psicologia del gioco

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Lo sport: psicologia del gioco, delle relazioni e della individualità
Dott.sa Diana Lupi
Lo sport: psicologia del gioco, delle relazioni e della individualità
Vasto 10 Marzo 2014
Buonasera a tutti, io sono Diana Lupi, psicologa e psicoterapeuta psicoanalitico e con voi, oggi,
affronterò il tema concernente l’aspetto psicologico implicato nel gioco del calcio da un duplice
punto di vista: individuale e relazionale, oltre a considerare l’importante tematica della prevenzione.
Tutto ciò in un’ottica psicoanalitica ricordando che per Psicoanalisi si intende quella modalità
teorico-clinica di approcciarsi alle situazioni di vita tramite una profonda riflessione e comprensione
di ciò che avviene sia nella realtà quanto all’interno di ogni singola persona. Ciò contribuisce a
creare un’area di pensiero autentica volta alla comprensione profonda di noi stessi, delle relazioni
che intratteniamo e dell’altro.
D’altronde tutta la FIGC -Settore giovanile e scolastico manifesta una significativa sensibilità al
mondo sportivo giovanile, così come si evince dal Comunicato Ufficiale n°1 2013-2014, tenendo
costantemente presente quanto riportato dalla “Carta dei diritti dei bambini” (New YorkConvenzione sui Diritti del fanciullo del 20/11/1989) e dalla “Carta dei diritti dei ragazzi allo
sport” (Ginevra 1992-Commissione Tempo libero ONU). Allo stesso modo anche l’UEFA esorta ad
una più ampia responsabilizzazione degli operatori del mondo del calcio, tramite anche l’utilizzo
del decalogo estrapolato dalla Carta dei Diritti, considerando questo come possibile modello
educativo e agente efficace di integrazione.
Sappiamo bene che ogni prestazione sportiva è il frutto di capacità fisiche e atletiche, tecniche, di
talento, allenamento, alimentazione e regole di vita ma anche di aspetti psicologici emotivi interni
che rappresentano l’autentico modo di essere del piccolo o giovane giocatore. Proprio per questo
vorrei riflettere con voi su alcuni aspetti che riguardano il mondo interno dei giovani calciatori,
dove per mondo interno si intendono tutte quelle esperienze che si acquisiscono con lo scorrere
della vita e che diventano fondanti la personalità.
Il vostro ruolo, pertanto, è si di preparare il fisico, ma anche le menti e soprattutto di provare ad
osservare i comportamenti particolari dei bambini-ragazzi, per una possibilissima prevenzione di
disagi psico-sociali. D’altronde, così come sono previsti corsi di primo soccorso, per poter essere
preparati in caso di emergenze sul versante del fisico, allo stesso modo si ritiene opportuno inserire
anche interventi di natura psicologica, come questo, dando prova di grande apertura mentale e di
forte volontà nel sensibilizzare voi dirigenti e tecnici alla comprensione dei comportamenti dei più
giovani.
Lo sport è un contenitore, voi, la dirigenza, la squadra, il campo di calcio, gli allenamenti,
rappresentate un contenitore, cioè un luogo psichico con un funzionamento ben preciso, con regole
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dettagliate, con determinati compagni di gioco…., così come lo sono prima la scuola e la famiglia.
