E. Testa--Una lapide romana di Assisi
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E. Testa--Una lapide romana di Assisi
UNA LAPIDE ROMANA DI ASSISI E. Testa Nei lavori di restauro del coro di S. Chiara (del Convento di S. Damiano, Assisi), è stata scoperta una lapide romana che misura cm 80 di larghezza, cm 96 di altezza, e cm 30 di profondità. Contiene tre righe di facile lettura la prima e la terza, con qualche difficoltà la seconda. Paleograficamente la scrittura appartiene alla capitale rustica del II-III sec. d.C., periodo degli Antonini (a. 138-180) e di Commodo (a. 180-192), con sviluppo maggiore delle lettere nel senso dell’altezza, lettere che risultano pertanto inscrittibili in un rettangolo, con la O e la P ancora aperte, la M e la A legate fra loro, la A con un terzo trattino, a volte però mancante o incompleto. Le lettere del primo rigo sono alte mm 60, quelle del secondo rigo mm 50 e quelle del terzo rigo mm 45. Nel secondo rigo la M e la A di MAEC sono scritte come una sola lettera. Possiamo leggere (Foto 1; Fig. 1): T. BABRIO EPAPHRAE FARUSAE MAEC LOCI CONIUGI Sulla sinistra, a capofitto, si trova un’effigie a basso rilievo che porta penzoloni sulle spalle la pelle di una capra (figura criofora, o portatrice di una capra per il sacrificio?) (Foto 2); sulla destra, appollaiata dentro una grotta, formata dal prolungamento della L, un uccello (foto 3). C’è anche la figura di un mortaio con un pestello (fig. 1,a). Analisi del testo Nella prima linea abbiamo il praenomen, il nomen gentilizio e il cognomen dell’individuo a cui la lapide fu dedicata. Il prenome è uno dei più comuni dell’età storica, come al solito abbreviato: T(ito). Segue il nome gentilizio derivato da un aggettivo in ius, designante la gens a cui l’individuo apparteneva, generalmente non abbreviato. Nel nostro caso BABRIO, formato dall’aggettivo babrius, a, um, derivato dal verbo babrio, is, ivi, spiegabile con una lettura dura della LA 43 (1993) 403-410; Pls. 33-34 404 E. TESTA lettera f, presente nel parallelo fabrio, is, ivi, fabbricare1. In Assisi portarono questo nome gentilizio T. Babrio, padre di Ner. Babrio, menzionato in una inscrizione umbra; un secondo T. Babrio, padre di un altro Ner. Babrio, che ebbe la carica di “marone” e costruì un muro dopo l’a. 80-70 a.C.; e C(aio) Babrio padre di C(aio) Babrio Chilo che fu un quinque-vir e costruì un altro muro di sostegno del Tempio di Minerva. Portò questo gentilizio anche un famoso scrittore di favole, il greco Babrios, vissuto nel III sec. d.C2. Segue il terzo elemento della denominazione romana, il cognomen, che assieme al praenomen e al nome gentilizio costituiva i tria nomina dei patrizi romani. Il cognomen derivava da un soprannome individuale, legato a una peculiarità del carattere: qui EPAPHRAE, sinonimo di Epafroditus, che significa venusto, uno che ha una bellezza eletta, piena di grazia fisica e morale3. Dopo il cognome, si può trovare, come nel nostro caso, l’indicazione dell’origo, l’origine dell’individuo, al caso locativo; oppure del luogo consacrato per la tomba del morto. Il termine Locus, come vocabolo “funerario”, significa sepolcro4, cioè un pezzo di terreno limitato nello spazio (“metare tumulum”, “ponere tumulo metas”, “figere tumulo metas”), cioè fissato nelle misure: tanti piedi nella facciata, tanti nell’interno (“in fronte pedes tot, in agro pedes tot”); intangibile nel tempo (“sommo aeternali”, “perpetuis datur sepulcris”); in seguito a una specifica consacrazione rituale per i pagani (“locus sacer”) o in seguito a un diritto privato (“locus religiosus”) per i cristiani. Interpretando in questo senso, riusciamo ad armonizzare il termine Locus con i due termini precedenti FARUSAE MAEC(iae)? Forse sì, ma con difficoltà. Farusae potrebbe derivare dall’indoeuropeo bher, greco fàros, e indicare un panno funebre, un mantello luttuoso5 e denotare così il tappeto funebre della cappella mortuaria e il lugubre manto delle prefiche. La cappella mortuaria dovette sorgere in località Maec(iae), nome di una tribù rustica romana costituita nel 332 a.C., presso Castro Mecio nella regione di Lanuvio. 