ezio vanoni e la riforma tributaria in italia

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ezio vanoni e la riforma tributaria in italia
WORKING PAPER
No 325
settembre 2004
EZIO VANONI E LA RIFORMA TRIBUTARIA IN ITALIA
CRISTINA AMBROSETTI
JEL CLASSIFICATION: H3 - N4
KEYWORDS: Ezio Vanoni – Politica fiscale
società italiana di economia pubblica
dipartimento di economia pubblica e territoriale – università di Pavia
EZIO VANONI E LA RIFORMA TRIBUTARIA IN ITALIA
di
Cristina Ambrosetti
Abstract
This essay presents an outline of the life, the scientific work and the political action
of Ezio Vanoni, one of the great statesmen who carried on the rebuilding of Italy after
the Second World War. A distinctive feature of Vanoni’s character was the copresence of deep ideological motivations, a strong scientific background and a
peculiar political ability inside a single personality. The essay tries always to hold
this feature in hand. The not easy life of Vanoni during the fascist era is depicted
firstly. Then his research work inside the so called “Pavia’s school” is analyzed. The
discussion of Vanoni’s contributions both to the democratic after-war Italian
Constitution and to the reform of the tax system concludes the essay.
JEL Classification Numbers: H11, H24, H25
Key words: Ezio Vanoni, Italian Constitution, Italian tax reforms in the ‘50s
E-mail Address: [email protected]
Dipartimento di Economia Pubblica e Territoriale
Università di Pavia - Luglio 2004
Presentazione
Commemorando Vanoni nel volume celebrativo del IV Centenario del Collegio
Ghislieri di Pavia, nel 1967, F. Forte ha scritto:
“I giovani di questa e delle future generazioni leggendo di Vanoni
sentiranno che la sorte di generare uomini di grande statura, la cui vastità di
visione politica e la cui forza morale suscitano ammirazione e orgoglio patrio –
nella nostra epoca – non è toccata solo all’Inghilterra con Winston Churchill o
agli Stati Uniti con John Fitzgeral Kennedy. Perché, in verità, basterebbe
soltanto la morte epica di Ezio Vanoni, nel febbraio 1956 in Senato, (…)
sapendo di avere pagato con la propria vita la possibilità di dare al paese un
bilancio di stabilità e sviluppo, per assegnare a lui, così schivo di ogni forma di
esibizione e di retorica, un posto scintillante nella storia”.
Sia pure nei limiti di testo che è nato da una tesi di laurea, nelle pagine che
seguono si offrono ai “giovani di questa e delle future generazioni” le
informazioni adeguate per avvicinare questa figura della storia politica e degli
studi di finanza pubblica italiani, così straordinaria e tuttavia così poco
conosciuta, e per compararla alla generalità della classe politica attuale, non
solo italiana.
Luigi Bernardi
IINDICE
CAPITOLO PRIMO
INTRODUZIONE, SINTESI E CONCLUSIONI
Pag.
1.1 Introduzione ______________________________________________ 9
1.2 Sintesi _________________________________________________ 10
1.3 Conclusioni ______________________________________________ 13
CAPITOLO SECONDO
LA VITA E LE OPERE
Pag.
2.1 La formazione culturale
2.1.1 L’infanzia a Morbegno ____________________________ 15
2.1.2 L’università _____________________________________ 17
2.1.3 La prima opera __________________________________ 19
2.1.4 L’esperienza in Germania __________________________ 21
2.1.5 La pubblicazione della tesi di laurea _________________ 23
2.2 La carriera accademica
2.2.1 Le prime delusioni ________________________________ 25
2.2.2 Vanoni professore a Roma _________________________ 26
2.2.3 Il ritorno agli studi finanziari _______________________ 28
Pag.
2.3 L’impegno sociale e politico
2.3.1 Il Codice di Camaldoli ____________________________ 31
2.3.2 L’ingresso in politica di Vanoni _____________________ 35
2.4 Vanoni Ministro
2.4.1 La riforma tributaria ______________________________ 39
2.4.2 Il Piano Vanoni __________________________________ 41
CRONOLOGIA _____________________________________________ 44
CAPITOLO TERZO
IL CONTRIBUTO DI EZIO VANONI ALLA FORMAZIONE DELLA
COSTITUZIONE
Pag.
3.1 Vanoni alla Costituente ____________________________________ 48
3.2 L’elaborazione del progetto costituzionale
3.2.1 La copertura finanziaria degli impegni di spesa ________ 51
3.2.2 L’ordinamento regionale ___________________________ 53
3.2.3 Il contenzioso tributario ___________________________ 58
3.2.4 La posizione del Primo ministro _____________________ 60
3.3 Il principio di capacità contributiva e la riserva di legge
3.3.1 L’articolo 53 della Costituzione _____________________ 61
3.3.2 L’articolo 23 della Costituzione _____________________ 65
CAPITOLO QUARTO
LA RIFORMA TRIBUTARIA DEL 195I
Pag.
4.1 Il sistema tributario della fine degli anni ‘40
4.1.1 Aspetti generali __________________________________ 68
4.1.2 L’evasione fiscale ________________________________ 72
4.1.3 La personalizzazione delle imposte ___________________ 74
4.2 La riforma tributaria del 1951
4.2.1 Generalità della riforma ___________________________ 75
4.2.2 La legge sulla perequazione tributaria ________________ 77
4.3 La dichiarazione dei redditi
4.3.1 La disciplina giuridica ____________________________ 80
4.3.2 Contenuto della dichiarazione ______________________ 81
4.3.3 Scopo della dichiarazione dei redditi _________________ 84
4.3.4 Critiche all’introduzione della dichiarazione annuale____ 86
4.4 Altro contenuto della legge di perequazione
4.4.1 Rilevamento fiscale straordinario ____________________ 88
4.4.2 La sistemazione di situazione irregolari del passato _____ 90
4.4.3 Imposte dirette ___________________________________ 91
4.4.4 Finanza locale ___________________________________ 95
4.5 Riordinamento e rafforzamento dell’organizzazione finanziaria ____ 97
4.6 Risultati ottenuti dalla riforma tributaria _______________________ 99
CAPITOLO QUINTO
L’IMPOSTA SULLE SOCIETÀ
Pag.
5.1 L’imposizione delle società: premessa________________________ 103
5.2 L’imposta sul reddito delle società e gli utili non distribuiti__________ 105
5.3 L’imposta sulle società del 1954
5.3.1 Personalità giuridica e capacità contributiva ____________ 107
5.3.2 Lineamenti del nuovo tributo_______________________ 110
5.4 Le novità della norma
5.4.1 La contemporanea imposizione sul capitale e sul reddito 113
5.4.2 L’imposta sulle obbligazioni _________________________ 115
5.5 Le critiche generali alla nuova imposta: costituzionalità del tributo ____ 115
5.6 L’imposta sulle società: il secondo tempo della riforma_____________ 118
Pag.
BIBLIOGRAFIA GENERALE ___________________________________ 120
SCRITTI DI EZIO VANONI ____________________________________ 126
INDICE DELLE TABELLE
Pag.
TAB. 1: Governi italiani nella prima legislatura ______________________ 39
TAB. 2: Entrate tributarie dal 1938-39 al 1950-51 _____________________ 71
TAB. 3: Variazioni dell’aliquota dell’imposta complementare dal
1940 al 1951____________________________________________ 94
TAB. 4: Bilanci statali dal 1948-49 al 1952-53 ______________________ 100
TAB. 5: Pressione tributaria (Contribuente di categoria B con 2 figli a carico) _____101
TAB. 6: Pressione tributaria (Contribuente di categoria C/2 con 2 figli a carico) ____101
CAPITOLO PRIMO
INTRODUZIONE, SINTESI E CONCLUSIONI
1.1 Introduzione
Ezio Vanoni è stato un personaggio di grande rilievo per la Scienza delle
finanze e per la storia sia politica che economica italiane nonostante credo che
oggi non siano molti, anche nella natia Valtellina, a conoscere effettivamente la
reale portata di tutta la sua azione umana, scientifica e politica: il suo nome lo lega
principalmente al ricordo di colui che ha “inventato” la dichiarazione dei redditi.
Nel corso di tutta la sua attività politica, dal 1943 al 1956, e anche negli anni
precedenti dedicati allo studio e all’insegnamento, egli rimase sempre legato
fortemente a ideali di impronta cristiana, che trasfuse in tutte le sue azioni,
rappresentando un raro esempio di economista cattolico impegnato in politica.
La sua elaborazione e le sue scelte furono sempre influenzate dagli ambienti
in cui si formò e dalle persone con cui condivise le più importanti esperienze
Questo testo riprende ed estende il mio lavoro di Laurea in Giurisprudenza a Pavia, che la
Commissione ha molto apprezzato, invitandomi ad approfondirlo e diffonderlo. Ringrazio il prof.
Luigi Bernardi, per i suoi numerosi commenti e suggerimenti.
9
politico-culturali: la Valtellina, ad esempio, o l’incontro con personaggi come
Griziotti, Saraceno e De Gasperi. Il punto di arrivo delle sue convinzioni umane e
scientifiche, trasfuse nell’azione politica di grande statista, fu soprattutto
rappresentato dalla riforma tributaria del 1951 e dallo Schema Vanoni del 1956.
Questa tesi si basa soprattutto su quello che è stato il suo apporto alla
riforma tributaria che ha avuto il suo culmine, come detto, nel 1951, con la “legge
di perequazione”, e che è proseguita negli anni seguenti con successivi
provvedimenti tra cui, principalmente, l’introduzione dell’imposta personale sulle
società del 1954. Le idee sottostanti erano già state anticipate negli anni
precedenti. Lo statista valtellinese non fu soltanto l’ideatore del “Modulo
Vanoni”,
con
il
quale
i
contribuenti
intrapresero
a
dialogare
con
l’Amministrazione finanziaria, denunciando i propri redditi ai fini dell’imposta
personale e complementare, ma anche il fautore di una giustizia sociale che aveva
come presupposto un’effettiva equità fiscale. I vari momenti della vita di Vanoni,
considerati in questa tesi, sono strettamente legati l’uno all’altro, in quanto parte
di un medesimo disegno di riforma, i cui elementi fondamentali lo statista aveva
già cominciato ad elaborare nei suoi primi scritti. E’ stato quindi importante
considerare, oltre alla letteratura attuale, gran parte della quale è dovuta a studiosi
e politici che hanno avuto un contatto diretto con Vanoni (Forte, Griziotti,
Saraceno, Spini), anche i suoi stessi saggi pubblicati a partire dal 1927.
1.2 Sintesi
L’articolazione della tesi segue quelle che sono state le tappe fondamentali
dell’esistenza di Vanoni e che hanno portato alla riforma tributaria. Nel secondo
10
capitolo ho analizzato la vita del futuro statista, ripercorrendone i momenti
principali: dagli studi, prima a Sondrio poi a Pavia, agli anni dedicati
all’insegnamento universitario, alla collaborazione con i cattolici democristiani
alla redazione del Codice di Camaldoli, fino all’entrata in politica prima come
Ministro delle Finanze e poi del Bilancio.
Si sono poi considerate le sue maggiori opere e i saggi da lui redatti a partire
dal 1927, in numerosi dei quali sono contenuti alcuni elementi fondamentali che
anticipano diversi aspetti ripresi poi nella successiva esperienza politica: già
dall’analisi della vita e delle opere si possono rilevare alcune delle idee di Vanoni,
dal punto di vista economico e politico.
Il capitolo terzo è dedicato alla partecipazione di Vanoni alla redazione della
Costituzione italiana. Questo momento, seppure messo quasi in secondo piano
dalla letteratura, rispetto alla riforma tributaria, è rilevante innanzi tutto per
l’oggetto, la redazione della nostra legge fondamentale, e poi perché anche in
questa sede il pensiero di Vanoni economista e giurista finanziario si è rilevato
importante in relazione alla definizione di vari istituti, come l’ordinamento
regionale, il contenzioso tributario, la posizione del presidente del Consiglio dei
ministri e la copertura finanziaria degli impegni di spesa: tutti questi sono temi di
grande importanza politica e costituzionale, oggetto per lunghi anni di ampie
discussioni scientifiche e politiche. Si è poi ritenuto importante analizzare anche
la redazione di altri due articoli della Costituzione, il 23 e il 53, legati anch’essi al
contributo di Vanoni in quanto vi sono contenuti il principio di legalità e quello
relativo alla capacità contributiva, principi che, come detto, possiamo ritrovare
negli studi di Vanoni, nella sua riforma del 1951 e poi anche nell’imposta sulle
società del 1954.
11
Il quarto capitolo è quello centrale, in quanto prende in considerazione la
legge di perequazione n. 25 del 1951, cardine della riforma tributaria voluta da
Vanoni. Il 10 ottobre 1951, infatti, i contribuenti presentarono la prima
dichiarazione dei redditi: in un paese abituato ad evadere le tasse si trattava di una
vera rivoluzione. Con questa legge e con altri successivi provvedimenti, Vanoni
volle modificare totalmente il rapporto fisco-contribuente, cercando di
raggiungere, tramite la nuova dichiarazione, una collaborazione e una reciproca
fiducia che fino allora non si erano mai avute. Lo scopo era quello di realizzare
prima che una riforma fiscale una vera e propria riforma etica, offrendo ai
cittadini la disponibilità di un’Amministrazione giusta, affinché ciascuno sentisse
legittima e moralmente doverosa la propria partecipazione all’adempimento
tributario. Integrativi a questa legge, il cui contenuto fondamentale è appunto la
dichiarazione unica annuale ed obbligatoria dei redditi, vi è stata poi una serie di
provvedimenti volti al perseguimento di un sistema tributario moderno e una
maggiore
giustizia
fiscale,
tramite
un
intervento
nell’organizzazione
dell’Amministrazione finanziaria, degli uffici e del personale.
A completamento della riforma è infine stata introdotta l’imposta personale
sulle società del 1954: fu proprio lo stesso Vanoni a porre le basi di questo nuovo
tributo, quando era ancora al Ministero delle finanze. La nuova legge rappresenta
una continuazione della riforma tributaria iniziata nel 1951, e fornisce una
regolamentazione nuova della tassazione delle società di capitali fondata sulla
capacità contributiva e sulla personalità giuridica di esse, che Vanoni aveva
ancora una volta anticipato anni prima, in un saggio del 1943. La nuova imposta
era importante perché parificava, dal punto di vista tributario, le società di persone
a quelle di capitali, offrendo una nuova regolamentazione al pari di quella già
12
adottata da altri stati esteri: tramite questo provvedimento si tendeva ancora una
volta a perseguire l’obiettivo della giustizia fiscale, scopo principale dell’azione di
Vanoni.
1.3 Conclusioni
Tutta la vita di Ezio Vanoni e il suo operato, sono quindi sempre stati
segnati da un filo conduttore che si era originato già in età giovanile dalle
convinzioni religiose e dalle esperienze umane che visse direttamente: questi
elementi influenzarono i suoi ideali e i suoi obiettivi umani e politici. Analizzando
la vita e le varie fasi della riforma tributaria dello statista valtellinese, si può
costatare la coerenza del suo pensiero, volta al perseguimento di una concezione
dell’interesse pubblico, permeata dagli ideali della giustizia sociale. Lo stesso
concetto di capacità contributiva, fondamentale per realizzare l’equità sociale, si
ritrova costantemente: nell’analisi delle opere e dei saggi da lui scritti, nella
partecipazione alla “Commissione dei 75”, a fondamento della riforma tributaria e
poi come concetto base da cui si è originata l’imposta sulle società del 1954.
Quanto Vanoni ha cercato di realizzare era anche la modernizzazione del
sistema economico e sociale tramite un nuovo ruolo dello Stato. Al di là delle
competenze istituzionali che gli furono affidate, lo statista ebbe, infatti, un ruolo
di grande rilievo nell’elaborazione di tutti i più importanti provvedimenti della
politica economica di quegli anni: Vanoni voleva poi in specie, e per il tramite
della sua riforma, rendere l’Italia una nazione veramente moderna e giusta, al pari
con le nazioni più progredite d’Europa. La riforma tributaria non è quindi solo
quella che si è avuta con i provvedimenti del 1951, ma rappresenta un percorso
13
che ha origine già nei primi scritti scientifici di Vanoni, nella partecipazione alla
redazione della Costituzione e continua poi anche negli anni seguenti con la nuova
tassazione delle società di capitali.
Tutte queste sono state tappe importanti della nostra storia politica ed
economica, a cui Vanoni ha partecipato impegnandosi a diffondere al massimo il
benessere, attraverso riforme che avevano il fine primario di soddisfare i bisogni
sociali. L’obiettivo essenziale di tutta la sua azione politica e la meta ultima di
tutto il suo pensiero, era la costruzione di uno Stato moderno, adeguato al grado di
sviluppo economico che aveva ormai raggiunto il nostro paese, in grado di
rispondere efficacemente alle esigenze dei cittadini, di tutelare e fare prevalere i
loro interessi generali e diffusi.
In conclusione, nella figura e nell’opera di Vanoni, possiamo quindi vedere
una personalità scientifica articolata ma unitaria, in cui tutte le evoluzioni di
pensiero furono il frutto di una meditazione profonda e mai di motivi di interessi
politici immediati. Infine in tutta la sua opera sono presenti elementi
estremamente attuali ed attuabili, che dovrebbero essere di ispirazione per tutti
coloro che sono chiamati ad amministrare l’economia ed il sistema fiscale del
nostro paese.
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CAPITOLO SECONDO
LA VITA E LE OPERE
2.1 La formazione culturale
2.1.1 L’infanzia a Morbegno
Ezio Vanoni, primogenito di quattro figli, nacque a Morbegno (Sondrio), il
3 Agosto 1903, da una famiglia appartenente alla media borghesia locale. La sua
prima educazione politica, fondamentale nel corso poi di tutta la vita, può
senz’altro attribuirsi proprio all’ambiente sociale ed economico della Valtellina,
da cui Vanoni trasse influenze e motivi di riflessione, che diedero un contributo
profondo alla sua formazione. Morbegno, in particolare, era uno dei comuni
valtellinesi già da allora più attivi, nel quale erano rappresentate quasi tutte le
diverse classi sociali della provincia: piccoli contadini coltivatori diretti,
artigiani, commercianti, alcuni impiegati degli uffici del governo addetti alle
imposte e alla Pretura, una decina tra avvocati, notai, ingegneri oltre ad un
modesto numero d’insegnanti.
15
Teobaldo Vanoni e Luigia Samaden, padre e madre di Ezio Vanoni, non
erano certo ricchi, ma potevano dirsi fortunati in quanto avevano una buona
occupazione che garantiva loro uno stipendio in grado di mantenere un decoro di
vita di cui molti altri, nella poverissima Valtellina di allora, non potevano godere.
Il padre era geometra e segretario comunale a San Martino Val Masino, un paese
di montagna, distante una ventina di chilometri da Morbegno; la madre, maestra
elementare, si divideva instancabilmente tra l’attenzione ai figli, di cui curò in
modo particolare la formazione morale, le cure della casa e la collaborazione con
il marito. Entrambi i genitori si prodigarono con ogni sacrificio per educare i
quattro figli e per farli studiare. Infatti, fecero conseguire a tutti un titolo
professionale che, a quel tempo, in Valtellina non era cosa da poco, potendosi
permettere di proseguire gli studi solo chi apparteneva a famiglie benestanti.
L’attività paterna di segretario comunale di San Martino fu per Vanoni
molto importante, in quanto in quel comune, durante l’infanzia, trascorse molto
tempo, presso la casa della balia, dove seguiva tutte le abitudini contadine di
quella famiglia e continuando poi, in età adolescenziale, ad accompagnare il padre
al lavoro quando era libero dagli impegni scolastici. In quelle occasioni cominciò
a capire il sacrificio di chi vive in montagna, un modo di vivere duro, severo,
senza riposo, non proprio dei soli contadini della Val Masino ma di tutta la
Valtellina. Vanoni ricorderà molte volte, nel corso soprattutto della sua attività di
governo, la condizione di disagio della Val Masino, assieme a Tartano, altro
piccolo comune montano valtellinese, sulla sponda orobica, completamente
isolato dal fondo valle sino agli anni ’60, allorquando la costruzione della strada,
opera fortemente voluta dallo stesso Vanoni, ne rese possibile l’accesso.
16
Rappresentativo in questo senso è il suo ultimo discorso alla Camera,
pronunciato poche ore prima di morire, il 16 febbraio 1956, nel ricordare questi
luoghi, quasi a volerne testimoniare l’importanza assunta nella formazione e nello
sviluppo del suo pensiero economico, politico e sociale: “Ma io non posso mai
dimenticare alcune esperienze della mia vita, quando opero sul terreno
politico…ad esempio, che vi è nella mia provincia un piccolo comune di 1200
abitanti, il quale ancora oggi è collegato con la pianura per mezzo di una
mulattiera, sicché occorrono cinque ore di cammino a piedi per raggiungerlo. E
quando si sale lassù, come io qualche volta ho fatto prima e dopo la mia
vocazione politica…si orienta necessariamente la propria opera, come credo di
aver sempre fatto nella mia vita politica affinché questi 1200 contadini
montanari…abbiano una tranquillità economica ed una speranza in un avvenire
migliore per sé e per i propri figli.” (Vanoni, 1978).
A Morbegno Vanoni frequentò le elementari, ottenendo già ottimi risultati
scolastici, e qui ebbe modo di cominciare a simpatizzare con Pasquale Saraceno,
con cui strinse un’amicizia, divenuta più profonda quando poi Saraceno sposò la
sorella di Vanoni, e che portò ad una collaborazione costante, di cui l’ultimo
episodio si ebbe nella formulazione dello schema decennale di sviluppo
economico, noto ormai col nome di “Piano Vanoni” (Saraceno, 1982).
2.1.2 L’università
Al centro della maturazione politica di Vanoni furono inizialmente gli anni
del collegio nel liceo Piazzi di Sondrio, che divenne poi uno dei licei più
avanzati d’Italia grazie al Ministro della pubblica istruzione di allora, il
17
pedagogista Luigi Credaro1, anche lui valtellinese. L’esperienza della prima
guerra mondiale fu quindi vissuta da Vanoni proprio nel corso di questi anni. La
svolta si ebbe però nel primo dopoguerra, durante il periodo degli studi
universitari a Pavia, da lui trascorsi nel celebre collegio Ghislieri. Fu proprio in
questi anni che Vanoni fece le prime esperienze politiche ed arricchì
notevolmente le sue conoscenze umane e sociali, aderendo al Gruppo studenti
socialisti, in uno dei momenti più delicati della storia italiana di fronte
all’avanzare della dittatura fascista; divenne il capo di questi studenti e diresse la
delegazione partecipante al Comitato d’agitazione, costituito per difendere la
libertà in Italia dopo il delitto Matteotti. Alla base delle azioni di Vanoni di
quegli anni furono la sensibilità per i problemi sociali, la sua vicinanza sul piano
umano ai ceti più umili, la sua intenzione di agire contro i pericoli che
tragicamente incombevano sulla vita del nostro paese per la tutela della libertà e
della giustizia. Questa prima esperienza socialista rappresentò un importante
elemento evolutivo della sua personalità, e fu diretta al tentativo di realizzare
una società nella quale i valori morali del cristianesimo fossero un elemento
fondamentale del progresso e di una libera e ordinata convivenza: tutta la sua
attività politica aspirerà alla “giustizia sociale” necessario fondamento di quella
carità cristiana.
Nella Facoltà di Giurisprudenza, dove s’iscrisse nell’anno accademico
1921/22, ebbe come maestro Benvenuto Griziotti2, il direttore dell’Istituto di
1
Credaro L., (Sondrio 1860-Roma 1939), pedagogista e uomo politico italiano. Deputato al
Parlamento dal 1910 al 1914, fu Ministro della pubblica istruzione e fece approvare alcune
fondamentali leggi per le scuole elementari e medie. Nel 1907 fondò la “Rivista pedagogica”.
2
Griziotti B., economista italiano (1884-1956). Insegnò Diritto finanziario e Scienza delle finanze
a Catania (1914-20), poi a Pavia. Analizzò in particolare la natura del potere fiscale, cercando di
scoprire la causa dell’imposizione ed i principi distributivi del carico fiscale.
18
Finanza dell’Università e della Camera di Commercio, col quale strinse una
forte amicizia e collaborazione che portò, qualche anno dopo, alla costituzione
della “Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze”. Fu durante questi
anni a Pavia che, inoltre, intraprese le prime ricerche e venne definendo il
proprio orientamento di politica economica, che avrebbe trovato una concreta
traduzione nell’azione di governo condotta nel secondo dopoguerra.
