Di Stefano Sestani

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Di Stefano Sestani
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Di Stefano Sestani
Spalancò la porta e respirò a pieni polmoni: l’aria della sera scese piacevole nel suo torace e il caldo scomparve: Allora… io vado, grazie per la bella serata!- Disse sull’uscio della casa: -Oh, ciao Steve! Ma figurati, anzi, di queste
cene ne dovremmo fare di più, ci siamo divertiti un sacco vero?- La sua amica Jane Tyller cercava disperatamente
una conferma per la sua affermazione, e Steve Van Dantz sorrise annuendo, concedendogli così un attimo di
tranquillità; quindi il ragazzo a malincuore rientrò di due passi per salutare il resto del gruppo. Sembrava la scena
di una fiction: Bruce Lopez, Max Weinberg e Clarence Clemmons erano beatamente distesi sul divano, tutti storti,
occupando così più spazio in modo da dover far per forza sedere sui braccioli del sofà Patti Scalfa e Suzie Gordon
che fissavano ipnotizzate lo schermo del televisore, mentre Mary O’ Brian e Nils Lofgren erano seduti per terra,
anche loro intenti a guardare il film delle undici e dieci. Tra la confusione generale distinse un “Ciao Steve”
sicuramente di Suzie e un “Bella fratello! A lunedì” probabilmente di Lopez, dunque si rimboccò le maniche del
giacchetto e si precipitò al cancello dell’abitazione, l’unica ancora illuminata di tutta la strada.
Un freddo primaverile piombò su di lui senza la minima pietà e la luna, bianca più che mai, risplendeva nel cielo
di Asbury come ultima speranza per la visibilità notturna. Lungo Helm Street il silenzio regnava sovrano, poteva
sentire solo il rumore delle sue scarpe che si trascinavano sull’asfalto della strada, pesanti e stanche di un
pomeriggio passato a gironzolare per le vie del centro. I lampioni ai bordi della via lampeggiavano
freneticamente, manifestando così il loro urgente bisogno di riparazione, ma nessuno gli aveva mai prestato
attenzione, e terrificanti ombre di alberi nudi di fogliame venivano proiettate sul grigio catrame che stava
conducendo Steve Van Dantz verso la porta di casa. Il vento soffiava ululando alle stelle attraverso i rami secchi
delle alte piante che costeggiavano il tragitto: al ragazzo il rumore del vento gli era sempre piaciuto, fin da
bambino, poiché suo padre riproponeva quel suono con il semplice respiro per farlo addormentare nelle sere
insonni. La brezza sembrava volesse parlare a Steve, ma riusciva solo a pronunciare parole farfugliate e senza
senso; erano le undici e ventisette quando, guardando l’ora, venne scosso da un fremito di freddo che lo colse
impreparato e, come un pugnale gli si conficcò dritto nella schiena. Continuava a camminare, quasi
macchinalmente, mentre la ghiaia scricchiolava sotto i suoi piedi e le tetre ombre della notte cercavano di
abbracciarlo invano. Per spezzare la solitudine che, soffocante e fuori luogo, si sentiva addosso in quell’istante,
prese a canticchiare una canzone, tamburellandosi il ritmo sulla tasca dei pantaloni: -Well now, ev'rything dies,
baby, that's a fact; But maybe ev'rything that dies someday comes back…- Le strofe irruppero violente nella
quiete di Helm Street, dolci e malinconiche avvolsero Steve come una madre amorevole, tristi ed eleganti
incantarono le sue orecchie: nel mentre che arpeggiava il brano sui pantaloni, probabilmente toccato attraverso
il tessuto, il cellulare aveva fatto partire proprio il singolo che aveva in testa, Atlantic City di Bruce Springsteen. Si
affrettò a spengerlo dato che il volume era al massimo e temeva di disturbare qualche vecchietto irascibile
ancora sveglio per vedere una qualche trasmissione in tv. Scosse la testa sorridendo; intanto il vento si era fatto
più intenso e urlava tra le ville monofamiliari facendo sbattere le persiane ancora aperte e spaventando qualche
cane che si era rintanato nella sua cuccia in giardino. Riprese la lunga strada che lo separava da casa, ma questa
volta con passo incerto, sicuro che il mondo che lo circondava fosse soltanto un lungo dejavù incredibilmente
realistico. Il lampioni gemettero per un’altra manciata di minuti, poi, uno dopo l’altro, si spensero, e solo i raggi
di quella luna crescente rimasero gli ultimi paladini a illuminare quella notte di metà aprile.
Girò l’angolo e proseguì il tragitto per Tenth Street, si voltò un attimo e constatò con piacere di aver già superato
la metà di quel labirinto di stradine private; intanto la casa di Jane Tyller si era persa tra le fronde degli alberi
della casa del signor Peterson, che proprio quella mattina, mentre stava andando a scuola, lo salutò mentre stava
ridipingendo di verde il cancello del giardino, e la vernice, ancora fresca, rifletteva la luce delle stelle.
