ezio vanoni e la riforma tributaria in italia
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ezio vanoni e la riforma tributaria in italia
WORKING PAPER No 325 settembre 2004 EZIO VANONI E LA RIFORMA TRIBUTARIA IN ITALIA CRISTINA AMBROSETTI JEL CLASSIFICATION: H3 - N4 KEYWORDS: Ezio Vanoni – Politica fiscale società italiana di economia pubblica dipartimento di economia pubblica e territoriale – università di Pavia EZIO VANONI E LA RIFORMA TRIBUTARIA IN ITALIA di Cristina Ambrosetti Abstract This essay presents an outline of the life, the scientific work and the political action of Ezio Vanoni, one of the great statesmen who carried on the rebuilding of Italy after the Second World War. A distinctive feature of Vanoni’s character was the copresence of deep ideological motivations, a strong scientific background and a peculiar political ability inside a single personality. The essay tries always to hold this feature in hand. The not easy life of Vanoni during the fascist era is depicted firstly. Then his research work inside the so called “Pavia’s school” is analyzed. The discussion of Vanoni’s contributions both to the democratic after-war Italian Constitution and to the reform of the tax system concludes the essay. JEL Classification Numbers: H11, H24, H25 Key words: Ezio Vanoni, Italian Constitution, Italian tax reforms in the ‘50s E-mail Address: [email protected] Dipartimento di Economia Pubblica e Territoriale Università di Pavia - Luglio 2004 Presentazione Commemorando Vanoni nel volume celebrativo del IV Centenario del Collegio Ghislieri di Pavia, nel 1967, F. Forte ha scritto: “I giovani di questa e delle future generazioni leggendo di Vanoni sentiranno che la sorte di generare uomini di grande statura, la cui vastità di visione politica e la cui forza morale suscitano ammirazione e orgoglio patrio – nella nostra epoca – non è toccata solo all’Inghilterra con Winston Churchill o agli Stati Uniti con John Fitzgeral Kennedy. Perché, in verità, basterebbe soltanto la morte epica di Ezio Vanoni, nel febbraio 1956 in Senato, (…) sapendo di avere pagato con la propria vita la possibilità di dare al paese un bilancio di stabilità e sviluppo, per assegnare a lui, così schivo di ogni forma di esibizione e di retorica, un posto scintillante nella storia”. Sia pure nei limiti di testo che è nato da una tesi di laurea, nelle pagine che seguono si offrono ai “giovani di questa e delle future generazioni” le informazioni adeguate per avvicinare questa figura della storia politica e degli studi di finanza pubblica italiani, così straordinaria e tuttavia così poco conosciuta, e per compararla alla generalità della classe politica attuale, non solo italiana. Luigi Bernardi IINDICE CAPITOLO PRIMO INTRODUZIONE, SINTESI E CONCLUSIONI Pag. 1.1 Introduzione ______________________________________________ 9 1.2 Sintesi _________________________________________________ 10 1.3 Conclusioni ______________________________________________ 13 CAPITOLO SECONDO LA VITA E LE OPERE Pag. 2.1 La formazione culturale 2.1.1 L’infanzia a Morbegno ____________________________ 15 2.1.2 L’università _____________________________________ 17 2.1.3 La prima opera __________________________________ 19 2.1.4 L’esperienza in Germania __________________________ 21 2.1.5 La pubblicazione della tesi di laurea _________________ 23 2.2 La carriera accademica 2.2.1 Le prime delusioni ________________________________ 25 2.2.2 Vanoni professore a Roma _________________________ 26 2.2.3 Il ritorno agli studi finanziari _______________________ 28 Pag. 2.3 L’impegno sociale e politico 2.3.1 Il Codice di Camaldoli ____________________________ 31 2.3.2 L’ingresso in politica di Vanoni _____________________ 35 2.4 Vanoni Ministro 2.4.1 La riforma tributaria ______________________________ 39 2.4.2 Il Piano Vanoni __________________________________ 41 CRONOLOGIA _____________________________________________ 44 CAPITOLO TERZO IL CONTRIBUTO DI EZIO VANONI ALLA FORMAZIONE DELLA COSTITUZIONE Pag. 3.1 Vanoni alla Costituente ____________________________________ 48 3.2 L’elaborazione del progetto costituzionale 3.2.1 La copertura finanziaria degli impegni di spesa ________ 51 3.2.2 L’ordinamento regionale ___________________________ 53 3.2.3 Il contenzioso tributario ___________________________ 58 3.2.4 La posizione del Primo ministro _____________________ 60 3.3 Il principio di capacità contributiva e la riserva di legge 3.3.1 L’articolo 53 della Costituzione _____________________ 61 3.3.2 L’articolo 23 della Costituzione _____________________ 65 CAPITOLO QUARTO LA RIFORMA TRIBUTARIA DEL 195I Pag. 4.1 Il sistema tributario della fine degli anni ‘40 4.1.1 Aspetti generali __________________________________ 68 4.1.2 L’evasione fiscale ________________________________ 72 4.1.3 La personalizzazione delle imposte ___________________ 74 4.2 La riforma tributaria del 1951 4.2.1 Generalità della riforma ___________________________ 75 4.2.2 La legge sulla perequazione tributaria ________________ 77 4.3 La dichiarazione dei redditi 4.3.1 La disciplina giuridica ____________________________ 80 4.3.2 Contenuto della dichiarazione ______________________ 81 4.3.3 Scopo della dichiarazione dei redditi _________________ 84 4.3.4 Critiche all’introduzione della dichiarazione annuale____ 86 4.4 Altro contenuto della legge di perequazione 4.4.1 Rilevamento fiscale straordinario ____________________ 88 4.4.2 La sistemazione di situazione irregolari del passato _____ 90 4.4.3 Imposte dirette ___________________________________ 91 4.4.4 Finanza locale ___________________________________ 95 4.5 Riordinamento e rafforzamento dell’organizzazione finanziaria ____ 97 4.6 Risultati ottenuti dalla riforma tributaria _______________________ 99 CAPITOLO QUINTO L’IMPOSTA SULLE SOCIETÀ Pag. 5.1 L’imposizione delle società: premessa________________________ 103 5.2 L’imposta sul reddito delle società e gli utili non distribuiti__________ 105 5.3 L’imposta sulle società del 1954 5.3.1 Personalità giuridica e capacità contributiva ____________ 107 5.3.2 Lineamenti del nuovo tributo_______________________ 110 5.4 Le novità della norma 5.4.1 La contemporanea imposizione sul capitale e sul reddito 113 5.4.2 L’imposta sulle obbligazioni _________________________ 115 5.5 Le critiche generali alla nuova imposta: costituzionalità del tributo ____ 115 5.6 L’imposta sulle società: il secondo tempo della riforma_____________ 118 Pag. BIBLIOGRAFIA GENERALE ___________________________________ 120 SCRITTI DI EZIO VANONI ____________________________________ 126 INDICE DELLE TABELLE Pag. TAB. 1: Governi italiani nella prima legislatura ______________________ 39 TAB. 2: Entrate tributarie dal 1938-39 al 1950-51 _____________________ 71 TAB. 3: Variazioni dell’aliquota dell’imposta complementare dal 1940 al 1951____________________________________________ 94 TAB. 4: Bilanci statali dal 1948-49 al 1952-53 ______________________ 100 TAB. 5: Pressione tributaria (Contribuente di categoria B con 2 figli a carico) _____101 TAB. 6: Pressione tributaria (Contribuente di categoria C/2 con 2 figli a carico) ____101 CAPITOLO PRIMO INTRODUZIONE, SINTESI E CONCLUSIONI 1.1 Introduzione Ezio Vanoni è stato un personaggio di grande rilievo per la Scienza delle finanze e per la storia sia politica che economica italiane nonostante credo che oggi non siano molti, anche nella natia Valtellina, a conoscere effettivamente la reale portata di tutta la sua azione umana, scientifica e politica: il suo nome lo lega principalmente al ricordo di colui che ha “inventato” la dichiarazione dei redditi. Nel corso di tutta la sua attività politica, dal 1943 al 1956, e anche negli anni precedenti dedicati allo studio e all’insegnamento, egli rimase sempre legato fortemente a ideali di impronta cristiana, che trasfuse in tutte le sue azioni, rappresentando un raro esempio di economista cattolico impegnato in politica. La sua elaborazione e le sue scelte furono sempre influenzate dagli ambienti in cui si formò e dalle persone con cui condivise le più importanti esperienze Questo testo riprende ed estende il mio lavoro di Laurea in Giurisprudenza a Pavia, che la Commissione ha molto apprezzato, invitandomi ad approfondirlo e diffonderlo. Ringrazio il prof. Luigi Bernardi, per i suoi numerosi commenti e suggerimenti. 9 politico-culturali: la Valtellina, ad esempio, o l’incontro con personaggi come Griziotti, Saraceno e De Gasperi. Il punto di arrivo delle sue convinzioni umane e scientifiche, trasfuse nell’azione politica di grande statista, fu soprattutto rappresentato dalla riforma tributaria del 1951 e dallo Schema Vanoni del 1956. Questa tesi si basa soprattutto su quello che è stato il suo apporto alla riforma tributaria che ha avuto il suo culmine, come detto, nel 1951, con la “legge di perequazione”, e che è proseguita negli anni seguenti con successivi provvedimenti tra cui, principalmente, l’introduzione dell’imposta personale sulle società del 1954. Le idee sottostanti erano già state anticipate negli anni precedenti. Lo statista valtellinese non fu soltanto l’ideatore del “Modulo Vanoni”, con il quale i contribuenti intrapresero a dialogare con l’Amministrazione finanziaria, denunciando i propri redditi ai fini dell’imposta personale e complementare, ma anche il fautore di una giustizia sociale che aveva come presupposto un’effettiva equità fiscale. I vari momenti della vita di Vanoni, considerati in questa tesi, sono strettamente legati l’uno all’altro, in quanto parte di un medesimo disegno di riforma, i cui elementi fondamentali lo statista aveva già cominciato ad elaborare nei suoi primi scritti. E’ stato quindi importante considerare, oltre alla letteratura attuale, gran parte della quale è dovuta a studiosi e politici che hanno avuto un contatto diretto con Vanoni (Forte, Griziotti, Saraceno, Spini), anche i suoi stessi saggi pubblicati a partire dal 1927. 1.2 Sintesi L’articolazione della tesi segue quelle che sono state le tappe fondamentali dell’esistenza di Vanoni e che hanno portato alla riforma tributaria. Nel secondo 10 capitolo ho analizzato la vita del futuro statista, ripercorrendone i momenti principali: dagli studi, prima a Sondrio poi a Pavia, agli anni dedicati all’insegnamento universitario, alla collaborazione con i cattolici democristiani alla redazione del Codice di Camaldoli, fino all’entrata in politica prima come Ministro delle Finanze e poi del Bilancio. Si sono poi considerate le sue maggiori opere e i saggi da lui redatti a partire dal 1927, in numerosi dei quali sono contenuti alcuni elementi fondamentali che anticipano diversi aspetti ripresi poi nella successiva esperienza politica: già dall’analisi della vita e delle opere si possono rilevare alcune delle idee di Vanoni, dal punto di vista economico e politico. Il capitolo terzo è dedicato alla partecipazione di Vanoni alla redazione della Costituzione italiana. Questo momento, seppure messo quasi in secondo piano dalla letteratura, rispetto alla riforma tributaria, è rilevante innanzi tutto per l’oggetto, la redazione della nostra legge fondamentale, e poi perché anche in questa sede il pensiero di Vanoni economista e giurista finanziario si è rilevato importante in relazione alla definizione di vari istituti, come l’ordinamento regionale, il contenzioso tributario, la posizione del presidente del Consiglio dei ministri e la copertura finanziaria degli impegni di spesa: tutti questi sono temi di grande importanza politica e costituzionale, oggetto per lunghi anni di ampie discussioni scientifiche e politiche. Si è poi ritenuto importante analizzare anche la redazione di altri due articoli della Costituzione, il 23 e il 53, legati anch’essi al contributo di Vanoni in quanto vi sono contenuti il principio di legalità e quello relativo alla capacità contributiva, principi che, come detto, possiamo ritrovare negli studi di Vanoni, nella sua riforma del 1951 e poi anche nell’imposta sulle società del 1954. 11 Il quarto capitolo è quello centrale, in quanto prende in considerazione la legge di perequazione n. 25 del 1951, cardine della riforma tributaria voluta da Vanoni. Il 10 ottobre 1951, infatti, i contribuenti presentarono la prima dichiarazione dei redditi: in un paese abituato ad evadere le tasse si trattava di una vera rivoluzione. Con questa legge e con altri successivi provvedimenti, Vanoni volle modificare totalmente il rapporto fisco-contribuente, cercando di raggiungere, tramite la nuova dichiarazione, una collaborazione e una reciproca fiducia che fino allora non si erano mai avute. Lo scopo era quello di realizzare prima che una riforma fiscale una vera e propria riforma etica, offrendo ai cittadini la disponibilità di un’Amministrazione giusta, affinché ciascuno sentisse legittima e moralmente doverosa la propria partecipazione all’adempimento tributario. Integrativi a questa legge, il cui contenuto fondamentale è appunto la dichiarazione unica annuale ed obbligatoria dei redditi, vi è stata poi una serie di provvedimenti volti al perseguimento di un sistema tributario moderno e una maggiore giustizia fiscale, tramite un intervento nell’organizzazione dell’Amministrazione finanziaria, degli uffici e del personale. A completamento della riforma è infine stata introdotta l’imposta personale sulle società del 1954: fu proprio lo stesso Vanoni a porre le basi di questo nuovo tributo, quando era ancora al Ministero delle finanze. La nuova legge rappresenta una continuazione della riforma tributaria iniziata nel 1951, e fornisce una regolamentazione nuova della tassazione delle società di capitali fondata sulla capacità contributiva e sulla personalità giuridica di esse, che Vanoni aveva ancora una volta anticipato anni prima, in un saggio del 1943. La nuova imposta era importante perché parificava, dal punto di vista tributario, le società di persone a quelle di capitali, offrendo una nuova regolamentazione al pari di quella già 12 adottata da altri stati esteri: tramite questo provvedimento si tendeva ancora una volta a perseguire l’obiettivo della giustizia fiscale, scopo principale dell’azione di Vanoni. 1.3 Conclusioni Tutta la vita di Ezio Vanoni e il suo operato, sono quindi sempre stati segnati da un filo conduttore che si era originato già in età giovanile dalle convinzioni religiose e dalle esperienze umane che visse direttamente: questi elementi influenzarono i suoi ideali e i suoi obiettivi umani e politici. Analizzando la vita e le varie fasi della riforma tributaria dello statista valtellinese, si può costatare la coerenza del suo pensiero, volta al perseguimento di una concezione dell’interesse pubblico, permeata dagli ideali della giustizia sociale. Lo stesso concetto di capacità contributiva, fondamentale per realizzare l’equità sociale, si ritrova costantemente: nell’analisi delle opere e dei saggi da lui scritti, nella partecipazione alla “Commissione dei 75”, a fondamento della riforma tributaria e poi come concetto base da cui si è originata l’imposta sulle società del 1954. Quanto Vanoni ha cercato di realizzare era anche la modernizzazione del sistema economico e sociale tramite un nuovo ruolo dello Stato. Al di là delle competenze istituzionali che gli furono affidate, lo statista ebbe, infatti, un ruolo di grande rilievo nell’elaborazione di tutti i più importanti provvedimenti della politica economica di quegli anni: Vanoni voleva poi in specie, e per il tramite della sua riforma, rendere l’Italia una nazione veramente moderna e giusta, al pari con le nazioni più progredite d’Europa. La riforma tributaria non è quindi solo quella che si è avuta con i provvedimenti del 1951, ma rappresenta un percorso 13 che ha origine già nei primi scritti scientifici di Vanoni, nella partecipazione alla redazione della Costituzione e continua poi anche negli anni seguenti con la nuova tassazione delle società di capitali. Tutte queste sono state tappe importanti della nostra storia politica ed economica, a cui Vanoni ha partecipato impegnandosi a diffondere al massimo il benessere, attraverso riforme che avevano il fine primario di soddisfare i bisogni sociali. L’obiettivo essenziale di tutta la sua azione politica e la meta ultima di tutto il suo pensiero, era la costruzione di uno Stato moderno, adeguato al grado di sviluppo economico che aveva ormai raggiunto il nostro paese, in grado di rispondere efficacemente alle esigenze dei cittadini, di tutelare e fare prevalere i loro interessi generali e diffusi. In conclusione, nella figura e nell’opera di Vanoni, possiamo quindi vedere una personalità scientifica articolata ma unitaria, in cui tutte le evoluzioni di pensiero furono il frutto di una meditazione profonda e mai di motivi di interessi politici immediati. Infine in tutta la sua opera sono presenti elementi estremamente attuali ed attuabili, che dovrebbero essere di ispirazione per tutti coloro che sono chiamati ad amministrare l’economia ed il sistema fiscale del nostro paese. 14 CAPITOLO SECONDO LA VITA E LE OPERE 2.1 La formazione culturale 2.1.1 L’infanzia a Morbegno Ezio Vanoni, primogenito di quattro figli, nacque a Morbegno (Sondrio), il 3 Agosto 1903, da una famiglia appartenente alla media borghesia locale. La sua prima educazione politica, fondamentale nel corso poi di tutta la vita, può senz’altro attribuirsi proprio all’ambiente sociale ed economico della Valtellina, da cui Vanoni trasse influenze e motivi di riflessione, che diedero un contributo profondo alla sua formazione. Morbegno, in particolare, era uno dei comuni valtellinesi già da allora più attivi, nel quale erano rappresentate quasi tutte le diverse classi sociali della provincia: piccoli contadini coltivatori diretti, artigiani, commercianti, alcuni impiegati degli uffici del governo addetti alle imposte e alla Pretura, una decina tra avvocati, notai, ingegneri oltre ad un modesto numero d’insegnanti. 15 Teobaldo Vanoni e Luigia Samaden, padre e madre di Ezio Vanoni, non erano certo ricchi, ma potevano dirsi fortunati in quanto avevano una buona occupazione che garantiva loro uno stipendio in grado di mantenere un decoro di vita di cui molti altri, nella poverissima Valtellina di allora, non potevano godere. Il padre era geometra e segretario comunale a San Martino Val Masino, un paese di montagna, distante una ventina di chilometri da Morbegno; la madre, maestra elementare, si divideva instancabilmente tra l’attenzione ai figli, di cui curò in modo particolare la formazione morale, le cure della casa e la collaborazione con il marito. Entrambi i genitori si prodigarono con ogni sacrificio per educare i quattro figli e per farli studiare. Infatti, fecero conseguire a tutti un titolo professionale che, a quel tempo, in Valtellina non era cosa da poco, potendosi permettere di proseguire gli studi solo chi apparteneva a famiglie benestanti. L’attività paterna di segretario comunale di San Martino fu per Vanoni molto importante, in quanto in quel comune, durante l’infanzia, trascorse molto tempo, presso la casa della balia, dove seguiva tutte le abitudini contadine di quella famiglia e continuando poi, in età adolescenziale, ad accompagnare il padre al lavoro quando era libero dagli impegni scolastici. In quelle occasioni cominciò a capire il sacrificio di chi vive in montagna, un modo di vivere duro, severo, senza riposo, non proprio dei soli contadini della Val Masino ma di tutta la Valtellina. Vanoni ricorderà molte volte, nel corso soprattutto della sua attività di governo, la condizione di disagio della Val Masino, assieme a Tartano, altro piccolo comune montano valtellinese, sulla sponda orobica, completamente isolato dal fondo valle sino agli anni ’60, allorquando la costruzione della strada, opera fortemente voluta dallo stesso Vanoni, ne rese possibile l’accesso. 16 Rappresentativo in questo senso è il suo ultimo discorso alla Camera, pronunciato poche ore prima di morire, il 16 febbraio 1956, nel ricordare questi luoghi, quasi a volerne testimoniare l’importanza assunta nella formazione e nello sviluppo del suo pensiero economico, politico e sociale: “Ma io non posso mai dimenticare alcune esperienze della mia vita, quando opero sul terreno politico…ad esempio, che vi è nella mia provincia un piccolo comune di 1200 abitanti, il quale ancora oggi è collegato con la pianura per mezzo di una mulattiera, sicché occorrono cinque ore di cammino a piedi per raggiungerlo. E quando si sale lassù, come io qualche volta ho fatto prima e dopo la mia vocazione politica…si orienta necessariamente la propria opera, come credo di aver sempre fatto nella mia vita politica affinché questi 1200 contadini montanari…abbiano una tranquillità economica ed una speranza in un avvenire migliore per sé e per i propri figli.” (Vanoni, 1978). A Morbegno Vanoni frequentò le elementari, ottenendo già ottimi risultati scolastici, e qui ebbe modo di cominciare a simpatizzare con Pasquale Saraceno, con cui strinse un’amicizia, divenuta più profonda quando poi Saraceno sposò la sorella di Vanoni, e che portò ad una collaborazione costante, di cui l’ultimo episodio si ebbe nella formulazione dello schema decennale di sviluppo economico, noto ormai col nome di “Piano Vanoni” (Saraceno, 1982). 2.1.2 L’università Al centro della maturazione politica di Vanoni furono inizialmente gli anni del collegio nel liceo Piazzi di Sondrio, che divenne poi uno dei licei più avanzati d’Italia grazie al Ministro della pubblica istruzione di allora, il 17 pedagogista Luigi Credaro1, anche lui valtellinese. L’esperienza della prima guerra mondiale fu quindi vissuta da Vanoni proprio nel corso di questi anni. La svolta si ebbe però nel primo dopoguerra, durante il periodo degli studi universitari a Pavia, da lui trascorsi nel celebre collegio Ghislieri. Fu proprio in questi anni che Vanoni fece le prime esperienze politiche ed arricchì notevolmente le sue conoscenze umane e sociali, aderendo al Gruppo studenti socialisti, in uno dei momenti più delicati della storia italiana di fronte all’avanzare della dittatura fascista; divenne il capo di questi studenti e diresse la delegazione partecipante al Comitato d’agitazione, costituito per difendere la libertà in Italia dopo il delitto Matteotti. Alla base delle azioni di Vanoni di quegli anni furono la sensibilità per i problemi sociali, la sua vicinanza sul piano umano ai ceti più umili, la sua intenzione di agire contro i pericoli che tragicamente incombevano sulla vita del nostro paese per la tutela della libertà e della giustizia. Questa prima esperienza socialista rappresentò un importante elemento evolutivo della sua personalità, e fu diretta al tentativo di realizzare una società nella quale i valori morali del cristianesimo fossero un elemento fondamentale del progresso e di una libera e ordinata convivenza: tutta la sua attività politica aspirerà alla “giustizia sociale” necessario fondamento di quella carità cristiana. Nella Facoltà di Giurisprudenza, dove s’iscrisse nell’anno accademico 1921/22, ebbe come maestro Benvenuto Griziotti2, il direttore dell’Istituto di 1 Credaro L., (Sondrio 1860-Roma 1939), pedagogista e uomo politico italiano. Deputato al Parlamento dal 1910 al 1914, fu Ministro della pubblica istruzione e fece approvare alcune fondamentali leggi per le scuole elementari e medie. Nel 1907 fondò la “Rivista pedagogica”. 2 Griziotti B., economista italiano (1884-1956). Insegnò Diritto finanziario e Scienza delle finanze a Catania (1914-20), poi a Pavia. Analizzò in particolare la natura del potere fiscale, cercando di scoprire la causa dell’imposizione ed i principi distributivi del carico fiscale. 18 Finanza dell’Università e della Camera di Commercio, col quale strinse una forte amicizia e collaborazione che portò, qualche anno dopo, alla costituzione della “Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze”. Fu durante questi anni a Pavia che, inoltre, intraprese le prime ricerche e venne definendo il proprio orientamento di politica economica, che avrebbe trovato una concreta traduzione nell’azione di governo condotta nel secondo dopoguerra. 