wichtig - Journal of Endometriosis and Pelvic Pain Disorders

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wichtig - Journal of Endometriosis and Pelvic Pain Disorders
W
WICHTIG
Special Issue
in Ginecologia
Dolore pelvico
a cura di
Mario Malzoni
WICHTIG EDITORE MEDICAL PUBLISHER - Milano
Dolore pelvico
a cura di Mario Malzoni
Responsabile Centro di Endoscopia Ginecologica Avanzata, Casa di Cura Malzoni, Avellino – Italia
ISBN 978-88-7321-038-2
WICHTIG Special Issue in Ginecologia
Allegato al Journal of Endometriosis and Pelvic Pain Disorders
pubblicazione realizzata con il contributo non condizionato di Mundipharma Pharmaceuticals
­Published by
Wichtig Editore - Medical Publisher
Via Friuli, 72 - 20135 Milano, Italy
Phone: 0039 02 55195443/02 5455122
Fax: 0039 02 55195971
www.wichtig-publisher.com
© Wichtig Editore 2013
direttore responsabile
Diego Brancaccio
Dolore pelvico
wichtig Special Issue in Ginecologia
indice
editoriale....................................................................................................................................
I
Mario Malzoni
endometriosi: fisiopatologia e clinica. ..........................................................................................
Mario Malzoni, Domenico Iuzzolino, Alessandra Di Giovanni, Luca Pascale
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terapia medica e chirurgica dell’endometriosi.............................................................................12
Mario Malzoni, Domenico Iuzzolino, Alessandra Di Giovanni, Gabriele Pascale
gestione del dolore cronico e appropriatezza terapeutica..........................................................
Sergio Pascale, Luca Pascale, Gabriele Pascale, Mario Malzoni
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Editoriale
L’endometriosi è una patologia infiammatoria cronica che colpisce il 10%-17% delle donne in età fertile, percentuale che
sale al 35%-60% in coloro che presentano dolore pelvico cronico, infertilità o entrambe le condizioni, con costi diretti di circa
2,8 miliardi di dollari (stimati negli Stati Uniti) a cui si sommano circa 555 milioni di dollari di costi indiretti.
In questo supplemento di Journal of Endometriosis and Pelvic Pain Disorders vengono presi in considerazione diversi
aspetti dell’endometriosi, la sua eziopatogenesi, il decorso clinico, la diagnosi e gli interventi terapeutici. Particolare
attenzione viene data alla terapia antalgica, considerando che il dolore pelvico associato all’endometriosi rappresenta non
solo il sintomo più frequente, ma anche quello più debilitante per la donna e necessita quindi di un adeguato trattamento.
Per via della sintomatologia dolorosa associata e della cronicità della patologia, che tende a recidivare, l’endometriosi è
una condizione che coinvolge globalmente la salute della donna, da un punto di vista non solo fisico ma anche psicologico.
Inoltre, il tempo medio per una diagnosi corretta è di 7-8 anni, durante i quali molto spesso la sintomatologia dolorosa non
è adeguatamente trattata.
Il trattamento dell’endometriosi dipende sostanzialmente dall’età della paziente, dal desiderio di una gravidanza
successiva, dal grado di dolore e dall’impatto sulla qualità della vita. L’obiettivo principale nel trattamento dell’endometriosi
è infatti il controllo dei sintomi e la prevenzione o il ritardo della progressione della malattia, che si ottiene attraverso la
riduzione degli impianti endometriosici. Questo può avvenire mediante chirurgia o tramite induzione farmacologica di
atrofia della mucosa uterina ectopica (per esempio contraccettivi orali, progestinici, androgeni e GnRH).
Una componente importante dell’endometriosi è data dal dolore pelvico associato, che rappresenta il sintomo più
frequente, manifestandosi nel 96% delle donne. Tale tipo di dolore è, nel 95% dei casi, ricorrente nella sola fase mestruale,
mentre nel restante 5% dei casi è persistente o cronico, rappresentando un problema di notevole rilievo. Il dolore pelvico
è un elemento debilitante e deve essere adeguatamente trattato il prima possibile per evitare la cronicizzazione. Infatti,
è da tempo noto che i processi che portano al dolore sono plastici e non statici, e un dolore continuo non trattato
può causare modificazione nelle strutture neuronali coinvolte nella generazione del dolore. Una gestione ottimale del
dolore cronico deve quindi prevedere l’utilizzo tempestivo di farmaci efficaci e sicuri per l’impiego a lungo termine; le
terapie ormonali attualmente indicate per il trattamento dell’endometriosi nella maggior parte dei casi sono efficaci nel
controllo della progressione di malattia e della sintomatologia dolorosa associata. Qualora la terapia ormonale da sola
o associata al trattamento chirurgico appropriato delle lesioni non sia sufficiente ad ottenere un controllo soddisfacente
della sintomatologia algica, può essere considerata l’associazione con altri farmaci ad azione analgesica.
Le linee guida della World Health Organisation (WHO) per il trattamento del dolore cronico prevedono un approccio
sequenziale e progressivo al dolore e collocano gli analgesici su tre livelli (gradini) in base alla potenza antalgica. Tuttavia, le
conoscenze acquisite negli ultimi anni hanno modificato questa visione e più recentemente le linee guida europee ed italiane
ESMO e AIOM hanno rivoluzionato l’approccio proponendo il salto del II gradino e l’impiego precoce di oppiacei forti a basse
dosi anche nel dolore moderato. Tra le ragioni di tale cambiamento vi sono probabilmente la nota tossicità cardiaca, gastrica
e renale correlata ai FANS e la breve durata di efficacia degli oppiacei deboli.
L’evento avverso più frequente e persistente nel tempo degli oppiacei forti è la Opioid-induced bowel disfunction (OBID)
dovuta all’azione di agonismo esercitata sui recettori intestinali Mu degli oppioidi. A causa di tale effetto indesiderato, viene
raccomandato l’uso profilattico di lassativi, che però non sono sempre efficaci, e le recenti linee guida di AIOM e ESMO
suggeriscono di prendere in considerazione l’associazione di naloxone, che blocca selettivamente i recettori degli oppiacei
a livello gastrointestinale, e ossicodone. È oggi disponibile la formulazione ossicodone/naloxone a dose fissa che consente
di usufruire dell’efficacia dell’oppiaceo forte senza gli effetti avversi gastrointestinali. Esistono ormai numerose evidenze
cliniche che dimostrano come la somministrazione di ossicodone/naloxone mantenga un’elevata efficacia paragonabile a
ossicodone somministrato come agente singolo, ma con il grosso vantaggio di prevenire la stipsi migliorando sensibilmente
la qualità della vita del paziente.
I dati attualmente disponibili sull’impiego della formulazione ossicodone/naloxone nel trattamento del dolore cronico da
endometriosi, pur essendo al momento limitati, sembrano offrire promettenti prospettive sulla formulazione come nuova,
valida opzione terapeutica. Studi clinici randomizzati controllati sono auspicabili per confermarne l’efficacia, la tollerabilità e
l’appropriatezza dell’effetto terapeutico, prima dell’introduzione nella comune pratica clinica.
Mario Malzoni
© 2013 Wichtig Editore - ISBN 978-88-7321-038-2
Endometriosi: fisiopatologia e clinica
Mario Malzoni1, Domenico Iuzzolino2, Alessandra Di Giovanni2, Luca Pascale3
Responsabile Centro di Endoscopia Ginecologica Avanzata, Casa di Cura Malzoni, Avellino – Italia
Centro di Endoscopia Ginecologica Avanzata, Casa di Cura Malzoni, Avellino – Italia
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Centro di Rianimazione e Terapia Antalgica, Casa di Cura Malzoni, Avellino – Italia
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2
Abstract
L’endometriosi è una patologia ginecologica benigna che colpisce circa il 10% delle donne in età fertile
ed è caratterizzata dalla crescita di tessuto simil-endometriale (ghiandole e stroma) in sedi ectopiche.
