La chiave svitò la serratura come fosse la gabbia di una

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La chiave svitò la serratura come fosse la gabbia di una
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La chiave svitò la serratura come fosse la gabbia di una
bottiglia di champagne. La porta si stappò e fu come
godere. Un salotto grande, parquet scuro, due soppalchi paralleli che partivano verso l’alto in un concerto di musica marocchina. Ovunque ferro battuto,
legno e cristallo. Un divano di pelle verde anni Settanta spezzava l’abitudine dell’occhio, e sopra il divano una libreria gigantesca abbracciava la casa. Un
amplesso. Ne avevo viste tante, tantissime di case, ma
nessuna mi aveva regalato una sensazione pericolosa così in sintonia con il mio stato d’animo. Un sentimento di rivoluzione.
La vita era stata benevola con me regalandomi trentaquattro anni di onorata fortuna: un lavoro – la musica – che era anche la mia passione, e il successo. Anche
troppo. E poi amore, amore come se piovesse.
Mi ero innamorato ben tre volte. La prima di una ragazza che aveva quattordici anni di malizia (e io diciotto di testosterone). Mi prese il cuore e lo gettò nel mare
di Fregene durante il falò di Ferragosto. Quell’estate
giravo l’Europa in un viaggio organizzato da cinque
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lunghissimi anni per festeggiare la fine della scuola.
In ordine sparso toccai: Parigi, Valencia, Barcellona,
Porto, Madrid, Londra, Amsterdam, Berlino. Lei invece restò sul litorale romano, con la voglia di provare e riprovare il sapore di un bacio. Purtroppo non del
mio. Mi tradì alla prima occasione, dopo avermi giurato amore eterno.
Ero partito sgombro da paranoie di infedeltà e mi era
mancata tantissimo. Al mio ritorno mi raccontò tutto:
di Carlo, Paolo e Manfredi (onestamente era quello che
a pelle mi stava più sul cazzo, forse per il nome) e di
come si sentiva mortificata per quello che aveva ripetutamente fatto. Ebbi una reazione che mi trasformò in
un misto tra un mimo e una sfinge umana, tipo quelli che si trovano sui corsi principali delle città. Muto
e con il cuore a pezzi. Oggi Giorgia fa la fotografa, è
meno bella di allora e credo che se la passi bene.
Dopo arrivò Cinzia e la sua eleganza naturale. Una
Venere, con un viso perfetto e labbra carnose, occhi
blu, capelli corvini e una pelle biancolatte su cui ti potevi specchiare. Fu travolgente, quasi troppo se ripenso alla passione, in quei caldissimi sabato pomeriggio
dove scopavamo, previa spesa al supermercato a base
di schifezze e vino bianco a fiumi.
I suoi genitori ci avranno beccato almeno tre volte
nudi in salotto.
Fossi stato io suo padre, mi sarei suicidato.
Lui invece osò volermi subito bene. E così fecero la
madre e tutto il vicinato.
Sembravo benedetto e mi sentivo il più bello del
mondo.
Una creatura leggiadra con uno sgorbietto dinoccolato che parlava sempre: impossibile! Eppure le piacevo molto, così curioso, pieno di idee da realizzare, gon8
fio di entusiasmo da contagiare chiunque. Penso di
aver avuto il merito di averla spinta verso i suoi sogni (oggi scrive articoli di moda su “Cosmopolitan”).
Ma l’ho fatto senza volerlo, mi veniva spontaneo, ho
sempre pensato che fosse una vincente predestinata e
che prima o poi avrebbe spiccato il volo.
Mi lasciò con un abbraccio sulla porta di casa sua.
Lei in lacrime, io zitto. Ancora una volta, stringendola a me fortissimo. Era finita la passione, e con essa la
strada da fare insieme. Tutto qui.
Poi arrivò Ilaria, sensuale e intelligente. Perfetta in
ogni cosa e in ogni dove. Prorompente, divertente, sagace. In lei non c’era mai niente di stonato, non sbagliava una parola. Insomma una divinità.
La sua specialità erano i massaggi (ho sempre avuto un debole per le mani che toccano la mia cervicale) e cucinare come piace a me. Trascorrevo nottate di
splendido sesso tra crostini toscani, bistecche con patatine fritte e film in sottofondo da rivedere sempre
dall’inizio.
Nel frattempo nella mia vita succedeva di tutto:
spesso la gente mi fermava per strada per fare fotografie e chiedere autografi, voleva che parlassi con amici
e parenti al cellulare e dessi consigli su come scrivere una canzone da dedicare alle ragazze. Io non ci capii più niente.
