podestà, la prefettura e la questura, responsabili per conto
del ministero dell’Interno delle procedure amministrative e di pubblica sicurezza sull’internamento.
Poiché, dopo quattro mesi vissuti a Castelnovo, gli internati furono spostati
a Reggio Emilia, al Ricovero di mendicità, ho consultato l’Archivio storico di
Reggio Emilia terza età (rete), ricostruendo i loro movimenti dalle brevi note
dei registri di protocollo, senza poter rintracciare la relativa cartella.
Non è stato possibile individuare alcun documento rimasto negli archivi
*Le foto attuali dei luoghi di Castelnuovo Monti sono di Andrea Paolella (Reggio Emilia, 1984). È
laureato in chimica all’Università di Bologna. Allievo di Vasco Ascolini, fotografa dal 2004. Ha
partecipato a diverse collettive, fra cui Cavezzo nel 2005 e Bologna nel 2006. Inizia con questo
servizio la sua collaborazione con Richerche storiche.
99
della prefettura e della questura di Reggio Emilia, nonostante l’interessamento
del direttore dell’Archivio di Stato, dottor Gino Badini.
L’Archivio centrale dello Stato conserva soltanto un elenco, compilato dalla
Croce rossa internazionale, con i nomi degli internati presenti a Reggio Emilia
nel marzo 1943, in cui gli slavi sono classificati di religione ebraica, cosa poi
risultata falsa. A causa di queste carenze nella documentazione, non è stato
possibile ricostruire con precisione i percorsi di proscioglimento, né sapere se
tutti rientrarono a casa.
Ho potuto colmare, in parte, questi vuoti grazie a due persone: Carlo
Spartaco Capogreco, che mi ha fornito i documenti riguardanti il campo di
Laurana; inoltre dal suo immenso lavoro ho preso le notizie di carattere generale sull’internamento nell’Italia fascista; la signora Diana Juretic di Kukuliani
che ha rintracciato le testimoni ancora viventi e mi ha consentito di intervistarle con la sua preziosa opera di traduzione.
Nonostante le sofferenze subite, i lutti, gli anni sottratti all’infanzia e alla
gioventù, il 25 marzo 2006 le testimoni, Zora Kukulian, Maria Ban, Anna Sudan
mi hanno accolto calorosamente nelle loro case di Kukuliani, Podhum, Rjieka,
a volte le stesse devastate dagli italiani nella primavera-estate del 1942. Allora
Zora aveva ventidue anni, Maria aveva otto anni e Anna quattro. Le loro testimonianze riportano ricordi traumatici indimenticabili e racconti delle madri e
delle nonne oggi scomparse. Anche loro, come i nostri deportati, stanno chiedendo, fino ad ora inutilmente, un risarcimento per le sofferenze subite.
Le premesse dell’internamento
Alla fine di giugno del 1942 vengono trasportati a Castelnovo ne’ Monti,
sull’Appennino reggiano, due distinti gruppi di persone, per «esservi tenuti
nella condizione di internati civili», secondo le direttive varate dal regime fascista.
I primi ad arrivare sono diciassette cittadini croati, provenienti da Fiume.
Seguiranno dopo pochi giorni diciotto ebrei libici, di Bengasi, fatti arrestare
nella colonia, perché ebrei e sudditi di uno stato nemico (sono di cittadinanza
inglese)1.
Castelnovo ne’ Monti, allo scoppio della guerra, viene individuato, al pari
di altre piccole località dell’Italia, come possibile sede di internamento per i
nemici della patria2.
Con la guerra, le autorità militari o di pubblica sicurezza, senza un processo,
potranno decidere l’internamento, a scopo preventivo, di intere categorie di
persone, cioè di quegli italiani o stranieri ritenuti «pericolosi nelle contingenze
belliche». In epoche successive, verranno rinchiusi nei campi di internamento
gli ebrei stranieri, i civili di paesi nemici residenti in Italia, i militari catturati, i
civili e i militari deportati dalla Jugoslavia3.
100
L’internamento libero nei piccoli comuni è previsto per le stesse categorie,
ma per persone meno “pericolose”, spesso donne, vecchi e bambini. Non presenterà gli aspetti carcerari del campo di concentramento, consentirà il contatto con i locali, che a volte manifesteranno la loro solidarietà, ma esporrà anche
gli internati deportati, sprovvisti di tutto, alla paura e all’angoscia di trovarsi
“prigionieri liberi”, senza protezione, in un paese nemico.
L’occupazione della Jugoslavia
Il 6 aprile 1941 le forze dell’Asse iniziano l’attacco alla Jugoslavia. Mentre
i tedeschi entrano da est e da nord, la 2ª Armata italiana oltrepassa le frontiere nella Venezia Giulia. Altri reparti dell’esercito regio, attestati in Albania,
risalgono per il Montenegro e la Dalmazia. Il 18 aprile la Jugoslavia firma la
resa e il suo territorio è spartito tra Germania, Italia, Ungheria. Viene istituito
il regno di Croazia4, il Montenegro diventa protettorato, l’Italia occupa direttamente Spalato, il Cattaro, mentre diversi territori croati sono annessi a Fiume5.
Nella Slovenia occupata, Lubiana viene dichiarata nuova provincia “italiana”.
Dalmati, croati e sloveni, anche se preferiscono gli italiani ai tedeschi, sono
generalmente ostili.
Nel Ventennio hanno conosciuto, con l’italianizzazione di Fiume e dell’Istria, assaggi delle mire fasciste. Le popolazioni slave, comprese dentro i
nuovi confini italiani dettati dal trattato di Rapallo, hanno subito trasferimenti
e discriminazioni di ogni genere. Mussolini, considera i Balcani terra da colonizzare e il 10 giugno 1941, così si esprime:
Noi avremmo potuto, volendo, spingere i nostri confini dai Velebiti alle Alpi albanesi, ma avremmo, a mio avviso, commesso un errore. Senza contare il resto,
avremmo entro le nostre frontiere parecchie centinaia di migliaia di elementi allogeni, naturalmente ostili […] Comunque, quando l’etnia non va d’accordo con la
geografia, è l’etnia che deve muoversi; gli scambi di popolazioni e l’esodo di parti
di esse sono provvidenziali, perché portano a far coincidere i confini politici con
quelli razziali6.
L’esercito italiano, già nei primi mesi di occupazione, si trova ad affrontare
le formazioni partigiane di Tito, che combattono sostenute dalla popolazione7.
Nell’inutile tentativo di fermare la guerra partigiana, viene scatenata un’offensiva contro i civili che non si distinguerà per crudeltà da quella tedesca
in Italia. L’occupazione della Jugoslavia vede, come ha scritto Carlo Spartaco
Capogreco, il soldato italiano nelle vesti di aguzzino.
Violenze, incendi di paesi, eccidi, precedono l’internamento di almeno centomila slavi8. Per rinchiudere gli sloveni, i croati, i montenegrini vengono allestiti numerosi campi di concentramento in Croazia, in Istria e in Italia riadattando
spesso vecchie strutture o impiantando campi di tende militari. Sull’isola di Rab,
101
nel campo allestito dalla 2ª Armata, moriranno
non meno di millequattrocentotrentacinque
persone tra cui anche
vecchi e bambini9.
Contemporaneamente
viene attuato un processo di “sbalcanizzazione”, che oggi chiameremmo pulizia etnica,
con il trasferimento di
numerosi italiani nelle
zone occupate, l’imposizione della lingua italiana, l’italianizzazione
dei cognomi e dei nomi
delle località.
Sono rimossi i dipendenti pubblici di origine
slava e sostituiti da italiani. Viene attuata nelle
città una caccia preventiva a studenti, disoccupati e fuoriusciti dalla
Venezia Giulia dopo il
1922, categorie considerate potenzialmente destinate alla lotta partigiana.
Ben presto vengono colpite anche le popolazioni rurali, colpevoli di sfamare i
partigiani. Si arriva ad ipotizzare lo sgombero degli abitanti a ridosso dei nuovi
confini e a fianco delle linee ferroviarie, da rimpiazzare con sicuri elementi
italiani.
L’italiano deve aver ben chiaro che appartiene ad una razza superiore10, e
il soldato deve capire che sta combattendo una guerra coloniale, in cui deve
abbandonare le sue “solite” caratteristiche di bontà. Il generale Mario Roatta,
capo della 2ª Armata11, con poteri assoluti nelle terre annesse, invita ad assumere una mentalità di guerra e a ripudiare le qualità negative, compendiate
dalla frase «bono italiano»12.
Rastrellamenti e fucilazioni
Il 1° marzo 1942, Roatta, emana la circolare “3c”, che fornisce più chiare
direttive per l’offensiva italiana contro la resistenza jugoslava e la popolazione
102
civile. Tra le varie disposizioni riportiamo quelle che avranno una ripercussione precisa sul destino dei nostri internati. Nella parte II “Misure precauzionali
nei confronti della popolazione” si afferma:
Nelle località in situazione anormale [in cui siano in corso operazioni di guerra,
ndr] si procederà ad internare (avviandole ad altra sede…) le famiglie da cui siano
o diventino mancanti, senza chiaro e giustificato motivo, maschi validi di età compresa fra i 16 e i 60 anni.
Quando necessario agli effetti del mantenimento dell’op e delle operazioni, i
Comandi di gu possono provvedere: a) – ad internare, a titolo protettivo, precauzionale o repressivo, famiglie, categorie di individui della città o campagna, e, se
occorre, intere popolazioni di villaggi e zone rurali; b) – a “fermare” ostaggi tratti
ordinariamente dalla parte sospetta della popolazione, e, – se giudicato opportuno
– anche dal suo complesso, compresi i ceti più elevati; c) a considerare corresponsabili dei sabotaggi, in genere, gli abitanti di case prossime al luogo in cui essi
vengono compiuti13.
Gli internati giunti a Castelnovo ne’ Monti hanno subito tutte queste direttive. Sono abitanti di una valle incastonata nelle montagne a nord-est di
Fiume, nei comuni di Jelenje, Mrlza Vodica, nei distretti del Gorski Kotar e di
Grobniko.
Sottoposti, oltre che all’occupazione del Regio esercito, anche allo zelo di
Temistocle Testa, prefetto di Fiume, indicato poi come criminale di guerra
dalla Jugoslavia14.
Le azioni massicce, contro la popolazione rurale dei territori fiumani annessi, iniziano nel mese di maggio 1942 e si protrarranno senza tregua per
tutta l’estate; vi agisce il V Corpo d’Armata15, aiutato dalla Milizia volontaria
anticomunista (mvac).
A nord di Fiume, subiscono spedizioni punitive diciassette paesi; sono passate per le armi cinquantanove persone, più di duemila vengono deportate;
i poveri villaggi contadini incendiati e il bestiame razziato. In data 30 maggio
1942, il prefetto Testa fa sapere alla popolazione di aver internato nei campi
di concentramento in Italia, un numero indeterminato di famiglie di Jelenje,
dalle cui abitazioni si erano allontanati giovani maggiorenni senza informarne
le autorità. Con un manifesto egli rende noto: «Sono state rase al suolo le loro
case, confiscati i beni e fucilati venti componenti di dette famiglie estratti a
sorte, per rappresaglia». Il 6 giugno proseguono i rastrellamenti e le deportazioni delle famiglie da cui risulta assente qualche componente, perché si
può presumere che sia arruolato nelle file partigiane. Dodici uomini vengono
fucilati senza processo.
Il 10 giugno, nella zona di Jelenje, sono stati uccisi, non si sa da chi, due
maestri, marito e moglie, arrivati nel 1941 ad italianizzare la scuola. I due sono
odiati dalla popolazione per i maltrattamenti a cui sottopongono i bambini
quando sbagliano un verbo o una parola italiana16. Per trovare i colpevoli,
103
iniziano le spedizioni punitive compiute da reparti dell’esercito e dalle milizie
fasciste.
Il 12 giugno vengono rastrellati Jelenje, Kukuliani, Zoretice, le case devastate e incendiate, gli uomini trovati per la strada uccisi. Si continua così per
tutto il mese di giugno. Il culmine di questa guerra ai civili arriverà il 13 luglio
a Podhum, con l’uccisione di centotto persone17.
Pericolosi congiunti di ribelli slavi
Da questo scenario, provengono i diciassette internati a Castelnovo ne’
Monti, con la colpa di essere «congiunti di ribelli slavi», come si legge nell’elenco che li accompagna18.
Vittime dei rastrellamenti di giugno, hanno vissuto momenti di terrore.
Maria Miculic all’epoca aveva otto anni e viene portata via con la mamma e il
fratello Stanislao.
Il mio papà l’hanno ucciso gli italiani sulla strada il giorno che ci hanno portato via.
Aveva quarant’anni. Hanno ucciso dodici uomini quello stesso giorno sulla strada
di Fiume. Anche suo fratello è stato ucciso a diciassette anni. Questo paese era tutto completamente bruciato… Quando siamo tornati era tutto distrutto, c’erano solo
terra e sassi. Quando mia mamma ha chiesto se poteva prendere qualcosa in casa
un soldato l’ha spinta via. Mio papà faceva il muratore a Fiume… In quel periodo
gli italiani parlavano così: “Se un uomo manca di casa, uno lo uccidiamo”19.
Le donne, i bambini, gli anziani vengono caricati sui camion e portati a
Laurana (Lovran), dove è stato requisito l’albergo del Parco e trasformato in un
campo di concentramento. È una delle tante strutture che devono contenere le
migliaia di rastrellati nell’attesa di smistamento20.
La capacità del lager è di cinquecento posti, ma a maggio gli internati sono
già novecento. In poco tempo la struttura raggiunge un incredibile sovraffollamento; si arriva in luglio a duemila persone detenute in condizioni impossibili,
sorvegliate da guardie armate. La permanenza è temporanea, il lager serve da
concentramento per i catturati destinati al “libero internamento” in Italia. A
Lovran le “famiglie sospette” vengono sorvegliate dai carabinieri.
Il comportamento delle autorità non è generalmente scorretto, ma la direzione rifiuta di ricevere pacchi diretti ai prigionieri e quindi è impossibile
per i famigliari aiutare i loro cari, che sono partiti soltanto con gli abiti che
indossavano.
Vi sono rinchiusi in gran maggioranza cittadini croati delle zone di Hrvatsko
Primorje, del Gorski Kotar e della Dalmazia, e in numero minore degli sloveni
di Lubiana e dintorni. Sono tutti di religione cattolica.
Non vengono forniti abiti, c’è grande sporcizia a causa del sovraffollamento, ma per la breve permanenza non si diffondono malattie epidemiche. I pri-
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Via Veneto (Castelnovo ne’ Monti) – Il luogo ove sorgeva la trattoria “Falchetti”, resta una scritta
sopra un negozio di erboristeria. (foto di Andrea Paolella)
gionieri non possono fare nulla per occupare l’attesa. È espressamente vietato
cantare e ballare. L’unica fisarmonica viene sequestrata21.
Maria Miculic ricorda: «A Lovran avevamo una fame da morire, mia mamma
non assaggiava neanche il cibo per far mangiare noi bambini».
Gli internati arrivano a Castelnovo ne’ Monti
Il dirigente della questura di Reggio Emilia, con telegramma del 27 giugno
1942, alle ore 22:20 comunica al podestà di Castelnovo ne’ Monti:
Essere costà diretti con corriera 17 internati civili provincia Fiume – scortati da
Carabinieri punto medesimi beneficiano seguente trattamento carico Ispettorato
servizi guerra da anticiparsi dal Comune: lire otto giornaliere Capo famiglia oltre
lire cinquanta mensili indennità alloggio lire quattro moglie lire tre figli minorenni
lire quattro congiunti maggiorenni a carico punto presente est Comune Podestà et
Tenenza Carabinieri che est pregata disporre per vigilanza secondo regime ammonizione punto Seguiranno istruzioni dettagliate punto Ispettore Generale sicurezza
dirigente Questura Capurso22.
A Castelnovo non giungono del tutto inaspettati. A fronte delle previste
azioni di rastrellamento e deportazione, i comuni sedi d’internamento sono
stati allertati. Dal 10 giugno è pronto un «Elenco vani di probabile disponibilità
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per il ricovero di internati civili»23. Le stanze sono quarantanove, censite anche
nelle frazioni, per un numero di letti quasi doppio, ma poche sono effettivamente disponibili. Sta per iniziare la stagione estiva e Castelnovo ne’ Monti è
un centro abbastanza rinomato di villeggiatura; vive di turismo e commercio.
Vi sono tre alberghi di un certo livello (Tre Re, Dante, del Teatro) e numerose
trattorie con servizio di pensione; anche i privati affittano stanze o appartamenti, spesso ritirandosi in locali più angusti. Si aspettano non meno di mille
“villeggianti”.
Per alloggiare gli internati, le frazioni vengono escluse, perché c’è un problema di sorveglianza. Viene scelto il centro storico, pochi edifici, tra via Veneto
e piazza Peretti, nei posti liberi delle trattorie Scaruffi, Mercato, Commercio,
Cacciatori e in qualche camera privata del “Vaticano”, un edificio detto così
per i lunghi corridoi e le numerose stanze.
Nei primi tempi consumano i loro pasti in trattoria, a carico del Comune,
come si ricava dalle note di spesa, conservate nei registri eca24.
Ricorda Iolanda Bagnoli, della trattoria “Cacciatori”, in piazza Peretti: «Da
noi rimase a lungo una persona sola, un anziano, bravo, educato. Ce lo mandò
il podestà. Non ricordo se o chi pagava. Non ne sapevamo molto. Sfollati della
Jugoslavia, dicevano».
Chi sono i congiunti di ribelli slavi, tanto pericolosi da doverli deportare ad
ottocento chilometri di distanza? Quattro gruppi familiari:
– Giuseppina Ban25 in Miculic, casalinga di 48 anni con i figli Stanislao di sei
anni e Maria di otto, il marito Giacomo Miculic è stato ucciso il giorno della
loro deportazione;
– la famiglia Sudan: la mamma Hlaka, i figli Antonio e Anna di due e quattro
anni, con la suocera Antonia, vedova; il marito Romano Sudan verrà deportato
a Dachau;
– Maria Stefan 50 anni con la figlia Zora Kukulian e il cognato Giorgio. Il
marito di Maria, Tommaso Kukulian, è detenuto nel campo di Casoli vicino
Chieti26;
– la famiglia di Kaifes Stefano di 69 anni, vedovo, con i figli Giacomo e
Vladimiro di diciassette e quindici anni.
Quindi tre uomini soli: Giovanni Covacic, di diciotto anni, meccanico ai
cantieri navali di Fiume, Gasperini Paolo, di diciotto anni carpentiere, Grguric
Rodolfo, cinquantasette anni agricoltore. Da una nota a matita a margine della
lista sappiamo che Giovanni svolgeva le funzioni di interprete del gruppo.
Infine una ragazza, Rosa Zoretic, di ventidue anni, di Zoretice.
Si fermeranno a Castelnovo ne’ Monti per quattro mesi, poi verranno trasferiti al Ricovero di mendicità di Reggio Emilia, dove qualcuno chiederà e otterrà
di ritornare a Castelnovo.
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Seccature burocratiche
Il 13 luglio 1942-XX anno dell’era fascista, la questura fa pervenire istruzioni dettagliate, “Internati civili – Disciplina e assistenza”.
Sono sei pagine fitte di carta velina in cui si richiamano le norme della
circolare del ministero dell’Interno n. 442/12267, 8 giugno 1940-XVIII sul trattamento degli internati.
Perché «non vi siano incertezze e non abbiano a verificarsi disparità di trattamento…» si ricordano al podestà e ai carabinieri del luogo le disposizioni
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che valgono, oltre che per i campi, anche per i comuni sedi di internamento.
L’autorità di pubblica sicurezza dovrà impiantare fascicoli personali, stabilire il
perimetro entro cui gli internati potranno circolare, vietare loro di allontanarsi,
imporre orari di uscita e rientro da casa.
L’internato a sua volta dovrà tenere buona condotta, non dar luogo a sospetti e mantenere un contegno disciplinato.
Il Comune deve corrispondere una diaria a chi non dispone di sufficienti
mezzi di sostentamento, nella misura di otto lire al capofamiglia, quattro lire ai
congiunti maggiorenni, tre lire per i figli, cinquanta lire mensili per l’indennità
di alloggio. Ogni nucleo familiare dovrà essere sistemato in camere mobiliate,
senza sostenere spese per acquisto mobilio, tranne casi di assoluta necessità. Il
sussidio va pagato per quindicine. Ogni altra necessità (ricoveri, visite specialistiche, farmaci) deve essere approvata in anticipo da podestà e prefettura.
Gli internati non possono tenere con sé documenti e passaporti, denaro (al
massimo cento lire). Le somme possedute devono essere depositate in conti
bancari e postali i cui libretti verranno conservati dal podestà, che potrà autorizzare di volta in volta prelievi non superiori alle cento lire.
Non si devono occupare di politica, non possono leggere libri e giornali se
non italiani ed autorizzati dalle autorità fasciste.
È loro vietato tenere apparecchi radio, libri, e ogni visita a parenti detenuti
in altre località sarà autorizzate dal ministero.
Il podestà fissa gli orari di libera circolazione entro i confini del centro abitato: non prima delle 7 del mattino, non dopo le 19 di sera.
La corrispondenza e i pacchi in arrivo debbono essere controllati dal podestà in persona o da un incaricato; la posta spedita senza affrancatura dovrà
recare la scritta Posta di internato civile di Guerra.
Il controllo e la censura delle lettere dirette in Jugoslavia determinano numerosi problemi. Il questore di Reggio Emilia scrive al podestà:
La R. Prefettura di Fiume ha lamentato il notevole afflusso in quella questura di corrispondenza di congiunti di ribelli slavi allontanati da quella provincia, trasmessa
dai Podestà dei comuni d’internamento per il controllo.
Poiché tale procedura è d’intralcio al regolare funzionamento del servizio postale
in quanto provoca notevole ritardo nel recapito delle lettere, e d’altra parte, molto
lavoro a quella questura, prego inviare le lettere dei congiunti di ribelli slavi internati nei rispettivi comuni, da sottoporre al controllo, direttamente alla Commissione
Provinciale di Censura di guerra di Bologna che dispone di traduttore di lingue
slave. Prego assicurare. Il Questore Pietro Lotti.
Questa circolare, oltre a testimoniare il gran numero di internati presenti in
Italia, avvia una serie di contenziosi tra gli uffici. Il podestà avverte gli internati di usare la lingua italiana, ma molti di loro non la conoscono e in più la
Commissione provinciale di censura di Bologna comunica che la traduzione
non è di sua competenza, ma dell’ufficio di posta estera.
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Via Franceschini, 8 (Castelnuovo ne’ Monti) – L’ex trattoria del Commercio. (foto Andrea Paolella)
Antonia Sudan riceve una lettera e un vaglia postale di cento lire il 13 luglio, ma può entrarne in possesso solo il 27 luglio, quando arriva il nullaosta
della questura.
Come indicato da una circolare della Prefettura27, il Comune eroga il sussidio, che viene annotato su un registro apposito “Rendiconto dei sussidi pagati
per il trimestre ad internati civili dimoranti in questo Comune”28. Il Comune
anticipa le somme e la Regia prefettura rimborserà a rendiconto.
Se gli internati lavorano, non hanno diritto ad alcuna indennità, indipendentemente dal salario ricevuto. Lo apprendiamo da una questione sollevata
dal podestà.
L’internata civile slava Zoretic Rosa, trasferita da Reggio Emilia a Castelnovo ne’
Monti e qui giunta il 2 corrente, si è presentata a questo Ufficio per riscuotere il
prescritto sussidio. Siccome il trasferimento ritiensi avvenuto per richiesta fattane
dai coniugi Amorosi-Capanni presso i quali si è stabilita, si desidera conoscere se
il richiesto sussidio debba o meno essere corrisposto e da qual data. Il Podestà, 7
gennaio 1943.
La prefettura risponde che Rosa, essendo occupata come barista, non ne ha
diritto, potendo vivere coi proventi del proprio lavoro.
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Via Veneto (Castelnuovo ne’ Monti) – Lungo questa via era ubicata la trattoria “Scaruffi”, probabilmente sorgeva dove oggi c’è un’armeria o nei pressi della piazzetta. (foto Andrea Paolella)
Anche altri internati sono nella sua stessa condizione, ma non sappiamo
quali. Partono degli esposti diretti alla Prefettura e lo stesso podestà fa notare
che:
la Zoretic Rosa, interpellata, ha dichiarato che durante il suo soggiorno nel
Mendicicomio di cotesta città non ha riscosso alcun sussidio, contrariamente a
quanto asserito negli esposti allegati che sono stati scritti, ad eccezione di quello
contrassegnato con una croce, da altre persone, conoscendo la Zoretic pochissimo la lingua italiana. La nominata trovasi effettivamente in condizioni di bisogno.
Attualmente percepisce l. 80 mensili di salario. Si propone di corrispondere alla
persona in oggetto il sussidio giornaliero di l. 8, corrispondenti a 240 mensili, decurtate delle lire 80.
La prefettura però è inamovibile. Il 4 aprile 1943, il prefetto Renato Vittadini
invita il podestà a «far comprendere nel migliore dei modi alla nominata che
non le può essere corrisposto alcun sussidio risultando essa già in godimento
dell’alloggio e del vitto [presso i datori di lavoro, ndr] oltre al salario di l. 80
mensili. Ciò in considerazione che il sussidio corrisposto dallo Stato agli internati Croati ha carattere esclusivamente alimentare».
Anche se le testimoni intervistate non ricordano di aver ricevuto denaro,
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Via Roma, 135 (Castelnuovo ne’ Monti) – La farmacia è l’attuale. (foto Andrea Paolella)
dai registri comunali il sussidio risulta pagato, per i mesi di luglio, agosto, settembre, ottobre 1942.
È probabile invece che al momento del loro ingresso nel Ricovero di mendicità, non abbiano avuto più nulla, poiché la retta viene corrisposta direttamente dallo Stato all’Istituto e comprende vitto e alloggio.
La vita a Castelnovo ne’ Monti
Nel 1942, l’assegno alimentare, anche se pagato, non riesce più a garantire
un tenore di vita accettabile29. La guerra ha creato inflazione, i prezzi dei generi di prima necessità sono aumentati paurosamente. C’è il razionamento (ad
esempio il 26 ottobre 1942 le razioni mensili a persona sono fissate in 600 gr.
di pasta e 1400 gr. di riso da distribuirsi con le tessere annonarie). Gli internati
non hanno certo i mezzi per acquistare cibo al mercato nero o anche semplicemente dai contadini dei dintorni.
La loro situazione di estrema povertà è testimoniata dallo stesso podestà
che segnala, il 31 agosto, alla questura: «Gli internati civili qui residenti (slavi)
sono sistemati in locali vuoti provvisti di brande senza alcun effetto lettereccio.
Approssimandosi la stagione fredda è indispensabile provvedere gli stessi di
coperte e pagliericci. Si fa presente che non è stato possibile indurre i privati
ad accogliere nelle loro abitazioni gli internati per la loro sudicia indigenza»30.
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Come può essere altrimenti? In quelle condizioni si fatica a mantenere la parvenza di una “dignitosa povertà”, mito caro all’Italia fascista.
Maria, Zora ed Anna hanno di questo periodo un ricordo assai doloroso.
«Abbiamo abitato in un’osteria, ma ci hanno mandato presto via. Avevamo tanta fame e andavamo per le case a pregare il pane, eravamo peggio che zingari,
senza niente, con solo i vestiti che avevamo indosso», ricorda Maria Miculic.
Per fortuna a Castelnovo non tutti li scansano. Maria ricorda anche la bontà di
una signora, la moglie di un medico che abitava sopra la farmacia. «Il medico
ci ha visitato il giorno che siamo arrivati e sua moglie aveva una bambina piccola, ci fece mangiare con lei il giorno della Madonna31 e voleva prendere mia
mamma come bambinaia, ma poi ci hanno trasferito».
Subiscono anche gesti insultanti e razzisti. «Un giorno dei giovani buttarono della merda di cavallo dentro le finestre dove dormivamo e dopo non
avevamo voglia di stare fuori, perché avevamo una grande paura». Lo stato di
necessità li spinge a cercare un’occupazione. Da luglio agli internati non particolarmente pericolosi è consentito lavorare. Occorre richiedere il permesso
alle autorità; chi non lo fa viene richiamato, insieme al suo datore di lavoro. In
una nota dei carabinieri del 31 ottobre 1942 si legge:
Covacich Giovanni di Giovanni e di Sanco Paolina, nato il 2.4.1924 a Visignano
d’Istria (internato):
Vestito e cappotto acquistati a rate mediante punti della propria tessera. Non ha
maglie di sorta. Spesso si è recato fuori del centro di C/vo con Falchetti, esercente
di trattoria, presso cui lavora e per conto del quale e di Giansoldati vendeva delle
bestie di bassa macellazione, percependo un compenso di l. 50 per ogni bestia.
È in possesso di due paia di scarpe: uno per la festa ed uno per lavoro. Un paio
acquistate dalla calzoleria a fianco a Cagni e l’altro avute da Falchetti.
Diffidare Falchetti e Giansoldati che non si servono del suddetto senza prima aver
ottenuto regolare permesso dal podestà. Firmato Ugo Preti maresciallo maggiore
a.p. Comandante la Stazione.
Sappiamo da una nota a margine dell’elenco che Giovanni Covacich era
operaio presso il silurificio Whitehead di Fiume, conosceva bene l’italiano.
Anche Paolo Gasperini era operaio ai cantieri navali del Quarnaro di Fiume.
I nuclei familiari di sole donne e bambini se la passavano sicuramente
peggio.
Maria e Zora Kukulian, trovano lavoro come donne di servizio, presso l’albergo del Teatro di Cesare Ferrari.
Rosa Zoretic va a lavorare al Caffè Italia di Vincenzo Amorosi. Il figlio del
proprietario, Danilo, ricorda:
Durante il periodo di guerra ho sempre abitato in Piazza Peretti dove ho ancora
la casa paterna.
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Io avevo dodici anni, ma noi ragazzi eravamo molto responsabili. Mi ricordo di
Rosa che lavorava da mio papà. Mio papà dava lavoro a diverse donne.
Il nostro era l’unico bar, il resto erano osterie, noi facevamo i gelati, avevamo i
bigliardi, mio padre aveva tante attività e lavorava parecchio.
Allora la manodopera costava poco. Rosa gli venne presentata da Cesare Ferrari,
presso il quale lavorava già Zora. “Sono brave e lavorano” gli disse e mio padre
l’assunse.
Diventammo amici, io ero un bambino e lei mi insegnava a dire i numeri in slavo.
Era una donna robustissima. Andava a prendere il sale in Via Roma e ne portava
un sacco da mezzo quintale sotto ogni braccio…
Beh un quintale portato così… Ci siamo meravigliati. Ci spiegò che lei al confine
iugoslavo faceva la contrabbandiera, portava le bricolle32 su per le montagne e
quindi era abituata. Poi un giorno disse che doveva partire, era dispiaciuta di andarsene. Parlava l’italiano con una certa cadenza e la sera doveva tornare a casa
presto.
Rosa oggi non c’è più, ma Zora Kukulian ricorda molto bene quel periodo.
Nell’albergo di Cesare Ferrari, lei e la mamma lavorano in cucina e nelle pulizie delle camere. In occasione di un raduno di camicie nere vengono nascoste
perché è meglio non far sapere che lì nell’albergo lavorano delle slave. Anche
durante il sabato fascista è prudente non farsi notare. Zora non sta bene a
Castelnovo; oggi ricorda solo lavoro, dormire e lavoro.
Scrive alla sorella una cartolina, che ancora conserva nella sua abitazione
di Rijeka. È una vista di via Roma con la Casa littoria, in primo piano (l’attuale
Teatro Bismantova). A fianco, sull’albergo del Teatro, una croce tracciata a
mano. Dietro scrive in croato «Saluti da Jure e mamma. Ti faccio sapere che
abbiamo ricevuto la tua lettera. Noi ti abbiamo scritto tante volte, ma non
abbiamo avuto risposta. Questa è la cartolina del posto dove ci troviamo. La
mamma piange sempre e sta in pensiero per voi. Guarda dove c’è la croce,
noi lavoriamo lì».
Si ricorda, con amicizia di Nina Ferrari, moglie del proprietario, che le scriverà negli anni seguenti, invitandola a tornare. «Mi disse che era tutto cambiato, ma ormai ero sposata con tre figli».
A settembre 1942 Maria Kukulian inoltra un’istanza alla questura per «ottenere che il di lei marito Kukulian Tommaso, attualmente internato a Casoli
(Chieti), venga trasferito a Castelnovo Monti». Nonostante il nullaosta del podestà, il questore risponde che «per carenza di alloggi la sua richiesta non può
essere accolta». Contemporaneamente chiede un parere sull’istanza di proscioglimento avanzata dalla stessa Maria Kukulian, la figlia e il cognato. Il podestà
risponde: «Durante il soggiorno in questo Comune […] gli stessi hanno tenuto
buona condotta e non hanno dato luogo a rimarchi di sorta. Pertanto si esprime parere favorevole al loro proscioglimento». Il proscioglimento tuttavia non
arriva.
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Giovanni Covacic chiede
di rientrare a Fiume, perché
ha la madre ammalata, ma la
questura di Fiume il 30 settembre, si affretta a rispondere che «Madre internato
Covacich Giovanni non est
ammalata punto ritiensi che
internato predetto avrebbe
voluto partecipare nozze sorella celebratesi 20 andante».
L’atteggiamento del podestà, dottor Francesco
Manfredi, come risulta dalle
carte, non è vessatorio nei
confronti degli internati, ma
piuttosto teso ad eseguire
gli ordini, a risolvere problemi burocratici e formali. È
benevolo nei confronti di chi
si comporta bene; infatti dà
parere favorevole sia al ricongiungimento della famiglia
Kukulian, sia al loro proscioglimento. Quando il governo
italiano inizia a cercare, tra gli internati, manodopera per la falciatura e mietitura
nell’Agro romano, in Puglia e Lucania, risponde sempre negativamente. Il podestà, in data 24 aprile 1943, scrive: «Si comunica che l’internata in oggetto non si
ritiene idonea a lavori agricoli in quanto ha sempre esercitato il mestiere di cameriera. Durante la permanenza in questo Comune la Zoretic ha tenuto buona
condotta e non è da ritenersi pericolosa per la linea politica».
Si opporrà però al ritorno di Giovanni Covacic che vorrebbe lavorare presso Erio Falchetti: «Si esprime parere sfavorevole a che la persona in oggetto
sia nuovamente trasferita in questo Comune, in considerazione che durante
il tempo di permanenza ha dimostrato di essere contrario al Regime ed esprimeva tali suoi sentimenti. Inoltre non si atteneva alle prescrizioni impostegli.
Occorrerebbe pertanto nei di lui riguardi un’assidua vigilanza, che non è possibile sia esercitata dallo scrivente». (14 gennaio 1943)
Invece quando Rosa chiederà di ritornare a Castelnovo, dopo due mesi
passati al Ricovero di Reggio Emilia, darà parere favorevole.
114
Il Ricovero di mendicità
Durante l’estate 1942 il problema di come alloggiare gli internati in condizioni più umane, non si risolve, anzi si aggrava. Come abbiamo visto sono
stati ricoverati temporaneamente in stanze «senza alcun effetto lettereccio».
L’acquisto di coperte, lenzuola e pagliericci, indispensabili con l’arrivo della
brutta stagione, deve essere approvato addirittura dal ministero dell’Interno. In
più, i privati rivogliono le camere, come scritto in un ricorso presentato dalla
signora C.G. il 5 ottobre del 1942 al questore:
faccio domanda alla s.v. perché mi venga libera la camera occupata dagli internati,
avendone necessità. Io questa stanza, facendo sacrifici, l’affittavo nella stagione
estiva per alleggerirmi un po’ l’affitto, che pago anch’io, ma d’inverno mi necessita
perché non si può dormire alla meglio come d’estate… Sono andata più volte dal
Podestà e dal segretario loro mi hanno sempre promesso, dicendomi che quando
era partito i villeggianti me l’avrebbero spedita33 invece niente. L’ultima volta che
ci sono andata mi hanno detto che ora siete Voi che comanda a questi internati e
senza di Voi non fanno niente. Sono a pregare la s.v.i. perché il più presto possibile
mi faccia spedire la stanza. Credo che non sia difficile ora trovare una stanza dato
che Castelnovo ospitava più di mille villeggianti ed ora non ci sono più. Spero che
anche a Voi non faccia domanda vana. Colla speranza di essere esaudita saluto
fascisticamente. aff.ma C.G.34.
Il podestà, interpellato dal questore risponde telegraficamente: «gli internati
abitanti nella casa in oggetto saranno trasferiti altrove».
La cosa non è però di facile attuazione. I piccoli comuni si preparano anche
ad accogliere gli sfollati dalle città bombardate35. I posti letto ora sono necessari agli italiani. In molti altri luoghi d’Italia gli internati liberi verranno trasportati
nei campi di concentramento, con un peggioramento delle loro condizioni. A
Reggio Emilia si trova una soluzione diversa.
Il podestà raggiunge un accordo con Prefettura e questura per trasferire
una parte degli internati:
Conformemente a quanto stabilito … si propone che i seguenti distinti gruppi
familiari di internati civili slavi, siano trasferiti altrove avuto riguardo che alcuni di
essi sono alloggiati presso privati che non possono più ospitarli per ottime loro
ragioni; in proposito esiste anzi un ricorso inviato alla R. Questura e poi qui diretto
per competenza. Bisogna poi tener presente che approssimandosi l’inverno sarebbe necessario – ed in parte esiste già tale stato di fatto – riunire promiscuamente
uomini e donne in uno stesso ambiente. (27 ottobre 1942)
Dall’elenco, allegato alla richiesta, mancano: Zora e la madre Maria, Rosa
Zoretic, Paolo Gasperini, Stefano, Giacomo e Vladimiro Kaifes. Non si sa in
base a quale criterio sia stata compilata la lista; in ogni caso il questore, il 3
novembre 1942 invita il podestà a trasportare tutti i diciassette internati al
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Ricovero di mendicità di Reggio Emilia, per ordine della locale Prefettura.
Il ricovero, a Villa Ospizio, sulla via Emilia, è una struttura assistenziale,
nata come opera di carità agli inizi del 1800. Gli internati vi arrivano il 7 novembre e vengono regolarmente registrati:
Visto e con riferimento a Prefettizia 3 novembre 1942 n. 07890 p.s. in atto dall’eca
n. 1461 si scriva alla Regia Prefettura trasmettendo l’elenco dei 17 ricoverati e comunicando che gli stessi sono stati accolti come da istruzioni a carico dello stato e
che verrà nei loro confronti applicata la retta minore (cat. Comuni) in corso per i
degenti del Pio luogo e precisamente l. 5,10 giornaliere.
Con la presente si accompagnano le denunzie individuali di ammissione36.
Qui alloggiano nel reparto “comuni” che ospita persone autosufficienti;
le donne e i bambini in una grande camera. La vita continua come al solito,
con il problema di rimediare un po’ più di cibo. Si accettano lavori faticosi e
sgradevoli.
La sera andavo in chiesa a pregare con le suore – ricorda Maria Miculic – Come
sono buone le suore del ricovero! Pierina, Andreina, Rachele. Mi volevano molto
bene. La mia mamma lavava i panni sporchi del ricovero o andava a vendemmiare.
C’era una signora anziana che aveva il pitale sotto il letto e mi dava 5 lire al mese
per vuotarlo. Ogni giorno c’era pasta con verze. C’erano due cuochi, uno magro e
uno grasso. La madre di Anna chiedeva alla mia: c’è il cuoco grasso o quello magro? Perché il grasso ne faceva meglio e ne metteva nel piatto un po’ di più.
La madre di Anna Sudan trova lavoro. «Noi rimanevamo con la nonna
mentre la mamma andava a servizio in un’osteria lì vicino – racconta Anna
– Eravamo così malvestiti, che una signora, che si chiamava Iris comprò a me e
a mio fratello degli abiti nuovi. Le facevamo pietà. Poi ci fece fare una fotografia, da un fotografo di Reggio Emilia. Quando siamo tornati a casa mio fratello
morì per una malattia ai polmoni e lo seppellimmo con quei vestiti».