Nella maggior parte dei casi tale condizione è associata a dolore pelvico (dismenorrea, dispareunia,
dischezia, disuria) e nel 30%-40% dei casi ad infertilità.
Il gold standard per la diagnosi di endometriosi è rappresentato dall’esplorazione chirurgica laparoscopica con conferma istologica, anche se attualmente sono disponibili tecniche di imaging caratterizzate da una buona accuratezza diagnostica per tutte le possibili localizzazioni intrapelviche.
La comprensione dei meccanismi patofisiologici alla base della patologia risulta fondamentale per lo
sviluppo di tecniche diagnostiche non invasive sempre più accurate e di terapie farmacologiche mirate al controllo della malattia, al trattamento del dolore ed al miglioramento della qualità di vita delle
pazienti.
Introduzione
L’endometriosi è una patologia ginecologica benigna caratterizzata dalla presenza di tessuto endometriale sottoforma di foci ectopici al di fuori della cavità uterina. Il
tessuto ectopico subisce gli stessi influssi ormonali del
tessuto eutopico per cui ciclicamente prolifera, si sfalda
e sanguina, mimando la mestruazione. Il sangue prodotto
dalla lesione endometriosica è fortemente irritativo a livello
peritoneale, causando reazioni infiammatorie che possono produrre aderenze che irrigidiscono gli organi su cui si
formano, ostacolandone la funzionalità (1). L’endometriosi
viene spesso suddivisa, in base alla sede e alla tipologia
delle lesioni, in ovarica, peritoneale e profonda o deep infiltrating endometriosis (DIE).
La localizzazione ovarica di tessuto endometriale può
portare alla formazione delle tipiche formazioni cistiche a
contenuto ematico (cisti cioccolato) definite anche endometriomi ovarici. La DIE è caratterizzata dall’infiltrazione
delle strutture anatomiche degli organi pelvici profondi ed
è definita dalla presenza di lesioni con profondità di infil4
trazione pari o superiore a 5 mm al di sotto della superficie
peritoneale (2). Tutti gli organi intrapelvici possono essere
coinvolti. Localizzazioni extrapelviche, molto più rare, sono
descritte in letteratura.
Quando il tessuto endometriale si localizza nello spessore
della parete miometriale si parla di adenomiosi o endometriosi interna. L’adenomiosi infatti è definita come l’invasione benigna del miometrio da parte di tessuto endometriale,
caratterizzata microscopicamente da ghiandole e stroma
endometriali ectopici circondati da miometrio iperplasico
ed ipertrofico, tale da determinare un aumento diffuso del
volume dell’utero e della rigidità delle sue pareti L’adenomiosi si può presentare in due forme distinte: diffusa e nodulare; in quest’ultima le cellule endometriali si uniscono
in aggregati cellulari circoscritti, non capsulati, denominati
adenomiomi. Esiste una forte associazione tra adenomiosi
ed endometriosi pelvica, e sono sempre più numerose le
evidenze di un possibile ruolo nei meccanismi che determinano infertilità.
L’endometriosi è una patologia ormono-dipendente, propria dell’età riproduttiva. Si ritiene che l’insorgenza della
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Malzoni et al
malattia possa dipendere da una serie complessa di fattori, oltre la disregolazione ormonale, tra cui si citano componenti di predisposizione genetica, anomalie del sistema
immune, fattori anatomici ed interferenze ambientali. La
sintomatologia dell’endometriosi può presentare quadri
diversi in relazione al grado di diffusione, agli organi interessati ed alle caratteristiche morfofunzionali delle lesioni.
Epidemiologia e fattori di rischio
L’endometriosi è una patologia infiammatoria cronica, tipica dell’età riproduttiva; si stima ne sia colpito il 10%-17%
delle donne in età fertile, percentuale che sale al 35%-60%
in coloro che presentano dolore pelvico cronico, infertilità
o entrambe le condizioni (3, 4). È una patologia che si evidenzia maggiormente nelle nullipare, è invece più rara nelle
donne che hanno già avuto gravidanze. Questo potrebbe
essere spiegato dalla frequente associazione endometriosi–sterilità, con un’incidenza del 30%-40%. L’incidenza è
spesso sottovalutata e ciò determina un ritardo nella diagnosi che si calcola sia in media di 7 anni dalla comparsa dei primi sintomi (5). Complessivamente l’endometriosi
si rileva più di frequente nei paesi a maggiore sviluppo,
nei ceti sociali più elevati e nei soggetti di razza bianca
(6, 7). Studi epidemiologici hanno suggerito che donne con
menarca precoce, cicli polimenorroici e flussi abbondanti
siano maggiormente predisposte a sviluppare la malattia
(8). Un recente studio epidemiologico ha rilevato come le
donne affette da endometriosi mostrino un indice di massa corporea (BMI) più basso rispetto ai controlli e che le
donne con BMI molto basso siano più a rischio di essere
affette da endometriosi profonda (9). Inoltre, il rischio di
endometriosi e la severità della malattia sembrano essere
maggiori nelle donne con anamnesi familiare positiva per
tale patologia (10). Numerosi studi avvalorano l’ipotesi che
alcune sostanze chimiche presenti nell’ambiente possano
indurre lo sviluppo dell’endometriosi; si tratta dei cosiddetti “disregolatori endocrini”, ossia sostanze esogene
che possono interferire con il funzionamento del sistema
endocrino e conseguentemente avere effetti avversi sulla
salute umana. Quelli maggiormente implicati sono il TCDD
(2,3,7,8-tetrachlorodibenzo-p-dioxin) e altri composti diossina-simili, principalmente di derivazione industriale, i quali
potrebbero contribuire allo sviluppo dell’endometriosi attraverso l’aumento dei livelli di interleuchine, l’attivazione
di enzimi del citocromo P-450, e successive alterazioni nel
rimodellamento dei tessuti (11, 12).
Eziopatogenesi
La patogenesi dell’endometriosi rimane tuttora non completamente chiara. Si ritiene che l’insorgenza della malattia
sia multifattoriale e che possa dipendere, quindi, da una serie complessa di eventi che implicano una predisposizione
genetica, anomalie del sistema immune, fattori anatomici
ed interferenze ambientali. Sono state prese in considerazione varie teorie, che possono essere schematizzate nelle
seguenti categorie:
1. Teoria della metaplasia dell’epitelio celomatico (Meyer
1919): sia l’ovaio che i dotti Mülleriani derivano dal
mesotelio celomatico; è possibile, quindi, che l’epitelio
germinale ovarico possa differenziarsi anche in tessuto endometriale;
2. Teoria della diffusione linfatica o ematica: l’endometrio
normale potrebbe metastatizzare attraverso il circolo
linfatico o venoso; questa teoria giustificherebbe il riscontro di focolai endometriosici in sedi extrapelviche
inusuali come il polmone, la pleura, l’encefalo.
3. Teoria della mestruazione retrograda (Sampson
1921): secondo questa teoria, che è sicuramente
una delle più accreditate, l’origine della patologia sarebbe da rimandare ad una mestruazione retrograda
attraverso le tube di Falloppio, con successivo impianto delle cellule endometriali a livello della cavità
peritoneale. Sulla base della sua esperienza clinica,
Sampson propose che il flusso mestruale potesse
contenere cellule endometriali vitali che, in quanto
tali, fossero in grado di impiantarsi in sedi ectopiche
(13). In realtà l’ipotesi di Sampson della mestruazione retrograda come fenomeno critico nello sviluppo
dell’endometriosi non spiega perché questo processo, che si verifica fisiologicamente, non sfoci in
malattia in tutte le donne. La disseminazione transtubarica sembra essere la via più frequente di diffusione
di cellule endometriali, benché siano state descritte
altre vie fra cui i vasi linfatici ed ematici e la deposizione iatrogena. Sono numerosi i casi di endometriosi in zone corrispondenti a cicatrici da episiotomia o
laparotomia o nelle sedi di inserzione dei trocar laparoscopici (14).