2.1.3 La prima opera
Il 25 Luglio 1925 Vanoni si laureò, a pieni voti, con una tesi dal titolo
“Natura e interpretazione delle leggi tributarie” e, a causa dell’affermarsi
totalitario del fascismo che sopprimeva qualsiasi forma d’opposizione e di libera
espressione del pensiero, esaurì anche la vocazione politica sbocciata a Pavia,
dedicandosi totalmente agli studi e alla carriera: furono, infatti, il fascino
dell’insegnamento e il piacere della ricerca a provocare in lui questo improvviso
silenzio politico. Lo stesso Benvenuto Griziotti ricordava quanto fosse forte per
Vanoni il piacere di insegnare: “Non avevo ancora un assistente alla cattedra,
ma Ezio Vanoni già nel terzo anno mi aiutava nelle esercitazioni di Diritto
finanziario del secondo anno. Mi ricordo quanto volentieri gli studenti lo
seguivano e imparavano da lui.” (Griziotti, 1956).
Conseguì poi uno dei premi dell’Istituto Giuridico di Pavia per le
monografie presentate nel corso dell’anno 1924/25 e, più tardi, la sua tesi di
laurea vinse il premio Minguzzio per la migliore dissertazione di Diritto
pubblico nella sessione di laurea del 1925. Divenne, subito dopo, assistente
volontario
dello
stesso
Benvenuto
Griziotti
nell’Istituto
Giuridico
dell’Università di Pavia e, nell’autunno, partì per il servizio militare che fece,
19
come gran parte dei valtellinesi, negli alpini, dapprima come allievo ufficiale a
Verona, poi come sottotenente del 5° reggimento nell’Alto Adige.
Durante l’esperienza militare, Vanoni non smise di dedicarsi allo studio:
infatti, lavorò alla sua prima monografia, che fu poi pubblicata in un’opera
curata da Griziotti nel 1927 con il titolo “La rivalutazione della lira e
l’equilibrio economico” (Vanoni, 1927) e rientrante nel dibattito sulla “quota
novanta”, espressione che si riferiva alla discussione allora in corso sul valore
del cambio in lire della sterlina.
Di una battaglia per “quota novanta” parlò Mussolini nel famoso discorso
di Pesaro, il 18 agosto 1926, quando annunciò di voler difendere la lira sul
mercato dei cambi, procedendo ad una rivalutazione della moneta italiana tale da
ricondurla al livello esistente al momento della presa del potere del fascismo nel
1922 (90 lire per una sterlina, contro le circa 150 necessarie nel 1926).
Attraverso
vari
provvedimenti,
si
giunse
il
21
dicembre
1927
all’istituzionalizzazione di “quota novanta”, con un decreto che fissava la nuova
parità aurea in modo da stabilire un cambio fisso di 19 lire per dollaro e di 92,46
per sterlina e, dato che la valuta di riferimento nell’economia internazionale era
quella inglese, questa linea politica fu appunto definita “quota 90” (De Bernardi,
Guarracino, 1998). Il saggio esaminava quindi le due opposte tendenze di
risanamento monetario dopo un’inflazione, la rivalutazione e la stabilizzazione:
Vanoni scelse, tra queste due, la rivalutazione, accettando la linea del governo
fascista solo a determinate condizioni, quali ad esempio il raggiungimento di un
equilibrio sostanziale del bilancio dello Stato e dei privati, un pareggio stabile
della bilancia internazionale e una capacità dell’economia di reagire alle crisi
d’assestamento dopo gli sconvolgimenti operati dalla guerra. Mancando queste
20
condizioni, per Vanoni, la rivalutazione era un’opera onerosa e inutile,
presupponendo uno stabile equilibrio, economico e sociale, sia all’interno sia
all’esterno.
Il lavoro sulla rivalutazione della lira non passò inosservato: infatti, dopo
una prima delusione, dovuta al ritiro nel concorso al posto d’assistente alla
cattedra di Scienza delle finanze e Diritto finanziario di Pavia, per l’accusa di
avere complottato per imporre al re le dimissioni di Mussolini, il giovane
Vanoni conquistò nel 1926, la borsa di studio Lorenzo Ellero per due anni di
perfezionamento negli studi economici presso l’Università Cattolica del Sacro
Cuore di Milano. Vanoni non portò mai a termine questo biennio, poiché, alla
fine dell’estate del 1928, vinse la borsa di studio biennale della Fondazione
Rockfeller, più impegnativa e consistente di quella alla Cattolica, per studi
all’estero, che dava un vero e proprio stipendio. Fu lo stesso Luigi Einaudi,
rappresentante italiano della fondazione statunitense, ad appoggiare la sua
candidatura su indicazione di Benvenuto Griziotti.
2.1.4 L’esperienza in Germania
Nei due anni vissuti in Germania, presso le Università di Bonn, Berlino, e
Francoforte, anni che coincisero con la caduta della Repubblica di Weimer,
quando Hitler ancora non aveva conquistato il potere, Vanoni ebbe modo di
approfondire gli studi in Scienza delle finanze e in Diritto finanziario,
acquisendo ampie conoscenze, a seguito della profonda riforma tributaria e della
nascita di una ricca letteratura, ispirata dai nuovi criteri legislativi in materia
d’imposta, che aveva interessato la Germania nel 1919. Molti anni dopo,
divenuto deputato nelle file della Democrazia Cristiana, nel suo primo discorso
21
all’Assemblea Costituente, ricorderà proprio questo periodo: “Io ho vissuto in
Germania, dove mi trovavo per i miei studi, durante il periodo successivo
all’inflazione. Ho assistito alla decadenza della classe media tedesca e ho visto
di quali involuzioni ed evoluzioni è stata causa la rovina morale ed economica di
quel ceto” (Vanoni, 1978). Vanoni poté in due anni studiare e riflettere su opere
divenute classiche, approfondire tutti i temi, come il rapporto tra diritto pubblico
e privato, la struttura dell’obbligazione tributaria, impadronirsi di tutta la
letteratura germanica e anche di quella svizzera, acquisendo un’esperienza
fondamentale, che pochissimi in Italia potevano vantare e che avrebbe trovato
riflesso, non solamente negli interventi condotti durante gli anni ’30, ma anche
nell’impostazione concreta della sua azione di governo durante gli anni della
ricostruzione postbellica. Griziotti sosteneva che Vanoni era stato il primo in
Italia a trarre profitto dalla letteratura straniera per arricchire la sua cultura e, a
differenza di altri che si erano limitati ad operare un trasferimento d’idee e
sistemi, lui sottopose questa letteratura ad una critica scientifica da cui partire
per costruire la sua dottrina (Griziotti, 1956).
Rientrato dalla Germania nel 1930, ottenne l’incarico di Scienza delle
finanze e Diritto finanziario alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di
Cagliari, dove rimase come docente fino al 1933. L’anno seguente, il professor
Vanoni aprì poi, con un giovane amico, uno studio legale a Milano, che già da
subito ebbe una numerosa e importante clientela e, il 7 gennaio 1932, si sposò a
Morbegno con Felicita Dell’Oro, anche lei valtellinese, figlia dell’esattore
comunale di Morbegno, con cui si conosceva da sempre e dalla cui unione
nacquero Marina (nel 1933) e Lucia (nel 1934).
22
2.1.5 La pubblicazione della tesi di laurea
Sempre nel 1932, Vanoni pubblicò la tesi di laurea in un volume nella
collana dell’Istituto di Finanza di Pavia edito dalla Cedam, riprendendo il titolo
della tesi stessa “Natura e interpretazione delle leggi tributarie”. In quest’opera,
Vanoni analizzava il travagliato rapporto tra fisco e contribuente dall’epoca
romana fino al ventesimo secolo, che riconduceva al più generale rapporto tra
poteri dello Stato e cittadini. L’analisi partiva dalla causa dell’imposta, che stava
nei benefici della spesa pubblica e nel dovere di solidarietà che sorgeva nel
singolo individuo verso gli altri cittadini. Respingeva la teoria secondo la quale
il tributo è un mero fenomeno di scambio in relazione ai benefici della spesa
pubblica e, quindi, non accettava ad esempio la teoria dell’imposta come
compenso individuale del “fattore di produzione Stato”. Lo Stato, per Vanoni,
appariva come un insieme d’individui che perseguono in collaborazione la
soddisfazione dei bisogni da loro sentiti in qualità di membri del gruppo
politico, aiutandosi reciprocamente, collocandosi uno a fianco dell’altro.
All’imposta proporzionale Vanoni poi sostituiva quella progressiva, ritenendo
che i cittadini con i redditi più modesti non devono essere oppressi dai tributi,
anzi devono trarne vantaggio per le loro attività private; la tassazione degli
stranieri ha fondamento solo quando partecipano effettivamente al godimento
dei benefici pubblici e quella dei cittadini italiani residenti all’estero quando
abbiano ancora legami economici con lo Stato e da questi traggano dei benefici.
Dalla nozione secondo la quale l’imposta ha come fine la soddisfazione dei
bisogni collettivi, Vanoni faceva discendere anche il principio secondo cui
questa si deve fondare su una realtà economica che individua la capacità a
contribuire alla spesa, respingendo due categorie dell’interpretazione giuridica e
23
della politica tributaria, “in dubio contra fiscum” e “in dubio pro fisco”, che si
contrapponevano nelle vicende storiche economiche e politiche.
La seconda opera che Vanoni pubblicò nel 1932 è “Osservazioni sul
concetto di reddito in finanza”, in cui analizzava le diverse nozioni del reddito
che si possono stabilire nell’economia per l’esame del prodotto economico e,
nella finanza pubblica, per la tassazione. Analizzava la posizione degli
economisti del XVIII secolo, attenti soprattutto allo studio del reddito nazionale
e fermatisi invece solo di passaggio su quello individuale, considerato come
qualcosa di più evidente e quindi senza bisogno d’approfondimenti e ricerche;
solo in un secondo tempo fu riportato in primo piano dagli economisti il
problema del reddito individuale. L’Autore osservava le principali dottrine che
si erano avute nell’ultimo secolo, raccogliendo, al termine dell’indagine, tre
concezioni fondamentali del reddito irriducibili tra loro:
-
il reddito è il prodotto netto di un’attività produttiva o di un complesso
d’attività produttive;
-
il reddito è l’entrata netta, vale a dire la somma dei valori economici che
entrano in un patrimonio in un certo periodo, fatta deduzione dei valori che
ne escono in relazione al conseguimento dell’entrata;
-
il reddito è la somma dei godimenti, o servizi, che derivano in un certo
periodo all’individuo dai beni economici che sono a sua disposizione.
Le tre definizioni potrebbero fare pensare che il concetto di reddito sia equivoco
e instabile ma, in verità, Vanoni sosteneva che ognuna di queste definizioni è
legittima, in quanto riflette una realtà della vita; bisogna vedere a che fine e
secondo quali presupposti il concetto di reddito è utilizzato per avere un criterio
che porti ad optare per una definizione piuttosto che per un’altra. Vanoni
24
analizzava poi gli sviluppi diversi che il De Viti De Marco e l’Einaudi davano al
problema della tassazione del risparmio; il primo, non separava dai beni prodotti
quelli consumati, l’Einaudi, invece, intendeva che al reddito appartiene solo ciò
che è consumato da colui che ha prodotto, ciò che egli non consuma e cede ad
altri dietro compenso o restituzione futura non è reddito ma capitale.
Chiudevano il lavoro brevi cenni alle diverse applicazioni della nozione di
reddito secondo i criteri contributivi e di riparto dei costi dei pubblici servizi.
2.2 La carriera accademica
2.2.1 Le prime delusioni
Ottenuta quindi, dopo il matrimonio e l’apertura dello studio a Milano, una
certa stabilità dal punto di vista economico e familiare, Vanoni puntò però ad un
altro obiettivo: la titolarità della cattedra in Scienza delle finanze e Diritto
finanziario, le materie che già gli avevano dato fino allora una certa autorità
negli ambienti accademici italiani e stranieri.
Nel febbraio del 1932 tentò il concorso di cattedra all’Università di
Messina, ma ottenne solo la libera docenza; l’insuccesso si ripeterà poi tre anni
dopo, in occasione del concorso presso l’Università di Camerino. Il perché di
questi fallimenti è da ricercare con ogni probabilità nel fatto che Vanoni non
aveva quella che era chiamata “tessera del pane”, cioè la tessera del partito
fascista, e questo gli impedì di vincere i concorsi come professore di ruolo, cosa
che gli avrebbe permesso non solo l’incarico universitario, ma anche l’ingresso
nelle cariche dello Stato. Chi non aveva la tessera del partito nazionale fascista
25
non poteva aspirare al posto fisso statale e, tanto meno, nelle università, in
discipline poi così politicamente sensibili come quelle economico-finanziarie.
La motivazione della bocciatura a Messina di Vanoni, ovviamente, non
faceva riferimento a questa tessera, ma sosteneva che le tre monografie
presentate fossero poco decisive per quanto riguarda il suo contributo personale
quando, in realtà, basta sfogliarle per vedere la loro originalità; questa
giustificazione rappresentò quindi il paravento di motivazioni politiche. Anche
altri assieme a Vanoni non possedevano questa tessera, tra tutti Benvenuto
Griziotti e Luigi Einaudi, i quali però erano già titolari di cattedra prima che
salisse al potere il fascismo e quindi risentirono di meno le conseguenze rispetto
allo stesso Vanoni.
2.2.2 Vanoni professore a Roma
Nel 1933 finalmente Vanoni ottenne l’incarico, per la durata di tre anni
accademici consecutivi, di Scienza delle finanze alla cattedra nella Facoltà di
Giurisprudenza all’Università di Roma, dove fino al 1931 aveva insegnato
Antonio De Viti De Marco3. Fu nel periodo trascorso a Roma che Vanoni strinse
amicizie importanti con Alcide De Gasperi, Guido Gonnella e Sergio Paronetto,
quest’ultima favorita soprattutto da Pasquale Saraceno. Paronetto4 era anche lui
valtellinese: nato, infatti, a Morbegno nel 1911 e trasferitosi l’anno seguente ad
Ivrea e poi a Roma, divenne uno dei leader del Movimento Laureati Cattolici,
3
A. De Viti De Marco, economista italiano (Lecce 1858-Roma 1943), docente di Scienze
finanziarie. Dal 1920 al 1921 fu deputato radicale, nel 1931 fu tra i pochi docenti privati della
cattedra a non avere giurato fedeltà al fascismo.
4
S Paronetto., nato a Morbegno nel 1911, figlio di Antonio Paronetto, professore di matematica
trevigiano e di Rosa Dassogno, lontana parente dei Vanoni e originaria di San Pietro Berbenno.
26
redattore della rivista Studium e capo redattore dell’Illustrazione vaticana,
quindicinale della Santa Sede. Assunto poi nel 1934 all’IRI5, Paronetto fece di
quest’istituto un laboratorio di teorie di politiche economiche che ispirarono
l’attività di tutta la prima generazione della classe dirigente democristiana, a
cominciare dallo stesso Vanoni, che proprio nell’esperienza innovativa di questo
ente scoprì la strada che l’avrebbe portato poi a formulare la sua teoria
sull’economia mista. Fermo sostenitore dei doveri cristiani nella vita pubblica,
Paronetto ha lasciato alcune pagine sul dovere del cittadino, certamente fra le
più importanti sull’argomento (Paronetto, 1943). Per Vanoni quest’amicizia fu
molto importante, sostiene il Vigna che fu proprio l’amico a far rivivere in
Vanoni la sua vocazione politica che aveva in parte abbandonato nel corso degli
anni studenteschi (Vigna, 1992). Il contributo maggiore di questa amicizia si
può ritenere sia stata anche l’influenza per il ritorno alla fede cristiana di
Vanoni, verso il quale era stato indirizzato da bambino, dall’esempio concreto
della madre con la quale aveva spesso condiviso attivamente la carità verso i
poveri e i bisognosi, e che in ogni caso non aveva mai abbandonato; il dovere
cristiano sarà sempre importantissimo per Vanoni, egli vedrà nel dovere
tributario la traduzione politica e moderna del precetto cristiano della carità.
Fu lo stesso Paronetto che in quegli anni presentò Vanoni al brillante
redattore dell’Osservatore Romano, Guido Gonnella, e al segretario della
Biblioteca Vaticana, Alcide De Gasperi, incontri questi decisivi perché diedero
vita ad una stima e simpatia che, un decennio dopo, si trasformò in una fervida
5
IRI, Istituto per la Ricostruzione Industriale, ente finanziario di diritto pubblico per la
riorganizzazione tecnica, economica e finanziaria del paese, istituito con D.L. del 23 gennaio
1933.
27
collaborazione per la ricostruzione dell’Italia e portò Vanoni a diventare uno
degli esponenti della Democrazia Cristiana al Governo. Nel 1936, però, Vanoni
lasciò Roma, avendo avuto un incarico universitario dapprima a Padova e poi a
Venezia, riuscendo in questo modo ad avvicinarsi a Milano, dove aveva il suo
studio. Lasciata Roma l’entusiasmo contagioso di Paronetto cominciò a sminuire
e, almeno fino al 1940, ci furono poche occasioni di ritornare nella capitale e
non vi è nemmeno una saltuaria traccia di una corrispondenza con l’amico; i
contatti ripresero solo nel 1942 quando Vanoni cominciò a pensare alla politica
del postfascismo. A Padova rimase due anni accademici, nel 1936-37 e 1937-38,
passando poi a Venezia, a Ca’ Foscari, dove nell’ottobre 1939 vinse finalmente
la titolarità della cattedra.
2.2.3 Il ritorno agli studi finanziari
Gli anni dell’insegnamento romano non furono per Vanoni particolarmente
proficui dal punto di vista scientifico, essendo molto preso dai viaggi, dalla
famiglia e dallo studio milanese. Ma, ottenuta la cattedra, dopo avere preso la
tessera del partito fascista, decise di tornare in modo massiccio ad occuparsi
degli studi. Vanoni subì come una vergogna, che non avrebbe mai taciuto,
l’avere preso la tessera del partito, che lo qualificava come fascista; la subì
perché la tessera aveva il significato di una sconfessione, di una rimozione di
quegli ideali coltivati negli anni pavesi nei quali, probabilmente, ancora si
riconosceva, ma alla fine cedette e, anche se non si sa quando, s’iscrisse al
partito per necessità di carriera.
Nel 1937 Vanoni pubblicò sulla Rivista internazionale di scienze sociali,
edita dagli economisti dell’Università Cattolica, un saggio di politica tributaria,
28
riguardante l’esperienza della codificazione tributaria in Germania (Vanoni,
1937). In questo saggio esaminava le ragioni che portarono alla legge tedesca
del 1919, e riassumeva le linee fondamentali di questa codificazione, arrivando
ad affermare, in chiusura, che un’opera di codificazione tributaria deve tendere a
porre istituti il più possibile permanenti nel tempo; questo risultato si può
ottenere solo con una profonda elaborazione dottrinale e una completa
utilizzazione dei dati offerti dalle esperienze della pratica attuazione del sistema
d’imposizione.
Sempre nel 1937 pubblicò poi, presso Cedam di Padova, i due volumi di
“Lezioni di Scienza delle finanze e Diritto finanziario”, il primo dedicato ai
“Principi di economia e politica finanziaria”, il secondo riguardante, una
“Rassegna di legislazione tributaria ”. Quest’indicativo ritorno di Vanoni allo
studio fu favorito da un evento editoriale importante; la decisione di Benvenuto
Griziotti di realizzare una nuova rivista scientifica di teoria e politica della
finanza pubblica, dal titolo “Rivista di Diritto finanziario e scienza delle
finanze”. Fondata con Griziotti, con il quale erano rimasti sempre stretti i
rapporti, e con Mario Pugliese6, la rivista, allora edita dalla Cedam di Padova,
salvo una pausa dal 1943 al 1947, dovuta al travaglio bellico e postbellico,
continuò poi ad uscire trimestralmente con l’editore Giuffrè di Milano.
Nei primi quattro numeri della rivista, Vanoni pubblicò alcuni suoi scritti:
tre studi su “Le entrate industriali dello Stato e l’imposta sulle industrie,
commerci arti e professioni”, “Il passaggio delle riserve a capitale nelle società
anonime e l’imposta di registro” e “La dichiarazione tributaria e la sua
6
M. Pugliese, professore di origine ebrea, anche lui allievo di Griziotti, che le leggi razziali
costrinsero ad emigrare nel Sud America.
29
irretrattabilità”. Soprattutto il saggio sulla dichiarazione tributaria aveva un
significato profondo di politica finanziaria comportando l’analisi del rapporto di
fiducia tra cittadino-contribuente e Stato, improntato alla reciproca lealtà: la
successiva riforma di Vanoni (1951) si baserà proprio su quest’aspetto
fondamentale nella dichiarazione dei redditi. Sempre in questi anni Vanoni fu
invitato a tenere anche un ciclo di conferenze in Spagna e Portogallo, a
testimonianza di un’autorità come studioso che superava i confini italiani, ed
entrò nel Consiglio d’Amministrazione dell’Associazione Internazionale di
Diritto internazionale e fiscale che riuniva le personalità mondiali più qualificate
del settore.
Nel 1938, nella Rivista, uscirono altri quattro scritti: ”Irregolarità fiscale e
processo”, ”L’esenzione delle tasse di trascrizione di successione fiscalmente
passive”, ”L’applicazione della tassa graduale di registro alla ripartizione dei
dividendi tratti dalle riserve” e “Il problema della codificazione tributaria”.
Dal 1939, però, la collaborazione di Vanoni cominciò a diminuire: infatti,
in quell’anno abbiamo solo due scritti “La tassa di conferimento nel caso di
apporto di stabilimento e concentrazione di aziende e il preteso requisito
dell’identità dell’oggetto” e ”Variazione del capitale delle società e imposta di
negoziazione”. Il motivo di questo rallentamento è probabilmente da ricercare
nel fatto che Vanoni era diventato consulente del Ministro delle Finanze e stava
lavorando ad un nuovo libro su “I problemi dell’imposizione degli scambi”
(Vanoni, 1939), riguardante la teoria e la politica delle imposte indirette
generali, che non portò a termine in seguito alle sopravvenute vicende belliche
ma costituì un importante contributo critico all’imposta sugli scambi a cascata.
Nello stesso anno si presentò per la terza volta ad un concorso di cattedra di
30
Scienza delle finanze e Diritto finanziario, bandito dalla facoltà di Economia
dell’Università di Venezia: vinse il posto cattedratico. La conquista della
sospirata cattedra nella Ca’ Foscari non ridusse il suo impegno scientifico: oltre
ad uno scritto giuridico su “Note sul debitore del dazio di confine”, pubblicò
sempre sulla Rivista, un ampio esame dei provvedimenti tributari dal titolo
“Chiose alle nuove imposte sul patrimonio e sull’entrata”.
La collaborazione con la Rivista cominciò a diradarsi sempre di più nel
1942, anno in cui si hanno solo due scritti di Vanoni: ”Stabilità e unicità
dell’accertamento dei redditi una tantum nell’imposta complementare” e
“Programmi di riordinamento degli uffici finanziari”. Nel frattempo lavorò
anche all’Istituto di Finanza Corporativa, dove elaborò degli “Appunti sulla
riforma della imposizione personale”, uno studio in altre parole dei problemi
dell’imposta totale sul reddito delle persone fisiche in collegamento con la
tassazione delle società. Si trovò, nel corso di questa esperienza, ad entrare in
contatto con i maggiori studiosi italiani di finanza pubblica, in un dibattito di
grande interesse nel quale si ritrovano anticipate alcune linee della riforma
tributaria del sistema italiano. Vanoni cominciò, nel frattempo, a guardare al
futuro, i suoi studi fiscali avevano una prospettiva per il dopoguerra, che egli,
come altri, pensava sarebbe stato di ricostruzione democratica.
2.3 L’impegno sociale e politico
2.3.1 Il Codice di Camaldoli
Alla fine del 1942 ripresero i contatti di Vanoni con Paronetto, Saraceno e
De Gasperi, i quali si cominciarono a porre un nuovo obiettivo: dare vita ad un
31
nuovo partito cattolico. Appariva però necessario accompagnare quest’impegno
con un programma economico e sociale, che fu elaborato in quello che è stato
definito il “Codice di Camaldoli”. Punti di partenza di questo lavoro possono
ritenersi i discorsi di Papa Pio XII in occasione del Natale del 1941 e del 1942.
Organizzatore materiale dell’iniziativa fu Vittorio Veronese, il quale, in
occasione del settimo convegno dei Laureati dell’Azione Cattolica del gennaio
1943, convocò un incontro a Camaldoli7, nel cenobio dei padri camaldolesi, per
la settimana dal 18 al 24 luglio: il convegno si tenne regolarmente, i partecipanti
furono più di una cinquantina, anche se mancarono figure importanti quali
Paronetto, che si sarebbe sposato il 26 luglio, e lo stesso Vanoni. Tra i presenti
vi erano molti intellettuali importanti: i lavori si conclusero con la proposizione
di settantasei enunciati, tutti stringatissimi, che riguardavano tre grandi temi
come vita familiare, vita civile e vita economica.