Amavo Ilaria perché mi regalava tranquillità, rappresentava uno spicchio di realtà su cui addormentarmi sereno. Lo feci una volta, poi due, e poi ancora,
commettendo uno degli sbagli più grossolani della
mia vita. Si annoiò e mi lasciò. Una tragedia, un cataclisma sentimentale, uno tsunami di lacrime. Piangevo continuamente e senza pudore. L’ho fatto davanti ai miei genitori, ai miei amici, alla mostra di
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Caravaggio, allo stadio, al bar Benaco, in motorino,
in macchina, in taxi, in centro comprando un paio
di jeans della Diesel, sotto la doccia e al concerto di
Damien Rice.
Tutto quel dolore, adesso che mi trovavo davanti a
una porzione di cielo ritagliato in casa con Villa Albani come scenografia, e quel sentimento di rivoluzione,
sembravano avere un senso.
Lo spazio era ampio, la luce abbondante, e un lampadario di cristallo faceva tanto casa di nonna Giuditta. La mia nonna preferita, quella con cui ho montato
intere città di Lego. La nonna che mi leggeva “Pimpa”, “Barbapapà”, il “Corriere dei Piccoli”, e che mi
faceva golose merende con pane e Nutella.
Trovandomi in quella via, in quel palazzo, in quel
terrazzo dove si sarebbe potuto mangiare anche in sei,
con la cucina da baita e il camino, era normale che dalla
mia bocca uscissero solo due parole: «La prendiamo».
Andrea mi guardò con occhi da serial killer. Urlava in silenzio “Sei un coglione”, un po’ come quando
avevo sbagliato il calcio di rigore contro la 3a H stroncando il sogno di arrivare in finale con la 3a A.
Dire «La prendiamo» era uno sbaglio imperdonabile secondo chi, avvocato come lui, mirava al patteggiamento dopo una trattativa sfiancante con il padrone di casa.
Andrea, il mio miglior amico, era sempre stato tutt’uno
con il suo lavoro. Un uomo che viveva di passionalità
assolute: lui non amava, ma adorava. Non faceva l’avvocato, ma il principe del foro. Non mangiava, divorava. Era senza dubbio l’essere più aggressivo nei confronti della vita che io conoscessi.
Questo superpotere però sembrava non funzionare
con il proprietario della casa che volevamo affittare. Un
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tizio sulla cinquantina, alto, tozzo, dagli occhi piccoli
e mascella ampia. Indossava una camicia a scacchi e
pantaloni di velluto blu, abbinamento improbabile che
lui scusava definendosi architetto-pittore-filosofo. Poteva essere uscito da un film di Pasolini, così correttamente brutto. Credo che Andrea lo trovasse grottesco
e un po’ piagnone. Partì con la sua arringa: «Vede, noi
vorremmo davvero prendere la sua casa ma a questa
cifra è inavvicinabile».
Il signor Foriero chiuse gli occhi, brontolò qualcosa
di incomprensibile e, con una flemma da attore consumato, strinse le braccia al petto dicendo: «Questa
casa, la mia casa, è il frutto di anni e anni di duro lavoro. Ogni mattone, ogni pezzo di legno e cristallo è
stato messo da me, ne ho curato ogni singolo dettaglio.
Ho sudato, pianto e sofferto: ho rischiato di non farcela, di mollare, ma sentivo che potevo e dovevo andare
avanti. Lo avevo promesso a mio padre...».
Rimasi disgustato da quella patetica sceneggiata da
libro Cuore, ed ero certo che anche il mio futuro coinquilino non la prendesse bene. Andrea non sopportava i paraculi, le persone che in qualche modo tentavano di strumentalizzare i sentimenti altrui.
Il signor Foriero, col suo modo di porsi, rappresentava la persona che in assoluto avrebbe potuto uccidere. Se in ognuno di noi si nasconde un assassino, Andrea aveva trovato la sua vittima.
Al ventesimo secondo di silenzio, dopo tre respiri
di finta commozione, il mio amico era vicino all’esplosione: la vena del collo ingrossata, gli occhi stretti e carichi d’odio e una palese voglia di portare le mani vicino alla bocca per ampliare il suono che letteralmente e
tutto attaccato sarebbe stato: “Mavaffanculo!”.
Decisi di prendere in mano la situazione.
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«Ci scusi, stiamo parlando semplicemente di denaro. Lo so, è volgare. Noi desideriamo abitare nel suo
capolavoro di casa, ma se non le dispiace, vorremmo
trattare il prezzo dell’affitto».
Foriero mi guardò dritto negli occhi, sembrava che
volesse tramutarmi in pietra, manco fosse la versione
con pisello di Medusa, prese con la mano il mio esile
ginocchio, lo strinse fino a farmi quasi male e in tono
deciso replicò: «Non posso scendere oltre i tremila euro
al mese. Non posso e non voglio!».
Andrea non aspettò neanche un secondo, si alzò dal
divano e si diresse verso la porta: «Andiamocene. Tanto non è possibile trattare».