2.1.3 La prima opera Il 25 Luglio 1925 Vanoni si laureò, a pieni voti, con una tesi dal titolo “Natura e interpretazione delle leggi tributarie” e, a causa dell’affermarsi totalitario del fascismo che sopprimeva qualsiasi forma d’opposizione e di libera espressione del pensiero, esaurì anche la vocazione politica sbocciata a Pavia, dedicandosi totalmente agli studi e alla carriera: furono, infatti, il fascino dell’insegnamento e il piacere della ricerca a provocare in lui questo improvviso silenzio politico. Lo stesso Benvenuto Griziotti ricordava quanto fosse forte per Vanoni il piacere di insegnare: “Non avevo ancora un assistente alla cattedra, ma Ezio Vanoni già nel terzo anno mi aiutava nelle esercitazioni di Diritto finanziario del secondo anno. Mi ricordo quanto volentieri gli studenti lo seguivano e imparavano da lui.” (Griziotti, 1956). Conseguì poi uno dei premi dell’Istituto Giuridico di Pavia per le monografie presentate nel corso dell’anno 1924/25 e, più tardi, la sua tesi di laurea vinse il premio Minguzzio per la migliore dissertazione di Diritto pubblico nella sessione di laurea del 1925. Divenne, subito dopo, assistente volontario dello stesso Benvenuto Griziotti nell’Istituto Giuridico dell’Università di Pavia e, nell’autunno, partì per il servizio militare che fece, 19 come gran parte dei valtellinesi, negli alpini, dapprima come allievo ufficiale a Verona, poi come sottotenente del 5° reggimento nell’Alto Adige. Durante l’esperienza militare, Vanoni non smise di dedicarsi allo studio: infatti, lavorò alla sua prima monografia, che fu poi pubblicata in un’opera curata da Griziotti nel 1927 con il titolo “La rivalutazione della lira e l’equilibrio economico” (Vanoni, 1927) e rientrante nel dibattito sulla “quota novanta”, espressione che si riferiva alla discussione allora in corso sul valore del cambio in lire della sterlina. Di una battaglia per “quota novanta” parlò Mussolini nel famoso discorso di Pesaro, il 18 agosto 1926, quando annunciò di voler difendere la lira sul mercato dei cambi, procedendo ad una rivalutazione della moneta italiana tale da ricondurla al livello esistente al momento della presa del potere del fascismo nel 1922 (90 lire per una sterlina, contro le circa 150 necessarie nel 1926). Attraverso vari provvedimenti, si giunse il 21 dicembre 1927 all’istituzionalizzazione di “quota novanta”, con un decreto che fissava la nuova parità aurea in modo da stabilire un cambio fisso di 19 lire per dollaro e di 92,46 per sterlina e, dato che la valuta di riferimento nell’economia internazionale era quella inglese, questa linea politica fu appunto definita “quota 90” (De Bernardi, Guarracino, 1998). Il saggio esaminava quindi le due opposte tendenze di risanamento monetario dopo un’inflazione, la rivalutazione e la stabilizzazione: Vanoni scelse, tra queste due, la rivalutazione, accettando la linea del governo fascista solo a determinate condizioni, quali ad esempio il raggiungimento di un equilibrio sostanziale del bilancio dello Stato e dei privati, un pareggio stabile della bilancia internazionale e una capacità dell’economia di reagire alle crisi d’assestamento dopo gli sconvolgimenti operati dalla guerra. Mancando queste 20 condizioni, per Vanoni, la rivalutazione era un’opera onerosa e inutile, presupponendo uno stabile equilibrio, economico e sociale, sia all’interno sia all’esterno. Il lavoro sulla rivalutazione della lira non passò inosservato: infatti, dopo una prima delusione, dovuta al ritiro nel concorso al posto d’assistente alla cattedra di Scienza delle finanze e Diritto finanziario di Pavia, per l’accusa di avere complottato per imporre al re le dimissioni di Mussolini, il giovane Vanoni conquistò nel 1926, la borsa di studio Lorenzo Ellero per due anni di perfezionamento negli studi economici presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Vanoni non portò mai a termine questo biennio, poiché, alla fine dell’estate del 1928, vinse la borsa di studio biennale della Fondazione Rockfeller, più impegnativa e consistente di quella alla Cattolica, per studi all’estero, che dava un vero e proprio stipendio. Fu lo stesso Luigi Einaudi, rappresentante italiano della fondazione statunitense, ad appoggiare la sua candidatura su indicazione di Benvenuto Griziotti. 2.1.4 L’esperienza in Germania Nei due anni vissuti in Germania, presso le Università di Bonn, Berlino, e Francoforte, anni che coincisero con la caduta della Repubblica di Weimer, quando Hitler ancora non aveva conquistato il potere, Vanoni ebbe modo di approfondire gli studi in Scienza delle finanze e in Diritto finanziario, acquisendo ampie conoscenze, a seguito della profonda riforma tributaria e della nascita di una ricca letteratura, ispirata dai nuovi criteri legislativi in materia d’imposta, che aveva interessato la Germania nel 1919. Molti anni dopo, divenuto deputato nelle file della Democrazia Cristiana, nel suo primo discorso 21 all’Assemblea Costituente, ricorderà proprio questo periodo: “Io ho vissuto in Germania, dove mi trovavo per i miei studi, durante il periodo successivo all’inflazione. Ho assistito alla decadenza della classe media tedesca e ho visto di quali involuzioni ed evoluzioni è stata causa la rovina morale ed economica di quel ceto” (Vanoni, 1978). Vanoni poté in due anni studiare e riflettere su opere divenute classiche, approfondire tutti i temi, come il rapporto tra diritto pubblico e privato, la struttura dell’obbligazione tributaria, impadronirsi di tutta la letteratura germanica e anche di quella svizzera, acquisendo un’esperienza fondamentale, che pochissimi in Italia potevano vantare e che avrebbe trovato riflesso, non solamente negli interventi condotti durante gli anni ’30, ma anche nell’impostazione concreta della sua azione di governo durante gli anni della ricostruzione postbellica. Griziotti sosteneva che Vanoni era stato il primo in Italia a trarre profitto dalla letteratura straniera per arricchire la sua cultura e, a differenza di altri che si erano limitati ad operare un trasferimento d’idee e sistemi, lui sottopose questa letteratura ad una critica scientifica da cui partire per costruire la sua dottrina (Griziotti, 1956). Rientrato dalla Germania nel 1930, ottenne l’incarico di Scienza delle finanze e Diritto finanziario alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Cagliari, dove rimase come docente fino al 1933. L’anno seguente, il professor Vanoni aprì poi, con un giovane amico, uno studio legale a Milano, che già da subito ebbe una numerosa e importante clientela e, il 7 gennaio 1932, si sposò a Morbegno con Felicita Dell’Oro, anche lei valtellinese, figlia dell’esattore comunale di Morbegno, con cui si conosceva da sempre e dalla cui unione nacquero Marina (nel 1933) e Lucia (nel 1934). 22 2.1.5 La pubblicazione della tesi di laurea Sempre nel 1932, Vanoni pubblicò la tesi di laurea in un volume nella collana dell’Istituto di Finanza di Pavia edito dalla Cedam, riprendendo il titolo della tesi stessa “Natura e interpretazione delle leggi tributarie”. In quest’opera, Vanoni analizzava il travagliato rapporto tra fisco e contribuente dall’epoca romana fino al ventesimo secolo, che riconduceva al più generale rapporto tra poteri dello Stato e cittadini. L’analisi partiva dalla causa dell’imposta, che stava nei benefici della spesa pubblica e nel dovere di solidarietà che sorgeva nel singolo individuo verso gli altri cittadini. Respingeva la teoria secondo la quale il tributo è un mero fenomeno di scambio in relazione ai benefici della spesa pubblica e, quindi, non accettava ad esempio la teoria dell’imposta come compenso individuale del “fattore di produzione Stato”. Lo Stato, per Vanoni, appariva come un insieme d’individui che perseguono in collaborazione la soddisfazione dei bisogni da loro sentiti in qualità di membri del gruppo politico, aiutandosi reciprocamente, collocandosi uno a fianco dell’altro. All’imposta proporzionale Vanoni poi sostituiva quella progressiva, ritenendo che i cittadini con i redditi più modesti non devono essere oppressi dai tributi, anzi devono trarne vantaggio per le loro attività private; la tassazione degli stranieri ha fondamento solo quando partecipano effettivamente al godimento dei benefici pubblici e quella dei cittadini italiani residenti all’estero quando abbiano ancora legami economici con lo Stato e da questi traggano dei benefici. Dalla nozione secondo la quale l’imposta ha come fine la soddisfazione dei bisogni collettivi, Vanoni faceva discendere anche il principio secondo cui questa si deve fondare su una realtà economica che individua la capacità a contribuire alla spesa, respingendo due categorie dell’interpretazione giuridica e 23 della politica tributaria, “in dubio contra fiscum” e “in dubio pro fisco”, che si contrapponevano nelle vicende storiche economiche e politiche. La seconda opera che Vanoni pubblicò nel 1932 è “Osservazioni sul concetto di reddito in finanza”, in cui analizzava le diverse nozioni del reddito che si possono stabilire nell’economia per l’esame del prodotto economico e, nella finanza pubblica, per la tassazione. Analizzava la posizione degli economisti del XVIII secolo, attenti soprattutto allo studio del reddito nazionale e fermatisi invece solo di passaggio su quello individuale, considerato come qualcosa di più evidente e quindi senza bisogno d’approfondimenti e ricerche; solo in un secondo tempo fu riportato in primo piano dagli economisti il problema del reddito individuale. L’Autore osservava le principali dottrine che si erano avute nell’ultimo secolo, raccogliendo, al termine dell’indagine, tre concezioni fondamentali del reddito irriducibili tra loro: - il reddito è il prodotto netto di un’attività produttiva o di un complesso d’attività produttive; - il reddito è l’entrata netta, vale a dire la somma dei valori economici che entrano in un patrimonio in un certo periodo, fatta deduzione dei valori che ne escono in relazione al conseguimento dell’entrata; - il reddito è la somma dei godimenti, o servizi, che derivano in un certo periodo all’individuo dai beni economici che sono a sua disposizione. Le tre definizioni potrebbero fare pensare che il concetto di reddito sia equivoco e instabile ma, in verità, Vanoni sosteneva che ognuna di queste definizioni è legittima, in quanto riflette una realtà della vita; bisogna vedere a che fine e secondo quali presupposti il concetto di reddito è utilizzato per avere un criterio che porti ad optare per una definizione piuttosto che per un’altra. Vanoni 24 analizzava poi gli sviluppi diversi che il De Viti De Marco e l’Einaudi davano al problema della tassazione del risparmio; il primo, non separava dai beni prodotti quelli consumati, l’Einaudi, invece, intendeva che al reddito appartiene solo ciò che è consumato da colui che ha prodotto, ciò che egli non consuma e cede ad altri dietro compenso o restituzione futura non è reddito ma capitale. Chiudevano il lavoro brevi cenni alle diverse applicazioni della nozione di reddito secondo i criteri contributivi e di riparto dei costi dei pubblici servizi. 2.2 La carriera accademica 2.2.1 Le prime delusioni Ottenuta quindi, dopo il matrimonio e l’apertura dello studio a Milano, una certa stabilità dal punto di vista economico e familiare, Vanoni puntò però ad un altro obiettivo: la titolarità della cattedra in Scienza delle finanze e Diritto finanziario, le materie che già gli avevano dato fino allora una certa autorità negli ambienti accademici italiani e stranieri. Nel febbraio del 1932 tentò il concorso di cattedra all’Università di Messina, ma ottenne solo la libera docenza; l’insuccesso si ripeterà poi tre anni dopo, in occasione del concorso presso l’Università di Camerino. Il perché di questi fallimenti è da ricercare con ogni probabilità nel fatto che Vanoni non aveva quella che era chiamata “tessera del pane”, cioè la tessera del partito fascista, e questo gli impedì di vincere i concorsi come professore di ruolo, cosa che gli avrebbe permesso non solo l’incarico universitario, ma anche l’ingresso nelle cariche dello Stato. Chi non aveva la tessera del partito nazionale fascista 25 non poteva aspirare al posto fisso statale e, tanto meno, nelle università, in discipline poi così politicamente sensibili come quelle economico-finanziarie. La motivazione della bocciatura a Messina di Vanoni, ovviamente, non faceva riferimento a questa tessera, ma sosteneva che le tre monografie presentate fossero poco decisive per quanto riguarda il suo contributo personale quando, in realtà, basta sfogliarle per vedere la loro originalità; questa giustificazione rappresentò quindi il paravento di motivazioni politiche. Anche altri assieme a Vanoni non possedevano questa tessera, tra tutti Benvenuto Griziotti e Luigi Einaudi, i quali però erano già titolari di cattedra prima che salisse al potere il fascismo e quindi risentirono di meno le conseguenze rispetto allo stesso Vanoni. 2.2.2 Vanoni professore a Roma Nel 1933 finalmente Vanoni ottenne l’incarico, per la durata di tre anni accademici consecutivi, di Scienza delle finanze alla cattedra nella Facoltà di Giurisprudenza all’Università di Roma, dove fino al 1931 aveva insegnato Antonio De Viti De Marco3. Fu nel periodo trascorso a Roma che Vanoni strinse amicizie importanti con Alcide De Gasperi, Guido Gonnella e Sergio Paronetto, quest’ultima favorita soprattutto da Pasquale Saraceno. Paronetto4 era anche lui valtellinese: nato, infatti, a Morbegno nel 1911 e trasferitosi l’anno seguente ad Ivrea e poi a Roma, divenne uno dei leader del Movimento Laureati Cattolici, 3 A. De Viti De Marco, economista italiano (Lecce 1858-Roma 1943), docente di Scienze finanziarie. Dal 1920 al 1921 fu deputato radicale, nel 1931 fu tra i pochi docenti privati della cattedra a non avere giurato fedeltà al fascismo. 4 S Paronetto., nato a Morbegno nel 1911, figlio di Antonio Paronetto, professore di matematica trevigiano e di Rosa Dassogno, lontana parente dei Vanoni e originaria di San Pietro Berbenno. 26 redattore della rivista Studium e capo redattore dell’Illustrazione vaticana, quindicinale della Santa Sede. Assunto poi nel 1934 all’IRI5, Paronetto fece di quest’istituto un laboratorio di teorie di politiche economiche che ispirarono l’attività di tutta la prima generazione della classe dirigente democristiana, a cominciare dallo stesso Vanoni, che proprio nell’esperienza innovativa di questo ente scoprì la strada che l’avrebbe portato poi a formulare la sua teoria sull’economia mista. Fermo sostenitore dei doveri cristiani nella vita pubblica, Paronetto ha lasciato alcune pagine sul dovere del cittadino, certamente fra le più importanti sull’argomento (Paronetto, 1943). Per Vanoni quest’amicizia fu molto importante, sostiene il Vigna che fu proprio l’amico a far rivivere in Vanoni la sua vocazione politica che aveva in parte abbandonato nel corso degli anni studenteschi (Vigna, 1992). Il contributo maggiore di questa amicizia si può ritenere sia stata anche l’influenza per il ritorno alla fede cristiana di Vanoni, verso il quale era stato indirizzato da bambino, dall’esempio concreto della madre con la quale aveva spesso condiviso attivamente la carità verso i poveri e i bisognosi, e che in ogni caso non aveva mai abbandonato; il dovere cristiano sarà sempre importantissimo per Vanoni, egli vedrà nel dovere tributario la traduzione politica e moderna del precetto cristiano della carità. Fu lo stesso Paronetto che in quegli anni presentò Vanoni al brillante redattore dell’Osservatore Romano, Guido Gonnella, e al segretario della Biblioteca Vaticana, Alcide De Gasperi, incontri questi decisivi perché diedero vita ad una stima e simpatia che, un decennio dopo, si trasformò in una fervida 5 IRI, Istituto per la Ricostruzione Industriale, ente finanziario di diritto pubblico per la riorganizzazione tecnica, economica e finanziaria del paese, istituito con D.L. del 23 gennaio 1933. 27 collaborazione per la ricostruzione dell’Italia e portò Vanoni a diventare uno degli esponenti della Democrazia Cristiana al Governo. Nel 1936, però, Vanoni lasciò Roma, avendo avuto un incarico universitario dapprima a Padova e poi a Venezia, riuscendo in questo modo ad avvicinarsi a Milano, dove aveva il suo studio. Lasciata Roma l’entusiasmo contagioso di Paronetto cominciò a sminuire e, almeno fino al 1940, ci furono poche occasioni di ritornare nella capitale e non vi è nemmeno una saltuaria traccia di una corrispondenza con l’amico; i contatti ripresero solo nel 1942 quando Vanoni cominciò a pensare alla politica del postfascismo. A Padova rimase due anni accademici, nel 1936-37 e 1937-38, passando poi a Venezia, a Ca’ Foscari, dove nell’ottobre 1939 vinse finalmente la titolarità della cattedra. 2.2.3 Il ritorno agli studi finanziari Gli anni dell’insegnamento romano non furono per Vanoni particolarmente proficui dal punto di vista scientifico, essendo molto preso dai viaggi, dalla famiglia e dallo studio milanese. Ma, ottenuta la cattedra, dopo avere preso la tessera del partito fascista, decise di tornare in modo massiccio ad occuparsi degli studi. Vanoni subì come una vergogna, che non avrebbe mai taciuto, l’avere preso la tessera del partito, che lo qualificava come fascista; la subì perché la tessera aveva il significato di una sconfessione, di una rimozione di quegli ideali coltivati negli anni pavesi nei quali, probabilmente, ancora si riconosceva, ma alla fine cedette e, anche se non si sa quando, s’iscrisse al partito per necessità di carriera. Nel 1937 Vanoni pubblicò sulla Rivista internazionale di scienze sociali, edita dagli economisti dell’Università Cattolica, un saggio di politica tributaria, 28 riguardante l’esperienza della codificazione tributaria in Germania (Vanoni, 1937). In questo saggio esaminava le ragioni che portarono alla legge tedesca del 1919, e riassumeva le linee fondamentali di questa codificazione, arrivando ad affermare, in chiusura, che un’opera di codificazione tributaria deve tendere a porre istituti il più possibile permanenti nel tempo; questo risultato si può ottenere solo con una profonda elaborazione dottrinale e una completa utilizzazione dei dati offerti dalle esperienze della pratica attuazione del sistema d’imposizione. Sempre nel 1937 pubblicò poi, presso Cedam di Padova, i due volumi di “Lezioni di Scienza delle finanze e Diritto finanziario”, il primo dedicato ai “Principi di economia e politica finanziaria”, il secondo riguardante, una “Rassegna di legislazione tributaria ”. Quest’indicativo ritorno di Vanoni allo studio fu favorito da un evento editoriale importante; la decisione di Benvenuto Griziotti di realizzare una nuova rivista scientifica di teoria e politica della finanza pubblica, dal titolo “Rivista di Diritto finanziario e scienza delle finanze”. Fondata con Griziotti, con il quale erano rimasti sempre stretti i rapporti, e con Mario Pugliese6, la rivista, allora edita dalla Cedam di Padova, salvo una pausa dal 1943 al 1947, dovuta al travaglio bellico e postbellico, continuò poi ad uscire trimestralmente con l’editore Giuffrè di Milano. Nei primi quattro numeri della rivista, Vanoni pubblicò alcuni suoi scritti: tre studi su “Le entrate industriali dello Stato e l’imposta sulle industrie, commerci arti e professioni”, “Il passaggio delle riserve a capitale nelle società anonime e l’imposta di registro” e “La dichiarazione tributaria e la sua 6 M. Pugliese, professore di origine ebrea, anche lui allievo di Griziotti, che le leggi razziali costrinsero ad emigrare nel Sud America. 29 irretrattabilità”. Soprattutto il saggio sulla dichiarazione tributaria aveva un significato profondo di politica finanziaria comportando l’analisi del rapporto di fiducia tra cittadino-contribuente e Stato, improntato alla reciproca lealtà: la successiva riforma di Vanoni (1951) si baserà proprio su quest’aspetto fondamentale nella dichiarazione dei redditi. Sempre in questi anni Vanoni fu invitato a tenere anche un ciclo di conferenze in Spagna e Portogallo, a testimonianza di un’autorità come studioso che superava i confini italiani, ed entrò nel Consiglio d’Amministrazione dell’Associazione Internazionale di Diritto internazionale e fiscale che riuniva le personalità mondiali più qualificate del settore. Nel 1938, nella Rivista, uscirono altri quattro scritti: ”Irregolarità fiscale e processo”, ”L’esenzione delle tasse di trascrizione di successione fiscalmente passive”, ”L’applicazione della tassa graduale di registro alla ripartizione dei dividendi tratti dalle riserve” e “Il problema della codificazione tributaria”. Dal 1939, però, la collaborazione di Vanoni cominciò a diminuire: infatti, in quell’anno abbiamo solo due scritti “La tassa di conferimento nel caso di apporto di stabilimento e concentrazione di aziende e il preteso requisito dell’identità dell’oggetto” e ”Variazione del capitale delle società e imposta di negoziazione”. Il motivo di questo rallentamento è probabilmente da ricercare nel fatto che Vanoni era diventato consulente del Ministro delle Finanze e stava lavorando ad un nuovo libro su “I problemi dell’imposizione degli scambi” (Vanoni, 1939), riguardante la teoria e la politica delle imposte indirette generali, che non portò a termine in seguito alle sopravvenute vicende belliche ma costituì un importante contributo critico all’imposta sugli scambi a cascata. Nello stesso anno si presentò per la terza volta ad un concorso di cattedra di 30 Scienza delle finanze e Diritto finanziario, bandito dalla facoltà di Economia dell’Università di Venezia: vinse il posto cattedratico. La conquista della sospirata cattedra nella Ca’ Foscari non ridusse il suo impegno scientifico: oltre ad uno scritto giuridico su “Note sul debitore del dazio di confine”, pubblicò sempre sulla Rivista, un ampio esame dei provvedimenti tributari dal titolo “Chiose alle nuove imposte sul patrimonio e sull’entrata”. La collaborazione con la Rivista cominciò a diradarsi sempre di più nel 1942, anno in cui si hanno solo due scritti di Vanoni: ”Stabilità e unicità dell’accertamento dei redditi una tantum nell’imposta complementare” e “Programmi di riordinamento degli uffici finanziari”. Nel frattempo lavorò anche all’Istituto di Finanza Corporativa, dove elaborò degli “Appunti sulla riforma della imposizione personale”, uno studio in altre parole dei problemi dell’imposta totale sul reddito delle persone fisiche in collegamento con la tassazione delle società. Si trovò, nel corso di questa esperienza, ad entrare in contatto con i maggiori studiosi italiani di finanza pubblica, in un dibattito di grande interesse nel quale si ritrovano anticipate alcune linee della riforma tributaria del sistema italiano. Vanoni cominciò, nel frattempo, a guardare al futuro, i suoi studi fiscali avevano una prospettiva per il dopoguerra, che egli, come altri, pensava sarebbe stato di ricostruzione democratica. 2.3 L’impegno sociale e politico 2.3.1 Il Codice di Camaldoli Alla fine del 1942 ripresero i contatti di Vanoni con Paronetto, Saraceno e De Gasperi, i quali si cominciarono a porre un nuovo obiettivo: dare vita ad un 31 nuovo partito cattolico. Appariva però necessario accompagnare quest’impegno con un programma economico e sociale, che fu elaborato in quello che è stato definito il “Codice di Camaldoli”. Punti di partenza di questo lavoro possono ritenersi i discorsi di Papa Pio XII in occasione del Natale del 1941 e del 1942. Organizzatore materiale dell’iniziativa fu Vittorio Veronese, il quale, in occasione del settimo convegno dei Laureati dell’Azione Cattolica del gennaio 1943, convocò un incontro a Camaldoli7, nel cenobio dei padri camaldolesi, per la settimana dal 18 al 24 luglio: il convegno si tenne regolarmente, i partecipanti furono più di una cinquantina, anche se mancarono figure importanti quali Paronetto, che si sarebbe sposato il 26 luglio, e lo stesso Vanoni. Tra i presenti vi erano molti intellettuali importanti: i lavori si conclusero con la proposizione di settantasei enunciati, tutti stringatissimi, che riguardavano tre grandi temi come vita familiare, vita civile e vita economica. Il calendario definito a Camaldoli prevedeva poi una fase di riflessione e approfondimento, affidata a due gruppi di studio, con sede a Roma e a Brescia: sulla base delle conclusioni dei due gruppi si sarebbe avuta la stesura definitiva del testo. Gli eventi del 25 luglio 1943, la caduta del governo Mussolini e del regime fascista, sconvolsero però i programmi e alla fine il lavoro di studio degli enunciati camaldolesi fu svolto soprattutto da quattro persone: Sergio Paronetto, Pasquale Saraceno, Ezio Vanoni e Giuseppe Capograssi, che si riunivano o in casa di quest’ultimo o nel nascondiglio di Vanoni8. Nel 1945 fu redatto e pubblicato il testo definitivo del codice con il titolo “Per la comunità cristiana. 7 Camaldoli, località della Toscana in provincia di Arezzo. Vi si trova la casa madre dei padri camaldolesi, col famoso monastero fondato nel 1012 da San Romualdo. 