Il calendario definito a Camaldoli prevedeva poi una fase di riflessione e
approfondimento, affidata a due gruppi di studio, con sede a Roma e a Brescia:
sulla base delle conclusioni dei due gruppi si sarebbe avuta la stesura definitiva
del testo. Gli eventi del 25 luglio 1943, la caduta del governo Mussolini e del
regime fascista, sconvolsero però i programmi e alla fine il lavoro di studio degli
enunciati camaldolesi fu svolto soprattutto da quattro persone: Sergio Paronetto,
Pasquale Saraceno, Ezio Vanoni e Giuseppe Capograssi, che si riunivano o in
casa di quest’ultimo o nel nascondiglio di Vanoni8. Nel 1945 fu redatto e
pubblicato il testo definitivo del codice con il titolo “Per la comunità cristiana.
7
Camaldoli, località della Toscana in provincia di Arezzo. Vi si trova la casa madre dei padri
camaldolesi, col famoso monastero fondato nel 1012 da San Romualdo.
8
Vanoni era ricercato dai tedeschi essendo ormai noto come uno dei leader del partito
democristiano; la clandestinità durò fino al 4 giugno 1944, con la liberazione di Roma.
32
Principi dell’ordinamento sociale a cura di un gruppo di studiosi, amici di
Camaldoli”.
Questo codice voleva essere soprattutto un codice “sociale”, basato cioè
sull’elaborazione pratica del concetto di giustizia sociale, come tale esso si
poneva a metà strada tra una semplice recezione dell’insegnamento pontificio e
un vero e proprio programma politico. Il lavoro, infatti, “Mira esclusivamente al
chiarimento e alla miglior formulazione del pensiero sociale cattolico, in vista di
offrire alla coscienza del cittadino e dell’uomo sociale, ed in particolare al
cattolico, quali che siano le sue preferenze politiche, le basi per un giudizio
morale sulla vita della comunità” (Scuola superiore dell’economia e delle
finanze, 2004). Il documento si poneva quindi un obiettivo programmatico e
ideale per tutti i cattolici, sul genere del precedente Codice di Malines (1927) 9,
divenendo popolare negli anni seguenti anche tra la classe dirigente della
Democrazia Cristiana, di cui influenzò in modo rilevante le scelte di politica
economica. Se si tiene conto della centralità che il tema della giustizia sociale ha
nel Codice si comprende quanto sia stato fondamentale il contributo di Vanoni
alla redazione: egli può, infatti, essere considerato l’autore principale del
capitolo VI, ”L’attività economica pubblica” che riprende il contenuto del
saggio del 1943 “La finanza e la giustizia sociale” (Vanoni, 1943). All’interno
di questo capitolo, Vanoni rilevava la necessità di armonizzare le attività
economiche private, prima di tutto attraverso l’azione delle stesse forze sociali
9
Codice di Malines, conosciuto anche come Codice Sociale, era espressione dell’Unione
Internazionale di Studi Sociali, fondata a Malines nel 1920, che coinvolgeva studiosi cattolici di
vari paesi europei, Italia compresa. L’unione era nata a sua volta con l’obiettivo di trasferire
nell’ambito sociale gli insegnamenti della chiesa. La prima edizione del Codice di Malines era
stata proposta nel 1927.
33
adeguatamente organizzate e solo in via secondaria attraverso l’azione dello
Stato, al fine di impedire che le energie individuali rimangano puramente
potenziali o siano ostacolate nel loro sviluppo. Nell’opera di Camaldoli, ed in
particolare nella parte curata personalmente da Vanoni, è possibile intravedere le
direttive e i criteri che di lì a pochi anni lo statista avrebbe assunto come punti
base della sua attività nell’ambito del Governo. L’attività finanziaria dello Stato
doveva essere basata sull’esigenza della giustizia sociale e, allo stesso tempo, il
tributo, oltre alla principale funzione di procurare mezzi per la spesa pubblica,
diveniva strumento di modifica della distribuzione della ricchezza e
dell’organizzazione economica e sociale; il dovere tributario dunque era carico
di significato morale.
Nell’ambito dell’opera Vanoni dedicò particolare attenzione al rapporto tra
attività pubblica e privata, questione che sarà al centro poi del noto “Schema di
Sviluppo”, rilevando l’importanza di armonizzare i contrastanti interessi
economici, pubblici e privati, attraverso l’azione delle stesse forze sociali,
nonché mediante l’attività economica pubblica. Quest’ultima assumeva, per lo
statista, fini specifici quali la creazione delle condizioni tramite le quali le forze
lavorative potessero trovare un’adeguata occupazione e la promozione del loro
processo d’addestramento in una fase di profonda e rapida trasformazione
economica e sociale.
Alla fine, tuttavia, il Codice non ottenne i risultati effettivi voluti dagli
Autori. Infatti, pur influenzando i programmi della prima D.C. e la Costituzione,
fu come accantonato e poi quasi dimenticato; rivivrà solo, seppure senza
esplicite citazioni, nell’attività dello stesso Vanoni come politico e democratico
cristiano.
34
2.3.2 L’ingresso in politica di Vanoni
Nello stesso periodo camaldolese, ebbe inizio l’impegno politico e
sindacale. Dopo il 25 luglio 1943, Vanoni fu nominato Commissario dei
Lavoratori del Commercio e, contemporaneamente, iniziò la militanza politica
all’interno della Democrazia Cristiana, dapprima solo con incarichi di partito e
poi con l’elezione alla Consulta Nazionale e alla Costituente10. Partecipò, infatti,
ai lavori della Commissione Economica per la Costituente, contribuendo in
maniera rilevante a redigere la Relazione sulla Finanza, ed entrò a far parte della
cosiddetta “Commissione dei 75”, incaricata di predisporre il progetto di
Costituzione da sottoporre all’approvazione dell’Assemblea: nel giugno 1944
venne anche nominato Commissario Straordinario della Banca Nazionale
dell’Agricoltura.
Dopo la liberazione, gli uomini della DC riconobbero Vanoni come uno
dei propri esponenti più autorevoli e tale posizione gli fu successivamente
confermata nelle varie assemblee. Fu nominato consigliere nazionale e membro
del cosiddetto parlamento, allora molto esile, della DC; membro della direzione
nazionale della DC, quella che uscì dal primo congresso, nell’aprile 1946;
esperto per le questioni economiche e finanziarie nella delegazione che,
presieduta da De Gasperi, partecipò tra il luglio e l’agosto 1946 alla Conferenza
della pace a Parigi. Fu quest’ultima un’esperienza dolorosa e incancellabile,
dalla quale in seguito trasse spesso importanti considerazioni e riflessioni, in
quanto, prendendo contatto con le delegazioni estere, intuì il grande isolamento
in cui si trovava il nostro paese e quanta strada doveva percorrere per rientrare,
10
Vedi capitolo terzo.
35
con piena parità di diritti, nel circuito della vita internazionale. L’esperienza
aveva, infatti, messo in evidenza la sfiducia che i responsabili della politica e
dell’economia dei più autorevoli stati esteri nutrivano verso la ricostruzione
economica del nostro paese dopo la guerra.
Nell’ambito politico, nel 1947, De Gasperi lo chiamò a far parte del suo 3°
Governo come Ministro del Commercio Estero, ma l’incaricò durò solo dal 2
febbraio al 31 maggio, poiché si dovette dimettere, a causa di un’insinuazione
mossa dal senatore indipendentista siciliano Giuseppe Finocchiaro Aprile, che lo
accusò di aver intascato un compenso spropositato come Commissario della
Banca Nazionale dell’Agricoltura. Per dirimere la questione, fu nominata una
commissione parlamentare d’indagine, che s’insediò il 21 febbraio e concluse i
suoi lavori poco meno di due mesi dopo, con una relazione che, pur non
muovendo esplicitamente alcun appunto a Vanoni, peccava d’ambiguità. Il
compenso che era stato dato a Vanoni, secondo la commissione, corrispondeva
esattamente a quanto la banca attribuiva al suo amministratore delegato, ed
inoltre risultava che buona parte di tale compenso fosse stata devoluta all’ufficio
stampa del partito. Si osservava però che in altri casi d’istituti di credito
d’importanza simile, il Commissario non aveva percepito un compenso così
elevato. Con sottigliezza si ventilava, insomma, il sospetto che gli emolumenti
fossero assai superiori all’ordinario perché destinati a finanziare la Democrazia
Cristiana. L’esperienza al Ministero del Commercio Estero fu in ogni caso
importante,
in
quanto
Vanoni
condivise
la
grande
intuizione
della
liberalizzazione degli scambi e dell’inserimento dell’Italia nell’economia
internazionale: nei suoi discorsi ministeriali di allora, emerge già l’idea che il
mondo andava verso un sistema di mercati globali, anche se egli non poté
36
proseguire nella sua impostazione che sarebbe sfociata nell’Unione Europea con
l’abbattimento delle barriere doganali e la nascita di un sistema di libero
scambio.
Le accuse di Finocchiaro Aprile, pur smorzate dal verdetto d’assoluzione,
lasciarono il segno nell’animo di Vanoni, il quale in quei giorni meditò anche
l’abbandono della politica, come sostenevano due personaggi a lui molto vicini,
il cognato Pasquale Saraceno e l’amico Giulio Spini che scrissero: “Forse un
animo meno fermo nei suoi convincimenti avrebbe reagito all’ingiusta
aggressione morale…ma egli fece ricorso alle ragioni ideali che lo avevano
spinto nella lotta politica, costatò che erano ancora valide e superiori alle sue
personali vicende e rifiutò di rientrare nella quiete dei suoi studi.” (Spini,
Malcovati, Saraceno, 1958).
Nel successivo governo De Gasperi, Vanoni non occupò alcun incarico e
quest’esclusione, che considerava come una conseguenza della vicenda alla
Banca dell’Agricoltura, lo amareggiò molto. De Gasperi però lo convinse ad
accettare il compito di creare un centro d’elaborazione del programma
economico del partito, in vista del futuro ruolo della Democrazia Cristiana alla
guida del paese. Il Governo decise, infatti, la costituzione del Consiglio
Economico Nazionale, la cui direzione effettiva fu affidata allo stesso Vanoni,
con il ruolo di vicepresidente, mentre De Gasperi assunse la presidenza A questa
carica di vicepresidente il Governo volle aggiungere, nel novembre del 1947, la
presidenza dell’ICE11; questa fu per Vanoni un’altra occasione per pianificare il
11
ICE, Istituto nazionale per il Commercio Estero, ente di diritto pubblico istituito nel 1926 al fine
di promuovere e sviluppare gli scambi commerciali dell’Italia con l’estero. Esercita inoltre
un’attività di controllo ed è il più importante strumento dell’attività statale di sviluppo del
commercio internazionale italiano.
37
futuro, nell’attesa di tornare al Governo, per riordinare la struttura dell’ente,
potenziarne i compiti al fine di adempiere alle funzioni di stimolo e
d’orientamento delle attività d’esportazione e importazione, che gli erano
proprie.
Elaborò, in questo periodo, il saggio su “La nostra via” (Vanoni, 1947), in
cui era figurato il piano che introdurrà nel 1954 nella politica economica italiana
e in cui ribadiva, chiaramente e forse in modo più incisivo che in passato, le
finalità cui deve tendere l’organizzazione economica. Nell’opera, Vanoni,
rilevava che i vari piani dei settori economici sono interdipendenti e, per questo,
metteva in evidenza la necessità di collegare i vari provvedimenti con i quali lo
Stato agisce sulla vita economica per evitare che essi siano contraddittori,
determinando una riduzione dell’efficacia e dell’utilità dell’azione pubblica.
Queste finalità erano individuate nell’impedire che le forze economiche
diventassero strumento d’oppressione della libertà, realizzare la migliore
organizzazione produttiva dal punto di vista sociale e garantire a tutti i membri
della società una decorosa soddisfazione dei bisogni economici. Vanoni svolse
un’analisi dei due classici sistemi economici che definì “economia libera” ed
“economia socializzata”, elaborando uno schema “intermedio”, caratterizzato
essenzialmente dalla centralità del mercato e dall’intervento dell’azione
economica pubblica.
Questo scritto può essere considerato il culmine del pensiero politico ed
economico dello statista valtellinese in tema di giustizia sociale, dando
testimonianza proprio della profonda carica ideale che ispirò tutta la sua attività
politica e la sua esistenza.
38
2.4 Vanoni Ministro
2.4.1 La riforma tributaria
Vanoni tornò al governo il 26 maggio 1948, circa un anno da quando era
uscito: nelle elezioni dell’aprile 1948 la DC ottenne, infatti, la maggioranza
assoluta, permettendogli di essere eletto al Senato, per il collegio di Sondrio, e
diventare Ministro delle Finanze nel corso del rimpasto del governo deciso da
De Gasperi in seguito all’esito delle elezioni. Con l’incarico di Ministro delle
Finanze rimase anche nei due governi successivi e poi ancora nel gabinetto Pella
che governò l’Italia, dopo le elezioni del 1953.
TAB.1: GOVERNI ITALIANI NELLA PRIMA LEGISLATURA
18 APRILE 1948- 6 GIUGNO 1953
V De Gasperi
(23 maggio 1948-12 gennaio 1950)
VI De Gasperi
(27 gennaio 1950-17 luglio 1951)
VII De Gasperi
(26 luglio 1951- 29 giugno 1953)
TESORO
FINANZE
BILANCIO
Pella
Vanoni
Pella
Pella
Vanoni
Pella
Vanoni-Pella
Vanoni
Pella
Vanoni si distinse nel suo compito per la completezza e la lungimiranza
delle sue idee in campo economico, partendo dal tentativo di risolvere quelli che
erano allora i due più gravi problemi che si ponevano davanti alla sua
responsabilità: risanare l’erario, devastato dalle vicende della guerra, e avviare
39
quella riforma tributaria necessaria al benessere della nazione, una riforma che
nel proposito di Vanoni doveva assumere il significato profondo di una
rivoluzione morale dei rapporti tra Stato e cittadino. Appena giunto al Governo,
infatti, iniziò a lavorare alla riforma tributaria, prefiggendosi di raggiungere una
giustizia fiscale preceduta da una riforma morale diretta a convincere gli italiani
che il loro obbligo tributario era prima di tutto un dovere sociale.
La legge più indicativa al riguardo è la n. 25 del 11 gennaio 195112, detta
di “perequazione tributaria”, la quale dava avvio all’annuale dichiarazione dei
redditi13. Lo scopo principale del provvedimento era quello di offrire ai cittadini
un’Amministrazione giusta, affinché ciascuno sentisse legittima e moralmente
doverosa la propria partecipazione all’adempimento tributario. Senza dubbio
l’elemento maggiormente innovativo di questo progetto di riforma, era proprio
la dichiarazione, perfettamente in linea con quell’idea di giustizia sociale che
ispirava tutta la politica fiscale di Vanoni.
Al Ministro Vanoni si deve anche la nascita dell’ENI14, il cui disegno di
legge fu preparato dal Ministero delle Finanze proprio quando egli ne era
Ministro. La costituzione dell'ENI suscitò molte perplessità e opposizioni sia nel
mondo politico sia in quello imprenditoriale; si apriva, di fatto, la discussione se
fosse più opportuno intervenire in settori critici dell’economia con iniziative
private o con interventi diretti dello Stato. Nel caso specifico dell’ENI, il
dibattito era incentrato sul fatto che fosse più opportuno intervenire nel settore
12
Legge 11 gennaio 1951 n°25, Norme sulla perequazione tributaria e sul rilevamento fiscale
straordinario (Pubblicata nel supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale, 31 gennaio, n°25).
13
Vedi capitolo quarto.
14
ENI, Ente Nazionale Idrocarburi, ente economico con personalità giuridica di diritto pubblico,
istituito nel 1953, sotto la direzione del suo primo presidente Enrico Mattei.
40
energetico creando un monopolio privato o pubblico. Vanoni scelse questa
seconda strada, creando appunto l’ENI, al fine di promuovere il bene economico
collettivo e di collegare gli interessi dei produttori con quelli dei consumatori.
2.4.2 Il Piano Vanoni
Successivamente, il 18 gennaio 1954, Vanoni fu nominato Ministro del
Bilancio nel 1° governo Fanfani e mantenne la carica anche nei successivi
governi Scelba e Segni, oltre all’incarico di Vice Presidente del Comitato
Interministeriale per la Ricostruzione e di delegato permanente italiano presso
l’OECE15. La conclusione della sua attività governativa e della sua vita coincise
proprio con l’esperienza vissuta alla guida di quest’ultimo dicastero, dove
rimase fino al giorno della sua morte, il 16 febbraio 1956: fino alla fine della sua
esistenza, continuò a lavorare con passione per la realizzazione del suo ideale di
giustizia sociale.
Durante il suo mandato, affrontò il problema principale di quegli anni di
ripresa economica, quello di sostenere l’espansione dei diversi settori produttivi
per lo sviluppo economico del paese e l’eliminazione della disoccupazione e
della sottoccupazione. Presentò agli italiani lo “Schema di sviluppo
dell’occupazione e del reddito in Italia nel decennio 1955/64”16, che passò alla
storia come “Piano Vanoni”. Lo schema di sviluppo rappresenta la sintesi più
completa del pensiero di Vanoni e l’enunciazione, in termini precisi e
15
OECE, Organizzazione Europea di Cooperazione Economica, creata a Parigi nel 1938 dagli stati
europei partecipanti al piano Marshall, con il compito di abolire le restrizioni quantitative agli
scambi e promuovere la cooperazione internazionale. Nel 1960 divenne OCSE, Organizzazione di
Cooperazione e di Sviluppo Economico.
16
Schema di sviluppo dell’occupazione e del reddito in Italia nel decennio 1955-64 (presentato al
Consiglio dei Ministri il 29 dicembre 1954).
41
conclusivi, dell’azione politica condotta in un decennio dai governi d’ispirazione
democristiana. Ideato per porre le basi per un ben equilibrato progresso
economico dell’intero paese, si basava in sostanza su tre punti fondamentali:
a) conoscere in modo approfondito i problemi della struttura economica
italiana;
b) fissare gli obiettivi generali, vale a dire indicare chiaramente gli obiettivi da
raggiungere nell’interesse del paese e nel rispetto degli ideali democratici;
c) stabilire modi e tempi per raggiungere tali obiettivi, sia per quel che riguarda
l’entità delle realizzazioni, sia per quel che concerne le scelte d’azione
politica e i provvedimenti da adottare.
In armonia con il pensiero espresso nel Codice di Camaldoli, al centro del
suo schema c’era la persona umana e per questo assumeva un valore
particolarmente importante una giusta politica dei redditi, connessa ad una
coerente politica tributaria, di cui lui stesso aveva gettato le basi nella lunga
esperienza come Ministro delle Finanze.
Nello specifico gli obiettivi principali dello schema indicati da Vanoni
erano:
- rinforzare e sviluppare l’economia italiana nel suo complesso;
- eliminare la disoccupazione e la sottoccupazione;
- assicurare un migliore equilibrio economico tra nord e sud;
- eliminare il disavanzo della bilancia dei pagamenti.
Lo schema è stato anche chiamato “Programma della speranza
economica”, ed il suo ideatore alimentò giorno per giorno questa speranza, pur
ricordando che non vi erano strumenti capaci di creare automaticamente il
benessere, ma che solo con razionalità ed impegno si potevano raggiungere
42
questi obiettivi. La realizzazione del programma richiedeva quindi sacrifici, e si
trattava, come sosteneva Vanoni, di un progetto al quale ognuno doveva
collaborare, sapendo che esso offriva la scelta tra l’ingresso nelle nazioni
economicamente più progredite o il regresso ai margini della vita economica e
sociale del mondo.
Questo schema di piano mirava dunque a generare il pieno impiego,
risolvere i problemi di squilibrio fra nord e sud, ma anche a raggiungere il
pareggio del bilancio, la stabilità della moneta, il sostegno e la tutela del
risparmio pubblico e privato. Ciascun lavoratore secondo Vanoni doveva essere
considerato come un capitale umano su cui investire, attraverso lo sviluppo
tecnologico e la riduzione delle disuguaglianze sociali e mediante lo sviluppo
dei servizi pubblici gratuiti per i meno abbienti. Alla fine, anche se il piano del
Ministro non trovò una forte volontà di realizzazione, l’Italia riuscì tuttavia a
raggiungere parecchi traguardi in esso fissati: all’inizio degli anni ’60, infatti, la
disoccupazione sembrava sconfitta e lo squilibrio della bilancia dei pagamenti
era cancellato. Furono risultati che caratterizzarono quel periodo di sviluppo che
passò poi alla storia come “miracolo economico”.
Per un breve periodo Vanoni, ricoprì anche la carica di Ministro del
Tesoro ad interim, dal 30 gennaio 1956 al 16 febbraio 1956. Morì, all’età di 53
anni, il 16 febbraio 1956 dopo un discorso di più di mezz’ora in Parlamento, in
seguito ad un collasso cardiaco. Vanoni sapeva già da tempo di essere malato e
che sarebbe stato meglio, per la sua salute, ritirarsi dall’attività politica, ma “non
poteva” e fino alla fine volle perseguire quelli che erano stati gli ideali di una
vita: emblematici sono proprio i suoi ultimi istanti, dedicati ancora al
compimento di quello che considerava un dovere.
43
CRONOLOGIA
3 agosto 1903
Nasce a Morbegno.
1921/22-1924/25
Frequenta a Pavia la Facoltà di
Giurisprudenza.
1927-1928
Vince la Borsa di Studio Lorenzo Ellero.
1928/29-1929/30
Soggiorna in Germania come titolare della
Borsa di Studio Rockfeller.
1930/31-1932/33
È incaricato dell’insegnamento di Scienza
delle finanze all’Università di Cagliari.
Febbraio 1932
Consegue la libera docenza in Scienza delle
Finanze all’Università di Messina.
1933/34-1935/36
È incaricato dell’insegnamento di Scienza
delle finanze all’Università di Roma.
1936/37-1937/38
È incaricato dell’insegnamento di Scienza
delle finanze all’Università di Padova.
44
1938/39-1941/42
Vince il concorso per la cattedra di Scienza
delle finanze ed è nominato Professore
ordinario presso L’Istituto superiore di
Economia e Commercio a Venezia.
Agosto 1943
Viene nominato dal Governo Badoglio
Commissario della Confederazione dei
Lavoratori del Commercio.
Settembre 1943
Si trasferisce a Roma con la famiglia.
1943-1944
Redige il capitolo VI del Codice di
Camaldoli
e
partecipa
alla
redazione
generale dell’opera.
Giugno 1944
È nominato Commissario straordinario
Della Banca Nazionale dell’Agricoltura.
Agosto 1944
È membro della Consulta Nazionale e fa
parte della Direzione Nazionale della D.C.
Giugno 1946
È eletto Deputato alla Costituente e fa parte
della Commissione dei 75 per la redazione
del progetto di Costituzione.
45
Gennaio-maggio 1947
Ministro del Commercio con l’Estero del
3° Gabinetto De Gasperi.
Giugno 1947
È nominato Vice Presidente del Consiglio
Economico Nazionale.
Novembre 1947
È nominato Presidente dell’Istituto
Nazionale per il Commercio Estero.
Aprile 1948
È eletto senatore per il Collegio di Sondrio.
Novembre 1947/febbraio 1948
Ministro delle Finanze nel 5° Gabinetto De
Gasperi.
Gennaio 1950/luglio 1951
Ministro delle Finanze nel 6° Gabinetto De
Gasperi.
Luglio 1951
Assume l’interim del Tesoro.
Luglio 1951/luglio 1953
Ministro delle Finanze nel 7° gabinetto De
Gasperi.
1952/53
Viene chiamato alla cattedra di Scienza
delle finanze all’Università di Milano.
46
Luglio 1953
Ministro delle Finanze nell’8° Governo De
Gasperi.
Agosto 1953/gennaio 1954
Ministro delle Finanze nel Governo Pella.
Gennaio 1954
Ministro del Bilancio nel Ministero Fanfani.
Febbraio 1954/giugno 1955
Ministro del Bilancio nel Governo Scelba
Luglio 1955/febbraio 1956
Ministro del Bilancio nel Governo Segni.
Febbraio 1956
Assume l’interim del Tesoro.
16 febbraio 1956
Muore a Roma in Senato, alle ore 14:20.
47
CAPITOLO TERZO
IL CONTRIBUTO DI EZIO VANONI ALLA
FORMAZIONE DELLA COSTITUZIONE
3.1 Vanoni alla Costituente
Ancora oggi è poco conosciuto quello che è stato il contributo di Vanoni
alla formazione della nostra Costituzione, e la sua attività politica viene, più che
altro, collegata alla riforma del sistema fiscale, o alla realizzazione dello schema
di programmazione meglio conosciuto come “Piano Vanoni”, ricordati nel
capitolo precedente. In realtà, un altro momento politico molto importante della
sua vita è stato proprio la partecipazione all’elaborazione della nostra Carta
costituzionale; in un centinaio d’interventi, espose il proprio parere su molti
articoli del progetto legato all’idea di dare agli organi del nuovo Stato
democratico una sicura funzionalità, di evitare i difetti del parlamentarismo e di
stabilire una rigida severità e unitarietà della gestione finanziaria sia dello Stato
sia degli enti pubblici. E’ quindi importante analizzare gli articoli della
Costituzione che maggiormente recano la sua impronta, i temi per i quali
48
soprattutto si trovò a lavorare, e che racchiudono le idee politiche che poi lo
seguiranno nei dieci successivi anni al Governo. Nella “Commissione dei 75” di
cui fece parte per sette mesi fino al febbraio del 1947, quando entrò come
Ministro nel terzo Governo De Gasperi, scrisse alcune delle pagine più esemplari,
seppur ancora quasi sconosciute, del suo percorso politico, pagine espressive di
un’autonomia di giudizio e di lungimiranza la cui reale portata potrà essere colta
soltanto in seguito.