1. Ae. Forcellini, Totius Latinitatis Lexicon, Vol. II, Prati 1832, ad v. Fabrio, 336: “idem ac fabrico”. Il gentilizio latino corrispondente è Fabricius: cfr. M. Montella, Epigrafi lapidarie romane di Assisi (Catalogo Regionale dei Beni culturali dell’Umbria), 1987, nn. 25, 26 e 29. 2. Dizionario Enciclopedico Italiano (Treccani), Vol. I, 863. 3. Forcellini, Lex., II,229a. 4. Forcellini, Lex., II,935, par. 9, ad v. Locus. 5. Esiodo, Opera et Dies, 196; Omero, Iliade XXIV, 580; Sofocle, Aiax, 916. UNA LAPIDE ROMANA DI ASSISI 405 Il riferimento alla tribù Mecia, per un sepolcro scavato nella regione di Assisi, che apparteneva alla tribù rustica Sergia, rende improbabile l’ipotesi funeraria della lapide, mentre rafforza quella dell’origine6. In questa seconda ipotesi, il termine Locus designa una campagna aperta ma delimitata, una parte di fondo agricolo, appartenente a un ricco agrario o a un nobile decaduto che è però ancora in possesso di una vecchia eredità degli antenati. In questa eredità possono trovarsi vestigia di una vecchia città, ormai distrutta; oppure si può trovare qualche villaggio, o qualche villa sparsa, specialmente qualche villa rustica, governata da un fattore, o amministratore e dai suoi famigliari, che lavorano da coloni, da agricoltori e da artigiani vari (falegnami, fabbri, tessitori, ecc.)7. Secondo Cicerone, poi,“loci et loca speciatim dicuntur de utero”, la matrice8. Interpretato in questo senso, il termine Loci si trova in armonia migliore con i due termini che lo precedono. Allora Farusa si deve spiegare con il secondo senso di bher, greco fàros, farön, ousa, e quindi come participio attivo del verbo faroö, nel senso di colei che ara, che fa i solchi e le buche sulla Madre Terra (non fu la donna a inventare l’agricoltura?). Viene richiamata l’immagine della donna dedita alle più svariate attività, come la donna forte di Prov 31,10-31, che acquista un campo, pianta vigne, s’interessa della lana e del lino, li fila alla conocchia, tesse drappi e cinture. La donna romana non solo tesse la lana, compone stoffe, drappi, panni, intrecciando i fili nel telaio, ma si preoccupa del magazzino della villa rustica, riempiendolo di farro, che lei stessa produce (bhar/fer), seminandolo nei solchi (dhur/fara: dh=f), che lo batte e tritura (sanscrito: ghar/ghars), insieme a farina (far) e a orzo (baris/fordeum); che prepara la farrago, un miscuglio di farro, orzo, grano per ottenere una biada per nutrire gli animali durante l’inverno nelle varie fattorie9. Finalmente, dalle radici indoeuropee bar, bhar, phar, far, dal persiano ber, dal greco e dal latino fero (antico bero), derivano parecchi termini che si riferiscono all’origine di un individuo nelle sue varie fasi e necessità: la gestazione (phora), il feto (pherma), il parto (pario), il nutrimento (pher), il fanciullo (barnas/barn), il frutto (bar), il sostentamento e il sostegno (phor)10. 6. Forcellini, Lex., IV, 137, ad v. Sergius. Però in Assisi ci vivono anche stranieri delle tribù Stellatina, Ufentina, Clusturnina, Lunaria, Tromentina. 7. Forcellini, Lex., II, ad v. Locus, 935-936.; IV, ad v. Villa, 657. 8. Nat. deor., LI; Columella, VIII, XI; Forcellini, ad v. Lex., II,935, par. 11. 9. Forcellini, Lex., II,354-355, ad v. Farrago. Per le varie etimologie qui studiate, vedi O. Pianigiani, Vocabolario etimologico della lingua italiana, Genova 1991. 10. Su queste radici, vedi Pianigiani, Voc., 521, sul suffisso …fero. 406 E. TESTA Emerge così tutto un mondo simbolico, suggerito dai vari sensi della radice del termine MAEC nelle lingue indoeuropee. Considerata entro questo mondo simbolico Farusa è colei che nutre e origina la vita; come Ferusa è una Nereide che porta la fecondità11; come l’italica Feronia è la dea dei boschi e della vegetazione.12 Nella nostra lapide, Farusa, dopo i tria nomina del personaggio, indica la sua terra nativa, la sua tribù natale, la matrice da cui è stato generato, la villa rustica in cui ha passato l’infanzia. Il nome seguente, Mecia, indica piuttosto la tribù adottiva, in cui il personaggio della iscrizione, per