Piccole arance dorate - La cucina di casa Planeta

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Piccole arance dorate - La cucina di casa Planeta
Piccole arance dorate
Piccola storia tascabile dell’arancino tra monsù, buffettieri e massaie di genio
di Marco Blanco
estratto da
I quaderni di Archestrato Calcentero
Divagazioni archeogastronomiche in terra di Sicilia
(senza pretesa di volere strafare)
Il testo seguente rappresenta un estratto e una riduzione da “I quaderni di
Archestrato Calcentero – Divagazioni archeogastronomiche in terra di Sicilia
(senza pretesa di volere strafare)” di Marco Blanco, in corso di pubblicazione.
L’autore, pur volendo condividere con i partecipanti dell’evento
“ARANCINOPOP” le informazioni finora raccolte, avverte i lettori del
carattere fortemente provvisorio di questo scritto le cui conclusioni
potrebbero essere differenti da quelle contenute nel testo finale. Le note
testuali, inoltre, sono state ridotte al minimo per ragioni di leggibilità e
chiarezza divulgativa.
Stampato grazie al contributo degli amici de “Gli aromi” di Russino e
“orientesud”.
Quest'opera è stata rilasciata con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale Non opere derivate 3.0 Italia. Per leggere una copia della licenza visita il sito web
http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/3.0/it/
2
Ricercator non porta pena
(in ragione di scusa)
Lo studioso che voglia cimentarsi nel campo imprudente e scivoloso
dell’indagine storica applicata alla gastronomia siciliana è ben consapevole di
scontrarsi con spietate diatribe scioviniste. Lotte fra campanili all’ultima
melanzana, feroci primogeniture di quartiere che rivendicano l’uso arcaico del
finocchietto piuttosto che della maggiorana, brutali guerre di sapori che
deridono i propri vicini di spianatoia per aver usato lo zucchero nei ravioli di
ricotta al posto del più ortodosso sale di salina.
Ribadire che la cultura siciliana sia il risultato della sua posizione
geografica e dell’intensa mescolanza umana, punto d’incontro di genti e luogo
di conquiste millenario ritengo sia superfluo nonché fin troppo noto anche
per i meno avvezzi all’articolazione delle dinamiche storiche.
Inutile negarlo: siamo una caponata di popoli. E come la giusta
alchimia di cibi semplici riesce a dare vita ad un piatto unico e sommo di
piacere così siamo noi siciliani. Ibrido di razze, sangue e cultura, capaci di
piluccare il meglio dei popoli che abbiamo ospitato sulla nostra terra ma non
meno abili nell’incorporare i loro difetti più neri. E un poco difficili da digerire
se si abusa troppo di noi, proprio come la caponata.
Ma non lasciamoci affatturare troppo dalle seduzioni divagatrici di
una sicilitudine letteraria e ritorniamo alle più umili pentolacce, alla polvere degli
archivi e alle biblioteche.
Come la cultura, così la nostra cucina ha seguito il medesimo destino
di meticciamento, talora talmente complicato che diventa difficile intendere
con certezza l’origine di un piatto e praticamente impossibile la sua genealogia.
Questa difficoltà ha generato nella nostra tradizione decine di storielle e
aneddoti piacevoli a sentirsi ma senza alcun fondamento accertato, dettati più
dal gusto tutto siciliano del raccontare che dall’aderenza alla realtà storica. Così
a noi (passatemi il plurale di modestia ora che sto per vestire la toga
dell’addottorato), abituati per formazione culturale e percorso di studi a
romperci la testa sui grandi enigmi della Storia, è sembrata un’ingiustizia della
3
ricerca bella e buona voler mettere in secondo piano il mondo fantastico e
appetitoso della cucina isolana.
Archeogastronomia dunque il nostro proposito, dove l’esuberante
gusto siciliano va a braccetto con una metodologia di ricerca rigorosa e
documentata che cerchi di riannodare le fila di un discorso inevitabilmente
storico oltre che gastronomico. Che se storielle ci saranno – e ce ne saranno,
perché qui non si vuole annoiare nessuno – verranno considerate con affetto
tutto partigiano per quello che sono rivelandone la natura aneddotica e
parziale. E non ce ne vogliate se talora faremo vacillare qualche assunto che si
considerava indiscusso né se al paludato linguaggio professorale a volte
preferiremo uno stile più colloquiale e forse anche un poco ruffiano. Non vi
daremo certezze poiché la ricerca è provvisorietà, ma condivideremo
suggerimenti e ipotesi, ricostruzioni e strumenti che possano dare un piccolo
contributo scientifico alla storia dell’alimentazione nella nostra terra.