Mentre esiste una certa concordanza nell’attribuire l’origine dei focolai superficiali all’impianto in sede ectopica del
tessuto endometriale refluito con le mestruazioni retrograde, la maggiore controversia rimane tuttora la patogenesi
delle tipiche cisti ovariche endometriosiche.
© 2013 Wichtig Editore - ISSN 2035-9969
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Endometriosi: fisiopatologia e clinica
A favore della patogenesi degli endometriomi in seguito
a mestruazioni retrograde, adesione di focolai ovarici al
peritoneo e successiva invaginazione, è l’asimmetria nella localizzazione degli endometriomi unilaterali, con una
maggiore frequenza nell’annesso di sinistra (63%) rispetto
a quello di destra, a causa dei fattori anatomici che distinguono le due regioni annessiali. Come conseguenza della
presenza del colon sigma nella regione sinistra, si creerebbe un microambiente intorno all’annesso di sinistra delimitato dalla parete pelvica, la parete laterale del sigma e il
legamento largo. In questo ambiente le cellule endometriali
rigurgitate tramite la tuba sinistra ristagnerebbero, in quanto non esposte alla corrente peritoneale che fa circolare il
liquido peritoneale in senso orario (15).
Ci sono due ipotesi relative all’origine dell’endometriosi
profonda del compartimento posteriore:
focolai endometriosici originanti da modificazioni
–
di residui Mülleriani attraverso un processo di metaplasia;
evoluzione naturale di un’endometriosi peritoneale
–
dello scavo del Douglas come conseguenza di un’infiltrazione secondaria.
Gli argomenti principali a favore della teoria metaplasica
sono rappresentati dalle caratteristiche istologiche delle
lesioni. L’endometriosi profonda, infatti, ha caratteristiche
istologiche analoghe a quelle del nodulo adenomiosico e,
analogamente a questo, è costituita da un aggregato nodulare circoscritto di muscolo liscio, epitelio ghiandolare
e scarso stroma. La scarsità della componente stromale
all’interno del nodulo endometriosico profondo potrebbe
indicare una differenza con l’endometriosi peritoneale, in
cui le ghiandole epiteliali sono circondate sistematicamente da uno stroma di tipo endometriale (16).
Nell’endometriosi profonda, l’endometrio impiantato potrebbe provocare una risposta metaplastica nei tessuti sottostanti e l’entità di questo fenomeno differirebbe in base alla sede,
spiegando, in questo modo, le differenze istologiche tra le
diverse forme di endometriosi (17). Tuttavia, queste teorie,
da sole, non sono sufficienti a spiegare l’origine di questa
complessa malattia. Numerosi studi hanno dimostrato come
differenti fattori possano avere un ruolo nella complessa
patogenesi della malattia.
Predisposizione genetica
La malattia si riscontra più facilmente nelle pazienti con
storia familiare di endometriosi (18).
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La ricerca degli ultimi anni si sta concentrando su studi di
associazione che analizzano con quale frequenza un determinato genotipo si associ alla patologia e su studi di linkage
in cui sono raccolte famiglie affette dalla malattia e ne si
analizza il genotipo per identificare regioni comuni del genoma. Sono stati studiati con sempre maggior attenzione i
polimorfismi di geni che codificano per numerose proteine
quali fattori di crescita, metalloproteinasi della matrice, citochine infiammatorie, fattori angiogenetici e apoptotici (19).
Fattore ormonale
La patologia è estrogeno-dipendente e gli estrogeni risultano essenziali per la crescita e lo sviluppo delle lesioni
endometriosiche. Recenti studi hanno dimostrato che la
presenza di polimorfismi del recettore alfa degli estrogeni
(ER alfa) può essere associata ad endometriosi ricorrente,
probabilmente attraverso l’aumento dell’attività recettoriale di ER-alfa (20). Ad oggi esistono due isoforme del
recettore del progesterone: il PR-A e il PR-B. Il recettore
PR-B tende ad essere il vero attivatore dei geni bersaglio
del progesterone, mentre il recettore PR-A sembrerebbe
agire come inibitore del recettore PR-B. È ipotizzabile che
un’alterazione del rapporto PR-A/PR-B in alcuni tessuti bersaglio possa modificare l’attività del progesterone
attraverso una differente regolazione di specifici geni
responsivi a questo ormone. Una delle teorie più attuali
indica che l’endometriosi è caratterizzata da una resistenza al progesterone: infatti, le basi molecolari della resistenza al progesterone nell’endometriosi possono essere
correlate ad un’intensa riduzione nei livelli dei recettori
al progesterone (PRs) e ad una perdita del recettore al
progesterone B (PR-B) con conseguente alterazione del
metabolismo dell’E2 e aumento della sua concentrazione locale con effetto mitogeno (21). Attia et al hanno
dimostrato che nei campioni di tessuto endometriosico
sono presenti solo recettori PR-A, per cui la resistenza al
progesterone nel tessuto endometriosico potrebbe dipendere dalla presenza dell’isoforma inibitoria del recettore progestinico e dall’assenza dell’isoforma stimolatoria
PR-B (22). È inoltre stato dimostrato che gli impianti endometriosici esprimono l’aromatasi e la 17β-idrossisteroide
deidrogenasi di tipo 1, enzimi responsabili della conversione, rispettivamente, dell’androstenedione in estrone e
dell’estrone in estriolo. Queste combinazioni enzimatiche
facilitano l’esposizione dell’endometrio ectopico ad un
ambiente iperestrogenico (23). Nell’endometrio eutopico,
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Malzoni et al
al contrario, il progesterone permette l’espressione di elevati livelli della 17β-idrossisteroide deidrogenasi di tipo 2,
che assicura un antagonismo estrogenico durante la fase
luteinica del ciclo mestruale. Nell’endometriosi, infatti, è
stato dimostrato un relativo stato di resistenza al progesterone che previene l’attenuazione dello stimolo estrogenico. A questo proposito un ruolo importante è stato
attribuito alle prostaglandine E2, in quanto rappresentano dei potenti attivatori dell’aromatasi, presente a livello
delle cellule stromali endometriali. L’estradiolo, prodotto
conseguentemente alla stimolazione aromatasica, contribuisce ad aumentare la produzione delle PGE2 attraverso l’incremento dell’attività della ciclossigenasi di tipo
2; questo meccanismo innesca un sistema a feed-back
positivo che potenzia l’effetto estrogenico sulla proliferazione endometriosica (24).
Fattore immunologico
Sulla base del riscontro di varie anomalie della risposta immune associate all’endometriosi, è verosimile che il sistema
immunitario svolga un ruolo chiave nella genesi della malattia. Infatti, una disregolazione dei meccanismi immunologici
può essere alla base dell’impianto ectopico di endometrio
refluito tramite le tube, il sangue o il sistema linfatico in sedi
extrauterine. Questo sistema di sorveglianza coinvolge prevalentemente l’immunità cellulo-mediata e soprattutto monociti, macrofagi, linfociti T e cellule natural killer (NK) (25).
In tal caso, un’alterata immunità cellulo-mediata potrebbe
consentire un fenomeno di tolleranza nei confronti degli antigeni endometriali refluiti e permettere l’impianto ectopico.
L’endometriosi stessa favorisce l’instaurarsi di una condizione di infiammazione peritoneale che può contribuire alla
persistenza della malattia; quindi le alterazioni molecolari
riscontrate nell’endometrio ectopico di donne con endometriosi, ma anche in alcuni casi in quello eutopico, potrebbero
costituire una conseguenza di questo stato infiammatorio
oltre che la causa della malattia. Le cellule endometriali, soprattutto quelle delle donne con endometriosi, hanno
caratteristiche comuni ai sistemi cellulari capaci di evadere
l’immunosorveglianza, per esempio rilasciando fattori solubili capaci di inibire l’attività litica delle cellule NK (26).
