La lunga storia dell`ope legis
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La lunga storia dell`ope legis
ns6_Layout 1 17/12/15 15:12 Pagina 3 EDITORIALE La lunga storia dell’ope legis Giorgio Chiosso È probabile che neppure i più esperti e puntigliosi cultori di storia scolastica ricordino quella che è passata agli annali dell’Istruzione come la “legge Bellisario” dal nome del senatore Vincenzo Bellisario (19171969, parlamentare democristiano, esponente Uciim, attivo protagonista delle vicende che portarono alla riforma della scuola media unica). Eppure quella leggina apparsa alla fine di luglio del 1966 con il n. 603 era destinata ad aprire un’epoca del tutto nuova nel campo del reclutamento (e indirettamente) della formazione iniziale del personale docente. Di fronte all’emergenza causata dall’aumento degli iscritti alla scuola media e dalla insufficienza di insegnanti stabili la “legge Bellisario” previde l’immissione in ruolo di tutti i docenti in servizio nella scuola media alla sola condizione che fossero in possesso dell’abilitazione. Dopo circa un quarantennio (dal 1923 in poi) durante il quale il meccanismo di reclutamento era stato altamente selettivo e inflessibilmente scandito da periodiche sessioni biennali/triennali di abilitazioni e dai concorsi nazionali, si apriva una falla dalle conseguenze imprevedibili. Il provvedimento del 1966 rappresentò infatti non solo un vistoso vulnus del principio costituzionale secondo cui ogni accesso al pubblico impiego è regolato dal concorso, ma anche l’avvio di un incerto e disordinato moltiplicarsi di iniziative determinate più a sistemare generazioni di docenti precari che a garantire la qualità della docenza. Gli anni della contestazione costituirono il brodo di coltura del superamento del principio meritocratico delle prassi abilitanti e dei concorsi. In quel periodo prese fisionomia l’ipotesi (e connessa rivendicazione) dell’abolizione dei concorsi ordinari e dell’immissione in ruolo del personale attraverso il canale universitario (le Nuova Secondaria - n. 6 2016 - Anno XXXIII cosiddette “lauree abilitanti” mai entrate a regime). I blocchi degli scrutini del 1969 e del 1970 portarono alla legge n. 1074/1971 che introduceva gli incarichi a tempo indeterminato e istituiva corsi abilitanti speciali al posto delle sessioni d’esami. Fu questo l’antefatto della più massiccia assunzione in ruolo ope legis della storia scolastica italiana in applicazione dell’art. 17 della legge n. 477/1973. Migliaia di insegnanti che avevano frettolosamente seguito i corsi abilitanti furono in un sol colpo sistemati. Fu una grande vittoria dei sindacati confederali della scuola Cgil, Cisl e Uil che di qui in poi diventarono i principali interlocutori dei governi, oscurando il sindacalismo autonomo che, fino a quel momento, era stato maggioritario. Manca lo spazio per seguire le vicissitudini degli ulteriori interventi ope legis che si susseguirono a ritmo frenetico: legge n. 468/1978, legge n. 270/1982, legge n. 326/1984 ecc. ecc., provvedimenti che s’intrecciarono con la contestuale riduzione dei concorsi ordinari e poi con l’avvio delle graduatorie permanenti. Gradualmente la scuola divenne il datore di lavoro più importante dei laureati italiani. I capitoli successivi sono più noti: l’apertura delle Scuole di specializzazione, i contrasti tra abilitati storici e “sissini”, la successiva soppressione delle Scuole e la loro sostituzione con i Tirocini formativi attivi e a seguire i Percorsi abilitanti speciali, il ripristino dei concorsi previsto dalla “Buona Scuola”. Questa sommaria ricostruzione suggerisce tre ordini di riflessioni. La prima può essere riassunta nella formula “quantità più che qualità”. Se l’immissione in ruolo senza concorso poteva, in via eccezionale, risolvere i problemi della scuola media anni ’60, la sua messa a regime attraverso 3 ns6_Layout 1 17/12/15 15:12 Pagina 4 EDITORIALE successive infornate di “precari” espose la scuola a evidenti rischi di assemblare oves et boves et universa pecora, ipotesi che il semplice buon senso avrebbe dovuto sconsigliare. Non è necessario scomodare le raccomandazioni dell’Ocse per capire che non c’è scuola all’altezza dei compiti se non è animata da un buon corpo docente