Anna è traumatizzata, spesso devono andare nel rifugio (forse le cantine
dell’edificio) per gli allarmi aerei. È una bambina di cinque anni e ricomincia a
fare la pipì a letto. «Erano molto arrabbiati con me, perché sporcavo le lenzuola. Una volta eravamo a Messa, mentre parlava il prete, mia nonna si è messa
a gridare, non so perché e non ricordo cosa disse, ma tutti la guardavano».
Ha un altro episodio inquietante da raccontare, di cui la madre le deve aver
parlato spesso: «La mia mamma è andata a fare la confessione e il prete ha
tentato di toccarla, quando lei si è ribellata, lui ha detto: tu non sei fatta della
mia stessa carne e del mio sangue».
Zora Kukulian, va a servizio da una signora, il cui marito è un impiegato
della questura. Qualcuno, tra i militari, addetti alla … sorveglianza degli internati, ha messo gli occhi su di lei, una bella ragazza di ventidue anni, e tenta di
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usarle violenza: «Un giorno è venuto al ricovero un soldato e mi ha detto che
mia sorella mi aveva mandato una bottiglia d’olio. L’ho seguito e lui invece mi
ha portato in una casa dove c’erano le prostitute. Con tutte le forze sono scappata e dopo lui mi ha detto di tacere, perché era sposato, capisci? Dell’Italia mi
ricordo lavoro e sempre lavoro. Lavoro e dormire, non avevo altro. Piangevo
ogni giorno…».
L’unico uomo della famiglia, lo zio Jure, malato da tempo ai polmoni, muore dopo il suo arrivo a Reggio Emilia: «Si annunzia che il giorno 21 [novembre
1942] è morto nel Pio luogo Kukulian Giorgio fu Vincenzo. Celibe. Nato a
Kukuliani il 12 aprile 1877 e ivi domiciliato»37.
Per fortuna, gli appelli di Maria per ricongiungersi al marito hanno un esito
positivo: «Il giorno 13 febbraio 1943 è stato accolto nel Pio Luogo Kukulian
Tommaso figlio di Vincenzo e Simacic Maria, coniugato con Stefan Maria, nato
il 2.1.1878»38.
Da gennaio 1943 il Registro di protocollo inizia a registrare le dimissioni di
qualche internato: «Si denunzia che il 2 gennaio 1943 è stata dimessa Zoretic
Rosa con autorizzazione ministeriale».
La dimissione, non significa però proscioglimento dall’internamento. Per
qualcuno coincide, per altri no. Rosa, ad esempio, ottiene di ritornare a
Castelnovo a lavorare presso il Cafè Italia, ma sempre in qualità di internata
libera, «opportunamente vigilata»39 dal podestà.
Zora e la mamma vengono dimesse a maggio del 1943, riescono a tornare
a casa, dove vivono dalla sorella a Sussak. «La nostra casa non c’era più».
Dopo la caduta del fascismo, gli internati non vengono prosciolti, come
sarebbe logico aspettarsi. Si susseguono norme40 a volte contraddittorie.
Anche se ottenessero il proscioglimento, gli slavi non saprebbero dove andare: «Al ricovero ci dicevano di non tornare a casa perché là c’era una grande
guerra». (Maria)
Le truppe tedesche, che tra il 9 e il 14 settembre del 1943 occupano Reggio
Emilia, ne trovano ricoverati ancora dieci, ma non risulta che se ne interessino. Invece la Repubblica sociale emana il 1° novembre 1943 una disposizione abrogativa dei provvedimenti di libertà dall’internamento presi, con grave
ritardo, dal governo Badoglio. Il ministero dell’Interno chiede anzi che sia
compilata una lista di quanti sono tenuti nei campi o nelle località di internamento.
La situazione non deve essere molto tranquillizzante, forse arriva da casa
qualche voce sulle deportazioni in Germania ed è meglio non farsi trovare
così facilmente.
Il 10 settembre vengono dimessi Giovanni Covacich e Paolo Gasperini, ma
di loro non sappiamo nulla; il 10 novembre se ne va Tommaso Kukulian che
torna a casa. Il 4 dicembre 1943 è la volta delle famiglie di Anna e Maria.
Rosa è sempre internata a Castelnovo ne’ Monti dove lavorerà fino al 1944.
Se ne allontanerà in aprile, senza permesso, dopo aver inutilmente chiesto di
117
ricongiungersi a parenti internati a Ferrara.
Gli ultimi ad andarsene sono Rodolfo Gregoric, Giacomo Kaifes, Wladimiro
Kaifes, Stefano Kaifes, il 7 giugno 1945, a guerra finalmente conclusa.
Il rientro nei luoghi di origine non è facile. Le case sono distrutte, i campi
incolti:
Non avevamo più niente – ricorda Anna – Kukuliani non esisteva più. Noi abbiamo
dormito per tanto tempo in una stalla e ancora si pativa la fame. Mio padre tornò
dal campo di concentramento di Dachau, dove gli era morto un fratello e anche
lui pesava 39 chili. Poco dopo il suo arrivo morì suo figlio, mio fratello Antonio. Io
sono stata un mese all’ospedale di Fiume, mi si era storta tutta la bocca, penso per
la paura di quello che ho passato.
–––––––––––––––––––––––––
1
La ricerca storica sugli ebrei libici è in corso.
2
Altre località di internamento in provincia di Reggio Emilia furono: Quattro Castella, Poviglio,
Reggiolo, principalmente per ebrei stranieri o sudditi di stati nemici. Archivio centrale di Stato,
Fondo ministero dell’Interno PS A 5G stranieri ed ebrei stranieri, busta 53, elenco della Croce
rossa.
3
C.S. Capogreco, I campi del duce, L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), Einaudi,
Torino 2004.
4
Sulla carta, era un regno della casa Savoia, ma in realtà governato da Ante Paveliç, capo del
movimento nazionalista ustascia. Con la complicità del regime fascista e nazista, gli ustascia
commisero spaventose atrocità sterminando serbi, ebrei, zingari e dissidenti politici nel campo
di sterminio di Janosevac.
5
Distretti e comuni annessi alla provincia del Carnaro (dati del censimento luglio 1941), in
D. Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista in
Europa (1940-1943), Bollati Boringhieri, Torino 2003.
Distretti/ Comuni
Popolazione
Distretto Cabar
12331
Castua
9600
Distretto Veglia
19442
Arbe
6998
Sussa distretto
33340
Di cui Jelenie
4537
Totale provincia Carnaro
81711
In <www.criminidiguerra.it>. Altri studi documentano un piano per la soluzione “definitiva”
del problema slavo. Ad esempio, C.S. Capogreco, Renicci un campo di concentramento in riva
al Tevere, Mursia, Milano 2003.
7
G. Oliva, Si ammazza troppo poco, Mondadori, Milano 2006.
8
Capogreco, I campi del duce, cit., p. 79.
9
«Stando ai dati certi sinora raccolti perirono nei campi di concentramento italiani oltre 2424
internati, la maggior parte dei quali – ben 1435 – sulla sola isola di Arbe». T. Ferenc, Gli internati
sloveni e croati deportati sull’isola di Arbe e in Italia, in
6
118
http://centri.univr.it/resistenza/indesiderabili/Ferenc. Vedi anche Capogreco, I campi del duce,
cit., p. 268.
10
«Gli uffici governativi, banche ecc. retti esclusivamente da italiani nonché le case abitate solo
da italiani non debbono essere sottoposti a perquisizione, anche per tener alto il prestigio della
razza di fronte alla popolazione. Analogamente gli italiani riconosciuti durante i fermi debbono subito essere messi in libertà e trattati con visibile deferenza». Comando della Divisione di
fanteria granatieri di Sardegna, Ufficio del Capo di S.M. Sezione operazioni e servizi P.M. 81, 26
febbraio 1942 XX n. 3290 di prot. Op. OGGETTO: Disarmo popolazione Lubiana, in
<www.criminidiguerra.it>.
11
Nella provincia del Carnaro agisce il V Corpo d’armata della 2a armata. La 2a armata è comandata dal gennaio 1942 al gennaio 1943 dal generale Roatta, già sottocapo di Stato maggiore,
promosso poi dal maggio 1943 a capo di Stato Maggiore del R.E. Indicato come criminale di
guerra dalla Jugoslavia.
12
Comando 2a Armata – Stato Maggiore – Circolare 3C, in Oliva, op. cit., Documenti.
13
Oliva, op. cit. [in Documenti].
14
Su Temistocle Testa vedi C. Di Sante, Italiani senza onore, Ombre corte edizioni, Verona 2005;
U. Pellini, Temistocle Testa, in “RS-Ricerche Storiche” 101/2006.
15
Il V Corpo d’armata era costituito da: Divisione granatieri, Divisione R.E., Divisione Lombardia,
Divisione I Celere, V raggruppamento gaf (Guardia alla frontiera) in Rodogno, op. cit., p. 512.
16
G. Scotti, Innocenti e colpevoli nell’inferno a cielo aperto in <www.storiain.net>.
17
Podhum è un piccolo villaggio, oggi non molto diverso dal 1942. Il 12 luglio fu incendiato,
da truppe italiane e milizie fasciste nel corso di un’azione di rappresaglia. Le vittime del rastrellamento di quel giorno furono in tutto 108, 91 gli uomini prelevati e uccisi in una vicina cava
di pietra, dove oggi sorge un monumento alla memoria. Il più giovane aveva 13 anni. Nessun
responsabile è stato mai condannato per l’eccidio.
18
Archivio storico del comune di Castelnovo ne’ Monti, Cartella 1942, sezione Pubblica sicurezza, cat. XV.
19
Le testimonianze a cui si fa riferimento nel testo sono di Maria Miculic, Zora Kukulian, Anna
Sudan e sono state registrate dalla sottoscritta nelle loro abitazioni, il 25 marzo 2006.
20
Il maggiore comandante del gruppo dei reali carabinieri Raffaele Lombardi e il capitano capo
ufficio C. Mortarotti, scrivono il 29 aprile 1942: «È necessario tener presente che ove fossero
ritenuti necessari provvedimenti di vasta portata (internamento di tutte le famiglie in campi di
concentramento, sgombero generale delle popolazioni, deportazione degli uomini validi per
evitare che essi vengano costretti ad arruolarsi nelle bande) occorre tutta una attrezzatura in
mezzi di trasporto, viveri, locali ecc. che in atto manca completamente. L’internamento dei famigliari di coloro che si sono volontariamente dati alle bande è iniziato e continua man mano che
procede l’accertamento. Gli internati vengono tradotti al campo di concentramento di Laurana.
La confisca dei beni viene effettuata d’accordo con l’autorità civile amministrativa» in
<www.criminidiguerra.it>.
21
Istituto Storico dell’Esercito della Jna, Archivio delle truppe nemiche, Num Reg 79-1/F K 316/F
(per gentile concessione di Carlo Spartaco Capogreco, traduzione di Slobodan Fazlaci).
22
Archivio storico del comune di Castelnovo ne’ Monti, Cartella 1942, sezione Pubblica Sicurezza,
cat. XV.
23
Ibidem.
24
Archivio storico del comune di Castelnovo ne’ Monti, Fascicolo eca 1941-1946.
25
Per i nomi mi sono attenuta alla trascrizione negli elenchi ritrovati nell’archivio comunale, anche se furono italianizzati dalle autorità italiane (ad esempio Jure diventò Giorgio, Ivan diventò
Giovanni, ecc.) e si trovano trascritti in modi diversi.
26
Campo per ebrei stranieri, fu poi riservato principalmente ad “ex- jugoslavi”, in C.S. Capogreco,
op. cit., p. 208.
27
Archivio storico del comune di Castelnovo ne’ Monti, Fascicolo eca 1941-1946, circolare n.
17153, Spese per internati isolati-contabilità.
28
Archivio storico del comune di Castelnovo ne’ Monti, Fascicolo eca 1941-1946.
29
Cfr. Capogreco, I campi del duce, cit., p. 129.
119
Archivio storico del comune di Castelnovo ne’ Monti, Cartella 1942, sezione Pubblica
Sicurezza, cat. XV.
31
Si può trattare del 15 agosto, Santa Maria, sagra di Castelnovo.
32
Gerle, tascapane.
33
Liberata.
34
Archivio storico del comune di Castelnovo ne’ Monti, cit.
35
Il 5 maggio del 1943 la popolazione globale effettiva di Castelnovo risulta essere di 8449
abitanti di cui ben 1050 sfollati.
36
Registro di Protocollo 1942-1945, Archivio Reggio Emilia Terza Età (rete). La vita al ricovero
di mendicità è stata ricostruita esclusivamente dalle testimonianze, poiché nell’archivio non si
è potuta rintracciare la cartella “Internati slavi”, a cui si fa riferimento nel registro di Protocollo.
Quest’ultimo reca soltanto gli arrivi, le dimissioni e le morti.
37
Registro di Protocollo 1942-1945 Archivio rete.
38
Registro di Protocollo 1942-1945 Archivio rete.
39
Archivio storico del comune di Castelnovo ne’ Monti, Cartella 1942, sezione Pubblica
Sicurezza, cat. XV.
40
Una rassegna completa si trova in Capogreco, I campi del duce, cit., p. 285.
30
120
Documenti
Anna Sudan oggi, nella sua casa di Kukuliani, Croazia. La foto in primo piano, scattata a Reggio Emilia durante l’internamento, la ritrae
insieme al fratello Antonio con i vestiti nuovi donati dalla signora
Iris. Nel retro della stessa c’è un indirizzo sbiadito del fotografo “Via
Emilia S. Pietro. (foto di G. Maioli)
La signora Hlaka Stanca con i figli Antonio e Anna, durante l’internamento a Reggio Emilia. Sullo sfondo la porta dell’osteria dove Hlaka
aveva trovato lavoro. Proprietà signora Anna Sudan
121
Albergo del Teatro oggi Bismantova, ubicato nello stessa via.
(foto di Andrea Paolella)
Cartolina illustrata di Castelnovo ne’ Monti (via Roma), spedita dall’internata
Zora Kukulian alla sorella. Agosto 1942. Si noti la croce tracciata a mano
sull’albergo del Teatro.
122
Il retro della cartolina precedente. Traduzione «Saluti da
Jure e mamma. Ti faccio sapere
che abbiamo ricevuto la tua lettera. Noi ti abbiamo scritto tante volte, ma non abbiamo avuto
risposta. Questa è la cartolina
del posto dove ci troviamo. La
mamma piange sempre e sta in
pensiero per voi. Guarda dove
c’è la croce, noi lavoriamo lì».
Zora Kukulian oggi, nella sua casa di Rijeka. (Foto G.Maioli)
123
Maria Miculic oggi, nella sua casa di Podhum. (Foto di G. Maioli)
Un gruppo di internati fotografati a Reggio Emilia. Da sinistra: Giorgio Kukulian,
Rosa Zoretic, Maria Stefan, Zora Kukulian. (Proprietà Anna Sudan)
124
Cartolina illustrata di Castelnovo ne’ Monti negli anni ’40 con il Caffè Italia, dove lavorò l’internata Rosa Zoretic. (Collezione Danilo Amorosi)
Il Caffè Italia oggi. (foto di Andrea Paolella)
125
Cartolina illustrata di Castelnovo ne’ Monti, Caffè Italia, interno. Al banco il proprietario
Vincenzo Amorosi e una commessa. (Collezione Danilo Amorosi)
L’attuale interno del Caffè Italia. (foto di Andrea Paolella)
126
Fabbrico
Una battaglia che
non s’aveva da fare?*
Michele Bellelli*
La cronaca
Il 26 febbraio 1945 un reparto di una decina di uomini della brigata nera
provenienti da Novellara si recò in paese per compiere un’azione di controllo
antipartigiana e requisire un veicolo. Non riuscendo nel loro intento terrorizzarono la popolazione sparando alcuni colpi in aria nel centro del paese chiedendo spavaldamente che i ribelli uscissero allo scoperto, per poi prendere la
via del ritorno verso Campagnola. Appena usciti dall’abitato i brigatisti caddero
in un’imboscata tesagli da un gruppo di partigiani. Nel conflitto a fuoco che ne
seguì, colti di sorpresa, lamentarono diverse perdite senza riuscire a loro volta
ad infliggerne ai patrioti. Alla fine dello scontro gli uomini della brigata nera
rimasti uccisi erano quattro: il capitano Gino Janni e i militi Luigi Sanseverino,
Lino Luppi e Domenico Cocchi. Nella battaglia morirono anche due soldati
tedeschi, transitanti casualmente sulla strada per Campagnola con una motocicletta, e rimasero vittime dei partigiani. Giunta notizia dello scontro i vertici
fascisti decisero di attuare un’immediata rappresaglia. Il giorno successivo si
recarono a Fabbrico diversi reparti della brigata nera ed anche uno della gnr
giunto da Reggio Emilia. Gli obiettivi dei militi erano recuperare le salme dei
camerati caduti il giorno precedente e trovare, e naturalmente punire, i responsabili dell’agguato. Come già accaduto il giorno 26, non poterono compiere la
*L’autore desidera ringraziare sentitamente il signor Giuseppe Todaro, ricercatore di Porto
Empedocle (AG), per l’aiuto fornitogli nell’identificare con esattezza i dati anagrafici di Luigi
Spoto e Antonio Spoto e Mario Frigeri.
127
loro missione e in particolare la salma del capitano Janni non era stata consegnata. I fascisti presero ventidue ostaggi fra la popolazione civile, minacciando
la loro esecuzione nel caso non fossero state soddisfatte le loro richieste. I
partigiani si trovarono di fronte al dilemma se accettare o meno l’ultimatum. In
una riunione fra alcuni dirigenti della Resistenza fu deciso di tentare la liberazione degli ostaggi ingaggiando nuovamente battaglia coi fascisti.
Rolando Cavandoli ha raccolto le testimonianze di alcuni dei partecipanti:
Egidio Baraldi Walter (vice comandante della 77a Brigata sap), in zona sin dal
pomeriggio del 26 per partecipare ad una riunione precedentemente indetta,
saputo dello scontro rimase sul posto «perché alla sera ci sarebbe stata sicuramente una riunione per esaminare le conseguenze del combattimento del pomeriggio». Armando Bellesia Angiolino: «alcuni sostenevano di non inasprire
la rappresaglia nemica con altre azioni, altri dicevano che occorreva proprio
impedire la rappresaglia con il combattimento. I fascisti ci hanno sfidati … a
uscire allo scoperto. Si sfogheranno sui civili se non lo faremo». Aldo Ferretti
Toscanino (37a gap) «la conclusione della riunione fra dirigenti partigiani e
politici [fu che] il nemico sconfitto avrebbe fatto senz’altro la rappresaglia e
perciò non si poteva abbandonare gli abitanti di Fabbrico in balia dei fascisti»1.
Rapidamente vennero mandate staffette ad avvertire i distaccamenti sappisti
dei paesi vicini di Rolo, Campagnola, Rio Saliceto e Correggio di tenersi pronti
all’azione.
Le camicie nere avevano portato gli ostaggi sul luogo dello scontro del
giorno precedente e fu lì che furono nuovamente attaccate. I distaccamenti
sappisti guidati da Gora (Silvio Cesare Terzi di Fabbrico), Cesare (Agostino
Nasi di Rolo) e Nansen (Archimede Benevelli di Carpi) e la squadra gap di
Abbo (Leo Severi) aprirono il fuoco sulle due colonne di militi che stavano ai
lati della strada (gli ostaggi erano al centro della carreggiata). Quando i partigiani iniziarono la sparatoria i fascisti si gettarono nei canali ai lati della via per
poi cercare rifugio in una vicina abitazione, ma nel tentativo di attraversare il
terreno che separava il canale dalla villa Ferretti Tapparelli e avere in tal modo
una posizione più riparata dalla quale rispondere al fuoco, subirono pesanti
perdite. Alla fine delle quattro ore di battaglia rimasero sul terreno dodici persone: un civile, tre partigiani, sei membri della brigata nera, uno della gnr ed
un ufficiale tedesco. I patrioti erano i sappisti Leo Morellini Bigatto (membro
del comitato d’agitazione della Landini), Luigi Bosatelli Enzo e Piero Foroni
Ratto. I caduti della brigata nera erano il sottotenente Ostilio Casotti, il sergente Corinto Baliello e i militi Giancarlo Angelini, Franco Volpato, Ugo Fringuelli
e Giuseppe Ghisi, quasi tutti giovanissimi fra i sedici e i venti anni; morì anche
il milite della gnr, Luigi Spoto. L’unico civile rimasto vittima della battaglia è
stato il messo comunale Genesio Corgini. Durante tutta quella lunga giornata
la popolazione rimase in costante apprensione per l’esito dello scontro e per
la sorte degli ostaggi. L’operazione di salvataggio coraggiosamente intrapresa
dai partigiani comportava una dose di rischio elevatissima per gli ostaggi, che
128
avrebbero potuto essere trucidati ai primi spari, oppure rimanere vittime del
fuoco incrociato fra i patrioti e i militi; era del resto la loro unica possibilità
di poter fuggire, nel caos generato dalla battaglia, e di non essere le vittime
designate dell’ennesima rappresaglia fascista. Un rapporto stilato da Gora e
da Tom (Lino Battini, commissario della 77a Brigata sap) rende noto al destinatario, rimasto purtroppo sconosciuto, che la popolazione fabbricese ai primi
spari rimase in preda al panico e allo sconforto poiché riteneva trattarsi del
supplizio dei propri concittadini, ma quando i primi ostaggi liberati rientrarono in paese e cominciarono a diffondere le prime notizie del combattimento
vi furono «incontenibili manifestazioni di giubilo […] ovunque partivano lodi
all’indirizzo dei patrioti». Sull’onda dell’entusiasmo per lo spettacolare successo ottenuto sul nemico Silvio Cesare Terzi annunciava anche che: «Mai la storia
d’Italia registrò una sì totale partecipazione come a questa cruenta e sanguinosa battaglia. La popolazione tutta gareggiò in coraggio, sprezzo del pericolo e
profondo spirito d’altruismo [nel correre sul luogo dello scontro per soccorrere
i feriti e i fuggitivi, ndr]. […] Un sì brillante successo lo si deve anche in parte
a questa generosa e coraggiosa gente di Fabbrico»2.
Luci e ombre
Questa è la cronaca della battaglia nelle sue linee generali. Alcune ricerche
compiute recentemente hanno posto in evidenza dei particolari rimasti fino ad
oggi sconosciuti o ignorati. Un libro edito nei mesi scorsi e scritto da Gianni
Amaini ha per la prima volta messo in luce alcuni di questi aspetti inediti: il
nome dei tre soldati tedeschi uccisi, l’inspiegabile mancata rappresaglia dell’esercito germanico e l’altrettanto incomprensibile comportamento dei reparti
fascisti impegnati il 27 febbraio.
Iniziamo con il chiarire definitivamente l’identità dei militari tedeschi e il
perché del loro coinvolgimento nella battaglia. Come è noto due morirono il
primo giorno, incappando nell’imboscata che i partigiani tesero ai brigatisti
neri guidati dal capitano Janni. Fino ad oggi si riteneva trattarsi di due portaordini mentre, grazie alle ricerche compiute da Amaini negli archivi militari
tedeschi, si è scoperto che erano due soldati semplici della Luftwaffe. Friedrich
Heusel, trentasei anni di Francoforte ed Ernst Bachmann, quarantun anni di
Dortmund (questi i loro nomi) erano entrambi meccanici in forza al piccolo
campo di volo che l’aviazione germanica aveva allestito a Novellara. Erano
soliti andare alla Landini per consegnare e ritirare pezzi di ricambio necessari
al loro lavoro, cosa che fecero anche il 26 febbraio. L’ufficiale ucciso il giorno
successivo era il maggiore Viktor Smola di Praga; un ufficiale medico incautamente avvicinatosi sul luogo dell’azione per soccorrere i feriti3.
Non erano i soli tedeschi presenti a Fabbrico quei giorni: ve n’erano altri
tre, disertori schieratisi dalla parte dei partigiani. Uno di essi, Walter Fischer di
129
Chemnitz, ebbe parte attiva nella battaglia insieme al distaccamento sappista
di Rolo guidato da Agostino Nasi. Nell’archivio di istoreco sono emerse alcune
sue note biografiche: nel 1933 era stato incarcerato per diversi mesi perché
aveva rifiutato di iscriversi al partito nazista, ed anche negli anni successivi
subì diverse vessazioni per il suo reiterato rifiuto di aderire al movimento hitleriano4.
Al momento di disertare, nel maggio 1944, era sotto le armi da sessanta mesi, vale a dire dall’inizio della guerra. Abbandonò l’esercito tedesco a
Milano dove si unì alle locali sap. È possibile, per quanto non si possa al momento dimostrare con certezza, che la sua presenza a Fabbrico negli ultimi
mesi di guerra (dal novembre 1944) non sia stata casuale: risulta, infatti, che
egli a Milano era divenuto una sorta di ufficiale di collegamento fra il cln locale e l’oss (Office of strategic services, Servizi segreti statunitensi). Proprio a
Fabbrico (dopo essere stata operante nel modenese) si stabilì nel marzo 1945
una missione dell’oss, composta da personale italiano, con il compito di collegarsi ai locali partigiani (il suo capo era Giovanni Cuttini Silvano, coadiuvato
da Giuseppe Faiani Iki o Antonio).
Altri due soldati tedeschi erano in forza al distaccamento sap fabbricese,
anche se è poco probabile che presero parte alla battaglia: Heirvz Schaberu
Meus e Konrad Lodbig5 Carlo, entrambi di origine austriaca ed entrambi arruolati nella 77a Brigata sap a partire dal 1° gennaio 19456. Quando un soldato
tedesco disertava per raggiungere i partigiani non era immediatamente inserito
in una formazione combattente, ma, per evitare il rischio che si trattasse di
una spia, subiva prima una sorta di periodo di prova durante il quale avrebbe
dovuto dimostrare la sua buona fede. Meus e Carlo erano coi sappisti solo
da capodanno, meno di due mesi quindi, un tempo forse non sufficiente per
conquistare la fiducia dei patrioti.
Il (mancato) evento più sorprendente di quei giorni è la clamorosa decisione dei comandi tedeschi di non procedere all’abituale rappresaglia per l’uccisione di tre loro soldati. Il 28 febbraio 1945 nella sede del Platzkommandantur
di via Racchetta a Reggio Emilia il maggiore Frase (comandante militare della provincia) s’incontrò con Gianni Landini, il curato di Fabbrico don Igino
Artoni ed un’interprete. Inaspettatamente i tre convinsero l’ufficiale a rinunciare a vendicare i tre commilitoni uccisi.
Generalmente alla morte di un soldato tedesco la rappresaglia scattava
inesorabile nel minor lasso di tempo possibile: giusto quello necessario per
radunare gli uomini e giungere sul posto. In questo caso non avviene nulla
di simile. I comandi nazisti sanno che, sulla strada abitualmente percorsa dai
meccanici dell’aeroporto di Novellara, c’è stato un agguato dei ribelli e che
diversi camerati della brigata nera sono morti, ma all’appello mancano anche
due tedeschi dei quali ignorano la sorte7. Forse sono stati uccisi durante l’agguato oppure sono stati catturati, non è da escludere poi che possano aver
disertato. Una situazione difficile quindi, che avrebbe dovuto indurli quanto
130
meno ad andare sul posto per compiere delle indagini. Forse contano di farlo
il giorno successivo, unendosi ai fascisti che caleranno sul paese, ma il giorno 27 non c’è traccia di soldati tedeschi a Fabbrico fino al tardo pomeriggio,
con l’eccezione dell’incauto maggiore Smola. Durante tutta la battaglia, durata
diverse ore, i tedeschi non si avvicinarono al paese, pur avendo presidi nei
paesi vicini (ma a quanto pare neanche le guarnigioni fasciste si muovono in
aiuto dei camerati). Secondo Giovanni Cuttini esisteva una sorta di patto di
non belligeranza reciproco, dal quale erano esclusi i fascisti, fra i tedeschi e
i partigiani della zona. L’esistenza di questo patto sarebbe dimostrata anche
dalla mancata reazione tedesca ai lanci di materiale bellico che l’oss organizzò
per i partigiani proprio nella zona di Novellara, pochi giorni dopo gli eventi
di Fabbrico. In un suo libro di memorie Cuttini ricorda come gli uomini della
77a fossero stati letteralmente sorpresi con le mani nel sacco da una colonna
di camion tedeschi, ma la situazione anziché scatenare una furiosa sparatoria
si risolse in pochi minuti e senza alcuno spargimento di sangue:
Ad un tratto sulla strada era apparsa una colonna motorizzata tedesca. In un attimo
i partigiani si sistemarono ai lati del campo, pronti ad affrontare l’inaspettato intruso. Successe qualcosa di straordinario che non mi sarei mai aspettato di vedere.
Il camion di testa doveva aver fatto un segnale distensivo (era stato sventolato un
fazzoletto bianco, o qualcosa del genere), perché vedemmo correre alcuni partigiani in quella direzione e patteggiare coi tedeschi affacciati alla finestrella della
cabina di guida. Un fatto davvero incredibile, ma pieno di significati. Passato un
po’ di tempo in cui avevo visto alternarsi tra noi momenti di tensione e di speranza
insieme, perché non si capiva bene come le cose andassero realmente a finire, la
colonna finalmente si mosse. La colonna motorizzata quindi non era giunta per
caso. Antonio [Giuseppe Faiani], che aveva voluto essere presente alla trattativa
coi tedeschi, mi disse che il nemico era venuto soltanto per trattare con le forze
partigiane: non una formale e dolorosa resa, ma una specie di non belligeranza per
evitare ulteriori e inutili perdite umane8.
Vere e proprie anomalie (tanto la mancata rappresaglia quanto l’accordo segreto partigiani-tedeschi con esclusione dei fascisti), poste ancor più in
evidenza dalle spettacolari stragi compiute dai nazifascisti nei primi mesi del
1945: fra il 17 e il 20 dicembre 1944 a Villa Sesso furono uccise venti persone
da parte dei fascisti, il 28 gennaio a Pieve Modolena (sul torrente Quaresimo)
furono trucidati altri dieci patrioti, il 9 febbraio ventuno ostaggi sono fucilati a
Cadè ed altri venti a Calerno il giorno 14. Proprio il 28 febbraio è poi il giorno
nel quale vennero uccisi a Cadelbosco Sotto Paolo Davoli ed altri nove patrioti9 dopo lunghe torture. La strage del Ponte Cantone presso Calerno è rappresentativa per chiarire l’eccezionalità del trattamento riservato a Fabbrico.
Ad un attentato compiuto dai sabotatori della 144a Brigata Garibaldi i tedeschi
risposero presentandosi in paese e minacciando di distruggerlo e massacrarne
gli abitanti. Come sarebbe avvenuto due settimane più tardi, anche in questo
131
caso si accese una trattativa per cercare di evitare la temuta rappresaglia e,
come per Fabbrico, i suoi protagonisti furono il maggiore Frase e i parroci del
luogo don Italo Paderni e don Alboni. I tedeschi accettarono di risparmiare la
frazione, ma vollero compiere ugualmente la loro vendetta così prelevarono
venti ostaggi dalle carceri di Parma, li portarono a Calerno e li fucilarono.
Uno dei giustiziati, Oreste Tosini, riuscì a sopravvivere alla scarica del plotone
d’esecuzione e i due parroci chiesero nuovamente clemenza al maggiore Frase
che in quell’occasione si dimostrò inflessibile e ordinò che il sopravvissuto fosse nuovamente fucilato. Eventi simili quindi, ma esiti notevolmente differenti,
perché? Forse semplicemente per una diversa abilità degli intermediari, o per
semplice fortuna o magari per misteriosi ordini superiori di cui non sapremo
mai nulla (i presunti accordi fra tedeschi e partigiani di cui parlava Cuttini?).
Un altro punto da approfondire è il comportamento dei militi fascisti il 27
febbraio, mandati in battaglia, come ha scritto Amaini, con direttive di comportamento demenziali.
Guardiamo più da vicino chi, per la rsi, combatté quel giorno. Al comando
del maggiore Giovanni Belleré della gnr erano presenti la Compagnia giovanile della 30a Brigata nera e un’aliquota della compagnia Ordine pubblico
(op) della Guardia nazionale repubblicana, guidata dal sottufficiale Tommaso
Catellani.
Citando gli archivi parrocchiali del paese Amaini, sostiene che la mattina
del 27 si svolte una sorta di trattativa fra militi e partigiani per tentare di evitare
lo scontro frontale fra i due schieramenti.
Era così nota la situazione che il parroco del paese don Francesco Bassoli, impegnò il suo curato don Igino Artoni, che aveva contatti coi capi partigiani Cesare,
Gora e Nansen, in un tentativo di scongiurare lo scontro armato … Al mattino del
27 con la sua bicicletta e agitando un grande fazzoletto bianco don Artoni si recò
prima dalla gnr che era nel centro del paese e poi dai partigiani già appostati a due
km sulla strada per Campagnola10.
Dopo che i fascisti avevano radunato gli ostaggi, prima nei capannoni della
Landini poi in via De Amicis, una donna si offerse volontaria per accompagnare alcuni militi a cercare i corpi di Gino Janni e dei suoi, in cambio del rilascio
dei prigionieri. La ricerca non ha esito positivo, ma almeno vale la liberazione
degli ostaggi sotto i quattordici anni e sopra i sessanta. Nel frattempo, sono
circa le 12:30, don Bassoli giunge per la sua trattativa dai partigiani i quali, per
bocca di Nansen, fanno sapere che desisteranno dall’attacco se tutti gli ostaggi
verranno liberati. Il parroco replica che prima i fascisti vogliono le salme dei
loro caduti, ma Nansen afferma che nessuno sa o vuole dire nulla al riguardo.
Don Bassoli torna in paese per informare i militi (che quindi sanno perfettamente che i partigiani sono appostati e pronti a riceverli); Bellerè ordina ai
suoi uomini di mettersi in marcia per Novellara, a piedi11.
132
Le stranezze cominciano proprio da questo momento: il gruppo di militi
ed ostaggi si avvia a piedi dal centro del paese sulla strada principale per
Campagnola. Non percorre strade secondarie, non cerca di mimetizzarsi magari con il favore della notte, non utilizza automezzi che pure sono presenti: li
ha portati la compagnia op che è giunta da Reggio Emilia. In barba a qualsiasi
elementare norma di sicurezza fa di tutto per farsi notare, magari da qualche
vedetta partigiana appostata in corso Roma e pronta a dare l’allarme ai distaccamenti della 77a già pronti fuori del paese.
Forse un’incomprensione reciproca fra le parti in causa e l’intermediario
può essere stata la classica scintilla che ha dato fuoco alle polveri.
Stonata appare poi anche la scelta degli uomini per un’operazione così delicata. Se i mitraglieri della op sono ormai dei veterani della guerriglia non così
si può dire per quelli della brigata nera: basta scorrere l’elenco dei morti per
notare come fossero quasi tutti dei ragazzi inesperti, sui vent’anni e addirittura
alcuni di loro ancora minorenni. Fra i sette morti fascisti ben sei appartengono a questa compagnia e solo uno alla gnr12. Perché questo comportamento?
Spavalderia, sprezzo del pericolo, un clamoroso errore nel valutare le proprie
forze e quelle altrui? Ignari del patto segreto citato da Cuttini confidavano sull’intervento delle truppe tedesche13 e sull’aiuto dei presidi fascisti della zona
che tuttavia, inspiegabilmente, non si mossero, tanto gli uni quanto gli altri. I
partigiani avevano creato dei blocchi stradali per isolare la zona, soprattutto
verso Novellara, ed eventuali rinforzi avrebbero dovuto aprirsi la strada con
le armi fino alla villa Ferretti Tapparelli impegnandosi duramente, ma non si
ha notizia di nessuno tentativo di forzare i posti di blocco: quando i tedeschi
infine arrivano sul posto i partigiani semplicemente si sganciano, rifiutando
il contatto (ennesima stranezza: i tedeschi si limitano a giungere sul posto e
a trarre d’impiccio i militi asserragliati, senza tentare l’inseguimento ai partigiani). Non è nemmeno pensabile che nessuno nei paesi vicini abbia sentito
o visto nulla di quanto accadeva. Spari, esplosioni, grida, fumo, fiamme non
passano certo inosservati, eppure per oltre tre ore i mitraglieri della gnr e i ragazzi della brigata nera devono cavarsela da soli in quella zona «infestata dalle
bande», come diceva la propaganda repubblicana.
Gli uomini del maggiore Belleré poterono ricevere aiuto solo, e comunque
in ritardo, grazie a due militi che schivando le pallottole a bordo di una motocicletta forzarono l’assedio dei partigiani e raggiunsero l’ospedale di Reggiolo,
trasportando per di più anche un ferito.
Amaini ricorda come alcuni giorni prima di questi eventi, in maniera altrettanto sconsiderata, un manipolo di patrioti fosse sfrecciato per corso Roma
a bordo di un’automobile in pieno giorno, gridando che la liberazione era
vicina.
133
Vittima o carnefice?
Un cenno a parte lo merita l’unico caduto della Guardia nazionale: il milite
Luigi Spoto. Nato ad Aragona (AG) nel 192114, alla data dell’8 settembre 1943
era un carabiniere in servizio in una stazione della bassa reggiana. Quando
nella primavera del 1944 ai carabinieri rimasti in servizio nel territorio della
rsi venne imposta la scelta fra l’arruolamento nella gnr o l’invio in Germania,
Spoto optò per la prima soluzione15. Dopo aver prestato servizio a Scandiano,
nell’agosto 1944 fu assegnato al III Plotone mitraglieri della compagnia Ordine
pubblico con sede nel capoluogo provinciale16.
La compagnia op era una sorta di reparto celere che si spostava in tutta la
provincia per partecipare a rastrellamenti e combattimenti. Secondo la testimonianza dell’ex milite Dante Scolari, anch’egli membro della op che prese parte
allo scontro del 27 febbraio, sul corpo di Luigi Spoto fu trovato un tesserino
che lo qualificava come partigiano17. La sconcertante scoperta sarebbe stata
tenuta segreta al resto del reparto per non creare panico e demoralizzazione.
L’ex carabiniere faceva parte di quel gruppo di militi che al crepitare delle
armi aveva trovato un rifugio temporaneo e insicuro nel canale che costeggiava la strada e che cercò di raggiungere la vicina villa Ferretti Tapparelli da
dove rispondere al fuoco. Nel coprire la breve distanza fra il canale e la villa
fu colpito alla schiena da un unico proiettile che gli inferse la ferita mortale.
Riverso accanto a lui nel canale c’era il treppiede che fungeva da supporto
alla mitragliatrice pesante Breda 38 in dotazione al suo reparto. Senza di esso
i serventi dell’arma non poterono sparare con efficacia: fu appoggiata sul
davanzale di una finestra e si cercò di attenuarne il rinculo con delle coperte. I mitraglieri poterono così rispondere al fuoco solo con raffiche brevi e
imprecise, senza poter dispiegare tutto il volume di fuoco di cui era capace
la Breda 38, la qual cosa costituì un vantaggio potenzialmente essenziale per
i partigiani, senza il quale avrebbero potuto subire perdite ben più pesanti.
Spoto, che in quanto ex carabiniere doveva certamente avere dimestichezza
con le armi da fuoco, sapeva bene che sprovvista del treppiede l’arma era di
fatto inutilizzabile e il tesserino da partigiano trovato nel suo portafogli può
far pensare che egli abbia deliberatamente tardato a raggiungere i mitraglieri
(era rimasto l’ultimo del gruppo a dover correre dal canale verso la villa); forse
scelse quei pericolosissimi istanti per tentare di disertare e raggiungere quelli
che considerava i suoi veri commilitoni.
Altre circostanze possono far ritenere che egli fosse effettivamente un partigiano. In particolare due punizioni disciplinari che subì nel settembre 1944:
dagli ordini del giorno della gnr infatti risulta che l’ex carabiniere, insieme
ad altri due militi, il giorno 6 fu punito con dieci giorni di carcere perché
«benché avvisati, si assentavano dalla Caserma arbitrariamente, per sottrarsi ad
un’operazione di rastrellamento e rientravano dopo ventiquattr’ore, ad operazione ultimata»18. Nei primi giorni di settembre la compagnia Ordine pubblico
fu impegnata in un’unica operazione antiguerriglia, il giorno 3 nei pressi di
134
Massenzatico. Quella mattina il reparto, insieme ad una squadra di gendarmi
tedeschi, circondò la frazione alle porte della città attuando una serie di perquisizioni a tappeto nell’intento di mettere le mani sui partigiani e su disertori e renitenti alla leva. Assistette all’operazione anche il colonnello Anselmo
Ballarino, comandante provinciale della Guardia nazionale repubblicana.