Il 2 giugno 1946 gli italiani furono chiamati alle urne per scegliere tra la
monarchia e la repubblica e per eleggere i deputati che, nell’ambito
dell’Assemblea Costituente, avrebbero dovuto realizzare la Costituzione. Ezio
Vanoni fu eletto, nelle liste della Democrazia Cristiana17, deputato all’Assemblea
Costituente per il V collegio, comprendente le provincie di Como, Sondrio e
Varese, con oltre 27.000 voti di preferenza. Gli eletti furono, in totale, 556 ma non
tutti, per ovvi motivi di carattere pratico, parteciparono direttamente ai lavori di
redazione del testo costituzionale; un organismo così numeroso e investito di
compiti politici di varia natura, non poteva evidentemente affrontare con
sufficiente approfondimento i problemi che si ponevano nell’individuazione degli
aspetti essenziali di un documento tanto importante.
In seguito ad una proposta della Giunta del regolamento, relativa alla
determinazione dei modi e degli organi per la formazione del progetto
costituzionale, il presidente dell’Assemblea Costituente, on. Saragat18, nella
17
Nelle elezioni per l’Assemblea Costituente, la Democrazia Cristiana ottenne la maggioranza
relativa dei voti (18.083.208) pari al 37,2%, seguita dal Partito Socialista (PSIUP 4.744.749) con il
20,7% e dal Partito comunista (4.342.722) con il 18,7%. Nessun altro partito superò il 10 % dei
voti.
18
On. Saragat, eletto presidente dell’Assemblea Costituente in occasione della prima seduta il 25
giugno 1946.
49
seduta del 19 luglio 1946, creò la Commissione per la Costituzione meglio
conosciuta come “Commissione dei 75”19, chiamandone a farne parte appunto 75
deputati in rappresentanza e in proporzione di tutte le forze presenti
nell’Assemblea, con il compito specifico di redigere un progetto di Costituzione
da sottoporre poi all’approvazione di quest’ultima.
Nella prima fase di studio della Carta costituzionale, la Commissione, con la
seduta del 24 luglio 1946, decise di dividersi in tre sottocommissioni20 incaricate
di occuparsi rispettivamente della parte riguardante i diritti e i doveri dei cittadini,
dell’ordinamento costituzionale dello Stato e dei problemi economici e sociali;
Vanoni entrerà a far parte della seconda sottocommissione. Quest’ultima,
dapprima si occupò dell’organizzazione del potere legislativo e delle autonomie
locali, ma dal dicembre 1946, di fronte ai problemi complessi e all’entità del
compito affidato, si suddivise a sua volta in due sezioni: la prima si dovette
occupare in specifico del potere esecutivo, la seconda invece di quello giudiziario.
Vanoni lavorò prevalentemente nell’ambito della prima sezione ma, per alcuni
aspetti, importante fu anche l’apporto che diede alla seconda sezione: “Alle
discussioni che si svolsero nella seconda sottocommissione egli diede importanti
contributi e tutti i suoi interventi recano l’impronta della sua competenza tecnica e
di un’alta passione… gli interventi di Vanoni si distinguono per la calma, la logica
e la razionalità che li ispirano.” (Tramontana, 1987).
19
Nella prima seduta, che si tenne il 20 luglio 1946, la Commissione elesse subito il suo presidente
nella persona dell’on. Meuccio Ruini.
20
La prima e la terza sottocommissione erano costituite da 16 membri, oltre al presidente e al
segretario, la terza da 36 membri anche qui oltre al presidente e al segretario. Presidenti sono
nominati i tre vicepresidenti della Commissione per la Costituzione e cioè gli on. Tupini, Terracini
e Ghidini.
50
Il lavoro svolto dalle sottocommissioni e dalle sezioni doveva poi essere
sottoposto al giudizio della Commissione che lo doveva proporre all’Assemblea
per l’approvazione definitiva; il 31 gennaio 1947, il progetto di Costituzione fu
presentato all’Assemblea Costituente accompagnato da una relazione di sintesi dei
lavori preliminari.
Nell’ambito della seconda sottocommissione alla formazione della
Costituzione gli interventi di Vanoni furono, nel complesso, oltre cento e
riguardanti gli aspetti più diversi della vita nazionale e del nuovo ordinamento
dello Stato. Possiamo considerare siano quattro i temi sui quali maggiore é stato il
suo contributo: la copertura finanziaria degli impegni di spesa, l’ordinamento
regionale, il contenzioso tributario e la posizione costituzionale del Presidente del
Consiglio dei ministri.
3.2 L’elaborazione del progetto costituzionale
3.2.1 La copertura finanziaria degli impegni di spesa
Un primo significativo apporto di Vanoni al testo della Costituzione si ebbe
riguardo alla copertura finanziaria degli impegni di spesa, divenuto poi il 4°
comma del definitivo articolo 8121 della Costituzione; con questa disposizione, si
sanciva
nella
carta
l’impegno
che,
per
ogni
nuova
spesa,
fossero
contemporaneamente stabiliti i mezzi di copertura, introducendosi un freno
21
Art. 81: le camere approvano ogni anno i bilanci e il rendiconto consuntivo presentati dal
Governo. L’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per
periodi non superiori complessivamente a quattro mesi. Con la legge di approvazione del bilancio
non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese. Ogni alta legge che importi nuove o maggiori
spese deve indicare i mezzi per farvi fronte.
51
all’aumento delle spese ed una garanzia per la tendenza al pareggio del bilancio.
L’articolo fu discusso in occasione della seduta della seconda sottocommissione il
24 ottobre 1946; dopo aver stabilito che l’iniziativa delle leggi spettava al
Governo e ai singoli membri delle Camere, rimanevano da stabilire i limiti da
imporre a tale iniziativa e l’opportunità di riservare, eventualmente, alla sola
prima Camera l’iniziativa legislativa in materia finanziaria. Luigi Einaudi,
nell’ambito di questa discussione, propose due soluzioni: o negare ai deputati, di
entrambe le Camere, il diritto di fare proposte di spese, oppure obbligarli ad
accompagnarle con la proposta correlativa d’entrata e copertura della spesa, dando
così ad essa una maggiore serietà.
Nell’ambito di questo dibattito, Vanoni poneva l’accento, soprattutto,
sull’esigenza di imporre, ai richiedenti di nuove spese, l’obbligo di proporre anche
i mezzi per fronteggiarle, aggiungendo che la commissione di tecnici istituita
presso il Ministero per la Costituente aveva proprio già messo in evidenza la
necessità che questo obbligo fosse sancito nella Costituzione, ed inoltre
sottolineava che si trattava di una regola già contenuta nella contabilità dello
Stato. Vanoni affermava per tanto che si dovessero concedere ad entrambe le
Camere uguali poteri d’iniziativa anche in materia finanziaria ma che la facoltà di
proporre nuove spese tanto per il Governo, per il Parlamento e per qualsiasi forza
che dia vita a proposte comportanti maggiori oneri finanziari o minori entrate
rispetto a leggi già approvate in bilancio, doveva essere rigidamente legata alla
proposta relativa ai mezzi con cui fronteggiarle, a garanzia della tendenza al
pareggio del bilancio stesso.
L’on. Mortati, nel frattempo, aveva già predisposto un articolo che poi fu
modificato in accordo con lo stesso Vanoni e che vide il consenso anche di
52
Einaudi, il quale era così formulato: “Le leggi, le quali importino maggiori oneri
finanziari devono provvedere ai mezzi necessari per fronteggiarli”. Varie critiche
furono mosse alla formulazione proposta dagli on. Mortati e Vanoni fino ad
arrivare alla proposta dell’on. Bozzi: “Nelle proposte di nuove e maggiori spese e
nelle leggi che le approvano devono essere indicati i mezzi per far fronte alle
spese stesse”; questa proposta fu poi approvata. La disposizione costituzionale fu
inclusa nell’articolo 77, dedicato al bilancio, del progetto di legge, con il seguente
testo “In ogni altra legge che importi nuovi o maggiori spese devono essere
indicati i mezzi per farvi fronte”: questa formulazione fu poi approvata in quello
che è l’attuale articolo 81 della Costituzione.
Molti studiosi sostengono però che l’originaria formulazione dell’articolo,
quella appunto proposta da Vanoni e Mortati, era più incisiva in quanto imponeva
alle leggi di spesa di “provvedere” ai relativi mezzi finanziari, mentre quella del
Bozzi si limitava a prevedere “l’indicazione” dei soli mezzi, con una disposizione
quindi più attenuata. Tramontana sostiene che l’attuale articolo 81 della
Costituzione, a causa proprio di tale formulazione, abbia dato vita ad equivoci e
raggiri nell’indicazione dei mezzi di copertura finanziaria, provocando una
continua crescita del disavanzo pubblico (Tramontana, 1987).
3.2.2 L’ordinamento regionale
Una tra le innovazioni più rilevanti della Costituzione può certamente essere
considerata l’istituzione delle regioni, la cui discussione, sulla struttura e sui
poteri, fu assai ampia e interessante e si svolse proprio nell’ambito della seconda
sottocommissione, a partire dal novembre 1946, in seguito ad un progetto del
Comitato sulle autonomie locali. Vanoni si dimostrò molto interessato
53
all’argomento e proprio in questo contesto, si ebbero, infatti, il maggior numero di
interventi; egli era a favore delle autonomie regionali, ma riteneva che il loro
ordinamento dovesse essere composto in modo da rispondere prima di tutto agli
interessi nazionali. Le discussioni in seno alla sottocommissione riguardarono
diversi aspetti della questione regionale, tra i quali le materie di loro competenza,
l’autonomia tributaria e finanziaria e gli statuti.
Secondo Vanoni la decisione di creare nuove regioni o delimitarle
territorialmente doveva essere presa in conformità a motivazioni pratiche,
soprattutto di carattere economico, compiendo, preliminarmente, approfonditi
studi sulla produzione agricola, sulle industrie, sulle condizioni finanziarie, sulle
caratteristiche etniche e linguistiche dei singoli territori e sullo sfruttamento
idrico; la creazione di una regione doveva essere giustificata, dimostrando
l’idoneità di quel territorio sulla base di queste ed altre caratteristiche e l’effettiva
opportunità di dare vita all’ente regione.
Vanoni sosteneva che lo stesso argomento valesse anche nel caso
dell’applicazione di norme speciali, tali da differenziare l’ordinamento
costituzionale di alcune regioni rispetto ad altre; anche qui sosteneva la necessità
di compiere studi preliminari all’applicazione della legge, per motivare
effettivamente la differenza d’ordinamento, preferendo, comunque, un’autonomia
il più possibile uniforme per tutte le regioni. Nella seduta del 15 novembre 1946,
Vanoni, affermava, infatti, che prima d’ogni altra questione relativa alla
determinazione di un ordinamento regionale dello Stato, era opportuno esaminare
le situazioni particolari di determinate regioni, per rendersi conto se esse
veramente fossero tali da richiedere, nella Costituzione, una regolamentazione
54
speciale, o se esse non potessero rientrare nel quadro di quell’autonomia generale
che si desiderava concedere a tutte le regioni d’Italia.
Altro problema riguardante le regioni che fu affrontato fu quello relativo
alle materie da attribuire ad esse sulla base di un progetto, predisposto sempre dal
Comitato per le autonomie locali, al quale Vanoni riteneva andavano apportate,
comunque, alcune modifiche. Pur, in linea di massima, d’accordo sull’elencazione
delle materie previsto nel progetto, prevedeva tra queste modifiche, ad esempio,
che in materia agricola fosse necessario trovare una soluzione tale da permettere
all’attività legislativa di tenere conto delle esigenze locali, estremamente diverse
da una regione all’altra, sempre nell’ambito dell’unità nazionale.
Proponeva di lasciare alle regioni la possibilità di integrare le leggi statali,
oltre che in materia d’istruzione elementare, anche in materia di scuole medie e
università, dubitando dell’opportunità di separare le scuole professionali dalle
altre, separazione effettuata nel progetto, con l’intento di affidare le prime alla
competenza esclusiva della regione. Egli sosteneva che, nei limiti comunque di
una legge statale, l’istruzione era un campo nel quale poteva affermarsi il
regionalismo in modo decisivo, e si dichiarava favorevole all’inclusione, nelle
materie prospettate, anche dell’igiene e della sanità pubblica a differenza del
credito, delle assicurazioni e del risparmio che considerava di competenza
nazionale.
Dal punto di vista dell’autonomia tributaria e finanziaria delle regioni,
Vanoni sottolineava di nuovo il fatto che anche in questa materia si doveva
cercare di creare un sistema d’autonomia tale da integrare l’unità dello Stato,
rafforzando l’ordinamento tributario del paese. La sua visione dell’autonomia
55
tributaria delle regioni, emerge chiaramente da un progetto di articolo22,
presentato in collaborazione con l’on. Mortati, che fu poi approvato dalla
sottocommissione; nel suo pensiero l’autonomia tributaria delle regioni doveva
attuarsi mediante una razionale ripartizione delle fonti di entrata fra lo Stato e le
regioni stesse, dimostrando la sua contrarietà a un sistema basato su contributi e
finanziamenti.
Vanoni tenne un importante intervento, in cui precisò ulteriormente la
propria posizione nei confronti dell’autonomia tributaria delle regioni, del
coordinamento di quest’ultima con il sistema tributario dello Stato e dei riflessi
che l’ordinamento tributario avrebbe potuto avere per la politica di sviluppo
economico regionale. La sua idea partiva dalla considerazione che, per favorire
effettivamente le regioni più povere, bisognava adottare un sistema che fosse
l’opposto di quello allora vigente in Italia il quale, sosteneva, con buona
probabilità, aveva portato ad indebolire maggiormente le regioni già povere a
vantaggio invece di quelle ricche. Si doveva attribuire alla competenza esclusiva
delle regioni e dei comuni le imposte immobiliari, ripartendo invece, tra lo Stato e
le regioni, il gettito dell’imposta di ricchezza mobile, in quanto quest’ultima era
quella che maggiormente risentiva dell’andamento economico complessivo di
tutto il paese. Vanoni, proponeva inoltre, la creazione di un’imposta sul reddito
complessivo, di carattere nazionale, accompagnata da un’imposta personale sul
patrimonio ai fini della ridistribuzione della ricchezza.
22
L’articolo 8 del progetto era così formulato: ”L’autonomia tributaria delle regioni sarà
determinata nei suoi limiti da una legge costituzionale che, coordinandola con la finanza dello
Stato e dei comuni, dovrà essere ispirata a criteri di ridistribuzione del reddito nazionale allo scopo
di attuare una perequazione interregionale”.
56
L’altro aspetto dell’attività finanziaria delle regioni di cui si occupò
riguardava le spese, sottolineando che non era possibile che la maggior parte della
spesa pubblica potesse essere sostenuta dalle regioni, ma era necessaria una
preminenza dello Stato in materia sulla base della valutazione delle varie
situazioni.
Si può considerare però che l’intervento più importante in materia regionale
di Vanoni sia stato quello del 15 dicembre 1946, quando si dovette discutere
dell’articolo 21 del progetto proposto dal Comitato, riguardante gli statuti
regionali; quest’intervento fu soprattutto, a differenza dei precedenti, di carattere
politico, permettendogli di precisare di nuovo la sua idea sull’autonomia delle
regioni.
Gli orientamenti della sottocommissione erano sostanzialmente due:
concedere un’ampia autonomia alle regioni in generale oppure, e questo era il
secondo orientamento, prevedere una propria autonomia solo per le regioni a
statuto speciale e per quelle a statuto ordinario una disciplina tramite una legge
dello Stato denominata “legge comunale e regionale”.
Nella discussione Vanoni sottolineò il proprio parere favorevole al
riconoscimento del potere delle regioni di darsi un proprio ordinamento
autonomo, in quanto, in mancanza di un proprio statuto, si attenuava
notevolmente l’autonomia regionale; al tempo stesso, però non accettava il
concetto di due diversi tipi di autonomia, non aderendo quindi all’idea che solo
quattro regioni dovessero avere una vera autonomia, mentre per le altre vi era un
semplice decentramento amministrativo. Vanoni voleva stabilire per tutte le
regioni un proprio ordinamento autonomo, realizzato nel quadro dell’unità statale,
attraverso l’approvazione degli statuti, da parte del Parlamento; proprio
57
quest’approvazione parlamentare, permetteva allo Stato un controllo delle
autonomie regionali.
3.2.3 Il contenzioso tributario
Importante è analizzare anche l’intervento dello statista, ai lavori della
Costituente, sul contenzioso tributario. Il compito di predisporre la parte del
progetto, riguardante l’organizzazione del potere giudiziario, era stato affidato alla
seconda sezione, della quale Vanoni però non faceva parte direttamente;
nonostante questo, di propria iniziativa, chiese di essere ascoltato per rilevare la
grave situazione in cui si trovava il sistema della giustizia tributaria italiana. La
discussione in seno alla seconda sezione riguardava, soprattutto, il problema della
definizione e della struttura degli organi competenti a trattare il contenzioso
tributario, problema che veniva ad inquadrarsi in quello più ampio dell’unicità o
della pluralità della giurisdizione. Le linee seguite dai membri della
sottocommissione erano due: la prima, più rigida, riteneva che tutta l’attività
giurisdizionale dovesse essere esercitata solo dalla magistratura ordinaria al fine
di mantenere l’unicità e l’indipendenza dei giudici, l’altro orientamento, più
possibilista, era favorevole all’istituzione dei giudici speciali sulla base, però, di
principi fondamentali dell’attività giurisdizionale.
Vanoni intervenne nella discussione in seguito ad una relazione presentata
dal Ministero della Costituente, sottolineando che dai risultati dell’indagine
emergeva chiaramente l’esigenza di eliminare dal contenzioso tributario
l’arbitrarietà esistente. Quest’arbitrarietà portava, infatti, ad avere disparità di
condizioni nei diversi settori, con leggi che escludevano la possibilità di ricorrere
al giudice ordinario una volta intervenuta la Commissione amministrativa, altre
58
leggi che concedevano un solo grado di giurisdizione, ed altre ancora che
addirittura prevedevano sei gradi di giurisdizione, tre in sede amministrativa e tre
in sede ordinaria. Vanoni voleva mettere in evidenza il fatto che in questo modo si
rischiava di non difendere effettivamente i diritti e gli interessi dei cittadini,
passando da casi in cui vi era un eccesso di contenzioso tributario, con lunghi
tempi di giudizio, a casi in cui si aveva un solo grado di giurisdizione.
Un’altra critica era mossa anche nei riguardi del fatto che i giudici del
contenzioso tributario erano nominati dal Ministero o dall’Intendenza di finanza,
considerate come parti e quindi non totalmente imparziali. Secondo Vanoni,
bisognava assicurare la rapidità dei procedimenti e i giudici dovevano avere una
sufficiente competenza giuridica ma anche conoscenze tecniche tale da permettere
non solo una valutazione di diritto ma anche una inerente alla particolarità della
controversia. L’idea di Vanoni era quella di considerare la necessità di una
profonda e sostanziale innovazione del procedimento tributario, proponendo ai
colleghi varie soluzioni: assegnare al giudice ordinario le questioni tributarie,
creando però sezioni speciali, istituire un tribunale amministrativo competente
anche in materia tributaria o, invece, creare un’organizzazione giudiziaria
specifica in materia tributaria.
Già nel saggio del 1938 “Il problema della codificazione tributaria”
(Vanoni, 1938), Vanoni aveva messo in evidenza la proposta di una revisione del
contenzioso tributario, tramite l’assegnazione ad un unico ordine di giudizio, nei
tre gradi normali di giurisdizione, con tribunali formati da giudici togati e onorari,
rilevando che l’esigenza di creare questi tribunali, composti da giudici con una
particolare formazione, si fondava sulla specialità della materia.
59
Riguardo poi alla specifica questione dell’unità o della pluralità, Vanoni era
favorevole alla presenza di una giurisdizione speciale, ritenendo preferibile che
questa fosse rappresentata da una corte tributaria autonoma piuttosto che dal
Consiglio di Stato, essendo richiesto, specificamente, un tribunale composto in
modo diverso e che avesse una giurisdizione separata; egli non negava che la
presidenza degli organi giudiziari tributari dovesse essere affidata ai giudici
ordinari, ma sosteneva che questi dovessero avere una maggiore preparazione in
materia. Si può rilevare, in queste considerazioni, quanto fosse forte l’influsso
dell’esperienza della Germania, esperienza che Vanoni conobbe direttamente in
occasione della citata borsa di studio della Fondazione Rockfeller vinta nel 1928
soprattutto per quanto riguarda l’istituzione di un’organizzazione giuridica
tributaria simile alla Corte Suprema tedesca.
3.2.4 La posizione del Primo ministro
Nel gennaio del 1947, alla seconda sottocommissione, si affrontò il
problema relativo alla posizione costituzionale del Primo ministro e dei ministri
stessi. Varie erano le posizioni al riguardo, ma Vanoni si schierò da subito fra
coloro che scelsero per la necessità di attribuire ampi poteri e responsabilità al
Primo ministro nell’ambito dell’attività di governo; riteneva che per non ricadere
nei difetti del passato parlamentarismo occorreva un’azione di governo
tempestiva, efficace e concorde, dove il Primo ministro agiva come un effettivo
dirigente della politica governativa, con un ruolo preminente rispetto a quello dei
ministri. Qualcuno riteneva, però, che questa situazione avrebbe potuto portare ad
un regime dittatoriale, ma Vanoni rilevava che il Primo ministro non poteva
andare di là della volontà del Parlamento, in quanto legato a questo dal mandato
60
di
fiducia, anzi, il rischio della forma dittatoriale sarebbe stato più grave
nell’ipotesi opposta di un indebolimento dell’esecutivo.
Sempre nei riguardi della posizione del Primo ministro, riteneva che questi
avrebbe dovuto avere il potere, previsto dalla Costituzione, di esonerare dalla
carica quei ministri che non si volevano conformare alle sue direttive e che,
nell’ambito della Costituzione, non si facesse specifica menzione del suo potere di
assumere un ministero ad interim, al fine di garantire un governo stabile ed
efficiente. Vanoni faceva notare che allora i governi erano il frutto di accordi fra i
grandi partiti, così come la scelta dei ministri e del programma governativo; si
batteva quindi per fare in modo che il capo del Governo avesse un potere
preminente anche nei confronti dei ministri.
Al termine della formulazione definitiva della Costituzione, non furono
accolti totalmente i poteri che Vanoni aveva previsto per il Presidente del
Consiglio dei Ministri, al fine di assicurare un esecutivo stabile ed efficiente; il
Presidente del Consiglio diverrà nell’ultima versione dell’articolo 95 non il Primo
ministro ma chi “dirige la politica generale del Governo e n’è responsabile”, chi
“mantiene l’unità d’indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e
coordinando l’attività dei ministri” divenendo, come lo definisce il Vigna, “un
ostaggio dei partiti, quando non delle correnti” (Vigna, 1991).
3.3 Il principio di capacità contributiva e la riserva di legge
3.3.1 Articolo 53 della Costituzione
Nei riguardi di questa tesi, fondata prevalentemente sulla riforma tributaria
attuata da Vanoni nel 1951, diventa importante analizzare altri due articoli della
61
Costituzione, legati alla sua figura: l’articolo 23, che enuncia che nessuno può
essere sottoposto a prestazioni patrimoniali o personali se non in base alla legge e
l’articolo 53 che esprime, invece, il principio di capacità contributiva e quello di
progressività del sistema tributario, strettamente legato a sua volta al principio
d’uguaglianza. Questi due articoli sono importanti in quanto in essi possiamo
cogliere temi già trattati da Vanoni stesso nel corso degli studi condotti in passato
e che costituiranno punti fondamentali per l’attività politica del futuro, facendo
parte della sua concezione di “giustizia sociale” e divenendo principi che
dovrebbero governare il sistema tributario. Questi due articoli producono,
nell’ambito dei rapporti politici finanziari, una svolta radicale rispetto alla
regolamentazione in materia che veniva offerta dallo Statuto Albertino, contenuta
negli articoli 25 e 30 di quest’ultimo.