Senza pretesa di volere strafare, ovviamente.
Marco Blanco
4
Piccole arance dorate
Mai ricetta principe della cucina siciliana, universalmente amata e
riconosciuta come uno dei simboli della Sicilia, è stata così discussa e contesa.
A partire dal genere passando attraverso la forma e gli ingredienti da usare non
c'è accordo nel gusto isolano. Ciascuno ne reclama la paternità, ciascuno
magnifica la propria versione respingendo quelle altrui come eretiche e
mamelucche. Una passione per la dialettica alla quale noi siciliani siamo
particolarmente legati a ben vedere, ma del tutto innocua, perché in ogni
angolo della nostra terra gli arancini rappresentano l’ancora di salvezza
culinaria per chi voglia consumare un pasto veloce, poco impegnativo ma
certamente sfizioso.
L’arancino? L’arancina? Una questione di genere che infiamma gli
animi da generazioni e che si cercherà di chiarire nel corso di questo
intervento. Nell’immediatezza del testo, tuttavia, una scelta inevitabile si
impone: e la scelta, che deporrà le evidenze etimologiche in favore delle
ragioni linguistiche, è quella del genere maschile. Arancino dunque, con buona
pace degli amici palermitani e dei miei ricordi d’infanzia iblea.
Definire con certezza l’origine dell’arancino su base documentaria, per
quanto affascinante come intenzione, si è rivelato ben presto un proposito
impraticabile. La popolarità raggiunta da questo gustoso manicaretto, la facilità
d’esecuzione e la frammentarietà delle notizie desumibili dalle fonti ha
mescolato le informazioni in maniera così inestricabile da imporre grande
prudenza prima di spingersi a conclusioni definitive. Tuttavia, uno spoglio
attento delle testimonianze disponibili ha consentito la formulazione di ipotesi
non prive di attendibilità e ha permesso di ricostruire per grandi linee una
storia affascinante di monsù, buffettieri e massaie di genio. Cominciamo
allora? Cominciamo.
Hohenstaufen di Sicilia, ovvero del senso di colpa di chi tradisce la tradizione
Sembra ormai un dato accertato che il riso sia arrivato in Sicilia nel IX
secolo durante la conquista musulmana. Sebbene negli anni qualche storico
abbia ridimensionato l’importanza del contributo arabo in terra di Sicilia è
5
indubbio che questo popolo lasciò nell’isola un enorme patrimonio di
conoscenze tecniche, agrarie e scientifiche e non mancò di aggiungere preziosi
spunti anche nella pratica culinaria. Con gli Arabi arriva nelle cucine siciliane il
profumo delle spezie e l’agrodolce, la passolina e i pinoli, la melanzana e la
cannamela, la dolcezza del marzapane e lo sharbat di gelsomino. Senza
dimenticare il cuscus e il riso, due alimenti di quotidiana presenza sulle tavole
degli Arabi di Sicilia.
Vero è che nel XII secolo il geografo del re Ruggero Idrisi non dà
alcuna notizia di risaie in Sicilia ma simile mancanza potrebbe essere spiegata
con la consuetudine dello studioso a questo cereale, la coltivazione del quale
era considerata un fatto talmente abituale da non essere degno di nota. Tra le
notizie curiose riportate dal geografo arabo invece si ricorda la testimonianza
dei vermicelli di pasta (itriyah) prodotti a Trabia nel palermitano, notizia che ha
indotto più di uno studioso ad attribuire la paternità degli spaghetti alla Sicilia.1
Tra i piatti fondamentali della cucina arabo-sicula sembra si
annoverasse una sorta di timballo di riso assimilabile all'odierna kabsa (‫)كبسة‬
che veniva profumato con zafferano e condito da carne speziata e verdure. Il
timballo era servito come da abitudine in un piatto comune posto al centro
della tavola dal quale ciascuno spiccava con le mani la propria porzione: il
gesto del riso accolto dalla mano “a cucchiaio” potrebbe aver generato, a
sentire la tradizione, l’archetipo dell’arancino moderno.