Secondo il rapporto steso dal responsabile dell’azione (il maggiore Gustavo
Bertolini) un gruppo di partigiani, che indossava uniformi delle forze armate
fasciste, riuscì a sfuggire alla cattura aprendo il fuoco contro i militi i quali,
colti alla sprovvista, non riuscirono a reagire tempestivamente; il brigadiere
della Guardia nazionale Dino Cosci rimase ferito. Parimenti ferito fu il gappista Nellusco Casi Giorgio di Massenzatico che rimase mutilato ad un braccio.
Quella mattina oltre un centinaio di persone vennero tratte in arresto e consegnate alla polizia del lavoro per la verifica della loro posizione personale19.
Durante questa operazione dunque l’allievo milite Luigi Spoto, assieme ai
commilitoni Otello Lunghini ed Eugenio Poli, si assentò arbitrariamente dal
proprio reparto, tuttavia negli ordini del giorno della Guardia nazionale repubblicana non vi è alcun cenno ai motivi che spinsero i tre ad abbandonare il
proprio posto in un momento così delicato. Si conoscevano certamente poiché
insieme erano stati in servizio a Scandiano e insieme erano stati trasferiti alla
compagnia Ordine pubblico; purtroppo è impossibile sapere se idearono la
loro piccola fuga separatamente o meno.
Una ventina di giorni dopo ebbe la sua seconda punizione quando, il 26
settembre, gli vennero inflitti altri cinque giorni di arresti perché: «invitato dalla
ronda a rientrare in Caserma, in quanto trovato in libera uscita disarmato, non
ottemperava l’ordine»20.
Né le sanzioni subite, né il suo comportamento durante gli eventi del 27
febbraio 1945 costituiscono prove schiaccianti sull’appartenenza di Luigi Spoto
alle formazioni partigiane o sulla sua fedeltà alla gnr; l’unica testimonianza diretta della prima eventualità è quella resa da Dante Scolari. Oggi il suo nome
è presente sia negli elenchi dei caduti e dispersi della rsi, sia in quello dei
partigiani caduti alla sezione anpi di Agrigento dove è indicato come fucilato il
27 febbraio 1945 in Lombardia21.
Un’ulteriore precisazione è necessaria. La stazione dei carabinieri di
Castelnuovo Sotto aveva in servizio una quindicina di militari all’inizio del
1944; il comandante era il tenente Pietro Pollara. Per alcuni mesi questi rimase in servizio con la gnr occupandosi dell’attività dei ribelli nella provincia
(porta la sua firma il telegramma che informava le superiori autorità dell’esito
della battaglia di Cerrè Sologno il 15 marzo 1944 e dell’uccisione di Francesco
Davolio Marani, capo del pfr a Fabbrico, il 25 maggio dello stesso anno), ma
durante l’estate abbandonò le file repubblichine per unirsi alla Resistenza (con
la quale collaborava segretamente già in precedenza), divenendo comandante della polizia partigiana col nome di battaglia di Valori. Della quindicina
di carabinieri di stanza a Castelnuovo Sotto non meno di dodici seguirono
135
l’esempio del loro ufficiale. Uno di essi, come ha ricordato Sergio Rabitti, partigiano ed ex sindaco del paese, fu il carabiniere Spoto (purtroppo non viene
citato il nome di battesimo). È tuttavia improbabile che si tratti dello stesso
Spoto che sarebbe morto a Fabbrico. Un documento del distaccamento sap
di Castelnuovo Sotto infatti indica nell’appuntato Antonio Spoto uno dei suoi
membri che formalmente prestava servizio nella Guardia nazionale, ma che in
realtà era un informatore dei partigiani. Nell’ottobre 1944 Antonio Spoto risulta
al comando di una squadra sap. Il 10 marzo 1945 fu arrestato e forzatamente
arruolato nella guardia nazionale. Per evitare la fucilazione accettò di rientrare
nei ranghi della gnr, ma come già aveva fatto in precedenza continuò a lavorare clandestinamente in favore dei partigiani fino ai giorni immediatamente
precedenti la liberazione, quando riuscì nuovamente a fuggire e a raggiungere
un reparto di patrioti22. Nel maggio 1945 era nuovamente in servizio con l’Arma fra Guastalla e Gualtieri23.
Nessun testimone?
Attorno alla battaglia di Fabbrico sembrano dunque ruotare diversi misteri. Nel dopoguerra essa diviene uno degli eventi più famosi e celebrati della
Resistenza reggiana e rimane avvolta in un alone un poco mitologico che ne
ha forse offuscato il reale svolgersi dei fatti, alimentando anche polemiche
durate anni, come l’esatto numero dei morti fascisti o la presenza o meno dei
tedeschi.
Così poco o nulla si è saputo di quella strana trattativa che si svolse la mattina del 27 febbraio e val la pena di ricordare che don Bassoli trovò il maggiore
Bellerè tranquillamente seduto all’osteria del paese, intento a consumare il
suo pranzo: non esattamente il comportamento che ci si aspetterebbe da un
comandante che sa di dover guidare i suoi uomini in battaglia di lì a pochi
minuti24.
Vediamo ancora, ad esempio, cosa accadde ai due militi che assieme a
Luigi Spoto si sottrassero deliberatamente al rastrellamento di Massenzatico.
Alla metà di marzo del 1945 Otello Lunghini disertò le schiere fasciste e si presentò spontaneamente ad un reparto di sappisti che il 13 del mese provvide a
mandarlo sotto scorta in montagna presso il carcere generale. Dopo una breve
sosta presso il comando della 144a Brigata il gruppetto (due sap di scorta e due
prigionieri) proseguì il viaggio il giorno 15, ma in prossimità dello Sparavalle
venne sorpreso da due pattuglie tedesche. I partigiani si gettarono a terra per
nascondersi; non altrettanto fecero i due prigionieri che presero a correre cercando la libertà. Due raffiche di mitra li abbatterono. I sappisti poterono poi
disimpegnarsi dai tedeschi senza problemi, ma data la fretta non ebbero la
possibilità di accertare se Lunghini e il suo sfortunato compagno fossero effettivamente morti. Su di lui rimane una breve lettera indirizzata al comando della 144a Brigata Garibaldi: «L’esc [sic] milite Lunghini Otello collaboratore con
Novellara, scappato dall’op di Reggio Emilia, poi ritornato al proprio corpo, fu
136
detenuto in prigione ai Servi di Reggio. Uscito in libertà raggiunse Novellara
per partire con codesta spedizione in montagna»25. Il 14 marzo 1945 era stato
formalmente denunciato al tribunale militare di guerra di Brescia per il reato
di diserzione26. Il comune di Ostellato (fe) dove Lunghini nacque venti anni
prima lo considerata deceduto a Ramiseto il 15 marzo 1945.
Eugenio Poli è stato ucciso a Reggio Emilia il 25 aprile 1945, così come è
stato ucciso anche il milite Dino Cosci che rimase ferito a Massenzatico27.
Nei giorni della Liberazione si consumarono diversi episodi di giustizia
sommaria contro i fascisti. Fra le vittime di questo periodo figurano anche tre
militi della compagnia Ordine pubblico: Tommaso Catellani, Carlo Ruozi e
Marino Santachiara28. Vale a dire i tre che a bordo di una motocicletta spezzarono l’accerchiamento degli uomini di Gora, Cesare e Nansen e giunsero a
Reggiolo per chiedere aiuto (Catellani era il ferito).
È presumibile che Dante Scolari informò per lo meno il suo superiore
diretto a proposito del tesserino da partigiano trovato addosso a Spoto, ma
Catellani non ebbe mai la possibilità di parlarne, né disse mai nulla Bellerè che
pure fu processato nel dopoguerra29. Anche Scolari fu processato dalla Corte
d’Assiste straordinaria: venne condannato a morte per essersi offerto volontario quale membro dei plotoni d’esecuzione durante i rastrellamenti di Villa
Sesso e Cadelbosco Sopra (Paolo Davoli) e successivamente amnistiato. Per
decenni tenne per sé il segreto su Luigi Spoto tanto che il dilemma sulla sua
appartenenza ai partigiani o ai fascisti rimane di fatto ancora insoluto.
–––––––––––––––––––––––––
1
R. Cavandoli, Un popolo resistente, Fabbrico 1919-1946, Anpi, Fabbrico 1986, p. 120.
2
Archivio istoreco, busta 13 G, fasc. 1, diario della 77a Brigata sap.
3
G. Amaini, La battaglia di Fabbrico, 26–27 febbraio 1945, La Rapida, Verona 2006, p. 51.
4
Archivio istoreco, busta 18 F, fasc. 3.
5
Un altro documento proveniente dall’Archivio istoreco indica la corretta dizione dei nomi:
Konrad Ludvig e Heinz Schafer e li considera in forza al distaccamento sap di Reggiolo (Archivio
istoreco, Brigate in pianura, polizia partigiana, fasc. Sottosettore di Reggiolo).
6
Archivio istoreco, busta 18 F, fasc. 1.
7
I partigiani che presero parte all’attacco seppellirono immediatamente i corpi dei due tedeschi per evitare che venissero trovati e dare così una scusa ai nazisti per scatenare l’ennesima
rappresaglia.
8
G. Cuttini, Cinquant’anni dopo le grandi macerie, Pixel, Bologna 2003, pp. 120 e segg.
9
Paolo Davoli, Luigi Rigolli, Amedeo Rossi, Salvatore Garilli, Andrea Garilli, Tito da Parma,
Medardo Pagliani, Fermo Pedrazzoli, Erio Benassi e Ferruccio Ferrari.
10
Amaini, op. cit., pp. 8-9.
11
Ivi, pp. 42-43.
12
Giancarlo Angelini 20, Franco Volpato 17, Ugo Fringuelli 18, Giuseppe Ghisi 16, Corinto
Baliello 19, Ostilio Casotti 39 e Luigi Spoto 24 anni.
13
La compagnia op e quella giovanile erano di stanza nel capoluogo e forse non avevano un
quadro sufficientemente chiaro della realtà locale, né forse (soprattutto i giovani della brigata
nera) conoscevano a sufficienza il campo di battaglia.
14
Secondo l’anagrafe del comune di Aragona l’anno di nascita è il 1924 (corrispondenza dell’autore con Giuseppe Todaro); l’anno 1921 risulta dai documenti della gnr.
137
Dal 5 al 14 giugno 1944 partirono da Reggio Emilia tre convogli di carabinieri diretti in
Germania (archivio istoreco, busta 14 D, fasc. 12).
16
Archivio istoreco, busta 14 C, fasc. 1, ordine permanente n. 5 del 26/8/1944.
17
Battaglia di Fabbrico, disputa sulle cifre, “Gazzetta di Reggio”, 28 febbraio 2004.
18
Archivio istoreco, busta 14 C, fasc. 1, ordine permanente n. 16 del 6/9/1944.
19
Nel pomeriggio del 3 settembre il rastrellamento si spostò verso la frazione di Gavasseto,
presenti questa volta reparti della brigata nera, dove venne rinvenuto un deposito di armi e
munizioni dei ribelli. Due fratelli, entrambi partigiani, vennero catturati e giustiziati sul posto:
Giuseppe e Gino Vecchi; un terzo fratello, Giovanni anch’egli partigiano, sarà ucciso dai fascisti
il 24 novembre (Archivio istoreco, busta 14 C, fasc. settembre 1944).
20
Archivio istoreco, busta 14 C, fasc. 1, ordine permanente n. 34 del 16/9/1944.
21
Corrispondenza dell’autore con Giuseppe Todaro.
22
Archivio istoreco, busta 11 A, fasc. 7.
23
Archivio storico del comune di Reggio Emilia, busta n. 1067, fasc. 6113.
24
G. Amaini, La Battaglia…, pp. 42 e segg.
25
Archivio istoreco busta 15 A, fasc. 126.
26
Archivio istoreco, busta 29 B.
27
G. Magnanini, Dopo la liberazione, Analisi, Bologna 1992, p. 178 e 110.
28
Ivi, pp. 104, 190 e 196.
29
Dai giornali dell’epoca non risulta nemmeno che il maggiore durante il processo abbia parlato
della fallita trattativa a Fabbrico.
15
138
Meuccio Ruini.
139
Note e Rassegne
1946 e dintorni
La ricostruzione a Reggio Emilia*
Michele Bellelli
Perché organizzare un evento simile?
Certo perché l’anniversario meritava un approfondimento, ma anche perché ormai
i primi anni del dopoguerra non possono più essere considerati attualità o cronaca, bensì storia. Il nome stesso dell’ente organizzatore, dove accanto al nome della
Resistenza vi è anche quello della storia contemporanea, sottolinea ormai da diversi
anni l’esigenza di ampliare il campo degli studi anche a quegli anni che hanno visto
nascere e prosperare la Repubblica sorta dalla guerra di Liberazione.
L’esigenza prioritaria per chi volesse cimentarsi in questi studi post resistenziali è
la conoscenza delle fonti disponibili.
Le prime esposizioni proposte agli intervenuti sono state incentrate proprio sullo
stato delle conoscenze delle fonti oggi a disposizione in Emilia Romagna. Non solo
a Reggio Emilia quindi, ma anche nelle province limitrofe, poiché, del resto, limitare
geograficamente in modo netto le ricerche sul dopoguerra alla nostra provincia, senza
gettare neppure un breve sguardo su quanto accadeva a Parma, Modena o Bologna
potrebbe precludere importanti sviluppi sugli studi storici del periodo.
E quali sono le fonti storiche disponibili nella nostra regione, dunque?
A tale domanda hanno cercato di dare risposta Giovanni Taurasi per quando riguarda Modena, Mauro Maggiorani per la ricostruzione nel bolognese e Marco Minardi
per Parma.
*Proprio in questi giorni si avviano a compimento le celebrazioni di un anniversario fondamentale per la democrazia repubblicana in Italia. Sessanta anni fa, in una memorabile primavera,
si tennero le prime libere elezioni nel nostro paese dall’avvento della dittatura fascista: in marzo
quelle amministrative, ma soprattutto il 2 giugno, in contemporanea, il referendum istituzionale fra monarchia e repubblica e le elezioni per l’Assemblea costituente che avrebbe redatto
la nuova carta costituzionale italiana in sostituzione del quasi centenario Statuto albertino. Il
primo vero anno di pace, interamente dedicato alla ricostruzione economica, sociale e morale
della penisola, è stato oggetto di un convegno organizzato il 28 aprile da istoreco e ospitato presso la Camera del lavoro territoriale cittadina.
141
Per la provincia posta ad oriente del Secchia sono stati ricordati gli ampi studi svolti in
passato, in particolare negli anni successivi al cinquantenario della Liberazione.
Una mancanza avvertita negli studi del periodo della ricostruzione è stata la disponibilità delle carte dei Comitati di liberazione nazionale, depositate presso l’Archivio
di Stato modenese. Lo studio del fondo del cln potrebbe offrire risposte a domande
a lungo disattese. Taurasi ha indicato quali possono essere i nuovi campi di ricerca
aperti a studiosi ed appassionati in questo specifico campo d’intervento: l’epurazione;
la formazione e composizione dei cln, non solo a livello provinciale, ma anche nei
comuni, nelle frazioni e nelle aziende, così da conoscere finalmente chi ne erano i
membri e da quali esperienze politiche e sociali provenivano; le decisioni prese dai
comitati in materia di ricostruzione e quali spazi di autonomia avessero (o quanto invece fossero semplici emanazioni dei veri organi decisionali quali ad esempio i partiti,
ma non va sottovalutata la presenza per i primi cento giorni di pace dell’Allied military
government). Per quanto riguarda l’epurazione è certamente noto, a livello nazionale, il suo sostanziale fallimento nell’estirpare la presenza fascista dai gangli della vita
pubblica italiana (su tutti l’esempio della pubblica sicurezza), mentre a livello locale
raramente si è proceduto con studi articolati ed approfonditi sull’attività delle varie
commissioni per l’epurazione e persino sulle Corti d’assise straordinarie.
Un altro tipo di fonte, individuata nel bolognese, ma estendibile anche alle altre
province, cosa che del resto vale per tutte le fonti qui indicate, è l’archivio del Genio
civile e la serie “Danni bellici” dell’archivio storico della provincia felsinea. Un altro
importante fondo documentario da non sottovalutare è quello del Provveditorato regionale alle opere pubbliche. Tali fonti sono ottimi punti di partenza per analizzare la
ricostruzione post bellica per quanto riguarda l’organizzazione generale del territorio:
ad esempio il sistema di canali e fiumi o le grandi opere infrastrutturali quale il sistema
viario.
Analizzando più da vicino il territorio reggiano si sono scelti alcuni “casi” emblematici per mostrare al pubblico quanto ancora rimane da fare per lo studio della
ricostruzione, di quel periodo felicemente sintetizzato con la formula del «mattone
della concordia». È necessario premettere che anche a Reggio Emilia molte fonti rimangono tuttora inedite o addirittura ignorate. Mi riferisco, ad esempio, all’Archivio
storico della Provincia, all’Archivio di Stato, oppure a quello, importantissimo per lo
studio anche di altre epoche e di altri campi di ricerca rispetto alla storia locale, dei
consorzi di bonifica; non vanno dimenticati poi gli archivi storici dei vari comuni la cui
consultazione è spesso problematica anche per un esperto. Mancano poi, pressoché
completamente, i fondi documentali dei partiti politici e delle grandi aziende reggiane
(dispersi o comunque non consultabili al momento), mentre sono da poco fruibili al
pubblico quelli dei principali sindacati: cisl e cgil.
Che cosa vi è dunque a disposizione?
Presso il Polo archivistico del comune di Reggio Emilia, attivo dal 2002 e gestito da
personale istoreco, sono stati concentrati serie di documenti provenienti dai più diversi archivi locali dell’800 e ’900 che mettono a disposizione di studiosi ed appassionati
le fonti indispensabili per conoscere meglio il periodo della ricostruzione (e anche di
altre epoche). Archivi storici di enti pubblici quali Comune di Reggio Emilia, cgil, cisl,
142
udi, cif, Federcoop e naturalmente istoreco, ma anche carteggi privati come quello del
professor Corrado Corghi e della fabbrica di Spazzole Agazzani (la più antica della
città). Di grande importanza vi è poi il sito web “Albi della memoria”, gestito da istoreco nella persona di Amos Conti, grazie al quale è stato allestito un vasto database
dei caduti reggiani in tutte le guerre italiane. Dai moti carbonari del Risorgimento alla
Liberazione, il database comprende ormai oltre ventimila nominativi, non solo dei
morti in guerra, ma anche dei deportati civili e militari nei campi di concentramento
nazisti, dei perseguitati politici antifascisti e degli insigniti di decorazioni e onorificenze dello Stato (www.albimemoria-istoreco.re.it).
Partendo da questa premessa è stato possibile illustrare alcuni aspetti della vita
reggiana poco noti, rispetto ad altri affrontati in precedenza, dando quindi il “la” all’ampliamento delle conoscenze degli anni a cavallo fra la Liberazione e le elezioni
del 1948.
Sono ben noti ad esempio i numerosi episodi di violenza politica perpetrati a
Reggio Emilia nei primi mesi successivi al 25 aprile. Meno nota è l’intensa attività della
criminalità comune. Fabrizio Solieri, con un certosino lavoro di spoglio dei quotidiani
locali, ha analizzato proprio questo fenomeno, riportando alla luce casi di cronaca
nera oggi dimenticati, ma che sessanta anni or sono costituirono un pressante impegno per le forze dell’ordine. Sono stati individuati tre grandi tipi di reati legati alle congiunture economiche e politiche del tempo: alimentari, crimini legati all’assuefazione
alla violenza (e all’incredibile quantità di armi in circolazione), e infine quelli derivanti
dal mancato riconoscimento delle nuove autorità di pubblica sicurezza insediate nei
mesi successivi alla Liberazione.
Analizziamoli più da vicino. La penuria di cibo e il mercato nero non sparirono
certamente d’incanto all’indomani del 25 aprile, tanto che si formarono in breve tempo
delle bande specializzate in furti di cibi da piazzare illegalmente sul mercato. Famosa
divenne la banda del formaggio con un’organizzazione internazionale, poiché composta da disertori alleati (soprattutto inglesi), ex soldati tedeschi e italiani; operava
principalmente nella bassa fra Reggio e Modena. L’assuefazione alla violenza derivava
dai cinque lunghi anni di guerra, dei quali gli ultimi due vissuti direttamente sulla
propria pelle anche dalla popolazione civile, che aveva portato ad una sorta di indifferenza alla violenza. Indifferenza intesa come una generale tendenza a dirimere ogni
questione quotidiana attraverso lo scontro fisico. Una situazione favorita anche dall’incredibile quantità di armi in circolazione e dalle numerose forze di polizia presenti sul
territorio (questura, carabinieri, polizia partigiana, polizia economica, polizia alleata
e polizia municipale – quest’ultima già allora la più detestata dai cittadini); numerose
nel senso delle autorità competenti, ma decisamente scarse nel numero degli effettivi
impegnati e non di rado assolutamente malviste dalla popolazione. Più di una volta
i carabinieri hanno subito aggressioni da parte della popolazione mano a mano che
sostituivano i partigiani nelle loro vecchie stazioni. Altri due fattori sono stati messi in
evidenza: l’irrompere nelle cronache delle donne non più solo come vittime di crimini,
ma anche come autrici degli stessi e la presenza in città di numerosi profughi stranieri.
Fonte questa di numerose risse, causate soprattutto da polacchi (ex soldati delle forze
alleate ovviamente impossibilitati a rimpatriare).
Altri eventi, non propriamente classificabili come reati, ma ugualmente pericolosi
143
e sanguinosi, hanno caratterizzato i primi dodici, diciotto mesi di ricostruzione: gli
incidenti stradali, numerosissimi e spesso mortali, causati da una totale indisciplina
automobilistica soprattutto da parte dei soldati alleati e i morti causati dall’esplosione
accidentale di residuati bellici. Famigerato divenne l’episodio di Casola di Viano l’8
dicembre 1945. Una bomba da aereo inesplosa era rimasta nel giardino di una casa
contadina sin dal settembre 1944. Un improvvisato artificiere s’incaricò di prelevarla
e disinnescarla; assiepati attorno a lui un gruppetto di abitanti di Casola assisteva all’operazione. La conseguenza era quasi inevitabile: lo sciagurato artigiano non riuscì a
disinnescare l’ordigno che deflagrò in mezzo agli spettatori. Dieci persone, fra i quali
quattro bambini e tre adolescenti, furono ridotti a brandelli dall’esplosione. La morte
di un contadino intento a disbrigare le sue faccende a trenta metri di distanza dalla
bomba è più che sufficiente a spiegare la devastante potenza della detonazione.
Vero inedito di quegli anni è stato l’ingresso delle donne nella politica e nella società. Sin durante la guerra erano sorte delle organizzazioni femminili con organi di
stampa propri quali i “Gruppi di difesa delle donne” con il giornale “Noi donne” e il
Centro italiano femminile.
L’intervento sull’associazionismo femminile reggiano, curato da Federica Menabue,
è servito a fare il punto sull’attività di udi (Unione donne italiane, subentrata ai gdd)
e cif nella seconda metà degli anni Quaranta. L’inevitabile distinzione ideologica (di
sinistra l’udi, cattolica il cif ) non ha impedito alle due organizzazioni di prestare la
loro opera di soccorso, a volte unendo anche le forze per meglio raggiungere i propri
obiettivi. Ad esempio durante il primo inverno del dopoguerra il prefetto di Reggio
Emilia aveva creato un Comitato di assistenza invernale con il compito di selezionare
le famiglie più bisognose di aiuti economici fra le innumerevoli richieste (i disoccupati
in provincia erano decine di migliaia), per poi passare alla distribuzione dei fondi a
disposizione. Questo compito venne affidato congiuntamente all’udi e al cif e il lavoro
fu svolto assieme, fianco a fianco, visitando i quartieri più poveri della città stremata
dalla guerra. Le due associazioni svilupparono con forza le loro iniziative rivolte sia
all’emancipazione sociale delle donne, sia all’assistenza all’infanzia con la creazione
degli asili e la gestione delle colonie estive. Particolarmente intensa è stata l’attività di
recupero fisico e psichico dei bambini scioccati dalla guerra.
Il nuovo ruolo delle donne è stato preso in esame anche da Elisabetta Salvini che
ha parlato del lungo maternage delle donne reggiane. In particolare la volontà delle
donne di impegnarsi non più solo in famiglia, ma anche nella società, per dare il loro
contributo alla ricostruzione del paese. È grazie alla loro azione verso i reduci, verso
l’infanzia, verso gli orfani e le vittime di guerra, che alle donne viene infine riconosciuto di fatto un ruolo di primo piano nella società italiana. Un maternage che viene
comunque ritenuto indispensabile perché a metà della popolazione italiana venga
infine riconosciuto il giusto diritto alla cittadinanza attiva. L’assistenza e la lotta per
l’emancipazione, «il lavoro di produzione e quello di cura, sono parti integranti di
un unico processo politico e sociale intrapreso dalle donne per diventare, anch’esse,
protagoniste del nostro paese».
Non poteva mancare un esame, sia pur frettoloso, sullo stato dell’economia nel
primo anno di pace, né sarebbe stato possibile farlo prescindendo dallo stato di salute (ma sarebbe meglio dire di malattia) delle Officine Reggiane. Nel 1945-46 venne
144
preparata ed attuata la riconversione e ristrutturazione dell’azienda, ma la direzione
era spaccata a metà tra chi voleva continuare a costruire aerei e chi voleva tornare alle
vecchie produzioni precedenti all’ingresso nel gruppo Caproni.
Da una parte stavano gli “aviatori” con il direttore generale Alessio, gli ingegneri
Longhi, Pegna, Piani, tutti arrivati in via Agosti dalla metà degli anni trenta in avanti,
per seguire il settore avio; dall’altra i “ferrovieri” con Vischi, il suo successore Flores
D’Arcais, Ferruccio Bellelli, Toniolo, Corinaldesi, forse lo stesso presidente Franco
Ratti. Tutti, o quasi, con l’intera carriera professionale alle Officine, molto legati alla
tradizione dell’azienda e all’ex dirigente Degola, morto nel 1941.
Il licenziamento di Alessio, l’omicidio di Vischi, l’abbandono definitivo delle ambizioni aviatorie e l’irrompere sulla scena del cln (presieduto per alcune settimane da
Domenico Piani) che si sostituì di fatto agli aviatori nella contesa, si susseguirono e
s’intrecciarono l’un l’altro senza soluzione di continuità. Il risultato finale è noto a tutti:
la chiusura del reparto Avio e il ritorno delle omi nelle mani dell’iri, come prima del
1935. Quel che ne seguì non fu che una lunga agonia, il cui risultato fu deciso inconsciamente e indirettamente con le prime decisioni adottate nel dopoguerra.
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146
Berneri in Spagna tra
guerra e rivoluzione
Francesco Paolella
Esistono ormai diversi studi, peraltro assai ben documentati, dedicati alla vita di
Camillo Berneri, intellettuale anarchico, antifascista esule dal 1926, combattente nella
guerra civile spagnola, soprattutto uno dei principali esponenti del pensiero libertario
italiano nel secolo Ventesimo. In particolare, la pubblicistica italiana si è occupata
diffusamente anche dell’assassinio di Berneri, evidenziando in modo acclarato il ruolo
dei comunisti fedeli a Stalin (spagnoli, ma non solo) in quel delitto, apice degli scontri di Barcellona dei primi di maggio del 1937, fra combattenti del fronte antifascista.
Vogliamo qui segnalare due monografie dedicate al Nostro: quella più recente, di C.
De Maria1 e quella di F. Madrid Santos2.
Anche la ricerca storica locale si è occupata, soprattutto negli ultimi due decenni,
allo studio della vita e del pensiero di Berneri, che nacque a Lodi nel 1897, ma visse a
Reggio per ben undici anni (tra il 1906 ed il 1915), iniziando la militanza politica nella
Federazione giovanile socialista3.
Qui intendiamo fornire al lettore non una ricostruzione puntuale delle vicende che
portarono alla morte di Berneri, ma spunti di riflessione sulla sua militanza politica, e
soprattutto sulla sua opera teorica di ripensamento dei principi dell’anarchismo, nel
quadro dei radicali cambianti avvenuti in Europa con l’emergenza della politicizzazione delle masse.
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«Cretinismo astensionista»
Un valido esempio dell’atteggiamento di Berneri verso i principi (la «ortodossia»)
dell’anarchismo è agevolmente rintracciabile nella sua partecipazione ad una polemica del 1936, in occasione della condotta tenuta dalla cnt (la Confederación nacional
del trabajo, il forte sindacato anarchico) durante la campagna elettorale spagnola del
febbraio, conclusasi con la vittoria del Fronte popolare e durante la quale diversi
gruppi anarchici (fra cui la cnt) non avevano insistito con la propaganda astensionista. Berneri fu tra coloro che rispose ad un’inchiesta della rivista “Más Lejos”, diretta da Max Sartin, che chiedeva appunto a personalità dell’anarchismo di esprimersi
sull’alternativa fra astensione come principio inderogabile o semplice tattica (quindi
derogabile). È proprio un’eresia valutare la possibilità di votare? Berneri si cimentò
in questa prova con un articolo pubblicato il 25 aprile 1936. Il Nostro vi evidenzia
due problemi radicali: quale deve essere il rapporto fra anarchismo e partecipazione
politica? Quale peso hanno i “dogmi” nella dottrina anarchica? Quale, invece, ha da
avere il relativismo?
Postosi alla ricerca dell’efficacia politica, Berneri non esita a condannare il «cretinismo astensionista», facendo professione di libero relativismo. Demolisce una delle
colonne portanti di un certo modo di intendere l’anarchismo, definendo la partecipazione al voto come peccato veniale e non mortale.
Il richiamo ai principi a me non fa né caldo né freddo, perché so che sotto quel nome vanno delle opinioni di uomini e non di dei, delle opinioni che hanno avuto fortuna per due
o tre anni, per decenni, per secoli anche, ma che, poi, sono finite per sembrare barocche a
tutti. Le eresie di Malatesta sono, oggi, dei principi sacrosanti per tutti i malatestiani. [...] Un
anarchico non può che detestare i sistemi ideologici chiusi (teorie che si chiamano dottrina),
e non può dare che ai principi un valore relativo4.
Poi, poco oltre, conclude: «Il cretinismo astensionista è quella superstizione politica
che considera l’atto di votare come una menomazione della dignità umana o che valuta una situazione politica-sociale dal numero degli astenuti delle elezioni, quando non
abbina l’uno e l’altro infantilismo»5. Dopo aver dedicato un successivo articolo (sull’“Adunata dei refrattari” del 9 maggio) alle peculiarità del caso spagnolo, ed essersi in
gran parte appoggiato sulla lezione malatestiana, Berneri alla fine di giugno riprese la
penna per rispondere alle critiche ripetute, giuntegli da parte dei “puristi”, in primis da
Max Sartin (che definì più volte una vera «aberrazione pseudo-anarchica» il tentativo
revisionista di conciliare elezione e rivoluzione). Berneri replica con Per finire, sempre
sull’Adunata, il 27 giugno, riaffermando la sua adesione all’astensionismo, ma senza rinunciare ad affrontare la complessità del reale: «Affermare che le elezioni sono sempre
uno strumento di conservazione statale e borghese e come tali considerate dallo Stato
e dalla borghesia vale, a mio parere, semplificare arbitrariamente il gioco delle forze
politiche in uno Stato contemporaneo»6. Ribadendo il proprio rifiuto del «semplicismo
astensionista», distingue quindi fra due diversi astensionismi anarchici:
Il primo non nega a priori che una situazione rivoluzionaria possa scaturire da un trionfo
elettorale delle sinistre parlamentari, sia perché tale trionfo tonifica la combattività delle
148
masse, sia perché le disillusioni create dal governo popolare spingono le masse ad aver
fede nell’azione diretta e a praticarla, sia perché il governo popolare concede alle estreme
sinistre maggiori libertà di propaganda, di organizzazione e di agitazione. [...] Il secondo non
solo nega al trionfo elettorale delle sinistre un qualsiasi valore rivoluzionario, ma estende la
propria negazione a tutte le forme di elettoralismo, compresa quella plebiscitaria7.
Berneri temeva, in buona sostanza, di veder ridurre l’anarchismo a pura testimonianza, fossilizzata in un gioco tutto retorico. Merita di essere citata anche la conclusione di quell’articolo: «Chi crede alla possibilità dell’anarchia come sistema politico è
anarchico, qualunque siano le sue vedute strategiche, qualunque siano le sue riserve
sulle realizzazioni massime della società futura. Ed è anarchico anche se scomunicato
dai dottrinari sofistici»8.
Per l’unità dell’antifascismo
Chi si dedica allo studio del pensiero di Berneri, non può che riconoscere la strutturale ambiguità di quelle riflessioni, sfocianti a tratti in veri e propri dilemmi (etici,
ancor prima che politici). Berneri stesso si definiva un «anarchico sui generis»9. È costante nei suoi scritti la presenza di una «autocritica anarchica»:
In lui è rappresentato il primo autentico momento in cui l’anarchismo si interroga criticamente su se stesso, e si interroga in un momento cruciale della sua storia. [...] Nella figura e
nell’opera di Camillo Berneri sono dunque riflessi, nel modo più evidente e lacerante, i temi,
i problemi e le improrogabili scelte dell’anarchismo nell’età che segna la fine del regime
liberale della vecchia Europa. [...] Egli personifica un’inquieta e persistente domanda posta
al cuore e al cervello del movimento anarchico italiano e internazionale. Quale è il ruolo
dell’anarchismo dopo la vittoriosa rivoluzione d’Ottobre? Che posizione devono prendere
gli anarchici di fronte all’avvento dei regimi totalitari? Ha ancora senso il rifiuto categorico della dialettica politica dopo i decenni infruttuosi dell’attesa rivoluzionaria? È vero che
l’anarchismo muore se si media con l’esistente?10.
Pochi giorni dopo lo scoppio della guerra, Berneri fu in territorio spagnolo, già dal
29 luglio 1936. Arrivò a Barcellona anzitutto desideroso di poter premiare nell’azione
le fatiche (anche spirituali) dell’esilio decennale. Già in agosto Berneri fondò, assieme a Carlo Rosselli (anch’egli giunto da Parigi) ed a Mario Angeloni, repubblicano,
una colonna di antifascisti italiani, di diversa estrazione politica. Berneri divenne il
commissario politico della Sezione italiana della Colonna Ascaso, una formazione di
circa centocinquanta membri (e, dato molto significativo, due su tre erano anarchici),
mentre a capo fu posto Rosselli.
Al di là delle notevoli differenze ideologiche fra la visione socialista liberale di “Giustizia e
libertà”, di cui Rosselli era il leader riconosciuto, e quello dell’anarchismo insurrezionale e
antipolitico espresso da buona parte dei primi volontari, vi era una potente base comune
nella decisione di lottare subito, con le armi, contro la reazione militare spagnola e il fascismo italiano che la stava apertamente sostenendo11.
149
Alla metà di agosto Berneri, Rosselli e Angeloni composero il Patto d’Intesa della
colonna, nel quale è, fra l’altro, scritto: «Secondo le disposizioni attuali del Comando
delle Milizie, l’organizzazione della Colonna sarà fatta in collegamento con le Milizie
della cnt e della fai. Resta però inteso che la Colonna come tale manterrà il suo carattere di formazione unitaria antifascista al di sopra delle distinzioni di partito»12. È
lo stesso Berneri a sottolineare, in uno scritto composto in quei giorni, Le basi della
colonna, il proprio ruolo di mediatore per il compromesso fra le diverse componenti
antifasciste: «Fu precisamente Berneri, con Fantozzi e Giusti, a propugnare in seno agli
anarchici una formazione nei quadri della quale tutti gli antifascisti avessero accesso.
Si pervenne, perciò, ad una mutua transazione, indispensabile a qualsiasi iniziativa di
carattere unitario. I non anarchici accedevano ad integrare una colonna patrocinata
dalla cnt. Gli anarchici rinunciavano a loro volta a conferire alla colonna un carattere
specifico, corrispondente alla loro ideologia»13.
Con tutta evidenza, né questa, pur significativa, dichiarazione di intenti, né lo stesso battesimo del fuoco della Sezione italiana (alla fine di agosto, con la battaglia del
Monte Pelato, al fronte di Huesca) poterono, però, risolvere in alcun modo risolvere le
contraddizioni esistenti fra i diversi gruppi. C. Venza, storico dell’anarchismo, riprende, in un saggio sulla presenza degli anarchici italiani in Spagna, una testimonianza
di Vindice Rabitti:
C’è chi ricorda un dissidio significativo, una differenziazione politica e ideologica tutt’altro
che superata: alcuni appartenenti a gl vorrebbero che la Colonna italiana sfilasse [alla partenza da Barcellona, il 20 agosto, ndr] con una bandiera tricolore per riaffermare il carattere
di riscatto nazionale di questa impresa, quasi una continuazione nel XX secolo dell’epopea
garibaldina. La discussione che ne segue vede una presa di posizione rigida da parte anarchica e la proposta rientra: sarà la bandiera rossonera della cnt-fai e caratterizzare pubblicamente la Colonna14.
Ciò nonostante, Berneri, sempre nelle Basi della colonna, riassume così la scommessa degli italiani:
E per la prima volta nella storia dell’antifascismo italiano, tale unità era accettata e realizzata
dagli anarchici. Un rilievo tuttavia s’impone: stringendo quest’intesa, gli anarchici dimostravano di apprezzare altamente i propositi che animavano Carlo Rosselli; non misconoscevano
insomma l’importanza “mista” in rapporto alla causa dell’antifascismo e delle future lotte in
Italia. Ma, nel contempo, continuavano a ritenersi, soprattutto, al servizio della Rivoluzione,
dell’anarchia, delle forze anarchiche ed anarco-sindacaliste spagnole, e prevedevano, con
non disprezzabile acume e con alto senso di realtà politica, che l’unità antifascista italiana
era subordinata all’avvenire della rivoluzione, alla loro fondamentale solidarietà con gli organismi che propugnavano per infondere alla rivoluzione iberica una tendenza libertaria15.
Si trattava di una speranza che, molto presto, avrebbe dovuto essere seriamente
ridimensionata, fino a non poter più reggere la prova dei fatti. Già a settembre, Berneri
stese un ordine del giorno della sezione, fatto approvare dalla maggioranza, nel quale
leggiamo: «La sezione italiana della Colonna Ascaso constata che il giornale “Giustizia
e Libertà” ha presentato e continua a presentare la Sezione come Colonna Italiana au-
150
tonoma; mentre questa fa parte della Milizia cnt-fai. Constata altresì la tendenziosità dei
resoconti del suddetto giornale sulle operazioni di guerra della Sezione16». Certamente
a pesare era il contesto bellico e rivoluzionario, che iniziò presto a deludere, specie i
più radicali, dopo la «breve estate dell’anarchia», secondo la celebre formula di H. M.
Enzensberger. Gli anarchici soffrivano per la stasi che era stata imposta all’avanzata
del fronte, mentre il governo di Madrid (poi di Valencia) cercava sempre più decisamente di riprendere il controllo militare e sociale della Spagna repubblicana17. Fu
anzi contro la militarizzazione delle colonne una delle principali critiche di Berneri
al governo e, per ovvie ragioni, uno dei motivi di dissidio con i “ministri anarchici”.
E proprio anche a proposito della militarizzazione delle colonne, Berneri manifestò il
proprio “centrismo”:
Per parte mia, sono partigiano d’un giusto mezzo: non si deve cadere nel formalismo militare, né in un antimilitarismo superstizioso. Accettando e realizzando le riforme imposte dalla
natura delle cose, ci troveremo, così, in stato di resistere ad ogni sorta di manovre oscure
che tendono ad istituire, sotto pretesto di militarizzazione, la sua egemonia militare sopra la
rivoluzione spagnola, al fine di trasformarla in istrumento della sua egemonia politica18.
Berneri, le cui capacità d’azione erano fortemente limitate da gravi difetti alla
vista ed all’udito, fu convinto ad abbandonare il fronte e raggiungere nuovamente
Barcellona. L’esperienza della Colonna mista italiana si sarebbe comunque conclusa
già alla fine dell’anno.