Si riportò l’orologio davanti agli occhi, erano le undici e quarantacinque. Lo colse un inaspettato senso di
malessere che gli impastò la bocca: cosa gli dava quella sicurezza di aver già vissuto quella scena, o almeno di
averla già vista? La sua memoria lavorava a pieni ritmi per risolvere quell’enigma, non prestava più attenzione
alla via, procedeva svelto nell’ombra con quel solo dilemma che gli bruciava nella testa. Poi, inconsciamente,
ripensò ad Atlantic City, la canzone che pochi minuti prima il cellulare aveva improvvisamente riprodotto e nella
sua mente, come un fulmine al cielo sereno, il ricordo a cui stava ossessivamente dando la caccia saltò fuori dalle
cavità più recondite del suo cervello: erano i forse i primi di novembre e fuori si stava scatenando un violento
temporale, le gocce tamburellavano sui vetri delle finestre, e Steva Van Dantz era sicuro che, da un momento
all’altro, gli infissi avrebbero ceduto alla forza dell’acqua piovana e che la tempesta gli sarebbe entrata
direttamente in casa. Si trovava in una situazione particolare, poche pagine da studiare per il giorno seguente e
suo padre che non sarebbe rientrato prima delle sette e mezzo; decise quindi di mettersi a scrivere qualcosa:
quello dello scrivere era una passione che aveva coltivato fin da piccolo e che la tecnologia non gli aveva ancora
strappato via; dunque prese il suo pc, lo portò nella piccola cucina e incominciò a digitare parole frenetiche sulla
tastiera.
Si fermò di colpo, venne scosso da un fremito di freddo, o forse di paura…, i suoi occhi neri erano immobilizzati
dal terrore, il cuore batteva all’impazzata e una nuvola scurò la luna. Tremava, ma non era un tremare di
spavento, era un tremare di acida consapevolezza; voleva correre via, ma le sue gambe non erano dello stesso
parere, voleva urlare, ma le labbra non accennavano ad aprirsi, intorno a lui Asbury dormiva tranquilla sommersa
dall’oscurità, ma Steve era in piedi, in mezzo alla strada , fissante il vuoto, completamente inerme e privo della
capacità di fare un pensiero razionale; gocce di sudore scendevano veloci inumidendogli il volto e offuscandogli
la vista, percorrevano i lineamenti del suo viso contratto in un espressione di panico; intanto il telefono, come un
bambino ostinato e capriccioso, riavvolse il brano e lo gracchiò a tutto volume per Tenth Street: -Well, theyAttaccò: -Blew up the chicken man in Philly last night, now, they blew up his house, too- Quindi, una chitarra
acustica, essenziale ripetitiva, accompagnò le strofe disperate del pezzo, finchè un’armonica a bocca non assalì la
melodia e straziante tolse il fiato al ragazzo. Una luce si accese nella notte. Dal momento stesso che era andato
via dalla festa, tutto l’ambiente che lo circondava si era comportato come aveva descritto nel suo racconto: la
luna, le stelle, il vento e tutti gli altri elementi naturali si approcciavano a lui come aveva pensato quel piovoso
pomeriggio, ormai la sua ragione non prendeva neanche in considerazione che tutto quello si trattava solamente
di una coincidenza, no, lui era nel suo racconto, non c’era altra spiegazione, il come aveva fatto a finirci dentro
non gli interessava, si preoccupava solo del fatto che lui si muoveva, respirava nella storia che la sua mente aveva
partorito. Accettò la situazione a suo malgrado e si chiese, chiudendo gli occhi, cosa accadeva al protagonista:
dalla schiena partì una scossa che risalì per tutta la colonna vertebrale per poi arrivare al cervelletto: due mani
fredde lo presero da dietro, per le spalle, e lo buttarono a terra con violenza impressionante.
Si trascinava sull’asfalto con i gomiti, visto da lontano era molto simile a un verme che ferito cercava inutilmente di
scappare da un corvo affamato; dietro di se lasciava una scia di un rosso acceso ben visibile anche nel buio, come
un peso morto trainava la sua gamba destra con un polpaccio dilaniato, il sangue zampillava convulsamente
mentre tossiva grumi di saliva rossastra, la spalla fatta a pezzi non resse all’eccessivo sforzo e con un tonfo si stese
a pancia in su, in modo che la luna potesse far sfavillare la sua clavicola scoperta di ogni membra; tutte le volte che
inspirava, decine di aghi penetravano nella sua schiena orribilmente scorticata da quei dannati artigli, gelidi come
il supplizio. Non voleva aprire gli occhi, forse per facilitare il trapasso, o forse perché temeva di vedere in che
condizioni era stato ridotto nel giro di sei minuti; sussultava, dato che non riusciva a piangere, sentiva il sangue
che copioso veniva pompato fuori dalle sue ferite, ogni singolo secondo era una nota di dolore in quel brano di
agonia, a quel punto solo un filo sottilissimo lo teneva ancora attaccato alla vita.