Tuttavia, non si può trascurare nemmeno l’ipotesi che il riso colorato
di giallo possa discendere direttamente dall’uso ebraico di esaltare i sapori delle
pietanze con sentori di cannella, zenzero, menta e zafferano. Gli ebrei siciliani
provenivano per lo più dalla sponda del Mediterraneo opposta alla Sicilia dove
avevano convissuto per secoli a stretto contatto con genti musulmane – si
pensi all’isola di Djerba –, pertanto non si può escludere che in virtù di questa
1 «A ponente di Termini vi è l’abitato di Trabia, sito incantevole, ricco di acque perenni e mulini,
con una bella pianura e vasti poderi, nei quali si fabbricano tanti vermicelli (itriyah) in tale
quantità da approvvigionare, oltre ai paesi della Calabria, quelli dei territori musulmani e
cristiani, dove se ne spediscono moltissimi carichi per nave» in IDRĪSĪ p. 38. Ancora oggi il
siciliano più autentico definisce “tria” un tipo di pasta lunga simile alle tagliatelle; analogo
significato permane anche in area salentina.
6
frequentazione gli uni abbiano influenzato gli altri anche nelle usanze
gastronomiche.
Una delle prime ricette in cui il riso è associato alla cultura saracena si
trova invece nella raccolta del cuoco Cristoforo di Messisbugo sotto la voce di
“riso turchesco”.2 Tale preparazione prevede l’impiego di riso cotto nel latte di
mandorle, zucchero, acqua rosata e cannella. Della medesima raccolta
risultano notevoli anche le ricette del riso “con torli d’uova e formaggio” e la
versione “alla ciciliana”.3 Nel primo caso non privo di suggestione è l’uso dello
“zaffrano”, utilizzato ancora oggi negli arancini palermitani, che viene
mantenuto ugualmente nella raffinata variante “ciciliana”.4
L’esame di queste ricette consente di affermare la presenza anche
nell’immaginario comune di un legame esistente fra riso, cultura araba (arabogiudaica?) e sua caratterizzazione geografica in ambito siciliano. Certo non si
tratta dell’arancino moderno ma è comunque un fatto che testimonia la
familiarità della cucina isolana con pratiche e preparazioni di matrice
mediorientale in cui il riso gioca un ruolo fondamentale.
Tradizione racconta che a trasformare il popolare timballo del desco
quotidiano saraceno nei celeberrimi arancini siano stati in età alto-medievale i
cucinieri di Federico II di Svevia. Forse anche l’imperatore in persona.5
Appallottolando il riso in singole porzioni, aggiungendo la panatura e
friggendolo, esso diventava facilmente trasportabile e poteva essere
consumato anche in un secondo tempo durante una battuta di caccia o una
campagna militare. Purtroppo la verità storica sembra andare in tutt’altro
2 CRISTOFORO 1549 p. 41 e cfr. CRISTOFORO 1559 pp. 77-78. L’aggettivazione, tuttavia, è
assente nelle ricette di Maestro Martino (metà ‘400) composte da simili ingredienti: cfr. in tal
senso BEMPORAT 1996, pp. 102, 208, 132-133, 212-213, 235 e 272. Ricette analoghe si trovano
in VENEZIANO, pp. 33-34 alla voce “rixo in bona manera” e in MERIDIONALE, p.22, CI-CII.
3 CRISTOFORO 1549 p. 35 e cfr. CRISTOFORO 1559 pp. 77-78. Nei ricettari di Maestro Martino
il riso con uova e formaggio (forse perché senza zafferano) è definito “all’italiana”: cfr.
BEMPORAT 1996, p. 235.
4 Una ricetta con riso, “lac amigdalarum […], ouorum uitella cum lacte et croco” si trova in
TRACTATUS IV, 9.
5 La germanista Anna Martellotti attribuisce con argomentazioni convincenti a Federico II non
la ricetta degli arancini ma il nucleo principale del celebre Liber de coquina che sarebbe stato
scritto proprio negli anni del regno dell’imperatore svevo. Cfr. a tal proposito MARTELLOTTI
2005, pp. 83 e ss.