Fattore peritoneale
I macrofagi residenti in peritoneo sono in grado di rimuovere eritrociti, frammenti di tessuto e presumibilmente
anche le cellule endometriali che refluiscono tramite le
tube. I macrofagi peritoneali sono in grado di regolare gli
eventi che determinano la produzione di citochine, prostaglandine, fattori di crescita, fattori del complemento ed
enzimi idrolitici. Nell’endometriosi i macrofagi peritoneali
sono aumentati in numero totale, in concentrazione e stato
di attivazione, aumento che si ritiene essere associato alla
stimolazione cronica da parte degli impianti endometriali
ectopici e a un eccessivo reflusso di detriti mestruali. Tra i
fattori di crescita che si associano all’aumento dell’attività
macrofagica nell’endometriosi si annoverano il plateledderived growth factor (PDGF), il TGF-β, il macrophagederived growth factor (MDGF) e l’epidermal growth factor
(EGF) (14). Tutti questi fattori sono in grado di stimolare
la proliferazione delle cellule endometriali stromali in vitro
e quindi possono essere capaci di mantenere la crescita
degli impianti ectopici. Tumor necrosis factor (TNF-α), IL-1,
IL-2, IL-6, IL-8 sono le citochine la cui concentrazione risulta aumentata nel liquido peritoneale di donne affette da
endometriosi (27), suggerendo un loro coinvolgimento nella progressione della malattia e nello sviluppo di infertilità.
Il vascular endothelial growth factor (VEGF) è un potente fattore angiogenico presente in alte concentrazioni nel
fluido peritoneale delle donne con endometriosi. Poiché
lo sviluppo della malattia richiede una neoangiogenesi,
si può ipotizzare che il rilascio di tali fattori possa contribuire a creare una micro vascolarizzazione del peritoneo
parietale.
DIAGNOSI
Anamnesi e Sintomatologia
Il primo approccio diagnostico nelle donne con sospetto
di endometriosi pelvica è rappresentato da un’anamnesi
accurata, volta ad evidenziare gli elementi clinici utili per
indirizzare la successiva fase diagnostica laboratoristico/
strumentale e la terapia. Si tratta di un momento fondamentale dove non solo viene valutata la presenza, la qualità
e l’intensità della sintomatologia delle pazienti, ma anche
l’impatto che questo tipo di patologia può avere sul benessere psicofisico della donna.
I principali sintomi dell’endometriosi sono il dolore pelvico, caratterizzato a sua volta da dismenorrea (associata o
meno ad ipermenorrea), dispaurenia, dischezia e disuria, e
l’infertilità.
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Endometriosi: fisiopatologia e clinica
Nel 20%-25% dei casi l’endometriosi è, tuttavia, asintomatica e la diagnosi posta come riscontro incidentale durante
un intervento chirurgico eseguito per altre indicazioni.
Lo stadio della malattia non sempre correla in modo consistente con la frequenza e la severità dei sintomi. Piccole
lesioni possono produrre dolori notevoli, al contrario lesioni
estese possono dare minimi segni della loro presenza (28).
Il dolore inizia solitamente prima delle mestruazioni, cresce
gradualmente con l’inizio del flusso e tende a decrescere
con l’esaurirsi dello stesso, ma può essere anche cronico
e debilitante; può associarsi a dolore lombare e sciatalgia.
Raramente ha caratteristiche crampiformi. Circa il 20% delle
pazienti presenta dolori pelvici di grado variabile che possono comparire in qualsiasi momento del ciclo. L’ispessimento
nodulare dei legamenti utero-sacrali e l’interessamento, più
o meno diffuso, del peritoneo pelvico e del cavo del Douglas, determinano una fissità degli organi intrapelvici. I movimenti del collo uterino durante l’attività sessuale in tal caso
possono provocare intenso dolore (dispareunia profonda)
al punto tale da rendere impossibile la completezza del
rapporto e da minarne comunque la qualità (29).
In corrispondenza del periodo mestruale altri sintomi possibili sono disuria ed ematuria, possono manifestarsi dolori nei punti ureterali per fenomeni compressivi e, se sono
presenti lesioni francamente ostruttive, si può giungere fino
alla franca idronefrosi. In caso di localizzazioni intestinali il
sanguinamento è raro, perché la lesione infiltra la parete intestinale dall’esterno all’interno e la mucosa non è quasi mai
interessata, mentre frequenti sono i fenomeni disfunzionali, come diarrea e stipsi, da lesioni occlusive e stenotiche
(30). La defecazione può essere particolarmente dolorosa
(dischezia) in caso di presenza di lesioni endometriosiche
della parte più caudale del retto e del setto retto-vaginale.
Accanto alla sintomatologia algica tipica dell’endometriosi
deve essere considerato un altro aspetto fondamentale di
questa patologia, ovvero la correlazione con l’infertilità (31).
Il preciso meccanismo fisiopatologico alla base di questa
associazione è in parte sconosciuto, anche se probabilmente sono in gioco diversi fattori. Quando si tratta della
forma più grave ed estesa della malattia, la ragione della
sterilità potrebbe essere spiegata dalla presenza di tenaci aderenze che coinvolgono le fimbrie tubariche, il cavo
di Douglas e le ovaie, compromettendo i normali rapporti
anatomici, e anche se spesso la pervietà tubarica è conservata, sono gravemente compromessi i fenomeni di rilascio,
captazione e trasporto dell’ovocita. Una diminuzione della
fertilità è stata messa in evidenza, però, anche in casi di
8
endometriosi lieve o moderata. Le cause vanno ricercate in
un’alterata secrezione di prostaglandine, con un’alterazione del microambiente peritoneale tale da alterare l’interazione ovocita-spermatozoo, ed in anomalie della recettività
endometriale.
Esame clinico
Una volta raccolta l’anamnesi accurata della paziente, un
corretto approccio diagnostico prevede l’esecuzione della visita ginecologica bimanuale. La palpazione bimanuale
degli organi pelvici permette di orientarsi sull’eventuale presenza di tumefazioni a livello degli annessi, sulla mobilità
degli organi pelvici e sulla loro eventuale dolorabilità evocata sia dal movimento che dalla pressione. Inoltre con la
visita ginecologica è possibile apprezzare eventuali ispessimenti o noduli a livello del fornice vaginale posteriore, della
vagina, dei legamenti utero sacrali, ponendo pertanto già il
sospetto di una localizzazione profonda di malattia.
Marcatori sierici
Uno degli esami di laboratorio utili nell’approccio diagnostico di questa patologia è il determinante antigenico Ca–125.
Questo marker è associato alla presenza di una glicoproteina transmembranaria di elevato peso molecolare, espressa su alcuni tessuti che originano dall’epitelio celomatico e
mülleriano (32); in persone adulte è evidenziabile sull’epitelio delle tube di Falloppio, dell’endometrio, dell’endocervice, del peritoneo, della pleura e del pericardio.
Il CA-125 risulta aumentato nella maggior parte delle pazienti con endometriosi allo stadio III e IV, mentre i suoi
livelli sono generalmente normali negli stadi iniziali; tuttavia, poiché i livelli sierici di tale antigene risultano elevati in
numerose patologie, ginecologiche ed extraginecologiche,
benigne e maligne, risulta un marker utile ma non specifico
per la diagnosi di endometriosi e può costituire un presidio
diagnostico di ausilio nel follow-up delle recidive di endometriosi severa che presentavano valori iniziali elevati di
CA-125 (32, 33).
IMAGING
Il gold standard per la diagnosi di endometriosi è la visualizzazione della cavità peritoneale tramite laparoscopia,
confermata dall’esame istologico.
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Malzoni et al
Tuttavia, ad oggi l’uso dell’ecografia transvaginale (TVS) ha
permesso di migliorare la qualità della diagnosi non invasiva di patologie della pelvi femminile. L’ecografia rappresenta attualmente uno strumento estremamente accurato
per porre diagnosi di endometriosi. Infatti la TVS presenta
un’elevata accuratezza diagnostica sia per la forma ovarica della malattia che per le altre localizzazioni intrapelviche (34), superiore alla sola esplorazione bimanuale, che
tuttavia può rappresentare il primo approccio diagnostico
e porre il sospetto di malattia (35, 36). L’ecografia transvaginale è sicuramente una metodica non invasiva, ben tollerata e a basso costo.