Ma c’è una grande differenza: lo sport si pratica per piacere, il ragazzo per natura è portato a
giocare e questo rappresenta il contesto migliore in cui può esprimere al massimo il libero
movimento. Il gioco per i giovani rappresenta l’attività primaria di espressione, ovvero quell’attività
che occupa gran parte del loro tempo, delle loro giornate e anche, quindi, dei loro pensieri; loro
vivono per il gioco, è tutto il loro spazio e tempo. È fondamentale capire quanto amino lo sport, in
quanto prima attività di interesse e importanza: noi adulti abbiamo più difficoltà a capire ciò…
perché noi adulti passiamo più tempo a lavorare, a risolvere questioni serie, ad andare per uffici,
insomma noi adulti compiamo tutta una serie di attività, che occupano interamente la giornata, in
cose serie.. e il gioco? il gioco per noi adulti occupa pochissimo, chi è fortunato, per esempio come
voi, e pratica attività sportiva, magari può impegnare 3 o 4 ore a settimana e tutto il resto del tempo
viene utilizzato per attività routinarie lontane dal gioco. In quelle poche ore facciamo attività
sportiva che comunque hanno una valenza diversa rispetto al gioco del ragazzo: noi siamo adulti,
persone già strutturate, impegnate professionalmente, più ricchi di esperienza di vita… non siamo
più un foglio bianco su cui iniziare a scrivere, come i giovani. Ecco per comprendere la passione di
un giovane ragazzo che gioca, dobbiamo tornare un po’ indietro e ricordarci come noi stessi
eravamo… chissà che pensavamo, a che giochi giocavamo.. ricordate qualcosa? Ricordate la gioia,
il piacere di quelle attività? Tornare con la memoria un pò indietro negli anni e provare a rivivere
quei ricordi ci permette di capire sia quanto ci divertivamo e quindi quanto amavamo giocare, sia
quanto era importante e serio il giocare. Il gioco per i ragazzi è sia puro piacere sia attività in cui
mettersi costantemente alla prova. E questo mettersi costantemente alla prova succede sia a 5 anni
che 25 o 30 anni, ciò che cambia è sia l’aspetto mentale quanto quello fisico. È importante
contestualizzare la psicologia del gioco in base a chi si ha di fronte, all’età e relativo sviluppo
psicofisico. Mentre gioca esprime aspetti del suo mondo interno, come ho detto prima, ovvero tutti i
suoi vissuti interni (emozioni, sentimenti) che costituiscono la personalità. Il calcio ha una valenza
del tutto particolare: è uno sport di squadra, quindi alle attività libere del puro giocare unisce
semplici principi di funzionamento, ovvero le regole del gioco, che devono essere condivise e
rispettate. Se ci pensiamo bene una delle funzioni delle regole è anche quella di promuovere
l’appartenenza al gruppo, proprio perché non solo devono essere rispettate nella lealtà e onestà del
gioco, ma anche condivise. È a questo livello che si parla di fair play, ovvero di gioco leale che,
come evidenziato nel Codice Europeo di Etica Sportiva (Rodi 13-15 maggio 1992), è il centro
dell’attenzione nello sport giovanile nella sua più ampia visione di rispetto di regole, delle amicizie,
degli altri e dello spirito sportivo. Il fair play è, così, un modo di pensare, e non solo di comportarsi,
che riconosce lo sport come attività socio-culturale arricchente a condizione che sia praticata
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lealmente. Le regole sono fondanti l’appartenenza al gruppo e quindi alla società. È così che il
semplice gioco diventa prima sport e poi sport di squadra, ovvero con compagni di gioco. Il calcio è
un gioco che grazie alle regole che lo contraddistinguono diventa uno sport strutturato e grazie alla
necessità di avere altre persone che giocano diventa sport di squadra. Proprio per questo nel titolo
dell’intervento si parla di relazionalità e individualità: questi sono due aspetti interconnessi fra di
loro perché ciò che ognuno di noi prova al suo interno, quindi come individuo, lo dimostra mediante
le sue capacità di stare al mondo e in rapporto agli altri, quindi nelle relazioni. Ecco perché nel
calcio ha senso il considerare il ruolo di ogni singolo giocatore al contempo del gruppo squadra.
Partendo dalla comprensione psicologica del tutto individuale coinvolta nel giovane giocatore che
gioca, vi riporto alla divisione mente-corpo che per molto tempo ha impedito una visione globale,
olistica dell’uomo e, ancor di più, di chi pratica uno sport, portando perciò ad una grandissima
evoluzione sul lato fisico dell’allenamento nelle sue migliorie relative alle prestazioni fisiche, non
trovando però un corrispettivo da un punto di vista psicologico che, rimanendo indietro in questa
crescita, comporta dei rischi relativi alla non comprensione e correlazione degli aspetti psichici
connessi alla pratica sportiva. Per far capire bene l’importanza dell’unione mente-corpo, faccio un
brevissimo passaggio teorico-clinico all’interno della psicoanalisi (pensiero di M. Klein e W.R.
Bion due psicoanalisti inglesi di spicco nella comprensione profonda delle emozioni e delle intime
relazioni), cosicché vi possa arrivare la rilevanza della suddetta correlazione nell’ambito dello sport.
Il corpo è sede primaria e primitiva di qualsivoglia sensazione: tutto inizia con il corpo, le prime
acquisizioni psico-cognitive avvengono per il tramite del corpo che si frappone fra sé e l’altro.