Seguii lui e la sua strategia, ma “Er Piagnone” non
aveva reazioni, nulla, neanche un cenno di resa.
Il cuore mi batteva a mille, la volevo quella casa, già
mi sentivo parte di lei, ma non potevo neppure rovinare il piano del mio amico che ce la stava mettendo
tutta per non farci fregare.
Sull’uscio prolungammo il congedo: «Peccato, questa
casa è un gioiello. Vorrà dire che ne cercheremo una
altrettanto affascinante».
Er Piagnone stava zitto e con gli occhi chiusi, sembrava in meditazione zen.
«A prescindere da tutto, tanto ormai ce ne stiamo
andando,» insistette Andrea «non le sarà facile affittarla a questa cifra. Glielo dico perché conosco bene il
mercato immobiliare...»
L’altro zitto, con uno sguardo alla Nicolas Cage, cioè
senza far trasparire alcuna emozione.
«Allora noi chiudiamo la porta e ce ne andiamo, d’accordo? Non ci vuole ripensare, vero? Mi sembra convinto così... ok, arrivederci.»
Andrea mi prese un braccio, facendomi cenno che
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stavamo davvero sprofondando nel patetico. Capii al
volo e chiusi la porta.
Nell’androne, aspettando l’ascensore, ci scambiammo occhiate tristi e cariche d’odio per quel tizio ingestibile. Dal quarto piano al pianoterra non mi guardai neanche allo specchio, che per me equivaleva a un
chiaro segnale di delusione.
Appena uscimmo dal palazzo, Andrea esplose in
tutta la sua ira.
«Una testa di cazzo! Ecco quello che è.»
«Andrea, la casa è sua, che possiamo fare?»
«Ma la chiami trattativa non scendere neanche di
un centesimo?»
«E che cazzo ci posso fare io? Diamogli tremila euro
al mese e facciamola finita!»
«E certo, perché io i soldi li faccio dal culo ogni mattina, vero?»
«Ma è il budget che avevamo preventivato.»
«Embè? Non lo capisci che è una questione di principio? Non posso permettermi di essere l’unico cretino che non riesce a farsi fare un fottuto sconto sull’affitto di casa.»
«Allora forza, andiamo a bere qualcosa e non pensiamoci più!»
«No, mi girano troppo le palle!... Guarda... adesso
gli citofono... gli citofono e gli dico che è una vera testa di cazzo.»
«Ma che dici, dai, andiamo.»
Andrea mi spostò bruscamente e si attaccò al citofono.
Dopo quasi un minuto, che ripensandoci sembrò
davvero un’eternità, Foriero rispose: «Siete voi?».
Andrea ormai era sbottato: «Lei, caro il mio Geppetto, è una grandissima...».
«Ve la do a duemilaseicento euro» lo interruppe
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quello. «Ho pensato che tutto sommato ve la meritate.
Facciamo duemilaseicento euro. Voi però vi occupate
dell’impianto di riscaldamento... i termosifoni hanno
un problemino. Ok?»
«Ok» rispondemmo all’unisono come due splendide Paola e Chiara.
«Tornate su a firmare il contratto.»
Salimmo alla velocità della luce consapevoli che in
realtà la trattativa l’aveva comunque vinta lui insieme
ai suoi otto termosifoni vecchi di mezzo secolo.
In macchina il silenzio suonava, la radio era spenta
su RTL, Roma era deserta e quell’agosto profumava
sempre più di rivoluzione. La mia, soprattutto. Ero
rivoluzionario perché mettevo un punto e cambiavo
radicalmente.
Stavo per lasciarmi alle spalle cinque anni incredibili, intensi e densi di vita. Abbandonavo la mia casa
in via Rasella, che ormai aveva dato tutto a tutti. Era
stata un rifugio per anime alla ricerca di pace e delirio,
tra feste e cene romantiche, sesso e amori poco importanti. E aveva smesso di emozionarmi.
Finalmente era arrivato quel momento in cui tutto
girava perfetto, come me lo ero immaginato, e anche
gli alberi di via Tagliamento sembravano abbracciarmi.
Io e Andrea sceglievamo di andare a vivere insieme,
realizzando il sogno della nostra adolescenza. E mi
rendeva ancora più fiero il fatto che lo avessimo deciso dopo aver superato abbondantemente i trent’anni.
Un atto quasi eroico.
Capita a tutti, prima o poi, di voler fare un lifting
alla propria vita. C’è chi si rifà le tette per rinvigorire il rapporto con il proprio partner e chi cambia casa
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come me, avviando una convivenza non con la sua futura moglie ma con un caro amico.
Ero single da otto anni, Andrea da tutta la vita e la
nostra linea editoriale era chiara: restare adolescenti
con maturità e stile.
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