8 Vanoni era ricercato dai tedeschi essendo ormai noto come uno dei leader del partito democristiano; la clandestinità durò fino al 4 giugno 1944, con la liberazione di Roma. 32 Principi dell’ordinamento sociale a cura di un gruppo di studiosi, amici di Camaldoli”. Questo codice voleva essere soprattutto un codice “sociale”, basato cioè sull’elaborazione pratica del concetto di giustizia sociale, come tale esso si poneva a metà strada tra una semplice recezione dell’insegnamento pontificio e un vero e proprio programma politico. Il lavoro, infatti, “Mira esclusivamente al chiarimento e alla miglior formulazione del pensiero sociale cattolico, in vista di offrire alla coscienza del cittadino e dell’uomo sociale, ed in particolare al cattolico, quali che siano le sue preferenze politiche, le basi per un giudizio morale sulla vita della comunità” (Scuola superiore dell’economia e delle finanze, 2004). Il documento si poneva quindi un obiettivo programmatico e ideale per tutti i cattolici, sul genere del precedente Codice di Malines (1927) 9, divenendo popolare negli anni seguenti anche tra la classe dirigente della Democrazia Cristiana, di cui influenzò in modo rilevante le scelte di politica economica. Se si tiene conto della centralità che il tema della giustizia sociale ha nel Codice si comprende quanto sia stato fondamentale il contributo di Vanoni alla redazione: egli può, infatti, essere considerato l’autore principale del capitolo VI, ”L’attività economica pubblica” che riprende il contenuto del saggio del 1943 “La finanza e la giustizia sociale” (Vanoni, 1943). All’interno di questo capitolo, Vanoni rilevava la necessità di armonizzare le attività economiche private, prima di tutto attraverso l’azione delle stesse forze sociali 9 Codice di Malines, conosciuto anche come Codice Sociale, era espressione dell’Unione Internazionale di Studi Sociali, fondata a Malines nel 1920, che coinvolgeva studiosi cattolici di vari paesi europei, Italia compresa. L’unione era nata a sua volta con l’obiettivo di trasferire nell’ambito sociale gli insegnamenti della chiesa. La prima edizione del Codice di Malines era stata proposta nel 1927. 33 adeguatamente organizzate e solo in via secondaria attraverso l’azione dello Stato, al fine di impedire che le energie individuali rimangano puramente potenziali o siano ostacolate nel loro sviluppo. Nell’opera di Camaldoli, ed in particolare nella parte curata personalmente da Vanoni, è possibile intravedere le direttive e i criteri che di lì a pochi anni lo statista avrebbe assunto come punti base della sua attività nell’ambito del Governo. L’attività finanziaria dello Stato doveva essere basata sull’esigenza della giustizia sociale e, allo stesso tempo, il tributo, oltre alla principale funzione di procurare mezzi per la spesa pubblica, diveniva strumento di modifica della distribuzione della ricchezza e dell’organizzazione economica e sociale; il dovere tributario dunque era carico di significato morale. Nell’ambito dell’opera Vanoni dedicò particolare attenzione al rapporto tra attività pubblica e privata, questione che sarà al centro poi del noto “Schema di Sviluppo”, rilevando l’importanza di armonizzare i contrastanti interessi economici, pubblici e privati, attraverso l’azione delle stesse forze sociali, nonché mediante l’attività economica pubblica. Quest’ultima assumeva, per lo statista, fini specifici quali la creazione delle condizioni tramite le quali le forze lavorative potessero trovare un’adeguata occupazione e la promozione del loro processo d’addestramento in una fase di profonda e rapida trasformazione economica e sociale. Alla fine, tuttavia, il Codice non ottenne i risultati effettivi voluti dagli Autori. Infatti, pur influenzando i programmi della prima D.C. e la Costituzione, fu come accantonato e poi quasi dimenticato; rivivrà solo, seppure senza esplicite citazioni, nell’attività dello stesso Vanoni come politico e democratico cristiano. 34 2.3.2 L’ingresso in politica di Vanoni Nello stesso periodo camaldolese, ebbe inizio l’impegno politico e sindacale. Dopo il 25 luglio 1943, Vanoni fu nominato Commissario dei Lavoratori del Commercio e, contemporaneamente, iniziò la militanza politica all’interno della Democrazia Cristiana, dapprima solo con incarichi di partito e poi con l’elezione alla Consulta Nazionale e alla Costituente10. Partecipò, infatti, ai lavori della Commissione Economica per la Costituente, contribuendo in maniera rilevante a redigere la Relazione sulla Finanza, ed entrò a far parte della cosiddetta “Commissione dei 75”, incaricata di predisporre il progetto di Costituzione da sottoporre all’approvazione dell’Assemblea: nel giugno 1944 venne anche nominato Commissario Straordinario della Banca Nazionale dell’Agricoltura. Dopo la liberazione, gli uomini della DC riconobbero Vanoni come uno dei propri esponenti più autorevoli e tale posizione gli fu successivamente confermata nelle varie assemblee. Fu nominato consigliere nazionale e membro del cosiddetto parlamento, allora molto esile, della DC; membro della direzione nazionale della DC, quella che uscì dal primo congresso, nell’aprile 1946; esperto per le questioni economiche e finanziarie nella delegazione che, presieduta da De Gasperi, partecipò tra il luglio e l’agosto 1946 alla Conferenza della pace a Parigi. Fu quest’ultima un’esperienza dolorosa e incancellabile, dalla quale in seguito trasse spesso importanti considerazioni e riflessioni, in quanto, prendendo contatto con le delegazioni estere, intuì il grande isolamento in cui si trovava il nostro paese e quanta strada doveva percorrere per rientrare, 10 Vedi capitolo terzo. 35 con piena parità di diritti, nel circuito della vita internazionale. L’esperienza aveva, infatti, messo in evidenza la sfiducia che i responsabili della politica e dell’economia dei più autorevoli stati esteri nutrivano verso la ricostruzione economica del nostro paese dopo la guerra. Nell’ambito politico, nel 1947, De Gasperi lo chiamò a far parte del suo 3° Governo come Ministro del Commercio Estero, ma l’incaricò durò solo dal 2 febbraio al 31 maggio, poiché si dovette dimettere, a causa di un’insinuazione mossa dal senatore indipendentista siciliano Giuseppe Finocchiaro Aprile, che lo accusò di aver intascato un compenso spropositato come Commissario della Banca Nazionale dell’Agricoltura. Per dirimere la questione, fu nominata una commissione parlamentare d’indagine, che s’insediò il 21 febbraio e concluse i suoi lavori poco meno di due mesi dopo, con una relazione che, pur non muovendo esplicitamente alcun appunto a Vanoni, peccava d’ambiguità. Il compenso che era stato dato a Vanoni, secondo la commissione, corrispondeva esattamente a quanto la banca attribuiva al suo amministratore delegato, ed inoltre risultava che buona parte di tale compenso fosse stata devoluta all’ufficio stampa del partito. Si osservava però che in altri casi d’istituti di credito d’importanza simile, il Commissario non aveva percepito un compenso così elevato. Con sottigliezza si ventilava, insomma, il sospetto che gli emolumenti fossero assai superiori all’ordinario perché destinati a finanziare la Democrazia Cristiana. L’esperienza al Ministero del Commercio Estero fu in ogni caso importante, in quanto Vanoni condivise la grande intuizione della liberalizzazione degli scambi e dell’inserimento dell’Italia nell’economia internazionale: nei suoi discorsi ministeriali di allora, emerge già l’idea che il mondo andava verso un sistema di mercati globali, anche se egli non poté 36 proseguire nella sua impostazione che sarebbe sfociata nell’Unione Europea con l’abbattimento delle barriere doganali e la nascita di un sistema di libero scambio. Le accuse di Finocchiaro Aprile, pur smorzate dal verdetto d’assoluzione, lasciarono il segno nell’animo di Vanoni, il quale in quei giorni meditò anche l’abbandono della politica, come sostenevano due personaggi a lui molto vicini, il cognato Pasquale Saraceno e l’amico Giulio Spini che scrissero: “Forse un animo meno fermo nei suoi convincimenti avrebbe reagito all’ingiusta aggressione morale…ma egli fece ricorso alle ragioni ideali che lo avevano spinto nella lotta politica, costatò che erano ancora valide e superiori alle sue personali vicende e rifiutò di rientrare nella quiete dei suoi studi.” (Spini, Malcovati, Saraceno, 1958). Nel successivo governo De Gasperi, Vanoni non occupò alcun incarico e quest’esclusione, che considerava come una conseguenza della vicenda alla Banca dell’Agricoltura, lo amareggiò molto. De Gasperi però lo convinse ad accettare il compito di creare un centro d’elaborazione del programma economico del partito, in vista del futuro ruolo della Democrazia Cristiana alla guida del paese. Il Governo decise, infatti, la costituzione del Consiglio Economico Nazionale, la cui direzione effettiva fu affidata allo stesso Vanoni, con il ruolo di vicepresidente, mentre De Gasperi assunse la presidenza A questa carica di vicepresidente il Governo volle aggiungere, nel novembre del 1947, la presidenza dell’ICE11; questa fu per Vanoni un’altra occasione per pianificare il 11 ICE, Istituto nazionale per il Commercio Estero, ente di diritto pubblico istituito nel 1926 al fine di promuovere e sviluppare gli scambi commerciali dell’Italia con l’estero. Esercita inoltre un’attività di controllo ed è il più importante strumento dell’attività statale di sviluppo del commercio internazionale italiano. 37 futuro, nell’attesa di tornare al Governo, per riordinare la struttura dell’ente, potenziarne i compiti al fine di adempiere alle funzioni di stimolo e d’orientamento delle attività d’esportazione e importazione, che gli erano proprie. Elaborò, in questo periodo, il saggio su “La nostra via” (Vanoni, 1947), in cui era figurato il piano che introdurrà nel 1954 nella politica economica italiana e in cui ribadiva, chiaramente e forse in modo più incisivo che in passato, le finalità cui deve tendere l’organizzazione economica. Nell’opera, Vanoni, rilevava che i vari piani dei settori economici sono interdipendenti e, per questo, metteva in evidenza la necessità di collegare i vari provvedimenti con i quali lo Stato agisce sulla vita economica per evitare che essi siano contraddittori, determinando una riduzione dell’efficacia e dell’utilità dell’azione pubblica. Queste finalità erano individuate nell’impedire che le forze economiche diventassero strumento d’oppressione della libertà, realizzare la migliore organizzazione produttiva dal punto di vista sociale e garantire a tutti i membri della società una decorosa soddisfazione dei bisogni economici. Vanoni svolse un’analisi dei due classici sistemi economici che definì “economia libera” ed “economia socializzata”, elaborando uno schema “intermedio”, caratterizzato essenzialmente dalla centralità del mercato e dall’intervento dell’azione economica pubblica. Questo scritto può essere considerato il culmine del pensiero politico ed economico dello statista valtellinese in tema di giustizia sociale, dando testimonianza proprio della profonda carica ideale che ispirò tutta la sua attività politica e la sua esistenza. 38 2.4 Vanoni Ministro 2.4.1 La riforma tributaria Vanoni tornò al governo il 26 maggio 1948, circa un anno da quando era uscito: nelle elezioni dell’aprile 1948 la DC ottenne, infatti, la maggioranza assoluta, permettendogli di essere eletto al Senato, per il collegio di Sondrio, e diventare Ministro delle Finanze nel corso del rimpasto del governo deciso da De Gasperi in seguito all’esito delle elezioni. Con l’incarico di Ministro delle Finanze rimase anche nei due governi successivi e poi ancora nel gabinetto Pella che governò l’Italia, dopo le elezioni del 1953. TAB.1: GOVERNI ITALIANI NELLA PRIMA LEGISLATURA 18 APRILE 1948- 6 GIUGNO 1953 V De Gasperi (23 maggio 1948-12 gennaio 1950) VI De Gasperi (27 gennaio 1950-17 luglio 1951) VII De Gasperi (26 luglio 1951- 29 giugno 1953) TESORO FINANZE BILANCIO Pella Vanoni Pella Pella Vanoni Pella Vanoni-Pella Vanoni Pella Vanoni si distinse nel suo compito per la completezza e la lungimiranza delle sue idee in campo economico, partendo dal tentativo di risolvere quelli che erano allora i due più gravi problemi che si ponevano davanti alla sua responsabilità: risanare l’erario, devastato dalle vicende della guerra, e avviare 39 quella riforma tributaria necessaria al benessere della nazione, una riforma che nel proposito di Vanoni doveva assumere il significato profondo di una rivoluzione morale dei rapporti tra Stato e cittadino. Appena giunto al Governo, infatti, iniziò a lavorare alla riforma tributaria, prefiggendosi di raggiungere una giustizia fiscale preceduta da una riforma morale diretta a convincere gli italiani che il loro obbligo tributario era prima di tutto un dovere sociale. La legge più indicativa al riguardo è la n. 25 del 11 gennaio 195112, detta di “perequazione tributaria”, la quale dava avvio all’annuale dichiarazione dei redditi13. Lo scopo principale del provvedimento era quello di offrire ai cittadini un’Amministrazione giusta, affinché ciascuno sentisse legittima e moralmente doverosa la propria partecipazione all’adempimento tributario. Senza dubbio l’elemento maggiormente innovativo di questo progetto di riforma, era proprio la dichiarazione, perfettamente in linea con quell’idea di giustizia sociale che ispirava tutta la politica fiscale di Vanoni. Al Ministro Vanoni si deve anche la nascita dell’ENI14, il cui disegno di legge fu preparato dal Ministero delle Finanze proprio quando egli ne era Ministro. La costituzione dell'ENI suscitò molte perplessità e opposizioni sia nel mondo politico sia in quello imprenditoriale; si apriva, di fatto, la discussione se fosse più opportuno intervenire in settori critici dell’economia con iniziative private o con interventi diretti dello Stato. Nel caso specifico dell’ENI, il dibattito era incentrato sul fatto che fosse più opportuno intervenire nel settore 12 Legge 11 gennaio 1951 n°25, Norme sulla perequazione tributaria e sul rilevamento fiscale straordinario (Pubblicata nel supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale, 31 gennaio, n°25). 13 Vedi capitolo quarto. 14 ENI, Ente Nazionale Idrocarburi, ente economico con personalità giuridica di diritto pubblico, istituito nel 1953, sotto la direzione del suo primo presidente Enrico Mattei. 40 energetico creando un monopolio privato o pubblico. Vanoni scelse questa seconda strada, creando appunto l’ENI, al fine di promuovere il bene economico collettivo e di collegare gli interessi dei produttori con quelli dei consumatori. 2.4.2 Il Piano Vanoni Successivamente, il 18 gennaio 1954, Vanoni fu nominato Ministro del Bilancio nel 1° governo Fanfani e mantenne la carica anche nei successivi governi Scelba e Segni, oltre all’incarico di Vice Presidente del Comitato Interministeriale per la Ricostruzione e di delegato permanente italiano presso l’OECE15. La conclusione della sua attività governativa e della sua vita coincise proprio con l’esperienza vissuta alla guida di quest’ultimo dicastero, dove rimase fino al giorno della sua morte, il 16 febbraio 1956: fino alla fine della sua esistenza, continuò a lavorare con passione per la realizzazione del suo ideale di giustizia sociale. Durante il suo mandato, affrontò il problema principale di quegli anni di ripresa economica, quello di sostenere l’espansione dei diversi settori produttivi per lo sviluppo economico del paese e l’eliminazione della disoccupazione e della sottoccupazione. Presentò agli italiani lo “Schema di sviluppo dell’occupazione e del reddito in Italia nel decennio 1955/64”16, che passò alla storia come “Piano Vanoni”. Lo schema di sviluppo rappresenta la sintesi più completa del pensiero di Vanoni e l’enunciazione, in termini precisi e 15 OECE, Organizzazione Europea di Cooperazione Economica, creata a Parigi nel 1938 dagli stati europei partecipanti al piano Marshall, con il compito di abolire le restrizioni quantitative agli scambi e promuovere la cooperazione internazionale. Nel 1960 divenne OCSE, Organizzazione di Cooperazione e di Sviluppo Economico. 16 Schema di sviluppo dell’occupazione e del reddito in Italia nel decennio 1955-64 (presentato al Consiglio dei Ministri il 29 dicembre 1954). 41 conclusivi, dell’azione politica condotta in un decennio dai governi d’ispirazione democristiana. Ideato per porre le basi per un ben equilibrato progresso economico dell’intero paese, si basava in sostanza su tre punti fondamentali: a) conoscere in modo approfondito i problemi della struttura economica italiana; b) fissare gli obiettivi generali, vale a dire indicare chiaramente gli obiettivi da raggiungere nell’interesse del paese e nel rispetto degli ideali democratici; c) stabilire modi e tempi per raggiungere tali obiettivi, sia per quel che riguarda l’entità delle realizzazioni, sia per quel che concerne le scelte d’azione politica e i provvedimenti da adottare. In armonia con il pensiero espresso nel Codice di Camaldoli, al centro del suo schema c’era la persona umana e per questo assumeva un valore particolarmente importante una giusta politica dei redditi, connessa ad una coerente politica tributaria, di cui lui stesso aveva gettato le basi nella lunga esperienza come Ministro delle Finanze. Nello specifico gli obiettivi principali dello schema indicati da Vanoni erano: - rinforzare e sviluppare l’economia italiana nel suo complesso; - eliminare la disoccupazione e la sottoccupazione; - assicurare un migliore equilibrio economico tra nord e sud; - eliminare il disavanzo della bilancia dei pagamenti. Lo schema è stato anche chiamato “Programma della speranza economica”, ed il suo ideatore alimentò giorno per giorno questa speranza, pur ricordando che non vi erano strumenti capaci di creare automaticamente il benessere, ma che solo con razionalità ed impegno si potevano raggiungere 42 questi obiettivi. La realizzazione del programma richiedeva quindi sacrifici, e si trattava, come sosteneva Vanoni, di un progetto al quale ognuno doveva collaborare, sapendo che esso offriva la scelta tra l’ingresso nelle nazioni economicamente più progredite o il regresso ai margini della vita economica e sociale del mondo. Questo schema di piano mirava dunque a generare il pieno impiego, risolvere i problemi di squilibrio fra nord e sud, ma anche a raggiungere il pareggio del bilancio, la stabilità della moneta, il sostegno e la tutela del risparmio pubblico e privato. Ciascun lavoratore secondo Vanoni doveva essere considerato come un capitale umano su cui investire, attraverso lo sviluppo tecnologico e la riduzione delle disuguaglianze sociali e mediante lo sviluppo dei servizi pubblici gratuiti per i meno abbienti. Alla fine, anche se il piano del Ministro non trovò una forte volontà di realizzazione, l’Italia riuscì tuttavia a raggiungere parecchi traguardi in esso fissati: all’inizio degli anni ’60, infatti, la disoccupazione sembrava sconfitta e lo squilibrio della bilancia dei pagamenti era cancellato. Furono risultati che caratterizzarono quel periodo di sviluppo che passò poi alla storia come “miracolo economico”. Per un breve periodo Vanoni, ricoprì anche la carica di Ministro del Tesoro ad interim, dal 30 gennaio 1956 al 16 febbraio 1956. Morì, all’età di 53 anni, il 16 febbraio 1956 dopo un discorso di più di mezz’ora in Parlamento, in seguito ad un collasso cardiaco. Vanoni sapeva già da tempo di essere malato e che sarebbe stato meglio, per la sua salute, ritirarsi dall’attività politica, ma “non poteva” e fino alla fine volle perseguire quelli che erano stati gli ideali di una vita: emblematici sono proprio i suoi ultimi istanti, dedicati ancora al compimento di quello che considerava un dovere. 43 CRONOLOGIA 3 agosto 1903 Nasce a Morbegno. 1921/22-1924/25 Frequenta a Pavia la Facoltà di Giurisprudenza. 1927-1928 Vince la Borsa di Studio Lorenzo Ellero. 1928/29-1929/30 Soggiorna in Germania come titolare della Borsa di Studio Rockfeller. 1930/31-1932/33 È incaricato dell’insegnamento di Scienza delle finanze all’Università di Cagliari. Febbraio 1932 Consegue la libera docenza in Scienza delle Finanze all’Università di Messina. 1933/34-1935/36 È incaricato dell’insegnamento di Scienza delle finanze all’Università di Roma. 1936/37-1937/38 È incaricato dell’insegnamento di Scienza delle finanze all’Università di Padova. 44 1938/39-1941/42 Vince il concorso per la cattedra di Scienza delle finanze ed è nominato Professore ordinario presso L’Istituto superiore di Economia e Commercio a Venezia. Agosto 1943 Viene nominato dal Governo Badoglio Commissario della Confederazione dei Lavoratori del Commercio. Settembre 1943 Si trasferisce a Roma con la famiglia. 1943-1944 Redige il capitolo VI del Codice di Camaldoli e partecipa alla redazione generale dell’opera. Giugno 1944 È nominato Commissario straordinario Della Banca Nazionale dell’Agricoltura. Agosto 1944 È membro della Consulta Nazionale e fa parte della Direzione Nazionale della D.C. Giugno 1946 È eletto Deputato alla Costituente e fa parte della Commissione dei 75 per la redazione del progetto di Costituzione. 45 Gennaio-maggio 1947 Ministro del Commercio con l’Estero del 3° Gabinetto De Gasperi. Giugno 1947 È nominato Vice Presidente del Consiglio Economico Nazionale. Novembre 1947 È nominato Presidente dell’Istituto Nazionale per il Commercio Estero. Aprile 1948 È eletto senatore per il Collegio di Sondrio. Novembre 1947/febbraio 1948 Ministro delle Finanze nel 5° Gabinetto De Gasperi. Gennaio 1950/luglio 1951 Ministro delle Finanze nel 6° Gabinetto De Gasperi. Luglio 1951 Assume l’interim del Tesoro. Luglio 1951/luglio 1953 Ministro delle Finanze nel 7° gabinetto De Gasperi. 1952/53 Viene chiamato alla cattedra di Scienza delle finanze all’Università di Milano. 46 Luglio 1953 Ministro delle Finanze nell’8° Governo De Gasperi. Agosto 1953/gennaio 1954 Ministro delle Finanze nel Governo Pella. Gennaio 1954 Ministro del Bilancio nel Ministero Fanfani. Febbraio 1954/giugno 1955 Ministro del Bilancio nel Governo Scelba Luglio 1955/febbraio 1956 Ministro del Bilancio nel Governo Segni. Febbraio 1956 Assume l’interim del Tesoro. 16 febbraio 1956 Muore a Roma in Senato, alle ore 14:20. 47 CAPITOLO TERZO IL CONTRIBUTO DI EZIO VANONI ALLA FORMAZIONE DELLA COSTITUZIONE 3.1 Vanoni alla Costituente Ancora oggi è poco conosciuto quello che è stato il contributo di Vanoni alla formazione della nostra Costituzione, e la sua attività politica viene, più che altro, collegata alla riforma del sistema fiscale, o alla realizzazione dello schema di programmazione meglio conosciuto come “Piano Vanoni”, ricordati nel capitolo precedente. In realtà, un altro momento politico molto importante della sua vita è stato proprio la partecipazione all’elaborazione della nostra Carta costituzionale; in un centinaio d’interventi, espose il proprio parere su molti articoli del progetto legato all’idea di dare agli organi del nuovo Stato democratico una sicura funzionalità, di evitare i difetti del parlamentarismo e di stabilire una rigida severità e unitarietà della gestione finanziaria sia dello Stato sia degli enti pubblici. E’ quindi importante analizzare gli articoli della Costituzione che maggiormente recano la sua impronta, i temi per i quali 48 soprattutto si trovò a lavorare, e che racchiudono le idee politiche che poi lo seguiranno nei dieci successivi anni al Governo. Nella “Commissione dei 75” di cui fece parte per sette mesi fino al febbraio del 1947, quando entrò come Ministro nel terzo Governo De Gasperi, scrisse alcune delle pagine più esemplari, seppur ancora quasi sconosciute, del suo percorso politico, pagine espressive di un’autonomia di giudizio e di lungimiranza la cui reale portata potrà essere colta soltanto in seguito. Il 2 giugno 1946 gli italiani furono chiamati alle urne per scegliere tra la monarchia e la repubblica e per eleggere i deputati che, nell’ambito dell’Assemblea Costituente, avrebbero dovuto realizzare la Costituzione. Ezio Vanoni fu eletto, nelle liste della Democrazia Cristiana17, deputato all’Assemblea Costituente per il V collegio, comprendente le provincie di Como, Sondrio e Varese, con oltre 27.000 voti di preferenza. Gli eletti furono, in totale, 556 ma non tutti, per ovvi motivi di carattere pratico, parteciparono direttamente ai lavori di redazione del testo costituzionale; un organismo così numeroso e investito di compiti politici di varia natura, non poteva evidentemente affrontare con sufficiente approfondimento i problemi che si ponevano nell’individuazione degli aspetti essenziali di un documento tanto importante. In seguito ad una proposta della Giunta del regolamento, relativa alla determinazione dei modi e degli organi per la formazione del progetto costituzionale, il presidente dell’Assemblea Costituente, on. Saragat18, nella 17 Nelle elezioni per l’Assemblea Costituente, la Democrazia Cristiana ottenne la maggioranza relativa dei voti (18.083.208) pari al 37,2%, seguita dal Partito Socialista (PSIUP 4.744.749) con il 20,7% e dal Partito comunista (4.342.722) con il 18,7%. Nessun altro partito superò il 10 % dei voti. 18 On. Saragat, eletto presidente dell’Assemblea Costituente in occasione della prima seduta il 25 giugno 1946. 