Cresceva nel frattempo l’abbraccio soffocante fra Madrid e Mosca, mentre s’andava
affermando la nuova, esiziale, divisione del fronte repubblicano, quella fra comunisti
e socialisti da una parte (psuc, pce) contro anarchici (cnt-fai) e marxisti antistalinisti
(poum) dall’altra. Dentro il movimento anarchico cresceva poi la fronda contro i “collaborazionisti”, ossia contro quei vertici che, per difendere i risultati della rivoluzione
sociale (le collettivizzazioni, le comuni agricole, etc.) decisero, il 4 novembre, di entrare, anche con dei ministri, dentro il governo di Largo Caballero.
«Guerra di classe in Spagna»
Gli anarchici italiani non affatto insensibili alla necessità di riorganizzare e disciplinare le milizie, di fronte ai provvedimenti di Madrid, individuarono subito qual era il
vero nocciolo del problema. Berneri ebbe il compito di far sentire la loro opposizione.
Tornò a Barcellona, dove si dedicò a quel delicato lavoro con la consueta tenacia.
Assieme a Virgilio Gozzoli, già il 9 ottobre pubblicava il primo numero di “Guerra di
classe”, organo dell’Unione sindacale italiana (ott. 1936–nov. 1937). Dalle pagine di
quel settimanale iniziava una pertinace quanto equilibrata critica alla militarizzazione, non solo delle milizie, ma dell’intero scontro sociale. In quel momento Berneri
assunse veramente un ruolo di stimolo e di portavoce di quanto coralmente era stato
elaborato dagli anarchici italiani in quindici anni di esilio, e di quanto veniva allora
discusso tra quelli sparsi in tanti paesi, ma collegati nello sforzo di sostenere la grande
rivoluzione19.
“Guerra di classe” doveva anzitutto rappresentare una voce alternativa rispetto
151
al sostanziale monopolio nella stampa antifascista di lingua italiana, detenuto da
Giustizia e libertà. Berneri fu direttore di “Guerra di classe” fino alla morte (poi subentrò Gozzoli). In tutto uscirono circa trenta numeri (rispettando, quindi, più o meno la
periodicità settimanale), e ci fu un sensibile rallentamento, specie nei mesi di febbraio
e marzo, per ragioni politiche, a causa di alcuni articoli, a firma dello stesso Berneri,
di critica verso il regime bolscevico.
L’editoriale del primo numero (9 ottobre 1936), scritto assai presumibilmente dal
Nostro, riporta uno dei leitmotiv della polemica anarchica verso il potere repubblicano: «Guerra civile e rivoluzione sociale non sono in Spagna che due aspetti di una
realtà unica: un paese in marcia verso un nuovo ordine politico ed economico che,
senza dittature e contro lo spirito dittatoriale, costituirà le premesse e le condizioni
di sviluppo del collettivismo libertario»20. E poco oltre: «Qui si combatte una lotta che
è mondiale nelle sue ripercussioni attuali e ancor più in quelle prossime. […] Il programma del nostro giornale? Contribuire ad opporre alla Santa Alleanza l’agitazione
internazionale a favore della Spagna rivoluzionaria. Illustrare le conquiste sociali della
rivoluzione spagnola. Difendere l’anarchismo spagnolo dalle diffamazioni idiote»21.
Questo manifesto indica tutta la tensione per “conservare” il patrimonio di entusiasmo della rivolta del 1936, anche a costo di contrapporsi alla dirigenza anarchica: negli
scritti di Berneri dell’autunno 1936 pare sempre più incombente il pericolo di una caduta assai rischiosa, anzitutto per la disgiunzione, resasi sempre più evidente (e voluta
essenzialmente dagli stalinisti, sostenuti dalle forze borghesi) fra vittoria militare e vittoria sociale. Questa la posizione di Berneri: «Vincere la guerra è necessario, ma non si
vincerà la guerra restringendo il problema alle condizioni “strettamente militari” della
vittoria, bensì collegando quelle alle condizioni “politico-sociali” della vittoria»22.
D’altra parte, il governo repubblicano si mostrava apertamente ostile verso gli esiti
della rivoluzione sociale e si era votato al ritorno della legalità. Compito degli anarchici (e della stampa anarchica in particolare) doveva allora essere proprio quello di
spingere a fondo nella critica verso quella temibile aria da Union sacrée, assunta dallo
schieramento antifascista. Berneri poi chiede anche di riprendere con più risoluzione
la pratica delle epurazioni, davanti ad una progressiva normalizzazione, passivamente
tollerata dagli anarchici stessi. «Si nota da qualche tempo in qua un atteggiamento
rinunciatario da parte della cnt e della fai, di fronte alla normalizzazione della rivoluzione»23. In ultima analisi, l’obiettivo, magnifico ma puramente teorico, era quello di
«conciliare la “necessità” della guerra, “la volontà” della rivoluzione sociale e le “aspirazioni” dell’anarchismo»24. Anche la rivoluzione sociale, secondo socialisti e stalinisti,
doveva essere in funzione delle necessità di guerra.
L’avversione alla collettivizzazione – spiega lo storico G. Ranzato – era dunque motivata dai
comunisti con ragioni di opportunità, con le necessità di non creare conflitti nelle campagne
in un momento in cui occorreva che la popolazione contadina facesse il massimo sforzo
per la produzione di guerra. Ma in realtà la loro politica creava forse altrettanti conflitti di
quanti ne sedava. Perché se gli anarchici potevano aver frustato e demoralizzato molti contadini che aspiravano alla proprietà individuale delle terra e alla libera commercializzazione
dei prodotti, la stessa frustrazione e demoralizzazione provocavano i comunisti ai tanti che
volevano dedicarsi agli “esperimenti collettivistici”25.
152
Berneri, soprattutto nell’intervento Guerra e rivoluzione (in “Guerra di classe” del
16 dicembre 1936), non nasconde grande preoccupazione per le sorti della rivoluzione:
È la rivoluzione spagnola che è in pericolo, comunque sia la conclusione “militare” della
guerra civile. Un intervento armato anglo-russo-francese tempestivo non è credibile, mentre
non è da escludersi tale intervento in punto di morte della Spagna. Sarà l’intervento dei
leoni contro le iene. Sarà l’intervento che potrà forse strappare la Spagna all’imperialismo
italo-germanico, ma per soffocare l’incendio della rivoluzione spagnola. Già oggi la Spagna
è posta fra due fuochi: Burgos e Mosca26.
Collocandosi, ormai nella completa disillusione, in una posizione eccentrica rispetto alla vulgata della guerra civile, intesa solo come campo di battaglia fra fascismi e
antifascismi, Berneri giudica le speranze dell’anarchia in Spagna ormai sempre più irrimediabilmente coinvolte nel gioco diplomatico e militare delle potenze europee (tra
interventi e non-interventi). «Il ricatto: o Madrid o Franco, ha paralizzato l’anarchismo
spagnolo. Oggi Barcellona è tra Burgos, Roma, Berlino, Madrid e Mosca»27. L’anarchia
barcellonese era ormai accerchiata. Era ormai chiaro che il conflitto in Spagna fosse
passato attraverso due momenti successivi – il golpe militare represso dalle forze rivoluzionarie e, poi, la fase della guerra civile – per giungere ad un «terzo tempo», causato
dall’«aperto intervento fascista italo-germanico, da un lato, e, dall’altro, l’intervento
russo. La guerra civile di Spagna è ormai nettamente caratterizzata come guerra civile
internazionale. […] Il problema del domani spagnolo è legato ormai indissolubilmente
agli sviluppi internazionali della guerra civile»28. L’unica soluzione può essere solo il
coinvolgimento del proletariato europeo in Spagna, senza alcuna delega ad interventi
militari, comunque nefasti. D’altra parte, appare ormai assurdo a Berneri inseguire la
pace ad ogni costo, facendo, fra l’altro, propria la massima di Léon Blum, secondo la
quale:
“il faut accepter l’éventualité de la guerre pour sauver la paix”. [...] Il pacifismo va per una
via pavimentata di buone intenzioni, come la via dell’Inferno, ma quella via conduce all’abisso. La pace ginevrina è pesante di stragi e di rovine. La pace ginevrina è la corsa agli
armamenti, è lo schiacciamento dei popoli militarmente più deboli, sono il fascismo italiano
e quello germanico potenziati sempre più e sempre più fomentatori degli altri fascismi. [...]
Le masse operaie non hanno che da scegliere tra i due corni di questo dilemma: o il loro
intervento o il trionfo del fascismo. E rimangono ferme29.
In un altro testo di Berneri, una lettera alla moglie, Giovanna Caleffi, del 4 maggio
1937, leggiamo:
Io sono esasperato dalla indifferenza europea per le cose di Spagna e temo quanto Franco
un intervento anglo-francese che, con il pretesto di accomodare le cose, faccia la parte del
leone. Più studio il materiale diplomatico-consolare che ho tra le mani e più mi convinco
che gli interessi imperialisti-plutocratici della Germania erano e sono minori degli stessi
interessi della Francia e dell’Inghilterra. La differenza è di stile: è la differenza fra un imperialismo affamato ed un imperialismo sazio. Ancora una volta l’antifascismo ufficiale si è
mostrato stupido nel presentare da una parte gli orchi di Hitler e Mussolini e dall’altra i “go-
153
verni democratici”, che non sono che facciate di cartone che nascondono la potenza delle
duecento famiglie inglesi o francesi. Questo risulta dal mio libretto sulle Baleari...30.
Qui il riferimento che ci interessa è ad uno dei lavori più importanti di Berneri,
Mussolini alla conquista delle Baleari, un vero e proprio dossier, terminato pochi
giorni prima dell’assassinio, scritto con piglio da storico «di parte», ma «onesto» (secondo l’insegnamento di Salvemini)31, per svelare i tentativi fascisti di invadere le isole
spagnole:
La Spagna apparve all’imperialismo mussoliniano un paese da colonizzare. Non è, questa,
una deduttiva ipotesi, bensì un’induttiva constatazione basata su numerosissime ed evidenti
prove ... Mayorca è il centro della pirateria faziosa, è il centro della fabbricazione di armi
organizzata dall’Italia fascista, dall’aviazione da bombardamento. Mayorca, Ibiza, Catalogna:
ecco le tappe della conquista sognata da Mussolini32. Berneri si dedicò allo studio dei materiali d’archivio lasciati dagli italiani in fuga dal Consolato di Barcellona, che era stato evacuato il 17 novembre 1936. Qui possiamo solo accennare all’importanza di questo e di altri
lavori di Berneri nell’analisi del fenomeno fascista33. D’altra parte, Berneri aveva più di un
motivo per voler “approfondire” la comprensione di un regime che lo aveva costretto all’esilio, a processi e persecuzioni (anche da parte di Stati liberali), fino a divenire “l’antifascista
più espulso d’Europa”. Fra l’altro così scrive Berneri nel febbraio 1937 alla sua compagna:
“Una cosa ti farà sorridere: ho letto oggi una circolare riservata di Mussolini nella quale mi
segnala alle autorità consolari come il dirigente del terrorismo antifascista in Italia. È roba
vecchia, ma spiega l’accanimento che per molti anni hanno avuto nei miei riguardi”34.
Il testo più celebre (oltre che più controverso) fra quelli pubblicati da Berneri su
“Guerra di classe” è, senza dubbio, la Lettera aperta alla compagna Federica Montseny,
in cui il Nostro si fa portavoce del disagio e della sofferenza di tanti militanti davanti
alla condotta dei «ministri anarchici», fra cui la stessa Montseny. Per Berneri, dopo un
trimestre di “collaborazionismo”, la situazione si era seriamente aggravata, sia militarmente, sia sul “fronte interno”. Berneri qui rende evidente il distacco fra vertici e base,
anzitutto mostrando l’ormai irreparabile frattura fra i militi e gli ufficiali, prodotto questo della militarizzazione. Berneri denuncia, in una parola, l’arrendevolezza dei vertici
cnt-fai alla logica “realista” dell’autoritarismo e della normalizzazione (esercito – Stato
– industria), logica che produceva cattivi compromessi.
Voi, anarchici ministri, tenete dei discorsi eloquenti e scrivete degli articoli brillanti, ma
non è con questi discorsi e questi articoli che si vince la guerra e si difende la rivoluzione.
Quella si vince e questa si difende permettendo il passaggio dalla difensiva all’offensiva. La
strategia di posizione non può eternizzarsi. Il problema non lo si risolve con il lanciare delle
parole d’ordine: mobilitazione generale, armi al fronte, comando unico, esercito popolare,
ecc., ecc. Il problema lo si risolve realizzando immediatamente quanto si può realizzare35.
Da ultimo, Berneri accenna ad un problema pesantissimo per gli anarchici: i rapporti con i comunisti schierati con l’urss:
È l’ora di chiarire anche il significato unitario che può avere la partecipazione nostra al
governo. Bisogna parlare alle masse, chiamarle a giudicare se ha ragione Marcel Cachin
154
quando dichiara (L’Humanité 23 marzo): “Les responsables anarchistes multiplient leurs
efforts unitaires et leurs appels sont de plus en plus entendus” o se hanno ragione la Pravda
e l’Isvestia quando calunniano gli anarchici spagnoli sabotatori dell’unità. Chiamarle a giudicare la complicità morale e politica del silenzio della stampa anarchica spagnola sui delitti
dittatoriali di Stalin, dalle persecuzioni contro gli anarchici russi al mostruoso processo contro l’opposizione leninista e trotskista36.
Fino a che punto spingersi nella logica del compromesso, fino a che punto “tradire” lo spirito critico ed il dovere della denuncia per i “metodi” staliniani? «È l’ora
di rendersi conto se gli anarchici stanno al governo per fare da vestali ad un fuoco
che sta per spegnersi o vi stanno ormai soltanto per far da berretto frigio a politicanti
trescanti con il nemico o con le forze della restaurazione della “repubblica di tutte le
classi”?37».
Maggio 1937
L’ugt [Unión General del Trabajo, il sindacato comunista], che aveva 9.000 organizzati in
Catalogna, ne ha ora 50.000. Un’ipertrofia così rapida è significativa. L’ugt polarizza i ceti
medi. I pescivendoli di Barcellona sono entrati in massa in quell’organizzazione per sfuggire
alla collettivizzazione del pescado, che è nel programma della cnt. Quello che avviene in
Barcellona avviene in tutta la Catalogna, nell’Aragona e nel Levante. I nemici della collettivizzazione delle terre, delle industrie e del commercio sono entrati in massa nell’ugt e nel
psuc. Treball organo del psuc, combatte la collettivizzazione e la socializzazione, mentre la
cnt ed il poum le propugnano. Ormai la saldatura è evidente tra il possibilismo opportunista
dei dirigenti del psuc ed i borghesi e piccolo-borghesi inseritisi nel Fronte popolare. Già
nell’insurrezione delle Asturie, si era assistito al rapido mimetismo pseudo-rivoluzionario
dei ceti medi38.
Queste parole di Berneri furono pubblicate lo stesso giorno in cui venne “prelevato”, assieme all’anarchico Francesco Barbieri, dalla sua abitazione barcellonese. Come
accennavamo più sopra, quello dei dissidi fra anarchici e comunisti (sia a livello partitico, sia a livello sindacale) è un tema costante nella polemica berneriana. Di certo, la
sua voce non era gradita a molti, sia nella Spagna repubblicana, sia in urss. Berneri si
trovava in un contesto in cui le differenze politiche, ideali, strategiche, non erano più
ricomponibili. La tensione, ormai incontenibile, fra i diversi gruppi esplose ai primi di
maggio, in una Barcellona divisa fra cnt e ugt, anarchici e comunisti.
Lunedì 3 maggio, le forze di polizia della Generalitat attaccarono la Centrale telefonica, occupata dagli anarchici. Per gli anarchici si trattava dell’ultima provocazione,
mentre per le forze governative (socialisti e comunisti) si trattava di un’orchestrazione
poumista in vista di un golpe. Di sicuro, era il segno del collasso dell’alleanza antifascista39. Si pensi ad esempio che, per contrasti fra le organizzazioni sindacali di diverso
orientamento e per paura di scontri, non si era tenuta due giorni prima a Barcellona
la manifestazione per la festa del Lavoro. Tornarono le barricate, le lotte quartiere per
quartiere. I dirigenti anarchici tentarono appelli per la pacificazione, ma invano. Gli
scontri dei primi di maggio furono un grande regolamento di conti, fino allo stremo
delle forze. Alla fine si contarono circa trecento morti, molti dei quali non erano stati
uccisi in combattimento, ma catturati in casa e poi eliminati, come, appunto, Berneri.
155
Come si diceva più sopra, la disputa fra anarchici e comunisti, in certi momenti quasi surreale, specie considerato l’andamento della guerra, si può riassumere in
due opposte maniere di intendere i rapporti fra guerra e rivoluzione. Ci rivolgiamo
all’ottimo saggio di Ranzato, L’eclissi della democrazia. Il punto di vista anarchicopoumista,
Si condensava nella parola d’ordine “Fare la rivoluzione per vincere la guerra” che si contrapponeva al semplice “Vincere la guerra!” dei comunisti – i quali però con i loro interlocutori rivoluzionari talvolta aggiungevano: “poi si farà la rivoluzione” – e dei partiti “borghesi”.
Ciò che essi intendevano era che la guerra non si poteva vincere se ai lavoratori si prospettava solo la difesa di una repubblica democratico-parlamentare lasciando sostanzialmente
intatto il sistema capitalista, e che occorreva invece motivarli con le conquiste rivoluzionarie,
collettivizzando la terra e le fabbriche, facendo rappresentare la sovranità popolare dai miliziani armati, e tutto il resto40.
Una diatriba che appare del tutto incongrua rispetto al comune pericolo. Cosa resta, se la guerra è persa? Cosa resta delle barricate per il potere o i principi, con Franco
vincitore? Ancora Ranzato:
Non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che la più terribile delle soluzioni sarebbe stata la
vittoria di Franco, per evitare la quale si potevano sacrificare, almeno provvisoriamente,
aspirazioni e principi. Ancorché la questione della guerra potesse apparire un ricatto, si trattava comunque di un ricatto ben fondato al quale si sarebbe dovuto soggiacere per evitare
conseguenze che erano in tutta evidenza assai peggiori di una repubblica “democraticoborghese”. D’altro canto i rivoluzionari sembravano proporre a loro volta un controricatto:
ci si lasci fare la rivoluzione, altrimenti non facciamo la guerra, non partecipiamo allo sforzo
comune, ai sacrifici comuni per vincere la guerra41.
Berneri si ritrovava isolato e di sicuro percepiva crescere attorno a sé il pericolo.
Non volle, però, trasferirsi all’interno della sede della cnt-fai, per rimanere con Barbieri
e altri compagni italiani. Berneri continuava a credere o, quantomeno, a predicare per
l’unità del fronte antifascista (senza sudditanze). Qui ci basteranno due casi esemplari.
Il 3 di maggio il nostro tenne alla radio un discorso commemorativo per la scomparsa
di Antonio Gramsci. Ecco come terminò il suo intervento:
Noi salutiamo dalla radio della cnt-fai di Barcellona, l’intellettuale valoroso, il militante tenace e dignitoso che fu il nostro avversario Antonio Gramsci, convinti che egli ha portato
la sua pietra all’edificazione dell’ordine nuovo, ordine che non sarà quello di Varsavia o
quello carcerario e satrapesco attualmente vigente in Italia, bensì un moderno assetto politico-sociale in cui il sociale e l’individuale si armonizzeranno fecondamente in un’economia
collettivista e in un ampio ed articolato federalismo politico42.
P.C. Masini, nel Caso Berneri, posto in appendice ad una raccolta di scritti dell’anarchico lodigiano, raccolta dalla quale pure è tratto il brano citato qui sopra, ricorda un altro episodio, ancora più significativo:
Berneri, subito dopo l’incidente alla Centrale Telefonica di Barcellona e mentre già si spa-
156
rava per le strade della città, aveva preparato un appello da stampare al più presto, per far
cessare la lotta fratricida. In questo ultimo scritto di Berneri non s’incontra una parola di
polemica o di recriminazione nei confronti dei comunisti, ma un vibrante richiamo a tutti
affinché il senso di responsabilità e di solidarietà antifascista prevalga sulle liti di fazione.
L’appello fu probabilmente scritto la sera del 3 maggio o nella giornata del 4, cioè alla vigilia
della morte43.
Potremmo dire, in sintesi: ricercare l’unità per un obiettivo politico concreto, ma
senza rinunciare all’identità ed all’autonomia. Così celebrare Gramsci (pur sempre un
avversario) non fa a pugni con le durissime polemiche contro lo stalinismo, né con il
prendere le difese dei poumisti, considerati da Mosca come i trotskisti di Spagna e, per
questo, eliminati44. Anche in questo caso, citeremo qui un solo episodio. Berneri, su
“Guerra di classe” del 5 novembre 1936 pubblicò Asinerie settarie, una risposta assai
risentita ad un articolo di Ercoli (alias Palmiro Togliatti), Sulle particolarità della rivoluzione spagnola, apparso su “Stato operaio” quello stesso mese. In quell’intervento
Ercoli aveva accusato l’anarchismo spagnolo di essere controrivoluzionario, di lavorare oggettivamente per la borghesia ed il fascismo e vi sosteneva che quell’anarchismo
fosse una «sopravvivenza feudale». Nella sua nota, Berneri definisce «clichés slabbrati»
i giudizi di Ercoli e, sprezzante, incalza: «Non avendo il cervello di Marx, Ercoli ne ha
il fiele. Il quale gli dà alla testa fino a fargli dire che gli anarchici spagnoli “per lunghi anni trascurarono le rivendicazioni dei contadini”. [...] E dal 1872 che, in testa il
Lafargue, i marxisti diffamano il movimento anarchico spagnolo, dicendo delle sciocchezze ancor più madornali delle loro diffamazioni. Ercoli continua la tradizione»45.
Così Libero Battistelli ricorda le ore precedenti l’uccisione:
La mattina del martedì 4 maggio verso le ore 10 si presentarono alla porta dell’appartamento
sito al 1° piano, 2 Plaza del Angel, due individui portanti un bracciale rosso. Furono ricevuti
dai compagni Berneri e Barbieri ai quali dissero di non sparare, dato che in faccia vi erano
degli amici dai quali non avevano nulla da temere. I due nostri compagni risposero che
essendo essi degli antifascisti accorsi in Spagna per difendere la rivoluzione non avevano
nessuna ragione per sparare su degli operai antifascisti; dopo di che i due uscirono e furono, dalla finestra, visti rientrare nei locali del palazzo in faccia, sede dei sindacati dell’ugt
[...] Nel pomeriggio del mercoledì verso le ore 18 si presentarono la solita dozzina fra militi
dell’ugt con bracciale rosso e poliziotti armati, più uno vestito in borghese, che dichiararono
in arresto Berneri e Barbieri46.
I corpi di Berneri e Barbieri furono ritrovati dalla Croce rossa nella notte fra mercoledì 5 e giovedì 6 maggio. È assai improbabile che l’omicidio sia stato opera o di spie
fasciste o di semplici militanti stalinisti indisciplinati.
Il funerale di Berneri, di Barbieri e di altri tre caduti, resta nelle rievocazioni dei militanti,
come Umberto Marzocchi, un momento, malgrado tutto, di affermazione libertaria e di sfida
alla prepotenza dei comunisti. Il lungo corteo passa sotto le finestre dell’Hotel Colón, sede
del partito, contravvenendo alle interdizioni e alle minacce degli organi di polizia che comunque non interviene in quella occasione di pubblica protesta nelle strade di Barcellona. In
qualche modo è la dimostrazione che l’anarchismo non demorde e che se la cnt-fai può venire ridimensionata, non può essere eliminata per le sue radici popolari tuttora profonde47.
157
Berneri fu ucciso perché oggettivamente controrivoluzionario. Così Masini: «“Vi arrestiamo – e vi uccidiamo – come controrivoluzionari. La vostra qualifica di anarchici
è già sufficiente per condannarvi come tali”. Una simile dichiarazione è già, se non un
biglietto da visita, una tessera di partito lasciata sul luogo del delitto. Solo un gruppo
politico poteva giustificare l’assassinio con questa tesi politica che costituiva uno degli
arnesi del suo armamentario ideologico e che era stata più volte teorizzata e applicata
alla situazione spagnola»48.
–––––––––––––––––––––––––
1
C. De Maria, Camillo Berneri. Tra anarchismo e liberalismo, Franco Angeli, Milano 2004.
2
F. Madrid Santos, Camillo Berneri. Un anarchico italiano (1897-1937). Rivoluzione e controrivoluzione in Europa (1917-1937), Archivio Famiglia Berneri, Pistoia 1985.
Segnaliamo anche Memoria antologica, saggi critici e appunti biografici in ricordo di Camillo
Berneri nel cinquantesimo della morte (Archivio famiglia Berneri, Pistoia 1986), ottima silloge
di saggi sugli aspetti più significativi del pensiero di Berneri. In particolare, vogliamo segnalare
A. Cavaglion, Camillo Berneri. L’anarchico antisemita, P.C. Masini, Mussolini grande attore.
Variazioni sul tema e, sulle tematiche qui trattate, U. Marzocchi, Ricordando Camillo Berneri e
gli avvenimenti della rivoluzione spagnola del 1936-37.
3
Vogliamo qui ricordare le pagine consacrate a Berneri da A. Zambonelli nel suo Reggiani in difesa della Repubblica Spagnola (1936-1939), Istituto per la storia della Resistenza e della Guerra
di Liberazione nella provincia di R.E., Reggio Emilia 1974, nonché due saggi di F. Montanari: La
giovinezza di Berneri in “RS. Ricerche storiche”, 1988/83 e Come e perché morì Camillo Berneri
in “L’Almanacco. Rassegna di studi storici e di ricerche sulla società contemporanea”, 2000/3435, pp. 123-144.
4
C. Berneri, Astensionismo e anarchismo in Anarchia e società aperta. Scritti editi e inediti, M&B
Publishing, Milano 2001, p. 227, corsivi nel testo.
5
Ivi, p. 228.
6
Berneri, Per finire in Anarchia e società aperta, cit., p. 238.
7
Ivi, pp. 239-240, corsivo nel testo. Berneri riporta qualche esempio che crediamo interessante.
In particolare: «Sono tedesco, abito la Saar, nel gennaio 1935. Non sono affatto soddisfatto della
amministrazione francese, ma non sono neppure indifferente al fatto che la regione cada sotto
il tallone hitleriano. L’ideale sarebbe un’insurrezione che sboccasse nell’autonomia della Saar,
abolendo Stato e borghesia. Ma non vedo la possibilità di tale insurrezione. Il problema è là: o
la Saar va alla Germania o resta alla Francia. La soluzione è una sola: plebiscito. Io posso pormi
il problema se sia meglio votare per la Francia, perché non-fascistizzata od invece votare per la
Germania, in considerazione del fatto che la Saar è tedesca e che voglio riaffermato il principio
dell’autodecisione degli allogeni come base di un più giusto ed equilibrato assetto europeo, ma
voto» (ivi, p. 241).
8
Ivi, p. 242.
9
«Quello che è certo è che sono un anarchico sui generis, tollerato dai compagni per la mia
attività, ma capito e seguito da pochissimi. I dissensi vertono su questi punti: la generalità degli
anarchici è atea e io sono agnostico, è comunista e io sono liberalista (cioè sono per la libera
concorrenza tra lavoro e commercio cooperativi e lavoro e commercio individuali); è antiautoritaria in modo individualista e io sono semplicemente autonomista federalista (Cattaneo completato da Salvemini e dal sovietismo)» (C. Berneri, Pensieri e battaglie, Comitato Camillo Berneri,
Parigi 1938, p. 32, corsivo nel testo).
10
G. Berti, Il pensiero anarchico. Dal Settecento al Novecento, Lacaita, Manduria-Bari-Roma
1998, pp. 858-859.
11
C. Venza, Tra rivoluzione e guerra. Libertari italiani nella Spagna degli anni Trenta in La
Resistenza sconosciuta. Gli anarchici e la lotta contro il fascismo, Zero in condotta, Milano
2005, p. 124.
158
Atto Costitutivo della Colonna Italiana di Barcellona in Epistolario inedito, Edizioni Archivio
Famiglia Berneri, Pistoia 1984, vol. II, p. 271.
13
C. Berneri, Le basi della colonna, in Atto Costitutivo della Colonna Italiana di Barcellona, cit.,
p. 269.
14
Venza,, Tra rivoluzione e guerra, cit., p. 125.
15
Berneri, Le basi della colonna…, cit., p. 271.
16
C. Berneri, Ordine del giorno, ivi, p. 274.
17
«Il governo diffida delle milizie sorte nella prima fase del conflitto con fisionomia nettamente
politica e sindacale di base ed esse vengono sostituite da forze armate regolari dai connotati
gerarchici appena mascherati dalla propaganda ufficiale che presenta l’esercito repubblicano
come “nuovo” e “popolare”» (Venza, Tra rivoluzione e guerra, cit., p. 127).
18
C. Berneri, Guerra di classe in Spagna 1936-37, RL, Genova 1979, p. 30. Ancora sulla collettivizzazione dei mezzi di produzione: «La pozione feconda è quella “centrista”. La chiarisco, per
evitare equivoci, con un esempio evidente. Io penso che la socializzazione della grande e della
media industria sia una “necessità di guerra”, sia un’indispensabile attuazione dell’”economia di
guerra”. [...] Faccio, invece, molte riserve sull’utilità economica della socializzazione della piccola industria in rapporto alle “necessità di guerra” e sono costretto a discutere con dei compagni
che vorrebbero estendere al massimo la socializzazione industriale. Io chiamo “centrista” la mia
posizione. Alla destra ho coloro che sono avversi alla socializzazione, alla sinistra coloro che
sono favorevoli in modo assoluto e con tendenze massimaliste» (ivi, p. 40).
19
L. Di Lembo, Guerra di classe e lotta umana. L’anarchismo in Italia dal Biennio rosso alla
Guerra di Spagna (1919-1939), bfs, Pisa 2001, p. 204.
20
Berneri, Guerra di classe in Spagna, cit., p. 5.
21
Ivi, pp. 5-6.
22
Ivi, p. 12.
23
Ivi, p. 14. «È da lamentare, inoltre, un processo di bolscevizzazione all’interno della cnt, caratterizzato dalla sempre meno vigilante, attiva e diretta possibilità di controllo da patte degli
elementi di base dell’opera svolta dai rappresentanti l’organizzazione in seno ai Comitati e
Consigli governativi» (ibidem).
24
Ivi, p. 15.
25
G. Ranzato, L’eclissi della democrazia. La guerra civile spagnola e le sue origini 1931-1939,
Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 439.
26
Berneri, Guerra di classe in Spagna, cit., p. 19-20.
27
Ivi, p. 20.
28
Ivi, p. 21.
29
Ivi, p. 19. Così commenta G. Berti: «Quando Hitler e Mussolini intervengono effettivamente,
Berneri è costretto ad augurarsi un allargamento della guerra mediante l’entrata delle democrazie a fianco della Repubblica. Diversamente, una vittoria politico-militare del nazifascismo nel
Mediterraneo significherà la “schiavitù del proletariato europeo”, l’era di un “nuovo Medioevo”.
Viceversa, l’arrendevolezza anglofrancese e la vittoria totalitaria avrebbero aperto le porte a un
conflitto mondiale, perché “il trionfo del fascismo è la guerra inevitabile di un prossimo domani”. Con grande lungimiranza egli avverte così che i patteggiamenti diplomatici della Francia e
dell’Inghilterra non avrebbero comunque salvato la pace in Europa, dal momento che il fascismo e il nazismo non intendono discutere, ma vincere. Se non che, qualora si fosse verificato
l’intervento armato francese e inglese a sostegno della Repubblica – ipotesi alla quale non
credette mai, dimostrando anche qui una vera lucidità politica –, vi sarebbe stato l’inevitabile
schiacciamento della rivoluzione sociale» (Berti, Il pensiero anarchico, cit., pp. 897-898).
30
Berneri, Pensieri e battaglie, cit., p. 277.
31
Berneri «si rende conto di non poter assurgere al rango di ricercatore perfettamente obiettivo
e lo dichiara senza ambiguità esplicitandoli fatto di essere un proscritto politico da undici anni.
Al tempo stesso egli ritiene di aver seguito l’insegnamento di un suo maestro, il grande storico
Gaetano Salvemini, con cui aveva discusso la tesi di laurea nel 1922» (C. Venza, L’imperialismo
affamato del Duce visto da un intellettuale militante, prefazione a C. Berneri, Mussolini alla
conquista delle Baleari, Galzerano, Casalvelino Scalo 2002, pp. 14-15).
12
159
Berneri, Mussolini alla conquista delle Baleari, cit., pp. 74-75.
Fra i libri e gli opuscoli di Berneri sul fascismo e, segnatamente, sulla figura (il “carisma”)
di Benito Mussolini, si vedano almeno Mussolini «normalizzatore» (1927) e Mussolini grande
attore (1934).
34
Berneri, Pensieri e battaglie, cit., p. 258.
35
Berneri, Guerra di classe in Spagna, cit., p. 34.
36
Ivi, p. 37.
37
Ibidem.
38
C. Berneri in G. Ranzato, Rivoluzione e guerra civile in Spagna 1931-1939, Loescher, Torino
1975, p. 118.
39
G. Ranzato avanza qualche ipotesi sulle ragioni non occasionali di quella «piccola guerra civile»: «Si può ritenere molto probabile che i comunisti cercassero lo scontro per farla finita con
il poum, gli anarchici e Caballero, e può darsi che l’episodio della Centrale Telefonica fosse una
provocazione diretta a suscitare la rivolta degli anarchici, la risposta armata e il conseguente
“soffocamento della rivoluzione”. [...] Ma non è affatto certo che i comunisti avessero bisogno
di quella specifica iniziativa, di quella “trappola”, per realizzare il loro intento. Perché le occasioni di scontro – dal controllo dell’ordine pubblico a quello delle frontiere o dell’industria di
guerra –, ognuna delle quali poteva costituire una trappola, erano molteplici. E in ognuna di
esse erano in gioco i pieni poteri di uno Stato di guerra. In effetti, il controllo della Centrale dei
telefoni di Barcellona era uno tra i principali di quei poteri, perché attraverso di essa passavano
non solo le comunicazioni tra la Generalitat e il governo di Valencia, ma anche tutte quelle che
quest’ultimo scambiava con l’estero. [...] La riservatezza di quelle comunicazioni era evidentemente indispensabile e gli anarchici che controllavano la Telefonica la violavano costantemente»
(Ranzato, L’eclissi della democrazia, cit., pp. 473-474).
40
Ivi, p. 480-481.
41
Ivi, pp. 481-482.
42
C. Berneri, Pietrogrado 1917 Barcellona 1937, Sugar, Milano 1964, p. 238.
43
Masini, Il caso Berneri in Berneri, Pietrogrado 1917 Barcellona 1937, cit., p. 247.
44
Si veda, ad esempio, l’articolo di Berneri In difesa del poum, pubblicato sull’Adunata dei refrattari del 1° maggio 1937: «Seguendo le istruzioni del governo dell’urss, la stampa della III
Internazionale ha scatenato e continua a scatenare una violenta campagna contro il poum, ossia
contro il Partito operaio unificato marxista di Spagna. Tale campagna è di una tendenziosità e
di una violenza inaudite» (ivi, p. 225).
45
Ivi, p. 224.
46
L. Battistelli, I fatti del 5 maggio 1937 in Berneri, Pensieri e battaglie, cit., pp. 296-297.
47
Venza, Tra rivoluzione e guerra, cit., pp. 135-136.
48
Masini, Il caso Berneri, cit., p. 240.
32
33
160
Vittorio Cantarelli
L’anarchico reggiano che organizzò
un attentato a Mussolini
Fabrizio Montanari
La sorte di Benito Mussolini poteva essere decisa a Bruxelles la sera del 19 marzo
1931. La stessa storia d’Italia e quella del mondo sarebbero, forse, radicalmente
cambiate se si fosse realizzato il sogno manifestato quella notte da un giovane minatore
piemontese. Appena un mese prima il duce degli italiani era sfuggito al mancato
attentato dell’anarchico Michele Schirru, e già c’era chi si proponeva per vendicare il
libertario sardo e portare a termine il suo piano.
Tra gli antifascisti italiani c’era chi era preoccupato che simili atti disperati potessero
nuocere alla comune causa d’abbattere il regime, e c’era chi invece riteneva necessario
passare alle vie di fatto per accelerarne la caduta.
Tra questi ultimi si distinguevano gli anarchici e i giellisti. Ritentare l’impresa era
anche per loro un azzardo e, considerati i precedenti, Schirru era stato fucilato, e i
pericoli insiti nella missione, bisognava preparare tutto con cura e non tralasciare
alcun particolare.
Per raggiungere il bersaglio occorrevano un volontario abile e coraggioso, i mezzi
economici e una rete di sostegno politico. A questo pensò Vittorio Cantarelli, il fiduciario
degli anarchici italiani in Belgio e segretario del Soccorso rosso internazionale.
Vittorio era un uomo di cinquantun anni, magro, alto circa un metro e settanta, dai
capelli castani e una gran capacità organizzativa. Calzolaio di mestiere, era conosciuto
e stimato da tutto il movimento anarchico italiano e internazionale. Era lui l’anima del
numeroso gruppo d’antifascisti residenti in Belgio.
La vicenda che lo avrebbe reso, suo malgrado, famoso iniziò, dunque, quasi per
caso al termine della riunione che Cantarelli aveva convocato in un albergo della Gran
Place per raccogliere fondi a favore di due compagni espulsi dal Belgio: Giuseppe
Pezzoli e Giovanni Angiolino. All’ora stabilita erano convenuti i delegati delle diverse
aree minerarie belghe: Angelo Borrillo, Arturo Baiocchi, Virgilio Gozzoli, Vittorio
161
Gazzu, Amilcare Batini, Ernesto Gregori, Pierino Zocco e Angelo Sbardellotto. Proprio
quest’ultimo, un giovane minatore di venticinque anni originario di Mel in provincia
di Belluno, non appena vide circolare le foto-ricordo dello sfortunato Schirru confidò
a Cantarelli d’essere pronto e deciso a ritentare l’impresa di scendere in Italia per
uccidere Mussolini.
Angelo sapeva perfettamente di offrirsi per un’impresa disperata, ma era ciò che in
cuor suo più desiderava fare. Le parole di quel giovane suscitarono un vero sussulto
nel cuore e nella mente del suo interlocutore.
Dopo essersi assicurato delle reali intenzioni del giovane e avergli ricordato i gravi
pericoli che inevitabilmente avrebbe dovuto affrontare, Cantarelli lo invitò a tenersi
pronto per ulteriori incontri.
La fitta rete di rapporti personali e politici intessuti in oltre dieci anni d’esilio, la
perfetta conoscenza dell’ambiente antifascista presente in Europa permisero a Cantarelli
di predisporre nei mesi successivi quanto necessario per realizzare l’operazione.
Nato a Castelnovo di Sotto (RE) il 16 ottobre 1882 da Giuseppe e Maria Tagliavini,
Vittorio Cantarelli all’età di sei anni si era trasferito, al seguito della famiglia, a La Spezia,
dove il padre aveva trovato lavoro. Dovendo concorrere anche lui al sostentamento
della famiglia, aveva abbandonato gli studi dopo le scuole elementari e aveva trovato
lavoro come apprendista presso un calzolaio. La prefettura di Genova lo scheda come
appartenente alla locale Lega dei calzolai e come Attentatore pericoloso.
Seguendo il suo istintivo desiderio di giustizia e di libertà, si era accostato, ancora
giovanissimo, agli ambienti anarchici locali che avevano in Pasquale Binazzi la loro
più autorevole guida. Attorno alla redazione del “Libertario”, il giornale che Binazzi e
sua moglie Zelmira Peroni avevano fondato nel 1903, era cresciuto un consistente e
combattivo gruppo libertario che guidava le lotte sociali della regione. Cantarelli era
uno di loro, frequentava le riunioni del circolo libertario e quelle del sindacato. Per
avere un’idea della consistenza degli aderenti ai circoli libertari, è sufficiente ricordare
che, secondo una stima della polizia e del ministero dell’Interno, gli anarchici spezzini
all’inizio del secolo superavano le trecento unità.