Nell’opera “Diritto all’imposta e formazione delle leggi finanziarie”
(Vanoni, 1946), Vanoni partiva proprio dall’analisi delle modalità di
regolamentazione legislativa del sistema tributario, chiedendosi quale dovesse
esserne l’ampiezza a livello costituzionale. Passando in rassegna varie esperienze
straniere, tra cui in particolare quella tedesca e quella svizzera, sottolineava
proprio l’importanza di qualificare, in sede costituzionale, in modo esplicito il
dovere dei singoli di contribuire alla spesa pubblica ed il diritto degli enti pubblici
di richiedere tali contributi, proprio per dichiarare che nello Stato democratico la
cosa pubblica è la cosa di tutti e che tutti hanno l’obbligo di concorrere all’azione
comune col proprio sacrificio personale.
Già in una delle sue prime opere “Natura e interpretazione delle leggi
tributarie” (Vanoni, 1932), analizzando il tributo come fenomeno di scambio, e
collegandosi con il pensiero di Benvenuto Griziotti, stabiliva che vi erano due
62
principi che ispiravano i sistemi tributari vigenti: il principio della capacità
contributiva e il principio del beneficio. Il primo, basato sulla solidarietà sociale,
consiste nell’affermare che ognuno deve contribuire ai beni collettivi in rapporto
ai mezzi di cui dispone; l’altro principio, giustificato dal fatto che i servizi
pubblici non giovano a tutti i cittadini in eguale misura, porta a chiedere una
specifica contribuzione a chi trae un vantaggio particolare da certe attività dello
Stato: i due principi trovano applicazione nel sistema tributario uno accanto
all’altro e si compenetrano e completano nella costruzione di un identico tributo.
Vanoni applicava questa tesi al confronto tra la tassa e il tributo: nella tassa vige il
principio del beneficio, modificato dal criterio della capacità che entra in gioco
ogni volta che si concedono, ad esempio, delle esenzioni dalle tasse ai meno
abbienti o si proporzionano le aliquote alla capacità economica del soggetto;
nell’imposta si applica invece il principio della capacità, modificato da quello del
beneficio, in quanto la capacità di pagamento di un individuo può aumentare in
ragione dei benefici di cui gode e lo Stato deve tenerne conto. L’art. 53 della
Costituzione non fa che tradurre, in norma costituzionale, i due principi secondo i
quali causa del potere d’imposizione sono i benefici della spesa pubblica e causa
delle singole imposte per l’individuo è la sua capacità contributiva, che non va
considerata solo in sé ma anche in rapporto al quantum dei benefici tratti dalla
stessa spesa pubblica.
Analizzando l’obbligazione tributaria, nell’ambito degli “Elementi di diritto
tributario” (Vanoni, 1940), Vanoni rilevava proprio che il concetto di capacità
contributiva corrisponde non solo a manifestazioni oggettive della ricchezza, quali
il reddito, il capitale e il consumo, ma anche ad elementi di natura soggettiva
come l’origine della ricchezza, le condizioni personali del contribuente etc.
63
Nell’analizzare i sistemi esistenti di interpretazione e le possibilità di applicazione
dell’analogia, osservava che, nel campo delle leggi tributarie, è indispensabile
rilevare, attraverso le manifestazioni esteriori dell’attività individuale, la capacità
di sostenere l’imposta, per la buona applicazione della norma, l’esatto
apprezzamento della realtà delle cose e soprattutto della realtà economica. La
realtà delle cose è proprio considerata come un mezzo d’interpretazione delle
norme tributarie, ed un elemento sulla base del quale determinare la capacità
contributiva. Per Vanoni quindi, la capacità contributiva era il risultato di una
valutazione, di un giudizio fatto dagli organi a ciò qualificati intorno alla
posizione del soggetto e alla sua idoneità a concorrere ai carichi pubblici, con un
unico limite per la futura azione legislativa: che a situazioni uguali corrispondano
tributi uguali, richiamando così il principio d’uguaglianza contenuto nell’articolo
3 della Costituzione. L’articolo 53 della Costituzione applica in materia
finanziaria il principio di solidarietà politica, economica e sociale, espresso
dall’articolo 2, nell’ambito dei rapporti di convivenza comunitaria ed è inoltre
assimilabile anche all’articolo 4, dove viene previsto che ogni cittadino ha il
dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e le proprie scelte, un’attività o
una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società; il
dovere del singolo di contribuire ai carichi pubblici, sosteneva Vanoni, e il diritto
degli enti pubblici di chiamarli a contribuire, merita di essere affermato
esplicitamente nella Carta costituzionale.
Sempre nei riguardi di questo tema, lo statista diede un rilevante contributo
anche al superamento del riferimento soggettivo ai soli cittadini; l’articolo, infatti,
aprendosi con le parole “Tutti sono tenuti …” include non solo i cittadini italiani
ma anche, necessariamente, gli stranieri, eliminando, come voleva Vanoni, ogni
64
dubbio di un diverso fondamento dell’obbligazione tributaria. Dapprima
nell’opera “Natura e interpretazione delle leggi tributarie” e poi in “Elementi di
diritto tributario” lo statista aveva già analizzato la tassazione degli stranieri,
sostenendo proprio che questa dovesse avvenire anche nei loro confronti, quando
le relazioni con lo Stato raggiungono una certa intensità, realizzando un’effettiva
partecipazione dello straniero alla vita statale, quindi ai vantaggi che l’attività
dell’ente pubblico procura a coloro che si trovano nell’ambito della sua azione;
essi partecipano ai benefici della spesa pubblica, quindi maturano un obbligo di
contribuire al finanziamento della soddisfazione dei bisogni collettivi. Allo stesso
tempo, Vanoni, così come rilevava che la qualità di straniero o cittadino non
poteva
essere
assunta
come
criterio
costituzionalmente
rilevante
per
l’assoggettabilità all’imposizione, metteva anche in evidenza che ciò non
significava comunque che questa qualificazione fosse assolutamente irrilevante in
sede di definizione concreta del sistema tributario: l’essere cittadino o straniero si
traduce talvolta in una concreta differenza di posizione contributiva di cui la legge
non può non tenere conto. Questi concetti si collegano poi alla dichiarazione del
contribuente, che sarà poi al centro della riforma del 1951, in quanto è anche
tramite essa che lo Stato valuta gli elementi sulla base dei quali determinare la
capacità contributiva e quindi il carico d’imposta.
3.3.2 Articolo 23 della Costituzione
Strettamente legato all’articolo 53 è l’articolo 23, nel qual è contenuto il
principio secondo il quale il tributo può essere imposto solo con la legge. La
necessità della previsione dell’obbligazione tributaria tramite legge non faceva
altro che rappresentare, secondo Vanoni, una particolare applicazione del
65
principio dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge stessa; riteneva quindi
fosse necessaria una previsione implicita o esplicita a livello costituzionale di
questo principio che, faceva notare, era ormai contenuto in tutte le costituzioni
degli stati contemporanei. La norma tributaria, rilevava Vanoni nella sua prima
opera, è una norma giuridica, come tale essa presenta il carattere della bilateralità:
mentre da un lato stabilisce un dovere, dall’altro costituisce un diritto al prelievo
del tributo. La legge, nei confronti dell’obbligazione tributaria, ha due scopi: da
un punto di vista funzionale esprime e fissa i criteri politici di distribuzione del
carico fiscale; dal punto di vista formale, tutela giuridicamente questi criteri,
traducendoli in comandi giuridici. Oltre a queste funzioni, secondo Vanoni, la
legge tributaria deve avere due caratteri ben precisi: la generalità e l’astrattezza.
Essa deve cioè rivolgersi non ad un individuo determinato, ma alla generalità dei
contribuenti, escludendo in questo modo comandi amministrativi diretti a persone
o gruppi di persone ed altresì che il tributo nasce da un accordo, o contratto, tra
ente pubblico e soggetto: il carattere della generalità non va inteso come
applicabilità della norma a tutti gli individui, ma come applicabilità della norma a
tutti coloro che si trovano in condizioni identiche. Nello scritto “La persona
umana nell’economia pubblica” (Vanoni, 1945) stabiliva proprio che il principio
di generalità si attua quando diritti e doveri connessi con l’attività pubblica sono
comunicati a tutti i membri della società, con le sole graduazioni giustificate da
situazioni obiettive o di bisogno: questo rappresenta in sostanza il principio
d’uguaglianza formale e sostanziale sancito nell’articolo 3 della Costituzione. Per
Vanoni il tributo deve essere approvato con la legge, che a sua volta emana dagli
organi parlamentari che hanno il potere legislativo, in rappresentanza della
collettività, vale a dire la Camera e il Senato, in quanto la legge tributaria,
66
sosteneva, è una legge di natura uguale ad ogni altra. Inoltre, in “Natura e
interpretazione delle leggi tributarie” riteneva che nella pratica costituzionale, il
Senato si era mostrato spesso un critico più efficace rispetto alla Camera, i cui
membri erano troppo legati alle vicende dei partiti politici.
Queste considerazioni svolte da Vanoni, inerenti gli articoli 23 e 53, oltre
che fondamentali ai fini costituzionali, saranno di estrema importanza anche
nell’ambito della riforma del sistema tributario, che sfocerà nella nota legge di
“perequazione tributaria”: in essa inserirà, infatti, le sue idee, già contenute negli
studi precedenti, basandosi anche sui principi elaborati a livello costituzionale.
67
CAPITOLO QUARTO
LA RIFORMA TRIBUTARIA DEL 1951
4.1 Il sistema tributario italiano della fine degli anni ’40
4.1.1 Aspetti generali
Il sistema tributario della fine degli anni ’40 risaliva, nella sua struttura
essenziale, alla seconda metà del XIX secolo; era un sistema antiquato, che non
rispondeva più alle condizioni della vita economica di allora, ma soprattutto era
un sistema non più conforme alle necessità della vita politica di un paese che si
voleva ordinare secondo criteri democratici. La maggior parte dei progetti di legge
presentati in materia dopo l’unificazione del paese si ponevano soprattutto il
problema, che allora era urgente più d’ogni altro, di unificare il sistema tributario,
per fargli assumere una fisionomia che conserverà poi fino al 1951: il difetto
principale dell’ordinamento di allora era proprio considerato la mancanza di un
“sistema”, che non era stato possibile affermare per l’eccessiva produzione
giuridica che si era susseguita incessantemente negli anni. Il 1862 è l’anno in cui
fu promulgata la legge sul registro; a breve intervallo di tempo, nel quinquennio
68
1861-65, le leggi sulle altre imposte indirette sugli affari, sull’imposta sui
fabbricati ed, infine, nel 1877, il testo unico sull’imposta di ricchezza mobile. Dal
1870 in avanti non si ebbe nessuna riforma vera e propria, ad eccezione del testo
unico sulle finanze locali del 1931. Nel 1919 vi fu un progetto di riforma radicale
proposto dal Ministro Meda23, quello di gran lunga più elaborato e complesso, da
cui trasse origine però la sola imposta complementare: la mancanza di vere e
proprie riforme non significava però che il sistema tributario soddisfacesse la
collettività e i vari Ministri delle Finanze.
Nel secondo dopoguerra, l’insoddisfazione verso il nostro sistema si era
andata generalizzando e ciò a causa, oltre che all’aumento della pressione
tributaria, anche di un’accentuata sperequazione dovuta ad una sensibile
inefficienza amministrativa. La pressione fiscale in Italia aveva raggiunto, nel
1950, all’incirca il 25 per cento del reddito nazionale (Liguori, 1951), cifra che
rapportata a quella d’altri paesi risultava inferiore, ma tenuto conto del livello dei
redditi, appariva più gravosa, in termini di pressione reale pro-capite.
Il sistema tributario, al 1950, era rappresentato, prescindendo dalle imposte
minori e da quelle transitorie da (Cosciani, 1950):
− un’imposta generale sul reddito che colpiva il reddito stesso nel momento in
cui veniva percepito dal contribuente. Il tributo consisteva a sua volta in
quattro imposte, ad aliquote proporzionali, assolutamente indipendenti:
l’imposta sul reddito dei terreni, l’imposta sul reddito dei fabbricati urbani,
l’imposta sui redditi agrari e l’imposta sui redditi mobiliari (R.M.);
− un’imposta sulle successioni e sulle donazioni, a carattere progressivo;
23
Meda F. (Milano 1869-1939), uomo politico italiano, Ministro delle Finanze dal 1916 al 1949.
69
− una serie di imposte sugli affari come le imposte di bollo, di registro, etc.;
− un’imposta complementare alle precedenti, a carattere personale e
progressivo, sul reddito globale di ciascun contribuente, non coincidente però
con il cumulo dei redditi menzionati;
− un’imposta generale sull’entrata che colpiva ogni trasferimento di beni e le
prestazioni di servizi in ogni fase del ciclo di produzione e distribuzione;
− una serie, molto numerosa, di imposte sui consumi di beni specifici.
Questo sistema era completato poi da quello relativo alla finanza locale
comprendente:
− una serie di sovrimposte comunali e provinciali su talune imposte sul reddito
erariale;
− un’imposta personale sul reddito globale, progressiva ed accertata dal
Comune;
− una serie di imposte di consumo.
Il carico tributario non era equamente ripartito fra le varie categorie di
contribuenti. Si manifestava, prima di tutto, un’irrazionale sperequazione sociale:
i ceti medi erano relativamente più oppressi delle classi lavoratrici dipendenti e
dalla grande borghesia. Vi era poi una sperequazione territoriale dovuta al fatto
che, a fianco dello Stato, la facoltà di applicare imposte era attribuita anche ai
Comuni e alle Provincie. Si produceva l’assurdo fenomeno che due contribuenti,
aventi la medesima capacità economica, che risiedevano ad esempio in due città
diverse, erano tassati in modo diseguale per la diversa aliquota delle sovrimposte
locali. Infine bisognava considerare la sperequazione individuale tra contribuente
e contribuente, che finiva col gravare sui costi di produzione, poiché il
commerciante che assolveva puntualmente il suo dovere fiscale caricava il costo
70
complessivo e, quindi, il costo unitario della merce, creandosi in tal modo una
difficile posizione di concorrenza nei confronti di chi nulla pagava o non pagava
secondo giustizia. Il gettito delle imposte dirette, inoltre, costituiva appena un
quarto delle entrate fiscali, mentre le imposte indirette rappresentavano i
rimanenti tre quarti (Cosciani, 1950): per Vanoni questo era un difetto sostanziale
del nostro sistema. Un sistema tributario è, infatti, tanto più favorevole ai poveri
quanto maggiore è la parte che vi hanno le imposte dirette, il cui peso cresce col
crescere del reddito. Invece le imposte indirette sui consumi fondamentali
gravavano maggiormente sui redditi più bassi che sono, in maggior parte, dedicati
alla soddisfazione dei bisogni essenziali. Se si guarda il quadro complessivo degli
ultimi esercizi dal 1946-47 al 1950 (Liguori, 1951), si può notare il forte aumento
delle imposte indirette sugli affari: i cespiti che avevano perduto più sensibilmente
terreno erano proprio le imposte dirette.
TAB. 2: ENTRATE TRIBUTARIE DAL 1938-39 AL 1950-51 (in %)
ESERCIZI
TRIBUTI
1938-39
1946-47
1947-48
1948-49
1949-50
1950-51
IMPOSTE DIRETTE
23,62
15,70
14,17
13,65
14,46
17,02
TASSE ED IMPOSTE INDIRETTE
26,02
43,99
37,90
37,67
35,90
35,63
0,80
1,28
1,28
1,35
1,58
1,50
DOGANE
27,26
13,16
19,99
21,16
23,21
21,77
MONOPOLI
15,30
20,27
16,33
18,35
19,63
19,41
2,32
1,29
1,02
1,13
1,67
1,18
95,32
95,69
90,69
93,31
96,45
96,51
4,68
4,31
9,31
6,69
3,55
3,49
100,0
100,0
100,0
ADDIZIONALI
LOTTO E LOTTERIE
TOTALE
STRAORDINARI
TOTALE
100,0
100,0
100,0
Fonte: Liguori R., 1951, La riforma tributaria, Padova, Cedam, pag. 5.
71
Questa situazione, ovviamente, era anche in contrasto con l’articolo 53 della
Costituzione, secondo cui “tutti sono tenuti a concorrere alla spesa pubblica in
ragione della loro capacità contributiva”. Si era in presenza di un’imposizione
regressiva che sacrificava i redditi più bassi: il sistema italiano di allora, sia pure
per gradi, doveva modificarsi restituendo alle imposte indirette la funzione
d’entrata integrativa. L’accentuazione del peso relativo delle imposte dirette
poteva derivare, oltre che da riforme nella struttura dei tributi, anche da
miglioramenti nella loro amministrazione e da una sensibile riduzione delle
aliquote. Vanoni, come vedremo, volle, infatti, soprattutto riformare le imposte e
non solo crearne di nuove.
4.1.2 L’evasione fiscale
Leggi, norme e apparato fiscale necessitavano di una riforma: le prime
esprimevano, infatti, ancora un sistema che si basava sull’imposizione indiretta
che penalizzava i più poveri, i contribuenti poi reagivano alle leggi, determinando
un’evasione di colossali proporzioni, impunita e impunibile. All’inizio della
seconda guerra mondiale, il sistema tributario si presentava inoltre con una
caratteristica di prevalente realità nell’imposizione: gran parte del gettito
proveniva, infatti, dalle tre imposte reali, mentre gli unici elementi di personalità
erano costituiti dalla discriminazione a favore dei redditi da lavoro, prevista
nell’imposta di ricchezza mobile e soprattutto dall’imposta complementare.
Nonostante la facilità d’accertamento e di riscossione delle imposte reali, il
sistema tributario italiano presentava il duplice aspetto negativo dell’elevata
pressione tributaria e di una diffusa evasione fiscale; l’evasione era proprio uno
dei difetti più gravi. Nel 1938 Cosciani (Cosciani, 1950) arrivò a calcolare che il
72
reddito che assolveva regolarmente il suo obbligo fiscale era solo la metà del
reddito nazionale e, probabilmente, questa cifra era errata per eccesso. Nel
dopoguerra il fenomeno si era poi sensibilmente accentuato.
Varie erano le ragioni che avevano portato ad un’accentuata evasione
fiscale. Ragioni, innanzi tutto, di carattere storico: le vicende della storia politica
italiana avevano contribuito a deprimere il senso di solidarietà politica dei
cittadini e, soprattutto, avevano portato a considerare lo Stato, qualcosa a loro
ostile, anziché l’espressione della loro volontà. Vi era uno scarso senso di
democrazia nella società, mancava cioè il desiderio di partecipare alla cosa
pubblica nell’interesse di tutti e di sentire lo Stato come parte di se stessi: si era
creata una vera e propria insofferenza verso ogni ordine statale. L’evasore, in
Italia, inoltre, non solo non aveva da temere una “riprovazione sociale”, ma
poteva contare, nella generalità dei casi, anche in un’impunità dalle sanzioni.
Queste ultime, previste dalla legge in misura molto sensibile, di fatto, non
venivano quasi mai applicate, specie nel campo delle imposte dirette. A ciò si
aggiungeva anche il cattivo collegamento tra uffici di diversa competenza
territoriale o di materia, l’inadeguata attrezzatura degli uffici stessi e
l’impreparazione del personale: tutto questo ovviamente rendeva ancora più
difficile la scoperta delle frodi. L’Amministrazione disponeva inoltre di poco
tempo per effettuare i controlli e spesso, invece di ricercare gli evasori totali,
opera indubbiamente più faticosa, preferiva perseguire i contribuenti già noti,
diffondendo l’impressione che la cosa più importante fosse di rimanere
sconosciuti al fisco.
L’evasione era poi stata favorita anche dalla forte crescita della pressione
tributaria che, a lungo andare, aveva distrutto la moralità del contribuente, in
73
difficoltà nel fronteggiare i bisogni essenziali della propria vita. Anche il fatto che
la finanza statale era spesso stata male amministrata può avere influito
sull’evasione: spese eccessive che superavano le possibilità economiche della
nazione, spese a favore solo di alcune classi sociali o ritenute economicamente
infruttifere avevano portato a considerare l’imposta quasi come una taglia e non
come il prezzo che si pagava per il servizio prestato ai singoli. Il contribuente
aveva reagito quindi disinteressandosi della gestione delle spese pubbliche e
sottraendosi al pagamento della fattura, che gli era esibita sotto forma di cartella
esattoriale. Alla fine si era creato una sorta di circolo vizioso in cui si alternavano
la diffidenza del fisco rispetto alle dichiarazioni del contribuente e la tendenza
naturale di quest’ultimo ad evadere.
4.1.3 La personalizzazione delle imposte
Vanoni nell’elaborare la sua riforma valutò proprio tutti questi aspetti
negativi che in un modo o nell’altro era necessario superare assieme ad altri: la
mancanza di una moralità fiscale da parte del contribuente, l’impreparazione
professionale di molti funzionari dell’imposta, la cronica disorganizzazione degli
uffici, la pratica inadeguatezza delle sanzioni fiscali e l’incapacità del fisco di
identificare i nuovi contribuenti.
Il Ministro delle Finanze prese in considerazione un altro aspetto
fondamentale, che era poi uno degli inconvenienti strutturali più sensibili del
sistema che si accingeva a modificare: lo scarso peso che era riconosciuto agli
elementi soggettivi o personali che, a parità d’ammontare e di tipo di reddito,
modificavano la capacità contributiva dei singoli individui. Già in una delle sue
opere “Elementi di diritto tributario” (Vanoni, 1940), aveva proprio analizzato
74
quest’aspetto prendendo in considerazione non solo elementi oggettivi ma anche
soggettivi: per distribuire l’onere tributario il più possibile equamente era
necessario non solo commisurare l’imposta al reddito ma, altresì, collegarla alla
situazione personale soggettiva, in cui il contribuente si viene a trovare, e che
essendo molto varia deve essere valutata caso per caso. Il legislatore di allora
aveva preferito però una combinazione tra una serie d’imposte essenzialmente
reali, vale a dire che prescindevano da ogni considerazione personale o soggettiva,
cui si sovrapponeva un’imposta personale del tutto indipendente, di fatto, anche
nella determinazione del reddito. Anche nel nostro ordinamento non si era in ogni
caso potuto sfuggire all’esigenza della “personalizzazione” delle imposte dirette,
nei limiti del possibile. Negli anni precedenti si erano avuti, infatti, vari progetti
per un’imposizione generale personale o quanto meno un’imposta unica
proporzionale da sostituirsi alle vigenti imposte autonome reali.
4.2 La riforma tributaria del 1951
4.2.1 Generalità della riforma
Nel 1948 De Gasperi ravvisò nella riforma fiscale uno dei grandi temi che
impegnavano la Democrazia Cristiana per la ricostruzione e il rinnovamento
democratico del paese: subito pensò di attribuire questo compito a Vanoni, il
quale appariva, all’interno del partito, la persona più preparata a svolgerlo. Vanoni
si mise all’opera con un programma ben chiaro e molto ampio da realizzarsi in
modo graduale, metodico e tenace, ponendo l’accento soprattutto sui principi della
giustizia fiscale, come fatto fondamentale della democrazia politica.
75
Il primo passo del suo compito fu quindi quello di sistemare le situazioni
straordinarie ereditate dalla finanza bellica, e di riorganizzare e irrobustire gli
uffici finanziari. Il Ministro non nascose mai che, lo scopo ultimo della riforma,
doveva essere la creazione di un sistema strutturalmente diverso, volto
all’individuazione del massimo numero possibile di nuovi contribuenti e
all’eliminazione dell’incertezza e della profonda sperequazione esistente.
La riforma tributaria introdusse inoltre la dichiarazione annuale obbligatoria
per tutte le persone fisiche e giuridiche quale base unica d’accertamento del
reddito imponibile, con un nuovo metodo analitico, diverso dal precedente metodo
induttivo, inteso a ristabilire un rapporto di fiducia tra contribuente e fisco:
proprio a quest’ultimo spettava l’onere di provare la veridicità della dichiarazione.
A questo scopo vennero anche potenziati gli strumenti di controllo
dell’Amministrazione, con la meccanizzazione degli uffici e l’aggiornamento
professionale del personale. Inoltre Vanoni puntò sull’accentuazione del carattere
di personalità del sistema: per l’imposta complementare furono elevati i minimi
esenti e anche nell’imposta di ricchezza mobile, furono inseriti elementi di
personalizzazione e progressività. La riforma infine prevedeva un riordino
dell’imposizione diretta ed indiretta, con l’introduzione di più efficaci strumenti
d’accertamento e nuove imposte, tra cui quella sulle società24: per questi due
ultimi provvedimenti bisognerà attendere però solo fino al 1954-1956, quando lo
statista aveva già lasciato il Ministero delle Finanze per quello del Bilancio. La
maggior parte della riforma di Vanoni confluirà, in ogni modo, nella nota “Legge
24
Vedi capitolo quinto.
76
di perequazione tributaria” del 195125, per la quale il Ministro delle Finanze è
ancora oggi maggiormente conosciuto e che ha costituito fino al 1972 la maggiore
innovazione apportata al sistema tributario italiano del dopoguerra.