Altre tecniche radiologiche ed endoscopiche, come ad
esempio la risonanza magnetica nucleare (RMN) (37, 38), il
clisma opaco a doppio contrasto e l’urografia endovenosa
o uroTC, possono rappresentare valide metodiche di ausilio. La RMN è stata utilizzata soprattutto per la diagnosi
di endometriosi profonda, ed alcuni autori hanno riportato una buona accuratezza diagnostica con una sensibilità del 90% ed una specificità del 91% (39). Tuttavia, altri
studi mostrano valori di sensibilità e specificità più bassi
in riferimento ad alcune localizzazioni, come ad esempio il
coinvolgimento intestinale e il setto retto-vaginale (40). Per
tali motivi, e soprattutto per l’elevato costo, la minore disponibilità della metodica e la necessità di essere eseguita
da radiologi che abbiano un’accurata conoscenza della
patologia endometriosica, la RMN può essere considerata
come esame di secondo livello nella valutazione dell’endometriosi profonda, soprattutto quando siano sospettate
lesioni dell’alto addome non valutabili con il solo approccio
ecografico.
In alcuni studi è stata valutata l’accuratezza diagnostica
del clisma opaco a doppio contrasto e della colonscopia
per le localizzazioni endometriosiche intestinali. Il clisma
opaco, pur mostrando una buona accuratezza rispetto alla
presenza di lesioni stenosanti, non ha mostrato accuratezza maggiore rispetto all’ecografia trans vaginale, in quanto
Bibliografia
1.
2.
non consente di valutare con esattezza la profondità di infiltrazione (41). Per quanto concerne la colonscopia, questa
non rappresenta una metodica utile perché la maggior parte
delle lesioni non infiltrano la mucosa intestinale. Pertanto
l’utilizzo di tale metodica nella diagnosi di endometriosi intestinale è limitata solo a quei casi dubbi in cui debba essere
posta una diagnosi differenziale con patologie gastrointestinali maligne. In caso di endometriosi del compartimento
posteriore con sospetto coinvolgimento ureterale ed eventuale idroureteronefrosi, l’urografia endovenosa e l’uro TC
con mezzo di contrasto, possono rappresentare una valida
tecnica di supporto in fase preoperatoria per un’accurata
valutazione del parenchima renale e delle vie escretrici.
Conclusioni
La notevole attenzione scientifica degli ultimi anni sulla
malattia endometriosica ha condotto ad una sempre maggiore comprensione dei principali meccanismi patogenetici
alla base di tale patologia. Anche se il fattore chiave o i
fattori chiave che orchestrano la sopravvivenza e il successivo impianto delle cellule endometriali in sede ectopica non sono ancora del tutto chiari, alcune caratteristiche
fondamentali della patologia, come per esempio il ruolo
dell’infiammazione, la dipendenza estrogenica e la relativa
resistenza all’azione del progesterone, sono state individuate e correlate alle principali manifestazioni cliniche ad
anatomopatologiche: dolore ed infertilità.
Il progresso della ricerca e della conoscenza rappresenta
la chiave per lo sviluppo di tecniche diagnostiche mirate
non invasive e per il miglioramento della gestione clinica
e terapeutica.
Dichiarazione di conflitto di interessi
Gli Autori dichiarano di non avere conflitto di interessi.
Mario Malzoni
[email protected]
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11
Terapia medica e chirurgica dell’endometriosi
Mario Malzoni1, Domenico Iuzzolino2, Alessandra Di Giovanni2, Gabriele Pascale3
Responsabile Centro di Endoscopia Ginecologica Avanzata, Casa di Cura Malzoni, Avellino – Italia
Centro di Endoscopia Ginecologica Avanzata, Casa di Cura Malzoni, Avellino – Italia
3
Centro di Rianimazione e Terapia Antalgica, Ospedale Pubblico di Cerignola, Foggia – Italia
1
2
Abstract
L’endometriosi è una patologia ginecologica ormono-dipendente, caratterizzata dalla presenza di tessuto endometriale ectopico in sedi intrapelviche e, più raramente extrapelviche, i cui sintomi principali
sono dolore pelvico ed infertilità.
Ad oggi non disponiamo di terapie farmacologiche efficaci nell’eradicazione della malattia, ma solo
di trattamenti in grado di produrre un buon controllo del dolore e della progressione della malattia
stessa, i cui effetti però normalmente cessano con l’assunzione o permangono per un tempo limitato.
Trattandosi pertanto di terapie associate a lunghi periodi di assunzione, l’obiettivo della ricerca è quello di selezionare principi attivi di comprovata efficacia con minimi effetti collaterali.
Per alcune forme di endometriosi non responsive al trattamento farmacologico, o lesioni associate
a compromissione funzionale di alcuni organi (ad esempio, lesioni intestinali o delle vie urinarie),
o ancora in pazienti sintomatiche con desiderio riproduttivo per le quali il trattamento farmacologico non sia compatibile con la ricerca di una gravidanza, la chirurgia rappresenta l’opzione
primaria.
Numerose evidenze scientifiche dimostrano la superiorità dell’approccio laparoscopico rispetto a
quello laparotomico nel trattamento dell’endometriosi, purché venga effettuato in centri specializzati
da chirurghi esperti nel trattamento della patologia stessa.
Trattamento chirurgico
Il trattamento chirurgico per via laparoscopica rappresenta attualmente il gold standard della terapia chirurgica
dell’endometriosi.
Può essere di tipo conservativo o demolitivo, in base all’età
della paziente e all’eventuale desiderio di prole; è indicato
in pazienti sintomatiche e non responsive al trattamento medico, generalmente quando le tecniche di imaging
preoperatorio evidenziano segni di patologia annessiale o
localizzazioni da endometriosi profonda, o più raramente a scopo esplorativo in caso di negatività delle indagini
preoperatorie, o quando la compromissione funzionale di
organi ed apparati imponga la rimozione chirurgica delle
lesioni. Più controverso è il caso dell’infertilità come unica
indicazione all’approccio chirurgico.
12
La laparoscopia è l’esame fondamentale che permette
di fare una diagnosi certa, visiva ed anatomo-patologica
ed è indispensabile per una completa stadiazione della
malattia.
Il tasso di risposta in termini di riduzione della sintomatologia algica è elevato, 50%-80% circa a seconda delle
casistiche di letteratura (1), tuttavia, analogamente al trattamento medico, può essere associato ad un alto tasso
di recidiva; l’endometriosi, infatti, può manifestarsi nuovamente entro 2 anni dall’intervento in una percentuale di
pazienti che va dal 40% al 60%.
Diversi studi indicano anche un incremento del pregnancy
rate in pazienti infertili sottoposte a chirurgia per endometriosi. La valutazione di tale aspetto però è complessa,
richiede una corretta analisi dei dati derivanti da gravidanze spontanee o medicalmente assistite, ed è al di fuori
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Malzoni et al
degli scopi di questo articolo. Il trattamento chirurgico non
conservativo con annessectomia è riservato ai casi in cui il
dolore sia refrattario a qualsiasi trattamento medico e chirurgico in pazienti in perimenopausa non più desiderose di prole.
La chirurgia laparoscopica si avvale, oggi, di tecnologie
avanzate che consentono la riduzione delle complicanze
intraoperatorie, una migliore visualizzazione delle lesioni
e di conseguenza un miglior outcome chirurgico.
Trattandosi di una patologia benigna, che interessa nella
maggior parte dei casi pazienti giovani desiderose di prole,
un approccio di tipo conservativo teso al ripristino delle
normali condizioni anatomiche e alla preservazione dell’innervazione viscerale (tecniche nerve sparing) deve essere alla base della strategia chirurgica e richiede capacità
chirurgiche specifiche e spesso multidisciplinari (data la
necessità di intervenire spesso su lesioni multiple di tipo
urologico e gastrointestinale), che maggiormente possono
essere garantite in centri specializzati con equipe di chirurgia endoscopica dedicate.