Mano a mano, con il passare dell’età, tutto ciò che passa attraverso il corpo viene in qualche modo,
grazie all’ausilio di figure familiari, mentalizzato, elaborato e si iniziano a dare nomi specifici alle
emozioni che si provano. Questo può avvenire perché le figure accudenti sentono per il bambino
quelle stesse emozioni, ne sanno il nome e, pertanto, le possono restituire elaborate, tramite un
profondo lavorio interno che prende contatto con quelle stesse antiche e allora indicibili emozioni,
al bambino che in tal modo può iniziare a trovare corrispondenza fra sé e l’altro e fra sé e le sue
emozioni. Questo dà il senso dell’esistenza. Per fare un esempio: il bambino all’inizio dei suoi
giorni non sa comunicare verbalmente cosa ha, ma è tramite il pianto, il muoversi del corpo, le
espressioni facciali, i sorrisi che l’adulto che lo accudisce può intuire cosa ha il bimbo stesso.
Inizialmente all’origine della vita, tutti noi abbiamo potuto comunicare solo attraverso il corpo. Poi
grazie alle nostre madri, padri o chi si è preso cura di noi tramite il processo prima descritto di
riconoscimento delle emozioni, abbiamo potuto iniziare a dire cosa provavamo… Dire cosa si
prova, significa attribuire nomi ad emozioni, significa differenziare le stesse ed uscire dalla
confusione di stati poco chiari. Deve esserci un giusto equilibrio, una giusta sintonizzazione fra il
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bambino e l’adulto, affinché tale crescita sana possa avvenire nel bambino stesso. Ne vale la sua
salute mentale. È un lungo processo che porta alla piena consapevolezza di se stessi con il
raggiungere di un’età adulta. Per questo motivo è fondamentale ampliare le vedute in voi tutti
Dirigenti, allenatori e operatori vari del settore, integrando la funzione del corpo-fisico-muscoli e
relative prestazioni, con quelle della psicologia che tiene conto delle emozioni. Questo significa che
se a 25 anni un ragazzo fa un gesto particolare, strano, in campo, noi dobbiamo pensare che è la sua
psiche interna che muove il corpo stesso in una maniera insensata. È nella mente che c’è qualcosa
che non funziona. Ho letto di un giovane calciatore a Reggio Emilia che per la gioia di un goal, ha
colpito con la testa la copertura di plastica della panchina, rompendola. Poi è stato espulso. È
normale? Dobbiamo riflettere sul fatto che se abbiamo di fronte una reazione esagerata allora è
nella mente della persona che c’è qualcosa che non funziona. Un corpo forte, muscoloso e prestante,
ha vero senso se accompagnato da una mente che lo tiene e lo governa: la capacità di saper
utilizzare il corpo deriva proprio dall’abilità di gestirlo con la mente, si sanno fare delle azioni se il
corpo è guidato e non in preda agli impulsi. E questo può avvenire anche nell’altro senso: più si
allena il corpo più si allena la mente, quindi una mente che funziona è necessaria per un corpo che
funziona e viceversa. È un duplice movimento che, in un giovane calciatore in fase di crescita
psico-fisica, è assolutamente da tenere in considerazione. Per questo è necessario tenere a mente sia
l’unione della mente con il corpo che, allo stesso momento, capire che si ha a che fare con entrambi
gli aspetti. Naturalmente non si chiede all’allenatore di essere uno psicologo, ma che questi possa
essere supportato da una figura specialistica nella gestione e comprensione delle dinamiche interne
e sociali del giovane calciatore, assolutamente si. È un grandissimo arricchimento.
Poi, una volta compreso il discorso mente-corpo di ogni giocatore, subentra la comprensione
dell’essere in gruppo, quindi l’aspetto relazionale, che vedremo successivamente.