49 seduta del 19 luglio 1946, creò la Commissione per la Costituzione meglio conosciuta come “Commissione dei 75”19, chiamandone a farne parte appunto 75 deputati in rappresentanza e in proporzione di tutte le forze presenti nell’Assemblea, con il compito specifico di redigere un progetto di Costituzione da sottoporre poi all’approvazione di quest’ultima. Nella prima fase di studio della Carta costituzionale, la Commissione, con la seduta del 24 luglio 1946, decise di dividersi in tre sottocommissioni20 incaricate di occuparsi rispettivamente della parte riguardante i diritti e i doveri dei cittadini, dell’ordinamento costituzionale dello Stato e dei problemi economici e sociali; Vanoni entrerà a far parte della seconda sottocommissione. Quest’ultima, dapprima si occupò dell’organizzazione del potere legislativo e delle autonomie locali, ma dal dicembre 1946, di fronte ai problemi complessi e all’entità del compito affidato, si suddivise a sua volta in due sezioni: la prima si dovette occupare in specifico del potere esecutivo, la seconda invece di quello giudiziario. Vanoni lavorò prevalentemente nell’ambito della prima sezione ma, per alcuni aspetti, importante fu anche l’apporto che diede alla seconda sezione: “Alle discussioni che si svolsero nella seconda sottocommissione egli diede importanti contributi e tutti i suoi interventi recano l’impronta della sua competenza tecnica e di un’alta passione… gli interventi di Vanoni si distinguono per la calma, la logica e la razionalità che li ispirano.” (Tramontana, 1987). 19 Nella prima seduta, che si tenne il 20 luglio 1946, la Commissione elesse subito il suo presidente nella persona dell’on. Meuccio Ruini. 20 La prima e la terza sottocommissione erano costituite da 16 membri, oltre al presidente e al segretario, la terza da 36 membri anche qui oltre al presidente e al segretario. Presidenti sono nominati i tre vicepresidenti della Commissione per la Costituzione e cioè gli on. Tupini, Terracini e Ghidini. 50 Il lavoro svolto dalle sottocommissioni e dalle sezioni doveva poi essere sottoposto al giudizio della Commissione che lo doveva proporre all’Assemblea per l’approvazione definitiva; il 31 gennaio 1947, il progetto di Costituzione fu presentato all’Assemblea Costituente accompagnato da una relazione di sintesi dei lavori preliminari. Nell’ambito della seconda sottocommissione alla formazione della Costituzione gli interventi di Vanoni furono, nel complesso, oltre cento e riguardanti gli aspetti più diversi della vita nazionale e del nuovo ordinamento dello Stato. Possiamo considerare siano quattro i temi sui quali maggiore é stato il suo contributo: la copertura finanziaria degli impegni di spesa, l’ordinamento regionale, il contenzioso tributario e la posizione costituzionale del Presidente del Consiglio dei ministri. 3.2 L’elaborazione del progetto costituzionale 3.2.1 La copertura finanziaria degli impegni di spesa Un primo significativo apporto di Vanoni al testo della Costituzione si ebbe riguardo alla copertura finanziaria degli impegni di spesa, divenuto poi il 4° comma del definitivo articolo 8121 della Costituzione; con questa disposizione, si sanciva nella carta l’impegno che, per ogni nuova spesa, fossero contemporaneamente stabiliti i mezzi di copertura, introducendosi un freno 21 Art. 81: le camere approvano ogni anno i bilanci e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo. L’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non superiori complessivamente a quattro mesi. Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese. Ogni alta legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte. 51 all’aumento delle spese ed una garanzia per la tendenza al pareggio del bilancio. L’articolo fu discusso in occasione della seduta della seconda sottocommissione il 24 ottobre 1946; dopo aver stabilito che l’iniziativa delle leggi spettava al Governo e ai singoli membri delle Camere, rimanevano da stabilire i limiti da imporre a tale iniziativa e l’opportunità di riservare, eventualmente, alla sola prima Camera l’iniziativa legislativa in materia finanziaria. Luigi Einaudi, nell’ambito di questa discussione, propose due soluzioni: o negare ai deputati, di entrambe le Camere, il diritto di fare proposte di spese, oppure obbligarli ad accompagnarle con la proposta correlativa d’entrata e copertura della spesa, dando così ad essa una maggiore serietà. Nell’ambito di questo dibattito, Vanoni poneva l’accento, soprattutto, sull’esigenza di imporre, ai richiedenti di nuove spese, l’obbligo di proporre anche i mezzi per fronteggiarle, aggiungendo che la commissione di tecnici istituita presso il Ministero per la Costituente aveva proprio già messo in evidenza la necessità che questo obbligo fosse sancito nella Costituzione, ed inoltre sottolineava che si trattava di una regola già contenuta nella contabilità dello Stato. Vanoni affermava per tanto che si dovessero concedere ad entrambe le Camere uguali poteri d’iniziativa anche in materia finanziaria ma che la facoltà di proporre nuove spese tanto per il Governo, per il Parlamento e per qualsiasi forza che dia vita a proposte comportanti maggiori oneri finanziari o minori entrate rispetto a leggi già approvate in bilancio, doveva essere rigidamente legata alla proposta relativa ai mezzi con cui fronteggiarle, a garanzia della tendenza al pareggio del bilancio stesso. L’on. Mortati, nel frattempo, aveva già predisposto un articolo che poi fu modificato in accordo con lo stesso Vanoni e che vide il consenso anche di 52 Einaudi, il quale era così formulato: “Le leggi, le quali importino maggiori oneri finanziari devono provvedere ai mezzi necessari per fronteggiarli”. Varie critiche furono mosse alla formulazione proposta dagli on. Mortati e Vanoni fino ad arrivare alla proposta dell’on. Bozzi: “Nelle proposte di nuove e maggiori spese e nelle leggi che le approvano devono essere indicati i mezzi per far fronte alle spese stesse”; questa proposta fu poi approvata. La disposizione costituzionale fu inclusa nell’articolo 77, dedicato al bilancio, del progetto di legge, con il seguente testo “In ogni altra legge che importi nuovi o maggiori spese devono essere indicati i mezzi per farvi fronte”: questa formulazione fu poi approvata in quello che è l’attuale articolo 81 della Costituzione. Molti studiosi sostengono però che l’originaria formulazione dell’articolo, quella appunto proposta da Vanoni e Mortati, era più incisiva in quanto imponeva alle leggi di spesa di “provvedere” ai relativi mezzi finanziari, mentre quella del Bozzi si limitava a prevedere “l’indicazione” dei soli mezzi, con una disposizione quindi più attenuata. Tramontana sostiene che l’attuale articolo 81 della Costituzione, a causa proprio di tale formulazione, abbia dato vita ad equivoci e raggiri nell’indicazione dei mezzi di copertura finanziaria, provocando una continua crescita del disavanzo pubblico (Tramontana, 1987). 3.2.2 L’ordinamento regionale Una tra le innovazioni più rilevanti della Costituzione può certamente essere considerata l’istituzione delle regioni, la cui discussione, sulla struttura e sui poteri, fu assai ampia e interessante e si svolse proprio nell’ambito della seconda sottocommissione, a partire dal novembre 1946, in seguito ad un progetto del Comitato sulle autonomie locali. Vanoni si dimostrò molto interessato 53 all’argomento e proprio in questo contesto, si ebbero, infatti, il maggior numero di interventi; egli era a favore delle autonomie regionali, ma riteneva che il loro ordinamento dovesse essere composto in modo da rispondere prima di tutto agli interessi nazionali. Le discussioni in seno alla sottocommissione riguardarono diversi aspetti della questione regionale, tra i quali le materie di loro competenza, l’autonomia tributaria e finanziaria e gli statuti. Secondo Vanoni la decisione di creare nuove regioni o delimitarle territorialmente doveva essere presa in conformità a motivazioni pratiche, soprattutto di carattere economico, compiendo, preliminarmente, approfonditi studi sulla produzione agricola, sulle industrie, sulle condizioni finanziarie, sulle caratteristiche etniche e linguistiche dei singoli territori e sullo sfruttamento idrico; la creazione di una regione doveva essere giustificata, dimostrando l’idoneità di quel territorio sulla base di queste ed altre caratteristiche e l’effettiva opportunità di dare vita all’ente regione. Vanoni sosteneva che lo stesso argomento valesse anche nel caso dell’applicazione di norme speciali, tali da differenziare l’ordinamento costituzionale di alcune regioni rispetto ad altre; anche qui sosteneva la necessità di compiere studi preliminari all’applicazione della legge, per motivare effettivamente la differenza d’ordinamento, preferendo, comunque, un’autonomia il più possibile uniforme per tutte le regioni. Nella seduta del 15 novembre 1946, Vanoni, affermava, infatti, che prima d’ogni altra questione relativa alla determinazione di un ordinamento regionale dello Stato, era opportuno esaminare le situazioni particolari di determinate regioni, per rendersi conto se esse veramente fossero tali da richiedere, nella Costituzione, una regolamentazione 54 speciale, o se esse non potessero rientrare nel quadro di quell’autonomia generale che si desiderava concedere a tutte le regioni d’Italia. Altro problema riguardante le regioni che fu affrontato fu quello relativo alle materie da attribuire ad esse sulla base di un progetto, predisposto sempre dal Comitato per le autonomie locali, al quale Vanoni riteneva andavano apportate, comunque, alcune modifiche. Pur, in linea di massima, d’accordo sull’elencazione delle materie previsto nel progetto, prevedeva tra queste modifiche, ad esempio, che in materia agricola fosse necessario trovare una soluzione tale da permettere all’attività legislativa di tenere conto delle esigenze locali, estremamente diverse da una regione all’altra, sempre nell’ambito dell’unità nazionale. Proponeva di lasciare alle regioni la possibilità di integrare le leggi statali, oltre che in materia d’istruzione elementare, anche in materia di scuole medie e università, dubitando dell’opportunità di separare le scuole professionali dalle altre, separazione effettuata nel progetto, con l’intento di affidare le prime alla competenza esclusiva della regione. Egli sosteneva che, nei limiti comunque di una legge statale, l’istruzione era un campo nel quale poteva affermarsi il regionalismo in modo decisivo, e si dichiarava favorevole all’inclusione, nelle materie prospettate, anche dell’igiene e della sanità pubblica a differenza del credito, delle assicurazioni e del risparmio che considerava di competenza nazionale. Dal punto di vista dell’autonomia tributaria e finanziaria delle regioni, Vanoni sottolineava di nuovo il fatto che anche in questa materia si doveva cercare di creare un sistema d’autonomia tale da integrare l’unità dello Stato, rafforzando l’ordinamento tributario del paese. La sua visione dell’autonomia 55 tributaria delle regioni, emerge chiaramente da un progetto di articolo22, presentato in collaborazione con l’on. Mortati, che fu poi approvato dalla sottocommissione; nel suo pensiero l’autonomia tributaria delle regioni doveva attuarsi mediante una razionale ripartizione delle fonti di entrata fra lo Stato e le regioni stesse, dimostrando la sua contrarietà a un sistema basato su contributi e finanziamenti. Vanoni tenne un importante intervento, in cui precisò ulteriormente la propria posizione nei confronti dell’autonomia tributaria delle regioni, del coordinamento di quest’ultima con il sistema tributario dello Stato e dei riflessi che l’ordinamento tributario avrebbe potuto avere per la politica di sviluppo economico regionale. La sua idea partiva dalla considerazione che, per favorire effettivamente le regioni più povere, bisognava adottare un sistema che fosse l’opposto di quello allora vigente in Italia il quale, sosteneva, con buona probabilità, aveva portato ad indebolire maggiormente le regioni già povere a vantaggio invece di quelle ricche. Si doveva attribuire alla competenza esclusiva delle regioni e dei comuni le imposte immobiliari, ripartendo invece, tra lo Stato e le regioni, il gettito dell’imposta di ricchezza mobile, in quanto quest’ultima era quella che maggiormente risentiva dell’andamento economico complessivo di tutto il paese. Vanoni, proponeva inoltre, la creazione di un’imposta sul reddito complessivo, di carattere nazionale, accompagnata da un’imposta personale sul patrimonio ai fini della ridistribuzione della ricchezza. 22 L’articolo 8 del progetto era così formulato: ”L’autonomia tributaria delle regioni sarà determinata nei suoi limiti da una legge costituzionale che, coordinandola con la finanza dello Stato e dei comuni, dovrà essere ispirata a criteri di ridistribuzione del reddito nazionale allo scopo di attuare una perequazione interregionale”. 56 L’altro aspetto dell’attività finanziaria delle regioni di cui si occupò riguardava le spese, sottolineando che non era possibile che la maggior parte della spesa pubblica potesse essere sostenuta dalle regioni, ma era necessaria una preminenza dello Stato in materia sulla base della valutazione delle varie situazioni. Si può considerare però che l’intervento più importante in materia regionale di Vanoni sia stato quello del 15 dicembre 1946, quando si dovette discutere dell’articolo 21 del progetto proposto dal Comitato, riguardante gli statuti regionali; quest’intervento fu soprattutto, a differenza dei precedenti, di carattere politico, permettendogli di precisare di nuovo la sua idea sull’autonomia delle regioni. Gli orientamenti della sottocommissione erano sostanzialmente due: concedere un’ampia autonomia alle regioni in generale oppure, e questo era il secondo orientamento, prevedere una propria autonomia solo per le regioni a statuto speciale e per quelle a statuto ordinario una disciplina tramite una legge dello Stato denominata “legge comunale e regionale”. Nella discussione Vanoni sottolineò il proprio parere favorevole al riconoscimento del potere delle regioni di darsi un proprio ordinamento autonomo, in quanto, in mancanza di un proprio statuto, si attenuava notevolmente l’autonomia regionale; al tempo stesso, però non accettava il concetto di due diversi tipi di autonomia, non aderendo quindi all’idea che solo quattro regioni dovessero avere una vera autonomia, mentre per le altre vi era un semplice decentramento amministrativo. Vanoni voleva stabilire per tutte le regioni un proprio ordinamento autonomo, realizzato nel quadro dell’unità statale, attraverso l’approvazione degli statuti, da parte del Parlamento; proprio 57 quest’approvazione parlamentare, permetteva allo Stato un controllo delle autonomie regionali. 3.2.3 Il contenzioso tributario Importante è analizzare anche l’intervento dello statista, ai lavori della Costituente, sul contenzioso tributario. Il compito di predisporre la parte del progetto, riguardante l’organizzazione del potere giudiziario, era stato affidato alla seconda sezione, della quale Vanoni però non faceva parte direttamente; nonostante questo, di propria iniziativa, chiese di essere ascoltato per rilevare la grave situazione in cui si trovava il sistema della giustizia tributaria italiana. La discussione in seno alla seconda sezione riguardava, soprattutto, il problema della definizione e della struttura degli organi competenti a trattare il contenzioso tributario, problema che veniva ad inquadrarsi in quello più ampio dell’unicità o della pluralità della giurisdizione. Le linee seguite dai membri della sottocommissione erano due: la prima, più rigida, riteneva che tutta l’attività giurisdizionale dovesse essere esercitata solo dalla magistratura ordinaria al fine di mantenere l’unicità e l’indipendenza dei giudici, l’altro orientamento, più possibilista, era favorevole all’istituzione dei giudici speciali sulla base, però, di principi fondamentali dell’attività giurisdizionale. Vanoni intervenne nella discussione in seguito ad una relazione presentata dal Ministero della Costituente, sottolineando che dai risultati dell’indagine emergeva chiaramente l’esigenza di eliminare dal contenzioso tributario l’arbitrarietà esistente. Quest’arbitrarietà portava, infatti, ad avere disparità di condizioni nei diversi settori, con leggi che escludevano la possibilità di ricorrere al giudice ordinario una volta intervenuta la Commissione amministrativa, altre 58 leggi che concedevano un solo grado di giurisdizione, ed altre ancora che addirittura prevedevano sei gradi di giurisdizione, tre in sede amministrativa e tre in sede ordinaria. Vanoni voleva mettere in evidenza il fatto che in questo modo si rischiava di non difendere effettivamente i diritti e gli interessi dei cittadini, passando da casi in cui vi era un eccesso di contenzioso tributario, con lunghi tempi di giudizio, a casi in cui si aveva un solo grado di giurisdizione. Un’altra critica era mossa anche nei riguardi del fatto che i giudici del contenzioso tributario erano nominati dal Ministero o dall’Intendenza di finanza, considerate come parti e quindi non totalmente imparziali. Secondo Vanoni, bisognava assicurare la rapidità dei procedimenti e i giudici dovevano avere una sufficiente competenza giuridica ma anche conoscenze tecniche tale da permettere non solo una valutazione di diritto ma anche una inerente alla particolarità della controversia. L’idea di Vanoni era quella di considerare la necessità di una profonda e sostanziale innovazione del procedimento tributario, proponendo ai colleghi varie soluzioni: assegnare al giudice ordinario le questioni tributarie, creando però sezioni speciali, istituire un tribunale amministrativo competente anche in materia tributaria o, invece, creare un’organizzazione giudiziaria specifica in materia tributaria. Già nel saggio del 1938 “Il problema della codificazione tributaria” (Vanoni, 1938), Vanoni aveva messo in evidenza la proposta di una revisione del contenzioso tributario, tramite l’assegnazione ad un unico ordine di giudizio, nei tre gradi normali di giurisdizione, con tribunali formati da giudici togati e onorari, rilevando che l’esigenza di creare questi tribunali, composti da giudici con una particolare formazione, si fondava sulla specialità della materia. 59 Riguardo poi alla specifica questione dell’unità o della pluralità, Vanoni era favorevole alla presenza di una giurisdizione speciale, ritenendo preferibile che questa fosse rappresentata da una corte tributaria autonoma piuttosto che dal Consiglio di Stato, essendo richiesto, specificamente, un tribunale composto in modo diverso e che avesse una giurisdizione separata; egli non negava che la presidenza degli organi giudiziari tributari dovesse essere affidata ai giudici ordinari, ma sosteneva che questi dovessero avere una maggiore preparazione in materia. Si può rilevare, in queste considerazioni, quanto fosse forte l’influsso dell’esperienza della Germania, esperienza che Vanoni conobbe direttamente in occasione della citata borsa di studio della Fondazione Rockfeller vinta nel 1928 soprattutto per quanto riguarda l’istituzione di un’organizzazione giuridica tributaria simile alla Corte Suprema tedesca. 3.2.4 La posizione del Primo ministro Nel gennaio del 1947, alla seconda sottocommissione, si affrontò il problema relativo alla posizione costituzionale del Primo ministro e dei ministri stessi. Varie erano le posizioni al riguardo, ma Vanoni si schierò da subito fra coloro che scelsero per la necessità di attribuire ampi poteri e responsabilità al Primo ministro nell’ambito dell’attività di governo; riteneva che per non ricadere nei difetti del passato parlamentarismo occorreva un’azione di governo tempestiva, efficace e concorde, dove il Primo ministro agiva come un effettivo dirigente della politica governativa, con un ruolo preminente rispetto a quello dei ministri. Qualcuno riteneva, però, che questa situazione avrebbe potuto portare ad un regime dittatoriale, ma Vanoni rilevava che il Primo ministro non poteva andare di là della volontà del Parlamento, in quanto legato a questo dal mandato 60 di fiducia, anzi, il rischio della forma dittatoriale sarebbe stato più grave nell’ipotesi opposta di un indebolimento dell’esecutivo. Sempre nei riguardi della posizione del Primo ministro, riteneva che questi avrebbe dovuto avere il potere, previsto dalla Costituzione, di esonerare dalla carica quei ministri che non si volevano conformare alle sue direttive e che, nell’ambito della Costituzione, non si facesse specifica menzione del suo potere di assumere un ministero ad interim, al fine di garantire un governo stabile ed efficiente. Vanoni faceva notare che allora i governi erano il frutto di accordi fra i grandi partiti, così come la scelta dei ministri e del programma governativo; si batteva quindi per fare in modo che il capo del Governo avesse un potere preminente anche nei confronti dei ministri. Al termine della formulazione definitiva della Costituzione, non furono accolti totalmente i poteri che Vanoni aveva previsto per il Presidente del Consiglio dei Ministri, al fine di assicurare un esecutivo stabile ed efficiente; il Presidente del Consiglio diverrà nell’ultima versione dell’articolo 95 non il Primo ministro ma chi “dirige la politica generale del Governo e n’è responsabile”, chi “mantiene l’unità d’indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri” divenendo, come lo definisce il Vigna, “un ostaggio dei partiti, quando non delle correnti” (Vigna, 1991). 