7
senso: sebbene la tradizione abbia benevolmente attribuito allo Stupor Mundi e
alla sua cerchia ogni sorta di meraviglia e innovazione non esiste traccia
documentata, finora, di un prototipo dell’arancino moderno esplicitamente
creato ad usum imperatori che possa aver deliziato la corte degli Hohenstaufen di
Sicilia.6
La preparazione più vicina all’idea di polpettina fritta con zafferano si
trova nel quattrocentesco Anonimo Meridionale alla voce frictelle saffaranate,
sebbene si possa solo ipotizzare la presenza del riso visto che la pagina del
codice in cui era trascritto il procedimento sembra essere andata perduta.7
Anche nei ricettari di Maestro Martino non mancano frittelle di riso ma il
cereale in questo caso non riceve altro condimento se non “lacte de
mandorle” e “zucharo”.8 L’attribuzione dell’arancino a Federico II dunque è
quasi certamente una frottola sempliciotta creata a bella posta per nobilitare e
proiettare in un passato blasonato una leccornia che forse non è così antica e
titolata come si vorrebbe far credere. Soprattutto per la sua versione salata:
perché l’arancino moderno deve probabilmente il suo nome e la forma ad una
ricetta della seconda metà del ‘700. Dolce, ça va sans dire.
Intermezzo di genere, o del perché una piccola arancia possa cambiare sesso con il trascorrere
del tempo
In attesa del salto temporale che ci porterà nella Sicilia moderna e
contemporanea vogliamo adesso affrontare uno dei problemi più spinosi
dell’argomento in questione: l’arancino è maschio o femmina? Può essere
divertente ricordare in questo frangente la sciarra infinita fra palermitani e
catanesi sull’identità di genere e le ingenue spiegazioni che sono state
6 MARTELLOTTI 2005 p. 201, cita una ricetta di cavoli che viene attribuita a Federico II in
persona, “ad caulles virides secundum usum imperatoris…”. Anche in VENEZIANO pp. 56-57 si
citano le “fritelle de imperatore magnifici” che rimandano esplicitamente al genio federiciano o
alcune preparazioni legate al figlio Manfredi come la “torta manfreda bona e vantagiata” e la
“torta di Re Manfredo da fava frescha”. La presenza di ingredienti quali “panza de porcho”,
“fava”, “zafarano” e “formazo dolce” ci induce nella tentazione di considerare quest’ultima
ricetta come uno dei possibili archetipi della scaccia iblea con fave verdi e ricotta.
7 Cfr. MERIDIONALE, p. 33
8 Cfr. BEMPORAT 1996, pp. 132-133, 212-213 e 272.
8
concepite riguardo alla differenza morfologica e geografica. Non ultima
l’interpretazione che vorrebbe l’arancina femmina a Palermo perché ricorda
un seno tondeggiante mentre acquisterebbe maschia dignità a Catania in
ragione della sua punta che rimanda maliziosamente alla virilità maschile. O
che, una volta liberato l’arancino dalla sommità, esso ricorderebbe con il
vapore sprigionato e il rosso del sugo il Mongibello minaccioso che sovrasta la
città.
L’opzione del genere maschile utilizzata in questo intervento risiede
invece su considerazioni di carattere storico-linguistico. Indubbio il fatto che
la forma, il colore e le dimensioni dell’arancino ricordino una piccola arancia:
come tale, il diminutivo imporrebbe il genere femminile. Tuttavia i riscontri
registrati nei dizionari siciliani ottocenteschi propendono per il genere
maschile definendo aranciu o melaranciu il frutto dell’albero di arancio.
Nondimeno, i suggerimenti avanzati nella quinta edizione del Vocabolario degli
Accademici della Crusca riguardo al genere da attribuire alla frutta – maschile
l’albero, femminile il frutto – riporterebbero ancora una volta alla scelta della
caratterizzazione femminile.9 Ritroviamo però il termine “arancino” nella lista
P.A.T. nonché nei dizionari moderni con il quale la parola definisce la
preparazione gastronomica che tutti noi conosciamo.10 La confusione
continua a regnare sovrana senza che il problema sia stato risolto. Quale
termine utilizzare infine?
La nostra scelta va considerata alla luce della continuità storica e di
una conseguente linearità lessicale: “arancino” è diventato in italiano il nome
specifico della pietanza non più legato alla caratterizzazione etimologica
originaria e come tale è impiegato. È la lingua italiana che lo consiglia
insomma, non le amorevoli argomentazioni di parte derivate dalla nostra
abitudine e dal dialetto. Ma non fateci caso se molti continueranno
(continueremo) a chiamare nella quotidianità della vita questa gustosa pietanza
9 CRUSCA 1863 s. v. “arancia” e “arancio”. Per un’approfondita disamina del problema cfr.
http://www.accademiadellacrusca.it/it/lingua-italiana/consulenza-linguistica/domanderisposte/si-dice-arancio-arancia.