Cosa ha a che fare, potreste chiedermi, tutto questo con il calcio? Qui trattiamo proprio di giovani
giocatori che attraversano una fase di evoluzione piuttosto delicata, in cui fanno prime esperienze di
vita che rimarranno per sempre nel loro mondo, li segneranno nel loro modo di essere e di stare con
gli altri. Voi che state con loro in panchina, nello spogliatoio, in allenamento, dovreste tener conto
di questi fattori legati alla crescita e al costante apprendimento di nuove capacità che, come detto
prima, sono correlate sia ad abilità fisiche, quanto psicologiche e relazionali. Voi siete
importantissimi per i giovani calciatori, poiché siete visti sia come una sorta di capo, colui che
guida e insegna, sia come figura di riferimento, in senso più ampio, poiché proprio voi potete
comprendere e accogliere le difficoltà emotive di un giovane nell’imparare, per esempio, una
tecnica o in qualsiasi altro atteggiamento. Siete una sorta di sostituto del padre. E proprio per questo
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date una grande opportunità ai giovani, quella di poter trovare in voi un altro adulto guida, una
ulteriore figura di riferimento.
Lo sport e il calcio che, in particolar modo è uno sport di squadra, sono palestre di riflessione in cui
chiunque vi acceda porta con sé tutto se stesso. Ma che significa portare con sé? Noi adulti
pensiamo allo sport come a un momento di puro svago per la mente in cui si usa solo il corpo per
compiere determinate azioni, ma in realtà quando si arriva ad un allenamento o ad una partita (in cui
entrano in gioco ancora altre variabili legate alla sfida, alla competizione con l’avversario), si è
accompagnati da aspettative, da vissuti che possono essere legati ad avvenimenti come anche da
pensieri e desideri più profondi. Avrete sicuramente visto quanto animo mettono i ragazzi nel
gioco! Sono sempre entusiasti e reattivi! Inoltre prima dei 12 anni per esempio, il piccolo calciatore
gioca semplicemente per il gusto di muoversi e divertirsi. Solo dopo i 12 anni il ragazzo inizia a
porsi obiettivi più seri, a seguire schemi astratti di gioco, a cooperare, a cercare il risultato,
anticipare le azioni in vista di uno scopo, tutto questo grazie anche alle accresciute capacità
cognitive. Dopo i 20 anni subentrano ulteriori capacità dettate anche dall’esperienza di gioco, ma i
ragazzi sono ancora in un percorso di crescita psicologica.
Ecco, tutto questo ha del personale, voi sicuramente avrete esperienza di come i bambini o i
giovani reagiscono dopo un goal, dopo un calcio sbagliato, dopo un’azione sbagliata, una palla non
passata… ecco proprio qui dovrebbe intervenire quella abilità, prima riportata, che sta nel saper
comprendere adeguatamente le emozioni quindi le diverse reazioni di fronte a situazioni importanti.
Per esempio la rabbia celata dietro a un dispiacere troppo forte: vi è capitato di assistere a reazioni
eccessive, “arrabbiate” magari per una sostituzione, un cartellino giallo, rosso, o non so,
suggeritemi voi, ma avete mai immaginato che dispiacere ci potesse essere dietro ad una reazione
così animata? È piuttosto reattivo reagire con la rabbia, rabbia che può appartenere ad un dolore, ad
una delusione o anche ad una volontà di definire la propria identità in un determinato modo.
Quando c’è un grande investimento verso un’attività per cui si ha grande passione, come può essere
il calcio per i giovani, è naturale arrabbiarsi, quindi soffrire, per azioni contro se stessi. La rabbia è
l’incipit dell’autodeterminazione, ovvero della possibilità di dire “no” per imporsi come persone
diverse dagli altri. Naturalmente c’è un confine entro il quale questa, se elaborata, diventa
produttiva, efficace, pone dei limiti fra sé e gli altri, o altrimenti, senza nessun contenimento,
diventa dilagante dando luogo ad atteggiamenti violenti o poco adeguati al mondo del gioco. Le
regole del gioco hanno anche questa funzione: ovvero di creare una cornice di riferimento dentro la
quale sono racchiusi i comportamenti accettati, le azioni condivise, le modalità adeguate di
comportarsi. Per questo la regola, proprio perché non permette di fare a piacimento, struttura il
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gioco e quindi organizza anche i giovani giocatori che sanno che “a calcio si gioca così”, e quando i
ragazzi dicono questo, intendono soprattutto le regole del gioco.