Classificazione
Una malattia polimorfa come l’endometriosi pone l’esigenza di una classificazione e stadiazione precisa, punto
di partenza, questo, indispensabile per poter confrontare
le diverse casistiche, per permettere di seguire nel tempo i risultati della terapia e di formulare una prognosi in
funzione della sintomatologia e della fertilità. Lo score
formulato originariamente dell’American Fertility Society (1985) e successivamente revisionato rappresenta la
classificazione attualmente più diffusa ed accettata per
descrivere la severità dell’endometriosi in un format
standardizzato (2). Questa classificazione è essenziale
anche per comparare nei trial clinici i differenti tipi di trattamento. Lo score tiene conto delle lesioni endometriosiche del peritoneo e delle ovaie (basato sulle dimensioni,
la localizzazione e la profondità), dell’endometriosi del
cul-de-sac posteriore (con obliterazione parziale o completa), e delle aderenze a carico di tube e ovaie (aderenze
sottili o tenaci, e sulla porzione di tuba o ovaio coinvolto)
(Fig. 1).
Lo stadio della malattia è diviso in:
– stadio I (malattia minima) - score 1-5;
– stadio II (malattia lieve) – score 6-15;
– stadio III (malattia moderata) – score 16-40;
– stadio IV (malattia severa) – score >40.
I diversi stadi delle lesioni non sono correlati con l’entità
della sintomatologia clinica.
L’importanza della distribuzione anatomica dell’endometriosi profonda (Deep Infiltrating Endometriosis- DIE) ha
reso necessaria la proposta di nuove classificazioni per
una migliore definizione della stessa. Koninckx nel 1992 (3)
classificava la DIE posteriore basandosi sul meccanismo
patogenetico determinante: tipo I infiltrazione, tipo II retrazione, tipo III adenomiosi esterna. Nel 1993 Adamyan proponeva una classificazione topografica della DIE posteriore,
senza tuttavia considerare la possibilità di associazione di
lesioni del compartimento anteriore e senza differenziare
l’eventuale trattamento chirurgico necessario per l’eradicazione della malattia (4). Nel 2003 Chapron introduceva una
classificazione topografica in compartimenti delle lesioni
profonde (5).
Nel 2005 è stato proposto ed introdotto un ulteriore sistema di classificazione dell’endometriosi, a supplemento
dell’AFS revisionato, definito Enzian Classification Score
(6) (Fig. 2). La classificazione di Enzian si riferisce alla descrizione dell’endometriosi profonda, considera le strutture retro peritoneali ed il coinvolgimento degli altri organi
pelvici. Infatti, in tale classificazione viene valutato il coinvolgimento dell’intestino (FI), dell’utero (FA), la presenza di
endometriosi intrinseca ureterale (FU), della vescica (FB) o
di altre sedi pelviche (FO). L’Enzian score inoltre valuta la
diffusione della malattia endometriosica in base a tre livelli
o compartimenti (suddivisi in A, B, e C), al fine di valutare
la gravità della patologia. Il compartimento A indica il piano
verticale che si estende dal cavo del Douglas, comprende
la vagina in tutta la sua estensione e la parte posteriore
della parete dell’utero. Il compartimento B è un piano orizzontale che comprende il coinvolgimento dei legamenti
uterosacrali e dei parametri valutando inoltre l’eventuale
presenza di idronefrosi e quindi l’eventuale compromissione della funzionalità renale. Il compartimento C comprende
invece l’estensione della malattia a livello posteriore ed indica pertanto il coinvolgimento intestinale valutando l’entità della malattia in base anche al grado di infiltrazione della
parete intestinale.
Trattamento medico
L’obiettivo principale della terapia medica dell’endometriosi è quello di migliorare la sintomatologia dolorosa nelle
donne non desiderose di prole, inibendo la crescita e l’attività delle lesioni endometriosiche.
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13
Terapia medica e chirurgica dell’endometriosi
Farmaci ad azione ormonale
Analoghi del GnRH
Farmacologia e meccanismo d’azione
Gli analoghi del GnRH (triptorelina, leuprolide, buserelina
e goserelina ) sono molecole costituite da un decapeptide
ipotalamico capace di modulare la sintesi e la secrezione
delle gonadotropine (7). La loro attività determina una modificazione della steroidogenesi e della gametogenesi. L’utilizzo dei GnRH analoghi nel trattamento dell’endometriosi
si è dimostrato efficace determinando la progressiva atrofizzazione dell’endometrio e delle lesioni endometriosiche.
Risultati clinici
Una recente meta-analisi pubblicata dalla Cochrane Collaboration (8) ha dimostrato che non esistono significative
differenze tra l’uso degli analoghi del GnRH e altri farmaci
quali il danazolo, gli estroprogestinici e il gestrinone nel trattamento dell’endometriosi. Gli effetti collaterali degli analoghi
del GnRH (vampate di calore, secchezza vaginale, riduzione della libido) sono legati all’ipoestrogenismo determinato
dal farmaco, che soprattutto a causa della potenziale riduzione della massa ossea che può indurre, non deve essere
somministrato per più di 6 mesi consecutivi (9, 10). Al fine di
prevenire gli effetti collaterali sopra descritti è suggerita una
somministrazione associata di piccole dosi di estrogeni e
progesterone (add back therapy) (11). Gli analoghi del GnRH,
come peraltro anche gli altri farmaci di seguito descritti, sono
efficaci fino a quando vengono assunti, determinandosi alla
loro sospensione una ricorrenza a 5 anni variabile dal 53%
al 73% in relazione allo stadio della malattia (12, 13). Il trattamento prolungato con gli analoghi del GnRH più add back
può essere considerato nelle donne resistenti al trattamento
con estroprogestinici o progestinici.
Antagonisti del GnRH
Meccanismo d’azione
Fig. 1 - Classificazione aggiornata dell’endometriosi dell’American
Fertility Society (1985).
Zoom
Normal View
14
Gli antagonisti del GnRH hanno il vantaggio, rispetto agli
agonisti, di agire più rapidamente, non determinandosi il
classico effetto flare-up legato alla secrezione gonadotropinica e risultando di conseguenza un più rapido onset degli effetti terapeutici (14).
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Malzoni et al
Fig. 2 - Classificazione Enzian Score (2005).
Zoom
Normal View
Risultati clinici
Inibitori dell’aromatasi
I benefici terapeutici nelle pazienti con endometriosi sono
analoghi a quelli osservati con GnRH agonisti. Le modalità
di somministrazione disponibili sono sottocutanea e orale, ma in letteratura non esistono studi clinici randomizzati
che comprovino la validità del farmaco (15).
Meccanismo d’azione
L’aromatasi è un enzima del citocromo P450 che catalizza
la biosintesi degli estrogeni attraverso la conversione degli
androgeni in estrogeni. Gli estrogeni prodotti dall’attività
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15
Terapia medica e chirurgica dell’endometriosi
delle aromatasi nelle cellule stromali endometriali possono esercitare il loro effetto tramite il legame al recettore
nucleare situato all’interno delle stesse cellule in cui sono
prodotti (16). L’endometriosi e gli impianti endometriosici
extra-ovarici esprimono alti livelli di aromatasi (17). Anastrazolo e letrozolo sono inibitori non steroidei delle aromatasi ed interferiscono con l’enzima del citocromo P450.
proteinasi, che mediano la risposta tissutale agli estrogeni. È
stato dimostrato un effetto antiinfiammatorio indotto dai progestinici sia in vitro che in vivo, che conduce ad una riduzione
dello stato infiammatorio tipico dell’endometriosi (20). I progestinici sono disponibili in diverse formulazioni: compresse
per l’assunzione orale, preparati per la somministrazione intramuscolare, impianti sottocutanei e dispositivi intrauterini.