3.3 Il principio di capacità contributiva e la riserva di legge 3.3.1 Articolo 53 della Costituzione Nei riguardi di questa tesi, fondata prevalentemente sulla riforma tributaria attuata da Vanoni nel 1951, diventa importante analizzare altri due articoli della 61 Costituzione, legati alla sua figura: l’articolo 23, che enuncia che nessuno può essere sottoposto a prestazioni patrimoniali o personali se non in base alla legge e l’articolo 53 che esprime, invece, il principio di capacità contributiva e quello di progressività del sistema tributario, strettamente legato a sua volta al principio d’uguaglianza. Questi due articoli sono importanti in quanto in essi possiamo cogliere temi già trattati da Vanoni stesso nel corso degli studi condotti in passato e che costituiranno punti fondamentali per l’attività politica del futuro, facendo parte della sua concezione di “giustizia sociale” e divenendo principi che dovrebbero governare il sistema tributario. Questi due articoli producono, nell’ambito dei rapporti politici finanziari, una svolta radicale rispetto alla regolamentazione in materia che veniva offerta dallo Statuto Albertino, contenuta negli articoli 25 e 30 di quest’ultimo. Nell’opera “Diritto all’imposta e formazione delle leggi finanziarie” (Vanoni, 1946), Vanoni partiva proprio dall’analisi delle modalità di regolamentazione legislativa del sistema tributario, chiedendosi quale dovesse esserne l’ampiezza a livello costituzionale. Passando in rassegna varie esperienze straniere, tra cui in particolare quella tedesca e quella svizzera, sottolineava proprio l’importanza di qualificare, in sede costituzionale, in modo esplicito il dovere dei singoli di contribuire alla spesa pubblica ed il diritto degli enti pubblici di richiedere tali contributi, proprio per dichiarare che nello Stato democratico la cosa pubblica è la cosa di tutti e che tutti hanno l’obbligo di concorrere all’azione comune col proprio sacrificio personale. Già in una delle sue prime opere “Natura e interpretazione delle leggi tributarie” (Vanoni, 1932), analizzando il tributo come fenomeno di scambio, e collegandosi con il pensiero di Benvenuto Griziotti, stabiliva che vi erano due 62 principi che ispiravano i sistemi tributari vigenti: il principio della capacità contributiva e il principio del beneficio. Il primo, basato sulla solidarietà sociale, consiste nell’affermare che ognuno deve contribuire ai beni collettivi in rapporto ai mezzi di cui dispone; l’altro principio, giustificato dal fatto che i servizi pubblici non giovano a tutti i cittadini in eguale misura, porta a chiedere una specifica contribuzione a chi trae un vantaggio particolare da certe attività dello Stato: i due principi trovano applicazione nel sistema tributario uno accanto all’altro e si compenetrano e completano nella costruzione di un identico tributo. Vanoni applicava questa tesi al confronto tra la tassa e il tributo: nella tassa vige il principio del beneficio, modificato dal criterio della capacità che entra in gioco ogni volta che si concedono, ad esempio, delle esenzioni dalle tasse ai meno abbienti o si proporzionano le aliquote alla capacità economica del soggetto; nell’imposta si applica invece il principio della capacità, modificato da quello del beneficio, in quanto la capacità di pagamento di un individuo può aumentare in ragione dei benefici di cui gode e lo Stato deve tenerne conto. L’art. 53 della Costituzione non fa che tradurre, in norma costituzionale, i due principi secondo i quali causa del potere d’imposizione sono i benefici della spesa pubblica e causa delle singole imposte per l’individuo è la sua capacità contributiva, che non va considerata solo in sé ma anche in rapporto al quantum dei benefici tratti dalla stessa spesa pubblica. Analizzando l’obbligazione tributaria, nell’ambito degli “Elementi di diritto tributario” (Vanoni, 1940), Vanoni rilevava proprio che il concetto di capacità contributiva corrisponde non solo a manifestazioni oggettive della ricchezza, quali il reddito, il capitale e il consumo, ma anche ad elementi di natura soggettiva come l’origine della ricchezza, le condizioni personali del contribuente etc. 63 Nell’analizzare i sistemi esistenti di interpretazione e le possibilità di applicazione dell’analogia, osservava che, nel campo delle leggi tributarie, è indispensabile rilevare, attraverso le manifestazioni esteriori dell’attività individuale, la capacità di sostenere l’imposta, per la buona applicazione della norma, l’esatto apprezzamento della realtà delle cose e soprattutto della realtà economica. La realtà delle cose è proprio considerata come un mezzo d’interpretazione delle norme tributarie, ed un elemento sulla base del quale determinare la capacità contributiva. Per Vanoni quindi, la capacità contributiva era il risultato di una valutazione, di un giudizio fatto dagli organi a ciò qualificati intorno alla posizione del soggetto e alla sua idoneità a concorrere ai carichi pubblici, con un unico limite per la futura azione legislativa: che a situazioni uguali corrispondano tributi uguali, richiamando così il principio d’uguaglianza contenuto nell’articolo 3 della Costituzione. L’articolo 53 della Costituzione applica in materia finanziaria il principio di solidarietà politica, economica e sociale, espresso dall’articolo 2, nell’ambito dei rapporti di convivenza comunitaria ed è inoltre assimilabile anche all’articolo 4, dove viene previsto che ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e le proprie scelte, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società; il dovere del singolo di contribuire ai carichi pubblici, sosteneva Vanoni, e il diritto degli enti pubblici di chiamarli a contribuire, merita di essere affermato esplicitamente nella Carta costituzionale. Sempre nei riguardi di questo tema, lo statista diede un rilevante contributo anche al superamento del riferimento soggettivo ai soli cittadini; l’articolo, infatti, aprendosi con le parole “Tutti sono tenuti …” include non solo i cittadini italiani ma anche, necessariamente, gli stranieri, eliminando, come voleva Vanoni, ogni 64 dubbio di un diverso fondamento dell’obbligazione tributaria. Dapprima nell’opera “Natura e interpretazione delle leggi tributarie” e poi in “Elementi di diritto tributario” lo statista aveva già analizzato la tassazione degli stranieri, sostenendo proprio che questa dovesse avvenire anche nei loro confronti, quando le relazioni con lo Stato raggiungono una certa intensità, realizzando un’effettiva partecipazione dello straniero alla vita statale, quindi ai vantaggi che l’attività dell’ente pubblico procura a coloro che si trovano nell’ambito della sua azione; essi partecipano ai benefici della spesa pubblica, quindi maturano un obbligo di contribuire al finanziamento della soddisfazione dei bisogni collettivi. Allo stesso tempo, Vanoni, così come rilevava che la qualità di straniero o cittadino non poteva essere assunta come criterio costituzionalmente rilevante per l’assoggettabilità all’imposizione, metteva anche in evidenza che ciò non significava comunque che questa qualificazione fosse assolutamente irrilevante in sede di definizione concreta del sistema tributario: l’essere cittadino o straniero si traduce talvolta in una concreta differenza di posizione contributiva di cui la legge non può non tenere conto. Questi concetti si collegano poi alla dichiarazione del contribuente, che sarà poi al centro della riforma del 1951, in quanto è anche tramite essa che lo Stato valuta gli elementi sulla base dei quali determinare la capacità contributiva e quindi il carico d’imposta. 3.3.2 Articolo 23 della Costituzione Strettamente legato all’articolo 53 è l’articolo 23, nel qual è contenuto il principio secondo il quale il tributo può essere imposto solo con la legge. La necessità della previsione dell’obbligazione tributaria tramite legge non faceva altro che rappresentare, secondo Vanoni, una particolare applicazione del 65 principio dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge stessa; riteneva quindi fosse necessaria una previsione implicita o esplicita a livello costituzionale di questo principio che, faceva notare, era ormai contenuto in tutte le costituzioni degli stati contemporanei. La norma tributaria, rilevava Vanoni nella sua prima opera, è una norma giuridica, come tale essa presenta il carattere della bilateralità: mentre da un lato stabilisce un dovere, dall’altro costituisce un diritto al prelievo del tributo. La legge, nei confronti dell’obbligazione tributaria, ha due scopi: da un punto di vista funzionale esprime e fissa i criteri politici di distribuzione del carico fiscale; dal punto di vista formale, tutela giuridicamente questi criteri, traducendoli in comandi giuridici. Oltre a queste funzioni, secondo Vanoni, la legge tributaria deve avere due caratteri ben precisi: la generalità e l’astrattezza. Essa deve cioè rivolgersi non ad un individuo determinato, ma alla generalità dei contribuenti, escludendo in questo modo comandi amministrativi diretti a persone o gruppi di persone ed altresì che il tributo nasce da un accordo, o contratto, tra ente pubblico e soggetto: il carattere della generalità non va inteso come applicabilità della norma a tutti gli individui, ma come applicabilità della norma a tutti coloro che si trovano in condizioni identiche. Nello scritto “La persona umana nell’economia pubblica” (Vanoni, 1945) stabiliva proprio che il principio di generalità si attua quando diritti e doveri connessi con l’attività pubblica sono comunicati a tutti i membri della società, con le sole graduazioni giustificate da situazioni obiettive o di bisogno: questo rappresenta in sostanza il principio d’uguaglianza formale e sostanziale sancito nell’articolo 3 della Costituzione. Per Vanoni il tributo deve essere approvato con la legge, che a sua volta emana dagli organi parlamentari che hanno il potere legislativo, in rappresentanza della collettività, vale a dire la Camera e il Senato, in quanto la legge tributaria, 66 sosteneva, è una legge di natura uguale ad ogni altra. Inoltre, in “Natura e interpretazione delle leggi tributarie” riteneva che nella pratica costituzionale, il Senato si era mostrato spesso un critico più efficace rispetto alla Camera, i cui membri erano troppo legati alle vicende dei partiti politici. Queste considerazioni svolte da Vanoni, inerenti gli articoli 23 e 53, oltre che fondamentali ai fini costituzionali, saranno di estrema importanza anche nell’ambito della riforma del sistema tributario, che sfocerà nella nota legge di “perequazione tributaria”: in essa inserirà, infatti, le sue idee, già contenute negli studi precedenti, basandosi anche sui principi elaborati a livello costituzionale. 67 CAPITOLO QUARTO LA RIFORMA TRIBUTARIA DEL 1951 4.1 Il sistema tributario italiano della fine degli anni ’40 4.1.1 Aspetti generali Il sistema tributario della fine degli anni ’40 risaliva, nella sua struttura essenziale, alla seconda metà del XIX secolo; era un sistema antiquato, che non rispondeva più alle condizioni della vita economica di allora, ma soprattutto era un sistema non più conforme alle necessità della vita politica di un paese che si voleva ordinare secondo criteri democratici. La maggior parte dei progetti di legge presentati in materia dopo l’unificazione del paese si ponevano soprattutto il problema, che allora era urgente più d’ogni altro, di unificare il sistema tributario, per fargli assumere una fisionomia che conserverà poi fino al 1951: il difetto principale dell’ordinamento di allora era proprio considerato la mancanza di un “sistema”, che non era stato possibile affermare per l’eccessiva produzione giuridica che si era susseguita incessantemente negli anni. Il 1862 è l’anno in cui fu promulgata la legge sul registro; a breve intervallo di tempo, nel quinquennio 68 1861-65, le leggi sulle altre imposte indirette sugli affari, sull’imposta sui fabbricati ed, infine, nel 1877, il testo unico sull’imposta di ricchezza mobile. Dal 1870 in avanti non si ebbe nessuna riforma vera e propria, ad eccezione del testo unico sulle finanze locali del 1931. Nel 1919 vi fu un progetto di riforma radicale proposto dal Ministro Meda23, quello di gran lunga più elaborato e complesso, da cui trasse origine però la sola imposta complementare: la mancanza di vere e proprie riforme non significava però che il sistema tributario soddisfacesse la collettività e i vari Ministri delle Finanze. Nel secondo dopoguerra, l’insoddisfazione verso il nostro sistema si era andata generalizzando e ciò a causa, oltre che all’aumento della pressione tributaria, anche di un’accentuata sperequazione dovuta ad una sensibile inefficienza amministrativa. La pressione fiscale in Italia aveva raggiunto, nel 1950, all’incirca il 25 per cento del reddito nazionale (Liguori, 1951), cifra che rapportata a quella d’altri paesi risultava inferiore, ma tenuto conto del livello dei redditi, appariva più gravosa, in termini di pressione reale pro-capite. Il sistema tributario, al 1950, era rappresentato, prescindendo dalle imposte minori e da quelle transitorie da (Cosciani, 1950): − un’imposta generale sul reddito che colpiva il reddito stesso nel momento in cui veniva percepito dal contribuente. Il tributo consisteva a sua volta in quattro imposte, ad aliquote proporzionali, assolutamente indipendenti: l’imposta sul reddito dei terreni, l’imposta sul reddito dei fabbricati urbani, l’imposta sui redditi agrari e l’imposta sui redditi mobiliari (R.M.); − un’imposta sulle successioni e sulle donazioni, a carattere progressivo; 23 Meda F. (Milano 1869-1939), uomo politico italiano, Ministro delle Finanze dal 1916 al 1949. 69 − una serie di imposte sugli affari come le imposte di bollo, di registro, etc.; − un’imposta complementare alle precedenti, a carattere personale e progressivo, sul reddito globale di ciascun contribuente, non coincidente però con il cumulo dei redditi menzionati; − un’imposta generale sull’entrata che colpiva ogni trasferimento di beni e le prestazioni di servizi in ogni fase del ciclo di produzione e distribuzione; − una serie, molto numerosa, di imposte sui consumi di beni specifici. Questo sistema era completato poi da quello relativo alla finanza locale comprendente: − una serie di sovrimposte comunali e provinciali su talune imposte sul reddito erariale; − un’imposta personale sul reddito globale, progressiva ed accertata dal Comune; − una serie di imposte di consumo. Il carico tributario non era equamente ripartito fra le varie categorie di contribuenti. Si manifestava, prima di tutto, un’irrazionale sperequazione sociale: i ceti medi erano relativamente più oppressi delle classi lavoratrici dipendenti e dalla grande borghesia. Vi era poi una sperequazione territoriale dovuta al fatto che, a fianco dello Stato, la facoltà di applicare imposte era attribuita anche ai Comuni e alle Provincie. Si produceva l’assurdo fenomeno che due contribuenti, aventi la medesima capacità economica, che risiedevano ad esempio in due città diverse, erano tassati in modo diseguale per la diversa aliquota delle sovrimposte locali. Infine bisognava considerare la sperequazione individuale tra contribuente e contribuente, che finiva col gravare sui costi di produzione, poiché il commerciante che assolveva puntualmente il suo dovere fiscale caricava il costo 70 complessivo e, quindi, il costo unitario della merce, creandosi in tal modo una difficile posizione di concorrenza nei confronti di chi nulla pagava o non pagava secondo giustizia. Il gettito delle imposte dirette, inoltre, costituiva appena un quarto delle entrate fiscali, mentre le imposte indirette rappresentavano i rimanenti tre quarti (Cosciani, 1950): per Vanoni questo era un difetto sostanziale del nostro sistema. Un sistema tributario è, infatti, tanto più favorevole ai poveri quanto maggiore è la parte che vi hanno le imposte dirette, il cui peso cresce col crescere del reddito. Invece le imposte indirette sui consumi fondamentali gravavano maggiormente sui redditi più bassi che sono, in maggior parte, dedicati alla soddisfazione dei bisogni essenziali. Se si guarda il quadro complessivo degli ultimi esercizi dal 1946-47 al 1950 (Liguori, 1951), si può notare il forte aumento delle imposte indirette sugli affari: i cespiti che avevano perduto più sensibilmente terreno erano proprio le imposte dirette. TAB. 2: ENTRATE TRIBUTARIE DAL 1938-39 AL 1950-51 (in %) ESERCIZI TRIBUTI 1938-39 1946-47 1947-48 1948-49 1949-50 1950-51 IMPOSTE DIRETTE 23,62 15,70 14,17 13,65 14,46 17,02 TASSE ED IMPOSTE INDIRETTE 26,02 43,99 37,90 37,67 35,90 35,63 0,80 1,28 1,28 1,35 1,58 1,50 DOGANE 27,26 13,16 19,99 21,16 23,21 21,77 MONOPOLI 15,30 20,27 16,33 18,35 19,63 19,41 2,32 1,29 1,02 1,13 1,67 1,18 95,32 95,69 90,69 93,31 96,45 96,51 4,68 4,31 9,31 6,69 3,55 3,49 100,0 100,0 100,0 ADDIZIONALI LOTTO E LOTTERIE TOTALE STRAORDINARI TOTALE 100,0 100,0 100,0 Fonte: Liguori R., 1951, La riforma tributaria, Padova, Cedam, pag. 5. 71 Questa situazione, ovviamente, era anche in contrasto con l’articolo 53 della Costituzione, secondo cui “tutti sono tenuti a concorrere alla spesa pubblica in ragione della loro capacità contributiva”. Si era in presenza di un’imposizione regressiva che sacrificava i redditi più bassi: il sistema italiano di allora, sia pure per gradi, doveva modificarsi restituendo alle imposte indirette la funzione d’entrata integrativa. L’accentuazione del peso relativo delle imposte dirette poteva derivare, oltre che da riforme nella struttura dei tributi, anche da miglioramenti nella loro amministrazione e da una sensibile riduzione delle aliquote. Vanoni, come vedremo, volle, infatti, soprattutto riformare le imposte e non solo crearne di nuove. 4.1.2 L’evasione fiscale Leggi, norme e apparato fiscale necessitavano di una riforma: le prime esprimevano, infatti, ancora un sistema che si basava sull’imposizione indiretta che penalizzava i più poveri, i contribuenti poi reagivano alle leggi, determinando un’evasione di colossali proporzioni, impunita e impunibile. All’inizio della seconda guerra mondiale, il sistema tributario si presentava inoltre con una caratteristica di prevalente realità nell’imposizione: gran parte del gettito proveniva, infatti, dalle tre imposte reali, mentre gli unici elementi di personalità erano costituiti dalla discriminazione a favore dei redditi da lavoro, prevista nell’imposta di ricchezza mobile e soprattutto dall’imposta complementare. Nonostante la facilità d’accertamento e di riscossione delle imposte reali, il sistema tributario italiano presentava il duplice aspetto negativo dell’elevata pressione tributaria e di una diffusa evasione fiscale; l’evasione era proprio uno dei difetti più gravi. Nel 1938 Cosciani (Cosciani, 1950) arrivò a calcolare che il 72 reddito che assolveva regolarmente il suo obbligo fiscale era solo la metà del reddito nazionale e, probabilmente, questa cifra era errata per eccesso. Nel dopoguerra il fenomeno si era poi sensibilmente accentuato. Varie erano le ragioni che avevano portato ad un’accentuata evasione fiscale. Ragioni, innanzi tutto, di carattere storico: le vicende della storia politica italiana avevano contribuito a deprimere il senso di solidarietà politica dei cittadini e, soprattutto, avevano portato a considerare lo Stato, qualcosa a loro ostile, anziché l’espressione della loro volontà. Vi era uno scarso senso di democrazia nella società, mancava cioè il desiderio di partecipare alla cosa pubblica nell’interesse di tutti e di sentire lo Stato come parte di se stessi: si era creata una vera e propria insofferenza verso ogni ordine statale. L’evasore, in Italia, inoltre, non solo non aveva da temere una “riprovazione sociale”, ma poteva contare, nella generalità dei casi, anche in un’impunità dalle sanzioni. Queste ultime, previste dalla legge in misura molto sensibile, di fatto, non venivano quasi mai applicate, specie nel campo delle imposte dirette. A ciò si aggiungeva anche il cattivo collegamento tra uffici di diversa competenza territoriale o di materia, l’inadeguata attrezzatura degli uffici stessi e l’impreparazione del personale: tutto questo ovviamente rendeva ancora più difficile la scoperta delle frodi. L’Amministrazione disponeva inoltre di poco tempo per effettuare i controlli e spesso, invece di ricercare gli evasori totali, opera indubbiamente più faticosa, preferiva perseguire i contribuenti già noti, diffondendo l’impressione che la cosa più importante fosse di rimanere sconosciuti al fisco. L’evasione era poi stata favorita anche dalla forte crescita della pressione tributaria che, a lungo andare, aveva distrutto la moralità del contribuente, in 73 difficoltà nel fronteggiare i bisogni essenziali della propria vita. Anche il fatto che la finanza statale era spesso stata male amministrata può avere influito sull’evasione: spese eccessive che superavano le possibilità economiche della nazione, spese a favore solo di alcune classi sociali o ritenute economicamente infruttifere avevano portato a considerare l’imposta quasi come una taglia e non come il prezzo che si pagava per il servizio prestato ai singoli. Il contribuente aveva reagito quindi disinteressandosi della gestione delle spese pubbliche e sottraendosi al pagamento della fattura, che gli era esibita sotto forma di cartella esattoriale. Alla fine si era creato una sorta di circolo vizioso in cui si alternavano la diffidenza del fisco rispetto alle dichiarazioni del contribuente e la tendenza naturale di quest’ultimo ad evadere. 4.1.3 La personalizzazione delle imposte Vanoni nell’elaborare la sua riforma valutò proprio tutti questi aspetti negativi che in un modo o nell’altro era necessario superare assieme ad altri: la mancanza di una moralità fiscale da parte del contribuente, l’impreparazione professionale di molti funzionari dell’imposta, la cronica disorganizzazione degli uffici, la pratica inadeguatezza delle sanzioni fiscali e l’incapacità del fisco di identificare i nuovi contribuenti. Il Ministro delle Finanze prese in considerazione un altro aspetto fondamentale, che era poi uno degli inconvenienti strutturali più sensibili del sistema che si accingeva a modificare: lo scarso peso che era riconosciuto agli elementi soggettivi o personali che, a parità d’ammontare e di tipo di reddito, modificavano la capacità contributiva dei singoli individui. Già in una delle sue opere “Elementi di diritto tributario” (Vanoni, 1940), aveva proprio analizzato 74 quest’aspetto prendendo in considerazione non solo elementi oggettivi ma anche soggettivi: per distribuire l’onere tributario il più possibile equamente era necessario non solo commisurare l’imposta al reddito ma, altresì, collegarla alla situazione personale soggettiva, in cui il contribuente si viene a trovare, e che essendo molto varia deve essere valutata caso per caso. Il legislatore di allora aveva preferito però una combinazione tra una serie d’imposte essenzialmente reali, vale a dire che prescindevano da ogni considerazione personale o soggettiva, cui si sovrapponeva un’imposta personale del tutto indipendente, di fatto, anche nella determinazione del reddito. Anche nel nostro ordinamento non si era in ogni caso potuto sfuggire all’esigenza della “personalizzazione” delle imposte dirette, nei limiti del possibile. Negli anni precedenti si erano avuti, infatti, vari progetti per un’imposizione generale personale o quanto meno un’imposta unica proporzionale da sostituirsi alle vigenti imposte autonome reali. 4.2 La riforma tributaria del 1951 4.2.1 Generalità della riforma Nel 1948 De Gasperi ravvisò nella riforma fiscale uno dei grandi temi che impegnavano la Democrazia Cristiana per la ricostruzione e il rinnovamento democratico del paese: subito pensò di attribuire questo compito a Vanoni, il quale appariva, all’interno del partito, la persona più preparata a svolgerlo. Vanoni si mise all’opera con un programma ben chiaro e molto ampio da realizzarsi in modo graduale, metodico e tenace, ponendo l’accento soprattutto sui principi della giustizia fiscale, come fatto fondamentale della democrazia politica. 75 Il primo passo del suo compito fu quindi quello di sistemare le situazioni straordinarie ereditate dalla finanza bellica, e di riorganizzare e irrobustire gli uffici finanziari. Il Ministro non nascose mai che, lo scopo ultimo della riforma, doveva essere la creazione di un sistema strutturalmente diverso, volto all’individuazione del massimo numero possibile di nuovi contribuenti e all’eliminazione dell’incertezza e della profonda sperequazione esistente. La riforma tributaria introdusse inoltre la dichiarazione annuale obbligatoria per tutte le persone fisiche e giuridiche quale base unica d’accertamento del reddito imponibile, con un nuovo metodo analitico, diverso dal precedente metodo induttivo, inteso a ristabilire un rapporto di fiducia tra contribuente e fisco: proprio a quest’ultimo spettava l’onere di provare la veridicità della dichiarazione. A questo scopo vennero anche potenziati gli strumenti di controllo dell’Amministrazione, con la meccanizzazione degli uffici e l’aggiornamento professionale del personale. Inoltre Vanoni puntò sull’accentuazione del carattere di personalità del sistema: per l’imposta complementare furono elevati i minimi esenti e anche nell’imposta di ricchezza mobile, furono inseriti elementi di personalizzazione e progressività. La riforma infine prevedeva un riordino dell’imposizione diretta ed indiretta, con l’introduzione di più efficaci strumenti d’accertamento e nuove imposte, tra cui quella sulle società24: per questi due ultimi provvedimenti bisognerà attendere però solo fino al 1954-1956, quando lo statista aveva già lasciato il Ministero delle Finanze per quello del Bilancio. La maggior parte della riforma di Vanoni confluirà, in ogni modo, nella nota “Legge 24 Vedi capitolo quinto. 76 di perequazione tributaria” del 195125, per la quale il Ministro delle Finanze è ancora oggi maggiormente conosciuto e che ha costituito fino al 1972 la maggiore innovazione apportata al sistema tributario italiano del dopoguerra. 4.2.2 La legge sulla perequazione tributaria La legge in esame comprende norme di carattere permanente, norme di carattere straordinario e norme transitorie, queste ultime destinate ad agevolare la soluzione di particolari situazioni. a) Norme di carattere permanente: − dichiarazione annua dei redditi soggetti alle imposte dirette, secondo le norme del decreto legislativo luogotenenziale del 24 agosto 1945, n° 58526; − riduzione dell’intervallo di tempo fra la percezione del reddito e il pagamento dell’imposta e ciò a partire dall’esercizio 1952-53; − estensione alle merci e alle materie prime possedute dalle imprese delle norme dettate dalla legge sulla rivalutazione monetaria; − tassazione in base a scritture contabili per le imprese non soggette a tassazione in base a bilancio; − normalizzazione delle aliquote; − sistemazione delle posizioni irregolari del passato; b) Norme di carattere straordinario: − rilevazione fiscale straordinaria; − criteri particolari per la valutazione del realizzo; 25 Legge 11 gennaio 1951 n. 25, Norme sulla perequazione tributaria e sul rilevamento fiscale straordinario, pubblicata nel supplemento ordinario alla Gazz. Uff. 31 gennaio 1951 n. 25. 