Le sue innate capacità organizzative lo portarono già nel maggio del 1905 e fino
a settembre del 1908, a diventare gerente del prestigioso giornale spezzino. Solo nel
1917, dopo alterne vicende, il giornale cessò le pubblicazioni, non prima comunque
d’aver formato un’intera generazione di giovani libertari ed essersi fatto apprezzare
anche oltre i confini d’Italia.
Con l’attività politica vennero però anche le prime prevedibili persecuzioni. Nel
1909, infatti, Cantarelli fu condannato a dieci mesi di reclusione e alla multa di mille
lire per reato di diffamazione a mezzo stampa. La querela in quella circostanza fu
promossa dal sacerdote Giovanni Ginocchio da qualche tempo acerrimo nemico degli
anarchici.
A quel punto per sottrarsi alla condanna e alla sorveglianza della polizia, nel
gennaio del 1910 decise di lasciare l’Italia, recandosi prima a Nizza, poi a Lione e infine
a Parigi. Nella capitale francese abitò per diversi anni in un piccolo appartamento
di Rue d’Esposition con la bella Cristina Bianciotto, di ventisei anni, originaria di
Cantalupo (PG).
Mentre per mantenersi faceva il calzolaio, Vittorio cercava d’approfondire le sue
162
conoscenze culturali leggendo tutta la stampa anarchica che riusciva a reperire,
assistendo alle conferenze politiche e allacciando rapporti con molti anarchici di
diversi paesi europei.
Dopo sette anni di volontario esilio, nel 1917, pensò di ritornare a La Spezia dove
venne di nuovo sottoposto ad una stretta sorveglianza da parte della polizia, che lo
considerava un pericoloso sovversivo.
Ormai lui aveva deciso: la sua vita sarebbe stata dedicata interamente al movimento
anarchico, alle lotte sociali e al sindacato. Dal 1919 fece parte del gruppo dirigente
dell’usi (Unione sindacale italiana) spezzina, distinguendosi nelle lotte per il caro viveri
e in quelle per l’occupazione delle fabbriche.
Nel marzo del 1922 partecipò a Roma al IV Congresso nazionale dell’usi come
rappresentante della sezione di La Spezia. Ma la situazione politica nazionale andava
progressivamente deteriorandosi e per un sovversivo come lui non restavano molte
strade per evitare il carcere.
Nel settembre del 1922, con il fascismo ormai alle porte, decise, dunque, di
riprendere definitivamente la via dell’esilio.
A Parigi intrattenne stretti rapporti con gli ambienti anarchici dell’emigrazione
italiana e si adoperò per la ripresa della lotta antifascista e di quella sindacale. Con
Fedeli, Vezzani, Gozzoli, D’Arcola (Tintino Persio Rasi) e Borghi, nell’ottobre del 1924,
firmò per il “Comitato d’Alleanza Libertaria” la convocazione di un convegno di tutte
forze libertarie emigrate in Francia.
Nel settembre 1925 partecipò a Parigi al convegno dell’usi in esilio in rappresentanza
dei compagni di La Spezia. In quell’occasione i due reggiani presenti, Cantarelli e
Torquato Gobbi, votarono mozioni diverse. Cantarelli in particolare si espresse per il
mantenimento dell’autonomia dell’usi rispetto alle altre organizzazioni sindacali, così
come suggerito dal segretario nazionale Armando Borghi.
Poi, nel 1926, iniziarono le espulsioni da diversi paesi europei che lo portarono
prima a Zurigo, poi di nuovo in Francia e, infine, dopo l’ennesimo arresto, in Belgio,
dove trovò lavoro presso il calzolaio spagnolo e compagno di fede politica Sotero
Peralta. Si calcola che la presenza italiana in Belgio abbia raggiunto nel periodo tra le
due guerre mondiali, la consistente cifra di oltre 30.000 persone.
Le ragioni che avevano portato tanti italiani ad abbandonare la loro terra d’origine
erano riconducibili a due: economiche e politiche. I rifugiati e gli esiliati politici
appartenevano a tutto il variegato schieramento antifascista: comunisti, socialisti,
giellisti, repubblicani, liberali, democratici, anarchici.
Questi ultimi, molti dei quali erano stati espulsi dalla Francia, si organizzarono
in circoli culturali, in associazioni di resistenza, in sindacato. Essi rappresentarono
un gruppo particolarmente combattivo, anche se non numerosissimo. Realizzarono a
diversi giornali, alcuni dei quali vissero solo per un numero, e tennero i contatti con i
loro compagni sparsi per l’Europa.
Stabilitosi, dunque, definitivamente a Bruxelles, la casa di Cantarelli divenne
subito un punto di ritrovo importante per molti antifascisti anche di orientamento non
anarchico.
Gli emissari della polizia politica fascista segnalarono al ministero dell’Interno la
sua presenza in diverse manifestazioni e comizi antifascisti. Il 19 giugno 1927, ad
163
esempio, prese parte a Esch sur Alzette (Lussemburgo) ad una manifestazione di
protesta per la condanna di Sacco e Vanzetti, prendendo la parola e inveendo contro
la giustizia americana. Per la violenza del suo linguaggio gli fu proibito di rientrare
in Lussemburgo. In settembre partecipò al comizio presso la Casa dei Tranvieri di
Bruxelles contro l’arrivo della “American Legion”.
In Belgio risiedevano o erano transitati molti libertari tra i quali i più noti erano
Camillo Berneri, Torquato Gobbi, Luigi Fabbri, Corrado e Mario Perissimo, Mario
Mantovani, Giuseppe Bifolchi, Enrico Zambonini, Bruno Gualandi, Hem Day e G.
Damiani. Le riunioni del gruppo libertario italiano avvenivano tutti i sabati sera al caffè
“Au roi”. In una sua testimonianza, rilasciata nel 1959, Ugo Fedeli racconta:
Allora, il Belgio rappresentava un punto di ritrovo e di attività, anche perché colà si rifugiavano
numerosi quelli che, dopo aver lasciato l’Italia e la Spagna, e che in Francia avevano creduto
di poter trovare una possibilità di vita, presto disillusi, d’espulsione in espulsione, mutando
nome e non poche volte anche nazionalità, cercavano asilo in Belgio.
Il nome di Hem Day (Marcel Dieu) era un punto fisso di riferimento. Una vera isola di
salvataggio si era andata formando a Bruxelles attorno alla infaticabile sua attività e a quella
del “Comitato Pro Vittime Politiche” che con altri compagni (Cantarelli) aveva creato.
Nel 1929, questo ardente predicatore, come lo definì una nota della polizia, si
trasferì ad Anderlecht, accentuando molto la sua attività antifascista, assumendo un
ruolo di primo piano nel cida (Comitato internazionale di difesa anarchica). Nel giugno
del 1931 partecipò ad un meeting in favore del diritto all’asilo con Hem Day, De Boc,
Pietro Montaresi, e Angiolo Bruschi. Ed è a quel punto e in quel contesto che si trovò
protagonista della vicenda che segnerà tutta la sua vita.
La proposta di Sbardellotto lo mise in agitazione. L’idea di ritentare l’impresa che in
passato non era riuscita a Lucetti e a Schirru lo eccitava, anche se per nulla al mondo
avrebbe voluto la loro fine per un altro giovane.
Il piano andava dunque preparato nei minimi particolari, senza lasciare nulla al
caso, anche perché Bruxelles pullulava di spie, infiltrati e agenti dell’ovra.
Le notizie provenienti dall’Italia davano la polizia fascista e l’ovra particolarmente
attente, specie ai valichi di frontiera e lungo le tratte ferroviarie con la Svizzera e la
Francia. Anche una volta giunto a Roma Sbardellotto avrebbe dovuto muoversi con
circospezione e avere tutto il necessario per essere autonomo e non dover chiedere
aiuto a nessuno.
Data la complessità dell’operazione, capì subito che non poteva agire da solo ma
che avrebbe dovuto chiedere aiuto ad alcuni compagni del tutto affidabili e con più
esperienza della sua in quel genere di cose.
Per quanto riguardava l’aspetto economico poteva contare su un recapito
londinese sicuro: quello del compagno Nemo, alias Emidio Recchioni, classe 1864.
Già collaboratore di Errico Malatesta, nell’ultimo decennio dell’800 aveva subito in
Italia il carcere e il confino per attività sovversiva.
Residente a Londra dal 1899, si era costruito una discreta fortuna economica grazie
ad un negozio di generi alimentari italiani dal nome assai eloquente: “King Bomba”.
Collaboratore di diverse testate anarchiche, Recchioni mise il suo discreto patrimonio
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a disposizione del movimento e fu implicato dalla polizia in vari attentati antifascisti
in Italia e all’estero.
Suo figlio Vernon Richards (Vero Recchioni) in seguito sposò Maria Luisa Berneri,
la figlia di Camillo, l’intellettuale anarchico ucciso dai comunisti durante il “maggio di
sangue” di Barcellona nel 1937.
Ottenuta la disponibilità di Nemo, il 20 ottobre, sette mesi dopo il primo incontro,
Cantarelli convocò per lettera Sbardellotto a Parigi alla Gare du Nord.
La confusione creata dalla gente in arrivo o in partenza dalla stazione era, infatti, il
luogo ideale perché i cospiratori non fossero identificati e potessero prendere i primi
accordi.
Dopo una frettolosa stretta di mani, la partenza fu fissata per il 25 ottobre con
direzione Nizza, Genova e infine Roma. L’ultimo incontro avvenne la sera stessa a la
Gare de l’Est alla presenza di un altro personaggio, poi identificato dallo stesso Angelo
in Alberto Tarchiani.
Questi era un giornalista romano che era stato interventista durante la prima guerra
mondiale e poi redattore capo del “Corriere della Sera”. Nel 1925 era espatriato a
Parigi, legandosi al gruppo di esuli antifascisti che si raccoglieva attorno a Gaetano
Salvemini e alla “Concentrazione Antifascista”.
La sua notorietà era dovuta al fatto che nel 1929 era stato il principale organizzatore
della fuga dal confino di Lipari di Carlo Rosselli, Emilio Lussu e Fausto Nitti. Nello stesso
anno era stato tra i fondatori di gl (Giustizia e libertà) e il principale organizzatore
dell’attività politica del movimento.
Negli anni successivi si recò negli usa dove, nel 1940, fondò l’associazione antifascista
“Mazzini Society”, che ebbe una discreta fortuna nella comunità italo-americana.
Tornato in Italia, morì nel 1964 dopo essere stato ambasciatore a Washington dal 1945
al 1955.
La presenza di Tarchiani era stata valutata indispensabile da Cantarelli sia per la sua
perfetta conoscenza di Roma, sia perché poteva offrire il sostegno e l’aiuto di molti
compagni della Concentrazione antifascista e di gl.
Per rispetto della verità bisogna sottolineare che anche Tarchiani come Recchioni e
Cantarelli in seguito negherà d’aver avuto una qualsiasi parte nell’ennesimo attentato
alla vita di Mussolini. D’altra parte tutto ciò era nei patti convenuti alla vigilia della
spedizione. Il 19 giugno del 1932 Tarchiani in una lettera alla “Libertà” di Parigi,
che era l’organo della Concentrazione antifascista scrisse che Sbardellotto era stato
imboccato ad arte dai suoi inquisitori: per cui le rivelazioni dovevano non essere
considerate nulla più che tesi della polizia e della magistratura fascista. Sostenne inoltre
di poter documentare che nei giorni di uno dei supposti incontri con Sbardellotto era
in Germania. Recchioni, dal canto suo, vinse una causa per diffamazione contro il
“Daily Telegraph”, che aveva sostenuto la tesi della sua responsabilità nell’attentato,
ottenendo 1177 sterline di risarcimento.
Angelo sapeva perfettamente che, una volta caduto nelle mani della polizia, non
avrebbe potuto contare su nessuno dei suoi compagni, i quali anzi lo avrebbero
disconosciuto. Quella era la regola che era seguita in occasione di ogni operazione
militare o terroristica.
La sera del 21 ottobre 1931, oltre a 2000 franchi, fu consegnata a Vittorio una
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valigetta contenente: un passaporto svizzero intestato ad Angelo Galvini, una rivoltella
e due bombe.
Cantarelli teneva i contatti tra i diversi protagonisti e le loro organizzazioni, si
assicurava della tenuta psicologica del giovane Sbardellotto, faceva da tramite con
i pochi compagni rimasti in Italia. Pur rimanendo fedele al mandato di segretezza
che l’operazione richiedeva, Vittorio si informava sul clima politico che si respirava
in Italia e sulle mosse della polizia, sempre più attenta ad ogni movimento degli
antifascisti. Cantarelli seguiva ogni spostamento di Sbardellotto e teneva i contatti con
il resto del movimento.
Oggi sappiamo che i tentativi di Sbardellotto d’uccidere Mussolini furono tre e tutti
sfortunati.
Il 28 ottobre, nono anniversario della marcia su Roma, giunse dunque nella
capitale, ma per una serie di sfortunati imprevisti, che qui conviene tralasciare, dovette
desistere dal suo progetto. Riparato di nuovo all’estero, per evitare d’essere localizzato
e sorvegliato dalla polizia si spostò tra diverse nazioni europee: Germania, Francia,
Lussemburgo, Olanda e Belgio, dove fu ospite di un altro anarchico reggiano, Enrico
Zambonini.
Il secondo sfortunato tentativo avvenne il 1° aprile 1932 in ricorrenza del “Natale
di Roma”.
L’ultimo appuntamento fu fissato per il 4 maggio in occasione del trasferimento
delle ceneri di Anita Garibaldi da Genova a Roma. Nella speranza di vedere e di
colpire Mussolini cominciò ad aggirarsi per Piazza Venezia. La sua presenza, tuttavia,
insospettì un poliziotto in borghese che lo fermò per accertamenti. Perquisito, gli
trovarono addosso le due bombe e la pistola.
Identificato, fu processato il 16 giugno 1932 dal Tribunale speciale e condannato
dal console Guido Cristini alla pena di morte. All’alba del 17 giugno fu fucilato al Forte
Bravetta da un drappello di militi capitanati da Armando Giuia.
Angelo mantenne fino all’ultimo momento un atteggiamento fiero e risoluto. Si sa
che nelle ore successive alla lettura della sentenza egli evitò di presentare la domanda
di grazia, pare anzi che abbia detto all’avvocato di fiducia: «Ma che pentito e pentito,
io rimpiango solo di non averlo ammazzato».
Il nome di Cantarelli, di Recchioni e di Tarchiani emersero dalle confessioni dello
stesso Sbardellotto fatte durante il periodo di prigionia. Che esse siano state estorte
dalle torture o che siano state autonomamente rilasciate da Angelo non è dato sapere.
La ricerca della verità è terminata con la tragica fine di Sbardellotto.
Quel che è certo è che come conseguenza di quelle dichiarazioni Vittorio fu
condannato a trent’anni di carcere come complice del fallito attentato con mandato
di cattura n. 377.
Il fallimento dell’impresa non impedì a Cantarelli di continuare la sua attività nel
gruppo anarchico italiano in Belgio e di impegnarsi molto nella denuncia dell’involuzione
autoritaria del regime bolscevico. Una cartolina inviata al padre Giuseppe a Pegazzano
(La Spezia), nella quale affermava di stare bene e di fare la solita vita, fu sequestrata
nell’ottobre del 1934. Il 17 settembre 1935 la Divisione della polizia politica annotò
che Cantarelli era considerato un decano e un patriarca dell’anarchismo bruxellese,
che era tenuto in grande considerazione, che aveva carattere di vero gesuita e che con
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modi di frate santone insinuava l’odio di classe e la ribellione, distribuendo i fondi del
Comitato di difesa anarchico ai giovani disoccupati.
Allo scoppio della guerra di Spagna fu animatore con Mario Mantovani e Vincenzo
Geranio del Comitato anarchico pro Spagna la cui missione era di raccogliere fondi
per le famiglie dei volontari e per l’acquisto di armi da inviare ai combattenti.
Per tutto il periodo della guerra rimase in contatto con molti compagni italiani corsi
in Spagna a rinforzare il fronte repubblicano. Tra tutti è importante ricordare la sua
amicizia con Camillo Berneri, ucciso nel “maggio di sangue” del 1937 di Barcellona,
che Vittorio ricordò in una riunione di compagni a Bruxelles.
Al termine del conflitto spagnolo, Cantarelli continuò ad occuparsi dei profughi al
loro ritorno nei paesi d’origine, assicurando loro i primi e più urgenti aiuti economici
e burocratici. Stando alle informazioni di un infiltrato della polizia Cantarelli abitava e
lavorava da ciabattino in una stanza stretta al primo piano, provvista di una finestra.
C’era però anche un tavolo pieno di giornali e libri anarchici.
Scoppiata la seconda guerra mondiale e con l’invasione tedesca del paese (1940),
Vittorio iniziò immediatamente ad organizzare la resistenza antifascista in Belgio e in
altri paesi europei. Promosse incontri e conferenze contro la guerra, distinguendosi
per il suo acceso e irriducibile pacifismo.
La sua attività tuttavia cessò bruscamente il 9 febbraio 1941, quando venne arrestato
dai nazisti e consegnato al Brennero dalla polizia tedesca a quella fascista.
Al suo arrivo in Italia fu subito rinchiuso prima nel carcere di Reggio Emilia e poi
il mese successivo, il 22 marzo, in quello di Civitavecchia (matricola n. 9717) per
scontare la condanna del 1932.
Durante l’interrogatorio al quale venne sottoposto in carcere dal procuratore
generale Giuseppe Montalto, a specifica domanda dichiarò:
Non ho mai conosciuto Tarchiani Alberto né ho avuto altrimenti rapporti, neppure indiretti,
con lui. Col Recchioni non ho avuto rapporti diretti se non dopo la condanna di Angelo
Sbardellotto nei sensi che ora specificherò.
Il Recchioni mi scrisse a Bruxelles, ove io abitavo, da Londra una lettera nella quale
mi faceva presente che nell’atto di accusa contro Sbardellotto si era affermato che esso
Recchioni avrebbe mandato a me un telegramma e mi invitava, qualora io avessi ricevuto un
telegramma a suo nome, di mandarglielo per dargli modo di fare una inchiesta allo scopo
di accertare chi avesse abusato del suo nome. Risposi al Recchioni che non avevo ricevuto
alcun telegramma suo né di altri.
Il Recchioni riscontrò tale mia lettera, chiedendomi di accertare presso l’ufficio telegrafico
di Bruxelles se fosse pervenuto diretto a me un telegramma da Londra. Io richiesi in detto
ufficio il quale mi rilasciò una dichiarazione attestante che nessun telegramma era pervenuto
al mio indirizzo. Spedii tale dichiarazione al Recchioni. Non ho avuto altri rapporti col
Recchioni.
D.R.: Ho saputo che Recchioni era chiamato “Nemo” solo in occasione della sua morte per
averlo letto sulla stampa anarchica che giungeva a Bruxelles.
D.R.: Per quanto riguarda Sbardellotto l’ho conosciuto nel 1929-30 a Liegi, dove mi ero
recato per visitare la città. Egli era assieme ad altri amici e compagni: qualcuni dei quali io
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avevo conosciuto in Italia. Lo rividi successivamente alla Casa del Popolo di Bruxelles, ma
occasionalmente. Ho scambiato con lui qualche parola e sono stato in sua compagnia e con
altri più volte.
Egli non mi ha mai manifestato intenzione di fare quanto poi ha fatto e cioè di attentare
alla vita del Capo del Governo italiano, né di tale intenzione mi è stato parlato da altri.
Tengo a precisare che almeno da sei mesi prima che egli venisse arrestato a Roma io non
lo vedevo.
E a conclusione dell’interrogatorio volle mettere a verbale la seguente dichiarazione:
«Tutto quanto ha scritto o dichiarato lo Sbardellotto nei miei riguardi è assolutamente
privo di ogni fondamento. Può darsi che lo Sbardellotto abbia accusato me per coprire
qualche altra persona che avrà fatto ciò che egli ha a me attribuito.»
Per tutto quanto dichiarato in precedenza:
Mi protesto innocente di quanto mi si contesta. Ho avuto delle idee sovversive e cioè
anarchiche, le ho propagandate, ho aiutato i miei compagni secondo le mie possibilità,
ma non mi sono associato per commettere delitti e molto meno quello di attentato
contro il duce.
Ripeto che io ho ignorato che Sbardellotto si proponesse di compiere l’attentato e non
sapevo che egli fosse venuto in Italia per ciò. Io sono completamente estraneo ai fatti da
lui commessi. Non ho altro da aggiungere.
Il processo si tenne il 23 maggio 1941. Il Tribunale speciale, presieduto dal
luogotenente generale della Milizia Gaetano Le Metre, con sentenza n. 130 lo
condannò a trent’anni di reclusione, all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, alla
libertà vigilata, al pagamento delle spese processuali e di preventiva custodia. Nessuna
notizia comparve sulla stampa.
Durante il periodo di reclusione ottenne il permesso di corrispondere con la sorella
Dirce e i fratelli Artemio e Nicodemo. Non si hanno invece notizie circa i suoi rapporti
con altri esponenti anarchici in libertà.
Uscì dal carcere di San Geminiano (Siena) solo dopo la fine della guerra, mostrandosi
più deciso di prima a continuare la sua attività politica. Ripresi i contatti con i compagni
scampati alla guerra e al carcere, militò nel gruppo della fai (Federazione anarchica
italiana) di La Spezia, partecipando come delegato al I Congresso fai di Carrara del
settembre 1945 e al Convegno nazionale di Firenze del marzo 1946. Poi Cantarelli
ritornò in Belgio, la sua vera terra d’adozione, dove morì a Bruxelles nel dicembre
1957.
Dei suoi ultimi dieci anni di vita non si hanno notizie certe. Una sua foto
comparve nel 1947 sul numero unico libertario “Olocausto, i nostri attentatori contro
il fascismo”.
Data l’età avanzata probabilmente si ritirò a vita privata, senza per questo rinunciare
a seguire le sorti del movimento. Molti compagni che avevano condiviso le sue lotte
non c’erano più, la pace ritrovata proponeva nuovi scenari politici che lui a fatica
riusciva a comprendere, le nuove generazioni proiettavano le loro aspirazioni in un
mondo che non gli apparteneva.
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Per tutte queste ragioni forse si limitò ad osservare gli avvenimenti, senza nemmeno
tentare di indirizzarli.
Appresa la notizia della sua scomparsa, i redattori di “Umanità Nova” lo ricordarono
così:
Ci comunicano da Bruxelles la triste notizia della scomparsa del compagno Vittorio Cantarelli.
Ne saranno afflitti gran numero di compagni, intendiamo particolarmente quelli che in Italia
e per le vie dell’emigrazione lo conobbero.
Era il tipo del militante instancabile, posato, calmo, penetrante nelle considerazioni delle
cose politiche, pieno l’animo di quella fraternità che caratterizza il compagno capace di
attrattiva operante di un gruppo in un comunità solidale di opere. Noi lo ricordiamo fino dai
tempi delle lotte in Italia.Quando alla Spezia nel 1919 nella lotta contro il carovita si riuscì ad
innescare un principio di insurrezione che stava dilagando in Liguria e in Toscana, Cantarelli
fu scelto accanto a un socialista dal Comitato d’Azione per recarsi a Milano a chiedere di
allargare il movimento. Ne tornò con un pugno di mosche. Turati ... gli aveva risposto: “Non
fate sciocchezze”.
Cantarelli in Francia prima in Belgio poi, fu quello che era stato per tanti anni a Parigi Felice
Mezzani, un perno dell’attività anarchica e della croce rossa anarchica.
Alla sua memoria rivolgiamo l’animo grato per l’opera sua; l’animo ancora una volta oltraggiato
dalla necessità necrologica verso uno di quelli il cui ricordo lascia tracce indelebili.
Dopo oltre cinquant’anni d’attività politica rivoluzionaria, di esilio e di carcere
cessava così l’avventura di un uomo che sull’altare dei suoi ideali di libertà e giustizia
aveva sacrificato tutto se stesso, vita compresa.
Nonostante il grande lavoro politico e organizzativo svolto in diversi paesi contro
il fascismo e per l’anarchia, la vicenda umana e politica di Vittorio Cantarelli resta
perennemente legata a quella di Angelo Sbardellotto, il giovane anarchico fucilato per
aver solo pensato di uccidere Mussolini.
Fonti
– Acs, Tribunale speciale per la difesa dello stato, busta 384, fascicolo 3680, vol. VI, Procedimento
penale contro Cantarelli Vittorio.
– Cpc, busta 1012, Vittorio Cantarelli, fascicolo 18.268.
– “La Tempra”, n. 3, 1925.
– Lutti Nostri in “Umanità Nova”, 22 dicembre 1957.
– Dizionario biografico degli anarchici italiani, bfs, 2003.
– F. Montanari: Voci dal Plata. Vita e morte di Torquato Gobbi, re 1997.
– “Umanità Nova”, 1957/51-52.
– Archivio Famiglia Berneri-Aurelio Chessa, Biblioteca “A. Panizzi”, Comune di Reggio Emilia.
– A. Morelli, Les italiens de Belgique face à la guerre d’Espagne.
Bibliografia
F. Montanari, L’Utopia in cammino. Anarchici reggiani 1892-1945, Reggio Emilia 1993.
G. Galzerano, Angelo Sbardellotto, Casalvelino Scalo 2003.
c. Berneri, Epistolario inedito, ed. Archivio famiglia Berneri-Aurelio Chessa, Pistoia.
f. Berti, Per amore della libertà, “A rivista anarchica”, 2000-2001/268.
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170
Legittimazione e potere,
il sistema DDR
L’antifascismo di Stato e le pratiche di legittimazione del
potere nella Repubblica democratica tedesca
Giulia Frattini
La legittimazione esterna dello stato tedesco orientale
Per capire il problema della legittimazione nazionale e internazionale della
Repubblica democratica tedesca, occorre risalire alle cause del suo mancato riconoscimento all’interno della comunità internazionale. La Repubblica di Berlino Est, soprattutto a causa della sua posizione geopolitica, si trovò a dover gestire una condizione
di forte instabilità politica, in cui il riconoscimento delle proprie frontiere agli occhi
del sistema internazionale risultava essere un problema prioritario.
La rdt esisteva per i suoi cittadini, chiamati a sfilare in copiosi cortei durante la festa della Repubblica1, riuniti per le celebrazioni dell’8 di maggio2 nel parco di Treptow
a Berlino Est, davanti al più grande monumento in onore dell’Armata rossa. Lo Stato
dei lavoratori e dei contadini3 esisteva inoltre per i giovani iscritti alla fdj4, impegnati
nell’apprendimento costante della dottrina socialista e per i berlinesi dell’est, attratti
dai canali televisivi della Germania Ovest, che mostravano la vita oltre il muro5.
Tuttavia, mentre i cittadini tedeschi dell’Est vivevano la loro “storia quotidiana”,
aldilà dei suoi confini, la Repubblica democratica tedesca mancava del proprio riconoscimento internazionale. Fin dalla sua nascita, lo Stato tedesco orientale era considerato un territorio occupato che faceva da tutt’uno con l’Unione Sovietica, privo di una
propria identità giuridica e istituzionale. Dal governo di Bonn, la rdt veniva definita
sarcasticamente “Germania di Pankow” (dal nome del quartiere berlinese in cui aveva
sede il governo provvisorio della zona di occupazione sovietica).
171
Dal canto suo l’Unione Sovietica, incerta fin dall’inizio sul destino dei tedeschi
orientali, mostrò in diverse occasioni atteggiamenti piuttosto ambivalenti. Nel settembre del 1955 il Cremlino, dopo aver più volte giocato la carta della riunificazione6,
ratificò la posizione internazionale della rdt in un accordo, ma senza riconoscerla
completamente: una clausola del trattato definiva che il patto sarebbe stato valido fino
alla ricostituzione di una Germania unita o alla stipulazione di nuovi accordi. Il trattato
sottolineava inoltre che tutte le questioni di politica estera del paese sarebbero state
assoggettate e sottoposte alla ratifica dello Stato sovietico7.
La condizione più difficile da arginare era rappresentata in realtà dalla vicinanza
con la Repubblica federale. La storia della Germania divisa è soprattutto una storia di
concorrenza tra due Stati, che si sviluppa nel corso delle sue fasi attraverso delle cesure, in cui si scorge un predominio iniziale della tattica “dell’uno contro l’altro”, fino
a giungere ad un tentativo di stabilire una regolata coesistenza. Infatti, se i rapporti di
forza tra rdt e urss rimasero quasi sempre gli stessi, i rapporti tra i due governi tedeschi
subirono delle correzioni e delle modifiche sostanziali nel corso degli anni.
La politica estera delle due Germanie dopo il 1949 si espresse attraverso i paradigmi della Guerra fredda: bipolarismo, confronto tra i blocchi, conflitto Est-Ovest. Nel
settembre del 1949 il cancelliere della Repubblica federale tedesca Konrad Adenauer,
nel suo discorso inaugurale per la nascita della nuova repubblica, enunciò un principio cardine che rimase la base della politica estera tedesca occidentale per un ventennio: «La Repubblica federale si sente responsabile per il destino dei diciotto milioni
di tedeschi che vivono nella zona sovietica. Essa assicura loro la sua fedeltà e la sua
tutela. La rft è la sola a poter parlare in nome del popolo tedesco. Essa non riconosce
come vincolanti le dichiarazioni emanate dalla zona d’occupazione sovietica […]»8.
Le relazioni intertedesche assumevano, in virtù della spaccatura del paese in due
Stati opposti nei loro sistemi economici e politici, il carattere di un conflitto specifico
intertedesco (Sonderkonflikt)9.
Fino al 1955 la sed10 si batté strenuamente per la riunificazione della Germania, che,
se dal punto di vista politico poteva considerarsi una tattica rischiosa, sul piano della
sfera pubblica gli offriva la possibilità di guadagnare una posizione attraente tra i suoi
cittadini. La strategia della Germania Orientale sembrava, infatti, seguire un doppio binario. Da un lato offriva alla popolazione un credo “patriottico” da difendere in nome
dell’unità di tutto il popolo tedesco. Dall’altro scatenava, nel segno del confronto tra
i due blocchi, una propaganda efferata contro il “militarismo”, il “revanchismo” e il
“neonazismo” della Repubblica Federale.
Il 1955 rappresentò un cambiamento del paradigma, l’entrata della rft nella nato e
della rdt nel Patto di Varsavia, sommata al fallimento della conferenza di Ginevra delle
quattro potenze nell’autunno dello stesso anno, modificarono le prospettive future
dello Stato. La Repubblica democratica tedesca incominciò ad accantonare gradualmente la possibilità di una riunificazione imminente e spostò maggiormente la sua attenzione sugli aspetti della politica interna. In seguito, con la costruzione del muro di
Berlino nel 1961 vennero a consolidarsi queste nuove strategie. Da subito si impose la
necessità di definire la rdt come entità statale indipendente finalmente divisa dalla rft.
La propaganda legata alla riunificazione, che era stata un leitmotiv durato più di un
decennio, si sostituì ad un nuovo orientamento, sancito nella Costituzione modificata
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proprio nel 1968, che definiva la rdt «uno Stato socialista della nazione tedesca».
L’Istituto per la demoscopia di Allensbach pubblicò nel 1989 uno studio sulla percezione della divisione nella coscienza del popolo tedesco. La ricerca evidenziò come
nell’immediato dopoguerra il problema della pace, della ricostruzione e la necessità
di un miglioramento materiale delle condizioni di vita fossero questioni di gran lunga
prioritarie rispetto a quelle della riunificazione del paese. Ma già dalla metà degli anni
Cinquanta la percezione reale della divisione del paese si manifestò con virulenza,
costituendo un pensiero costante per la maggioranza dei cittadini della rdt, per poi
essere accompagnato da sentimenti di disillusione e pessimismo nell’anno di costruzione del muro di Berlino11.
Il cittadino tedesco orientale mostrava nella sfera pubblica dello Stato un’accettazione quasi coatta delle regole e dei doveri della società socialista, ma nella sfera
privata esprimeva la dimensione reale della sua condizione. Numerosi storici hanno
definito la società della rdt una «società di nicchie»12, poiché solo nel privato si accumulavano gli unici fenomeni di dissidenza al regime (conversazioni private, letture
di testi non permessi dal regime, la visione di canali televisivi provenienti dall’Ovest,
ecc.) e le uniche manifestazioni pubbliche rilevanti di dissidenza si ebbero (all’infuori
dello sciopero dei lavoratori del 1953) nel corso delle proteste del 1989.
La legittimazione interna del paese
Tutti gli stati dell’Europa orientale ricorsero a molteplici strategie di legittimazione,
che coniugavano l’obiettivo della costruzione del socialismo a particolari pratiche di
ricerca del consenso. Un’attenta analisi dei regimi dell’Europa orientale ha messo in
luce come fosse presente, da un lato l’adozione di pratiche ufficiali di legittimazione, dall’altro l’utilizzo di pratiche non ufficiali (si parla di “overt and covert modes of
legitimation”)13. Queste pratiche erano messe in atto con lo scopo di consolidare la
legittimazione del potere attraverso l’ideologia marxista leninista nella sua variante
sovietica14. Quest’ultima prevedeva l’autorità del partito e dello Stato, organismi essenziali per la costruzione dell’identità socialista attraverso il controllo esclusivo della
sfera sociale e politica di questi paesi.
La legittimazione dei regimi socialisti si realizzò attraverso un processo costituito da
fasi, in cui le pratiche di legittimazione del potere più importanti erano rappresentate
dalla propaganda e dalla mobilitazione (nella rdt c’era un particolare ufficio che se ne
occupava), che miravano alla rieducazione ideologica dei cittadini e alla costruzione
di un’artificiale partecipazione democratica alle scelte dello Stato.
Il nazionalismo, ovvero la riscoperta dell’identità nazionale, costituì la base della
ricerca del consenso intorno agli anni Sessanta e Settanta; i regimi iniziarono, infatti, a
riappropriarsi dell’eredità e della tradizioni nazionali, consapevoli della debole identità
collettiva su cui si reggevano le società socialiste. Allo stesso tempo, questa pratica era
bilanciata dal richiamo all’internazionalismo, che rimase per tutto il periodo una formula di rito utilizzata per frenare le manifestazioni nazionaliste da parte della società
e per legittimare la dipendenza con l’Unione Sovietica.
Nella sua specificità la rdt rappresentava uno Stato socialista sui generis15, sia per
la sua condizione storica, sia per la sua posizione geopolitica. Per questo motivo oc-
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correva costruire per i cittadini tedeschi dell’Est un’identità storica, culturale e politica
della nazione, che potesse creare le basi del nuovo Stato. Nella Repubblica di Berlino
est, fino a pochi anni prima coinvolta nel regime nazionalsocialista, si fece strada,
paradossalmente, una cultura che ufficializzava l’antifascismo come mito fondatore
della nazione.
Dopo il 1945, i due Stati tedeschi si trovarono ad affrontare il compito di superare
il passato nazista. La Repubblica democratica tedesca reagì con una cultura ufficiosa
dell’eroicizzazione, che metteva in risalto i pochi esempi di lotta e resistenza dei comunisti tedeschi contro il regime nazionalsocialista, sottostimando il consenso che le
masse tedesche conferirono a Hitler.
La definizione ufficiale di antifascismo, utilizzata per la costruzione del nuovo mito
fondatore dello Stato, si rifaceva a quella del comunista bulgaro Georgi Dimitrov, in
cui si enunciava che: «Il fascismo è la dittatura dichiaratamente terroristica delle istanze
più reazionarie, più scioviniste, più imperialiste del capitale finanziario»16. Tale definizione mostrava come il nazionalsocialismo, rientrando nella definizione generale di
“fascismo”, non era evidenziato come avvenimento specifico della Germania, bensì
descritto come fenomeno europeo, in cui la mentalità e la storia tedesca non ne costituivano un elemento chiave. Il nazismo fu sintetizzato come la vicenda di un piccolo
gruppo di uomini legato al capitalismo monopolista che con denaro e intrighi politici
portarono Hitler al potere17. Il nazionalsocialismo, così interpretato, faceva risaltare
solo una parte della realtà che produsse, ovvero la distruzione del movimento operaio, i campi di concentramento, la guerra contro l’Unione Sovietica, mettendo invece
a margine per esempio l’annientamento degli ebrei.
In primo luogo, l’antifascismo di Stato aveva il compito di conferire un’identità
storica e politica al paese, mettendo in auge i rappresentanti dei comunisti tedeschi
emigrati a Mosca negli anni Trenta e sbarcati a Berlino subito dopo la capitolazione,
per formare un nuovo governo. A partire dai libri di testo di storia, fino alla propaganda di Stato, si sottolineava che le forze antifasciste avevano preso origine dal kpd
(Partito comunista tedesco), che aveva svolto un ruolo significativo nella lotta contro i
nazisti. La resistenza, che si formò all’interno delle fila del kpd fu descritta come la più
organizzata e numerosa rispetto ad altri gruppi o partiti (si pone la differenza con la
spd). Si rimarcava la continuità della resistenza comunista dal ’33 al ’45 e il suo legame
centrale con i funzionari del partito comunista tedesco emigrati a Mosca. La resistenza
comunista, essendo stata illustrata come «la migliore forza del popolo tedesco»18, fu
reinterpretata non più come «Storia di una sconfitta», bensì come «Storia di una vittoria».
Quest’interpretazione eroicizzava una resistenza in realtà molto meno partecipata di
quanto veniva sbandierato.
In realtà i comunisti tedeschi furono doppiamente colpiti, come vittime della
Gestapo e vittime della polizia segreta di Stalin. Decimati ad un quarto del loro personale, i tedeschi antifascisti “vincitori” erano piuttosto degli sconfitti19.
Il 3 giugno del 1945 fu fondato il comitato delle Vittime del fascismo (Opfer der
Faschismus), composto da una prevalenza di comunisti e da una minoranza costituita
da socialdemocratici, rappresentanti dei perseguitati del 20 luglio e un rappresentate
della comunità ebraica e uno di quella cristiana. L’associazione nacque con lo scopo, citando le parole di Walter Ulbricht, di «riunire tutte le vittime del fascismo sotto
174
un’unica associazione che perseguisse anche l’obiettivo di aiutare a stanare i criminali
fascisti»20.
L’unità di cui parla Ulbricht fu piuttosto una dichiarazione di facciata, nonostante la
composizione del comitato fosse abbastanza eterogenea i comunisti iniziarono fin da
subito ad imporre la loro egemonia. Ben presto l’associazione si dovette conformare
alla definizione di fascismo data dalla dottrina sovietica, in cui l’antisemitismo non
costituiva un aspetto fondamentale della natura della sua ideologia. Di conseguenza,
le sue vittime dovevano rappresentare soprattutto coloro i quali erano stati danneggiati dal capitalismo monopolista, ovvero lavoratori attivi nella resistenza, comunisti,
perseguitati politici. La conferenza di Lipsia dell’ottobre 1945 sancì l’ufficiale appartenenza degli ebrei al Comitato delle vittime, ma in una lista che li vedeva distinti da
quella dei “combattenti”, che includeva invece membri del kpd e perseguitati politici.
Questa separazione tra chi fu esclusivamente vittima e chi invece aveva combattuto
attivamente contro il nazismo, servì a far primeggiare gli ultimi come i veri liberatori
del popolo tedesco21.
L’antifascismo come strumento politico della sed
L’antifascismo sostenuto dai quadri di partito fungeva innanzitutto da strumento
di lotta interna dello Stato. Questo era l’antifascismo del consenso: una fusione di
strategia politica e opportunismo, utilizzato per giustificare la lotta alle opposizioni
interne.
La denazificazione impiegata come strumento per l’eliminazione delle vecchie élite,
fu legittimata proprio dall’interpretazione stessa dell’antifascismo che classificava molte categorie sociali come nemici da combattere all’interno del paese22. L’epurazione fu,
infatti, inaugurata come espressione di una politica antifascista, che liquidava i conti
con i criminali di guerra e i nemici del popolo nazionalsocialisti, comprendendo anche
grandi proprietari industriali, simboli del nefasto potere capitalista. L’identificazione
del “nemico fascista” nella figura del capitalista avallò, inoltre, l’abolizione della proprietà privata e la statalizzazione delle industrie.