Superò il limite della sopportazione e invocò la morte, pur di finire quello strazio, quella tortura, invocò la morte
pur di non sentire più il sangue caldo che gli scorreva sulla pelle intingendosi alla canottiera, invocò la morte
perché stanco di avere il sapore del catrame in bocca, invocò la morte perché gli sembrava l’unica soluzione per
concludere quel tormento di ossa rotte e tendini dilaniati; e lei, da signora educata quale era, accolse le sue
suppliche e come una padrona misericordiosa non tardò a presentarsi: in preda a singhiozzi e gemiti, era sul punto
di perdere i sensi per la mancanza del liquido ematico quando, afferrato per il polpaccio completamente aperto, si
sentì strattonato e preso di forza: un urlo gli esplose in gola; quindi come un sacco di patate fu sollevato di peso da
terra e scagliato in aria. Percepì la fine con ogni fibra del suo corpo. Mentre era a mezz’aria urlo della fisarmonica a
bocca riscoppiò nella sua testa ad altissimo volume, ma nel momento in cui era sospeso tra Asbury e il cielo , in
quell’istante così breve e intenso, si sentì libero e riuscì a scorgere una manciata di stelle coperte dal velo di una
nuvola; sul suo viso apparve una smorfia quasi uguale a un sorriso, poi il vecchio catrame e l’ululare della
fisarmonica riempirono il mondo.
La signora Morrison prese un fazzoletto dalla sua borsa per asciugare le grosse lacrime che bagnavano le sue
guance solcata da profonde rughe: fissava inespressiva la finestra, ancora sconvolta: -Signora Morrison, se non si
sente pronta per lasciare una deposizione può passare domani in commissariato, non c’è nessun problema se in
questo momento non ce la fa…- Gli disse con tono pacato l’ispettore Rowland: -Non si preoccupi.- Rispose: -Mi
lasci solo un secondo.- Intanto il suo vice, l’agente Ronckins, era pronto con il suo taccuino per trascrivere qualsiasi
cosa fosse uscito dalla bocca della vecchia. Rowland nel frattempo si avvicinò alla finestra, fece cenno al suo
compagno di passargli un accendino e fumò a grandi boccate, una volta che ebbe finito si girò verso la signora
Morrison, che avvolta in una candida vestaglia di lino bianco, tremava ancora per l’accaduto: -Sono pronta.- Gli
sussurrò abbozzando un timido sorriso. L’uomo allora si sedette davanti a lei e incominciò con le domande: Dunque, mi dica, come ha fatto a vedere la scena?- La donna alzò lo sguardo e gli disse: - Mi ero assopita in
salotto, ma mi ha svegliato un rumore che veniva da fuori, probabilmente della musica, perciò ho acceso la luce e
mi sono sporta dalla finestra, per vedere che cosa fosse…- Si scostò una ciocca di capelli bianchi che gli scendevano
sugli occhi, e l’ispettore capì che aveva finito di rispondere al suo quesito: -Bene- Continuò: - E cosa ha visto dalla
sua finestra?- La Morrison sospirò: - C’era un ragazzo che camminava per la strada poi, di colpo, si è fermato, ed è
rimasto immobile per diversi minuti.- -Prosegua, la prego- La incalzò il poliziotto: - Ha incominciato a buttarsi a
terra, a gemere, sembrava che qualcuno lo stesse aggredendo, ma lui era solo in quella strada, e continuava,
continuava a saltare e a lasciarsi cadere, come per farsi del male, mi capisce?- Rowland annuì serio: - Poi è caduto
al suolo di peso e… e…, non si è più rialzato- Ronckins scriveva velocissimo, uno sciacallo d’informazioni soleva
definirlo il suo capo; la donna si mise la testa tra le mani e singhiozzò, l’agente allora si alzò e gli mise una mano
sulla spalla; intanto il sole stava facendo la sua comparsa sull’assopita Asbury, troppo stanca, ma lo stesso
costretta a intraprendere un’altra giornata lavorativa. I due poliziotti si congedarono freddi con la signora e
uscirono frettolosamente, per dare una mano agli infermieri a caricare il corpo senza vita sulla barella. Subito
varcato il portone del condominio, il medico di turno gli annunciò che probabilmente, anzi, quasi sicuramente si
era trattato di un infarto. Dopo qualche minuto la signora Morrison, con gli occhi ancora lucidi si avvicinò alla
finestra e intravide l’ambulanza che, a sirene spente, si allontanava rombando da Tenth Street.