26 Decreto Legislativo Luogotenenziale, 24 agosto 1945, n. 585, Disposizioni sulla dichiarazione unica per l’accertamento delle imposte dirette. 77 c) Norme di favore per la sistemazione di situazione tributarie contenziose o pendenti. Basta questo sommario richiamo ai punti salienti della legge di Vanoni per comprenderne tutta la particolare importanza, come preparazione propedeutica all’annunziata riforma degli ordinamenti tributari. Ritengo sia importante rilevare, in ogni caso, che il Ministro sosteneva non bastasse questa sola legge per rinnovare il modo di pensare e di agire della collettività: essa poneva le premesse necessarie per preparare il terreno adatto all’attuazione della nuova organizzazione fiscale che poi sarebbe stata completata da successivi provvedimenti. La legge consta di 7 titoli e di 49 articoli: il primo titolo (articoli da 1 a 5) contiene norme sulla dichiarazione annuale dei redditi; il secondo (articoli da 6 a 17) una serie di norme relative alle imposte dirette; il terzo (articoli da 18 a 21) riguarda la riscossione delle imposte dirette; il quarto (articoli da 22 a 32) è dedicato al rilevamento fiscale straordinario; il quinto (articoli da 33 a 42) contiene norme dirette ad agevolare la sistemazione di determinate situazioni tributarie; il sesto (articoli da 43 a 45) disposizioni relative alla finanza locale ed il settimo (articoli da 46 a 49) alcune disposizioni transitorie. Vanoni indicò poi quattro principi che costituiscono i presupposti sui quali si fonda la legge: I. Principio della dichiarazione annuale. II. Principio dell’accertamento del reddito effettivo. III. Principio della dichiarazione analitica con l’abbandono dell’accertamento deduttivo. IV. Principio della dichiarazione unica che accentra in un unico ufficio la prima cognizione di tutti gli elementi di reddito. 78 In un’opera del 1937, “La dichiarazione tributaria e la sua irretrattabilità” (Vanoni, 1937), Vanoni prese in considerazione la dichiarazione soprattutto in relazione al suo possibile valore di confessione. Egli sosteneva che la natura della dichiarazione tributaria andasse indagata con riferimento alla funzione ed alla disciplina autonoma di quest’istituto nel diritto tributario e non già ricorrendo all’istituto della confessione stragiudiziale del codice civile, alla quale, parte della dottrina, l’assimilava. La dichiarazione tributaria, sosteneva già il Ministro, aveva una duplice funzione: rendere noto all’Amministrazione che un’obbligazione tributaria è sorta e determinare, di conseguenza, la messa in movimento dell’attività amministrativa di fissazione concreta della prestazione del tributo e, secondariamente, offrire gli elementi sulla base dei quali l’accertamento doveva essere condotto. Per Vanoni l’interesse dell’Amministrazione che riceve la dichiarazione tributaria non è quello di realizzare il proprio vantaggio ad ogni costo, bensì quello di attuare il diritto. Vanoni volle chiamare questa legge “di perequazione tributaria” perché, com’ebbe a rilevare più volte pubblicamente, perequare voleva dire far pagare di più a chi poteva di più, per sgravare in minor modo i meno abbienti dando ai cittadini la sensazione che l’Amministrazione è giusta e che può arrivare a dare giustizia a tutti in modo che ognuno sopporti la parte di sacrificio che deve sopportare. La riforma Vanoni comprendeva, a completamento della legge sulla perequazione, anche la promessa agli italiani di un sistema tributario moderno e il raggiungimento della giustizia fiscale che però non potevano realizzarsi solo con questa legge, essendo necessario una specifica riorganizzazione dell’Amministrazione finanziaria, degli uffici e del personale intervenendo quindi sulle sedi, sui mezzi e sugli uomini. Sin dai primi discorsi al Ministero delle 79 Finanze spiegò che l’obiettivo era di raggiungere il completamento dei quadri del personale, una più razionale distribuzione di esso, il miglioramento del livello tecnico e culturale dei funzionari, il rinnovamento degli uffici, inteso come miglioramento delle loro condizioni ambientali e dell’attrezzatura tecnica. 4.3. La dichiarazione dei redditi 4.3.1 La disciplina giuridica La dichiarazione annuale dei redditi rappresenta la base fondamentale della legge 11 gennaio 1951 n. 25 ed aveva lo scopo principale, com’è sottolineato anche dalla relazione della IV Commissione della Camera dei Deputati (Asia, 1956), di rompere il rapporto di diffidenza che fino ad allora aveva dominato tra fisco e contribuente sostituendolo con una reciproca lealtà. Tale dichiarazione non era però esclusivamente regolata dalla legge di perequazione di Vanoni, in quanto quest’ultima richiamava all’articolo 1 il Decreto Luogotenenziale del 24 agosto 1945 n. 585, abrogato però del secondo comma dell’articolo 18 e degli articoli 19, 20, 21 e 24. La nuova legge trasse origine proprio dal suddetto decreto, che però non era entrato mai in vigore, per ragioni contingenti e tecniche: la sua attuazione era, infatti, subordinata all’emanazione di un decreto ministeriale che si ritenne sempre opportuno rinviare27. La legge n. 51 apportava al decreto n. 585 modifiche e integrazioni dirette soprattutto a sviluppare criteri di praticità nell’ambito dell’obiettivo di riassetto dell’imposizione diretta. Si può notare, in ogni caso, che 27 Il 5 luglio del 1951 però, è emanato il DPR n. 573 che rappresenta il Testo Unico delle disposizioni contenute nei due provvedimenti indicati, relativamente all’istituto della dichiarazione. 80 la nuova legge non aggiungeva radicali innovazioni alla disciplina vigente, la quale conteneva già disposizioni che regolavano la materia, ma che erano, in concreto, andate in disuso per desuetudine: Vanoni quindi più che dare vita a nuove disposizioni si era preoccupato di ridare efficacia pratica a tutto questo complesso normativo, tra cui appunto il decreto 585. Lui stesso affermò in Parlamento: “Il progetto di legge che voi esaminate non è certo la riforma tributaria, non è tutta la riforma tributaria, ma come ogni prima e più difficile passo rappresenta però, dal punto di vista politico e morale, un’imposizione che tocca da vicino l’essenza psicologica e politica di una riforma innovatrice del nostro sistema fiscale.” (Vanoni, 1968). 4.3.2 Contenuto della dichiarazione Tre sono, innanzi tutto, i caratteri che contraddistinguono principalmente la dichiarazione dei redditi voluta da Vanoni: l’annualità, l’unicità e l’obbligatorietà. L’accertamento tributario, come previsto dalla legge, era fondato sull’analisi della situazione economica del contribuente, tenendo in considerazione i dati forniti da lui stesso, tramite la dichiarazione contenente la denuncia della sua situazione di fatto, insieme agli altri elementi necessari per liquidare il debito tributario. Era quindi abbandonato il vecchio sistema induttivo dell’istituto della conferma col silenzio del reddito accertato nell’anno precedente, che trovava le sue origini nell’art. 24 del T.U. 24 agosto 1877 n. 4021 e la sua giustificazione nei casi in cui le variazioni del reddito di anno in anno erano in pratica irrilevanti; istituto che poi aveva portato i contribuenti a tacere inizialmente anche le variazioni più sensibili dei redditi e poi, col passare del tempo, ad effettuare solo le dichiarazioni, o rettifiche, in diminuzione. Sosteneva Vanoni “La consuetudine 81 era molte volte più forte della legge ed aveva portato a dimenticare in sostanza l’esistenza di quest’obbligo e allora ognuno, ogni cittadino se ne stava tranquillo nel proprio ambito d’attività privata, aspettando che il fisco si facesse vivo, che il fisco venisse a disturbarlo dentro la sua casa.” (Vanoni, 1950). La dichiarazione, come stabilisce l’articolo 1 del T.U. del 1951 era annuale, in altre parole doveva essere presentata ogni anno, anche se non erano intervenute variazioni rispetto ai redditi accertati nell’anno passato: l’omissione della dichiarazione costituiva un comportamento antigiuridico, un atto positivo d’evasione fiscale, punito con una sanzione autonoma, l’ammenda. La dichiarazione resa in ciascun anno, era considerata vera da parte dell’Amministrazione fino a quando non risultava il contrario. Oltre che annuale la dichiarazione era anche unica, in quanto comprendeva tutti i redditi percepiti dal titolare della denuncia e dai membri della sua famiglia, e valeva per l’accertamento delle diverse imposte applicabili sui singoli redditi, secondo la loro natura (imposizione reale) e sul complesso di tutti i redditi (imposizione personale), con l’accentramento in un unico ufficio della cognizione di tutti gli elementi del reddito tassabile al fine di conoscere meglio la situazione economica complessiva del contribuente e facilitare i controlli. L’obbligo della denuncia rispondeva poi all’esigenza posta dall’articolo 53 della Costituzione, secondo la quale “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”. Tale principio della dichiarazione trovò però, nella stessa legge di perequazione, particolari limiti, in quanto dalla dichiarazione erano espressamente esonerate alcune categorie di contribuenti, il cui riconoscimento avveniva solo considerando la loro situazione di fronte all’imposta complementare. 82 La dichiarazione dei redditi doveva essere consegnata, a partire dal 1951, ogni anno dal primo di gennaio al 31 di marzo e in essa erano dichiarati tutti i redditi, di qualunque specie, pertinenti al medesimo soggetto. Un aspetto importante che fu considerato fu quello di avvicinare quanto più possibile il momento in cui il reddito era maturato a quello in cui il contribuente pagava l’imposta ad esso relativa. Nel passato non si era dato molto peso a quest’aspetto ma con la riforma si intende ovviare alla sperequazione che veniva a crearsi tra le diverse classi di reddito: molti contribuenti pagavano l’imposta nel momento stesso in cui percepivano il reddito, altri invece adempivano a volte anche dopo più di due mesi. Di ogni reddito dovevano essere indicati la fonte, e gli elementi rilevanti per l’accertamento analitico, cioè l’importo lordo, le spese detraibili e l’importo netto, nonché, agli effetti dell’imposta complementare progressiva sul reddito complessivo, gli onere deducibili e gli altri titoli di detrazione previsti dalla relativa legge. La dichiarazione doveva quindi essere presentata da tutti coloro che percepivano un reddito, tranne una categoria di soggetti esenti che, come rilevò più volte lo stesso Vanoni, non erano esonerati dall’imposta ma dall’obbligo della dichiarazione, qualora questa appariva superflua ai fini dell’accertamento dell’imposta stessa. Nella legge era poi prevista la facoltà degli uffici distrettuali delle imposte dirette di trasmettere ai contribuenti, tramite raccomandata, dei questionari relativi all’accertamento dei redditi da restituire entro 15 giorni. L’istituto dei questionari era nuovo nella legislazione delle imposte dirette: integrativi della dichiarazione che, anche se resa conformemente alla legge, non sarebbe bastata all’ufficio per controllare l’entità effettiva dei redditi dichiarati, avevano anche lo scopo di semplificare i rapporti tra fisco e contribuente, riducendo al minimo le richieste di comparire presso l’ufficio per 83 informazioni o spiegazioni. La IV Commissione permanente della Camera dei Deputati (Asia, 1956), sottolineò l’importanza di valutare con molta attenzione le ipotesi della incompleta compilazione e la non veritiera redazione dei questionari per evitare che fossero messi sullo stesso livello chi materialmente errava nel rispondere e chi dolosamente rispondeva in contrasto con la verità. L’azione della Finanza, per la rettifica dei redditi, si prescriveva con il 31 dicembre del terzo anno successivo a quello in cui la dichiarazione era stata presentata o doveva essere presentata. Invece, relativamente ai redditi non dichiarati o non oggetto di precedenti accertamenti, la prescrizione si aveva alla fine del quarto anno. La dichiarazione doveva essere comunque presentata anche nel caso di mancata variazione dei redditi rispetto al passato. Nel caso d’omissione nella presentazione, i redditi accertati per l’anno precedente continuavano ad essere iscritti a ruolo in via provvisoria con un aumento del 10 per cento, e si determinava una fattispecie di evasione fiscale, punita con sanzioni appositamente disposte e distinte da quelle applicabili per la trasgressione delle singole imposte. La dichiarazione, redatta su un modello predisposto dall’Amministrazione finanziaria, doveva essere il più possibile analitica, così da porre la stessa Amministrazione nella posizione di determinare un reddito il più possibile aderente a quello effettivo. 4.3.3 Scopo della dichiarazione dei redditi. Lo scopo principale della dichiarazione e uno degli elementi fondamentali che la contraddistinguono maggiormente può essere considerato il tentativo di contribuire a raggiungere una partecipazione effettiva alle spese pubbliche di tutti i contribuenti, in ragione della capacità contributiva del soggetto e secondo il 84 criterio della progressività: fino ad allora l’ordinamento non rispondeva né all’uno né all’altro di questi principi e quindi si rendeva necessaria una riforma tributaria imposta dalla stessa Costituzione. Inoltre, si mirava a creare un rapporto diverso tra fisco e contribuente dal punto di vista psicologico, sostituendo alla reciproca sfiducia, che aveva dominato fino ad allora, una reciproca fiducia, che inducesse il contribuente ad essere veritiero, nella certezza di essere creduto. Vanoni voleva convincere i contribuenti che i loro obblighi tributari si basavano su un dovere sociale ed erano quindi anche un dovere morale pari, come sosteneva lui stesso, all’esercizio del voto o alla difesa della patria. Nel sistema precedente, il fisco “andava a casa” del contribuente, per stabilire quanto questi doveva pagare; con la dichiarazione dei redditi la situazione si rovescia. E’ il cittadino che, con la riforma, dice al fisco quanto deve pagare, il fisco poi effettua i controlli e prova, eventualmente, che la dichiarazione è errata o falsa: vi fu l’inversione dell’onere della prova, rispetto al sistema dell’accertamento d’ufficio. Il nuovo rapporto di collaborazione tra fisco e cittadino non poteva quindi prescindere da un mutamento dell’atteggiamento dell’Amministrazione finanziaria di fronte al contribuente. Si arrivò ad anticipare, quasi di cinquant’anni, gli scopi della L. 27 luglio 2000 n. 212, nota come “Statuto del Contribuente”28, parte di quella riforma che dal 1999 ha interessato l’Amministrazione finanziaria e che può essere considerata come una continuazione, in chiave moderna, dell’opera di Vanoni. Alla base di questo orientamento si poneva quindi la dichiarazione dei redditi, una dichiarazione che però, per raggiungere il suo scopo, doveva essere 28 Legge 27 Luglio 2000, N. 212, Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente (G.U. 31 luglio 2000 n. 177). 85 veritiera. Lo stesso Ministro delle Finanze era molto fiducioso, anzi sicuro, che gli italiani “Non andranno certamente cantando a depositare le loro schede di dichiarazione all’Ufficio, ma faranno il loro dovere, lo faranno perché è indispensabile per avere quell’Italia rispettata nel mondo, degna del proprio destino e dei propri figli che tutti noi vogliamo, che voi volete, come il Governo vuole.” (Vanoni, 1951). 4.3.4 Critiche mosse all’introduzione della dichiarazione annuale Seppure vi furono autorevoli consensi, varie, allo stesso tempo, furono le critiche nei confronti della dichiarazione annuale e quindi della stessa riforma tributaria. Innanzi tutto, pur valutando positivamente l’introduzione della nuova dichiarazione dei redditi, molti rilevavano la necessità di accompagnarla con un potenziamento degli uffici, considerati inadeguati e impreparati a controllare un’enorme massa di dichiarazioni, in modo che il materiale offerto dal contribuente potesse seriamente servire agli uffici stessi: Vanoni non trascurò quest’aspetto, infatti, nella sua riforma tributaria ritroviamo proprio la riorganizzazione dell’Amministrazione dal punto di vista del personale, delle sedi ed infine degli strumenti. Vennero delineati inoltre gli oneri e gli svantaggi (Liguori, 1950) derivanti dalla dichiarazione, sia per quanto riguardava l’Amministrazione che il contribuente: dal punto di vista dell’Amministrazione gli svantaggi potevano derivare dalla spesa dei moduli e del loro recapito o dall’aumento del lavoro negli uffici rispetto al passato; per il contribuente invece si avevano nuovi obblighi di carattere procedurale e una maggiore instabilità e incertezza circa l’onere tributario. Si sosteneva che la dichiarazione poteva risultare macchinosa, 86 soprattutto per coloro che erano inesperti, portandoli a ricorrere ad aiuti costosi per compilarla: Vanoni tranquillizzò questi dubbi sottolineando che il modulo era estremamente semplice e che per i redditi più elevati o complessi vi erano degli allegati che si adattavano alle situazioni economiche e soggettive dei singoli contribuenti. Spesso si obiettava allo stesso Ministro delle Finanze che il sistema tributario italiano era antiquato e logoro, il lungo periodo del conflitto mondiale ne aveva accentuato i lati negativi e che bisognava realizzare, senza indugio, un rinnovamento sostanziale: il Ministro rispondeva, con quell’atteggiamento sereno e rigoroso che gli era proprio, che i tributi nuovi e concepiti modernamente non avrebbero conseguito alcun risultato serio ed apprezzabile, quando si fosse continuato ad amministrarli ad a pagarli con quel carattere approssimativo che si era avuto fino ad allora. Vanoni pose l’accento poi, più volte, sul fatto che gli effetti sostanziali della dichiarazione dei redditi si sarebbero visti e misurati in termini di anni, in quanto attuare perfettamente questo sistema, di punto in bianco, era impossibile, se prima non si fossero eliminati gli aspetti negativi che lo caratterizzavano. Lo stesso statista non avrebbe mai appoggiato, secondo Forte (Forte, 1996), una riforma fiscale improvvisa e sconvolgente nelle strutture, quale quella Cosciani-Visentini del 1972-1973 (Cosciani, 1991), che introdusse due nuove imposte sul reddito complessivo, abolendo tutte le imposte precedenti: l’IRPEF, a carattere personale e progressivo sul reddito globale delle persone fisiche, che nella sua struttura riprendeva le linee della complementare, ma come importanza venne ad occupare lo spazio delle imposte reali e l’IRPEG applicata, invece, sul reddito globale delle persone giuridiche. Dette imposte erano poi completate da 87 altri tributi essenzialmente complementari: l’ILOR, su tutti i redditi non da lavoro dipendente, a carattere reale con aliquota unica che sostituiva le imposte reali e l’imposta sull’incremento di valore degli immobili (INVIM), sulle plusvalenze immobiliari. Altre critiche, alla dichiarazione di Vanoni, puntavano sul fatto che non si credeva che i contribuenti italiani, dal più povero al più ricco, avessero raggiunto una maturità civile ed un’intima coscienza tributaria tale da diventare tutti tanto onesti da dichiarare al fisco quello che quotidianamente incassavano e guadagnavano nelle loro molteplici attività lavorative e produttive. L’obbligatorietà della dichiarazione, si obiettava poi, non era nuova: essa era vecchia quanto la legge fondamentale dell’imposta di R.M. e quanto tutte le altre leggi in materia, susseguitesi nel tempo, sino alla legge dell’imposta progressiva sul patrimonio, che non avevano dato un esito positivo. Vanoni però, proprio in considerazione di questi aspetti, non voleva rifare gli errori del passato e basava quindi tutta la sua opera sul cambiamento del rapporto tra fisco e contribuente, necessario punto di partenza per il buon esito della riforma tributaria stessa. 4.4 Altro contenuto della legge di perequazione 4.4.1 Rilevamento fiscale straordinario A completamento della dichiarazione annuale dei redditi Vanoni volle immettere, nella legge di perequazione, un censimento generale29 dei contribuenti 29 Il rilevamento fiscale straordinario doveva essere preceduto da tre grandi censimenti disposti dal Governo: il censimento demografico, il censimento industriale e il censimento agricolo. 88 sulla base del quale doveva agire la riforma tributaria, al fine di evitare che qualcuno potesse sfuggire al dovere di provvedere al pagamento delle imposte. Il rilevamento fiscale straordinario, così fu definito, si fondava su motivi diversi da quelli concernenti la dichiarazione annuale e non ne costituiva un duplicato. Questo istituto fiscale mirava, infatti, a combattere il fenomeno dell’evasione totale e tendeva a raccogliere gli elementi obiettivi inerenti la persona del contribuente, come l’attività normale che svolgeva, i cespiti su cui contava per i propri bisogni essenziali, il comune dove essi si trovavano, la composizione della famiglia, mentre la dichiarazione aveva lo scopo di fare conoscere i redditi soggetti alle imposte dirette: erano suscettibili di rilevamento anche quelle fonti di redditi che non provenivano da un’attività esercitata, né dal possesso di un patrimonio, come, per esempio, il godimento di una pensione o di un sussidio o contributo, dato senza corrispondente prestazione d’opera. Una duplicazione, se mai sussisteva, si aveva con quella operazione simile di rilevamento di cui all’art. 25 del decreto n. 585, che prevedeva rilevamenti rinnovabili periodicamente Vanoni vedeva nell’istituto del rilevamento un’operazione che tendeva a far acquisire all’Amministrazione elementi il più possibile completi sulla situazione economica individuale di ciascun contribuente e sui mezzi di sostentamento da cui ciascuno traeva le proprie risorse, cercando di affrettare i tempi e rendere più completa ed agevole l’opera degli uffici che in ogni caso, rilevava nella Relazione Ministeriale (Vanoni, 1968) del 27 luglio 1950 al Senato, sarebbero riusciti ad identificare ugualmente i redditi e i contribuenti attraverso una paziente, metodica e laboriosa attività di reperimento che però avrebbe richiesto più tempo e maggiori spese. 89 Scopi dell’istituto possono quindi essere considerati il controllo, la lotta contro l’evasione fiscale e la raccolta di dati statistici atta a consentire al fisco di aggiornare e di impiantare, ove manchi, l’anagrafe tributaria: tali attività erano condotte dall’Amministrazione in collaborazione con il Comune e gli altri enti. Appare più che intuitivo ed evidente l’obbligo morale e giuridico, che era presente anche nella dichiarazione, della sincerità: lo Stato, conosciute in tal modo le capacità economiche dei cittadini, aveva la possibilità di ripartire in equa misura il carico tributario necessario per sopperire alle spese del fabbisogno nazionale. 4.4.2 La sistemazione di situazioni irregolari del passato Al fine di attuare appieno la propria riforma, Vanoni si chiedeva poi se “Era possibile premiare coloro, interamente premiare coloro i quali con la loro resistenza, col sottrarsi continuamente agli inviti degli Uffici ed agli adempimenti degli obblighi più evidenti erano riusciti a non pagare il tributo nel periodo passato?” (Vanoni, 1968). Valutando la situazione concreta, si rendeva conto che andare a ripescare tutte le irregolarità non avrebbe fatto altro che alterare il rapporto di fiducia con il contribuente stesso. Il titolo V della legge, (articoli da 33 a 41), contiene quindi, una serie di disposizioni dirette ad agevolare la sistemazione di determinate situazioni tributarie irregolari del passato. Vanoni giustificò questo complesso di norme di sanatoria come facente parte della preparazione generale degli elementi favorevoli all’introduzione del nuovo ordinamento tributario. Egli rilevava, infatti, che un ostacolo psicologico ad una dichiarazione veritiera del contribuente era proprio rappresentata dal timore che l’Amministrazione si avvalesse degli elementi così acquisiti per appesantire gli accertamenti ancora in sospeso e riguardanti gli anni passati. 