L’antifascismo, utilizzato con una connotazione antioccidentale, fungeva anche
da capro espiatorio nelle campagne propagandistiche della sed contro la Repubblica
Federale. Quest’ultima era considerata la continuità dello Stato tedesco nazista e il suo
leader Konrad Adenauer rappresentava il soggetto principale da diffamare23.
L’aperto scontro con la rft consentì alla rdt di giustificare il suo mancato risarcimento per i danni del genocidio ebraico allo stato di Israele, sostenendo che, mentre
essa incarnava uno Stato antifascista, Israele apparteneva al sistema imperialista mondiale e intratteneva rapporti commerciali con lo “Stato fascista” di Bonn24.
L’antifascismo venne inoltre utilizzato come politica per l’integrazione della popolazione. La discussione principale nella Germania Est dell’immediato dopoguerra
verteva sulla difficoltà di conciliare, in un quadro uniforme, la storia dei perseguitati
con la storia dei Mitlaufer, ovvero dei sostenitori e fiancheggiatori del nazismo. Forte
di questa delicata situazione, l’antifascismo venne utilizzato in modo funzionale per
l’integrazione sociale degli appartenenti alla Wehrmacht, per i membri del nsdap e dei
fiancheggiatori del regime nazionalsocialista. La sed reinserì nella società la maggio-
175
ranza dei gregari al regime nazista. Questa simbiosi tra legittimazione antifascista e
politica dell’integrazione si impose fin dai primi anni di vita della rdt come fattore per
la stabilizzazione del regime.
L’antifascismo come concetto dominante per l’analisi del passato e
per la diffusione della memoria “nazionale”
Molti cittadini della rdt accettarono il socialismo poiché offriva un nuovo e chiaro
orientamento politico e sociale.
Anche se le esperienze antifasciste costituirono un aspetto marginale della storia
tedesca, nel dopoguerra quel credo servì alla popolazione come forma di espiazione dalla sua stretta partecipazione al nazismo. Per questo motivo secondo lo storico
Martin Sabrow l’antifascismo acquisì una «dimensione liberatoria». Questo credo favorì
una visione che esonerava i singoli da ogni responsabilità, poiché non andava alla
ricerca di colpe individuali, bensì considerava la dichiarazione d’appartenenza alla rdt
come condizione della propria espiazione alle colpe del nazismo.
In realtà, l’artificiosità del concetto di antifascismo non aveva radici profonde nella
società tedesca e difficilmente riusciva ad essere interiorizzato profondamente come
valore collettivo.
Come afferma lo scrittore tedesco Thomas Schmid: «Nella rdt l’antifascismo di
Stato, in cui erano confluite anche le sincere motivazioni di molti vecchi oppositori al
nazionalsocialismo, con la sacralizzazione del tema e nell’insopportabile autocompiacimento delle sue manifestazioni, non favorì il sorgere di una consapevole coscienza
antifascista»25.
Anche la scrittrice Christa Wolf, che prese parte alla costruzione della società socialista nella rdt, in un’intervista rilasciata pochi anni dopo la caduta del muro lasciava
intravedere, seppur in maniera più velata, la stessa visione di Schmid. La Wolf osservava:
Alle persone che allora erano giovani questo antifascismo, diciamo d’obbligo, ha comunque dato una connotazione per la vita, e non una connotazione schematica e superficiale.
Notavo però che col tempo tale antifascismo diveniva, intanto, un fatto piuttosto automatico,
che dunque nelle nuove generazioni non andava più molto in profondità, ma soprattutto
accadeva anche un’altra cosa: la classe dirigente si rendeva conto che era impossibile costruire un nuovo Stato con una popolazione umiliata da una colpevolizzazione, che peraltro
nella ex ddr ora è nuovamente in atto […]; che con una popolazione piegata e colpevole
non si può costruire un socialismo vincente; a poco a poco si è passati dunque ad attribuire
la tradizione dell’antifascismo alla popolazione della ddr nel suo complesso. E si è praticamente fatta una divisione tra “buoni” e “cattivi”: qui si viveva nella tradizione antifascista,
dall’altra parte, in Occidente, in quella fascista. Senza affermare che là fossero tutti fascisti,
si è operato procedendo su questa divisione26.
Storia e storiografia nella rdt
In Germania Orientale la storiografia rappresentò un canale privilegiato per la co-
176
struzione dell’identità dello Stato, soprattutto perché riscrivere la storia della rdt significava dare un’identità fondatrice alla nazione, nel nuovo contesto del dopoguerra27.
Per gli storici della rdt l’utilizzo del concetto di Storia tedesca, risultava essere tra i
problemi più urgenti da risolvere.
La storiografia della rdt produsse di fatto una frattura con il modello interpretativo
classico della Deutsche Geschichte, in quanto si cercò di edificare un controprogetto
indipendente, in cui la storia dei tedeschi orientali doveva essere un racconto antitetico a quella dei compagni della rft.
La nuova storiografia si focalizzava sul ruolo della lotta di classe, conferendo la
priorità al contenuto sociale della storia. Furono introdotti termini provenienti dall’influenza sovietica, concetti marxisti-leninisti, la spiegazione della Riforma protestante
come “rivoluzione pre-borghese”, oppure del Terzo Reich utilizzando il concetto di
“fascismo”.
Uno studio di Herald Bluhm sui miti fondatori della Repubblica democratica tedesca mette in luce come alcuni avvenimenti storici della storia tedesca fecero da collante per la costruzione dell’identità nazionale della rdt28.
Tra questi assunse un ruolo significativo la guerra di liberazione dal dominio napoleonico del 1813. In occasione delle celebrazioni per i centoquarant’anni dalla battaglia contro Napoleone furono pubblicati alcuni studi, che avevano il compito di sostenere, attraverso la storiografia, l’attualità degli eventi. La guerra di liberazione, vinta
grazie all’alleanza con la Russia zarista, doveva conferire legittimità all’attuale legame
con l’Unione Sovietica, instaurando un percorso di continuità con la tradizione storica
della nazione29. La fratellanza militare con la Russia trovava qui la sua continuazione
nel presente. La Neue Wache sotto gli Unter den Linden, i viali di Berlino est, rappresentò il sodalizio tra i due miti fondatori della rdt: l’antifascismo – rappresentato dal
monumento alla memoria delle “vittime del fascismo”, con la presenza nella Neue
Wache della tomba del “resistente ignoto”– e la guerra di liberazione. Il progetto di
Schinkel era infatti un simbolo della tradizione prussiana eretto in occasione della
sconfitta di Napoleone. Questa strategia, che serviva all’integrazione della società sotto
un’unica Storia omogenea, emerse chiaramente nella conferenza della sed del 1952,
quando Ulbricht dichiarò che la storia del movimento operaio tedesco doveva stare al
centro della storiografia assieme alla lotta rivoluzionaria per la libertà, intendendo con
quest’ultima la guerra contro Napoleone nel 1813, la rivoluzione del 1848, fino alle
sollevazioni del proletariato contro il nazionalsocialismo.
La riscrittura dell’Olocausto
Lontano dalla storia e lontano dalla ricerca, il tema dell’Olocausto nella rdt fu raramente trattato nella sua complessità e importanza. Il regime non gradiva che fossero
oltremodo sottolineate le sofferenze degli ebrei nel timore, o nella convinzione, che
questo avrebbe diminuito i meriti ed i sacrifici dei comunisti30.
Gli storici tedeschi della Germania Est tendevano a descrivere la Shoah come un
crimine sanguinario inflitto dal fascismo, senza tuttavia documentare l’episodio nella
sua unicità storica31.
177
La storia della Repubblica democratica tedesca faticava a tenere unite identità comunista e identità ebraica. Quest’ultima non poteva essere approfondita nelle sue caratteristiche storiche, religiose ed etniche, poiché contrastava con l’analisi della società
su base classista dell’ideologia marxista.
Quando nel 1955, Walter Bartel pubblicò il primo libro di testo per le scuole superiori sul periodo nazista, l’opera accennava solo ai quattro milioni di morti provenienti
da tutta Europa che perirono nel campo di concentramento di Auschwitz. La parola
ebreo non compariva nel testo della pubblicazione. Fino alla fine degli anni ’50 le
ricerche sul tema furono quasi assenti32. Le uniche ricerche significative erano rappresentate dal volume del rabbino di Berlino Martin Riesenburger La luce non si spegne33
e da uno studio di Siegbert Kahn, storico dell’istituto per il Marxismo Leninismo34. In
quest’opera l’autore utilizzò per la prima volta una fonte importante, che riferiva la
diretta reazione del kpd la notte dei cristalli, testo che fu utilizzato negli anni seguenti
per la dimostrazione della lotta comunista alle leggi razziali di Hitler.
Una pubblicazione elaborata da Heinz Kuehnrich, un collaboratore dell’Istituto per
il Marxismo Leninismo sottolineò che le fondamenta del nazismo erano l’anticomunismo e l’antibolscevismo, senza contare della sua impronta antisemita.
Il processo di Eichmann, che si tenne a Gerusalemme nel 1961, fu l’evento che
innescò nella rdt il dibattito più acceso sul tema. Non ci furono avanzamenti concreti nella ricerca, ma per l’occasione fu indetta una conferenza internazionale intitolata: “La barbarie, espressione estrema del dominio del monopolio in Germania”,
che si rivelò essere l’occasione ufficiale per la completa denigrazione degli avversari
della rdt. L’obiettivo principale divenne «provare scientificamente l’essenza barbarica
e antidemocratica dell’imperialismo tedesco, la cui prosecuzione era incarnata dalla
Repubblica federale»35.
Nel corso degli anni solo lo storico Guenter Paulus tentò di aprire qualche spiraglio
per sviluppare una ricerca più obiettiva e meno strumentale sull’argomento. Paulus,
invitato ad una trasmissione radiofonica nel 1965, affermò che, nonostante Hitler fosse
una marionetta del sistema capitalista, si muoveva comunque con una certa indipendenza politica. Quest’affermazione, unita ad altri piccoli accorgimenti che sminuivano
il ruolo giocato dal monopolio capitalista nel nazismo, costarono allo storico la perdita
del posto come direttore del dipartimento di Storia contemporanea all’Istituto per la
Storia e la messa al bando del suo ultimo libro.
Dal 1966, sulla scia dell’apertura intellettuale iniziata da Paulus, altri esponenti dell’Istituto per la Storia avanzarono studi di poco più svincolati dai dettami del partito.
Helmut Eschwege, Rudi Goguel e Klaus Drobisch misero in luce, come nessuno aveva
tentato di fare prima di allora, l’imposizione da parte di Hitler di un programma di
lotta antisemita con caratteristiche peculiari rispetto alla lotta contro i nemici di classe
comunisti.
Sul finire degli anni Sessanta il dibattito sull’Olocausto si schiuse ad un confronto
più trasparente con le fonti; Kurt Paetzold fu lo storico che diede il contributo maggiore
alla ricerca in questo campo. Paetzold non solo analizzò la politica di sterminio nazista,
colmando il vuoto storiografico sull’argomento, ma si spinse a definire e approfondire
la persecuzione degli ebrei nel contesto generale della politica interna ed estera del
regime nazionalsocialista. Nel corso degli anni ’80 possiamo notare la presenza di un
178
legame più sentito con la comunità ebraica, ma rimase sempre da parte del regime un
atteggiamento distante e condizionato dai doveri di partito e dai limiti dell’ideologia,
questo non permise quasi mai il formarsi di un rapporto aperto con le fonti.
I luoghi della memoria
Da ultimo, occorre soffermarci sul ruolo dei luoghi della memoria nello stato tedesco orientale. L’abituale ricorso alla mobilitazione dei cittadini in occasione di celebrazioni e commemorazioni, facevano della rdt uno Stato disseminato di luoghi di memoria che onoravano la resistenza contro Hitler e di monumenti e statue raffiguranti
eroi del passato. Tra il 1951 e il 1961 sorsero nei campi di Buchenwald, Ravensbruck e
Sachsenhausen, con grande impegno di associazioni, istituzioni dello Stato e cittadini,
i tre più importanti monumenti commemorativi alle vittime del fascismo.
Questi luoghi attraversarono un graduale processo di trasformazione, che li portò
ad essere riprogettati in una nuova veste, che potesse rispondere alle esigenze del
nuovo corso politico della rdt. Nei criteri di ristrutturazione di questi luoghi, la priorità
era data alla realizzazione di piazze molto grandi che potessero radunare i cittadini per
le commemorazioni e le manifestazioni indette dal regime36.
La ristrutturazione si fece tuttavia attendere fino ai primi anni Cinquanta, poiché
gli Spetslager, più comunemente conosciuti come Gulag (presenti anche sul territorio
della rdt), rimasero attivi per circa sette anni.
Fino al 1952, nel campo di Sachsenhausen furono mantenuti tutti gli elementi originali. In seguito fu costruita una piazza molto grande, che poteva contenere all’incirca
60.000 persone, con al centro una statua celebrativa. Nella piazza dell’appello fu posto
un obelisco con la raffigurazione di soldati sovietici in difesa di due deportati37.
Il campo di Buchenwald rivestiva una particolare importanza, al suo interno si era,
infatti, creata una sorta di resistenza clandestina tra i detenuti, tra i quali erano presenti comunisti e socialdemocratici tedeschi; per questo motivo Buchenwald fu eretto a
simbolo della lotta contro l’antifascismo. Dalla capitolazione al 1950 il Lager divenne
Spetslager n°2, al suo interno furono rinchiusi coloro i quali erano stati accusati di
spionaggio, disertori dell’Armata rossa e dissidenti del regime sovietico. Dal 1950 il
Lager ebbe ufficialmente il ruolo di catalizzatore della memoria secondo le linee politiche della sed. Al suo interno si suggerì la creazione di un museo di storia nazionale e
di un monumento commemorativo in onore di Ernst Thaelmann, il celebre comunista
tedesco morto in quel campo. Dal 1952 lo spazio venne in gran parte snaturato, i fabbricati originali all’interno del campo furono abbattuti, i materiali di costruzione e le
baracche furono smantellate e riutilizzate nel resto del Land.
I Lager divennero i luoghi prediletti per le commemorazioni del 1° maggio, in occasione della cresima socialista – il battesimo dei giovani tedeschi che entravano nel
movimento giovanile comunista –, oppure per il giuramento dei soldati. Questi spazi,
come d’altra parte i monumenti celebrativi che li ospitavano, erano solo ornamenti
per le molteplici occasioni in cui la dottrina socialista veniva diffusa durante le sue
manifestazioni38.
Conclusioni
L’approccio storiografico che predilige la questione della legittimazione del potere,
179
dimostra molto chiaramente come gli sforzi del regime nella rdt furono solo in certi
periodi coronati dal successo.
Solo in alcuni momenti, alla leadership politica tedesca orientale riuscì di costruire
un’identità nazionale basata sulla contrapposizione alla Repubblica federale tedesca e
all’Occidente. La propaganda di Stato diffondeva, intorno agli anni Settanta, messaggi
rassicuranti sul benessere economico raggiunto dal paese, poiché in campo economico ottenne successi molto superiori rispetto agli stati che rientravano nel Blocco
socialista. La legittimazione su base antifascista servì da collante per l’integrazione di
un popolo profondamente segnato dal suo passato.
In realtà, l’economia tedesca orientale mise in evidenza, all’indomani della caduta
del regime, una profonda crisi di risorse e un deficit consistente nelle infrastrutture.
Inoltre, lo sforzo di legittimarsi su base antifascista si basava su un complesso sistema
di omissioni e manipolazioni della memoria storica. La Repubblica democratica tedesca era stata parte dello Stato tedesco fino al 1945 e come tale partecipe dell’esperienza del nazismo. Spogliata dalle basi di consenso e venendo a meno la dipendenza con
l’Unione Sovietica, la rdt mostrò la sua reale mancanza di ogni forma di legittimazione. Il tentativo messo in atto dalla sed di politicizzare la società nel segno di un conformismo generale, fallì miseramente e la crisi del sistema si acutizzò con il manifestarsi
delle prime forme di dissenso pubblico nella società civile.
Quindi, si chiarisce bene la difficoltà della leadership politica della Germania Est
di costruire una identità nella quale certamente c’erano dei valori: il valore del primo
Stato socialista sul suolo tedesco, dello Stato della pace, dello Stato dell’antifascismo e
di tanti altri slogan che evidentemente, però, avevano un forte peso in un sistema che
dava grande rilievo e importanza all’educazione, o, se vogliamo, all’irreggimentazione
delle generazioni anche giovanissime. E le due Germanie vissero, fra il ’45 e il ’90,
una sorta di esistenza parallela, quasi ignorandosi. Anzi, era più l’Ovest ad ignorare
l’Est, per diverse ragioni riconducibili alla vita quotidiana dei loro cittadini, per il fatto
che la tv orientale non la vedeva nessuno ad Occidente, così come nessuno leggeva i
giornali orientali, mentre, al contrario, la tv occidentale era una specie di “totem” per i
cittadini della rdt, che rischiando di provocare le ire dell’Autorità erano, di fatto, molto
più informati e consapevoli rispetto ai loro connazionali.
–––––––––––––––––––––––––
1
Festività che si teneva il 7 ottobre, data di nascita della rdt nel 1949.
2
L’8 maggio 1945, giorno della capitolazione incondizionata del III Reich, fu per molto tempo la festa nazionale di 18 milioni di tedeschi. L’8 Maggio era per il linguaggio ufficiale il
“giorno della liberazione”, nel linguaggio quotidiano dei cittadini tedesco orientali il “crollo”
(Zusammenbruch).
3
Dalla definizione della rdt secondo la costituzione del 1949. «Die Deutsche Demokratische
Republik ist ein sozialistischer Staat der Arbeiter und Bauern. Sie ist die politische Organisation
der Werktätigen in Stadt und Land unter Führung der Arbeiterklasse und ihrer marxistisch-leninistischen Partei» [art.1].
4
Le nuove generazioni si raggruppavano intorno ad un’altra organizzazione di massa: la Freie
Deutsche Jugend. L’organismo poteva essere visto come un sindacato giovanile, sia per le funzioni che ricopriva, sia per la capillarità delle sue strutture tra le giovani generazioni. Il compito
180
della fdj era l’integrazione dei giovani nel processo dell’evoluzione del socialismo, attraverso
una moltitudine di opportunità e attività in vari settori della vita quotidiana.
5
Spesso accadeva che i programmi televisivi della rft comparissero per sbaglio sulle televisioni
di Berlino Est.
6
Stalin caldeggiò più volte l’ipotesi di una riunificazione della Germania. Il 10 marzo 1952 inviò
un messaggio all’Occidente chiedendo una repentina conclusione del trattato di pace e proponendo, sia la riunificazione delle due Germanie, sia la costituzione di un governo pantedesco,
anche con la possibilità di indire elezioni libere sotto la sorveglianza delle quattro potenze. La
proposta non fu mai presa sul serio da Adenauer, poiché non rientrava nella logica della “politica di forza”, intrapresa allora dal leader tedesco occidentale. Per l’Ovest sarebbe stato inoltre
troppo rischioso portare avanti una trattativa per la riunificazione, molti dubbi sussistevano, infatti, sulle reali motivazioni che avevano spinto Stalin a quelle mosse diplomatiche. I tentativi di
Stalin di mettere sulla scacchiera della politica internazionale la “questione tedesca”, proseguirono l’anno dopo e, in seguito, fino al 1955, l’anno dell’ultima proposta da Mosca di una riunificazione della Germania e allo stesso tempo l’anno di adesione della rft nella nato. La proposta
dell’urss era infatti volta, soprattutto, a fermare il riarmo della rft e la sua integrazione militare
nell’Europa della nato. Tuttavia anche in questo caso Adenauer oppose un netto rifiuto.
7
K. Sontheimer, The Government and Politics of East Germany, Praeger Publisher, New York
1973.
8
G. Corni, Storia della Germania, Il Saggiatore, Milano 1995, p. 360.
9
M. Lemke, Der lange Weg zum “geregelten Nebeneinander“, in C. Klessmann, Deutsche Vergangenheit,
Links Verlag, Berlin 1999, pp. 73-96.
10
Sozialistische einheit Partei Deutschland, il partito di Unità socialista nato dalla fusione tra
kpd e spd nel 1946.
11
M. Glaab, Geteilte Wahrnehmungswelten, in C. Klessmann, Deutsche Vergangenheiten, Links
Verlag, Berlin 1999, pp. 154-167.
12
G. Gaus, Wo Deutschland liegt: eine Ortsbestimmung, Hoffmann und Campe, Hamburg 1983.
13
Per una maggiore analisi e comprensione dei termini vedi il saggio di M. Markus, in T.H. Rigby,
F. Fehér, Political Legitimation in Communist States, St. Martin’s Press, New York 1983, p. 88. Per
esempio, l’appello ufficiale all’internazionalismo comunista, venne spesso rimpiazzato da pratiche sotterranee che ricercavano valori e tradizioni nazionali; i valori dell’umanesimo vennero
affiancati da un orientamento verso la modernizzazione, principalmente inteso nel senso della
crescita economica. Il ricorso a queste strategie non ufficiali rappresentava il tentativo della
leadership politica di creare nuovi canali di legittimazione, che potessero colmare quel vuoto di
consenso generato subito dopo l’acquisizione del potere.
14
G. Brunner, Legitimacy Doctrines and Legitimation Procedures in East European Systems in
Rigby, Fehér, op. cit., pp. 27-44.
15
Pur appartenendo al Blocco sovietico, la Repubblica democratica tedesca manteneva caratteristiche specifiche per la sua posizione geopolitica, per il suo passato recente e per la sua
divisione nazionale. Questi fattori implicavano un monitoraggio intenso dell’Unione Sovietica e
una diffidenza di fondo del Cremlino, nei confronti di un popolo che per più di dieci anni era
vissuto sotto la dittatura nazista. Infatti, la vicinanza con la Repubblica federale, che esasperava
il clima da Guerra fredda, aveva creato un clima di sospetto favorendo la caccia ai nemici di
classe e a qualsiasi tipo d’infiltrazione occidentale. Peter Kielmansegg, nel suo studio comparato
sulle due Germanie, afferma che nessuno Stato del conflitto Est-Ovest si era mai definito tanto
attraverso il suo antagonista. Nessun paese fece derivare così tanto la propria esistenza dal
confronto con un suo vicino, come fu appunto per la rdt, in cui le frontiere potevano essere
definite la quint’essenza dello Stato tedesco orientale. La costante presenza militare dell’Unione
Sovietica, che contava venti divisioni e una flotta aerea, facevano inoltre della Repubblica democratica tedesca un territorio sotto occupazione.
16
H. Muenkler, Antifaschismus und antifaschistischer Widerstand als politischer Gruendungsmythos
der DDR, in “Das Parlament”, B45/98 30, ott. 1998, pp. 16-21.
17
M. Sabrow, Antifascismo e identità della Repubblica democratica tedesca, in “Italia Contemporanea”, 2003/3, p. 36.
181
Ivi, p. 17.
A. Grunenberg, Antifaschismus ein deutscher Mythos, Rowohlt Taschenbuch Verlag, Reinbeck
bei Hamburg 1993, p. 120.
20
O. Goehler, Verfolgten, und Opfergruppen im Spannungsfeld der politischen Auseinandersetzung
in der sbz und in der ddr, in “Die geteilte Vergangenheit”, a cura di J. Danyel, Akad Verlag, Berlin
1995, pp. 22-51.
21
C. Hoelscher, Ns- Verfolgte im “Antifaschistischen Staat“, Metropol Verlag, Berlin 2002, p. 48.
22
La rivolta operaia del 17 giugno 1953 fu, infatti, spiegata dalla propaganda di Stato come
un putsch fascista diretto dall’Ovest. Le proteste dei lavoratori furono descritte come congiure
controrivoluzionarie.
23
Nel 1955, in occasione dell’entrata della rft nella nato, furono orchestrate delle campagne
cosiddette “antifasciste” contro il cancelliere Konrad Adenauer. Gli slogan che comparivano
nella propaganda di Stato descrivevano il cancelliere della Repubblica federale come l’“Hitler
dei giorni nostri”. Il leader era descritto come il politico dell’aggressione e del revanchismo.
Numerose furono inoltre le orchestrazioni politiche condotte attraverso campagne pilotate dall’alto, in parte costruite su falsificazioni, contro i politici della cdu accusati di nazionalsocialismo
(Heinrich Luebke, Hans Maria Gloebke, Theodor Oberlaender).
24
M. Sabrow, Antifascismo e identità della Repubblica democratica tedesca, in “Italia Contemporanea”, 2003/3.
25
T. Schmid, Funerali di stato, Manifesto Libri, Milano 1992, p. 56.
26
C. Wolf, Nel cuore dell’Europa, conversazione con Anna Ciarloni, Edizioni e/o, Roma 1992,
p. 12.
27
K. Jarausch, Die DDR-Geschichtswissenschaft als “Meta-Erzaehlung“, in M. Sabrow, Verwaltete
Vergangenheit. Geschichtskultur und Herrschaft Legitimation in der DDR, Akad Verlag, Leipzig
1997, pp. 19-34.
28
H. Bluhm, Befreiungskriege und Preussenrenaissance in der DDR, in Histoire et sociologie européennes comparées. Lieux de mémoire. Politische Mythen und Geschichtpolitik, KonstruktionInszenierung- Mobilisierung, Centre Marc Bloch, Berlin Cahier 1996/7, pp.71-88.
29
Ivi, p. 75.
30
Ivi, p. 105.
31
O. Goehler, Der Holocaust in der Geschichsschreibung der DDR, in U. Hebert, O. Goehler,
Zweierlei Bewaeltigung, pp.41-65.
32
Nella conferenza di Lipsia del 1957 e in quella di Berlino del 1959, sulla programmazione per
i concetti generali della storia contemporanea, il genocidio degli ebrei e l’antisemitismo fascista
non furono ricordati.
33
Titolo originale: Das Licht verloescht nicht.
34
Dokumente des Kampfes der revolutionaeren deutschen Arbeiter bewegung gegen Antisemitismus
und Judenverfolgung “Documenti della lotta del movimento operaio tedesco rivoluzionario contro
l’antisemitismo e la persecuzione degli ebrei”.
35
La tesi dello storico Juergen Kuczynski, secondo cui Eichmann non era che un manager dei
complessi industriali tedeschi, rendeva facile il passaggio alla tesi della corresponsabilità dell’industria tedesca per l’uccisione degli ebrei.
36
G. Morsch, Von Denkmälern und Denkmalen, in J. Danyel, Die geteilte Vergangenheit, Akad
Verlag, Berlin, pp. 110-123.
37
Ivi, p. 116.
38
Danyel, Die geteilte Vergangenheit, cit., pp. 36-57.
18
19
182
«Rastrellati e deportati»
La repressione antipartigiana e l’internamento nei
Konzentrationslager. Istituto storico di Parma,
8-9 maggio 2006
Francesco Paolella
Pare essere ormai prossima a conclusione la ricerca del gruppo torinese sulla deportazione dall’Italia, ricerca che prevede la compilazione di tre volumi e di un cd-rom
con il database contenente le biografie (sintetiche) di tutti i deportati. L’Istituto storico
della Resistenza (isrec) di Parma ha ospitato, presso la sua sede, un seminario di studio
(il quinto della serie) per favorire lo scambio di informazioni e di esperienze di lavoro
fra i responsabili del progetto ed i rappresentanti dei centri di ricerca a livello locale.
Ad aprire i lavori è stata la relazione di Brunello Mantelli (Università di Torino),
che ha sintetizzato le questioni-guida che sottendono a tutto il lavoro: «Dobbiamo
comprendere a cosa servisse la deportazione, quali fossero le logiche proprie di chi
deportava e per ottenere ciò, bisogna sì guardare alla dimensione generale, ma anche
e soprattutto agli studi specialistici sui casi locali».
Sono ad oggi coinvolti diciassette gruppi o iniziative di ricerca, diffuse in quasi
tutta l’Italia centro-settentrionale (Sardegna inclusa). Mantelli ha anche stigmatizzato
l’abuso, a suo parere assai diffuso nelle ricerche sulle stragi, della categoria di “guerra
civile”. «Esisteva o no un sistema di ordini che prevedeva in Italia la guerra civile e le
183
stragi? Non tutto può essere ricondotto ai “venti mesi” di guerra civile. Gli ordini e gli
indirizzi del Reich cambiarono nel corso dei mesi, lasciando in buona sostanza larga
autonomia decisionale al singolo ufficiale ss o sipo».
Chi deportava? Chi erano i comandanti delle unità rastrellanti tedesche (uomini
che, spesso, avevano fatto in precedenza lotta antiguerriglia all’Est e nei Balcani)?
Quale rapporto esisteva con le unità del fascio repubblicano (le vere truppe della
guerra civile?). In altri termini, «quando parliamo dell’Italia 1943-1945, parliamo di un
territorio con dinamiche identiche a quelle del fronte orientale? No, non si può isolare l’Italia dal resto dell’Europa occidentale». Mantelli ha infine lanciato una proposta,
per cui, a ricerca pubblicata, inizi un lavoro di pedagogia pubblica, per così dire, “di
prossimità”. Ogni comune ha almeno un deportato da ricordare, ad esempio intitolandogli, oltre ogni memoria generica, un luogo pubblico (una strada, un giardino, una
biblioteca).
Il secondo intervento è stato quello di Giovanna D’Amico, sempre del gruppo di
Torino, la quale ha condotto un primo tentativo per legare un caso specifico (qui, il
territorio parmense) a quello deportatorio generale. D’Amico ha voluto presentare due
diversi database, il primo fornito dal gruppo di ricerca della zona, il secondo ricavato,
estrapolando i nativi di Parma, dagli elenchi formati da Italo Tibaldi. Il confronto ha
mostrato la netta prevalenza di Mauthausen (specie con l’arrivo a quel campo del 4
febbraio 1945) come kz di destinazione, seguito da Dachau e Flossenbürg, mentre, tutti i deportati italiani considerati, è Dachau la prima destinazione. Giovanna D’Amico
ha insistito sull’importanza dell’incrocio fra database di diversa origine, per giungere
ad una ripulitura e ad una diversificazione dei dati.
Dopo l’intervento di Enrica Cavina, di Bologna, dedicato a presentare una tipologia dello stragismo nazifascista in Emilia Romagna, intervento nel quale la relatrice ha
ripreso i risultati di una ricerca compiuta fra il 2000 e il 2002 e in cui ha avanzato la
proposta (assai controversa, a dire il vero) di superare la distinzione (di Enzo Collotti)
fra strage ed eccidio, accontentandosi di distinguere fra strage ed omicidio, è stata la
volta di Marco Minardi, ricercatore isrec-Parma ed organizzatore del seminario. Minardi
ha parlato di lotta antipartigiana, cercando di evidenziare, sempre riferendosi al caso
di Parma, tutti i legami che si possono rintracciare fra rastrellamenti, stragi e deportazioni. Qui il picco massimo della deportazione politica si ebbe a seguito a seguito del
rastrellamento del gennaio 1945. La liquidazione, in quel periodo, di gran parte della
rete clandestina contribuì certo ad un incremento nella pratica della deportazione. I
rastrellamenti non si limitavano a brevi puntate in montagna, ma prevedevano l’insediamento nel luogo prescelto, assieme alla creazione di altri presidi volanti. In molte
occasioni ci furono fucilazioni e deportazioni, le quali non erano appunto alternative, ma la cui compresenza rimanda ad un complesso gioco di forze, di esigenze di
diversa natura, anzitutto strategica (il possibile arretramento del fronte sul Po). Negli
ultimi mesi di guerra fu la brigata nera (anche Parma conferma l’ipotesi generale) a
spingere per una vera e propria guerra civile, cercando di attaccare specie con arresti
individuali e deportazioni.
A conclusione della prima giornata di lavori ancora Mantelli ha insistito sulla necessità di riferirsi alle peculiarità delle singole azioni deportatorie, accostandosi soprattutto alla questione della “criminalità” dei rastrellatori e degli stragisti, demolen-
184
do il luogo comune della “diabolicità” tedesca e riservando il dovuto peso al ruolo
degli italiani di Salò. Bisogna anche rinunciare a riferire alla categoria, creata dopo
la Liberazione, di “repressione antipartigiana” l’insieme delle operazioni tedesche. «I
partigiani per i tedeschi semplicemente non esistevano: esistevano bande, ebrei, civili
abili per il lavoro coatto».
La seconda giornata è stata aperta dal caso Pavese, illustrato da Marco Savini, del
locale Istituto storico della Resistenza. Egli si è in particolare soffermato sul ruolo fascista nella repressione antipartigiana. In quel territorio la maggior parte delle vittime
si ebbe non in combattimento, ma dopo l’arresto. La maggioranza dei responsabili
è italiana. Sono emersi casi di vero e proprio accanimento verso certi partigiani (comandanti), con esecuzioni mirate, usando tutta una rete di delatori e contro un intero
territorio (l’Oltrepò), considerato filo-partigiano. I tedeschi furono la principale “causa di morte” per i combattimenti e le deportazioni, mentre i fascisti ebbero questo
responsabilità proprio per le esecuzioni. Bisogna anche considerare il numero non
irrilevante di vittime “miste”, per le quali è impossibile distinguere la mano tedesca da
quella italiana. Ogni elemento considerato, per Savini i fascisti ebbero comportamenti
più cruenti, divenendo allora anche possibile spiegare l’accanimento contro i fascisti
nell’immediato dopo Liberazione, così come lo scarso numero di tedeschi uccisi nel
territorio pavese.
Silvia Bon, dell’Istituto regionale per la storia del movimento di Liberazione del
Friuli Venezia Giulia, ha spiegato le specificità di quelle terre, che furono poste sotto
il diretto controllo tedesco, con la creazione dell’ozak (Operationszone adriatisches
küstenland), specie per quel che concerneva la questione razziale. Per procedere alle
deportazioni dal Litorale adriatico (da Trieste, da Udine, dall’Istria e dalla provincia di
Lubiana) erano sul territorio più di cento tedeschi, con alle spalle un’esperienza nell’Aktion Reinhardt. Erano persone che avevano avuto a che fare con i programmi di
eutanasia, quelle che poi ebbero a gestire la Risiera. La stessa storia della Risiera dice
dell’importanza strategica di quella regione, cerniera con i Balcani. In Risiera passarono più di 20.000 antifascisti italiani e sloveni. Dal Litorale adriatico furono deportate
più di 8000 persone (circa un quarto di tutta la deportazione dall’Italia).
Gli ultimi due interventi sono stati dedicati a due luoghi speciali. Paolo Nannetti e
Andrea Ferrari hanno studiato per vent’anni gli archivi del carcere bolognese di San
Giovanni in Monte. Quello degli archivi carcerari è un ambito molto promettente,
sempre che (ma non è stato, fortunatamente, il caso bolognese), gli archivi siano
ancora fruibili (per ragioni di conservazione o altro). Per San Giovanni si può parlare
di una vera ricchezza di fonti disponibili. Quasi tutti i documenti si mostrano assolutamente attendibili e riportano, fra l’altro, tutti i passaggi di autorità dei detenuti.
Sui 7300 prigionieri passati per San Giovanni nei “venti mesi”, circa 3300 erano sotto
autorità tedesca, e segnatamente 2000 sotto controllo ss (si tratta, evidentemente, di
detenuti politici). Oltre a un migliaio di detenuti non agilmente classificabili, ecco circa
2300 “comuni” e tutta una serie di altre categorie: gli internati slavi, i “politici” (2900
sotto i tedeschi, 1400 sotto i fascisti), i prigionieri di guerra russi, quelli alleati, ecc. Fu,
in ultima analisi, un carcere più tedesco che italiano.
Nel gennaio 1944 il carcere fu bombardato e in gran parte svuotato, con ampi
trasferimenti a Castelfranco Emilia, per essere alla fine ripopolato dal dicembre del-
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lo stesso anno. Circa le provenienze (intese come luogo d’arresto), 4800 erano di
Bologna e provincia, 400 venivano dal modenese, ma presenze significative si ebbero
da ogni altra provincia dell’Emilia Romagna. Bisogna considerare che molti partigiani
diedero all’ingresso generalità false, ad esempio dichiarando un luogo di nascita posto
in territori già liberati e, quindi, impossibile da verificare. Da San Giovanni i deportati
furono almeno 1000, di cui 600 deportati politici e razziali.
Come ultimo intervento, Anna Maria Ori, della Fondazione Fossoli, ha raccontato il
suo lavoro (peraltro solitario) di scavo fra le fonti locali (l’archivio comunale, le carte
della parrocchia) del campo carpigiano, insistendo affinché esso non venga considerato soltanto come campo di transito, ma anche come campo per il lavoro coatto, oltre
che come campo per prigionieri di guerra e come campo di internamento civile (greci,
francese, jugoslavi, ecc). Fra l’altro, circa 600 lavoratori scioperanti giunsero a Fossoli
nella primavera del 1944.
186
Recensioni
G.E. MANENTI, Storia e cristianesimo nei lager nazisti. Diario di un Tenente medico degli Alpini (1943-1946), a cura di S. Spreafico, Diabasis, Reggio Emilia 2006, pp.
247, 18,50 euro
La vicenda dei 600.000 militari italiani internati in Germania che hanno resistito al
nazifascismo, rifiutando di aderire alla Repubblica di Salò e di lavorare per il Terzo
Reich, dopo essere stati abbandonati dai vertici politici e militari italiani all’indomani
dell’8 settembre 1943, è rimasta a lungo una pagina misconosciuta all’interno del panorama storiografico del secondo dopoguerra; in effetti, la storiografia resistenziale,
incentrata principalmente sulla guerra partigiana, per lungo tempo ha relegato la vicenda della “resistenza” dei militari italiani internati nei campi nazisti, ad un capitolo
tutto sommato marginale della guerra di Liberazione. Emblematica a questo proposito
è la vicenda della mancata pubblicazione della riflessione-testimonianza di Alessandro
Natta (uno dei seicentomila internati che sopravvissero al lavoro forzato, ai soprusi
e ai lager nazisti) il cui testo nel 1954 non parve “editorialmente” opportuno pubblicare e che sarebbe stato dato alle stampe solo oltre quaranta anni dopo (A. Natta,
L’altra Resistenza. I militari italiani internati in Germania, Einaudi, Torino 1997).
Nonostante questa tardiva attenzione della storiografia, gli studi più recenti hanno
ormai sgombrato il campo dalle remore ideologiche legate ai timori di “riabilitare” un
esercito uscito moralmente sconfitto sia dalla guerra sia dalla Liberazione, per mettere
pienamente in luce il profondo significato, civile e politico, dell’oscura resistenza dei
militari italiani internati nei campi tedeschi dopo la caduta del fascismo.
In questo contesto segnato dalla reviviscenza di studi e memorie, un nuovo ed
originale contributo per la ricostruzione dell’odissea degli internati italiani, è offerto
dalla recente pubblicazione del diario del tenente medico degli alpini, Giorgio Emilio
Manenti (1913-1992); l’ufficiale reggiano, dopo aver condiviso per oltre venti mesi la
guerra in Montenegro con il battaglione “Aosta” della divisione “Taurinense”, fu catturato nell’ottobre del 1943 dai tedeschi e, avendo rifiutato ogni compromesso con
il Reich tedesco e con la Repubblica sociale italiana, fu successivamente internato in
quattro campi di concentramento in Germania e poi in Polonia. Solo nell’ottobre del
1945, contratta ormai una grave malattia, cominciò il travagliato viaggio di ritorno di
Manenti il quale, trattenuto negli ospedali altoatesini, poté rivedere la propria città
solamente nel febbraio del 1947 dove avrebbe svolto a lungo, con generosità e dedizione, la professione di medico.
Tra i molteplici motivi d’interesse offerti dalle pagine del diario, vi è anzitutto un’ulteriore testimonianza, quanto mai efficace, dell’8 settembre come momento di crisi e
sbandamento dell’intero apparato militare e statale italiano durante il quale, in una
«indescrivibile confusione di ordini e contrordini», generali famosi si trasformarono in
fuggiaschi codardi o in temporeggiatori deludenti e, per contro, anonimi ufficiali e
soldati in difensori dell’onore e della dignità. Non meno efficaci appaiono le riflessioni sul crollo dell’8 settembre come tornante cruciale per la maturazione di una scelta
resistenziale proiettata verso la rifondazione di una “nuova Italia”, liberata dalle incro-
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stazioni ideologiche e riscattata dai miti funzionali; il tema della redenzione patriottica
ritorna con insistenza nelle pagine del diario dedicate alle ragioni del “non optare”,
come quando, il 23 dicembre 1943, Manenti annotava: «L’8 settembre, il popolo italiano con bandiere gridava: “Viva la libertà!” con due stranieri in casa. Per me la Patria
non è coi fascisti né coi monarchici. È qui, fra noi, dove si soffre, dove ci si prepara a
ricostruirla, se ce ne renderemo degni. È qui in Polonia con me, nel cuore».