10 Al n. 188 della lista dei “Prodotti agroalimentari tradizionali siciliani” compilata dal Ministero
delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali si legge “arancini di riso”.
9
arancina. Che volete farci: l’arancina, come tutto ciò che è bello, non può che
rimanere femmina.
Dalle cucine baronali ai buffettieri alle friggitorie: se l’arancino diventa pop
La difficoltà di stabilire con certezza l’origine del succulento
manicaretto risiede essenzialmente nella sua facilità di esecuzione e nella
grande diffusione degli ingredienti utilizzati. Pur essendo consapevoli di
quanto sia infida la strada delle contaminazioni gastronomiche non riteniamo
troppo inverosimile però che le frictelle de riso – saffaranate o meno – presenti già
nei ricettari quattrocenteschi11 abbiano dato origine a piatti con storie e
percorsi differenti ma imparentati tra loro a vario titolo, arancino compreso.
Pensiamo ai supplì, alle pall’ ê riso napoletane e alle granatine (sulle quali
dovremo ritornare a breve), mentre ci chiediamo se anche i bolinhos de arroz di
matrice iberica non possano aver vantato nel loro passato qualche relazione
malandrina con preparazioni affini o derivate dalle frictelle. Sarebbe interessante
capire inoltre se gli avanzi dei sartù rimasti sulle tavole aristocratiche e
borghesi non possano essere stati riutilizzati attraverso l’espediente della
panatura e della frittura e dunque aver dato vita ad un piatto differente.
Sfumata la possibilità di attribuire una genealogia certa e una data di
nascita alla nostra leccornia, cerchiamo almeno di stabilire in quale periodo
l’arancino moderno appare nell’immaginario collettivo e soprattutto tra i morsi
ingordi di noi siciliani.
Uno dei primi dizionari moderni della lingua siciliana fu compilato dal
padre gesuita Michele del Bono e pubblicato a partire dal 1751. Tra i lemmi
registrati dallo studioso della compagnia di Gesù la voce “arancinu” è presente
solo in qualità di aggettivo, “colore rancio. dorè. croceus”12 e non come
sostantivo che definisce una preparazione gastronomica. Stesso destino si
riscontra nel monumentale Vocabolario siciliano etimologico, italiano e latino in
cinque volumi pubblicato da Michele Pasqualino nel 1785: in esso “arancinu”
è un aggettivo che definisce un aspetto “del color della melarancia, rancio,
11
12
Cfr. BEMPORAT 1996, pp. 132-133, 212-213 e 272 e MERIDIONALE, p. 33.
DEL BONO 1751, s.v. “arancinu”.
10
croceus”13. Simili annotazioni si leggono nel dizionario dell’abate Rocca, “agg.
del color della melarancia, rancio” e nel Dizionario tascabile familiare sicilianoitaliano, “(sorta di colore), ràncio” mentre il Vocabolario domestico classificato della
lingua siciliana ignora completamente la voce.14
Per trovare il primo riferimento all’arancino inteso come pietanza
dovremo attendere il 1857 con il Dizionario siciliano-italiano del Biundi, dove la
voce registrata riserva non poche sorprese: “Arancìnu, s.m. dim. di arànciu; e
dicesi fra noi una vivanda dolce di riso fatta alla forma della melarancia”. 15
Vivanda dolce. La voce riportata dal Biundi testimonia inoltre l’uso
informale del termine – “dicesi tra noi” –, segno probabile della mancanza di
un vocabolo specifico per definire la preparazione. La notizia è singolare ma
ancora più insolita risulta la ricetta “originale” dell’arancino che riteniamo di
aver trovato attraverso lo spoglio minuzioso di alcuni dei più noti ricettari del
Settecento e dell’Ottocento.
Vincenzo Corrado, raffinato cuoco e geniale gastronomo, pubblicò
nel 1773 Il cuoco galante che insieme al Credenziere del buon gusto divenne ben
presto uno dei punti di riferimento necessari per i cuochi e i monsù del Regno
delle Due Sicilie che aspirassero ad eccellere nel loro campo. Il capitolo
secondo del trattato XI è dedicato alle “paste bignè”, termine nel quale
rientravano anche frittelle di varia natura, dolci e salate. Tra queste anche un
“Bignè al Riso” che desideriamo portare all’attenzione del lettore:16
“Cotto il riso nel latte, e freddato, si unirà con gialli di uova, cortecce di portogallo candite, e
tritolate, cannella, e pane di Spagna in polvere, e fatto tutto in bocconi, si friggeranno infarinati
prima, e dorati nell’uova, e polverati di zucchero si servono”.