ragioni religiose, vede sintetizzato il messaggio ricevuto nella sua terra nativa13. Illustrazione tematica dei bassorilievi Come abbiamo accennato sopra, a sinistra e a destra dell’iscrizione sono presenti due bassorilievi legati con il CONIUGI, con il marito T(ito) Babrio Epafra, originario della fattoria di Farusa e della tribù di Mecia. Diciamo subito che sono immagini di Giunone Caprotina e di Giunone Lucina, pronuba del tipo di matrimonio intertribale più antico di Roma detto “confarreatio”14. A Lanuvio, città principale della tribù Mecia, si venerava Giunone Caprotina, detta anche Sospita, o Sospes, salvatrice, liberatrice, Mater Regina, rappresentata con il capo coperto da una pelle di capra, con le calzature di tipo orientale a punte rialzate (calceoli repandi), e armata di uno scudo a due lobi, a forma di 8, e di una lancia15. Si trattava di una dea insieme matronale e guerriera, assai simile alla Hera di Argo. La figura incappucciata del nostro bassorilievo può essere dunque identificata come Giunone Caprotina, per quanto il tipo iconografico non sia identico a quelli noti in precedenza. Una conseguenza importante è che la 11. Omero, Iliade, XVIII, 43; K. Kerenyi, Gli dei e gli eroi della Grecia, I, Gli dei, Milano 1963, 63, trattando delle Nereidi. 12. In CIL XI, Pars Prior, n. 1947 è nominato un L(ucius) Farusanus Favor come autore di una “tessera pagana”, trovata a Petignano, tra i ponti sul Tevere di Pontefelcino e Ponte Pattoli, Perugia, conservata nel Museo di Perugia. 13. Si sa che qualche personaggio era legato con due tribù. Forcellini, Lex., IV, ad v. Tribus, 528, par. 9, scrive: “Unus aliquando duas tribus habuit, alteram nativitate, alteram adoptione”; cfr. Ida Calabi Limentani, Epigraphia Latina, Milano - Varese 1968, 160-161. 14. Cfr. Plinio, Nat. Hist., XVIII, 3,10: “In sacris nihil religiosius confarreationis vinculo creat”. 15. Cicerone, Nat. deor., I,29,83; Lexicon Iconographicum Mythologiae Classicae (LIMC), V/1-2, Zürich - München 1990, s.v. “Iuno”, V/1, 814-856; V/2, 533-553. UNA LAPIDE ROMANA DI ASSISI 407 figura non è di carattere funerario. Giunone Caprotina infatti veniva festeggiata nelle None Caprotine, il 7 luglio, con rito assai arcaico, durante il quale si tagliavano i rami di un caprifico selvatico, che gocciolava il “latte del fico”. La dea, perciò, era associata a una Iuno, o divinità geniale femminile, giovane vergine, sessualmente matura, pronta per il matrimonio, mediante un culto arcaico legato a capre e ad alberi, con significati evidentemente sessuali16. Ma la nostra dea, era anche associata con l’italica Uni, anch’essa di aspetto giovanile, col capo e le spalle coperte di una pelle di capra, con calceoli repandi, seminuda, com’era anche Turan (Afrodite e Venere), armata anche lei di scudo, per lo più in atteggiamento di promachos, che combatte in prima fila, che prima attacca e poi si riconcilia con Ercole, dea protettrice della città e dell’arce, dei naviganti e dei mercanti, dei parti e dei kourotrofoi (nutrici)17; (foto 2 capovolta; fig. 1b). La nostra dea, perciò, e le arcaiche divinità a lei associate (Uni e Turan), commentano assai bene la località natale di Farusa, a cui sono strettamente legate, come località del concepimento, del nutrimento e della difesa del nostro T(ito) Babrio Epafra. L’aspetto ctonio di Giunone Lucina, colei che porta alla luce, dea lunare, invocata dalle partorienti per la protezione dei nascituri, è presente nella raffigurazione di destra, originata dal prolungamento della L di LOCI, forse per ricordare l’iniziale di Lanuvio. Nel tempio di questa città si apriva una grotta, legata con un serpente sacro, dinanzi al quale, nella festa annuale, dovevano presentarsi le giovani della città, per provare la loro verginità18. Infatti, la L di LOCI si sviluppa a forma di serpente; inoltre delimita la volta della grotta, nella stessa maniera del serpe egiziano Mehen, che protegge Osiride, coprendolo a forma di grotta, dall’attacco velenoso del serpente cattivo Ankhat19. La grotta così formata è chiusa da sbarre annodate, rappresentate sotto il corpo serpente, sbarre che, secondo la mitologia, poteva fare soltanto Giunone Lucina, e alludono a una magia di parto20. Legare e sciogliere nodi alludeva spesso a riti matrimoniali. Il nodo di Ercole, per esempio, si scioglieva con la deflorazione fatta dal marito alla propria moglie il giorno delle 16. Enc. Rel., V, 473. 