Tuttavia, il diario dell’ufficiale medico reggiano non si presenta solamente come
una vivace ed appassionata opera di documentazione storica e di «pedagogia della resistenza»; all’interno dell’ormai vasta memorialistica dei reduci dei campi di prigionia,
ma il testo di Manenti conserva un suo timbro particolare, differenziandosi dalla maggior parte delle testimonianze, le quali generalmente tendono a privilegiare le vicende
legate all’odissea della cattura e del passaggio degli internati da un campo all’altro,
alle condizioni materiali e alle umiliazioni – non solo fisiche ma anche morali – a cui
furono sottoposti gli internati italiani. In effetti, come ha osservato Sandro Spreafico
nella sua densa introduzione ai Quaderni di Deblin-Thorn, il campo di concentramento per Manenti non è solo il luogo della redenzione democratica per la rinascita della
patria perduta, ma è anche il luogo di un percorso esistenziale orientato a celebrare
una personale «resistenza al male» e destinato a culminare in una vera e propria ascesi
morale e spirituale. Infatti, il ruolo che hanno nella narrazione la sofferta rielaborazione dell’esperienza fascista e la meditazione sulle prospettive di rinnovamento rende
questa testimonianza un contributo originale nel contesto delle esperienze analoghe
ma vissute più sul filo della dimensione civile e politica, che con attenzione al processo di maturazione etica, morale e religiosa. Se, infatti, la prigionia diviene il luogo di
elaborazione della crisi morale della nazione, il valore della testimonianza di Manenti
tocca uno dei punti più alti nella rappresentazione dell’universo concentrazionario
come palcoscenico del male e dell’assurdo dell’odio seminato dagli uomini; perciò,
come ha osservato il curatore, «I quaderni manoscritti di Giorgio Emilio Manenti recuperano e propongono i tratti ideali, morali, culturali ed etico-politici di un’esperienza
resistenziale, vissuta e ragionata da chi, annullato nella carne, sfida i propri aguzzini,
nelle regioni dello spirito».
Testimonianza della prigionia, il testo del tenente medico reggiano costituisce,
dunque, anche un documento della ricezione di quella tragica esperienza nella coscienza civile, morale e religiosa del dopoguerra; in questo senso l’avventura interiore
di Manenti finisce per sublimare l’itinerario esistenziale ed intellettuale di quelle generazioni di giovani cattolici che, nel dramma del secondo conflitto mondiale, avrebbero
trovato le premesse morali, culturali e spirituali per la rinascita postbellica.
Alberto Ferraboschi
P. PERGOLIZZI, L’Appartamento. Br: dal
Reggio Emilia 2006, pp. 192, euro 15
pci
alla lotta armata, Aliberti editore,
Sulla nascita delle Brigate rosse a Reggio si è già scritto tanto; più o meno tutti
i brigatisti reggiani hanno rilasciato interviste, scritto personalmente o fatto scrivere
memorie o libri su quel gruppo che negli anni Settanta ha creduto e praticato la lotta
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armata. Paolo Pergolizzi con questa sua pubblicazione ha cercato di indagare il vero
motivo (se esiste davvero) per cui sono nate le br proprio a Reggio e il rapporto che
legava tra di loro i loro uomini.
L’autore parte proprio da quel piccolo appartamento in via Emilia San Pietro, diventato alla fine degli anni Sessanta, punto di riferimento per molti giovani di quella
che si definiva allora la “sinistra alternativa”. L’appartamento che era non solo il luogo
fisico delle riunioni e dei dibattiti, ma anche laboratorio di nuove teorie e di nuovi
comportamenti personali e politici.
Il libro, già a partire dal titolo, sostiene la tesi che le Brigate rosse sono partite
dal pci e che la lotta armata è quasi la prosecuzione della Resistenza: l’album di famiglia della sinistra, secondo una famosa definizione di Rossana Rossanda, e la fuga
degli estremisti dal partito. I futuri brigatisti avevano, a detta soprattutto di Alberto
Franceschini, dei legami con alcuni partigiani e partivano dal mito della “Resistenza
tradita”. Il fenomeno sarebbe nato, sempre secondo Pergolizzi, all’interno del pci,
che spiava i giovani e informava la polizia delle loro mosse. Da qui il trasferimento a
Milano con il racconto di come avveniva il reclutamento ed il finanziamento. Vengono
ricostruiti i retroscena del sequestro Sossi e dell’arresto di Franceschini e Curcio a
Pinerolo; infine il netto cambiamento di strategia delle br con l’avvento di Moretti.
Pergolizzi, come lui stesso confessa nella sua introduzione, scrive questo libro per
capire il rapporto che intercorreva tra Reggio, il pci e i brigatisti. «Questo non per
accodarmi al revisionismo montante in questo periodo storico e quindi per cercare
responsabilità dirette del pci che non ne ha avute e che, invece ha sempre combattuto fermamente il fenomeno del brigatismo. Ho voluto capire come mai, in una terra
dove il partito comunista era onnipresente, siano potuti germogliare e crescere i frutti
avvelenati del terrorismo». La pubblicazione si conclude con una lunga intervista a
Prospero Gallinari, un irriducibile, uno dei sequestratori e carcerieri di Aldo Moro, che
giustamente porta la sua esperienza personale, ma si perde nelle lotte intestine e della
direzione politica e strategica delle br.
Il punto di partenza e proprio il titolo al primo paragrafo è la “Resistenza tradita”;
anche se esclude nessi di continuità tra i partigiani e i futuri brigatisti, si sofferma su
un passaggio di armi tra i vecchi e i giovani. L’autore scrive sulle vicende della fgci e
della fuoriuscita dei giovani estremisti Franceschini e Gallinari e dell’emarginazione
del pci che li bocciò come figli degeneri; una buona parte del libro racconta poi le
vicende italiane delle brigate rosse tenendo come aggancio solo la reggianità di alcuni
suoi componenti. Non tiene conto del contesto politico italiano di quei tempi: la paura del golpe e di quel grande fenomeno che coinvolse non solo Reggio, ma tutto il
mondo: il ’68. Prende come punto di partenza il pci, certamente egemone della politica
a Reggio, ma non va a fondo sulla provenienza di molti giovani che frequentavano
l’appartamento e che provenivano dalle fila dei cattolici del dissenso, dei socialisti,
degli anarchici ecc.
Credo sia importante citare tutte le persone intervistate: Antonio Bernardi, Renzo
Bonazzi, Vainer Burani, Peppino Catellani, Corrado Corghi, Franco Ferretti, Gian Guido
Folloni, Alberto Franceschini, Prospero Gallinari, Otello Montanari, Roberto Ognibene,
Loris Tonino Paroli, Rino Serri, Adriano Vignali. Sono soprattutto ex brigatisti e politici
più o meno ancora in auge, certamente importanti, ma sicuramente una minoranza
189
(quattordici su circa il centinaio di persone che frequentavano l’appartamento).
Il libro, scorrevole, è scritto in evidente stile giornalistico: non a caso l’autore aveva
riassunto in passato su un quotidiano, molte delle vicende raccontate, ma non aggiunge niente a ciò che già si sapeva. Non è certamente una ricerca storica, come qualcuno
potrebbe pensare e non perché manchino le note, ma perché non esaurisce completamente il tema e l’argomento del titolo stesso e cioè l’Appartamento. Le testimonianze
degli ex brigatisti, più o meno pentiti, e di politici ancora sulla breccia descrivono il
clima di quei giorni alla luce del modo di vivere e di pensare della politica attuale; in
alcuni casi è evidente l’interesse di raccontare agli interlocutori ciò che essi si vogliono sentire dire tenendo conto della loro convenienza personale. Mancano, ma non
per colpa dell’autore che forse non aveva in animo di effettuare una ricerca storica
approfondita o che probabilmente non è riuscito a fare parlare quegli altri novanta, le
testimonianze di quegli uomini e quelle donne che hanno dato vita all’appartamento e
che si sono “rifugiati nel privato”; ora sono stimati commercianti, insegnanti, impiegati,
pensionati, ma anche alti dirigenti o liberi professionisti. Per i più svariati motivi alcuni
non hanno piacere di apparire, altri hanno completamente rimosso questa parte della
loro vita o può anche essere che nessuno abbia mai chiesto di ascoltare il loro punto
di vista o citare la loro esperienza.
L’operazione di Pergolizzi è per certi versi come la storia, come spesso la si insegna
a scuola, fatta cioè dei nomi dei condottieri, dei sovrani e dei generali. Fatte le dovute
proporzioni mi ritorna in mente una poesia di Bertold Brech in cui il poeta dice che
tutti conoscono i nomi dei faraoni, Cheope, Chefren, ecc., ma nessuno sa neppure un
nome degli schiavi che a migliaia morirono per alzare le piramidi. Anche in questo
caso manca l’osservazione dal basso e non vengono messi in luce i fermenti, le speranze e le aspettative della maggior parte di coloro che frequentavano l’Appartamento,
che non sono solo quelle dei futuri generali br o dei professionisti della politica.
Il libro ha però certamente il pregio di sollevare un problema, quello cioè di capire
come era la vita politica dei giovani a Reggio negli anni ’60 e ’70; può essere considerato un approccio o un punto di partenza per una più completa analisi di ciò che è
stata a Reggio quella che veniva chiamata “sinistra extraparlamentare”.
Sulla storia di questi anni il più è ancora da scrivere.
Ugo Pellini
J. MARMIROLI, Gli oscuri padri della Patria. Vincenzo Marmiroli soldato di
Napoleone, Biblioteca di Reggio Storia, 2004 s.i.p.
La letteratura ci ha resa familiare l’idea di rappresentare la grande storia seguendo
il filo delle traversie di coloro che ne sono stati parte, senza poi apparire nella storiografia scientifica se non come elementi delle statistiche. Gli “umili” manzoniani, per
intenderci. Si pensi per esempio al fatto che innumerevoli lettori, attorno alla metà
del secolo scorso, hanno raggiunto un’interpretazione aderente di un intero secolo di
storia patria seguendo la saga familiare della famiglia Scacerni, narrata da Bacchelli nel
Mulino del Po. Per le generazioni precedenti basti ricordare Nievo e Fogazzaro.
In quei testi tuttavia (come in quelli più grandi di Stendhal e Tolstoj) benché il con-
190
testo storico fosse reso con scrupolo di verità, i personaggi che vi si aggrovigliavano
erano frutto di pura invenzione.
Il puntiglioso e documentatissimo lavoro di Jole Marmiroli prende invece le mosse
da un personaggio reale, anzi da un pezzo di cronaca famigliare («il nonno del nonno») rivisitata attraverso un lungo lavoro di scavo negli archivi ed un’ampia ricognizione della bibliografia riguardate l’età napoleonica e il Risorgimento.
La lunga vita di Vincenzo Marmiroli (1785-1861: decisamente longevo in rapporto
ai tempi) consente all’Autrice di percorrere, con sicuro intreccio di momenti “locali” e
momenti europei, il lungo tragitto che va dalle campagne napoleoniche al tramonto
degli Austria-Este e alla formazione del Regno d’Italia. Per così dire, dall’uno all’altro
Napoleone, ricordando in tal modo il peso di entrambi per la storia italiana, nel bene
e nel male.
Arruolatosi a soli sedici anni, più volte ferito e decorato, promosso sergente e
– sul finire del Mito e della lunga sequela delle sue campagne – al punto di passare
ad ufficiale, Vincenzo Marmiroli vede coincidere il momento più intenso della sua
esistenza con un apice dei più drammatici della storia. Lo seguiamo mentre percorre a
piedi l’Italia, poi l’Europa, consumando scarpe su scarpe come nelle ballate popolari,
portando a spalla nel sacco pesantissimo una congerie di oggetti di pulizia personale,
ricambi d’abito, utensili indispensabili. Intanto l’Autrice, senza perdere d’occhio le
private vicende dell’avo, ricostruisce con precisione da storico militare le guerre e le
paci, i rovesciamenti di fronte, gli assedi e le battaglie campali. Di particolare interesse, anche perché riguardano la fase di più intenso e pericoloso impegno militare
e personale di Vincenzo, risultano la descrizione e l’analisi della guerriglia antinapoleonica in Spagna, nonché il quadro delle convulse ore del declino finale dell’astro
napoleonico.
Rientrato nell’ombra con la Restaurazione, Vincenzo recupera la quotidianità: lavoro e famiglia. L’alba dell’unità d’Italia gli porterà qualche occasione per un rinnovato assalto dei ricordi: nel 1857 col conferimento della medaglia di S. Elena (da un
Bonaparte nuovamente imperante) e nel 1861, con la notizia della costituzione del
nuovo Regno. Cittadino italiano anche in senso strettamente giuridico, il Nostro morirà
qualche mese dopo.
Ettore Borghi
D. GAGLIANI (a cura di), Guerra-Resistenza-Politica. Storie di donne, Aliberti editore, Reggio Emilia 2006, pp. 363, euro19.
È finalmente uscito (e presentato il primo giugno scorso al Museo Cervi in una giornata di studio no-stop, ricca di riflessioni e di emozioni) il volume Guerra-ResistenzaPolitica: storie di donne (a cura di Dianella Galliani, Aliberti Editore), che raccoglie gli atti
del convegno nazionale omonimo promosso il 7-8-9 ottobre 2004 dall’Istituto Alcide Cervi
e dalla Società italiana delle storiche e tenutosi nella nostra città presso l’Università.
Il Convegno e il volume sono stati dedicati, non a caso, a Genoeffa Cervi, rivalutandone il ruolo all’interno della famiglia: una figura “simbolica”, quella di Genoeffa,
che riassume in sé tutte le donne che hanno vissuto la guerra e la Resistenza, e le
191
donne contadine in particolare: la loro forza, la loro umanità, la loro capacità di sopportare il dolore e di reagire alle avversità, la loro consapevolezza e condivisione della
lotta comune.
Perché, come ricorda la nipote, Maria Cervi, nella sua lucida ed insieme commossa
testimonianza: «L’immagine di lei che il tempo ci ha trasmesso, di una moglie e madre
vissuta all’ombra del marito e dei figli, non le rende giustizia».
Tutto il Convegno del resto è teso, attraverso un impegno non facile, attento e
rigoroso di ricerca e di interpretazione storica, a fare emergere il ruolo essenziale che
innumerevoli donne, perlopiù nell’ombra ed in silenzio, hanno avuto in quel tragico
periodo della nostra storia, contribuendo all’esito vittorioso della Resistenza e continuando ad impegnarsi, poi, anche nella ricostruzione, per la conquista dei primi diritti
e nella costruzione dello Stato sociale.
Tutto questo è raccontato, nel Convegno, non solo attraverso i fatti, ma portando
in primo piano le motivazioni, le ragioni, i vissuti, i caratteri e le forme diverse ed
originali di una partecipazione attiva e corale delle donne a quella vicenda storica, che
ha segnato una rottura radicale, culturale e politica rispetto al ruolo storicamente loro
assegnato, in particolare nell’Italia del fascismo.
Ciò avviene anche con un’esplicita critica alla storiografia ufficiale e con un’aperta
rottura rispetto ad una rappresentazione spesso agiografica della Resistenza, presente
sino ad ora anche nelle forze antifasciste, che hanno in genere taciuto, ignorato, sottovalutato, quel ruolo e quella partecipazione, al massimo rinchiudendola e svilendola
nella retorica sulle matres dolorosae o sull’esaltazione di singole “eroine” della guerra
partigiana dotate di virtù “virili”.
Dianella Galliani, la valente docente di Storia Contemporanea all’Università di
Bologna, che ha voluto e coordinato il complesso lavoro del Convegno, così ne riassume il senso nel frontespizio del volume: «Pochi avrebbero pensato, sino a non molto
tempo fa, che la storia delle donne e di genere avrebbe conferito nuovi significati alle
categorie storiche di “Guerra” e di “Resistenza”». E ancora: «Lo sguardo rivolto al pianto dei bambini, insieme a quello di donne e di uomini, ha permesso di superare una
visione della guerra prevalentemente incentrata sulle strategie e le operazioni militari
o sugli strumenti bellici o le innovazioni tecnologiche, per porre al centro della scena
la distruzione, la sofferenza, la morte. Anche la Resistenza, sottratta agli aspetti combattentistici, si è dispiegata in una varietà di presenza e di attività le quali consentono
una sua ulteriore definizione».
È dunque, per citare una felice sintesi, il racconto e l’analisi di «una diversa guerra,
una diversa Resistenza, un’altra politica»: quella delle donne in carne ed ossa.
Il filo che lega i diversi interventi
Il filo che lega i tanti diversi contributi è appunto volto ad analizzare e a fare emergere ciò che ancora della guerra e della Resistenza non è stato raccontato e ciò che
differenzia, distingue il modo con cui le donne hanno vissuto quegli eventi e quelle
circostanze, il loro peculiare modo di vivere ed affrontare la guerra e le sue devastazioni, di “fare” la Resistenza, di intendere e di sentire l’idea di “patria”.
Ne esce un quadro complesso ed articolato, che si articola su tre filoni tematici:
1) Guerra e violenza; 2) Resistenze; 3) Patria/patrie.
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Ciascuna di queste parti si compone di una pluralità di contributi specifici e di
approfondimenti che mettono a fuoco temi ed aspetti sinora ignorati o poco trattati,
da cui emerge la complessità, le diversità, la specificità di situazioni, di contesti e di
vissuti, e anche le differenze territoriali.
Nella parte Guerra e violenza al centro sono le donne come principali “vittime”
della guerra, le loro strategie di sopravvivenza e di reazione in situazioni estreme.
Importanti i contributi sulle confinate politiche contro la guerra, sulle internate e deportate, sulle donne dei campi profughi in Puglia, l’approfondimento sulla memorialistica femminile e sul difficile tema degli stupri di massa nel basso Lazio ad opera delle
truppe francesi, sugli abusi e le violenze sessuali lungo la linea gotica, sul tema della
sessualità e della violenza nelle memorie delle resistenti.
Nella seconda parte: Resistenze, si analizza, attraverso analisi riferite ai diversi contesti territoriali, come, perché e con quali percorsi, le donne, dalla ricerca di strategie
di sopravvivenza nella guerra, giungono a partecipare attivamente, consapevolmente,
seppure in forme diverse, alla Resistenza antifascista e antinazista; come matura in
loro una coscienza collettiva; come si realizza una “rottura storica” rispetto al ruolo
tradizionale.
Contributi ulteriori a quelli che sinora erano stati portati in periodi precedenti
vengono, per esempio, dalle comunicazioni sulle donne e la Resistenza in Emilia
Romagna: si veda quella di Anna Appari sui Gruppi di difesa della donna a Reggio
Emilia tra Garibaldini e Fiamme Verdi; di Caterina Liotti su Diventare partigiane:
pratiche e culture politiche tra soggettività e percorsi collettivi; di Delfina Tromboni
“Terribili contingenze-Inaspettate libertà”. Ma di grande interesse sono anche le comunicazioni sull’esperienza delle donne in Veneto (dove emerge il ruolo della Chiesa
e delle donne cattoliche), nelle Marche, a Roma, e nel Sud.
In modo specifico viene affrontato il tema dei riconoscimenti, dai quali gran parte
delle donne viene esclusa, anche perché molte, ritenendo “normale” ciò che avevano
fatto non li chiesero, ma soprattutto per i “requisiti” richiesti per l’assegnazione «che
nulla avevano da spartire con le caratteristiche femminili della loro partecipazione alla
Resistenza» (Maria Rosaria Porcaro).
La terza parte Patria/patrie, affronta il tema delle diverse culture e dei diversi
modelli su cui le donne si sono formate ed anche divise e contrapposte, prima e nel
corso della guerra, e il tema ancora aperto del loro ruolo nel dopoguerra e dell’avvio
alle prime esperienze di cittadinanza, nel periodo della ricostruzione. Sono affrontati
diversi aspetti della militanza politica delle donne, tra i quali il tema delle antifasciste
e la tradizione socialista, e ciò anche attraverso l’analisi delle biografie di alcune figure
femminili (Frida Malan, Tina Merlin). Ma per la prima volta in modo approfondito,
sono anche analizzate le motivazioni e le modalità di militanza delle donne che stavano dall’altra parte e del consenso femminile al regime (dalla storia delle collaborazioniste della rsi, alle collaborazioniste processate a Roma, al ruolo di riviste quale
“Lumen”, al tema del patriottismo e della fede fascista nella biografia di una dirigente
delle donne del regime: Angela Maria Guerra.
Contributi significativi vengono infine dati su «silenzi e presenze nella storiografia
italiana» (Maria Grazia Soriano) e sulla storia del movimento pacifista internazionale
delle donne (Elda Guerra).
193
Le prospettive dopo il Convegno
Il volume si chiude affrontando il tema delle “prospettive”, con un importante intervento di Anna Bravo (una valente storica cui si devono le prime ricerche storiche
di “genere”) dal titolo Resistenze e riduzione del danno, che, con riflessioni innovative
di grande interesse, trae alcuni spunti di valore generale su cui gli storici, ma anche la
politica, sono chiamati a riflettere, confrontarsi e a ricercare ulteriormente.
Alla Bravo, alcuni punti appaiono acquisiti dopo il grande lavoro fatto: 1) la
Resistenza è un oggetto plurale e differenziato su cui occorre scavare ancora; 2) lo
studio delle lotte inermi, (la guerra senz’armi) delle donne è una tappa importante di
questa ricerca; 3) l’opera femminile deve diventare più visibile.
E fare ciò consente anche di rispondere ad un uso politico della storia (l’attuale
ondata revisionista) che la riduce a pura violenza, alla guerra civile e alle vendette del
dopoguerra, e di fare emergere la realtà e il ruolo della resistenza civile e di come la
vissero le donne; consente di fare emergere valori di solidarietà,di attenzione per le
relazioni umane, di lotta per la vita e per la pace, di riscatto e liberazione individuale
e collettiva, di ricerca di un modo diverso di essere se stesse.
Valori e significati “carichi di futuro”, oltre che autentici motori della partecipazione popolare femminile alla resistenza, valori carichi di “politicità”, di un modo diverso
di intendere e vivere la politica.
Dunque, un Convegno, un libro importante che, ci auguriamo, tante e tanti vorranno leggere.
Un Convegno che certo non partiva da zero, perché, soprattutto in alcune regioni
(in Emilia, per esempio), in particolare dalla metà degli anni ’70 è stato compiuto
uno sforzo di ricerca storica sul ruolo delle donne, le cui fasi sono ricostruite nel
Convegno. Recentemente, in particolare col 60o, le stesse protagoniste hanno cominciato a raccontarsi, dando ulteriori contributi di memoria storica.
Ma la novità e il valore del Convegno è quello di collocare storicamente e nell’insieme il tema del ruolo delle donne in quegli anni cruciali e di affrontarlo, appunto,
da un punto di vista “di genere”, cogliendo cioè il modo peculiare con cui esse hanno
vissuto guerra e Resistenza, hanno gestito una quotidianità sconvolta, hanno reagito
all’orrore, analizzando il percorso che le ha portate a compiere gesti e scelte anomali,
a prendersi rischi e ad assumersi responsabilità nuove e maturando così un’idea diversa di sé stesse e del proprio ruolo sociale.
A partire dal Convegno c’è motivo di riflessione e di ulteriore ricerca su molteplici
temi, per il movimento delle donne, per gli storici, per la politica.
È un importante stimolo a continuare il lavoro di ricerca, peraltro già avviato anche
a Reggio nei singoli territori e sui temi ancora aperti (tra questi, il ruolo delle donne
nel dopoguerra e negli anni seguenti). È di stimolo alle giovani donne a costruire un
nuovo rapporto con le generazioni precedenti, ad attingere in modo creativo a quella
memoria storica per ricavarne, nella concretezza del loro tempo, forza, consapevolezza, fedeltà ai valori universali che le donne di allora hanno saputo difendere e
proporre.
È uno stimolo e un segnale per la ricerca storica in senso più ampio, che deve
assumere finalmente l’approccio di genere come un contributo determinante alla ricostruzione intera di quello e di altri processi storici, in cui gli aspetti politici, militari, isti-
194
tuzionali non possono più essere disgiunti dall’esperienza e dal vissuto quotidiano di
coloro, donne e uomini appunto, che li vissero da protagonisti e non solo subendoli.
È uno stimolo per la politica a ripensarsi, nei suoi valori e nelle sue forme, assumendo sino in fondo il tema ancora aperto della piena cittadinanza femminile, portando così a compimento il percorso iniziato, appunto, dalle donne che il Convegno
del “Cervi” e delle storiche ha saputo raccontare in modo così efficace, lucido e pienamente partecipe.
Eletta Bertani
V. PISANTY, La difesa della razza. Antologia 1938-1943, Bompiani, Milano 2006,
pp. 376, 9,5 euro
Ci si potrebbe persino divertire, scorrendo questa galleria di errori banali e orrori tragici, che sono gli stereotipi razziali dell’Italia fascista, estratti e raccolti da
Valentina Pisanty, semiologa, dai centodiciotto numeri della Difesa della razza, la
rivista espressione, appunto, del razzismo e dell’antisemitismo italiano durante il fascismo. Lapponi, francesi, giapponesi, africani, arabi (ma in positivo) e, ovviamente,
ebrei (anzi, l’Ebreo), sono descritti in funzione delle esigenze politiche, coloniali e,
poi, belliche, italiane (e l’autrice non manca di farne una genealogia fra le fonti, anche
“illuminate”, dell’etnocentrica cultura occidentale).
Vediamo, giusto a titolo di esempio, il caso dei giapponesi, «popolazione la cui
vicinanza antropologica rispetto ad altri popoli asiatici (come ad esempio i cinesi, che
nelle stesse pagine della Difesa della razza vengono descritti come una razza crudele,
inerte e corrotta) è piuttosto difficile da negare. E tuttavia, trovandosi dalla parte giusta
del conflitto mondiale, i giapponesi vengono dipinti come una razza affine – spiritualmente, se non proprio biologicamente – a quella italiana» (p. 184).
La Pisanty riesce bene a non far appiattire il razzismo italiano su quello dell’alleato
tedesco, impegnandosi nel rendere, appunto le peculiarità del razzismo fascista attraverso la storia, le traversie, i cambi di linea (teorica, quindi anche editoriale) della
rivista. Colpisce la povertà delle argomentazioni (e come potrebbe essere diversamente?) e, al contempo, la ricerca ossessiva di una fantomatica scientificità, autoevidenza,
di esse. La Pisanty passa in rassegna le diverse anime del razzismo italiano, da quella
“pura” del razzismo biologico al nazional-razzismo, al razzismo spiritualista (o esoterico-tradizionalista) “à la Evola”.
Il razzismo fascista appare sostanzialmente autonomo rispetto ai “fari” tedeschi
(ma, come è ovvio, non insensibile ad essi), autonomo ma irrimediabilmente ambiguo, segnato dalla diverse prospettive teoriche. «Gli autori della Difesa della razza non
riescono ad accordarsi sul significato della parola razza. Ciò che invece li accomuna è
la credenza che le diverse razze umane, qualunque cosa esse siano, vadano tenute rigorosamente separate per evitare le ibridazioni indesiderate» (p. 141). In ultima analisi,
due sono le forme fondamentali con cui distinguere i diversi razzismi: il razzismo di
dominio (tipico dello sfruttamento nelle colonie) ed il razzismo di esclusione (si pensi
alle politiche contro la popolazione ebraica).
Molto interessanti sono le notizie sui protagonisti che hanno segnato la storia
195
della rivista. Oltre alle figure di Giorgio Almirante (di cui conosciamo la carriera), di
Julius Evola, autore, fra l’altro, del Mito del sangue (1937), emerge la storia di Guido
Landra, «aspirante antropologo che, dopo aver dedicato i migliori anni della sua vita
a eseguire tutte le direttive impartitegli dal suo Duce per avviare la campagna razziale
in Italia, si ritrovò disoccupato (e senza prospettive di carriera) a 27 anni, essendosi
nel frattempo fatto soffiare il posto da servitori altrettanto devoti, ma forse un po’ più
scaltri di lui» (p. 14).
Un’ultima notazione va assolutamente riservata alla questione, trattata in questa
antologia da Luca Bonafé, della «storia secondo i razzisti». In nome di una fantomatica «autarchia storiografica», tanti pensatori razzisti lanciarono la richiesta di rivedere
la storia, specie quella insegnate nelle scuole e nelle università, alla luce della verità
razziale. Viene riportato ad esempio un (esilarante) articolo di G. Dell’Isola, Influssi
ebraici sulla storiografia romana (p. 217) o altri brani in cui si denuncia lo strapotere
(certo nocivo) degli storici di estrazione borghese. Non può certo sorprendere il fatto
che il culto della romanità sia stato funzionale anche ad una logica razziale. «L’unico
criterio cui deve attenersi lo storico è quello razziale, di fronte al quale passano in
secondo piano gli altri aspetti, quali l’uso delle fonti e i metodi di indagine: ai razzisti,
certamente, non interessano l’obiettività o i dibattiti sul rapporto fra la storia e la verità, perché hanno già una loro “verità”, che è appunto l’esistenza e la superiorità della
“razza” italiana» (p. 220). L’insegnamento della storia deve servire poi più per impressionare gli studenti che per formarli. «La funzione educativa della storia, dunque, è
strettamente connessa alla suggestione che essa può esercitare sulle menti dei giovani:
il razzismo [...] si rivela allora molto prezioso, perché è in grado di creare suggestioni
fortissime, come l’esistenza di un rapporto di identità fra gli italiani e i romani, identità
di sangue e, quindi, ereditaria» (p. 215).
Francesco Paolella
S. KOFMAN, Rue Ordoner, rue Labat, Sellerio, Palermo 2000, 103 pagine, 6,20
euro
Si tratta di un raro, doloroso, esercizio di memoria da parte di una donna filosofa,
ebrea parigina, suicida quaranta anni dopo l’infanzia vissuta durante la Shoah, dopo
la scomparsa del padre, la distruzione della famiglia, la clandestinità.
Quella tragedia, i conflitti che ne nacquero, specie fra la protagonista e la madre,
riescono a mantenersi vivi, a non raggrumarsi nel mito. «Mia madre nutriva solo odio e
disprezzo verso colei che ci aveva salvato la vita. Piuttosto che continuare a convivere
un secondo di più con lei, meglio andare a stare in albergo! Fu un autentico strappo.
Da un giorno all’altro, dovetti separarmi da quella che amavo allora più della mia
propria madre» (p. 55). Questo lo stile scelto da chi confessa di non aver dimenticato
il proprio odio, una ostilità radicale, frutto di incomprensioni e sofferenze senza via
d’uscita.
La Kofman racconta l’amarezza e l’orgoglio del tradimento contro la madre, e,
tramite questa, contro la propria appartenenza, causa di tanto male. «Sembrava che io
avessi seppellito tutto il passato: cominciai ad andare pazza per le bistecche al sangue
196
cucinate con il burro e il prezzemolo» (p. 54). Ribellarsi alle regole ed al proprio stesso
nome è, a suo modo, una via per denunciare lo scandalo della persecuzione. Il fatto
che l’autrice, allora bambina, abbia preferito una nuova madre, cristiana, protettiva,
mansueta, vero vanto della mediocrità borghese, non fa quindi a pugni più di tanto
con l’antisemitismo di quella accogliente soccorritrice: «Ci aveva garantito la salvezza,
ma non era priva di pregiudizi antisemiti. Col farmi tastare la piccola sporgenza che
ne era il segno, mi insegnò che avevo un naso giudaico» (p. 46).
f. p.
G. DE LUNA, Il corpo del nemico ucciso. Violenza e morte nella guerra contemporanea, Einaudi, Torino 2006, 302 pagine, 25 euro
Il libro propone una complessa antropologia della guerra, attraverso i segni sui
corpi uccisi, attraverso l’esposizione fotografica di essi.
Massimo paradosso, oggi assistiamo, davanti a un eccesso di informazioni, di
ostentazioni della morte violenta, di corpi dilaniati e resi ombre, di manifestazioni del
terrore, della guerra civile globale, all’artificio di dissimulare la guerra con mille nomi
diversi. La guerra è negata, per diventare peace keeping, guerra umanitaria, «opzione
zero morti».
Le guerre post-novecentesche hanno per cifra più chiara le fosse comuni. Sono
le popolazioni civili (dopo una relativa guarentigia, durata qualche secolo) ad essere
oggi più che mai i veri obiettivi delle operazioni militari: il loro tasso di mortalità è
nove volte più alto di quello dei soldati. Le guerre contemporanee demoliscono il
diritto internazionale massimamente attraverso la mancata protezione dei non combattenti. Non resta che il campo profughi.
De Luna, professore a Torino, ripercorre il Novecento, il secolo della violenza di
massa: ecco l’evoluzione dell’idea di nemico e della condotta lecita contro il nemico,
ecco le guerre coloniali (asimmetriche per eccellenza), ecco la guerra civile (Russia,
Spagna), la guerra ai civili (vedi le stragi nazifasciste), il Lager, genuino fordismo applicato alla morte, fino alle dittature sudamericane degli anni Settanta. Il trattamento
dei nemici, e soprattutto dei loro cadaveri, diventa lo specchio con cui De Luna indaga il rapporto della società occidentale con la morte ed, in particolare, con la morte
violenta.
L’autore insiste assai sulla discontinuità introdotta dalle guerre del nuovo secolo.
Ad esempio, la strategia ammonitiva, propria dell’esposizione dei corpi degli impiccati
durante la seconda guerra mondiale, è stata in seguito sostituita, o quanto meno integrata, dall’ossessione opposta per l’occultamento dei cadaveri nemici: ecco le fosse
comuni. Il tentativo di eliminare anche il corpo del morto risponde alla volontà di
corrodere le basi anzitutto culturali e religiose della società avversa. L’assenza del
cadavere è una sciagura per qualsiasi gruppo. A dire il vero, sarebbe sbagliato sostenere che l’ostentazione del corpo nemico sia scomparsa: l’ucciso, semmai martoriato e
torturato, non è però oggi più solo oggetto da mostrarsi in ambito privato (attraverso
macabre foto ricordo), ma pubblico, in chiave anzitutto politica.
Altra novità radicale è rappresentata dall’irruzione del mercato, della concorrenza
197
nella guerra. Oggi, perfino l’esercito più potente, ça va sans dire quello americano, si
avvale di nuovi mercenari, gli «appaltatori militari». In altre parole, la guerra è stata destatualizzata. Il crollo del sistema simmetrico del bipolarismo Est-Ovest, ha comportato
l’affossamento del diritto internazionale. I conflitti sono divenuti nuovamente asimmetrici, anche se in un senso molto diverso rispetto a quello delle guerre coloniali. Esiste
un’unica sproporzione, universale: quella che fa pendere la bilancia verso il potere
statunitense. Avendo sposato la già citata «opzione zero morti», l’esercito americano
si trova costretto, altra novità dell’attuale, a rendere insignificanti le perdite nemiche,
mentre, allo stesso tempo, spende risorse immense per “difendere” la dignità e l’onore
dei propri morti. La morte dei propri soldati (il Vietnam ha evidentemente pesato in
ciò enormemente) non è più concepita come un normale effetto della guerra. È scomparsa l’icona del milite ignoto.
Di fronte all’ossessione occidentale per i propri morti, ecco l’irruzione dei kamikaze, come sua contraddizione assoluta. Un kamikaze è una bomba umana che costa
poco e rende molto (su ciò, aggiungiamo noi, basta leggere Baudrillard). Considerando
poi il consenso sociale che attornia i nuovi “martiri” e la cultura di morte che fa da
sfondo ai loro progetti, ben si comprende come alla base del loro sacrificio stia la
ricerca di un inusitato potere.
È dell’essenza delle guerre contemporanee l’essere postnazionali, essendo compiuto il passaggio dal monopolio statale della violenza al mercato della violenza. L’undici
settembre si è fatto anzitutto beffe dei confini nazionali, così come della distinzione fra
nemico interno e nemico esterno. L’undici settembre ha demolito i resti della sovranità
moderna, rivoluzionando lo stesso terrorismo novecentesco.
Francesco Paolella
J. MARMIROLI, Antonio Manzi: partigiano cattolico assassinato a Fossoli, Triangolo
rosso, Milano 2005, pp. 35.
Il libro, in realtà un supplemento del periodico dell’Associazione nazionale ex deportati politici nei campi nazisti (aned) del 2 luglio 2005, narra la storia del partigiano del
titolo: uno dei sessantasette patrioti trucidati dai nazifascisti nel campo di concentramento
alle porte di Carpi (mo) il 12 luglio 1944.
Il volume si apre con la descrizione dell’arrivo a Milano nel 1945, in una data simbolica per la storia italiana quale il 24 maggio, delle salme dei partigiani uccisi a Fossoli.
Fra le bare avvolte nel tricolore ne spiccava una con adagiato sopra un cappello da alpino: quella di Antonio Manzi detto Vercesio. Nelle pagine seguenti si dipana poi la sua
storia di partigiano della prima ora, fondatore delle formazioni bergamasche della val
Brembana ove militò fino al suo arresto, il 22 febbraio 1944.
Diverse testimonianze riportano la vita di Manzi nelle varie carceri che lo “ospitarono”:
Bergamo, San Vittore e infine Fossoli. I cinque mesi di detenzione precedenti il massacro,
con gli incontri coi familiari, gli interrogatori delle milizie fasciste, gli abboccamenti con
altri antifascisti detenuti, fino al trasferimento finale in Emilia sono descritti nel corpo centrale del volume. Le ultime pagine sono riservate alla permanenza di Antonio Manzi nel
campo di concentramento modenese, dalla fine di aprile fino al fatale 12 luglio 1944.
198
Le notizie sull’eccidio dei settanta prigionieri e le ipotesi attorno alla motivazione
del massacro riempiono la parte finale dell’elaborato: una rappresaglia per un attentato partigiano in Liguria, l’ordine di esecuzione che giunge da Verona, i settanta
condannati portati al vicino poligono di tiro dove sono già pronte le fosse, scavate da
prigionieri ebrei, e il racconto dei sopravvissuti. L’autrice si è interrogata soprattutto
su che cosa stia all’origine dell’eccidio; la rappresaglia a Fossoli per un attentato compiuto altrove non convince del tutto né, d’altra parte, nella zona di Carpi e dintorni in
quel periodo accaddero avvenimenti tali da poter “giustificare” l’esecuzione di decine
di prigionieri. La vera motivazione che ne è alla base rimane ancora oscura. Del resto,
come spiega Jole Marmiroli, subito dopo la strage attorno ad essa è calato un velo
di silenzio assoluto che avvolge non tanto lo svolgersi dei fatti, ma che cosa vi diede
origine; i sessantasette fucilati inoltre vennero frettolosamente sepolti e la loro tomba
mimetizzata e celata in un campo arato fino a quando non venne scoperta nei primi
giorni del dopoguerra.
Michele Bellelli
M.T. SEGA (a cura di), Tina Merlin, partigiana, giornalista, scrittrice, Ediciclo
Editore, Venezia 2005, 11,00 euro.
«Il percorso di Tina Merlin non ha il ritmo lento e regolare del camminare, ma quello della rincorsa, del salto, dello slancio con il quale si è lasciata alle spalle secoli di
umiliazioni e di rinunce ed è approdata da un’altra parte. E poi ha ripreso a correre».
Maria Teresa Sega raccoglie gli atti del convegno dedicato alla figura della “giornalista del Vajont” nel volume Tina Merlin, partigiana, giornalista, scrittrice (Ediciclo
editore); convegno organizzato dall’Istituto veneziano per la Storia della Resistenza
e della Società contemporanea in collaborazione con il Centro internazionale civiltà
dell’acqua e con l’Associazione “Tina Merlin”, il 26 maggio 2003 a Mestre: il risultato
della giornata di studi ha portato a ricordare ed a tracciare il profilo di una donna
che ha speso la sua vita a “rincorrere” la verità e la giustizia troppe volte calpestate.