ben selezionato e da una valida dirigenza. Da noi, invece, le esigenze di assorbire la disoccupazione e il precariato intellettuale hanno tradizionalmente prevalso su ogni altra ragionevole considerazione. In alcuni casi gli stessi dirigenti sono stati assunti con concorsi facilitati. Nessun governo ha avuto la forza – dietro le pressioni sindacali e gli interessi delle lobbies politiche interessate a proteggere le clientele dei precari – di perseguire una seria politica in argomento. Quando finalmente a fine anni ’90 – seconda riflessione – furono avviate le Scuole di specializzazione (e il Corso di laurea in Scienze della Formazione primaria) sembrò che si fosse in procinto di voltare pagina, ma nel frattempo si era creato un precariato che ostacolava ogni iniziativa alternativa a quanto previsto dalla legge del 1989 (istitutiva del cosiddetto doppio canale). Le Scuole rappresentavano un salto di qualità rispetto alle prassi piuttosto sbiadite dei corsi abilitanti e diedero vita a esperienze molto interessanti e innovative. Le Università spesero molte risorse per darsi strutture e organizzazioni in grado di onorare la impegnativa responsabilità loro attribuita dal legislatore. Non tutte le esperienze sono state esenti da critiche e talune improvvisazioni – dovute anche alla mancanza di personale docente qualificato – finirono per ingenerare il sospetto che le Università non fossero all’altezza del compito. I pedagogisti furono impallinati dalle critiche provenienti dai “disciplinaristi” che li accusavano di non tenere nel debito conto il valore della preparazione culturale e da quanti, invece, speravano al contrario di ricondurre le formazione iniziale nelle pieghe del sistema scolastico attraverso modalità tirocinanti. Il risultato fu che le Scuole di specializzazione furono frettolosamente liquidate, sostituite da altre modalità di formazione iniziale che, adesso, sono state poste nuovamente in discussione dalla legge 4 della “Buona Scuola”. Quella che quindici anni orsono sembrava una linea strategica ben definita nel giro di pochi anni è stata smontata e rimontata due volte. Inutile dire che non si va da nessuna parte se si continua a cambiare, di volta in volta, gli assetti formativi secondo la volubile opinione di chi è chiamato dalla politica di volta in volta a decidere. Terza considerazione. Una bene orchestrata propaganda ha fatto credere all’opinione pubblica che l’assunzione di circa 90 mila docenti ex precari costituisse un’iniezione qualitativa in grado di migliorare la scuola italiana. Magari fosse così facile. Neppure è garantito, come è stato promesso, che il precariato sia debellato per sempre. È molto improbabile infatti che i concorsi – specie se, come è previsto adesso, resteranno gestiti con modalità centralizzate – riescano a tenere dietro alle esigenze di personale che via via si manifesteranno in seguito al semplice turnover. Se il governo intende intraprendere una politica del personale degna di questo nome dovrà orientarsi verso altre vie e mettere in conto anche azioni poco remunerative sul piano del consenso. Pensando a un semplice indice delle questioni in gioco si possono indicare alcune priorità. In via preliminare sembra necessario definire in via stabile un sistema di formazione iniziale organico e duraturo legato, a sua volta, a processi ricorrenti di formazione in servizio. I concorsi dovranno essere previsti con cadenza regolare e organizzati su base locali. È inammissibile che i giovani laureati non siano in grado di programmare il loro futuro e siano esposti a continui cambiamenti. Contestualmente si dovrà mettere mano a procedure per la valutazione delle prestazioni dei dirigenti e dei docenti fino a prevedere una forte premialità per i migliori, ben più significativa di quello che è indicato nella legge della “Buona Scuola”; il tutto sostenuto da una campagna a sostegno del recupero della dignità della figura sociale del docente (come accade in altri Paesi). Se si vuole davvero innalzare la qualità della scuola italiana la classe politica non potrà eludere il problema della formazione e del reclutamento degli insegnanti e della loro stima sociale. Ne avrà il coraggio? Giorgio Chiosso Nuova Secondaria - n. 6 2016 - Anno XXXIII