Per i piccoli calciatori è una vera e propria impresa lo stare in mezzo a un campo delimitato da
strisce bianche, quel contenitore di cui vi parlavo prima, dove tutto è nuovo, diverso e inizialmente
poco familiare, con regole tutte da imparare. Imparare le regole ed accettarle, significa poter stare
civilmente insieme agli altri. Pensiamo a quanto si impegnano: forse comprendendo veramente
questo, possiamo immaginare che passione ci mettono nell’imparare lo sport… quella passione,
quello sprint alla vita, quella voglia di vivere che farebbe tanto bene ricordare anche a noi adulti in
fin dei conti.
Voi, ovvero il calcio, potete rappresentare uno di questo contenitori, dando la possibilità ad un
giovane di trovare accolta la sua reazione e poi di dare senso alla stessa, tramite le manifestazioni
che produce con il corpo. Esempi: MARADONA o CASSANO - PERDITA DEL CONTENITORE
CALCIO (utilizzo del calcio come strumento – utilizzo del corpo e dei suoi impulsi per fare
qualcosa di straordinario nel campo delimitato di gioco. Perché ha reazioni folli fuori dal campo o
nel campo di fronte a vicende penalizzanti? Perché perde proprio quel confine, quel contenitore. Il
calcio non è solo semplice sport, ma sport di squadra con valore normativo e contenitivo).
Già comprendere che ad ogni azione irruenta corrisponde una proporzionata passione, dettata dalla
volontà del gioco, rende più chiaro perché un calciatore reagisce animatamente. Torno a precisare
che la rabbia è un sentimento non da evitare, ma da comprendere, accogliere, elaborare.
Trasformata e contenuta ha a che fare con la vitalità, con la grinta nella sua espressione positiva,
diviene energia costruttiva. Ha a che fare con la vita stessa, con l’autoconservazione, nella sua
comprensione positiva è fondante l’esistenza. La preparazione mentale permette di capire questi
passaggi e, se sono chiari in chi opera con questi ragazzi, saranno più comprensibili i
comportamenti dei ragazzi stessi e loro stessi si sentiranno accolti e liberi.
Lo sport è uno degli strumenti e degli stimoli più potenti per la formazione della persona poiché è il
contesto stesso che promuove esperienze:
-
cognitive (per esempio la coordinazione, l’utilizzo di strategie, il pianificare un’azione,
anticiparla, pensare e riflettere prima di agire),
-
affettive (ovvero riconoscere quelle emozioni che formano l’essere e il sentire del giovane
calciatore, il suo modo di stare al mondo, ciò che si prova dentro di sè);
-
sociali-relazionali (si impara a stare con gli altri, a stringere rapporti umani prima di tutto e
poi per la squadra, con i compagni di gioco).
Queste esperienze hanno a che fare con il rispetto delle regole (la forma e l’essenza del calcio, il
contenitore), con la tolleranza alla frustrazione (il dover sopportare momenti difficili che possono
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essere legati ad un errore commesso, al non poter giocare e stare in panchina, al dover accettare che
c’è un altro più bravo…), al provare la vittoria o la sconfitta (quindi gioia, felicità di vincere come
gruppo che insieme ce la fa oppure dispiacere per un obiettivo non raggiunto, dispiacere condiviso
con tutti gli altri membri della squadra, quindi meno doloroso), la coesione sociale (quindi sia
l’aspetto prima menzionato relativo alla capacità di imparare a stare con gli altri, si al condividere
regole comuni: solo se si condividono gli stessi valori si può essere veramente uniti), l’integrazione
dell’altro (accettazione dell’altro che può essere diverso, di altra etnia, religione o semplicemente di
altro sesso) il rispetto per l’ambiente, l’educazione alla democrazia.
Lo sport è un laboratorio esperienziale sociale che permette veramente di apprendere i valori del
vivere personale e comunitario. Norbert Elias, autore che ha studiato lo sport come modo per
leggere la storia della civilizzazione dell’uomo, nel testo “Sport e aggressività”sostiene che “nel
processo di civilizzazione lo sport diventa il laboratorio naturale entro cui si può osservare
l’evolvere dei rapporti sociali nel mutevole equilibrio tra competizione e cooperazione, conflitto e
armonia, aggressività e controllo del sé”.