Il primo elemento che si rileva è la tecnica di preparazione e di
panatura che risulta straordinariamente simile a quella degli arancini moderni.
La presenza delle scorzette di arancia candite, la forma, il colore e la
PASQUALINO 1785, s.v. “arancinu”.
Cfr. ROCCA 1839 e DIZIONARIO TASCABILE 1840 s.v. “arancinu”; cfr. anche VOCABOLARIO
DOMESTICO 1851.
15 BIUNDI 1857, s.v. “arancinu”.
16 CORRADO 1793, p. 131.
13
14
11
dimensione poi suggeriscono le ragioni che dovettero portare a definire
“arancino” questa gustosa pietanza frutto del genio dei grandi cuochi e dei
monsù del Regno. Ad una simile preparazione tuttavia è possibile trovare
l’antagonista salato ideale in un ricettario anonimo del 1822, Il cuciniere all’uso
moderno. Questa ricetta si può considerare a buon diritto come una delle
possibili progenitrici della nostra pietanza. Niente arancini però, bensì “meline
di riso”:
“…di questo Riso ne farete tante palle più grosse di quelle da balestra, ponendole sopra una
tavola con del pangrattato sotto, e ad ogni palla gli farete un foro nel mezzo, largo e fondo
quanto si può. Prendete delle coratelle di pollastro o animelle […], ponetele in una cazzarola
con del prosciutto, quattro scalogni trinciati fini, un pezzo di butirro, sale, pepe e noce moscata.
[…] Lasciate freddare per un quarto d’ora questa composizione; quando sarà assodata ne
porrete una porzione in ciascuno di quei buchi, e tornerete a ricuoprirli con il medesimo Riso
che vi è avanzato. Le farete tonde e di bella forma come una mela lazzerola. Grattate del pane
che sia fine, e mescolatelo con un poco di parmigiano pure grattato: sbattete quattro uova,
rinvoltate in esse le Mele e poi nel pangrattato; tornate a rinvoltarle nell’uovo e un’altra volta nel
pane. […] Friggetele con olio o con lardo…”.17
Nel giro di pochi anni dall’opera del Biundi quattro dizionari
riporteranno il lemma “arancinu” per definire una preparazione gastronomica
mentre non si trova traccia alcuna di “meline di riso” nelle opere consultate.
Nella terza edizione del dizionario pubblicato dal Mortillaro (1862) la voce
“arancinu” chiarisce che si tratta di un “termine dei cuochi, sorta di vivanda di
riso fatta a forma di arancio ripieno di manicaretto”.18 Nel grande dizionario
del 1868 il Traina definisce l’arancino “specie di vivanda. V. Crucchè”, mentre
nel dizionarietto del 1877 si limita a definirlo “specie di vivanda di riso”.19 Ad
ogni modo rimangono sul campo alcune informazioni che ci consentono di
comprendere meglio la questione: il Mortillaro esplicita le ragioni del nome ma
non spiega se il “manicaretto” del ripieno sia stato dolce o salato mentre il
Traina aggiunge il termine di confronto del crocchè che suggerisce
17 CUCINIERE 1822, pp. 81-82, “maniera per fare una Frittura di Meline di Riso”. Simile ricetta
si trova con il nome di “granatine di riso” in CODICE GASTROLOGICO 1841 p. 45.
18 MORTILLARO 1862, s.v. “arancinu”.
19 TRAINA 1868 e ID. 1877, s. v. “arancinu” e “crucchè”. Il Traina per “crucchè” intende “specie
di polpettine gentili fatte o di riso o di patate o di altro”.