17. M. Cristofani, Dizionario della civiltà etrusca, Firenze 1985, 310-311. 18. F. Coarelli, Dintorni di Roma (Guide Archeologiche Laterza), Roma - Bari 1981, 105. 19. Cfr. la figura riportata da H. Biedermann, Enciclopedia dei simboli, edita da L. Felici, Garzanti 1991, 484. 20. Enc. Rel., V, 474. 408 E. TESTA nozze; il nodo della gravidanza era fatto dal padre nel momento del concepimento; il nodo d’amore poteva essere sciolto annullando il fidanzamento; i nodi nei calzoni dei maschi significava che erano impotenti; nessuno perciò poteva entrare nel tempio di Giunone Lucina con i calzoni annodati. Entrare nella Grotta ctonica significava entrare negli organi femminili, vagina e utero, delle dee della Fecondità; significava salire sui letti di Picumnus e Pilumnus, il dio del pestello, che proteggono la puerpera21, significava salire sul letto di Giunone che prepara la nascita dei maschi22 (fig. 1a). Giunone Lucina è, dunque, il genio personale della madre di famiglia e coinvolge le funzioni di ogni maternità, di ogni riproduzione e dell’economia domestica23. Come Mater Matuta, madre favorevole, porta quale proprio attributo la chiave che rende facili i parti, e nelle sue feste Matronalie dell’1 marzo concede la libertà alle schiave e in quelle Matralie dell’11 giugno accoglie le matrone che hanno avuto un solo marito. Come l’italica Turan, dea dell’amore a carattere ctonio, ha come altri attributi la colomba che, divenuta vedova, muore di nostalgia e, per fedeltà coniugale, non si riaccoppia con nessun altro colombo. Ha inoltre come suo attributo il candido cigno, immagine della grazia femminile e della purezza soprannaturale delle vergini, e la cicogna, che è in contatto con l’“acqua della creazione” dalla quale nasce ogni fertilità. Il suo becco, immagine del phallus, è sorgente dei bambini, che poi ella dona ai genitori, liberandoli dai serpenti velenosi, che combatte e mangia. Finalmente Giunone ha come suo attributo l’oca, immagine rimpicciolita del cigno, associata alla vita femminile e domestica, la cui carne aumenta il desiderio amoroso, la cui bile mangiata dagli uomini, ne aumenta la potenza virile, il cui schiamazzo richiama alla vigilanza24. Come Iuno Moneta (da moneo, ammonire, avvertire) era venerata nel tempio costruito nell’a. 390 a.C. sul Campidoglio a memoria dei fatti del 390 a.C., quando le oche a lei sacre, schiamazzando al penetrare dei Galli, avvertì i Romani che li poterono scacciare dalla rocca25 (fig. 1c; foto 3). Tutti questi miti legati con Giunone Lucina e con le dee a lei associate, sono evocati dal bassorilievo a destra della iscrizione, nel quale si vede una grotta formata da un serpente, chiusa con verghe annodate fra loro, dentro 21. Cfr. Agostino, De Civ. Dei, VI, 9; Varrone, ap. Serv., Ad Aev., X, 76; ap. Nov., 528, 15. 22. Servio, Ad Ecl., IV, 62; Tertulliano, De An., XXXIX. 23. Enc. Rel., V, 473. 24. Sul valore simbolico di questi animali, cfr. Biedermann, Enciclopedia dei Simboli, alle singole voci. 25. Enc. Rel., V, 473-474. UNA LAPIDE ROMANA DI ASSISI 409 di cui sta appollaiato un uccello dinanzi a un uovo. Per la sua forma, l’uccello può essere identificato come una colomba, un cigno o un’oca, uccelli tutti consacrati alle sopraddette dee. Il bassorilievo di destra è, dunque, strettamente parallelo a quello di sinistra e ambedue sono legati all’iscrizione, la quale non ha perciò carattere funerario ma piuttosto matrimoniale. Il mortaio e il pestello sono legati agli dei Pilunno e Picunno, protettori delle macine del farro di Giunone Caprotina di Farusa e di Giunone Lucina, e difensori dei neonati contro gli spiriti maligni e contro Silvano, dei delle selve e dei terreni incolti nemici delle puerpere e dei loro bambini (fig. 1a). Il matrimonio latino della “confarreatio” I latini