90 Nonostante questa possibilità di sistemazione concessa al contribuente, era in ogni caso evidenziata la necessità di mantenere il criterio di giustizia che voleva che i contribuenti meno solleciti non avessero un trattamento di favore rispetto a quelli che avevano, invece, adempiuto il loro dovere in modo esatto. Anche nell’ambito di questo istituto, lo scopo principale del Ministro delle Finanze era, in ogni caso, sempre quello di creare un’atmosfera di fiducia verso l’Amministrazione finanziaria da parte del contribuente, eliminando l’enorme numero di contestazioni pendenti dinanzi agli Uffici e dinanzi alle Commissioni tributarie e riguardanti le imposte dirette, le tasse, le imposte indirette sugli affari e le società (fusione di società, concentramento di Aziende sociali, società non regolarmente costituite, aumenti di capitale). 4.4.3 Imposte dirette Nel campo delle imposte, un obiettivo particolarmente impegnativo perseguito da Vanoni, fu quello di introdurre aliquote graduate secondo la capacità contributiva dei singoli contribuenti, dei beni e dei vari presupposti d’imposta. Secondo il Ministro, però, all’opera di miglioramento della tecnica degli accertamenti, riduzione delle aliquote e lotta contro l’evasione bisognava aggiungere, per realizzare effettivamente la riforma tributaria, una modifica della struttura delle singole imposte, la semplificazione di quelle esistenti, la creazione di alcuni tributi nuovi: tutto questo rinnovando però la stessa definizione di reddito imponibile, passando da un concetto statico, vigente fino allora, ad un concetto dinamico. Al fine della realizzazione del principio costituzionale della progressività tributaria, Vanoni riteneva fondamentale attuare quella che è stata definita la 91 personalizzazione delle imposte: già in un discorso alla Camera del 1948 sosteneva “Il fondamento della riorganizzazione del sistema tributario italiano è quello segnato dalle norme costituzionali, che vogliono un ordinamento che realizzi la progressività del sistema delle imposte. Questi scopi si possono raggiungere operando contemporaneamente secondo il mio pensiero sulle imposizioni dirette e indirette.” (Vanoni, 1968). Una parte di questo lavoro fu compiuta, da Vanoni, con la personalizzazione dell’imposta reale di ricchezza mobile, altra tappa fu quella dell’introduzione dell’imposta sui patrimoni e sui redditi e delle società di capitali30, quest’ultima attuata nel corso della permanenza al Ministero del Bilancio. La parte della legge dedicata alle imposte dirette può essere considerata come la conferma dell’atteggiamento fiducioso del Governo verso i contribuenti: si tratta, infatti, della parte che riguarda la riduzione delle aliquote. Le aliquote di allora erano molte elevate e rispecchiavano una situazione monetaria che era ormai superata per effetto dell’inflazione post-bellica, tanto da costituire un peso insopportabile per la generalità dei contribuenti31. Era ovvio che, in una simile situazione, l’evasione fiscale dilagasse quasi “entrando a far parte del costume dei contribuenti quasi come l’unico mezzo di difesa contro l’eccesso delle pretese del fisco” (Asia, 1954). Per l’imposta complementare32, oltre che una riduzione delle aliquote, furono elevati i minimi esenti e introdotte ulteriori detrazioni; Vanoni riteneva che nonostante si fosse in una situazione che imponesse ad ogni contribuente il 30 Vedi capitolo quinto. Su un reddito di 8000 miliardi, di 46 milioni di abitanti, pesava un aggravio fiscale complessivo di 2100 miliardi. 32 Imposta complementare progressiva sul reddito, istituita con il R.D. 30/12/1923 n. 3062. 31 92 massimo dei sacrifici e dello sforzo nella distribuzione dei carichi pubblici, fino a che non fosse completata la ricostruzione finanziaria, le aliquote non potevano essere superiori a quelle fissate nella legge, al fine di non compromettere il rapporto con il contribuente o inaridire il risparmio individuale. Introdotta la detrazione fissa di L. 240.000 per qualsiasi contribuente, salvo tutte le altre detrazioni, la progressività era stata molto attenuata, partendo da aliquote del 2 per cento fino a raggiungere il 50 per cento per i redditi oltre 499 milioni annui. Anche nell’imposta di ricchezza mobile furono inseriti elementi di personalizzazione e progressività. Quella voluta dal Ministro era in ogni caso una sistemazione transitoria dell’imposizione diretta sul reddito: egli sosteneva che bisognava agire con energia, ma anche con prudenza. La progressività rimaneva comunque una scelta necessaria, e non solo contingente per l’intero sistema tributario, al fine di imporre il prelievo, soprattutto sui redditi più elevati e sui patrimoni più rilevanti, nel contesto di un sistema caratterizzato da molteplici imposte dirette, alcune reali e proporzionali e una personale e progressiva. Vanoni non nascose mai un giudizio critico nei confronti non delle vecchie imposte ma del loro effettivo funzionamento: riteneva che la riforma, pur incisiva, doveva avvenire per gradi e che priorità assoluta doveva essere concessa all’esigenza di rimettere il rapporto d’imposta su un piano di serietà e di valutazione obiettiva. Tutto questo portò quindi ad una riduzione sensibile delle aliquote che riguardò, in modo decisivo, l’imposta complementare, quella di ricchezza mobile, l’imposta di famiglia, l’imposta generale sull’entrata e l’imposta di registro. La riduzione delle aliquote doveva portare al riavvicinamento della realtà alla legge e, quindi, preparare il terreno all’emanazione dei successivi provvedimenti. Si 93 deve riconoscere che le nuove aliquote erano di livello equo e, dopo un’ulteriore riduzione alla base e un aumento di quota esente per ogni persona a carico, il contribuente italiano, anche di modesta capacità contributiva, era messo in condizione, agli effetti della complementare, di dichiarare il reddito effettivo, senza il timore di una tassazione predatrice. TAV.3: VARIAZIONE DELL’ALIQUOTA DELL’IMPOSTA COMPLEMENTARE DAL 1940 AL 1951 1940 1945 1947 1950 L. n. 800/1940 D.L. n. 384/1945 D.L. n. 87/1947 L. n. 25/1951 Redditi Aliquote Redditi Aliquote 3.000 2,00 12.000 2,0 5.000 2,22 20.000 12.000 2,16 20.000 Redditi Aliquote 60.000 2,00 2,305 100.000 40.000 3,373 2,65 60.000 40.000 4,19 60.000 Redditi Aliquote 240.000 2,00 2,790 2.000.000 3,17 240.000 4,934 5.000.000 6,00 4,409 500.000 7,958 10.000.000 8,11 100.000 6,275 1.000.000 12,500 50.000.000 16,92 4,92 240.000 11,262 5.000.000 35,479 100.000.000 23,43 100.000 6,02 500.000 17,486 10.000.000 55,602 200.000.000 32,49 240.000 9,94 1.000.000 25,00 50.000.000 73,573 400.000.000 45,04 500.000 15,20 5.000.000 46,361 60.000.000 75,00 500.000.000 50,00 1.000.000 10,00 10.000.000 55,602 ed oltre ed oltre ed oltre Fonte: Relazione della IV Commissione Permanente della Camera dei Deputati, Asia, 1954. Fin dal 1942 Vanoni fu favorevole senza riserve all’imposizione delle persone fisiche secondo il modello dell’imposta unica progressiva sul reddito, schierandosi in quell’anno con Griziotti, nell’ampia discussione che si svolse sulla riforma dell’imposta complementare in una commissione dell’Istituto Nazionale 94 di Finanza Corporativa. Col passare degli anni la sua posizione divenne più cauta, ma l’obiettivo finale rimase sempre l’imposta unica personale progressiva. La riforma sostanziale del sistema tributario intorno ad un’imposta personale progressiva sul reddito fu poi realizzata negli anni ’70, mantenendo, per la verità, pregi e difetti del sistema che si erano andati stratificando nel corso degli anni come, ad esempio, la generalità della dichiarazione e dell’accertamento analitico. 4.4.4 Finanza locale Sempre nell’ambito della riduzione delle aliquote per l’imposizione diretta, si ha poi il titolo VI, relativo alla finanza locale. Vanoni considerava il problema della finanza locale quasi più grave e complicato di quello della finanza statale. Sosteneva che la finanza locale dovesse colpire con la sua imposizione dei presupposti che erano territorialmente localizzabili: nella pratica, però, vi era invece una tendenza ad esorbitare dai limiti territoriali del Comune e della Provincia fino ad arrivare a colpire situazioni che andavano al di là dell’ambito in cui si esplicava la potestà di imposizione dell’ente locale. Le diversità di condizioni e di bisogni tra le diverse regioni del nostro paese si erano accentuate con la guerra: i comuni che avevano maggiore bisogno erano anche quelli con minori disponibilità economiche. Sostenitore del principio delle autonomie locali e della necessità di attribuire imposte proprie agli enti locali, egli sottolineava tuttavia la preoccupazione che l’azione di tali enti potesse esplicarsi in contrasto con quella dello Stato e cercava quindi di stabilire forme di coordinamento che, salvaguardando i vantaggi dell’autonomia, ne limitassero gli effetti negativi. 95 Vennero adottati opportuni provvedimenti per alleggerire il peso delle imposte comunali e provinciali, che spesso superava perfino quello delle imposte erariali e si diminuirono i poteri degli enti in questo campo, per evitare contrasti tra amministrazioni comunali, differenze indiscriminate di imposizioni tra cittadini di un comune e di un altro e sperequazioni notevoli tra contribuenti di uno stesso comune. La Commissione centrale per la finanza locale, che aveva la facoltà di autorizzare i comuni e le provincie ad eccedere dai limiti posti nel campo delle imposte di loro competenza, aveva dovuto nel dopoguerra fare notevoli concessioni, sotto lo stimolo delle necessità contingenti delle finanze comunali e provinciali: tale situazione era cambiata però a partire dal 1948, portando un freno alle autorizzazioni. Vi fu, inoltre, un ritorno alla disciplina della finanza locale sotto il controllo parlamentare. Infatti, punto saliente tra i tanti della legge, è proprio che fino ad allora la disciplina riguardante le aliquote dei tributi locali apparteneva piena e incontrastata al potere esecutivo, sfuggendo quindi a quello legislativo, ma con l’articolo 43, il controllo in questo campo passava agli organi parlamentari. Anche il titolo riguardante le finanze locali, seppure sia limitato alle aliquote, anticipava una radicale e più organica riforma in materia, già approvata e in via di discussione da parte degli organi legislativi33. Lo scopo era quello di fare in modo che la finanza locale accompagnasse la riorganizzazione in atto della imposizione statale, eliminando o quantomeno evitando i punti di contrasto tra le politiche tributarie dello Stato e degli enti locali, e di riorganizzare lo stesso sistema della finanza locale dopo l’esperienza bellica. Nonostante siano così 33 Disegno di legge “Disposizioni in materia di finanza locale”, presentato il 15 novembre 1949 dal Ministro delle Finanze Vanoni 96 ristrette le finalità e i limiti dell’intervento, le maggiori critiche a queste disposizioni (articoli 43-44) sono legate alla mancanza di chiarezza in seguito ai ricorrenti richiami legislativi che si sovrapposero, determinando difficoltà di interpretazione ed evidenziando la necessità di un generale riordino di tutta la materia. 4.5 Riordinamento e rafforzamento dell’organizzazione finanziaria Vanoni aveva promesso agli italiani un nuovo e moderno sistema tributario caratterizzato dalla giustizia fiscale: per realizzare tale scopo però si rendeva necessario anche un intervento nei confronti dell’apparato dell’Amministrazione finanziaria, ideato inizialmente solo per riscuotere i tributi e ormai fortemente segnato prima dal fascismo e poi dalla guerra. Fu così che il Ministro, appena insediatosi al Ministero delle Finanze, sviluppò un progetto di radicale innovazione delle strutture puntualizzandone i mezzi idonei al raggiungimento: il completamento dei quadri del personale, una più razionale distribuzione territoriale di esso, il miglioramento del livello tecnico e culturale dei funzionari e il rinnovamento degli uffici. La prima fase del miglioramento tecnico degli uffici, si realizzò con la fornitura di macchine per scrivere e da calcolo e con la successiva introduzione di moderni sistemi di contabilità. Nel 1950 ebbe inizio la meccanizzazione dell’imposta generale avente lo scopo di realizzare una contabilizzazione rapida, precisa e completa delle riscossioni da realizzarsi in ciascun periodo di tempo. Oltre che all’ammodernamento dell’attrezzatura degli uffici si volle anche disporli in locali più funzionali. Lo stesso Vanoni si preoccupò poi di affrontare il 97 problema degli alloggi del personale, per non gravare sull’impiegato il peso economico del mercato degli affitti, promuovendo una legge34 per autorizzare l’Amministrazione delle finanze all’acquisto o alla costruzione di case di tipo popolare Il settore nel quale però Vanoni si concentrò di più fu quello della preparazione professionale del personale, insistendo soprattutto sul metodo dell’accertamento e sugli strumenti contabili necessari per la rilevazione del reddito, tramite corsi impartiti da docenti universitari affiancati dai migliori funzionari delle singole Amministrazioni. Vanoni voleva non solo dare all’Amministrazione finanziaria funzionari preparati e capaci, ma voleva quasi costituire una sorta di garanzia per i cittadini chiamati su basi nuove a collaborare all’assolvimento degli obblighi finanziari: la sua idea era quella di creare una scuola tributaria di tipo universitario per l’aggiornamento e il perfezionamento. Da sviluppi successivi di queste iniziative sorse la Scuola Centrale Tributaria35, che rappresenta forse il più importante istituto per la preparazione e l’aggiornamento tecnico dei funzionari dello Stato, costituito nel dopoguerra nell’ambito della Pubblica Amministrazione. Per tutto il periodo in cui fu responsabile del Ministero delle Finanze (19481954) egli fu impegnato sia nel definire i disegni di legge che dovevano realizzare la riforma progettata, sia nel realizzare la costruzione di un apparato burocratico in grado di gestire il rinnovamento che le leggi avrebbero portato, tramite uomini 34 Legge 27 giugno 1949 n. 329. Scuola tributaria Vanoni, istituita nel 1957. E’ un organo del Ministero delle Finanze, alle dirette dipendenze del Ministro, ed i suoi compiti istituzionali sono stati recentemente integrati dal Decreto Legge n. 526/1996 che ha approvato definitivamente il regolamento della Scuola. 35 98 professionalmente rinnovati, motivati e convinti dell’importanza che possedeva il loro operato per il bene del paese. 4.6 Risultati ottenuti dalla riforma tributaria In conclusione la legge 11/1/1951 n. 25 non rappresentò una vera e propria riforma del sistema tributario, o almeno non lo fu dal punto di vista radicale: si è già ricordato come l’obbligo della dichiarazione era previsto da ormai più di settant’anni e confermato da tutte le leggi ordinarie e straordinarie successive, obbligo al quale però quasi mai nessuno aveva adempiuto e che quindi non aveva dato risultati positivi. Il Ministro aveva voluto quindi rendere imperativo questa dichiarazione che, per colpa del fisco e del contribuente, era andata in desuetudine. Nella legge di perequazione, può essere considerato però nuovo il rilevamento fiscale straordinario, che comportava responsabilità penali per il contribuente e responsabilità morali per il fisco. Lo slancio riformatore di Vanoni non fu comunque compreso da tutti: quest’incomprensione, più che da parte dei colleghi parlamentari, che lo assecondarono se non all’unanimità a larghissima maggioranza, come dimostrano le approvazioni in aula, mancò, come sostiene il Vigna (Vigna, 1992), da parte dei cittadini e degli stessi contribuenti. La responsabilità fu soprattutto di coloro che avevano il compito di divulgare, chiarire, spiegare la riforma: essi non colsero, o non vollero cogliere, il primo e fondamentale significato della legge e cioè il nuovo rapporto tra contribuente e fisco, l’obiettivo della giustizia fiscale e il senso morale della riforma. 99 Lo Stato, nonostante questa incomprensione, vide tra il 1949 e 1956, anche per effetto dell’aumento delle basi imponibili, crescere le entrate tributarie ad un tasso medio annuo del 13 per cento (Tramontana, 1979), grazie al quale si finanziò poi la politica di sviluppo economico degli anni seguenti. L’azione di Vanoni fu decisiva: in cinque anni le entrate statali effettive aumentarono del 58 per cento e le spese si accrebbero del 41 per cento, una crescita che, anche tenuto conto dell’inflazione presente allora, era notevole (Forte, 2000). TAV. 4: BILANCI STATALI DAL 1948-49 AL 1952-53 (Valori in miliardi di lire) PERIODO Parte effettiva Movim. Capitali Spese Deficit Entrate Globale Effettivo PIL Deficit/PIL (%) Mld. Globale Effettivo Spese Entrate 1948-49 1.643 2.140 101 44 552 494 7.364 7,40 6,70 1949-50 1.716 2.418 230 341 185 298 8.047 2,20 3,70 1950-51 1.893 2.720 319 271 220 173 9.595 2,30 1,80 1951-52 2.129 2.737 305 335 360 392 11.155 3,20 3,50 1952-53 2.310 2.804 119 304 321 506 12.190 2,60 4,15 Fonte ISTAT. Sommario di statistiche storiche dell’Italia, 1961-1965, Roma, 1968. Nelle Relazioni della IV e V Commissione Permanente del Senato della Repubblica e della Camera dei Deputati (Asia, 1956), fu sottolineato proprio che gli effetti dell’applicazione della legge avrebbero fatto compiere un grande passo in avanti al nostro sistema tributario, come si può vedere dalle tabelle che furono allegate (TAB. 5 e 6) e che ulteriori effetti si sarebbero avuti in seguito sempre su questa via.. 100 TAB. 5: PRESSIONE TRIBUTARIA (CONTRIBUENTI DI CATEGORIA B CON DUE FIGLI A CARICO) REDDITO ACCERTATO 300.000 ALIQUOTE SECONDO IL TESO APPROVATO DAL SENATO ALIQUOTE PRECEDENTI Imposta Percentuale Imposta Percentuale 128.366 42,79 15.570 5,19 500.000 220.850 44,17 69.705 13,94 1.000.000 477.619 47,76 211.907 21,19 2.000.000 1.100.915 55,05 517.241 25,86 5.000.000 2.836.486 56,07 1.550.056 31,00 10.000.000 6.944.294 69,44 3.593.482 35,93 20.000.000 16.170.371 80,85 7.347.050 41,74 100.000.000 91.108.952 91,11 49.376.050 49,38 FONTE: Relazione della IV Commissione Permanente della Camera dei Deputati, Asia, 1951, pp. 664. TAB. 6: PRESSIONE TRIBUTARIA (CONTRIBUENTE DI CATEGORIA C/2 CON MOGLIE E DUE FIGLI A CARICO) REDDITO ACCERTATO 300.000 ALIQUOTE SECONDO IL TESTO APPROVATO DAL SENATO ALIQUOTE PRECEDENTI Imposta Percentuale Imposta Percentuale 108.322 36,7 10.460 3,49 500.000 203.600 40,72 48.298 9,66 1.000.000 478.648 47,86 150.132 15,01 2.000.000 1.145.292 57,26 378.121 18,90 5.000.000 2.299.812 65,99 1.205.641 24,11 10.000.000 7.280.733 72,81 2.980.363 29,80 20.000.000 15.747.281 78,73 7.086.939 35,40 100.000.000 90.524.552 90,52 44.362.115 44,36 FONTE: Relazione della IV Commissione Permanente della Camera dei Deputati, Asia, 1951, pp. 664. 101 La valutazione posteriore di Vanoni alla sua riforma, fu positiva: rilevava, infatti, nel corso di alcune interpellanze e interrogazioni concernenti la dichiarazione annuale dei redditi alla Camera, che “L’operazione è interamente riuscita, sia dal punto di vista tecnico che politico, perché i redditi inferiori, così come si voleva ottenere, sono stati agevolati: è riuscita perché nonostante l’agevolazione in favore dei redditi più contenuti, il gettito è aumentato in una certa misura e più ancora aumenterà nel prossimo futuro…è stato fatto un passo veramente serio non per virtù del ministro o del governo, ma per virtù propria del popolo italiano” (Vanoni, 1968). 102 CAPITOLO QUINTO L’IMPOSTA SULLE SOCIETÀ DEL 1954 5.1 L’imposizione delle società: premessa A completamento dell’analisi della riforma tributaria realizzata da Vanoni e iniziata nel 1951 con la legge di perequazione, possiamo prendere in considerazione la legge del 6 agosto 1954 numero 60336, che istituì l’imposta sulle società di capitali e che può essere considerata come parte delle linee direttive della riforma del sistema tributario italiano. Tale legge trovava la sua ragione d’essere generale in necessità di ordine sociale e di ordine fiscale: porre sullo stesso piano, dal punto di vista del trattamento tributario, le società di capitali e i contribuenti privati; tenere conto della speciale capacità contributiva delle società, anche per la possibilità di raccolta di capitali e per la potenziale durata illimitata; recuperare nuovi mezzi finanziari per fare fronte alle spese pubbliche. Il 36 L. 6 agosto 1954 n. 603, Istituzione di una imposta sulle società e modificazioni in materia di imposte indirette sugli affari (pubblicata sulla gazzetta Ufficiale dell’11 agosto 1954 n. 182). 103 fondamento più specifico era in ogni caso quello della teoria della personalità tributaria degli enti collettivi, da cui derivava, però e di conseguenza, il problema della così detta doppia imposizione della società e dei soci. L’imposta presentava caratteri innovativi, non solo rispetto alla logica del sistema tributario italiano di allora, ma anche rispetto ad alcuni sistemi stranieri. Molti paesi avevano, infatti, introdotto, in tempi più o meno recenti, nei loro ordinamenti tributari un tipo d’imposta particolare per le società di capitali, soprattutto in considerazione della loro specifica capacità contributiva, diversa da quella delle persone fisiche e delle società di persone. Negli Stati Uniti, Canada, Germania, Svizzera, Svezia, Danimarca e Norvegia, l’imposta autonoma sulle società costituiva uno dei pilastri del sistema fiscale: i paesi ad economia più progredita e con un apparato produttivo industriale avanzato avevano dato all’imposizione delle società di capitali un’importanza ben maggiore di quella data da paesi economicamente più arretrati. Una delle giustificazioni ricorrenti alla nuova imposta era quindi rintracciabile anche nel fatto che essa era ormai entrata a far parte di molti sistemi fiscali stranieri, anche se per alcuni si poteva parlare di un più o meno diffuso trattamento speciale delle società, più che di un’identica imposizione specifica. Dal punto di vista dell’equità fiscale era evidente la “sperequazione” che si veniva poi a creare tra le imprese personali e quelle di capitali, quanto all’applicazione dell’imposta complementare: le prime erano assoggettate per la totalità del loro reddito, le seconde solo per la parte degli utili distribuiti. Come rilevava poi la Relazione al disegno di legge (Asia, 1954), la crescita della pressione tributaria ed il costante aumento dell’importanza dell’imposta personale progressiva sui redditi, avevano contribuito a rendere più vantaggioso il ricorso 104 alla forma delle società per azioni. Questo fenomeno si era poi reso più evidente proprio dopo la prima dichiarazione unica annuale dei redditi del 1951. Per giungere ad un’eguaglianza di trattamento fiscale tra i privati e le imprese societarie, occorreva estendere la complementare anche alla parte di utili non distribuiti, in modo da colpire il reddito globale delle società. Si aggiunga che le società di capitali godono di una particolare capacità, connessa alla loro struttura e al loro potere economico e finanziario: tali società, nell’economia italiana di allora, rappresentavano inoltre una sorgente cospicua del reddito del paese e più di ogni altra impresa sembravano godere dell’insieme dei servizi pubblici erogati a vantaggio della produzione. La questione era stata analizzata anche, negli anni precedenti, dalla Commissione Economica all’Assemblea Costituente (Asia, 1954), dove si era già rilevata l’opportunità di un’imposizione delle società, diversa e maggiore rispetto a quella delle imprese individuali in considerazione del fatto che gli enti collettivi costituivano da quella che poteva risultare dalla somma delle partecipazioni dei singoli soci. La Commissione rilevò inoltre la necessità di analizzare in modo approfondito questo problema che fino ad allora non aveva avuto in Italia una discussione adeguata. 