È proprio con il primo contatto con lo sport che il giovane calciatore scopre di avere nuove qualità,
nuovi modi di muoversi, mette alla prova la coordinazione motoria e spazio-temporale, inizia a stare
insieme agli altri. Il giovane sperimenta se stesso, la sua persona, i suoi limiti, le sue potenzialità, le
sue abilità. Proprio perché rappresenta un momento di crescita e conoscenza è un errore caricare, il
bambino prima e l’adolescente poi, di aspettative, di desideri che non sono i suoi, che non gli
appartengono. L’evoluzione psico-fisica è molto delicata e i giovani sono molto attenti mentre si
approcciano, tramite il calcio, allo scoprire nuove capacità legate al creare, capire, iniziare a trovare
soluzioni, correggersi, sperimentare la sicurezza, il coraggio, la consapevolezza di potercela fare.
Per questo vi invito ad essere molto sensibili, perché magari può non apparire, ma certamente per
loro è tutto nuovo e passo dopo passo devono essere accompagnati nell’apprendere nuove azioni. È
bene che siano liberi di intraprendere schemi nuovi, che diano sfogo alla creatività, al movimento
autentico, che siano valorizzati, indirizzati, guidati nel rispetto delle regole di gioco ma che questo
non diventi rigido, frustrante ed esclusivo modo di praticare ostinatamente sport. Esperire per
tramite del gioco significa esperire il mondo interno, quindi se stesso.
Come sostiene B. Bettelheim in Un genitore quasi perfetto: “il gioco è la sua realtà -cioè è la realtà
del bambino-. Questo estende il significato di una partita (per esempio) ben oltre i limiti che può
avere per l’adulto. Perdere la partita non fa dunque parte del gioco come è o dovrebbe essere per
l’adulto” è un’esperienza che può far sorgere dei dubbi sulle proprie capacità. Ci si rimane molto
male. “Questo –cioè la possibilità che sorgano dubbi sulle proprie capacità- va impedito a
qualunque costo”. Bisogna essere molto delicati e sensibili quando si ha a che fare con i giovani
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calciatori poiché è il futuro della personalità che si ha fra le mani. Preciso, ed è un concetto molto
importante, che siamo noi adulti a dover attribuire massima importanza alle azioni-emozioni del
ragazzo, poiché mentre lui è libero di giocare, noi dobbiamo sapere che dietro questo è racchiusa
tutta la sua essenza. Mentre lui gioca, noi dobbiamo essere consapevoli che sta crescendo.
Intorno ai 12 anni c’è l’inizio dell’adolescenza, che rappresenta il più grande momento di
trasformazione e cambiamento del giovane in cui entrano in gioco moltissime variabili legate al
cambiamento stesso del corpo, delle nuove dimensioni dell’essere e del sentire, all’acquisizione di
capacità fisiche e cognitive superiori. Già la spinta all’autonomia e il continuo oscillare fra
l’indipendenza e la dipendenza crea un’altalena di emozioni e di impulsi di non facile gestione.
Soprattutto per un giovane che fino a quel momento ha vissuto una relativa tranquillità, il periodo di
latenza come viene definito in ambito psicoanalitico.
Per esempio, da un punto di vista relazionale, il concetto di cooperazione acquista vero senso
proprio in questa fascia di età in cui l’aggregazione è un grande momento dell’essere
dell’adolescente. Il gruppo-squadra di adolescenti è forte, i legami fra i ragazzi sono massicci,
ognuno trova la forza nell’altro e grazie all’altro. È per tramite del gruppo che crescono le
individualità. Gli adolescenti, infatti, stanno sempre insieme, hanno bisogno di questo, così come
hanno bisogno di fare le stesse cose, vestirsi allo stesso modo… è una ricerca di identità che deriva
proprio da questo continuo passaggio dello stare in gruppo e uscirne. È naturale, poi, che ognuno
rivesta il proprio ruolo, ognuno ha la sua parte ma senza gli altri è svuotato. Questo può succedere
quanto nell’aspetto positivo di accettazione quanto in quello negativo di espulsione dal gruppo.
Esempio: BALOTTELLI – PIANTO.