4.2.2 La legge sulla perequazione tributaria
La legge in esame comprende norme di carattere permanente, norme di
carattere straordinario e norme transitorie, queste ultime destinate ad agevolare la
soluzione di particolari situazioni.
a) Norme di carattere permanente:
− dichiarazione annua dei redditi soggetti alle imposte dirette, secondo le norme
del decreto legislativo luogotenenziale del 24 agosto 1945, n° 58526;
− riduzione dell’intervallo di tempo fra la percezione del reddito e il pagamento
dell’imposta e ciò a partire dall’esercizio 1952-53;
− estensione alle merci e alle materie prime possedute dalle imprese delle norme
dettate dalla legge sulla rivalutazione monetaria;
− tassazione in base a scritture contabili per le imprese non soggette a tassazione
in base a bilancio;
− normalizzazione delle aliquote;
− sistemazione delle posizioni irregolari del passato;
b) Norme di carattere straordinario:
− rilevazione fiscale straordinaria;
− criteri particolari per la valutazione del realizzo;
25
Legge 11 gennaio 1951 n. 25, Norme sulla perequazione tributaria e sul rilevamento fiscale
straordinario, pubblicata nel supplemento ordinario alla Gazz. Uff. 31 gennaio 1951 n. 25.
26
Decreto Legislativo Luogotenenziale, 24 agosto 1945, n. 585, Disposizioni sulla dichiarazione
unica per l’accertamento delle imposte dirette.
77
c) Norme di favore per la sistemazione di situazione tributarie contenziose o
pendenti.
Basta questo sommario richiamo ai punti salienti della legge di Vanoni per
comprenderne tutta la particolare importanza, come preparazione propedeutica
all’annunziata riforma degli ordinamenti tributari. Ritengo sia importante rilevare,
in ogni caso, che il Ministro sosteneva non bastasse questa sola legge per
rinnovare il modo di pensare e di agire della collettività: essa poneva le premesse
necessarie
per
preparare
il
terreno
adatto
all’attuazione
della
nuova
organizzazione fiscale che poi sarebbe stata completata da successivi
provvedimenti.
La legge consta di 7 titoli e di 49 articoli: il primo titolo (articoli da 1 a 5)
contiene norme sulla dichiarazione annuale dei redditi; il secondo (articoli da 6 a
17) una serie di norme relative alle imposte dirette; il terzo (articoli da 18 a 21)
riguarda la riscossione delle imposte dirette; il quarto (articoli da 22 a 32) è
dedicato al rilevamento fiscale straordinario; il quinto (articoli da 33 a 42)
contiene norme dirette ad agevolare la sistemazione di determinate situazioni
tributarie; il sesto (articoli da 43 a 45) disposizioni relative alla finanza locale ed il
settimo (articoli da 46 a 49) alcune disposizioni transitorie. Vanoni indicò poi
quattro principi che costituiscono i presupposti sui quali si fonda la legge:
I.
Principio della dichiarazione annuale.
II.
Principio dell’accertamento del reddito effettivo.
III.
Principio della dichiarazione analitica con l’abbandono dell’accertamento
deduttivo.
IV.
Principio della dichiarazione unica che accentra in un unico ufficio la
prima cognizione di tutti gli elementi di reddito.
78
In un’opera del 1937, “La dichiarazione tributaria e la sua irretrattabilità”
(Vanoni, 1937), Vanoni prese in considerazione la dichiarazione soprattutto in
relazione al suo possibile valore di confessione. Egli sosteneva che la natura della
dichiarazione tributaria andasse indagata con riferimento alla funzione ed alla
disciplina autonoma di quest’istituto nel diritto tributario e non già ricorrendo
all’istituto della confessione stragiudiziale del codice civile, alla quale, parte della
dottrina, l’assimilava. La dichiarazione tributaria, sosteneva già il Ministro, aveva
una duplice funzione: rendere noto all’Amministrazione che un’obbligazione
tributaria è sorta e determinare, di conseguenza, la messa in movimento
dell’attività amministrativa di fissazione concreta della prestazione del tributo e,
secondariamente, offrire gli elementi sulla base dei quali l’accertamento doveva
essere condotto. Per Vanoni l’interesse dell’Amministrazione che riceve la
dichiarazione tributaria non è quello di realizzare il proprio vantaggio ad ogni
costo, bensì quello di attuare il diritto. Vanoni volle chiamare questa legge “di
perequazione tributaria” perché, com’ebbe a rilevare più volte pubblicamente,
perequare voleva dire far pagare di più a chi poteva di più, per sgravare in minor
modo i meno abbienti dando ai cittadini la sensazione che l’Amministrazione è
giusta e che può arrivare a dare giustizia a tutti in modo che ognuno sopporti la
parte di sacrificio che deve sopportare.
La riforma Vanoni comprendeva, a completamento della legge sulla
perequazione, anche la promessa agli italiani di un sistema tributario moderno e il
raggiungimento della giustizia fiscale che però non potevano realizzarsi solo con
questa
legge,
essendo
necessario
una
specifica
riorganizzazione
dell’Amministrazione finanziaria, degli uffici e del personale intervenendo quindi
sulle sedi, sui mezzi e sugli uomini. Sin dai primi discorsi al Ministero delle
79
Finanze spiegò che l’obiettivo era di raggiungere il completamento dei quadri del
personale, una più razionale distribuzione di esso, il miglioramento del livello
tecnico e culturale dei funzionari, il rinnovamento degli uffici, inteso come
miglioramento delle loro condizioni ambientali e dell’attrezzatura tecnica.
4.3. La dichiarazione dei redditi
4.3.1 La disciplina giuridica
La dichiarazione annuale dei redditi rappresenta la base fondamentale della
legge 11 gennaio 1951 n. 25 ed aveva lo scopo principale, com’è sottolineato
anche dalla relazione della IV Commissione della Camera dei Deputati (Asia,
1956), di rompere il rapporto di diffidenza che fino ad allora aveva dominato tra
fisco e contribuente sostituendolo con una reciproca lealtà. Tale dichiarazione non
era però esclusivamente regolata dalla legge di perequazione di Vanoni, in quanto
quest’ultima richiamava all’articolo 1 il Decreto Luogotenenziale del 24 agosto
1945 n. 585, abrogato però del secondo comma dell’articolo 18 e degli articoli 19,
20, 21 e 24. La nuova legge trasse origine proprio dal suddetto decreto, che però
non era entrato mai in vigore, per ragioni contingenti e tecniche: la sua attuazione
era, infatti, subordinata all’emanazione di un decreto ministeriale che si ritenne
sempre opportuno rinviare27. La legge n. 51 apportava al decreto n. 585 modifiche
e integrazioni dirette soprattutto a sviluppare criteri di praticità nell’ambito
dell’obiettivo di riassetto dell’imposizione diretta. Si può notare, in ogni caso, che
27
Il 5 luglio del 1951 però, è emanato il DPR n. 573 che rappresenta il Testo Unico delle
disposizioni contenute nei due provvedimenti indicati, relativamente all’istituto della
dichiarazione.
80
la nuova legge non aggiungeva radicali innovazioni alla disciplina vigente, la
quale conteneva già disposizioni che regolavano la materia, ma che erano, in
concreto, andate in disuso per desuetudine: Vanoni quindi più che dare vita a
nuove disposizioni si era preoccupato di ridare efficacia pratica a tutto questo
complesso normativo, tra cui appunto il decreto 585. Lui stesso affermò in
Parlamento: “Il progetto di legge che voi esaminate non è certo la riforma
tributaria, non è tutta la riforma tributaria, ma come ogni prima e più difficile
passo rappresenta però, dal punto di vista politico e morale, un’imposizione che
tocca da vicino l’essenza psicologica e politica di una riforma innovatrice del
nostro sistema fiscale.” (Vanoni, 1968).
4.3.2 Contenuto della dichiarazione
Tre sono, innanzi tutto, i caratteri che contraddistinguono principalmente la
dichiarazione dei redditi voluta da Vanoni: l’annualità, l’unicità e l’obbligatorietà.
L’accertamento tributario, come previsto dalla legge, era fondato sull’analisi della
situazione economica del contribuente, tenendo in considerazione i dati forniti da
lui stesso, tramite la dichiarazione contenente la denuncia della sua situazione di
fatto, insieme agli altri elementi necessari per liquidare il debito tributario. Era
quindi abbandonato il vecchio sistema induttivo dell’istituto della conferma col
silenzio del reddito accertato nell’anno precedente, che trovava le sue origini
nell’art. 24 del T.U. 24 agosto 1877 n. 4021 e la sua giustificazione nei casi in cui
le variazioni del reddito di anno in anno erano in pratica irrilevanti; istituto che
poi aveva portato i contribuenti a tacere inizialmente anche le variazioni più
sensibili dei redditi e poi, col passare del tempo, ad effettuare solo le
dichiarazioni, o rettifiche, in diminuzione. Sosteneva Vanoni “La consuetudine
81
era molte volte più forte della legge ed aveva portato a dimenticare in sostanza
l’esistenza di quest’obbligo e allora ognuno, ogni cittadino se ne stava tranquillo
nel proprio ambito d’attività privata, aspettando che il fisco si facesse vivo, che il
fisco venisse a disturbarlo dentro la sua casa.” (Vanoni, 1950).
La dichiarazione, come stabilisce l’articolo 1 del T.U. del 1951 era annuale,
in altre parole doveva essere presentata ogni anno, anche se non erano intervenute
variazioni rispetto ai redditi accertati nell’anno passato: l’omissione della
dichiarazione costituiva un comportamento antigiuridico, un atto positivo
d’evasione fiscale, punito con una sanzione autonoma, l’ammenda. La
dichiarazione
resa
in
ciascun
anno,
era
considerata
vera
da
parte
dell’Amministrazione fino a quando non risultava il contrario.
Oltre che annuale la dichiarazione era anche unica, in quanto comprendeva
tutti i redditi percepiti dal titolare della denuncia e dai membri della sua famiglia,
e valeva per l’accertamento delle diverse imposte applicabili sui singoli redditi,
secondo la loro natura (imposizione reale) e sul complesso di tutti i redditi
(imposizione personale), con l’accentramento in un unico ufficio della cognizione
di tutti gli elementi del reddito tassabile al fine di conoscere meglio la situazione
economica complessiva del contribuente e facilitare i controlli.
L’obbligo della denuncia rispondeva poi all’esigenza posta dall’articolo 53
della Costituzione, secondo la quale “tutti sono tenuti a concorrere alle spese
pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”. Tale principio della
dichiarazione trovò però, nella stessa legge di perequazione, particolari limiti, in
quanto dalla dichiarazione erano espressamente esonerate alcune categorie di
contribuenti, il cui riconoscimento avveniva solo considerando la loro situazione
di fronte all’imposta complementare.
82
La dichiarazione dei redditi doveva essere consegnata, a partire dal 1951,
ogni anno dal primo di gennaio al 31 di marzo e in essa erano dichiarati tutti i
redditi, di qualunque specie, pertinenti al medesimo soggetto. Un aspetto
importante che fu considerato fu quello di avvicinare quanto più possibile il
momento in cui il reddito era maturato a quello in cui il contribuente pagava
l’imposta ad esso relativa. Nel passato non si era dato molto peso a quest’aspetto
ma con la riforma si intende ovviare alla sperequazione che veniva a crearsi tra le
diverse classi di reddito: molti contribuenti pagavano l’imposta nel momento
stesso in cui percepivano il reddito, altri invece adempivano a volte anche dopo
più di due mesi. Di ogni reddito dovevano essere indicati la fonte, e gli elementi
rilevanti per l’accertamento analitico, cioè l’importo lordo, le spese detraibili e
l’importo netto, nonché, agli effetti dell’imposta complementare progressiva sul
reddito complessivo, gli onere deducibili e gli altri titoli di detrazione previsti
dalla relativa legge. La dichiarazione doveva quindi essere presentata da tutti
coloro che percepivano un reddito, tranne una categoria di soggetti esenti che,
come rilevò più volte lo stesso Vanoni, non erano esonerati dall’imposta ma
dall’obbligo della dichiarazione, qualora questa appariva superflua ai fini
dell’accertamento dell’imposta stessa. Nella legge era poi prevista la facoltà degli
uffici distrettuali delle imposte dirette di trasmettere ai contribuenti, tramite
raccomandata, dei questionari relativi all’accertamento dei redditi da restituire
entro 15 giorni. L’istituto dei questionari era nuovo nella legislazione delle
imposte dirette: integrativi della dichiarazione che, anche se resa conformemente
alla legge, non sarebbe bastata all’ufficio per controllare l’entità effettiva dei
redditi dichiarati, avevano anche lo scopo di semplificare i rapporti tra fisco e
contribuente, riducendo al minimo le richieste di comparire presso l’ufficio per
83
informazioni o spiegazioni. La IV Commissione permanente della Camera dei
Deputati (Asia, 1956), sottolineò l’importanza di valutare con molta attenzione le
ipotesi della incompleta compilazione e la non veritiera redazione dei questionari
per evitare che fossero messi sullo stesso livello chi materialmente errava nel
rispondere e chi dolosamente rispondeva in contrasto con la verità. L’azione della
Finanza, per la rettifica dei redditi, si prescriveva con il 31 dicembre del terzo
anno successivo a quello in cui la dichiarazione era stata presentata o doveva
essere presentata. Invece, relativamente ai redditi non dichiarati o non oggetto di
precedenti accertamenti, la prescrizione si aveva alla fine del quarto anno. La
dichiarazione doveva essere comunque presentata anche nel caso di mancata
variazione dei redditi rispetto al passato. Nel caso d’omissione nella
presentazione, i redditi accertati per l’anno precedente continuavano ad essere
iscritti a ruolo in via provvisoria con un aumento del 10 per cento, e si
determinava una fattispecie di evasione fiscale, punita con sanzioni appositamente
disposte e distinte da quelle applicabili per la trasgressione delle singole imposte.
La dichiarazione, redatta su un modello predisposto dall’Amministrazione
finanziaria, doveva essere il più possibile analitica, così da porre la stessa
Amministrazione nella posizione di determinare un reddito il più possibile
aderente a quello effettivo.
4.3.3 Scopo della dichiarazione dei redditi.
Lo scopo principale della dichiarazione e uno degli elementi fondamentali
che la contraddistinguono maggiormente può essere considerato il tentativo di
contribuire a raggiungere una partecipazione effettiva alle spese pubbliche di tutti
i contribuenti, in ragione della capacità contributiva del soggetto e secondo il
84
criterio della progressività: fino ad allora l’ordinamento non rispondeva né all’uno
né all’altro di questi principi e quindi si rendeva necessaria una riforma tributaria
imposta dalla stessa Costituzione. Inoltre, si mirava a creare un rapporto diverso
tra fisco e contribuente dal punto di vista psicologico, sostituendo alla reciproca
sfiducia, che aveva dominato fino ad allora, una reciproca fiducia, che inducesse il
contribuente ad essere veritiero, nella certezza di essere creduto. Vanoni voleva
convincere i contribuenti che i loro obblighi tributari si basavano su un dovere
sociale ed erano quindi anche un dovere morale pari, come sosteneva lui stesso,
all’esercizio del voto o alla difesa della patria. Nel sistema precedente, il fisco
“andava a casa” del contribuente, per stabilire quanto questi doveva pagare; con la
dichiarazione dei redditi la situazione si rovescia. E’ il cittadino che, con la
riforma, dice al fisco quanto deve pagare, il fisco poi effettua i controlli e prova,
eventualmente, che la dichiarazione è errata o falsa: vi fu l’inversione dell’onere
della prova, rispetto al sistema dell’accertamento d’ufficio.
Il nuovo rapporto di collaborazione tra fisco e cittadino non poteva quindi
prescindere
da
un
mutamento
dell’atteggiamento
dell’Amministrazione
finanziaria di fronte al contribuente. Si arrivò ad anticipare, quasi di
cinquant’anni, gli scopi della L. 27 luglio 2000 n. 212, nota come “Statuto del
Contribuente”28, parte di quella riforma che dal 1999 ha interessato
l’Amministrazione finanziaria e che può essere considerata come una
continuazione, in chiave moderna, dell’opera di Vanoni.
Alla base di questo orientamento si poneva quindi la dichiarazione dei
redditi, una dichiarazione che però, per raggiungere il suo scopo, doveva essere
28
Legge 27 Luglio 2000, N. 212, Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente
(G.U. 31 luglio 2000 n. 177).
85
veritiera. Lo stesso Ministro delle Finanze era molto fiducioso, anzi sicuro, che gli
italiani “Non andranno certamente cantando a depositare le loro schede di
dichiarazione all’Ufficio, ma faranno il loro dovere, lo faranno perché è
indispensabile per avere quell’Italia rispettata nel mondo, degna del proprio
destino e dei propri figli che tutti noi vogliamo, che voi volete, come il Governo
vuole.” (Vanoni, 1951).
4.3.4 Critiche mosse all’introduzione della dichiarazione annuale
Seppure vi furono autorevoli consensi, varie, allo stesso tempo, furono le
critiche nei confronti della dichiarazione annuale e quindi della stessa riforma
tributaria. Innanzi tutto, pur valutando positivamente l’introduzione della nuova
dichiarazione dei redditi, molti rilevavano la necessità di accompagnarla con un
potenziamento degli uffici, considerati inadeguati e impreparati a controllare
un’enorme massa di dichiarazioni, in modo che il materiale offerto dal
contribuente potesse seriamente servire agli uffici stessi: Vanoni non trascurò
quest’aspetto, infatti, nella sua riforma tributaria ritroviamo proprio la
riorganizzazione dell’Amministrazione dal punto di vista del personale, delle sedi
ed infine degli strumenti.
Vennero delineati inoltre gli oneri e gli svantaggi (Liguori, 1950) derivanti
dalla dichiarazione, sia per quanto riguardava l’Amministrazione che il
contribuente: dal punto di vista dell’Amministrazione gli svantaggi potevano
derivare dalla spesa dei moduli e del loro recapito o dall’aumento del lavoro negli
uffici rispetto al passato; per il contribuente invece si avevano nuovi obblighi di
carattere procedurale e una maggiore instabilità e incertezza circa l’onere
tributario. Si sosteneva che la dichiarazione poteva risultare macchinosa,
86
soprattutto per coloro che erano inesperti, portandoli a ricorrere ad aiuti costosi
per compilarla: Vanoni tranquillizzò questi dubbi sottolineando che il modulo era
estremamente semplice e che per i redditi più elevati o complessi vi erano degli
allegati che si adattavano alle situazioni economiche e soggettive dei singoli
contribuenti.
Spesso si obiettava allo stesso Ministro delle Finanze che il sistema
tributario italiano era antiquato e logoro, il lungo periodo del conflitto mondiale
ne aveva accentuato i lati negativi e che bisognava realizzare, senza indugio, un
rinnovamento sostanziale: il Ministro rispondeva, con quell’atteggiamento sereno
e rigoroso che gli era proprio, che i tributi nuovi e concepiti modernamente non
avrebbero conseguito alcun risultato serio ed apprezzabile, quando si fosse
continuato ad amministrarli ad a pagarli con quel carattere approssimativo che si
era avuto fino ad allora. Vanoni pose l’accento poi, più volte, sul fatto che gli
effetti sostanziali della dichiarazione dei redditi si sarebbero visti e misurati in
termini di anni, in quanto attuare perfettamente questo sistema, di punto in bianco,
era impossibile, se prima non si fossero eliminati gli aspetti negativi che lo
caratterizzavano.
Lo stesso statista non avrebbe mai appoggiato, secondo Forte (Forte, 1996),
una riforma fiscale improvvisa e sconvolgente nelle strutture, quale quella
Cosciani-Visentini del 1972-1973 (Cosciani, 1991), che introdusse due nuove
imposte sul reddito complessivo, abolendo tutte le imposte precedenti: l’IRPEF, a
carattere personale e progressivo sul reddito globale delle persone fisiche, che
nella sua struttura riprendeva le linee della complementare, ma come importanza
venne ad occupare lo spazio delle imposte reali e l’IRPEG applicata, invece, sul
reddito globale delle persone giuridiche. Dette imposte erano poi completate da
87
altri tributi essenzialmente complementari: l’ILOR, su tutti i redditi non da lavoro
dipendente, a carattere reale con aliquota unica che sostituiva le imposte reali e
l’imposta sull’incremento di valore degli immobili (INVIM), sulle plusvalenze
immobiliari.
Altre critiche, alla dichiarazione di Vanoni, puntavano sul fatto che non si
credeva che i contribuenti italiani, dal più povero al più ricco, avessero raggiunto
una maturità civile ed un’intima coscienza tributaria tale da diventare tutti tanto
onesti da dichiarare al fisco quello che quotidianamente incassavano e
guadagnavano
nelle
loro
molteplici
attività
lavorative
e
produttive.
L’obbligatorietà della dichiarazione, si obiettava poi, non era nuova: essa era
vecchia quanto la legge fondamentale dell’imposta di R.M. e quanto tutte le altre
leggi in materia, susseguitesi nel tempo, sino alla legge dell’imposta progressiva
sul patrimonio, che non avevano dato un esito positivo.
Vanoni però, proprio in considerazione di questi aspetti, non voleva rifare
gli errori del passato e basava quindi tutta la sua opera sul cambiamento del
rapporto tra fisco e contribuente, necessario punto di partenza per il buon esito
della riforma tributaria stessa.
4.4 Altro contenuto della legge di perequazione
4.4.1 Rilevamento fiscale straordinario
A completamento della dichiarazione annuale dei redditi Vanoni volle
immettere, nella legge di perequazione, un censimento generale29 dei contribuenti
29
Il rilevamento fiscale straordinario doveva essere preceduto da tre grandi censimenti disposti dal
Governo: il censimento demografico, il censimento industriale e il censimento agricolo.
88
sulla base del quale doveva agire la riforma tributaria, al fine di evitare che
qualcuno potesse sfuggire al dovere di provvedere al pagamento delle imposte. Il
rilevamento fiscale straordinario, così fu definito, si fondava su motivi diversi da
quelli concernenti la dichiarazione annuale e non ne costituiva un duplicato.
Questo istituto fiscale mirava, infatti, a combattere il fenomeno dell’evasione
totale e tendeva a raccogliere gli elementi obiettivi inerenti la persona del
contribuente, come l’attività normale che svolgeva, i cespiti su cui contava per i
propri bisogni essenziali, il comune dove essi si trovavano, la composizione della
famiglia, mentre la dichiarazione aveva lo scopo di fare conoscere i redditi
soggetti alle imposte dirette: erano suscettibili di rilevamento anche quelle fonti di
redditi che non provenivano da un’attività esercitata, né dal possesso di un
patrimonio, come, per esempio, il godimento di una pensione o di un sussidio o
contributo, dato senza corrispondente prestazione d’opera. Una duplicazione, se
mai sussisteva, si aveva con quella operazione simile di rilevamento di cui all’art.
25 del decreto n. 585, che prevedeva rilevamenti rinnovabili periodicamente
Vanoni vedeva nell’istituto del rilevamento un’operazione che tendeva a far
acquisire all’Amministrazione elementi il più possibile completi sulla situazione
economica individuale di ciascun contribuente e sui mezzi di sostentamento da cui
ciascuno traeva le proprie risorse, cercando di affrettare i tempi e rendere più
completa ed agevole l’opera degli uffici che in ogni caso, rilevava nella Relazione
Ministeriale (Vanoni, 1968) del 27 luglio 1950 al Senato, sarebbero riusciti ad
identificare ugualmente i redditi e i contribuenti attraverso una paziente, metodica
e laboriosa attività di reperimento che però avrebbe richiesto più tempo e
maggiori spese.
89
Scopi dell’istituto possono quindi essere considerati il controllo, la lotta
contro l’evasione fiscale e la raccolta di dati statistici atta a consentire al fisco di
aggiornare e di impiantare, ove manchi, l’anagrafe tributaria: tali attività erano
condotte dall’Amministrazione in collaborazione con il Comune e gli altri enti.
Appare più che intuitivo ed evidente l’obbligo morale e giuridico, che era presente
anche nella dichiarazione, della sincerità: lo Stato, conosciute in tal modo le
capacità economiche dei cittadini, aveva la possibilità di ripartire in equa misura il
carico tributario necessario per sopperire alle spese del fabbisogno nazionale.
4.4.2 La sistemazione di situazioni irregolari del passato
Al fine di attuare appieno la propria riforma, Vanoni si chiedeva poi se “Era
possibile premiare coloro, interamente premiare coloro i quali con la loro
resistenza, col sottrarsi continuamente agli inviti degli Uffici ed agli adempimenti
degli obblighi più evidenti erano riusciti a non pagare il tributo nel periodo
passato?” (Vanoni, 1968). Valutando la situazione concreta, si rendeva conto che
andare a ripescare tutte le irregolarità non avrebbe fatto altro che alterare il
rapporto di fiducia con il contribuente stesso. Il titolo V della legge, (articoli da 33
a 41), contiene quindi, una serie di disposizioni dirette ad agevolare la
sistemazione di determinate situazioni tributarie irregolari del passato.