5.2 L’imposta sul reddito delle società e gli utili non distribuiti In Italia, già da molti decenni, la tesi della capacità contributiva autonoma delle società di capitali era stata sostenuta dal Griziotti, maestro di Vanoni, e dalla sua scuola: la mancanza di un’imposta sulle società appariva come una delle 105 maggiori cause che avevano portato all’insufficiente sviluppo dell’imposizione diretta in Italia. Già dieci anni prima dell’introduzione del nuovo tributo, lo stesso Vanoni aveva proprio trattato l’argomento, evidenziando le basi dottrinarie di un’imposta speciale sulle società, di cui egli stesso fu il primo proponente in qualità di Ministro delle Finanze. Vanoni, nel saggio “ L’imposta sul reddito e gli utili di società non distribuiti” (Vanoni, 1943) analizzava la possibile applicazione dell’imposta sulle società, riprendendo uno studio del Seligman (Seligman, 1925), relativo alla questione se i dividendi azionari costituivano reddito: il problema, secondo Vanoni, era uno dei più importanti per l’organizzazione dell’imposta sul reddito. Vanoni faceva l’esempio di due soci che realizzano un profitto pari a 600.000 £ e decidono di distribuire, come dividendo, 100.000 £ per ognuno. Le residue 400.000 £ erano lasciate nella società e i soci pagavano per le 200.000 £ l’imposta sul reddito, mentre non la pagavano per le rimanenti. Il Ministro osservava quindi, riprendendo le conclusioni del Seligman, che si arrivava ad immaginare il caso di un soggetto che, titolare di una grossa fortuna, riuniva le sue partecipazioni in una società, distribuendo solo quanto necessario per il suo consumo. L’imposta personale sul reddito colpiva la sola parte destinata al consumo mentre il risparmio, che era la parte più rilevante, sfuggiva all’imposta. Vanoni esaminava poi l’aspetto equitativo arrivando a concludere che “L’imposizione non può restare indifferente di fronte alla potenza economica determinata dall’organizzazione societaria: e se il criterio dell’imposta è quello di gravare i soggetti in rapporto alla forza economica che essi possiedono, con riguardo a tutti gli elementi che la qualificano, il criterio deve applicarsi a tutti i 106 soggetti, siano essi persone fisiche o persone morali” (Vanoni, 1943). Egli poneva l’accento sul fatto che, un diverso trattamento fiscale per gli utili non distribuiti e quelli distribuiti poteva apparentemente trovare giustificazione nella separazione dei patrimoni dei soci e delle società. Nell’imposta personale, ogni soggetto rispondeva per le ricchezze di cui disponeva e dato che i profitti non distribuiti restavano alle società ne discendeva che questi ultimi non potevano essere computati nel reddito dei soci. L’Autore rilevava però che se si poneva l’accento, ai fini della capacità contributiva, sul momento del possesso personale del reddito, la separazione dei patrimoni delle società e dei soci era sopravvalutata, quando si negava che i proventi delle società non distribuiti, erano sostanzialmente profitti dei soci. Ribadiva che, l’importanza assegnata alla separazione tra società e soci da alcune parti della dottrina, appariva inadeguata e puramente negativa: “L’imposizione delle società non può essere considerata come un mezzo più comodo per realizzare l’imposizione dei singoli soci o come uno strumento per reprimere questa o quella attività sociale, ma deve essere ricondotta all’autonoma capacità dell’organismo sociale a contribuire.” (Vanoni, 1943). La società aumentava la capacità contributiva dei singoli soci e la superava, mediante la fusione dei singoli apporti in un organismo unitario di produzione. 5.3 L’imposta sulle società del 1954 5.3.1 Personalità giuridica e capacità contributiva Il problema di fondo dell’imposta sulle società, è quello di una possibile doppia imposizione sulle società e sui soci: si doveva quindi stabilire come si configurasse la doppia imposizione e quando fosse iniqua. L’ipotesi era che si 107 realizzasse, con la nuova legge, una doppia imposizione in quanto si arrivava a colpire il dividendo distribuito prima sotto forma di utile lordo imponibile con l’imposta sulle società e poi sotto forma di reddito netto imponibile con l’imposta personale progressiva. Nella pratica però questa duplicazione non si determinava, in quanto bastava considerare che, secondo la normativa adottata, il dividendo distribuito ai soci era compreso nel reddito normale del 6 per cento non soggetto all’imposta: la doppia imposizione si sarebbe verificata solo se tutto il reddito della società fosse stato tassato, senza quindi la detrazione appena citata. Questa specifica situazione normativa può essere valutata nel contesto di varie posizioni emerse nella letteratura sul problema della doppia imposizione. Secondo una di queste impostazioni, sostenuta dal Cosciani (Cosciani, 1950), le società commerciali e gli enti collettivi dovevano essere considerati come degli intermediari che riscuotevano per conto del fisco e versavano allo stesso le imposte sul reddito dovute dai veri contribuenti, le persone fisiche, in quanto soltanto queste ricevevano i vantaggi prodotti dall’attività dello Stato e sopportavano i sacrifici del pagamento delle imposte. La conseguenza di questa teoria era che, l’imposta autonoma sulle società dava luogo a duplicazione dell’imposizione dello stesso reddito, prima presso la società e poi presso i soci. Un’altra teoria, più moderna rispetto alla precedente, anticipata dal Griziotti (Napolitano, 1955) e da Vanoni (Vanoni, 1943) e poi ripresa dal Forte (Forte, 1954) riteneva che le società e gli altri enti collettivi, oltre che essere forniti di personalità giuridica avevano anche un’autonomia economica patrimoniale ed amministrativa: questo giustificava quindi un’autonoma imposizione del loro reddito e del loro patrimonio, senza portare ad una duplicazione rispetto ai tributi applicati ai soci. Anche se sarebbe stato corretto considerare la vita delle società 108 ponendola sullo stesso piano di quella delle persone fisiche era in ogni caso pacifico che esse costituissero delle entità capaci di operare nei rapporti con il mondo esterno e artefici del processo produttivo: come tali usufruivano anch’esse dei vantaggi offerti dall’ordinamento statale. Le quote dei soci si separavano dal patrimonio e si fondevano presso le società, divenendo un tutt’uno di proprietà dell’ente collettivo, il quale era titolare di diritti ed assumeva obblighi rispondendo con il proprio patrimonio. I soci perdevano rilevanza e la società assumeva autonomia nella sfera giuridica agendo tramite i propri organi. Nella Relazione della V Commissione Finanze e Tesoro del Senato (Asia, 1954), si affermava che l’ordinamento tributario si orientava secondo l’ordinamento giuridico, che riconosceva la personalità giuridica alla società di capitali. Il fondamento economico-finanziario dell’imposta si basava quindi sulla considerazione che la società aveva una propria forza economica diversa e maggiore dalla somma delle forze apportate dai soci. La società ha propri fini, una propria responsabilità economica, maggiori possibilità di finanziamento e una vita diversa da quella dei soci. Essa non ha solo il compito di produrre e distribuire redditi ai soci, ma anche quello di acquisire una potenza economica ed una capacità finanziaria sufficienti per realizzare lo scopo che essa si prefiggeva, portando anche a situazioni in cui gli utili accantonati dalla società superavano quelli distribuiti tra i soci. Le società di capitali, ricevevano dallo Stato vantaggi particolari e generali, quali la protezione, la limitazione delle responsabilità, che erano propri della persona collettiva e diversi e indipendenti dai vantaggi di cui godevano le persone fisiche che costituivano la società. Inoltre il profitto di queste società, rispetto al reddito delle persone fisiche, era più duraturo e realizzato con meno rischi. Infine l’imposta aveva, dal punto di vista politico e sociale, il fine di 109 controllare l’espansione economica delle società di capitali e il loro potere che avrebbe potuto portare a ostacolare i fini che Stato si era posto. Si volevano frenare i ricorsi alla forma societaria e provocare l’eliminazione di quelle società così dette di comodo, nate sotto forma di società di capitali non per motivi strettamente economici e finanziari, ma per opporre in alcuni casi, una legittima difesa all’insopportabilità di determinati tributi che gravavano su di loro. Altro motivo giustificativo, non avente uno scopo fiscale, era il richiamo ai sistemi tributari di altri Stati, nei quali trovava già posto l’imposizione speciale sulle società di capitali ed ai quali quindi l’ordinamento tributario italiano si voleva uniformare. 5.3.2 Lineamenti del nuovo tributo La normativa sull’imposizione del reddito delle persone giuridiche in Italia ha avuto, tutto sommato, uno sviluppo lineare. La L. n. 588 del 21 aprile 1861 aveva istituito un’imposta sulle società anonime e in accomandita per azioni, e la L. n. 4480 del 19 luglio 1869, un’imposta di negoziazione per titoli, per la quale il valore effettivo dei titoli era sostituito al capitale nominale. Si dovette attendere quindi fino al 1954 per potersi parlare di un’imposta personale e specifica sulle società di capitali. La legge si componeva di sei titoli: − Imposta sulle società; − Imposta sulle obbligazioni; − Termini per le dichiarazioni unica delle società ed enti; − Disposizioni comuni ai titoli precedenti e disposizioni transitorie; − Modificazioni in materia di imposte indirette sugli affari; 110 − Disposizioni finali. La nuova imposta aveva carattere personale o propriamente soggettivo. L’ambito di applicazione, come si desume, infatti, dall’articolo 1, riguardava alcuni soggetti specificatamente indicati dalla legge e non un oggetto imponibile come il reddito, il patrimonio o il capitale: tali soggetti sono gli enti e le società tenuti a presentare il bilancio o il rendiconto a corredo della dichiarazione dei redditi37. Non rientravano fra gli enti con struttura di società di capitali le società cooperative e le mutue assicuratrici e quelle società che non avevano carattere economico produttivo (ad es. enti di ricerca o di istruzione); erano invece perfettamente ammissibili, data la loro struttura, gli istituiti di credito. Il nuovo tributo era poi commisurato sia al patrimonio che al reddito: si deve però rilevare, come si legge nella Relazione Ministeriale che ha presentato il progetto di legge (Asia, 1954), che non si trattava di due imposte distinte, ma di un unico prelievo su due basi imponibili (reddito e patrimonio), che erano l’uno in funzione dell’altro e si integravano a vicenda. Il prelievo sul capitale aveva una funzione surrogatoria dell’imposta di registrazione e sostitutiva delle cessate imposte di negoziazione, sul capitale delle società estere e di manomorta, incidendo quindi non solo sulle società italiane ma anche su quelle straniere; quello sul reddito aveva invece funzione sostitutiva dell’imposta complementare progressiva sul reddito, in quanto assolveva, nell’ambito delle persone giuridiche, la stessa funzione che l’imposta progressiva personale assolveva nell’ambito delle persone fisiche. Le aliquote erano relativamente miti, pari allo 0,75 per cento sul patrimonio e al 15 per cento sul 37 Articolo 8, secondo comma, DPR 5 luglio 1591, Teso Unico delle norme sulla dichiarazione unica annuale dei redditi. 111 reddito eccedente il 6 per cento del patrimonio, quindi mentre il patrimonio era integralmente assoggettabile al tributo, il reddito lo era solo per la parte che eccedeva il 6 per cento del patrimonio imponibile. Era previsto un gettito di 30-60 miliardi (Forte, 1954), cifra abbastanza notevole, se si considera quello che era allora il gettito delle imposte dirette. Il sistema di accertamento e di riscossione presentava alcune novità rispetto a quello applicabile alle imposte dirette; l’azione della Finanza, in queste fasi, aveva carattere sussidiario ed eventuale, in quanto si concentrava in un secondo momento. Le norme che concernevano i termini per le dichiarazioni e l’imposizione ad esercizio finanziario, stabilite per le società e gli enti tassabili in base al bilancio, si applicavano all’imposta sulle società così come le norme riguardanti le infrazioni e le penalità. All’imposta commisurata al reddito e al patrimonio si integrava un’imposta sulle obbligazioni che sostituiva la precedente imposta di negoziazione. Questa tripartizione dell’imposta (reddito-patrimonio-obbligazioni) evitava l’evasione mediante la manovra del patrimonio e del capitale obbligazionario. Anche quest’imposta obbligazionaria si integrava reciprocamente con quella sul reddito. Le tre imposte erano quindi integrative l’una dell’altra perché tutte e tre avevano lo stesso scopo: quello di colpire la capacità contributiva delle società, eliminando le possibilità di elusione. Il meccanismo previsto era informato a criteri di automaticità, senza difficoltà per gli uffici, fondandosi su una base imponibile, il valore patrimoniale dell’impresa, già accolto dall’imposta di negoziazione e quindi in grado di interferire meno con l’attività del mercato e delle aziende. 112 5.4 Le novità della norma 5.4.1 La contemporanea imposizione sul capitale e sul reddito. La caratteristica più evidente della nuova imposta era quella di arrivare a interrompere l’interesse dei contribuenti a falsare l’equilibrio del bilancio, con spostamenti dal capitale al reddito o viceversa. La legge, tassando sia il patrimonio che il reddito, portava ad un punto nel quale il contribuente non aveva convenienza a mantenere il capitale a un livello ridotto o a gonfiarlo in modo artificiale. Lo scopo che si voleva raggiungere era quello di avere un bilancio chiaro, preciso e veritiero, sia nell’interesse del fisco sia in quello degli stessi soci. Tramite quindi la nuova imposizione tributaria sulle società di capitali, si arrivava a riprendere la strada già percorsa dalla legge istitutiva della dichiarazione unica annuale del 1951 di Vanoni, volta a recuperare, attraverso la collaborazione attiva del contribuente, la semplificazione, la moralizzazione e la reciproca fiducia nell’attività tributaria del paese. La legge del 1954 stabiliva distintamente quali erano sia il patrimonio che il reddito imponibile. Si poteva parlare di un’imposta sul patrimonio ma nella Relazione Ministeriale si legge: “L’imposta pur essendo basata per una parte sul patrimonio, non è un’imposta patrimoniale, ma rimane pur sempre un’imposta ordinaria sul reddito, commisurata semplicemente al patrimonio, così come lo era l’imposta ordinaria sul patrimonio del 1939” (Asia, 1954). Anche nel caso di reddito negativo le società e gli altri enti soggetti alla nuova tassazione, erano tenuti a corrispondere il tributo commisurato al patrimonio, in seguito al fatto che l’imposta sulle società aveva, fra l’altro, funzione surrogatoria dell’imposta di registrazione, in luogo della cessata imposta 113 di negoziazione, ed era dovuta per ciascun esercizio finanziario sulla base dei risultati dei bilanci chiusi nel corso dell’esercizio stesso. L’onere era moderato per le imprese che in un determinato esercizio chiudevano il bilancio in perdita e tale moderazione aumentava man mano che cresceva la perdita, così come si accresceva, invece, per le imprese con maggiore redditività. Come si è già rilevato precedentemente, si trattava comunque di un solo tributo, seppure fondato su due basi imponibili, colpendo il reddito complessivo della società: anche la parte dell’imposta rapportata al patrimonio alla fine colpiva, in effetti, il reddito complessivo, entro il limite del 6 per cento del patrimonio imponibile. In conformità a questa caratteristica poteva affermarsi che, nei limiti di una redditività del 6 per cento, il tributo colpiva il reddito con un’aliquota del 12,50 per cento, mentre nel caso di redditività superiore al 6 per cento, l’imposta, nel suo complesso (la parte commisurata al patrimonio più la parte commisurata al reddito), si avvicinava ad un’aliquota del 16 per cento (Poli, 1955). Si può fare l’esempio di un patrimonio imponibile pari a 10.000 ed un reddito complessivo di 1.000, maggiore quindi del 6 per cento del primo. La parte di tributo commisurata al patrimonio era di 75 (10.000 per 0,0075), mentre la parte di tributo relativa al reddito eccedente il 6 per cento del patrimonio imponibile, pari a 400 (1.000- 6 per cento di 10.000), ammontava a 60 (400 per 0,15): il tributo complessivo era di 135. Se invece si fosse avuto un patrimonio sempre pari a 10.000 ma con un reddito inferiore al 6 per cento del patrimonio imponibile, il tributo commisurato al patrimonio determinava un’imposta sulle società pari a 75. 114 5.4.2 L’imposta sulle obbligazioni L’imposta di negoziazione38 trovava la sua giustificazione, e quindi il suo requisito essenziale, nella possibilità di negoziazione, gravando sulle azioni, le quote, le cartelle, le obbligazioni e qualsiasi altro titolo, purché cedibile con effetto verso l’ente o la società emittente. Abolendo questo tributo, nella nuova imposta sulle società trovavano una regolamentazione le azioni e le quote ma era ovvio che si volesse considerare anche le obbligazioni, le cartelle e gli altri titoli di credito per i quali quindi fu disposta l’imposta sulle obbligazioni, sostitutiva di quella di negoziazione e con due differenze rispetto a quest’ultima: la misura dell’aliquota e le modalità di applicazione che rientravano nel sistema applicato con l’imposta sul patrimonio e sul reddito delle società. Tale tributo, che si applicava nella misura del 5 per mille, doveva essere corrisposto, oltre che dalle società tenute al pagamento dell’imposta bivalente, anche dalle cooperative che invece erano esenti dalla tassazione sul reddito e sul patrimonio. 5.5 Le critiche generali alla nuova imposta: la costituzionalità del tributo La nuova imposta, sul reddito e sul patrimonio, arrivava a colpire unicamente ed esclusivamente le aziende gestite sotto forma di società o di enti collettivi. La stessa azienda, quindi, che era gestita da un’impresa individuale e per tanto era esente dai due tributi, veniva ad essere assoggettata alla nuova imposta se, per qualsiasi ragione cambiava forma giuridica e, da impresa 38 Soppressa con effetto dal primo gennaio 1954 ad opera dell’imposta sulle società. 115 personale, diveniva impresa di capitali: società per azioni, in accomandita per azioni, a responsabilità limitata, etc.. Dal punto di vista costituzionale era però possibile istituire tributi speciali a carico di questa o quella categoria di contribuenti? La Costituzione stabilisce all’articolo 53, alla cui redazione come si è già ricordato ha partecipato lo stesso Vanoni39, che tutti i cittadini “sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”: questo però non necessariamente significa che a pari capacità contributiva ci sia una assoluta parità di trattamento, di tutti i soggetti, in rapporto ad ogni tributo. Allo stesso tempo, se la pressione tributaria complessiva deve adeguarsi alla capacità contributiva di ogni contribuente, non si può arrivare ad imporre un peso speciale ad una categoria di contribuenti se non in presenza di due elementi: che tale categoria di contribuenti abbia una maggiore capacità contributiva rispetto alle altre o che a parità di capacità contributiva essa debba avere un trattamento fiscale agevolato. La Relazione che accompagnò il disegno di legge (Asia, 1954), giustificò il nuovo tributo sulla base del secondo punto, sostenendo che il sistema tributario italiano operava una discriminazione di trattamento a svantaggio delle ditte individuali e che per correggere una tale sperequazione, era necessaria l’istituzione di questa nuova tassazione sulle società e gli enti tassati in base al bilancio. Varie furono in ogni caso le critiche alla nuova legge, sia dal punto di vista della struttura che dei contenuti. Rileggendo la motivazione della Relazione al disegno di legge appena citata, si sosteneva che il preteso vantaggio fiscale di cui 39 Vedi capitolo terzo. 116 si parlava, nella realtà non sussisteva, almeno nella maggior parte dei casi. Anche se fosse stato dimostrato che l’ordinamento tributario consentiva ai soci delle società di capitali di sottrarsi completamente all’imposta complementare per quella parte degli utili che non era distribuita, si poteva dubitare del fondamento logico del ragionamento cui si ricorreva per arrivare alla conseguenza che la disparità di trattamento andasse sanata colpendo con una nuova imposta le società. Si sosteneva invece che, in base alla dottrina e alle esigenze della vita economica, fosse più logico estendere anche alle imprese individuali il vantaggio di cui godevano, o sembrava godessero i soci di quelle collettive, permettendogli di detrarre dal reddito imponibile quella parte di utili reinvestiti nell’azienda. Altre critiche furono mosse nei confronti del fatto che la legge aveva effetto retroattivo: essa era stata infatti promulgata il 6 agosto 1954 ma la decorrenza del tributo era fatta risalire al primo gennaio di quell’anno, generando notevoli disagi in seno alle stesse società per quel che concerneva soprattutto la dichiarazione ai fini dell’imposta (Asia, 1954). Le maggiori contestazioni si ebbero però riguardo al fatto che la nuova legge arrivasse a pregiudicare le piccole società che non avevano scelto la forma di società personali, sia per necessità strutturali, sia per evitare, specie in alcuni settori dei servizi pubblici, un accumularsi di responsabilità troppo grandi che avrebbero schiacciato ogni possibilità di iniziativa. Queste piccole aziende avevano capitali iniziali limitati e necessitavano quindi d’aliquote utili per potere assicurare la vitalità dell’impresa e l’espansione dell’attività: si sosteneva che, proprio questa nuova tassazione, colpendo con un’aliquota del 15 per cento la quota di utile che superava il 6 per cento del patrimonio, arrivava in sostanza a privare queste aziende della possibilità di ampliarsi (Società per lo studio dei 117 problemi fiscali, 1955). Il reddito di queste piccole imprese era, infatti, relativamente alto, non solo perché il patrimonio era abbastanza esiguo ma, soprattutto perché ad esso era incorporato il compenso che spettava al titolare dell’azienda stessa per il lavoro da lui prestato a questa, nel corso di tutto l’anno. Con la nuova imposta si era voluto colpire un solo settore, al posto di tutti i contribuenti, trovando più comodo congegnare un’imposizione che, colpendo con una determinata aliquota, assicurava già in partenza, in base a dati statistici di pubblico dominio, quelle decine di miliardi che si volevano ad ogni costo realizzare dopo avere approvato spese che gravavano sullo Stato in misura maggiore rispetto alle possibilità del bilancio. Colpendo però le società azionarie alla fine si arrivava a colpire anche i medi e piccoli risparmiatori che avevano investito i propri averi nelle medesime società: il Governo aveva comunque raggiunto il suo scopo di realizzare maggiori introiti necessari per fronteggiare le maggiori spese. 5.6 L’imposta sulle società: il secondo tempo della riforma Nonostante queste critiche, emerse non soltanto negli ambienti economici ma anche in quelli politici, possiamo considerare che questo nuovo provvedimento ha rappresentato una svolta molto importante, anzi possiamo ricordare che “ Parecchie critiche alla struttura del nuovo tributo si collocano in secondo piano, ove si consideri che esso rappresenta un primo (meritato) passo, in un ambito irto di difficoltà” (Forte, 1954). La nuova legge era importante non solo per la nuova regolamentazione che era offerta alle società dal punto di vista della loro tassazione, ma era importante in quanto continuatrice della riforma del 118 sistema tributario italiano, iniziata nel 1951 ad opera di Vanoni e che fino ad allora era stata limitata ai contribuenti individuali: infatti, come Vanoni stesso rilevò più volte la sua riforma avrebbe necessitato di parecchi anni per svilupparsi, ampliarsi e produrre effetti positivi, e la stessa legge sulla perequazione tributaria del 1951 rappresentava solo l’inizio e la base per i successivi provvedimenti, tra cui appunto possiamo includere l’imposta sulle società, che avrebbero portato alla riforma definitiva. Seppure Vanoni non partecipò in prima persona alla redazione di questa legge, in essa è possibile in ogni caso cogliere numerosi elementi che comunque riconducono allo statista: fu lui, al Ministero delle Finanze, infatti, a cominciare a porre le basi di questo nuovo tributo che alla fine può essere considerato come facente parte di una sorta di secondo tempo della riforma tributaria dopo di quella che si era avuta nel 1951 con la citata legge di perequazione tributaria. 119 BIBLIOGRAFIA GENERALE − Ambrosini G., 1975, Costituzione italiana, Torino, Piccola Biblioteca Einaudi Testi. − Asia, Associazione fra le società italiane per azioni, 1954, L’imposta sulle società, Roma. − Asia, Associazione fra le società italiane per azioni, 1956, La perequazione tributaria, Vol. I, Roma. − Associazione nazionale tributaristi italiani, Sezione Lombardia, 2000, Atti del convegno ANTI, Attualità del pensiero di Ezio Vanoni, Milano. − Banca Popolare di Sondrio, 2003, “Ezio Vanoni e lo sviluppo italiano” Sondrio, in Notiziario Banca popolare di Sondrio, N. 93, pag. 4-13. − Buzzetti G., 1951, Perequazione tributaria e rilevamento fiscale straordinario, Milano, Dott. 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