Già da bambina, Tina Merlin non accetta l’ingiustizia e non capisce perché il padre fa
un regalo alla sorella e non a lei. Men che meno da ragazzina quando, non disposta
a perdere la propria dignità di persona, scappa di notte dalla casa di una famiglia di
Milano (nella quale era a servizio) perché stanca degli scherni a lei rivolti dalle figlie
del padrone. A diciassette anni, entra nella resistenza («perché era giusto farlo») e
ancora una volta corre, stavolta in montagna, con il nome di battaglia di Joe, staffetta
della 7a Alpini, Brigata “Manara”. Poi, una volta finita la guerra, intraprende la carriera di giornalista (la sua situazione economica e familiare non le aveva permesso di
studiare, ma la sua determinazione la porterà ad imparare presto) e diventa «staffetta
di tutti i giorni»: darà voce ai protagonisti silenziosi che hanno fatto la storia. Alle
donne, costrette dalle regole di una società che le vuole a «testa bassa», a quelle che
come lei avevano fatto la resistenza, e che ora meritavano un giusto riconoscimento.
Agli emigranti (lei, figlia di un emigrante credeva che il padre facesse l’emigrante di
mestiere) agli operai, ai contadini, ai parroci ed ai carabinieri. E sarà al fianco della
sua terra e delle sue montagne violate dall’uomo in nome di uno sviluppo economico
199
ed industriale troppo azzardato. Sarà la vicenda del Vajont che la renderà famosa (da
ricordare il libro Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe, il caso del Vajont):
lei, come Cassandra (la sacerdotessa di Apollo che vede oltre gli intrighi di palazzo,
le finzioni e le ipocrisie che porteranno alla distruzione della città di Troia e della sua
gente), annunciava, inascoltata, ma con determinazione e senza paura, anni prima
dalle pagine dell’“Unità” (il giornale per il quale lavorava come semplice cronista) gli
azzardi della sade, la costruzione della diga, e sarà testimone della tragedia che si consumerà la notte del 9 ottobre 1963 quando il monte Toc, franando, scivolerà nel lago
e solleverà un’onda che, superando di centinaia di metri la diga, cadrà violentemente
a valle spazzando via i paesi di Longarone, di San Martino e di Spesse, le loro case, i
loro abitanti e le loro storie.
La ritroveremo tra i fondatori dell’Istituto storico bellunese della resistenza e sarà
definita, da chi ha avuto il piacere di collaborare con lei, una “storica di razza”; si
occuperà dei Gruppi di difesa delle donne e di tutti quegli argomenti che sino allora
erano stati poco esplorati. Scriverà, la Merlin, e a noi rimangono articoli, saggi, racconti tratti dalla realtà che lei stessa aveva vissuto, ricchi di testimonianze e di documentazione.
Il volume si conclude con le testimonianze di chi l’ha conosciuta e con lei ha percorso un pezzo di storia del ’900.
I dirigenti sindacali veneti, che con lei hanno condiviso le lotte degli operai tessili
di Valdagno e quelle dei ceramisti di Bassano (da queste esperienze usciranno due
volumi a firma di Tina Merlin, Avanguardia di classe e politica delle alleanze e Siamo
tutti una famiglia), la ricordano come una grande cronista che concepiva il suo lavoro come una “missione” da compiersi giorno dopo giorno, un’inchiesta militante che
doveva dare un’informazione attenta, costante, puntuale dalle pagine del quotidiano
per il quale lavorava (che, forse, non l’ha considerata abbastanza).
Per le compagne di partito sarà una “leader”, il simbolo di un riscatto possibile. A
guerra finita la Merlin s’iscriverà al partito comunista italiano e successivamente aderirà alla svolta della Bolognina (suscitando, in chi la conosceva, stupore): concepiva la
politica come strumento di emancipazione della classe lavoratrice. La ricordano con
ammirazione, come una donna forte, passionale, autorevole, che intimidiva con quel
suo modo di fare: una «curiosità mista a ruvidezza». Aveva un carattere difficile e poco
propenso alla mediazione ma era disponibile, soprattutto nei confronti dei giovani: a
loro riservava un occhio particolare. Ricorda Lalla Trupia, deputata dei Democratici
di sinistra, che alla fine degli anni sessanta era stata tra i dirigenti che, all’interno del
Partito comunista di Vicenza, aveva voluto aprire la Federazione ai giovani, consapevole di un necessario ricambio generazionale.
«Io», diceva Tina Merlin negli ultimi anni della sua vita, «care ragazze sono arrivata
fino a qui. Adesso tocca a voi».
I giudizi sono unanimi: questa donna, nata da una famiglia povera nella provincia
di Belluno, ha contribuito a far nascere la generazione cha ha compiuto la più grande
rivoluzione laica del ’900.
Anna Fava
200
R. FERRABOSCHI, S. BREGA, M. SULPIZIO, Noi e le Reggiane: storie di lavoro e di
politica, Teorema, Reggio Emilia 2006, pagg. 117, 5,00 euro
Le officine di Santa Croce non cessano, e forse non potrebbe essere altrimenti, di
essere al centro della storia reggiana del ventesimo secolo, e il perché lo spiegano
Romeo Guarnieri e Mirto Bassoli nella loro introduzione. Ma i tre autori del libro,
preparato con la collaborazione del Centro Studi R60 e lo spi della Camera del lavoro di Reggio Emilia, non sono storici di professione bensì tre ex operai delle omi.
Ognuno a modo suo racconta la “sua” storia di operaio, di antifascista e di partigiano.
Le tre parti in cui è diviso il libro sono, di fatto, delle lunghe confessioni sul lavoro,
sulla politica e sulla propria esperienza personale di Ferraboschi (deceduto a pochi
giorni dalla pubblicazione del volume e alla cui memoria è stato dedicato), Brega e
Sulpizio. Ferraboschi, ad esempio, ripercorre anche cronologicamente sia la storia delle Reggiane, sia quella della Resistenza, soffermandosi su alcuni episodi che lo hanno
colpito particolarmente come l’eccidio di Villa Sesso nel dicembre 1944 e sulle lotte
dei contadini alla Fiuma, contemporanea all’occupazione della fabbrica nel 1950-51.
Originario di Ancona, Simone Brega apparteneva ad una delle numerose famiglie di
immigrati che affollavano il Cairo, e il suo racconto rende in maniera vivida i sentimenti di chi vi si stabiliva in cerca del posto all’Officina («mia madre era convinta di
essere in Germania, non capiva una parola del dialetto»). Il suo è forse il capitolo più
ricco di particolari e di aneddoti, non solo sulle Reggiane dove entrò nel 1934, ma
anche sulla guerra, sulla sua esperienza di emigrante all’estero dopo il fallimento dell’azienda e anche su quella di militante comunista. Mario Sulpizio racconta invece la
sua parabola da balilla a sovversivo, attraversando tutto il campionario delle organizzazioni legate al partito fascista. La sua avventura alle Reggiane inizia con avventuroso
viaggio a Roma per incontrare i gerarchi reggiani Muzzarini e Bolondi, che gli fanno
guadagnare un posto in fabbrica. Ma in via Agosti, come ricorda l’autore, dopo un
primo periodo nel quale era visto come una potenziale spia per via della sua “raccomandazione”, ha conosciuto l’antifascismo, gli uomini che si opponevano al regime
e le loro idee fino a diventare partigiano nel distaccamento “Don Pasquino Borghi˝ e
successivamente nella 143a Brigata Garibaldi nel parmense.
Completano il libro alcune citazioni dal famoso diario di Bleki (Sergio Iori) sull’occupazione della fabbrica, e alcune foto d’epoca che ritraggono anche i protagonisti
del volume.
Michele Bellelli
P. BORSARI (a cura di), Carpi dopo il 1945. Sviluppo economico e identità culturale, Carocci, Roma 2005, 20 euro
G. TAURASI, Autonomia promessa, autonomia mancata. Governo locale e reti di
potere a Modena e Padova (1945-1956), Carocci, Roma 2005, 17,50 euro
Si tratta di due volumi molto diversi per impostazione, ma che contribuiscono
entrambi ad illuminare il problema della ricostruzione della società italiana nel dopoguerra, attraverso l’indagine della scala locale. È bene precisare come questo ap-
201
proccio non abbia nulla di provinciale, ma anzi mostri l’utilità di una ricerca ben focalizzata allorché si riesca a farne il punto di osservazione per una realtà di più ampio
orizzonte. Il volume curato dalla Borsari raggiunge il risultato attraverso una peculiare
tematizzazione del rapporto locale-globale (o più precisamente Carpi-Europa); quello
di Taurasi mediante l’applicazione, con notevole sofisticatezza analitica, del metodo
comparativo. Credo quindi che queste letture possano essere molto utili anche al lettore di “rs”, pur non chiamato in causa direttamente: da un lato perché si riferiscono
a contesti vicini al nostro, e per molti aspetti paragonabili ad esso; dall’altro perché
offrono strumenti euristici e chiavi interpretative che potrebbero indirizzare anche la
ricerca reggiana.
Il volume su Carpi è il frutto di un ricerca di gruppo che ha inteso ricostruire le diverse sfaccettature della realtà carpigiana del dopoguerra. L’elasticità dei criteri cronologici e degli approcci storiografici (calibrati sui singoli temi) consente una rappresentazione molto viva e articolata, le cui fila vengono tirate con chiarezza da Alberto De
Bernardi e Franco Mosconi nei loro interventi “di cornice”. Il primo rileva soprattutto
i meriti delle amministrazioni di sinistra nel costruire non tanto il ventilato socialismo,
quanto uno spazio pubblico democratico e sviluppato; il secondo eleva Carpi ad emblema della “terza Italia” e ne proietta le vicende nella dimensione continentale.
Dopo una breve ricostruzione dell’immediato dopoguerra, del quale Paola Borsari
non tace le difficoltà e le violenze, la ricerca si concentra sul boom degli anni Cinquanta,
con il passaggio dall’agricoltura (e dalla manifattura del truciolo) al distretto tessile che
fa le fortune del paesone modenese, trasformandolo in una cittadina moderna. Alberto
Rinaldi ripercorre con dovizia di dati la nascita dell’industria diffusa e ne spiega i presupposti, le caratteristiche e le difficoltà, sottolineando l’importanza giocata dalla perpetuazione dei «valori depositati nella comunità locale». Molto utile anche la rassegna
microstorica sulle principali aziende curata insieme alla Borsari. Ma la caratteristica
del volume è di estendere l’indagine al contesto del miracolo economico, del quale
vengono accuratamente ricostruite le radici di lunga durata e l’innesco postbellico; e
poi le conseguenze di carattere sociale, culturale (e paesaggistico) che completano e
sanciscono la “grande trasformazione”.
Un primo elemento, indagato attraverso fonti statistiche e fotografiche, è costituito
dalla crescita urbanistica, coronata dal primo piano regolatore cittadino nel 1956. La
popolazione del comune aumenta gradatamente ma violenta è soprattutto la concentrazione nel capoluogo, che determina il superamento della dicotomia città-campagna
in una rete abitativo-produttiva a maglie strette. L’amministrazione si impegna prima
nella risoluzione delle emergenze postbelliche (carenza di alloggi, malattie epidemiche, disoccupazione) poi affronta una programmazione sistematica che possa garantire alla popolazione «una città sempre più ordinata, igienica e salutare», come rileva
puntualmente Emma Francia.
Molto interessanti anche le note di Anna Maria Ori sulla società carpigiana, nelle
quali il dato quantitativo si accompagna ad un colore locale sapientemente dosato,
che riporta alla luce ambienti, costumi e persino atmosfere d’epoca senza perciò cadere nella retorica della nostalgia. Veniamo invece posti a confronto con vizi e virtù della
vita degli anni Cinquanta, tra drammatiche necessità di assistenza, ignoranza diffusa,
rigide distinzioni sociali; ma anche giochi e mercati di strada, solidarietà familiari, etica
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del lavoro. Verifichiamo così come questa realtà sia prima infiltrata e poi travolta da
nuovi modelli di vita che implicano altri valori: la crescente circolazione di uomini, denaro, idee porta con sé la voglia di divertirsi (musiche e balli, sport, spettacoli a teatro
e al cinema); l’ampliarsi dei consumi (che significa più auto, più elettrodomestici, più
manufatti, ma anche un nuovo modo di mangiare e vestirsi, l’avvento delle mode, il
successo della pubblicità); la sfida di classe (ma anche di genere e generazione) alle
vecchie abitudini e convenzioni. Particolarmente riuscite da un lato le pagine sugli
enti comunali di consumo, sulle opere di assistenza, sui rumori e gli odori della vita
di bottega; dall’altro quelle sui fotoromanzi, sui gusti cinematografici, sulla sociabilità
giovanile.
Nel complesso il volume raggiunge gli scopi prefissati, anche grazie al ricco apparato iconografico, impreziosito da una sessantina di foto d’epoca. Avrebbe invece
meritato maggior spazio il tema della memoria del passato recente: si ricorda infatti
che la transizione porta con sé una nuova toponomastica, nuovi monumenti e in generale una nuova liturgia pubblica; ma poi si accenna soltanto al corto circuito che
si determina tra ricordo, rimozione, ritualizzazione. Il fatto che già nel 1955 si tenga
a Carpi una mostra sui lager è una specificità da valorizzare forse maggiormente.
Un altro aspetto solo suggerito è quello della cosiddetta secolarizzazione: avendo a
disposizione fonti preziose come la cronaca parrocchiale di don Muzzioli si sarebbe
potuto approfondire questo tema aldilà delle canoniche semplificazioni (e aldiquà
delle contrapposizioni politiche). Infine va rilevato come lo sforzo di inquadramento
europeo abbia almeno in parte penalizzato un confronto con i contesti intermedi (la
provincia di Modena, l’Emilia Romagna, per certi aspetti anche l’Italia) che avrebbe
potuto rafforzare la plausibilità delle ipotesi interpretative e le specificità della storia
carpigiana.
Ha in gran parte ovviato a questo limite l’ampia ricostruzione di Giovanni Taurasi
sulla storia politico-amministrativa, nella quale aggiornamento storiografico, applicazione sulle fonti e ampiezza d’orizzonti contribuiscono a delineare un quadro molto
completo, che oltretutto ha il merito di infrangere alcuni luoghi comuni (anche disciplinari). Il saggio fa riferimento fin dal titolo “alla falce e allo scudo”, cioè ai due
poli sui quali si strutturano politica e cultura, qui come in tutta Italia, ma non senza
importanti differenze: non solo perché, come proprio dell’Emilia, un’amministrazione
“rossa” deve convivere con un governo “bianco”; ma perché la coalizione antifascista
resiste qui più a lungo che nel resto del paese, completando senza rotture la prima
legislatura amministrativa nel 1951.
L’indagine si gioca su tre piani: offre una sintetica prosopografia dei vertici comunali, fornendo utili considerazioni, non solo sulla posizione politica, ma su età,
formazione, esperienza resistenziale dei protagonisti, tra i quali spicca ovviamente il
sindaco Losi (ma si vedano, su un altro piano, le belle pagine dedicate a don Zeno
di Nomadelfia); analizza le scelte di governo della giunta, sia in merito alla ricostruzione che al periodo del boom; proietta sulla scala locale i grandi passaggi politici
nazionali che sanciscono la transizione di regime. Da notare soprattutto il rifiuto di
una rappresentazione rigidamente contrappositiva o viceversa convergente delle due
grandi culture politiche del dopoguerra: Taurasi mostra come sia possibile individuare una compresenza di dinamiche ambivalenti che si situano a livelli diversi, per cui
203
all’indubbio scontro sociale tra subculture si accompagnano la comune valorizzazione
della dimensione politica, il retaggio delle stesse tradizioni, la battaglia condivisa per
la moralizzazione. Con un brillante contrappunto di citazioni guareschiane l’autore
offre anche importanti spunti di riflessione sulla costruzione della religione civile del
dopoguerra.
La medesima accuratezza riscontriamo nel volume dello stesso Taurasi sul governo
locale a Modena e Padova. Qui lo spettro della ricerca è ovviamente diverso: si tratta
infatti della rielaborazione di una tesi di dottorato, quindi il quadro è più ampio e
diffuso, il taglio è più analitico, più evidente anche la strumentazione giuridica e politologia. Soprattutto si avverte lo sforzo di dedurre dai due casi di studio considerazioni
di portata nazionale circa il tema, particolarmente caro all’autore, dei rapporti (spesso
difficili) tra governo centrale e amministrazioni, abitualmente costretti in schemi politico-ideologici assai riduttivi.
Taurasi ci mostra invece come il fenomeno sia in realtà molto più complesso: tanto i prefetti quanto i partiti svolgono infatti un ruolo di pressione e in taluni casi di
esautoramento degli enti locali; e tali processi producono poi conseguenze di diversa
rilevanza in realtà “bianche” e “rosse”, nella misura in cui le seconde accampano un
ruolo politico che interferisce con gli interessi privati e con la società civile. Molto
interessante è anche il capovolgimento di posizioni sulla cultura politica locale che si
verifica dopo il 1948, quando i socialcomunisti in precedenza diffidenti verso questa
dimensione del potere ne diventano i più entusiasti sostenitori, mentre i democristiani
ammainano la bandiera della sussidiarietà per arginare le rivendicazioni di autonomia
delle giunte di opposizione.
Ma la ricostruzione di Taurasi supera di molto i confini cronologici fissati nel titolo,
nella misura in cui nel secondo e terzo capitolo ricostruisce l’intera storia dell’Italia postunitaria percorrendo nei due sensi il flusso di potere tra centro e periferia (qui reso
topologicamente come relazione alto-basso), delineando una prospettiva di grande
valore euristico e di notevole originalità interpretativa.
Lo storico modenese mostra come anche nei casi in esame il ruolo esercitato dalle
prefetture corrisponda essenzialmente ad una funzione di tutoraggio (e di veto) rispetto ad un ampia gamma di provvedimenti della amministrazioni locali (dai bilanci alle
riscossioni, dalle politiche sociali a quelle culturali); ma questa funzione di controllo
si esercita in modi e con mezzi diversi a seconda dei periodi e del colore delle giunte;
e non esclude istanze di mediazione politica vera e propria, come evidente nel caso
della lottizzazione dei commissariamenti.
Taurasi evidenzia poi il ruolo crescente esercitato dai partiti di massa (a partire da
quello fascista) nell’imporre il primato della politica sull’amministrazione: essi finiscono per guadagnare una funzione parapubblica e arrivano così a dominare le dinamiche centro-periferia controllando le pratiche di raccomandazione, creando nuove
reti clientelari e soprattutto gestendo i flussi finanziari secondo criteri opportunistici
e discriminatori. Nel volume vengono ricostruite attraverso casi concreti le dinamiche
decisionali che legano amministratori, politici locali, parlamentari e governo attraverso
la mediazione partitica; e se ne colgono sia il valore di negoziazione degli interessi
locali sia la dimensione centralizzatrice in qualche modo supplementare a quella prefettizia tradizionale.
204
Nuocciono forse al volume il linguaggio molto tecnico, una certa sproporzione
tra le due parti e l’assenza di una conclusione in grado di sintetizzare adeguatamente
le tesi proposte in un testo molto denso e quindi non sempre facile da districare per
i non specialisti; ma come detto ciò dipende in buona misura dalla tipologia della
ricerca.
C’è in ogni caso da augurarsi che lavori come questi, e più in generale i nuovi
sviluppi della storia locale, soprattutto in chiave amministrativa, possano trovare adeguata ricezione anche nel contesto reggiano; e soprattutto spingano anche la nostra
ricerca locale a superare l’ottica memorialistica, la rivendicazione ideologica e l’economicismo deteriore che hanno limitato (e a volte soffocato) lo studio del dopoguerra.
In una fase in cui Istoreco si è votato esplicitamente allo studio della ricostruzione
postbellica, non abbiamo motivo di dubitare che anche a Reggio possa presto svilupparsi una storiografia di altro tipo (e di altro livello), che vada non a sostituire ma a
riprendere ed integrare i risultati della precedente stagione di studi.
Mirco Carrattieri
M. GRISPIGNI, Elogio dell’estremismo. Storiografia e movimenti, Manifestolibri,
Roma 2000, pp. 119, 7,23 euro
Il libro vuole mettere in questione la storiografia italiana sulla cosiddetta «stagione
dei movimenti». L’autore intende proporre un «revisionismo “da sinistra” all’approccio
storico sugli anni Sessanta e Settanta» (p. 11).
Egli cerca di riassumere ad uso del lettore le caratteristiche più rilevanti dei movimenti sociali in Italia: anzitutto, il loro carattere prettamente anti-istituzionale (a differenza, per esempio, del movimento operaio e del cln), di quei gruppi. Già in questo
senso, i Sessanta ed i Settanta rappresentano una «anomalia» rispetto al modo classico
di manifestarsi dei movimenti collettivi.
Seconda caratteristica è sicuramente la centralità della dimensione generazionale,
che si affermò con una radicale rottura rispetto alle altre classi di età. «Avviene una sorta di corto circuito per cui la figura del giovane ribelle, il suo aspetto esteriore, il suo
modo di parlare, i suoi gusti, divengono la rappresentazione dei giovani tout court,
un una sorta di sovrapposizione fra ribelle e giovane. Il luogo comune del giovane
“rivoluzionario” si afferma nella società rompendo, in particolar modo nel nostro paese, convenzioni e abitudini consolidate» (p. 17). Sicuramente, si ebbe una piega verso
l’estremismo del discorso politico e, più generalmente, dei comportamenti. In altri
termini, «L’idea di rivoluzione sociale portava con sé l’aspirazione alla partecipazione
diretta, alla presa di parola: la messa in discussione dei ruoli assegnati agli individui
nella società, come ai gruppi sociali, provoca un profondo rimescolamento delle carte.
“Nessuno al suo posto” è forse lo slogan che meglio può rappresentare, nel bene e nel
male, il profondo – e a volte drammatico – subbuglio che attraversò il mondo politico
come i posti di lavoro, le famiglie come le relazioni affettive personali, la cultura come
il rapporto con l’ambiente che ci circonda» (p. 19). Era l’“ordine del discorso” tutto
intero ad essere stato posto in crisi di legittimità.
Il primo, grave, errore che Grispigni imputa alla nostra storiografia è quello di
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trattare il ’68 (o, meglio, «gli anni del ’68», secondo la felice formula francese), rifacendosi ai suoi effetti, reali o presunti (vedi alla voce terrorismo): è un tipico caso di «uso
pubblico della storia», per fini – come si è soliti dire – di polemica politica. Si tratta,
poi, di abbandonare altri, pericolosi, luoghi comuni, come quello che disegna un
rapido passaggio dalle forme più libertarie dei primi mesi dei movimenti alle nebbie
del marxismo più ortodosso. Non si può, invece, ignorare la durevole compresenza di
tante, diverse voci, ispirate alle tradizioni (anche eretiche) del Novecento (sorelismo,
esistenzialismo, psicoanalisi, umanesimo cristiano, ...).
Di sicuro, quei movimenti si distinguevano per una spiccata refrattarietà verso la
cultura ed i costumi della sinistra tradizionale, oltre che verso tutto ciò che toccava lo
Stato. D’altra parte, sono abbastanza evidenti i segni dell’incomunicabilità fra sinistra
ufficiali e contestatori: si pensi al gruppo del “Manifesto”. Anche in Italia, la rivolta
studentesca fu essenzialmente una lotta per la libertà e la liberazione (vedi la lezione
della Arendt), contro i poteri costituiti. «I partiti comunisti, i sindacati furono uno dei
bersagli del movimento studentesco: non si contestava alle istituzioni della sinistra
solo di aver rinunciato a qualsiasi ipotesi rivoluzionaria e di essersi sostanzialmente
“integrate” nel sistema capitalistico, ma la critica in molti casi era più stringente e sostanziale, sia rispetto alla subalternità nei confronti dell’Unione Sovietica, sia rispetto
al modo stesso di porsi della “sinistra storica” nei confronti dei movimenti e più in generale del conflitto (e conseguentemente delle domande) che emergeva dalla società
e dalle profonde trasformazioni in atto» (p. 37).
A mancare nella storiografia italiana è anzitutto un po’ di attenzione verso le vicende individuali dei protagonisti dei movimenti (come di coloro che, a vario titolo, ne
fecero parte), andando con ciò finalmente al di là della vulgata sul presunto percorso
dei “sessantottini”: dalle barricate al potere... Per far ciò bisogna tener ben presente
che i movimenti dei Sessanta e Settanta rappresentarono il primo accesso allo spazio
politico per tante “categorie” di esclusi, di marginali: oltre ai giovani, le donne, i disoccupati, i senza casa, le minoranze per orientamento sessuale, i malati, gli psichiatri...
Ciò comportò, quasi inevitabilmente, l’instaurarsi di una visione “panpolitica”, quindi
ideologica (con tutte le intolleranze del caso) dei vari aspetti dell’esistenza.
Circa il problema della violenza (ma quanto si dovrebbe dire sul pacifismo assoluto, sulla disobbedienza civile), Grispigni non accetta la storiografia a senso unico, che
descrive una continuità assoluta fra movimenti e terrorismo, dimenticando la repressione violenta (tanto all’Ovest quanto all’Est) alla contestazione. Bisogna tener conto
del fatto che «quello contro cui il movimento si levò e protestò in tutto il mondo era
qualcosa di talmente arrogante e violento, da richiedere un’opposizione totale, una
protesta generale che era quasi impossibile che non esplodesse anche in atti espliciti
di violenza – sia come autodifesa, sia come momento di attacco» (p. 71). In Italia, poi,
la reazione si inserì facilmente nella lunga tradizione dell’uso delle forze di polizia in
senso antioperaio e antipopolare.
Un ultimo, importante, contributo di Elogio dell’estremismo è, senza dubbio, nell’analisi delle fonti per iniziare a scrivere una storia dei movimenti. Emerge il problema della vicinanza temporale, che non permette l’accesso alle fonti “classiche” (i
documenti prodotti dallo Stato). Bisogna, quindi, rivolgersi principalmente ai materiali
prodotti dai movimenti stessi (gruppi o singoli), tenendo presente il fatto che un mo-
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vimento non è un partito e che quindi non dispone di un protocollo, né di archivisti.
In altri termini, non può esistere una memoria ufficiale dei movimenti.
Abbiamo a disposizione quasi sempre archivi raccolti da singoli e, poi, versati a
centri, istituti, fondazioni. Per avere un’idea dei materiali che ci si trova davanti, basti
scorrere questo elenco: volantini, bollettini, opuscoli, appunti, corrispondenza, manifesti, giornali murari, tatztebao, fotografie, cassette audio, riviste (specie i numeri
unici). Materiali eterogenei, organizzati e disponibili quasi esclusivamente in centri
dell’Italia centro-settentrionale.
Grispigni individua soprattutto tre tipi di strutture di deposito: i Centri di documentazione, la rete nazionale degli Istituti storici della Resistenza, alcuni Istituti e
Fondazioni. I Centri di documentazioni spesso sono nati già negli anni Settanta e
vanno considerati pienamente inseriti nella storia dei movimenti. Quelle raccolte sono
nate quindi non per rispondere ad uno scrupolo di «salvaguardia della memoria»,
ma per servire alla lotta politica (ad esempio fornendo materiale per la controinformazione). Bisogna anche pensare che i movimenti degli anni Sessanta e Settanta si
rappresentarono essi stessi come momenti di rottura nei processi di trasmissione della
memoria (ricordarsi di Toni Negri), e come “altro” rispetto alla tradizione del movimento operaio. Si dedicarono quindi a cercare genealogie non lineari, affidandosi a
figure marginali od eretiche (i ribelli sconfitti).
Fra gli Istituti storici, l’autore cita i casi di Roma (irsifar) e di Trento (con il Centro di
documentazione Mauro Rostagno). Soprattutto a partire dagli anni Novanta, e specie
grazie alla presenza degli insegnanti comandati, gli Istituti hanno saputo divenire in
molti casi luoghi sia di conservazione sia di riflessione storiografica sulla contemporaneità, al di fuori delle gravezze accademiche e istituzionali. Fra le Fondazioni privilegiate, infine, vanno citate il Centro Gobetti di Torino, l’Istituto Gramsci di Bologna,
la Fondazione Micheletti di Brescia e la Fondazione Feltrinelli di Milano. Per le fonti
audiovisive, tre luoghi romani: gli archivi rai, quelli dell’Istituto Luce e l’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico. La documentazione fotografica è fruibile soprattutto negli archivi dei quotidiani, mentre per le fonti sonore il riferimento
d’obbligo è all’Istituto De Martino.
Francesco Paolella
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Attività dell’Istituto
Il Gruppo Giovani
Ricercatori Reggiani
La storia
Nel 2004 l’allora direttore di istoreco William Casotti varò un albo informale dei
ricercatori reggiani, a iscrizione volontaria e gratuita, con l’intento di ringiovanirne
l’organico dell’Istituto e di rinnovarne i programmi. L’iniziativa raccolse l’adesione di
una trentina di studenti, laureati e dottorandi, che fornirono un cv e parteciparono
ad alcune riunioni preparatorie, nelle quali si discussero le modalità per il loro
inserimento nell’attività di Istoreco e si raccolsero nuove idee per il suo rilancio.
Questo lavoro preliminare trovò riscontro nella collaborazione di molti giovani alle
iniziative di celebrazione del 60° anniversario della Liberazione; ma non ebbe seguito
a causa delle difficoltà interne all’Istituto.
Nel 2006 la nuova dirigenza ha però accolto la proposta di Mirco Carrattieri,
neodottore di ricerca in storia contemporanea, vicedirettore di “rs” e da tempo
collaboratore dell’istoreco, di riprendere in mano l’iniziativa per darle quella consistenza
e continuità che non era riuscita a raggiungere in precedenza. Ha dato quindi mandato
a Carrattieri di coordinare la ricostituzione del gruppo, di presentare un progetto che
ne ridefinisse il ruolo e le caratteristiche e di avviarne finalmente l’operatività.
La natura
Sulla base di questo nuovo impulso è nato il Gruppo giovani ricercatori reggiani
(ggrr), che costituisce a tutti gli effetti la Sezione giovani di istoreco, ma si riserva la
massima autonomia ideale ed operativa, fatto salvo lo standard di qualità tutelato dagli
organi scientifici dell’Istituto.
Il gruppo mira a raccogliere gli studiosi e appassionati reggiani di meno di
quarant’anni che si occupano di storia e di materie umanistiche e sociali, ma è aperto
anche a persone più vecchie o di altra provenienza che siano interessate a collaborare
con le sue attività. Sorto necessariamente per cooptazione, il ggrr mira ad ampliare la
propria base di adesione e ad assumere una struttura elettiva, senza però sacrificare il
piano operativo alle questioni logistiche.
Il gruppo si propone come luogo di aggregazione e di elaborazione culturale
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aperto alla cittadinanza, senza fini politici o di lucro, ma con la convinzione di poter
svolgere un ruolo nella maturazione civile della popolazione della provincia, e in
particolare della sua componente giovanile, alla quale specificamente si rivolge.
Le attività
Il Gruppo giovani ricercatori reggiani intende inaugurare una nuova modalità di
ricerca di gruppo in grado di far entrare in risonanza esperienze e competenze diverse
ai fini di una elaborazione storica rigorosa ma anche sensibile alla realtà attuale e aperta
alle domande della società civile; si configura quindi come laboratorio permanente sul
modello anglosassone dello History Workshop.
Nella convinzione che istoreco debba rilanciare il proprio ruolo di promozione
della ricerca, il gruppo ha imperniato la sua attività su di un preciso programma di
studi, articolato su base triennale secondo le scansioni del piano scientifico dell’Istituto.
In quest’ottica si è varato il Progetto giorno (Giovani a Reggio nel Novecento), che
costituisce la spina dorsale dell’attività per il periodo 2006-2009.
A sostegno e a margine del lavoro di ricerca vero e proprio, il gruppo si propone di
operare su altri tre piani: formazione interna, collaborazione con istoreco, promozione
culturale. Trattandosi di una iniziativa sperimentale, essa rimane comunque aperta ad
altri sviluppi a seconda delle adesioni raccolte e del reperimento di sponsor e partner
adeguati.
La formazione interna
Accogliendo studiosi professionalmente oltre che anagraficamente giovani, il
gruppo si propone come occasione di approfondimento degli interessi dei suoi membri,
di affinamento delle loro capacità tecniche, di crescita professionale e culturale. In
quest’ottica sono previsti:
– la valorizzazione delle ricerche di laurea o dottorato (o di altre esperienze
pregresse) dei singoli membri;
– l’incontro con alcuni studiosi reggiani delle generazioni precedenti, al fine di una
trasmissione delle loro esperienze di ricerca e della elaborazione di linee guida per
una possibile collaborazione;
– la partecipazione qualificata a seminari e convegni di aggiornamento.
La collaborazione con istoreco
Proseguendo e rafforzando i rapporti di collaborazione avviati dai singoli
membri, il gruppo intende partecipare nel suo complesso alle iniziative dell’Istituto,
supportandone e promuovendone le attività ordinarie (Albi della memoria, Biblioteca,
Editoria, Esteri, Didattica, Polo archivistico, ecc.) e straordinarie (commemorazioni,
mostre, incontri).
Il ggrr ha presso istoreco la sua sede fisica, nella quale sono consultabili i suoi atti
amministrativi e i materiali prodotti; sono inoltre in corso di definizione le modalità di
partecipazione dei giovani alla rivista e al sito dell’Istituto.
Il gruppo si propone di partecipare attivamente alla programmazione di istoreco,
stimolando un rinnovamento che, tenendo conto del patrimonio e della tradizione
dell’Istituto, ne valorizzi le peculiarità nel nuovo contesto locale, nazionale e globale.
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La promozione culturale
Deplorando gli eccessivi specialismi e le chiusure autoreferenziali, il gruppo
intende sviluppare contatti con le istituzioni provinciali, con il mondo della scuola e
con tutti i soggetti che operano sul territorio nell’ambito della elaborazione culturale
e della promozione giovanile.
In quest’ottica il ggrr si è dotato di una responsabile pr con competenze
professionali, nella persona di Elisa Bonini, già collaboratrice dell’Istituto; ha inoltre
messo in cantiere una campagna di presentazione delle proprie attività rivolta alle
diverse categorie di destinatari.
Il gruppo si propone di avviare un seminario itinerante che farà tappa nelle diverse
realtà di ritrovo dei giovani della provincia; e di mettere a punto una efficace azione
promozionale sui media locali.
Il Progetto “Giorno” – I Giovani a Reggio nel Novecento
Le premesse
La scelta dell’oggetto di ricerca, compiuta dal nucleo fondatore del gruppo e
approvata dal direttivo di istoreco, si fonda su tre ordini di considerazioni:
– Lo sviluppo del tema in sede scientifica. Negli ultimi dieci anni la storia dei
giovani ha vissuto un incremento esponenziale e dispone ormai di basi teoriche
consistenti, di un corpus di fonti consolidato e di adeguate metodologie critiche, di
feconde esperienze di studio; e proprio nella nostra regione hanno sede importanti
nuclei di ricerca sul tema.
– L’interesse in ambito locale. Il Piano partecipato del Comune, la recente iniziativa
del prefetto, lo sviluppo del servizio civile volontario, sono segnali dell’attenzione
delle istituzioni per un tema che necessità di una adeguata storicizzazione in grado
di fornire le basi per un dibattito altrimenti condizionato dalle contingenze e dalle
emozioni.
– La corrispondenza tra produttori, oggetto e ricezione. Il gruppo si propone di
fare “una storia dei giovani fatta dai giovani per i giovani”, senza rinchiudersi in una
subcultura, ma auspicando un circolo virtuoso tra ricerca e spirito di cittadinanza.
L’oggetto
Il ggrr, con l’appoggio di istoreco, ha varato per il periodo 2006-2009 un progetto
di ricerca sulla storia dei giovani a Reggio nel Novecento.
Consapevole dell’ampiezza e della difficoltà del tema, il gruppo non si propone
di delinearne un quadro completo, quanto di avviarne l’esplorazione attraverso una
ricognizione dei materiali disponibili e lo sviluppo di ricerche mirate inseribili in
questa cornice di riferimento.
La nozione di “giovane” non costituisce del resto un punto di partenza, bensì di
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arrivo: la categoria stessa dovrà quindi essere adeguatamente storicizzata per offrire
un contributo specifico alla riflessione sull’identità giovanile locale.
Il ggrr, consapevole dei suoi limiti, ha avviato le procedure per la formazione di un
comitato scientifico di livello nazionale in grado di supportare e seguire il progetto.
Le linee di ricerca
Sulla base delle fonti individuate, delle competenze disponibili e dell’interesse
dimostrato dall’opinione pubblica, il gruppo ha individuato come linee di ricerca per
questo primo anno:
– le associazioni combattentistiche giovanili nella prima metà del secolo. Questo
tema, finora trascurato dalla storiografia, consente a nostro parere di mettere a fuoco
l’elemento attivistico e volontaristico della mentalità giovanile e costituisce un raffronto
interessante per le forme di mobilitazione attuale, che appaiono improntate invece a
tematiche pacifiste e non violente;
– le rivendicazione dei diritti e la risposta delle autorità nella stagione dei movimenti.
Dato il crescente interesse sul tema, il gruppo si propone di avviarne la storicizzazione
al di là del senso comune e delle debordanti memorie di alcuni protagonisti, fondandosi
su materiali d’archivio, letteratura grigia e interviste mirate.
– il tempo libero e i consumi culturali dei giovani negli anni Ottanta. Il gruppo intende
accettare la sfida costituita dallo studio di anni molto vicini a noi e tradizionalmente
considerati di riflusso privatistico. Ci sembra che ci sia la possibilità di cogliere
proprio a questo livello i caratteri di accelerazione del ricambio generazionale e di
trasformazione dell’impegno collettivo.
Ci preme far notare che il gruppo ha scelto provocatoriamente tre temi estranei al
tradizionale ambito resistenziale (e più o meno distanti dalla memoria della sinistra).
Ciò non significa disconoscere l’interesse dell’Istituto per la guerra di Liberazione (di
cui verrà anzi tematizzata in varie sedi la rilevanza per la storia dei giovani) né i suoi
valori di riferimento; ma semplicemente prendere sul serio la vocazione pienamente
novecentesca del nuovo corso (ed evitare le puntuali accuse di politicizzazione che
isteriliscono ogni iniziativa culturale reggiana).
E bene anche precisare come, non potendo né volendo sostituire le sedi legittime
di ricerca storica professionale (a partire dall’Università), il gruppo non intenda
“bruciare” questi temi, ma solamente avviare alcuni cantieri di ricerca, approntando
un lavoro preliminare funzionale ad eventuali sviluppi accademici.
Le attività collaterali
A fianco delle linee di ricerca specifiche per l’anno in corso, il gruppo intende
portare avanti alcune iniziative di supporto al programma triennale. In particolare
si propone di avviare la raccolta di dati e materiali pubblici e privati utili ad una
analisi più sistematica del tema; di alimentare il dibattito pubblico sulla giovinezza e i
suoi problemi, presentando il contributo specifico della storiografia; di stimolare una
ricaduta adeguata della ricerca e della discussione nel mondo scolastico.
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In quest’ottica il gruppo ha messo in cantiere:
– la mappatura degli archivi scolastici reggiani. Intendiamo verificare le condizioni,
i contenuti e l’accessibilità degli archivi storici delle principali scuole superiori
della provincia. Ci sembra che questa iniziativa possa fornire utili informazioni alla
comunità scientifica e all’amministrazione; e che possa incontrare anche l’interesse di
più generazioni di reggiani che hanno frequentato questi istituti e che ad essi legano
i ricordi della loro gioventù.
– l’organizzazione di un convegno sul tema. Abbiamo messo in cantiere, per il
2007, una giornata di lavori sui giovani a Reggio, che possa accoppiare l’interesse
propriamente storiografico della questione con quello più genericamente sociale e
culturale. In attesa dei risultati delle nostre ricerche, si tratterebbe di presentare al
pubblico reggiano l’utilità di un lavoro come questo e di partecipare attivamente al
dibattito sul tema.
– il bando di un concorso per le scuole secondarie. Abbiamo pensato ad una
iniziativa per le singole classi delle scuole medie, che favorisca il recupero di materiali
privati sull’esperienza giovanile di più generazioni di reggiani, favorendo anche il
confronto tra le vicende di chi a Reggio è nato e chi invece vi è giunto provenendo
da altri luoghi (e ha dunque vissuto una giovinezza diversa).
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Finito di stampare
nel mese di novembre 2006
da Grafitalia - Reggio Emilia
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