The Dreamers – I sognatori

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The Dreamers – I sognatori
Gianni Canova
The Dreamers – I sognatori
Titolo originale: The Dreamers. Regia: Bernardo Bertolucci; soggetto e sceneggiatura:
Gilbert Adair, dal suo romanzo “The Holy Innocents” (Rizzoli); produzione: Jeremy Thomas per Recorded Picture Company; fotografia: Fabio Cianchetti; scenografia: Jean Ra-
basse; costumi: Louise Stjernsward; montaggio: Jacopo Quadri; suono: Stuart Wilson;
musiche: compilation di brani d’epoca; distribuzione italiana: Medusa; origine:
Italia/Francia/Gran Bretagna; durata: 130’; anno: 2003.
Interpreti: Louis Garrel (Théo), Eva Green (Isabelle), Michael Pitt (Matthew), Robin Re-
nucci (padre), Anna Chancellor (madre), Florian Cadiou (Patrick), Anna Karina (Odile),
Jean-Pierre Léaud (se stesso).
“Il mio consiglio è semplice: tenersi al titolo”. Così scrive Bernardo Bertolucci nelle note di presentazione di The Dreamers pubblicate sul catalogo
della 60a Mostra del Cinema di Venezia. Forse è il caso di provare ad ascoltarlo, facendo tabula rasa di tutto quel che è stato detto e scritto sul film
e cercando di concentrarsi – appunto – su quel che il titolo promette e sugwww.giannicanova.it - Copyright 2009 © Gianni Canova. Tutti i diritti sono riservati
gerisce: non un film sul ’68, non un film sulla rivolta di una generazione,
quanto un film su alcuni personaggi che si trovano a definire la propria
identità – individuale e collettiva – in funzione del loro rapporto con i sogni.
Visto in questa prospettiva, The Dreamers non solo è molto più intimamente bertolucciano (da Prima della rivoluzione a Io ballo da sola, tanti
personaggi del regista parmigiano sono – appunto – soprattutto sognatori),
ma apre anche suggestive e inaspettate chiavi di lettura. Innanzitutto, perché racconta un tempo e un’epoca in cui era il cinema a generare i sogni.
A nutrirli, a concimarli, a renderli possibili. Forse, per converso, anche a
incarcerarli entro i bordi rettangolari dello schermo. I tre protagonisti del
film (i due gemelli francesi Théo e Isabelle e l’amico americano Matthew),
chiusi nel loro elegante appartamento parigino dopo che i genitori sono
partiti per le vacanze, modellano i loro sogni su quelli visti e sognati nella
sala buia di un cinematografo, seduti di preferenza in terza fila in modo
che nessun altro si intrometta nello spazio che separa e unisce lo sguardo
e lo schermo.
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Tutta la prima parte di The Dreamers, in questa chiave, è allora leggibile
come una sorta di saggio, appassionato e passionale, non tanto sulla cine-
filia, quanto sulla funzione modellizzante che il cinema ha avuto nel corso
del ‘900 per intere generazioni di spettatori. Perché il cinema – ci inse-
gnano Théo Isabelle e Matthew – non era tanto una finestra sul mondo,
quanto piuttosto era il mondo, tout court. Guardando il grande schermo si
imparava a vivere e a giocare, a piangere e ad amare, a soffrire e – appunto
– a sognare. La cinefilia dei tre protagonisti non è né critica né estetica, è
performativa: rifanno nella loro vita ciò che hanno visto fare sullo schermo
a personaggi di finzione. Imitano i loro gesti. Rubano le loro espressioni.
Riallestiscono le loro scene-madri. Eccoli allora esplorare lo spazio come
faceva Greta Garbo in La Regina Cristina, desiderosa di imprimere nella
sua memoria una stanza che voleva ricordare per sempre. Eccoli sorridere
come Marlene Dietrich in Venere bionda, o ballare come Fred Astaire in
Cappello a cilindro. Eccoli rifare dal vivo, e in un tempo più rapido, la ce-
leberrima scena di Band à part di Jean Luc Godard, in cui i tre protagoni-
sti attraversano di corsa tutto il Louvre in poco più di 9 minuti. Eccoli
ancora intonare il coro dei Freaks di Tod Browning (“E’ uno dei nostri! E’
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uno dei nostri!”) per salutare l’ingresso di Matthew (il “freak” americano)
nel loro appartamento e nelle loro vite. Tutto il repertorio iconografico del
cinema classico e di quello moderno (a partire dal citatissimo Jules e Jim
di François Truffaut, da cui Bertolucci riprende l’idea della triangolazione
come struttura relazionale che lega i percorsi affettivi e sentimentali dei
protagonisti) diventa il canovaccio o la sceneggiatura virtuale di una per-
formance in cui i tre personaggi incessantemente si mettono in scena:
come se Bertolucci ci suggerisse che in questo modo, intorno alla fine degli
anni Sessanta, è nata di fatto la società dello spettacolo. E la vita ha ini-
ziato ad assomigliare sempre più al copione di un film. The Dreamers, non
a caso, inizia con le manifestazioni contro il licenziamento (deciso dall’allora ministro della cultura André Malraux) del direttore della Cinéma-
théque francese Henri Langlois: è lì che i tre protagonisti si incontrano e
si conoscono, mentre un’icona vivente della nouvelle vague francese come
Jean-Pierre Léaud, attore-feticcio di Truffaut, distribuisce ai manifestanti
volantini di protesta. Il cinema, dunque, innanzitutto. Cinema da sognare,
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cinema da rifare, cinema da amare. Se poi The Dreamers diventa anche un
film sull’amore, ciò accade nella misura in cui l’amore, per Bertolucci,
nasce sempre da (e passa per) l’amore per il cinema.