12
chiaramente la frittura della pietanza. A dirimere la questione, infine, arriva
l’operetta della seconda metà dell’Ottocento che Remigio Roccella dedica alla
parlata di Piazza Armerina: alla voce “arancini” l’autore registra senza mezzi
termini “manicaretto di riso e carne fatto a pallottole”.20
Possiamo solo immaginare quale processo possa aver trasformato
l’arancino da dolciume per palati “galanti” a prodotto della pasticceria salata di
larghissimo consumo. A tal proposito torniamo a sfogliare pazientemente i
dizionari ottocenteschi fino a trovare il lemma che possa fornire un aiuto
concreto per poi andare saltabeccando a ritroso. L’anonimo Dizionario tascabile
familiare siciliano-italiano (1840) ignora come abbiamo già scritto gli arancini ma
registra un’altra voce, i “granatini di risu”, che considera alla stregua dei
bassotti, vale a dire una pietanza in porzione, panata o gratinata, composta da
riso bollito nel latte con zafferano, uova e altri ingredienti lasciati alla fantasia
del cuoco.21
Vincenzo Agnoletti, cuoco romano autore della poderosa opera in
quattro volumi La nuova cucina economica, spiega che le “granadine” sono una
versione più piccola della “granada”, una sorta di pasticcio di riso, carne o
pesce cucinato in modi differenti, realizzato in una “cazzarola guarnita dal di
dentro” e “piccato di minuto lardo, o di prosciutto, ovvero di carote, tartufi
ecc”: l’autore non manca di sottolineare che per rendere più ricca la ricetta si
può utilizzare anche la farcia impiegata per le chenef, sorta di polpettine di varia
natura.22
Tornando alla nostra ricerca leggiamo sul dizionario del Traina che i
“granatini di risu” sono una “maniera di paste come le stacciatine: bassotti di
riso”23, voce che non solo conferma la preparazione della ricetta ma riporta alla
ROCCELLA 1875, s.v. “arancinu”.
DIZIONARIO TASCABILE 1840 s.v. “granatini di risu”. Cfr. anche il Manuale del cuciniere siciliano
del 1857 (COSENTINO 2012, p. 28), in cui si dà la ricetta delle frittelle di riso giallo con
formaggio e uova spolverizzate di zucchero o cannella e CAVALCANTI 1839, p. 129 in cui si
legge di crocché di riso con “parmegiano” e “pan gratto”.
22 AGNOLETTI 1819, vol. II, pp. 88-90.
23 TRAINA 1868, s.v. “granatinu”.
20
21
13
mente gli arancini di spaghetti24 venduti ancora oggi in alcune delle friggitorie
più veraci di Palermo.
Il problema a questo punto sembra chiarirsi almeno a grandi linee e
così il rapporto fra “melina”, granatinu e arancinu. Nonostante l’etimologia di
granadina\granatinu suggerisca l’immagine della granata non sembra troppo
peregrina l’ipotesi che i chicchi di riso visibili una volta aperto il pasticcetto
abbiano acceso nella fantasia isolana il ricordo di altri chicchi, quelli di una
melagrana (granatu in siciliano), e che da questo collegamento si sia arrivati al
granatinu in questione. Il granatinu di risu e la “melina” dunque rappresentano lo
stesso piatto, solo chiamato con denominazioni diverse:25 per il resto, dal
granatinu all’arancinu lo scambio di nome dovette essere breve. Forma e
dimensioni simili, stessa panatura e procedimento di frittura, riso quale
ingrediente principale, uova per colorare l’impasto nell’uno e zafferano
nell’altro. L’uno preparazione dolce rivolta ai palati raffinati dell’aristocrazia e
della borghesia ma destinata a scomparire con il mutare del gusto, l’altro
ricetta salata semplice e appagante che se pure nacque in un contesto di
nobiltà culinaria o di cucina “spiritosa” dovette presto smarcarsi da questo
ingombrante passato trovando posto sui banconi delle friggitorie e sui tavoli
dei buffettieri.
Presto sì, ma forse non troppo. La monumentale opera del Pitrè
ancora alla fine dell’Ottocento ignora questa pietanza26 né l’autore fa cenno
alcuno all’usanza tutta palermitana di mangiare arancini panati con farina di
ceci per Santa Lucia pur descrivendo dettagliatamente il desco del 13
dicembre.27 Medesimo silenzio si riscontra nelle opere di Serafino Amabile
I puristi della ricetta al giorno d’oggi rivendicano la caduta in disuso delle stacciatine, vale a dire
una sorta di tagliolini spesso serviti in brodo e utilizzati anche in questa preparazione.
25
“Granatine di riso” sono chiamate in CODICE GASTROLOGICO 1841 p. 45.