Risultati clinici
Risultati clinici
Due studi osservazionali hanno valutato gli effetti degli inibitori delle aromatasi combinati con un progestinico o con un contraccettivo orale nelle donne prima della menopausa con endometriosi resistente al
trattamento medico o chirurgico. Entrambi gli studi
hanno segnalato effetti benefici nel trattamento dei
sintomi della malattia senza gravi effetti collaterali.
Un trial randomizzato (18) ha valutato l’efficacia clinica dell’uso di combinazioni di un inibitore delle aromatasi e un analogo del GnRH rispetto all’utilizzo
del solo analogo del GnRH, per 6 mesi, in 80 pazienti con
endometriosi severa postchirurgica, mostrando come la
combinazione di inibitori delle aromatasi e analoghi del
GnRH sia in grado di ridurre il dolore in modo più efficace degli analoghi del GnRH in regime esclusivo, senza
effetti sulla densità minerale ossea o sulla qualità della
vita. In un recente studio prospettico è stata comparata l’efficacia e la tollerabilità del letrozolo (2,5 mg/die)
associato al noretisterone acetato rispetto al noretisterone acetato da solo, in donne affette da endometriosi
retto-vaginale. I dati mostrano che la combinazione dei
due farmaci è più efficace nel ridurre la dismenorrea e
la dispareunia rispetto al solo utilizzo di noretisterone
acetato (19).
Il gestrinone rappresenta un farmaco ottimale per il
trattamento medico dell’endometriosi, con un’efficacia
sulla sintomatologia dolorosa sovrapponibile a quella
dimostrata per il danazolo e gli analoghi del GnRH (21).
L’uso del gestrinone tuttavia è limitato per la sua scarsa
tollerabilità a causa degli effetti collaterali quali aumento del peso corporeo, alterazioni del profilo lipidico, irsutismo, acne e seborrea (22).
Il medrossiprogesterone acetato per via orale alla dose
di 30 mg/die per 6 mesi è risultato più efficace nella
riduzione del dolore pelvico e nel miglioramento della
qualità di vita, se paragonato al placebo e agli analoghi
del GnRH (23).
Il desogestrel è un progestinico sicuro, ben tollerato e
a basso costo, efficace sulla sintomatologia dolorosa
post intervento chirurgico per endometriosi. Uno studio
ha dimostrato che l’assunzione di desogestrel (75 mcg/
die) è efficace nella riduzione del dolore pelvico cronico
post intervento chirurgico in pazienti con endometriosi
minima o moderata con uno scarso impatto sul peso
corporeo (24).
Il dienogest è l’unico progestinico orale che è stato studiato per il trattamento dell’endometriosi in due
trial clinici condotti indipendentemente in Europa ed in
Giappone. L’assunzione orale di dienogest (2 mg/die) è
significativamente più efficace sulla riduzione del dolore pelvico in pazienti affette da endometriosi rispetto
al placebo (25, 26). Studi clinici hanno dimostrato che
il dienogest ha un’efficacia simile alla leuprolina e alla
triptorelina. Tuttavia, per terapie a lungo termine il dienogest risulta più efficace sulla sintomatologia dolorosa
rispetto agli analoghi del GnRH. (27, 28).
Il dienogest è ben tollerato, con scarsi effetti collaterali; in particolare, il trattamento con dienogest non
sembra essere associato ad una significativa riduzione
della densità ossea. Per terapie a lungo termine, più di
1 anno, l’efficacia e la tollerabilità del dienogest si man-
Progestinici
Meccanismo d’azione
I progestinici inibiscono il rilascio di GnRH, FSH ed LH,
inducendo anovulazione ed amenorrea in un clima ipoestrogenico. L’obiettivo terapeutico è la progressiva
decidualizzazione fino all’atrofia dell’endometrio, con
necrosi e riassorbimento dei focolai ectopici. I progestinici inoltre prevengono l’impianto e la crescita del tessuto endometriale ectopico inibendo la neoangiogenesi
e l’espressione di particolari molecole quali le metallo16
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Malzoni et al
tengono e risultano efficaci anche per i 6 mesi successivi
all’interruzione del trattamento (29)
Il levonorgestrel è un potente progestinico ad attività androgenica ed anti-estrogenica a carico dell’endometrio.
Dispositivi intrauterini rilascianti 20 mg/die di levonorgestrel (Lng-IUD), sono stati utilizzati per il trattamento
medico dell’endometriosi Il Lng-IUD è stato utilizzato in
pazienti con lesioni peritoneali, ovariche superficiali, rettovaginali e con lesioni endometriosiche ricorrenti.
Lockhat et al hanno dimostrato un miglioramento della
sintomatologia dolorosa dopo 6 mesi di terapia in donne
affette da endometriosi da minima a moderata con un beneficio dimostrato anche al follow-up a 3 anni, eseguito
nelle donne che hanno prolungato la terapia con Lng-IUD
(30). Il Lng-IUD è risultato inoltre un efficace strumento terapeutico per l’endometriosi retto-vaginale in donne sottoposte a intervento chirurgico. Ad 1 anno di follow-up, la
dismenorrea, precedentemente moderata o severa in tutti
i casi, e il dolore pelvico non mestruale, erano assenti,
con una riduzione della dispareunia profonda ad assente
o media in tutti i soggetti durante il trattamento (31).
Il danazolo è un agente androgenico orale che interferisce
con i recettori del progesterone presenti a livello endometriale o sulle cellule endometriosiche, con un conseguente incremento dei livelli sierici di androgeni e una modulazione dei recettori per gli estrogeni, e svolge anche effetti
antiinfiammatori ed antiangiogenici (32). I più comuni effetti collaterali includono aumento ponderale, ritenzione
di fluidi, atrofia delle mammelle, acne, vampate di calore
ed irsutismo. Per tale motivo recentemente sono state
sperimentate nuove vie di somministrazione, da quando
è stato dimostrato che questo farmaco potrebbe essere
assorbito, in seguito ad applicazione locale, intrauterina o
vaginale. Uno studio prospettico ha dimostrato l’efficacia
del rilascio intrauterino continuo (6 mesi) di danazolo nella
dismenorrea, nel dolore pelvico e nella dispareunia associati ad endometriosi moderata o severa (33). La somministrazione di danazolo per via vaginale per il trattamento
dell’endometriosi è stata effettuata tramite anello, gel o
capsule. In uno studio caso-controllo, la somministrazione vaginale di gel contenente danazolo (100 mg/die in
0,2mL) per un periodo di 4 mesi ha ridotto effettivamente
la dismenorrea e il dolore pelvico cronico (34). L’efficacia
della somministrazione vaginale di danazolo (200 mg/die)
è stata valutata in un gruppo di pazienti con endometriosi profonda per una durata di 12 mesi dopo la terapia
chirurgica. Dismenorrea, dispareunia e dolore pelvico, di-
minuivano entro 3 mesi e scomparivano dopo 6 mesi di
trattamento, con un effetto persistente durante i 12 mesi
di terapia (35).
Estroprogestinici
Meccanismo d’azione
Gli estroprogestinici inducono la soppressione ormonale steroidea con conseguente blocco dell’ovulazione, il che determina inibizione della crescita degli impianti endometriosici,
una riduzione del sanguinamento endometriale e della contrattilità uterina e una diminuzione dello stato infiammatorio
cronico. Questa azione determina un miglioramento della
sintomatologia dolorosa e previene la ricomparsa di recidive
in un’elevata percentuale di donne (36, 37).
Risultati clinici
Una recente meta-analisi di 18 studi, dimostra un effetto
protettivo degli estroprogestinici durante la durata del trattamento ed un potenziale effetto negativo tipo rebound dopo
l’interruzione. (38). Questi risultati sono in qualche modo
sorprendenti e appaiono in contrasto con i ben noti benefici
di questi farmaci per il trattamento dell’endometriosi (39).