La storia d’amore fra Théo, Isabelle e Mathhew, certo, è meno convin-
cente, intrisa com’è di echi decadenti e viscontiani, e di un estenuante
culto della bellezza. E tuttavia anche qui si colgono tracce di un percorso
coerente che lega questo film a quella struttura di reclusione affettiva che
– da Ultimo tango a Parigi fino a L’assedio – permea il cinema di Bertolucci
e lega la scoperta dell’affettività e della sessualità alla presenza di uno
spazio chiuso e recluso dal mondo. Solo separandosi dal mondo – che è poi
il mondo in cui sta esplodendo la rivolta del ’68 – i tre personaggi possono
sperare di trovare se stessi. Così, negli spazi ombrosi di una casa borghese
ingombra di libri e di oggetti, i tre allestiscono lo spettacolo della loro
claustrofilia, e creano (o cercano) ulteriori strutture di reclusione – la vasca
da bagno in cui entrano tutti e tre assieme, le cornici degli specchi e gli stipiti delle porte, la tenda da campo che montano in salotto – entro cui “inquadrare” e mettere in scena (o “in forma”) se stessi e la loro relazione.
Ma non c’è vitalità né allegria nel rapporto che li lega: Bertolucci sottoli-
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nea anzi la carica distruttiva della loro sessualità. I tre, dopo aver esplo-
rato e scoperto i loro corpi, si ripiegano su se stessi e arrivano a sfiorare il
suicidio (questa volta evocato e visualizzato con una citazione di Mouchette
di Robert Bresson). Ci vuole la trovata drammaturgica di un sasso che
rompe una finestra e riporta un po’ di aria fresca nella casa chiusa e satura
di gas e di miasmi per riportare in vita i tre protagonisti e per indurli a
scendere in strada, mescolandosi con i manifestanti di uno dei tanti cortei
del ’68 parigino.
Ma c’è dell’altro, ancora. Tutto The Dreamers è fatto di antitesi, di pola-
rità contrapposte che sembrano tendere il racconto e la messinscena verso
opzioni antitetiche che poi però, puntualmente, si rivelano di fatto com-
plementari, o addirittura implicate l’una nell’altra. “Meglio Chaplin o Kea-
ton?”, si chiedono ad esempio i tre ragazzi, in uno dei loro tanti giochi di
cinefilia performativa. La struttura dilemmatica della domanda (aut aut)
si propaga a rizoma in tutto il film, tocca i gusti musicali (Hendrix o Clap-
ton?), le predilezioni alimentari (la fondue o la ratatouille?), le scelte esi-
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stenziali (l’interno o l’esterno? la realtà o il sogno? il cinema o la vita?). In
realtà, la regia di Bertolucci fa in modo di trasformare tutte queste anti-
tesi in inclusioni: gli aut…aut… diventano et…et…, le esclusioni si risolvono
in coabitazioni. Perché per Bertolucci tanto Chaplin quanto Keaton stanno
dalla stessa parte: quella di chi vive sognando, di chi trasforma l’esterno
in interno, di chi fa del cinema la vita e di chi vorrebbe vivere la vita come
un film. Il ’68 – suggerisce il regista – è stato anche questo: liquefazione
degli opposti, gioco di maschere, confusione di ruoli. Cioè fondazione – di
nuovo – della società dello spettacolo. L’unica antitesi che in The Drea-
mers non si compone, paradossalmente, è quella fra America e Europa: il
vecchio continente non riesce ad uscire dal narcisismo di un amor sui autoreferenziale che – come accade ai due gemelli – ama nell’altro solo se
stesso (o il proprio doppio), mentre è piuttosto il giovane americano che
sperimenta fino in fondo la conoscenza dell’altro, e se ne torna a casa por-
tandosi via la lezione migliore della rivolta esplosa nella vecchia Europa.
Che il ’68 sia finito lì, tra i campus universitari e la new Hollywood, tra il
rifiuto della guerra del Vietnam e la più grande sovversione dell’immagi-
nario che l’America – non l’Europa – abbia messo in atto negli ultimi tren-
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t’anni? The Dreamers legittima questa lettura. Fin dall’inizio: quando è
Matthew, non a caso, ad essere protagonista della scena più teorica di tutto
il film, quella in cui – invitato a pranzo dai genitori di Théo e Isabelle –
gioca con l’accendino e scopre una serie insospettabile di rapporti fra i
quadrati stampati sulla tovaglia che copre il tavolo su cui hanno mangiato.
La società dello spettacolo non è ancora nata, il ’68 è solo agli inizi e già
l’americano intuisce in anticipo un’idea di uguaglianza che riguarda le cose
più che le persone, e che è fatta di forme, figure, moduli e dimensioni che
si ripetono da un oggetto all’altro. Forse, Matthew intuisce che quel che
sta per vivere non è l’inizio (o il sogno…) della rivoluzione, ma il primo
passo verso l’avvento del regno del merci. Lì finiranno sogni e sognatori:
non sulle barricate, ma a celebrare la rivoluzione nell’egualitarismo del
consumo.
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