conoscevano tre forme di matrimonio: quella per contratto (coemptio), secondo la quale la sposa passava in possesso dello sposo a mezzo di un acquisto, vero o simbolico; quella per esercizio di usucapione (usus), cioè a mezzo di convivenza per un anno, non interrotta nemmeno da tre giorni (legge delle XII Tavole); e quella legata con una focaccia di farro (farreum libum), detta perciò confarreatio, o farreum, o vinculum confarreationis, che fu quella del nostro T(ito) Babrio Epafra, la forma più sacra e la più religiosa, celebrata nella fattoria di Farusa. Oltre ad essere la più antica, questa forma sembra che fosse l’unica ammessa per le unioni intertribali dei patrizi. E’ certo che in epoca storica furono obbligati a sposare secondo questo rito i sacerdoti maggiori, il Rex Sacrorum, e i tre Flamini, Marziale, Diale e Quirinale26. Dopo l’epoca monarchica, il rito esigeva come testimoni il Pontifex Maximus, in sostituzione dell’arcaico Rex, e il Flamine in rappresentanza di Iuppiter Farreus, a cui veniva offerta la focaccia di farro, quale difensore del giusto vincolo (iustum matrimonium), in presenza di altri dieci testimoni. All’alba si traevano gli auspici dal volo degli uccelli (colomba, cigno, oca), oltre che dall’esame delle viscere dell’animale sacrificato (la capra); quindi si stendeva la pelle della capra sacrificata sopra due troni, dove sedevano i due sposi, che si incappucciavano con la medesima. Prima, però, la sposa doveva deporre la veste bordata di rosso che aveva portata nell’infanzia, e assumere la tunica recta, o regilla, e il flammeum delle mogli del Flamen Dialis, ossia il velo di color rosso o zafferano, e doveva cingersi di una cintura annodata con il nodus herculeus. 26. Gaio, I, 112. 410 E. TESTA Seduti sui troni, i due sposi si spartivano sacramentalmente la focaccia di farro, già offerta a Iuppiter Farreus, in presenza di tutti i testimoni. Poi la sposa, dinanzi al focolare domestico, guidata da una pronuba, si avvicinava allo sposo e poneva la sua destra nella destra di lui (dextrarum iunctio). Si offriva quindi una troia in sacrificio a Giunone o a Tellus e si consumava il banchetto nuziale fino a sera. Finito il banchetto, la sposa veniva strappata a forza dalle braccia della madre, dallo sposo, che la conduceva nella propria casa, dopo averle separati i capelli con un pezzo di lancia ricurva (hasta caelibaris), cerimonia che è residuo dei tempi in cui si acquistava la sposa per ratto (cfr. Ratto delle Sabine). La deductio dalla casa materna alla casa del marito si faceva processionalmente, mentre la sposa era sostenuta da tre ragazzi (patrimi et matrimi), di cui uno portava una torcia accesa, e il corteo gridava: “Thalasse!”, in onore della Nereide Ferusa, che era colei che introduceva nel luogo della fertilità; e si lanciavano noci, simbolo della vulva feconda. Giunta alla sua nuova casa, la sposa ungeva gli stipiti della porta con olio e grasso di maiale e legava intorno ad essi un filo di lana apotropaico. Allora lo sposo la sollevava di peso, trasportandola al di là della soglia, e nell’interno le comunicava acqua e fuoco (acqua et igni recipere), mentre la sposa comprava, con tre assi da lei portate, il favore del marito, il dominio del focolare domestico e di quello del crocicchio stradale (Lar compitalis). Entrando nella camera nuziale, alla presenza di Iuno Cinxia, il marito scioglieva il nodus herculeus fatto sulla cintura della sposa, togliendole la verginità e augurandole di avere tanti figli per quanti ne ebbe Ercole. La moglie allora pregava dinanzi al lectus genialis, mettendosi a sedere sopra l’immagine di un grosso phallus. La donna che scrisse la lapide commemorativa per T(ito) BABRIO EPAFRA (originario della fattoria) di FARUSA (e della tribù) di MECIA (suo) CONIUGE e fece i bassorilievi di Giunone Caprotina e di Giunone Lucina, volle eternare il suo matrimonio, fatto secondo il rito della focaccia di farro pestato e macinato, che era la forma più sacra e più religiosa in uso tra i romani. Emmanuele Testa, ofm Pontificia Università Urbaniana, Roma Studium Biblicum Franciscanum, Jerusalem