Vanoni giustificò questo complesso di norme di sanatoria come facente
parte della preparazione generale degli elementi favorevoli all’introduzione del
nuovo ordinamento tributario. Egli rilevava, infatti, che un ostacolo psicologico
ad una dichiarazione veritiera del contribuente era proprio rappresentata dal
timore che l’Amministrazione si avvalesse degli elementi così acquisiti per
appesantire gli accertamenti ancora in sospeso e riguardanti gli anni passati.
90
Nonostante questa possibilità di sistemazione concessa al contribuente, era in ogni
caso evidenziata la necessità di mantenere il criterio di giustizia che voleva che i
contribuenti meno solleciti non avessero un trattamento di favore rispetto a quelli
che avevano, invece, adempiuto il loro dovere in modo esatto.
Anche nell’ambito di questo istituto, lo scopo principale del Ministro delle
Finanze era, in ogni caso, sempre quello di creare un’atmosfera di fiducia verso
l’Amministrazione finanziaria da parte del contribuente, eliminando l’enorme
numero di contestazioni pendenti dinanzi agli Uffici e dinanzi alle Commissioni
tributarie e riguardanti le imposte dirette, le tasse, le imposte indirette sugli affari
e le società (fusione di società, concentramento di Aziende sociali, società non
regolarmente costituite, aumenti di capitale).
4.4.3 Imposte dirette
Nel campo delle imposte, un obiettivo particolarmente impegnativo
perseguito da Vanoni, fu quello di introdurre aliquote graduate secondo la
capacità contributiva dei singoli contribuenti, dei beni e dei vari presupposti
d’imposta. Secondo il Ministro, però, all’opera di miglioramento della tecnica
degli accertamenti, riduzione delle aliquote e lotta contro l’evasione bisognava
aggiungere, per realizzare effettivamente la riforma tributaria, una modifica della
struttura delle singole imposte, la semplificazione di quelle esistenti, la creazione
di alcuni tributi nuovi: tutto questo rinnovando però la stessa definizione di
reddito imponibile, passando da un concetto statico, vigente fino allora, ad un
concetto dinamico.
Al fine della realizzazione del principio costituzionale della progressività
tributaria, Vanoni riteneva fondamentale attuare quella che è stata definita la
91
personalizzazione delle imposte: già in un discorso alla Camera del 1948
sosteneva “Il fondamento della riorganizzazione del sistema tributario italiano è
quello segnato dalle norme costituzionali, che vogliono un ordinamento che
realizzi la progressività del sistema delle imposte. Questi scopi si possono
raggiungere operando contemporaneamente secondo il mio pensiero sulle
imposizioni dirette e indirette.” (Vanoni, 1968). Una parte di questo lavoro fu
compiuta, da Vanoni, con la personalizzazione dell’imposta reale di ricchezza
mobile, altra tappa fu quella dell’introduzione dell’imposta sui patrimoni e sui
redditi e delle società di capitali30, quest’ultima attuata nel corso della permanenza
al Ministero del Bilancio.
La parte della legge dedicata alle imposte dirette può essere considerata
come la conferma dell’atteggiamento fiducioso del Governo verso i contribuenti:
si tratta, infatti, della parte che riguarda la riduzione delle aliquote. Le aliquote di
allora erano molte elevate e rispecchiavano una situazione monetaria che era
ormai superata per effetto dell’inflazione post-bellica, tanto da costituire un peso
insopportabile per la generalità dei contribuenti31. Era ovvio che, in una simile
situazione, l’evasione fiscale dilagasse quasi “entrando a far parte del costume dei
contribuenti quasi come l’unico mezzo di difesa contro l’eccesso delle pretese del
fisco” (Asia, 1954).
Per l’imposta complementare32, oltre che una riduzione delle aliquote,
furono elevati i minimi esenti e introdotte ulteriori detrazioni; Vanoni riteneva che
nonostante si fosse in una situazione che imponesse ad ogni contribuente il
30
Vedi capitolo quinto.
Su un reddito di 8000 miliardi, di 46 milioni di abitanti, pesava un aggravio fiscale complessivo
di 2100 miliardi.
32
Imposta complementare progressiva sul reddito, istituita con il R.D. 30/12/1923 n. 3062.
31
92
massimo dei sacrifici e dello sforzo nella distribuzione dei carichi pubblici, fino a
che non fosse completata la ricostruzione finanziaria, le aliquote non potevano
essere superiori a quelle fissate nella legge, al fine di non compromettere il
rapporto con il contribuente o inaridire il risparmio individuale. Introdotta la
detrazione fissa di L. 240.000 per qualsiasi contribuente, salvo tutte le altre
detrazioni, la progressività era stata molto attenuata, partendo da aliquote del 2 per
cento fino a raggiungere il 50 per cento per i redditi oltre 499 milioni annui.
Anche
nell’imposta
di
ricchezza
mobile
furono
inseriti
elementi
di
personalizzazione e progressività.
Quella voluta dal Ministro era in ogni caso una sistemazione transitoria
dell’imposizione diretta sul reddito: egli sosteneva che bisognava agire con
energia, ma anche con prudenza. La progressività rimaneva comunque una scelta
necessaria, e non solo contingente per l’intero sistema tributario, al fine di imporre
il prelievo, soprattutto sui redditi più elevati e sui patrimoni più rilevanti, nel
contesto di un sistema caratterizzato da molteplici imposte dirette, alcune reali e
proporzionali e una personale e progressiva. Vanoni non nascose mai un giudizio
critico nei confronti non delle vecchie imposte ma del loro effettivo
funzionamento: riteneva che la riforma, pur incisiva, doveva avvenire per gradi e
che priorità assoluta doveva essere concessa all’esigenza di rimettere il rapporto
d’imposta su un piano di serietà e di valutazione obiettiva.
Tutto questo portò quindi ad una riduzione sensibile delle aliquote che
riguardò, in modo decisivo, l’imposta complementare, quella di ricchezza mobile,
l’imposta di famiglia, l’imposta generale sull’entrata e l’imposta di registro. La
riduzione delle aliquote doveva portare al riavvicinamento della realtà alla legge
e, quindi, preparare il terreno all’emanazione dei successivi provvedimenti. Si
93
deve riconoscere che le nuove aliquote erano di livello equo e, dopo un’ulteriore
riduzione alla base e un aumento di quota esente per ogni persona a carico, il
contribuente italiano, anche di modesta capacità contributiva, era messo in
condizione, agli effetti della complementare, di dichiarare il reddito effettivo,
senza il timore di una tassazione predatrice.
TAV.3: VARIAZIONE DELL’ALIQUOTA DELL’IMPOSTA COMPLEMENTARE
DAL 1940 AL 1951
1940
1945
1947
1950
L. n. 800/1940
D.L. n. 384/1945
D.L. n. 87/1947
L. n. 25/1951
Redditi
Aliquote
Redditi
Aliquote
3.000
2,00
12.000
2,0
5.000
2,22
20.000
12.000
2,16
20.000
Redditi
Aliquote
60.000
2,00
2,305
100.000
40.000
3,373
2,65
60.000
40.000
4,19
60.000
Redditi
Aliquote
240.000
2,00
2,790
2.000.000
3,17
240.000
4,934
5.000.000
6,00
4,409
500.000
7,958
10.000.000
8,11
100.000
6,275
1.000.000
12,500
50.000.000
16,92
4,92
240.000
11,262
5.000.000
35,479
100.000.000
23,43
100.000
6,02
500.000
17,486
10.000.000
55,602
200.000.000
32,49
240.000
9,94
1.000.000
25,00
50.000.000
73,573
400.000.000
45,04
500.000
15,20
5.000.000
46,361
60.000.000
75,00
500.000.000
50,00
1.000.000
10,00
10.000.000
55,602
ed oltre
ed oltre
ed oltre
Fonte: Relazione della IV Commissione Permanente della Camera dei Deputati, Asia, 1954.
Fin dal 1942 Vanoni fu favorevole senza riserve all’imposizione delle
persone fisiche secondo il modello dell’imposta unica progressiva sul reddito,
schierandosi in quell’anno con Griziotti, nell’ampia discussione che si svolse sulla
riforma dell’imposta complementare in una commissione dell’Istituto Nazionale
94
di Finanza Corporativa. Col passare degli anni la sua posizione divenne più cauta,
ma l’obiettivo finale rimase sempre l’imposta unica personale progressiva. La
riforma sostanziale del sistema tributario intorno ad un’imposta personale
progressiva sul reddito fu poi realizzata negli anni ’70, mantenendo, per la verità,
pregi e difetti del sistema che si erano andati stratificando nel corso degli anni
come, ad esempio, la generalità della dichiarazione e dell’accertamento analitico.
4.4.4 Finanza locale
Sempre nell’ambito della riduzione delle aliquote per l’imposizione diretta,
si ha poi il titolo VI, relativo alla finanza locale. Vanoni considerava il problema
della finanza locale quasi più grave e complicato di quello della finanza statale.
Sosteneva che la finanza locale dovesse colpire con la sua imposizione dei
presupposti che erano territorialmente localizzabili: nella pratica, però, vi era
invece una tendenza ad esorbitare dai limiti territoriali del Comune e della
Provincia fino ad arrivare a colpire situazioni che andavano al di là dell’ambito in
cui si esplicava la potestà di imposizione dell’ente locale. Le diversità di
condizioni e di bisogni tra le diverse regioni del nostro paese si erano accentuate
con la guerra: i comuni che avevano maggiore bisogno erano anche quelli con
minori disponibilità economiche.
Sostenitore del principio delle autonomie locali e della necessità di attribuire
imposte proprie agli enti locali, egli sottolineava tuttavia la preoccupazione che
l’azione di tali enti potesse esplicarsi in contrasto con quella dello Stato e cercava
quindi di stabilire forme di coordinamento che, salvaguardando i vantaggi
dell’autonomia, ne limitassero gli effetti negativi.
95
Vennero adottati opportuni provvedimenti per alleggerire il peso delle
imposte comunali e provinciali, che spesso superava perfino quello delle imposte
erariali e si diminuirono i poteri degli enti in questo campo, per evitare contrasti
tra amministrazioni comunali, differenze indiscriminate di imposizioni tra
cittadini di un comune e di un altro e sperequazioni notevoli tra contribuenti di
uno stesso comune. La Commissione centrale per la finanza locale, che aveva la
facoltà di autorizzare i comuni e le provincie ad eccedere dai limiti posti nel
campo delle imposte di loro competenza, aveva dovuto nel dopoguerra fare
notevoli concessioni, sotto lo stimolo delle necessità contingenti delle finanze
comunali e provinciali: tale situazione era cambiata però a partire dal 1948,
portando un freno alle autorizzazioni. Vi fu, inoltre, un ritorno alla disciplina della
finanza locale sotto il controllo parlamentare. Infatti, punto saliente tra i tanti della
legge, è proprio che fino ad allora la disciplina riguardante le aliquote dei tributi
locali apparteneva piena e incontrastata al potere esecutivo, sfuggendo quindi a
quello legislativo, ma con l’articolo 43, il controllo in questo campo passava agli
organi parlamentari.
Anche il titolo riguardante le finanze locali, seppure sia limitato alle
aliquote, anticipava una radicale e più organica riforma in materia, già approvata e
in via di discussione da parte degli organi legislativi33. Lo scopo era quello di fare
in modo che la finanza locale accompagnasse la riorganizzazione in atto della
imposizione statale, eliminando o quantomeno evitando i punti di contrasto tra le
politiche tributarie dello Stato e degli enti locali, e di riorganizzare lo stesso
sistema della finanza locale dopo l’esperienza bellica. Nonostante siano così
33
Disegno di legge “Disposizioni in materia di finanza locale”, presentato il 15 novembre 1949 dal
Ministro delle Finanze Vanoni
96
ristrette le finalità e i limiti dell’intervento, le maggiori critiche a queste
disposizioni (articoli 43-44) sono legate alla mancanza di chiarezza in seguito ai
ricorrenti richiami legislativi che si sovrapposero, determinando difficoltà di
interpretazione ed evidenziando la necessità di un generale riordino di tutta la
materia.
4.5 Riordinamento e rafforzamento dell’organizzazione finanziaria
Vanoni aveva promesso agli italiani un nuovo e moderno sistema tributario
caratterizzato dalla giustizia fiscale: per realizzare tale scopo però si rendeva
necessario anche un intervento nei confronti dell’apparato dell’Amministrazione
finanziaria, ideato inizialmente solo per riscuotere i tributi e ormai fortemente
segnato prima dal fascismo e poi dalla guerra. Fu così che il Ministro, appena
insediatosi al Ministero delle Finanze, sviluppò un progetto di radicale
innovazione delle strutture puntualizzandone i mezzi idonei al raggiungimento: il
completamento dei quadri del personale, una più razionale distribuzione
territoriale di esso, il miglioramento del livello tecnico e culturale dei funzionari e
il rinnovamento degli uffici.
La prima fase del miglioramento tecnico degli uffici, si realizzò con la
fornitura di macchine per scrivere e da calcolo e con la successiva introduzione di
moderni sistemi di contabilità. Nel 1950 ebbe inizio la meccanizzazione
dell’imposta generale avente lo scopo di realizzare una contabilizzazione rapida,
precisa e completa delle riscossioni da realizzarsi in ciascun periodo di tempo.
Oltre che all’ammodernamento dell’attrezzatura degli uffici si volle anche disporli
in locali più funzionali. Lo stesso Vanoni si preoccupò poi di affrontare il
97
problema degli alloggi del personale, per non gravare sull’impiegato il peso
economico del mercato degli affitti, promuovendo una legge34 per autorizzare
l’Amministrazione delle finanze all’acquisto o alla costruzione di case di tipo
popolare
Il settore nel quale però Vanoni si concentrò di più fu quello della
preparazione professionale del personale, insistendo soprattutto sul metodo
dell’accertamento e sugli strumenti contabili necessari per la rilevazione del
reddito, tramite corsi impartiti da docenti universitari affiancati dai migliori
funzionari delle singole Amministrazioni. Vanoni voleva non solo dare
all’Amministrazione finanziaria funzionari preparati e capaci, ma voleva quasi
costituire una sorta di garanzia per i cittadini chiamati su basi nuove a collaborare
all’assolvimento degli obblighi finanziari: la sua idea era quella di creare una
scuola tributaria di tipo universitario per l’aggiornamento e il perfezionamento.
Da sviluppi successivi di queste iniziative sorse la Scuola Centrale Tributaria35,
che rappresenta forse il più importante istituto per la preparazione e
l’aggiornamento tecnico dei funzionari dello Stato, costituito nel dopoguerra
nell’ambito della Pubblica Amministrazione.
Per tutto il periodo in cui fu responsabile del Ministero delle Finanze (19481954) egli fu impegnato sia nel definire i disegni di legge che dovevano realizzare
la riforma progettata, sia nel realizzare la costruzione di un apparato burocratico
in grado di gestire il rinnovamento che le leggi avrebbero portato, tramite uomini
34
Legge 27 giugno 1949 n. 329.
Scuola tributaria Vanoni, istituita nel 1957. E’ un organo del Ministero delle Finanze, alle dirette
dipendenze del Ministro, ed i suoi compiti istituzionali sono stati recentemente integrati dal
Decreto Legge n. 526/1996 che ha approvato definitivamente il regolamento della Scuola.
35
98
professionalmente rinnovati, motivati e convinti dell’importanza che possedeva il
loro operato per il bene del paese.
4.6 Risultati ottenuti dalla riforma tributaria
In conclusione la legge 11/1/1951 n. 25 non rappresentò una vera e propria
riforma del sistema tributario, o almeno non lo fu dal punto di vista radicale: si è
già ricordato come l’obbligo della dichiarazione era previsto da ormai più di
settant’anni e confermato da tutte le leggi ordinarie e straordinarie successive,
obbligo al quale però quasi mai nessuno aveva adempiuto e che quindi non aveva
dato risultati positivi. Il Ministro aveva voluto quindi rendere imperativo questa
dichiarazione che, per colpa del fisco e del contribuente, era andata in
desuetudine. Nella legge di perequazione, può essere considerato però nuovo il
rilevamento fiscale straordinario, che comportava responsabilità penali per il
contribuente e responsabilità morali per il fisco.
Lo slancio riformatore di Vanoni non fu comunque compreso da tutti:
quest’incomprensione, più che da parte dei colleghi parlamentari, che lo
assecondarono se non all’unanimità a larghissima maggioranza, come dimostrano
le approvazioni in aula, mancò, come sostiene il Vigna (Vigna, 1992), da parte dei
cittadini e degli stessi contribuenti. La responsabilità fu soprattutto di coloro che
avevano il compito di divulgare, chiarire, spiegare la riforma: essi non colsero, o
non vollero cogliere, il primo e fondamentale significato della legge e cioè il
nuovo rapporto tra contribuente e fisco, l’obiettivo della giustizia fiscale e il senso
morale della riforma.
99
Lo Stato, nonostante questa incomprensione, vide tra il 1949 e 1956, anche
per effetto dell’aumento delle basi imponibili, crescere le entrate tributarie ad un
tasso medio annuo del 13 per cento (Tramontana, 1979), grazie al quale si
finanziò poi la politica di sviluppo economico degli anni seguenti. L’azione di
Vanoni fu decisiva: in cinque anni le entrate statali effettive aumentarono del 58
per cento e le spese si accrebbero del 41 per cento, una crescita che, anche tenuto
conto dell’inflazione presente allora, era notevole (Forte, 2000).
TAV. 4: BILANCI STATALI DAL 1948-49 AL 1952-53 (Valori in miliardi di lire)
PERIODO
Parte effettiva
Movim. Capitali
Spese
Deficit
Entrate Globale Effettivo
PIL
Deficit/PIL (%)
Mld.
Globale Effettivo
Spese
Entrate
1948-49
1.643
2.140
101
44
552
494
7.364
7,40
6,70
1949-50
1.716
2.418
230
341
185
298
8.047
2,20
3,70
1950-51
1.893
2.720
319
271
220
173
9.595
2,30
1,80
1951-52
2.129
2.737
305
335
360
392 11.155
3,20
3,50
1952-53
2.310
2.804
119
304
321
506 12.190
2,60
4,15
Fonte ISTAT. Sommario di statistiche storiche dell’Italia, 1961-1965, Roma, 1968.
Nelle Relazioni della IV e V Commissione Permanente del Senato della
Repubblica e della Camera dei Deputati (Asia, 1956), fu sottolineato proprio che
gli effetti dell’applicazione della legge avrebbero fatto compiere un grande passo
in avanti al nostro sistema tributario, come si può vedere dalle tabelle che furono
allegate (TAB. 5 e 6) e che ulteriori effetti si sarebbero avuti in seguito sempre su
questa via..
100
TAB. 5: PRESSIONE TRIBUTARIA
(CONTRIBUENTI DI CATEGORIA B CON DUE FIGLI A CARICO)
REDDITO
ACCERTATO
300.000
ALIQUOTE SECONDO IL TESO
APPROVATO DAL SENATO
ALIQUOTE PRECEDENTI
Imposta
Percentuale
Imposta
Percentuale
128.366
42,79
15.570
5,19
500.000
220.850
44,17
69.705
13,94
1.000.000
477.619
47,76
211.907
21,19
2.000.000
1.100.915
55,05
517.241
25,86
5.000.000
2.836.486
56,07
1.550.056
31,00
10.000.000
6.944.294
69,44
3.593.482
35,93
20.000.000
16.170.371
80,85
7.347.050
41,74
100.000.000
91.108.952
91,11
49.376.050
49,38
FONTE: Relazione della IV Commissione Permanente della Camera dei Deputati, Asia, 1951, pp.
664.
TAB. 6: PRESSIONE TRIBUTARIA
(CONTRIBUENTE DI CATEGORIA C/2 CON MOGLIE E DUE FIGLI A CARICO)
REDDITO
ACCERTATO
300.000
ALIQUOTE SECONDO IL TESTO
APPROVATO DAL SENATO
ALIQUOTE PRECEDENTI
Imposta
Percentuale
Imposta
Percentuale
108.322
36,7
10.460
3,49
500.000
203.600
40,72
48.298
9,66
1.000.000
478.648
47,86
150.132
15,01
2.000.000
1.145.292
57,26
378.121
18,90
5.000.000
2.299.812
65,99
1.205.641
24,11
10.000.000
7.280.733
72,81
2.980.363
29,80
20.000.000
15.747.281
78,73
7.086.939
35,40
100.000.000
90.524.552
90,52
44.362.115
44,36
FONTE: Relazione della IV Commissione Permanente della Camera dei Deputati, Asia, 1951, pp.
664.
101
La valutazione posteriore di Vanoni alla sua riforma, fu positiva: rilevava,
infatti, nel corso di alcune interpellanze e interrogazioni concernenti la
dichiarazione annuale dei redditi alla Camera, che “L’operazione è interamente
riuscita, sia dal punto di vista tecnico che politico, perché i redditi inferiori, così
come si voleva ottenere, sono stati agevolati: è riuscita perché nonostante
l’agevolazione in favore dei redditi più contenuti, il gettito è aumentato in una
certa misura e più ancora aumenterà nel prossimo futuro…è stato fatto un passo
veramente serio non per virtù del ministro o del governo, ma per virtù propria del
popolo italiano” (Vanoni, 1968).
102
CAPITOLO QUINTO
L’IMPOSTA SULLE SOCIETÀ DEL 1954
5.1 L’imposizione delle società: premessa
A completamento dell’analisi della riforma tributaria realizzata da Vanoni e
iniziata nel 1951 con la legge di perequazione, possiamo prendere in
considerazione la legge del 6 agosto 1954 numero 60336, che istituì l’imposta sulle
società di capitali e che può essere considerata come parte delle linee direttive
della riforma del sistema tributario italiano. Tale legge trovava la sua ragione
d’essere generale in necessità di ordine sociale e di ordine fiscale: porre sullo
stesso piano, dal punto di vista del trattamento tributario, le società di capitali e i
contribuenti privati; tenere conto della speciale capacità contributiva delle società,
anche per la possibilità di raccolta di capitali e per la potenziale durata illimitata;
recuperare nuovi mezzi finanziari per fare fronte alle spese pubbliche. Il
36
L. 6 agosto 1954 n. 603, Istituzione di una imposta sulle società e modificazioni in materia di
imposte indirette sugli affari (pubblicata sulla gazzetta Ufficiale dell’11 agosto 1954 n. 182).
103
fondamento più specifico era in ogni caso quello della teoria della personalità
tributaria degli enti collettivi, da cui derivava, però e di conseguenza, il problema
della così detta doppia imposizione della società e dei soci.
L’imposta presentava caratteri innovativi, non solo rispetto alla logica del
sistema tributario italiano di allora, ma anche rispetto ad alcuni sistemi stranieri.
Molti paesi avevano, infatti, introdotto, in tempi più o meno recenti, nei loro
ordinamenti tributari un tipo d’imposta particolare per le società di capitali,
soprattutto in considerazione della loro specifica capacità contributiva, diversa da
quella delle persone fisiche e delle società di persone. Negli Stati Uniti, Canada,
Germania, Svizzera, Svezia, Danimarca e Norvegia, l’imposta autonoma sulle
società costituiva uno dei pilastri del sistema fiscale: i paesi ad economia più
progredita e con un apparato produttivo industriale avanzato avevano dato
all’imposizione delle società di capitali un’importanza ben maggiore di quella
data da paesi economicamente più arretrati. Una delle giustificazioni ricorrenti
alla nuova imposta era quindi rintracciabile anche nel fatto che essa era ormai
entrata a far parte di molti sistemi fiscali stranieri, anche se per alcuni si poteva
parlare di un più o meno diffuso trattamento speciale delle società, più che di
un’identica imposizione specifica.
Dal punto di vista dell’equità fiscale era evidente la “sperequazione” che si
veniva poi a creare tra le imprese personali e quelle di capitali, quanto
all’applicazione dell’imposta complementare: le prime erano assoggettate per la
totalità del loro reddito, le seconde solo per la parte degli utili distribuiti. Come
rilevava poi la Relazione al disegno di legge (Asia, 1954), la crescita della
pressione tributaria ed il costante aumento dell’importanza dell’imposta personale
progressiva sui redditi, avevano contribuito a rendere più vantaggioso il ricorso
104
alla forma delle società per azioni. Questo fenomeno si era poi reso più evidente
proprio dopo la prima dichiarazione unica annuale dei redditi del 1951. Per
giungere ad un’eguaglianza di trattamento fiscale tra i privati e le imprese
societarie, occorreva estendere la complementare anche alla parte di utili non
distribuiti, in modo da colpire il reddito globale delle società. Si aggiunga che le
società di capitali godono di una particolare capacità, connessa alla loro struttura e
al loro potere economico e finanziario: tali società, nell’economia italiana di
allora, rappresentavano inoltre una sorgente cospicua del reddito del paese e più di
ogni altra impresa sembravano godere dell’insieme dei servizi pubblici erogati a
vantaggio della produzione.