L’espulsione va prevenuta a tutti i costi e il Dirigente o l’Allenatore o comunque chiunque operi
con i giovani, proprio perché deve tener conto di ogni singolo quanto del gruppo, deve fare molto
attenzione a che questo non succeda. E nello stesso tempo deve responsabilizzare ogni singolo
membro della squadra affinché ciò non avvenga. Cosa non funziona se un ragazzo va via? La
squadra è coinvolta in questo processo? Cosa è successo al ragazzo? Possono esserci molti fattori
per cui un giovane sceglie di allontanarsi dal gruppo squadra, ma è bene che questo venga valutato e
compreso, perché può dare un segnale a tutti i membri della squadra. “Fare squadra”, così come si
dice, per gli adolescenti è un’attitudine istintuale e deriva dalla possibilità di ciascuno di
sintonizzarsi tutti insieme in vista di un obiettivo superiore, è un’entità che non è solo la somma dei
singoli, è un’atmosfera magica che si crea grazie ai legami dei suoi membri. È un’appartenenza al
gruppo che avviene per il tramite della condivisione delle regole, che accettate, diventano valori del
gioco. La forza del gruppo permette di affrontare meglio le difficoltà che si incontrano, sostiene le
individualità. Questo modo di stare insieme in gruppo, che si apprende molto bene nello sport di
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squadra, è una palestra di vita. Imparare a stare con l’altro è fondante per la crescita morale in
società, per lo sviluppo, il rispetto dell’altro, altro che naturalmente è anche l’avversario e non il
nemico. Valori educativi e morali che vengono appresi tramite il giocare insieme.
Il gruppo di coetanei, quindi i compagni di squadra, rappresenta il luogo dell’esperienza affettiva
cruciale per la crescita, in cui l’adulto, cioè voi, da fuori, ha il compito di sostenere la speranza e
promuovere la competenza: stimolare quelle qualità che fanno pensare ad un talento in un
determinato ruolo, per esempio, appoggiare la creatività in un’azione, rinforzare la convinzione che
ce la si può fare, che con impegnativi allenamenti si può migliorare. L’adulto di riferimento della
squadra, allenatore o dirigente che sia, al tempo stesso, definisce i loro ruoli, rende i criteri di
tecnica-allenamento e di strategie e obiettivi condivisibili, rende loro consapevoli di un destino
comune: loro sono un gruppo, per mezzo di voi diventano una squadra coesa con un compito
specifico. La dirigenza, per questo, non può avere un ruolo privilegiato con questo o quel membro
della squadra, né allo stesso tempo con un genitore piuttosto che con un altro. Proprio rispetto al
ruolo dei genitori, un piccolo cenno va fatto in merito alla possibilità che si creino dei rapporti
particolari con alcuni genitori… questo, per il bene e la forza della squadra, non deve avvenire:
l’allenatore, così come il dirigente o qualsiasi altro adulto di riferimento, deve arginare le richieste
dei genitori, tracciando dei limiti di comportamento alle interferenze di questi. In questo modo il
giovane è libero di giocare nel modo che lui desidera e la squadra non teme che possa esserci
l’interferenza di qualche adulto a destabilizzare il funzionamento del gruppo. Così si crea per i
propri ragazzi, un’area libera di gioco e di esperienze varie in cui questi possono pensare solo a
giocare, senza temere che ci sia un altro adulto a dettare le regole. Solo l’adulto di riferimento della
squadra deve poter essere ascoltato senza temere invadenze esterne. È lui che crea lo spazio di
gioco, con le proprie tecniche di allenamento fisico e mentale e con i dovuti limiti agli esterni.
Per questo il vostro ruolo, in qualità di punto di riferimento e guida della squadra, è fondamentale
per la formazione e la crescita del gruppo, coadiuva nella ricerca di una identità gruppale da poter
gestire-allenare. È anche questo il senso delle divise uguali, borsoni…etc…
La storia dello sport è caratterizzata da una predominanza maschile con profonde differenze di
genere, ma questo non va visto come solo una minoranza femminile al gioco del calcio, anzi va
interpretata come una grande opportunità che viene data alle giovani donne per poter crescere
laddove esiste una cultura diversa e contrastante. Quindi, incentivare le ragazze al gioco del calcio
significa sia stimolare una integrazione con i compagni, come già avviene nella scuola, vista anche
la possibilità di squadre miste, sia aprire la strada di una cultura legata all’eguaglianza sociale e alla
parità di possibilità. Se chi opera con le ragazze ha ben chiari in mente questi due aspetti
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(integrazione e uguaglianza), allora potrà esserci una vera prevenzione di pregiudizi sociali.
L’apertura al mondo a nuovi pensieri parte anche da qui, qui come luogo di divertimento. (Carta
Olimpica contro la discriminazione nello sport-12 dicembre 1999).