26 Cfr. PITRÈ 1871-1913, vol. XVII pp. 346 e ss.
27 Cfr. PITRÈ 1871-1913, vol. XII pp. 427-429. “In Palermo e in quasi tutta Sicilia il dì 13
dicembre non si mangia pane […]. Ma in compenso e come per penitenza si mangiano legumi,
verdure, pattona ed altre cose simili, sole o messe insieme. I venditori di panelle cominciano
questa loro merce qualche settimana prima tanto per acquistar dei clienti (parrucciani); poi in quel
giorno parano le loro botteghe a festa con panelle ben grosse, pendenti attorno all'uscio o distese
sopra bianche tovaglie. Sono le panelle come una pattona di farina di ceci; ricevono varie forme,
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Guastella, illustre demopsicologo ibleo che pure indagò a fondo gli usi e
costumi della Sicilia sudorientale.28 L’ipotesi che l’arancino salato abbia
acquistato popolarità e dignità di nome tra la seconda metà e la fine
dell’Ottocento sembra ricevere attendibilità, sebbene si tratti di azzardati
argumenta ex silentio, da queste illustri testimonianze.
Forse non è un caso, inoltre, se una delle prime citazioni letterarie
degli arancini si trova ne I Vicerè di De Roberto, lontani da un contesto
popolare e popolano e anzi legati alla proverbiale ghiottoneria dei frati
benedettini di Catania, quasi sempre rampolli cadetti di nobili e patrizi locali:
“In città, la cucina dei Benedettini era passata in proverbio; il timballo di
maccheroni con la crosta di pasta frolla, le arancine di riso grosse ciascuna
come un mellone, le olive imbottite, i crespelli melati…”.29 Gli arancini in
questo caso sembrano essere salati: De Roberto ambienta I Vicerè negli anni
difficili per la Sicilia del passaggio di consegne tra monarchia borbonica e
monarchia sabauda ma scrive il suo romanzo nell’ultimo decennio
dell’Ottocento. Non è automatico pensare, dunque, che le note di colore
gastronomiche siano state restituite dall’autore con fedeltà “filologica” al
periodo della narrazione.
Si riporta come semplice curiosità, infine, la testimonianza della
baronessa Ester La Rocca Manari che scrive a cavallo tra XIX e XX secolo dei
festini carnascialeschi del ragusano i quali “promuovono per speculazione le
famiglie degli operai”: in essi venivano offerti a caro prezzo un buffet di dolci
e uno lordo composto di “polpette, arancini, uova sode, pasticceria rusticana e
vino” anche se quest’ultimo, sottolinea la nobildonna, era frequentato solo
e il nome di pisci-panelli, perché ab antico hanno la figura di pesci. Si mangia anche cuccia, grano
immollato e cotto con altri legumi o in acqua semplice o in latte. […]Purché non si mangi farina
di frumento, si è certi di aver conservati gli occhi. – Ma, e il frumento non è la materia prima
della farina? Sì, ma non è farina: la farina entra nel pane, nella pasta ecc., e pane e pasta non se
ne mangia; per quella vi sono le panelle, e per questa il riso: per tutto v'è legumi, castagne lessate,
ricotta”.
28 Cfr. in tal senso GUASTELLA 1884, ID. 1885, ID. 1887.
29 DE ROBERTO 1990, p. 90.
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dalle accompagnatrici delle fanciulle o da “qualche ragazza matura e
spregiudicata”.30
L’origine dell’arancino moderno sembra a questo punto essersi
delineata con più chiarezza grazie alla raccolta della documentazione sopra
citata. L’unica questione che rimane da affrontare è quella di una possibile
primogenitura: dove nasce l’arancino moderno in Sicilia? Anche in questo caso
ci muoviamo nel campo delle congetture visto che non esistono a tutt’oggi
prove certe ed indiscusse che possano definire il “certificato di residenza”
della nostra deliziosa pietanza. Il pomodoro approda sulle tavole dei nobili
siciliani solo alla metà dell’Ottocento31 mentre possiamo affermare, come
abbiamo visto, che la ricetta “bianca” dell’arancino con zafferano sia
precedente a questa data: non è inverosimile dunque, anche in forza della
capitale palermitana, che l’arancino come noi lo conosciamo sia nato nell’area
nord-occidentale dell’isola e si sia poi diffuso in tutta la Sicilia sostituendo
nella parte orientale il pomodoro allo zafferano. Non ce ne vogliano i catanesi:
l’arancino si dovrebbe chiamare arancina allora? E si ricomincia, all’infinito.
LA ROCCA MANARI 1910, p. 74 passim.
La celebre “Sauza de pommadore” di Ippolito Cavalcanti si colloca nella prima metà del XIX
secolo (CAVALCANTI 1839, p. 393); di due decenni precedente è la “Conserva di pomidoro
liquida” illustrata dall’Agnoletti (AGNOLETTI 1819, vol. III p. 15).
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