La questione era stata analizzata anche, negli anni precedenti, dalla
Commissione Economica all’Assemblea Costituente (Asia, 1954), dove si era già
rilevata l’opportunità di un’imposizione delle società, diversa e maggiore rispetto
a quella delle imprese individuali in considerazione del fatto che gli enti collettivi
costituivano da quella che poteva risultare dalla somma delle partecipazioni dei
singoli soci. La Commissione rilevò inoltre la necessità di analizzare in modo
approfondito questo problema che fino ad allora non aveva avuto in Italia una
discussione adeguata.
5.2 L’imposta sul reddito delle società e gli utili non distribuiti
In Italia, già da molti decenni, la tesi della capacità contributiva autonoma
delle società di capitali era stata sostenuta dal Griziotti, maestro di Vanoni, e dalla
sua scuola: la mancanza di un’imposta sulle società appariva come una delle
105
maggiori cause che avevano portato all’insufficiente sviluppo dell’imposizione
diretta in Italia.
Già dieci anni prima dell’introduzione del nuovo tributo, lo stesso Vanoni
aveva proprio trattato l’argomento, evidenziando le basi dottrinarie di un’imposta
speciale sulle società, di cui egli stesso fu il primo proponente in qualità di
Ministro delle Finanze. Vanoni, nel saggio “ L’imposta sul reddito e gli utili di
società non distribuiti” (Vanoni, 1943) analizzava la possibile applicazione
dell’imposta sulle società, riprendendo uno studio del Seligman (Seligman, 1925),
relativo alla questione se i dividendi azionari costituivano reddito: il problema,
secondo Vanoni, era uno dei più importanti per l’organizzazione dell’imposta sul
reddito.
Vanoni faceva l’esempio di due soci che realizzano un profitto pari a
600.000 £ e decidono di distribuire, come dividendo, 100.000 £ per ognuno. Le
residue 400.000 £ erano lasciate nella società e i soci pagavano per le 200.000 £
l’imposta sul reddito, mentre non la pagavano per le rimanenti. Il Ministro
osservava quindi, riprendendo le conclusioni del Seligman, che si arrivava ad
immaginare il caso di un soggetto che, titolare di una grossa fortuna, riuniva le sue
partecipazioni in una società, distribuendo solo quanto necessario per il suo
consumo. L’imposta personale sul reddito colpiva la sola parte destinata al
consumo mentre il risparmio, che era la parte più rilevante, sfuggiva all’imposta.
Vanoni esaminava poi l’aspetto equitativo arrivando a concludere che
“L’imposizione non può restare indifferente di fronte alla potenza economica
determinata dall’organizzazione societaria: e se il criterio dell’imposta è quello di
gravare i soggetti in rapporto alla forza economica che essi possiedono, con
riguardo a tutti gli elementi che la qualificano, il criterio deve applicarsi a tutti i
106
soggetti, siano essi persone fisiche o persone morali” (Vanoni, 1943). Egli poneva
l’accento sul fatto che, un diverso trattamento fiscale per gli utili non distribuiti e
quelli distribuiti poteva apparentemente trovare giustificazione nella separazione
dei patrimoni dei soci e delle società. Nell’imposta personale, ogni soggetto
rispondeva per le ricchezze di cui disponeva e dato che i profitti non distribuiti
restavano alle società ne discendeva che questi ultimi non potevano essere
computati nel reddito dei soci. L’Autore rilevava però che se si poneva l’accento,
ai fini della capacità contributiva, sul momento del possesso personale del reddito,
la separazione dei patrimoni delle società e dei soci era sopravvalutata, quando si
negava che i proventi delle società non distribuiti, erano sostanzialmente profitti
dei soci. Ribadiva che, l’importanza assegnata alla separazione tra società e soci
da alcune parti della dottrina, appariva inadeguata e puramente negativa:
“L’imposizione delle società non può essere considerata come un mezzo più
comodo per realizzare l’imposizione dei singoli soci o come uno strumento per
reprimere questa o quella attività sociale, ma deve essere ricondotta all’autonoma
capacità dell’organismo sociale a contribuire.” (Vanoni, 1943). La società
aumentava la capacità contributiva dei singoli soci e la superava, mediante la
fusione dei singoli apporti in un organismo unitario di produzione.
5.3 L’imposta sulle società del 1954
5.3.1 Personalità giuridica e capacità contributiva
Il problema di fondo dell’imposta sulle società, è quello di una possibile
doppia imposizione sulle società e sui soci: si doveva quindi stabilire come si
configurasse la doppia imposizione e quando fosse iniqua. L’ipotesi era che si
107
realizzasse, con la nuova legge, una doppia imposizione in quanto si arrivava a
colpire il dividendo distribuito prima sotto forma di utile lordo imponibile con
l’imposta sulle società e poi sotto forma di reddito netto imponibile con l’imposta
personale progressiva. Nella pratica però questa duplicazione non si determinava,
in quanto bastava considerare che, secondo la normativa adottata, il dividendo
distribuito ai soci era compreso nel reddito normale del 6 per cento non soggetto
all’imposta: la doppia imposizione si sarebbe verificata solo se tutto il reddito
della società fosse stato tassato, senza quindi la detrazione appena citata.
Questa specifica situazione normativa può essere valutata nel contesto di
varie posizioni emerse nella letteratura sul problema della doppia imposizione.
Secondo una di queste impostazioni, sostenuta dal Cosciani (Cosciani, 1950), le
società commerciali e gli enti collettivi dovevano essere considerati come degli
intermediari che riscuotevano per conto del fisco e versavano allo stesso le
imposte sul reddito dovute dai veri contribuenti, le persone fisiche, in quanto
soltanto queste ricevevano i vantaggi prodotti dall’attività dello Stato e
sopportavano i sacrifici del pagamento delle imposte. La conseguenza di questa
teoria era che, l’imposta autonoma sulle società dava luogo a duplicazione
dell’imposizione dello stesso reddito, prima presso la società e poi presso i soci.
Un’altra teoria, più moderna rispetto alla precedente, anticipata dal Griziotti
(Napolitano, 1955) e da Vanoni (Vanoni, 1943) e poi ripresa dal Forte (Forte,
1954) riteneva che le società e gli altri enti collettivi, oltre che essere forniti di
personalità giuridica avevano anche un’autonomia economica patrimoniale ed
amministrativa: questo giustificava quindi un’autonoma imposizione del loro
reddito e del loro patrimonio, senza portare ad una duplicazione rispetto ai tributi
applicati ai soci. Anche se sarebbe stato corretto considerare la vita delle società
108
ponendola sullo stesso piano di quella delle persone fisiche era in ogni caso
pacifico che esse costituissero delle entità capaci di operare nei rapporti con il
mondo esterno e artefici del processo produttivo: come tali usufruivano anch’esse
dei vantaggi offerti dall’ordinamento statale. Le quote dei soci si separavano dal
patrimonio e si fondevano presso le società, divenendo un tutt’uno di proprietà
dell’ente collettivo, il quale era titolare di diritti ed assumeva obblighi
rispondendo con il proprio patrimonio. I soci perdevano rilevanza e la società
assumeva autonomia nella sfera giuridica agendo tramite i propri organi. Nella
Relazione della V Commissione Finanze e Tesoro del Senato (Asia, 1954), si
affermava che l’ordinamento tributario si orientava secondo l’ordinamento
giuridico, che riconosceva la personalità giuridica alla società di capitali.
Il fondamento economico-finanziario dell’imposta si basava quindi sulla
considerazione che la società aveva una propria forza economica diversa e
maggiore dalla somma delle forze apportate dai soci. La società ha propri fini, una
propria responsabilità economica, maggiori possibilità di finanziamento e una vita
diversa da quella dei soci. Essa non ha solo il compito di produrre e distribuire
redditi ai soci, ma anche quello di acquisire una potenza economica ed una
capacità finanziaria sufficienti per realizzare lo scopo che essa si prefiggeva,
portando anche a situazioni in cui gli utili accantonati dalla società superavano
quelli distribuiti tra i soci. Le società di capitali, ricevevano dallo Stato vantaggi
particolari e generali, quali la protezione, la limitazione delle responsabilità, che
erano propri della persona collettiva e diversi e indipendenti dai vantaggi di cui
godevano le persone fisiche che costituivano la società. Inoltre il profitto di queste
società, rispetto al reddito delle persone fisiche, era più duraturo e realizzato con
meno rischi. Infine l’imposta aveva, dal punto di vista politico e sociale, il fine di
109
controllare l’espansione economica delle società di capitali e il loro potere che
avrebbe potuto portare a ostacolare i fini che Stato si era posto. Si volevano
frenare i ricorsi alla forma societaria e provocare l’eliminazione di quelle società
così dette di comodo, nate sotto forma di società di capitali non per motivi
strettamente economici e finanziari, ma per opporre in alcuni casi, una legittima
difesa all’insopportabilità di determinati tributi che gravavano su di loro. Altro
motivo giustificativo, non avente uno scopo fiscale, era il richiamo ai sistemi
tributari di altri Stati, nei quali trovava già posto l’imposizione speciale sulle
società di capitali ed ai quali quindi l’ordinamento tributario italiano si voleva
uniformare.
5.3.2 Lineamenti del nuovo tributo
La normativa sull’imposizione del reddito delle persone giuridiche in Italia
ha avuto, tutto sommato, uno sviluppo lineare. La L. n. 588 del 21 aprile 1861
aveva istituito un’imposta sulle società anonime e in accomandita per azioni, e la
L. n. 4480 del 19 luglio 1869, un’imposta di negoziazione per titoli, per la quale il
valore effettivo dei titoli era sostituito al capitale nominale. Si dovette attendere
quindi fino al 1954 per potersi parlare di un’imposta personale e specifica sulle
società di capitali.
La legge si componeva di sei titoli:
− Imposta sulle società;
− Imposta sulle obbligazioni;
− Termini per le dichiarazioni unica delle società ed enti;
− Disposizioni comuni ai titoli precedenti e disposizioni transitorie;
− Modificazioni in materia di imposte indirette sugli affari;
110
− Disposizioni finali.
La nuova imposta aveva carattere personale o propriamente soggettivo.
L’ambito di applicazione, come si desume, infatti, dall’articolo 1, riguardava
alcuni soggetti specificatamente indicati dalla legge e non un oggetto imponibile
come il reddito, il patrimonio o il capitale: tali soggetti sono gli enti e le società
tenuti a presentare il bilancio o il rendiconto a corredo della dichiarazione dei
redditi37. Non rientravano fra gli enti con struttura di società di capitali le società
cooperative e le mutue assicuratrici e quelle società che non avevano carattere
economico produttivo (ad es. enti di ricerca o di istruzione); erano invece
perfettamente ammissibili, data la loro struttura, gli istituiti di credito.
Il nuovo tributo era poi commisurato sia al patrimonio che al reddito: si
deve però rilevare, come si legge nella Relazione Ministeriale che ha presentato il
progetto di legge (Asia, 1954), che non si trattava di due imposte distinte, ma di
un unico prelievo su due basi imponibili (reddito e patrimonio), che erano l’uno in
funzione dell’altro e si integravano a vicenda.
Il prelievo sul capitale aveva una funzione surrogatoria dell’imposta di
registrazione e sostitutiva delle cessate imposte di negoziazione, sul capitale delle
società estere e di manomorta, incidendo quindi non solo sulle società italiane ma
anche su quelle straniere; quello sul reddito aveva invece funzione sostitutiva
dell’imposta complementare progressiva sul reddito, in quanto assolveva,
nell’ambito delle persone giuridiche, la stessa funzione che l’imposta progressiva
personale assolveva nell’ambito delle persone fisiche. Le aliquote erano
relativamente miti, pari allo 0,75 per cento sul patrimonio e al 15 per cento sul
37
Articolo 8, secondo comma, DPR 5 luglio 1591, Teso Unico delle norme sulla dichiarazione
unica annuale dei redditi.
111
reddito eccedente il 6 per cento del patrimonio, quindi mentre il patrimonio era
integralmente assoggettabile al tributo, il reddito lo era solo per la parte che
eccedeva il 6 per cento del patrimonio imponibile. Era previsto un gettito di 30-60
miliardi (Forte, 1954), cifra abbastanza notevole, se si considera quello che era
allora il gettito delle imposte dirette.
Il sistema di accertamento e di riscossione presentava alcune novità rispetto
a quello applicabile alle imposte dirette; l’azione della Finanza, in queste fasi,
aveva carattere sussidiario ed eventuale, in quanto si concentrava in un secondo
momento. Le norme che concernevano i termini per le dichiarazioni e
l’imposizione ad esercizio finanziario, stabilite per le società e gli enti tassabili in
base al bilancio, si applicavano all’imposta sulle società così come le norme
riguardanti le infrazioni e le penalità.
All’imposta commisurata al reddito e al patrimonio si integrava un’imposta
sulle obbligazioni che sostituiva la precedente imposta di negoziazione. Questa
tripartizione dell’imposta (reddito-patrimonio-obbligazioni) evitava l’evasione
mediante la manovra del patrimonio e del capitale obbligazionario. Anche
quest’imposta obbligazionaria si integrava reciprocamente con quella sul reddito.
Le tre imposte erano quindi integrative l’una dell’altra perché tutte e tre avevano
lo stesso scopo: quello di colpire la capacità contributiva delle società, eliminando
le possibilità di elusione. Il meccanismo previsto era informato a criteri di
automaticità, senza difficoltà per gli uffici, fondandosi su una base imponibile, il
valore patrimoniale dell’impresa, già accolto dall’imposta di negoziazione e
quindi in grado di interferire meno con l’attività del mercato e delle aziende.
112
5.4 Le novità della norma
5.4.1 La contemporanea imposizione sul capitale e sul reddito.
La caratteristica più evidente della nuova imposta era quella di arrivare a
interrompere l’interesse dei contribuenti a falsare l’equilibrio del bilancio, con
spostamenti dal capitale al reddito o viceversa. La legge, tassando sia il
patrimonio che il reddito, portava ad un punto nel quale il contribuente non aveva
convenienza a mantenere il capitale a un livello ridotto o a gonfiarlo in modo
artificiale. Lo scopo che si voleva raggiungere era quello di avere un bilancio
chiaro, preciso e veritiero, sia nell’interesse del fisco sia in quello degli stessi soci.
Tramite quindi la nuova imposizione tributaria sulle società di capitali, si arrivava
a riprendere la strada già percorsa dalla legge istitutiva della dichiarazione unica
annuale del 1951 di Vanoni, volta a recuperare, attraverso la collaborazione attiva
del contribuente, la semplificazione, la moralizzazione e la reciproca fiducia
nell’attività tributaria del paese.
La legge del 1954 stabiliva distintamente quali erano sia il patrimonio che il
reddito imponibile. Si poteva parlare di un’imposta sul patrimonio ma nella
Relazione Ministeriale si legge: “L’imposta pur essendo basata per una parte sul
patrimonio, non è un’imposta patrimoniale, ma rimane pur sempre un’imposta
ordinaria sul reddito, commisurata semplicemente al patrimonio, così come lo era
l’imposta ordinaria sul patrimonio del 1939” (Asia, 1954).
Anche nel caso di reddito negativo le società e gli altri enti soggetti alla
nuova tassazione, erano tenuti a corrispondere il tributo commisurato al
patrimonio, in seguito al fatto che l’imposta sulle società aveva, fra l’altro,
funzione surrogatoria dell’imposta di registrazione, in luogo della cessata imposta
113
di negoziazione, ed era dovuta per ciascun esercizio finanziario sulla base dei
risultati dei bilanci chiusi nel corso dell’esercizio stesso. L’onere era moderato per
le imprese che in un determinato esercizio chiudevano il bilancio in perdita e tale
moderazione aumentava man mano che cresceva la perdita, così come si
accresceva, invece, per le imprese con maggiore redditività.
Come si è già rilevato precedentemente, si trattava comunque di un solo
tributo, seppure fondato su due basi imponibili, colpendo il reddito complessivo
della società: anche la parte dell’imposta rapportata al patrimonio alla fine
colpiva, in effetti, il reddito complessivo, entro il limite del 6 per cento del
patrimonio imponibile. In conformità a questa caratteristica poteva affermarsi
che, nei limiti di una redditività del 6 per cento, il tributo colpiva il reddito con
un’aliquota del 12,50 per cento, mentre nel caso di redditività superiore al 6 per
cento, l’imposta, nel suo complesso (la parte commisurata al patrimonio più la
parte commisurata al reddito), si avvicinava ad un’aliquota del 16 per cento (Poli,
1955). Si può fare l’esempio di un patrimonio imponibile pari a 10.000 ed un
reddito complessivo di 1.000, maggiore quindi del 6 per cento del primo. La parte
di tributo commisurata al patrimonio era di 75 (10.000 per 0,0075), mentre la
parte di tributo relativa al reddito eccedente il 6 per cento del patrimonio
imponibile, pari a 400 (1.000- 6 per cento di 10.000), ammontava a 60 (400 per
0,15): il tributo complessivo era di 135. Se invece si fosse avuto un patrimonio
sempre pari a 10.000 ma con un reddito inferiore al 6 per cento del patrimonio
imponibile, il tributo commisurato al patrimonio determinava un’imposta sulle
società pari a 75.
114
5.4.2 L’imposta sulle obbligazioni
L’imposta di negoziazione38 trovava la sua giustificazione, e quindi il suo
requisito essenziale, nella possibilità di negoziazione, gravando sulle azioni, le
quote, le cartelle, le obbligazioni e qualsiasi altro titolo, purché cedibile con
effetto verso l’ente o la società emittente. Abolendo questo tributo, nella nuova
imposta sulle società trovavano una regolamentazione le azioni e le quote ma era
ovvio che si volesse considerare anche le obbligazioni, le cartelle e gli altri titoli
di credito per i quali quindi fu disposta l’imposta sulle obbligazioni, sostitutiva di
quella di negoziazione e con due differenze rispetto a quest’ultima: la misura
dell’aliquota e le modalità di applicazione che rientravano nel sistema applicato
con l’imposta sul patrimonio e sul reddito delle società. Tale tributo, che si
applicava nella misura del 5 per mille, doveva essere corrisposto, oltre che dalle
società tenute al pagamento dell’imposta bivalente, anche dalle cooperative che
invece erano esenti dalla tassazione sul reddito e sul patrimonio.
5.5 Le critiche generali alla nuova imposta: la costituzionalità del tributo
La nuova imposta, sul reddito e sul patrimonio, arrivava a colpire
unicamente ed esclusivamente le aziende gestite sotto forma di società o di enti
collettivi. La stessa azienda, quindi, che era gestita da un’impresa individuale e
per tanto era esente dai due tributi, veniva ad essere assoggettata alla nuova
imposta se, per qualsiasi ragione cambiava forma giuridica e, da impresa
38
Soppressa con effetto dal primo gennaio 1954 ad opera dell’imposta sulle società.
115
personale, diveniva impresa di capitali: società per azioni, in accomandita per
azioni, a responsabilità limitata, etc..
Dal punto di vista costituzionale era però possibile istituire tributi speciali a
carico di questa o quella categoria di contribuenti? La Costituzione stabilisce
all’articolo 53, alla cui redazione come si è già ricordato ha partecipato lo stesso
Vanoni39, che tutti i cittadini “sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in
ragione della loro capacità contributiva”: questo però non necessariamente
significa che a pari capacità contributiva ci sia una assoluta parità di trattamento,
di tutti i soggetti, in rapporto ad ogni tributo. Allo stesso tempo, se la pressione
tributaria complessiva deve adeguarsi alla capacità contributiva di ogni
contribuente, non si può arrivare ad imporre un peso speciale ad una categoria di
contribuenti se non in presenza di due elementi: che tale categoria di contribuenti
abbia una maggiore capacità contributiva rispetto alle altre o che a parità di
capacità contributiva essa debba avere un trattamento fiscale agevolato.
La Relazione che accompagnò il disegno di legge (Asia, 1954), giustificò il
nuovo tributo sulla base del secondo punto, sostenendo che il sistema tributario
italiano operava una discriminazione di trattamento a svantaggio delle ditte
individuali e che per correggere una tale sperequazione, era necessaria
l’istituzione di questa nuova tassazione sulle società e gli enti tassati in base al
bilancio.
Varie furono in ogni caso le critiche alla nuova legge, sia dal punto di vista
della struttura che dei contenuti. Rileggendo la motivazione della Relazione al
disegno di legge appena citata, si sosteneva che il preteso vantaggio fiscale di cui
39
Vedi capitolo terzo.
116
si parlava, nella realtà non sussisteva, almeno nella maggior parte dei casi. Anche
se fosse stato dimostrato che l’ordinamento tributario consentiva ai soci delle
società di capitali di sottrarsi completamente all’imposta complementare per
quella parte degli utili che non era distribuita, si poteva dubitare del fondamento
logico del ragionamento cui si ricorreva per arrivare alla conseguenza che la
disparità di trattamento andasse sanata colpendo con una nuova imposta le società.
Si sosteneva invece che, in base alla dottrina e alle esigenze della vita economica,
fosse più logico estendere anche alle imprese individuali il vantaggio di cui
godevano, o sembrava godessero i soci di quelle collettive, permettendogli di
detrarre dal reddito imponibile quella parte di utili reinvestiti nell’azienda.
Altre critiche furono mosse nei confronti del fatto che la legge aveva effetto
retroattivo: essa era stata infatti promulgata il 6 agosto 1954 ma la decorrenza del
tributo era fatta risalire al primo gennaio di quell’anno, generando notevoli disagi
in seno alle stesse società per quel che concerneva soprattutto la dichiarazione ai
fini dell’imposta (Asia, 1954).
Le maggiori contestazioni si ebbero però riguardo al fatto che la nuova
legge arrivasse a pregiudicare le piccole società che non avevano scelto la forma
di società personali, sia per necessità strutturali, sia per evitare, specie in alcuni
settori dei servizi pubblici, un accumularsi di responsabilità troppo grandi che
avrebbero schiacciato ogni possibilità di iniziativa. Queste piccole aziende
avevano capitali iniziali limitati e necessitavano quindi d’aliquote utili per potere
assicurare la vitalità dell’impresa e l’espansione dell’attività: si sosteneva che,
proprio questa nuova tassazione, colpendo con un’aliquota del 15 per cento la
quota di utile che superava il 6 per cento del patrimonio, arrivava in sostanza a
privare queste aziende della possibilità di ampliarsi (Società per lo studio dei
117
problemi fiscali, 1955). Il reddito di queste piccole imprese era, infatti,
relativamente alto, non solo perché il patrimonio era abbastanza esiguo ma,
soprattutto perché ad esso era incorporato il compenso che spettava al titolare
dell’azienda stessa per il lavoro da lui prestato a questa, nel corso di tutto l’anno.
Con la nuova imposta si era voluto colpire un solo settore, al posto di tutti i
contribuenti, trovando più comodo congegnare un’imposizione che, colpendo con
una determinata aliquota, assicurava già in partenza, in base a dati statistici di
pubblico dominio, quelle decine di miliardi che si volevano ad ogni costo
realizzare dopo avere approvato spese che gravavano sullo Stato in misura
maggiore rispetto alle possibilità del bilancio. Colpendo però le società azionarie
alla fine si arrivava a colpire anche i medi e piccoli risparmiatori che avevano
investito i propri averi nelle medesime società: il Governo aveva comunque
raggiunto il suo scopo di realizzare maggiori introiti necessari per fronteggiare le
maggiori spese.
5.6 L’imposta sulle società: il secondo tempo della riforma
Nonostante queste critiche, emerse non soltanto negli ambienti economici
ma anche in quelli politici, possiamo considerare che questo nuovo
provvedimento ha rappresentato una svolta molto importante, anzi possiamo
ricordare che “ Parecchie critiche alla struttura del nuovo tributo si collocano in
secondo piano, ove si consideri che esso rappresenta un primo (meritato) passo, in
un ambito irto di difficoltà” (Forte, 1954). La nuova legge era importante non solo
per la nuova regolamentazione che era offerta alle società dal punto di vista della
loro tassazione, ma era importante in quanto continuatrice della riforma del
118
sistema tributario italiano, iniziata nel 1951 ad opera di Vanoni e che fino ad
allora era stata limitata ai contribuenti individuali: infatti, come Vanoni stesso
rilevò più volte la sua riforma avrebbe necessitato di parecchi anni per svilupparsi,
ampliarsi e produrre effetti positivi, e la stessa legge sulla perequazione tributaria
del 1951 rappresentava solo l’inizio e la base per i successivi provvedimenti, tra
cui appunto possiamo includere l’imposta sulle società, che avrebbero portato alla
riforma definitiva. Seppure Vanoni non partecipò in prima persona alla redazione
di questa legge, in essa è possibile in ogni caso cogliere numerosi elementi che
comunque riconducono allo statista: fu lui, al Ministero delle Finanze, infatti, a
cominciare a porre le basi di questo nuovo tributo che alla fine può essere
considerato come facente parte di una sorta di secondo tempo della riforma
tributaria dopo di quella che si era avuta nel 1951 con la citata legge di
perequazione tributaria.
119
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