Queste riflessioni andrebbero effettuate nel momento dell’osservazione, con l’ausilio di uno
specialista, in una sorta di èquipe tecnico-psicologica.
Le azioni dei ragazzi trovano sempre una giustificazione che hanno a che fare con sentimenti del
tutto personali di funzionamento che il giovane stesso utilizza in tutti i campi della vita. Ecco
perché, come ho detto prima, è importante conoscere il bambino prima e il giovane poi in
profondità, va dato spazio a questi giovani giocatori per potersi esprimere anche con le parole con
chi può ascoltare. Per questo ritengo che il ruolo della psicologia in questo settore sia quello di
sensibilizzare, nel senso proprio di rendere più sensibili, più attenti a ciò che accade, e di
responsabilizzare tutti coloro che operano nelle società calcistiche giovanili. In questo senso è
importante, anzi direi indispensabile, iniziare a muoversi in un’ottica di prevenzione attraverso il
gioco dello sport del calcio e al contempo a sviluppare delle buone prassi che favoriscano
l’integrazione psico-sociale. Voi avete questa grande opportunità e risorsa stando sui campi di
gioco: favorire la possibilità in chi è esperto nella materia, tramite il vostro osservare attento e
sensato, di accorgersi di qualcosa di diverso e che va oltre la consuetudine. La prevenzione parte da
voi, dai vostri occhi, è racchiusa in voi la grande possibilità di leggere un atteggiamento inadeguato
rispetto al contesto. Perché, ci possiamo chiedere, questo deve avvenire per tramite dello sport? Non
basta la scuola o la famiglia? Perché è nello sport che il ragazzo dà sfogo a tutti i suoi impulsi, è
davvero se stesso, tramite il corpo (strumento primo delle attività motorie, mezzo che permette di
muoversi), il suo modo di stare in campo, di relazionarsi agli altri compagni di gioco, di seguire o
meno le azioni, di provare rabbia o timore per e dell’avversario, il giovane ci parla di lui e anche
delle sue difficoltà. Lo sport è un privilegiato canale di prevenzione e attraverso la formazione alla
prevenzione tanti giovani in più potrebbero essere aiutati. Ricordiamoci sempre che voi e tutti
coloro che operano con i giovani nello sport, rappresentate dei punti guida e soprattutto siete dei
veri e propri educatori alla vita.
Vi ringrazio per l’attenzione, spero di avervi dato qualche spunto di riflessione. A presto.
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Dott.sa Diana Lupi
DECALOGO UEFA
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il calcio è un gioco per tutti,
-
il calcio deve poter essere praticato dovunque,
-
il calcio è creatività,
-
il calcio è dinamicità,
-
il calcio è onestà,
-
il calcio è semplicità,
-
il calcio deve essere svolto in condizioni sicure,
-
il calcio deve essere proposto con attività variabili,
-
il calcio è amicizia,
-
il calcio è un gioco meraviglioso,
-
il calcio è un gioco popolare e nasce dalla strada.
BIBLIOGRAFIA
-
Bettelheim B., “Un genitore quasi perfetto”, ed.Feltrinelli, Milano, 1998
-
Birraux A., “L’adolescente e il suo corpo”, ed. Borla, Roma, 1993
-
“Carta dei diritti dei bambini” (New York -Convenzione sui Diritti del fanciullo del
20/11/1989)
-
“Carta dei diritti dei ragazzi allo sport” (Ginevra 1992-Commissione Tempo libero ONU).
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“Carta Olimpica contro la discriminazione nello sport” (Losanna 12 dicembre 1999 Comitato Internazionale Olimpico)
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“Codice di etica sportiva” (approvato dai Ministri europei responsabili per lo Sport, riuniti a
Rodi per la loro 7^ conferenza, 13-15 maggio 1992)
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Elias Norbert “Sport e aggressività”, ed. Il Mulino, Bologna, 1989
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Marco Rossi Doria, a cura di, “Genitori e insegnanti”, ed. Astrolabio, Roma, 2011
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Maglietta D., a cura di, “Bambini e adolescenti in gruppo”, ed. Borla, Roma, 2000
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Winnicott D. W., “Gioco e realtà”, ed. Armando, Roma, 2005
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Klein M., “La psicoanalisi dei bambini”, ed. Martinelli, Firenze, 1988
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www.figc.it, Comunicato Ufficiale n° 1 2013-2014
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