Una spiegazione può essere dovuta dal fatto che gli estroprogestinici sono farmaci utilizzati ampiamente in presenza di dismenorrea indipendentemente dalla presenza o dal
riconoscimento di un’eventuale patologia endometriosica
in atto. È noto infatti che l’intervallo medio per la diagnosi
di endometriosi è circa 7-10 anni (40). Il trattamento con
estroprogestinici è associato a una riduzione dell’incidenza
di ricorrenza di endometrioma post-chirurgia, e potrebbe
essere considerato come una strategia terapeutica a lungo
termine al fine di limitare ulteriori danni all’apparato riproduttivo (41). L’effetto terapeutico è limitato al periodo di utilizzo (42). La somministrazione in regime continuo sembra
essere più efficace in termini di miglioramento della sintomatologia dolorosa (43).
CONCLUSIONI
L’endometriosi è una patologia complessa, spesso associata a dolore cronico ed infertilità, con un impatto a volte
devastante sulla qualità di vita della donna.
La scelta del trattamento ottimale è strettamente connessa
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17
Terapia medica e chirurgica dell’endometriosi
a diversi fattori: i sintomi che la donna presenta, la severità degli stessi, la localizzazione e l’estensione delle lesioni
endometriosiche ed il desiderio riproduttivo.
Spesso tutto questo richiede una strategia di gestione
complessa, con trattamenti combinati medico-chirurgici
che siano individualizzati sulle esigenze specifiche della
paziente, e detta strategia non può prescindere da una valutazione integrata.
Per tali ragioni, pertanto, è auspicabile una sempre maggior diffusione della conoscenza della patologia e del suo
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può trarre da una centralizzazione della gestione in sedi
specializzate e dedicate che possano offrire i più elevati
standard qualitativi dal punto di vista chirurgico, medico e
riproduttivo.
Dichiarazione di conflitto di interessi
Gli Autori dichiarano di non avere conflitto di interessi.
Mario Malzoni
[email protected]
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19
Gestione del dolore cronico e appropriatezza
terapeutica
Sergio Pascale1, Luca Pascale1, Gabriele Pascale2, Mario Malzoni3
Centro di Rianimazione e Terapia Antalgica, Casa di Cura Malzoni, Avellino – Italia
Centro di Rianimazione e Terapia Antalgica, Ospedale Pubblico di Cerignola, Foggia – Italia
1
Responsabile Centro di Endoscopia Ginecologica Avanzata, Casa di Cura Malzoni, Avellino – Italia
1
2
Abstract
Il dolore cronico rappresenta una condizione piuttosto diffusa, arrivando a interessare in Europa il
50% degli individui sopra i 65 anni di età. La World Health Organization (WHO), per tale condizione
ha coniato l’espressione “dolore globale”, poiché non si tratta di una semplice estensione temporale del dolore acuto, ma di una vera e propria malattia che coinvolge il paziente in una spirale di
eventi, di natura psicologica e sociale, che compromettono in modo sostanziale la qualità della vita
e l’abilità alle attività lavorative, con forti ricadute sociali ed economiche. È necessario quindi che il
dolore cronico venga trattato in modo appropriato e tempestivo con farmaci efficaci e dotati di un
buon profilo di tollerabilità. La definizione di appropriatezza terapeutica maggiormente condivisa,
anche dalla WHO, prevede che venga soddisfatta la seguente condizione: i benefici del trattamento
devono superare gli effetti collaterali dello stesso in maniera sufficientemente ampia. La tempestività è necessaria perché i processi che determinano il dolore cronico sono plastici e la dilazione nel
trattamento può determinare un aggravamento della malattia. Rispondono a tale esigenza le recenti
linee guida nazionali e internazionali che hanno rivisto la scala antalgica a tre ‘gradini’ della WHO
messa a punto nel lontano 1986 per il dolore oncologico ed estesa nel tempo anche al trattamento
del dolore benigno, suggerendo un utilizzo più precoce ed esteso degli oppiacei forti. Per quanto
riguarda l’endometriosi, non sono ancora stati compiuti studi sul trattamento con oppiacei forti,
fatta eccezione per uno studio che ha mostrato l’efficacia dell’impiego preoperatorio della formulazione ossicodone/naloxone. I trattamenti non ormonali, quali FANS, COXIB, paracetamolo, comunemente utilizzati per il controllo del dolore nell’endometriosi, non sono scevri da eventi avversi
anche gravi che li rendono poco appropriati per un trattamento cronico. Sia per l’efficacia antalgica
e la tollerabilità a lungo termine dimostrata in diversi studi anche a lungo termine e in real world, sia
per l’azione sul dolore neuropatico, tipico dell’endometriosi, la formulazione ossicodone/naloxone
(OXN) rappresenta un’opzione terapeutica adeguata nel trattamento del dolore che accompagna
tale patologia.
Introduzione
Il dolore cronico è una vera e propria malattia associata
a molte patologie e si è stimato che ne è affetto il 20%
degli adulti in Europa, con percentuali che salgono al 50%
nei soggetti di età superiore ai 65 anni (1). Le più frequenti
20
cause di dolore cronico benigno sono artrosi, dolore lombare e neuropatie periferiche, generalmente complicanze
di patologia diabetica (2). Il dolore cronico pelvico rientra
tra le cause di dolore cronico. Questo dolore è un comune problema ginecologico con una prevalenza del 3,8%
in donne tra i 15 e 73 anni (3). Specificatamente il dolore
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Pascale et al
pelvico (dolore alla pelvi, dismenorrea, vulvodinia) rappresenta una patologia di non facile gestione sia diagnostica che terapeutica, col risultato che molte donne hanno
per anni un sintomatologia dolorosa non adeguatamente
trattata (4).
Brevemente si può dire che si definisce dolore cronico benigno quello che persiste per più di 3-6 mesi (5). Il dolore
cronico può essere neuropatico, funzionale e nocicettivo
in origine. Il dolore infiammatorio è dato da un danno tissutale, come quello che si ha in seguito a un trauma, a un
intervento chirurgico o nel corso di processi infiammatori cronici. In queste condizioni le cellule danneggiate e le
cellule infiammatorie reclutate in sede di lesione rilasciano
sostanze che attivano e sensibilizzano i nocicettori periferici (6). Il dolore neuropatico è dovuto a un danno dei nervi
periferici, delle radici nervose, del midollo spinale o delle
strutture ancora superiori fino alla corteccia cerebrale (7).
Il dolore funzionale rappresenta un concetto relativamente
nuovo, è una sensibilità al dolore causata da un anomalo
processamento o funzione del SNC in risposta ad uno stimolo normale, come nel caso di fibromialgia e sindrome
dell’intestino irritabile.
Nonostante la disponibilità di farmaci come gli oppiacei, di
comprovata efficacia nel dolore cronico di qualsiasi origine, persistono barriere di natura culturale e sociale che si
oppongono a un trattamento adeguato del dolore, con il
risultato di un’elevata percentuale di pazienti che non raggiunge un buon controllo del dolore. Il sottotrattamento del
dolore cronico, definito dalla WHO “dolore globale” per la
vastità di ambiti della sfera personale e sociale coinvolti,
ha implicazioni psicologiche, relazionali ed economiche
importanti sia per il paziente sia per la società (8).
Anche il solo ritardo del trattamento con farmaci efficaci
deve essere evitato, poiché i processi che portano al dolore
sono plastici, non statici e un dolore continuo non trattato
può causare modificazione nelle strutture neuronali coinvolte nella generazione del dolore. Una gestione ottimale del
dolore cronico deve quindi prevedere l’utilizzo tempestivo di
farmaci efficaci e sicuri per l’impiego a lungo termine.
Appropriatezza terapeutica e trattamento del
dolore cronico benigno
La definizione di appropriatezza delle cure oggi maggiormente riconosciuta dalla comunità scientifica e dalla stessa World Health Organization (WHO) risale al 1986 (9, 10).
Secondo tale definizione un trattamento si definisce appro-
priato quando i benefici della terapia superano gli effetti collaterali della stessa in maniera sufficientemente ampia, senza considerazioni economiche. Nello stesso anno la WHO
ha messo a punto le linee guida per il trattamento del dolore
cronico in oncologia, schematizzate dalla nota WHO’s pain
ladder, uno schema di trattamento sequenziale e progressivo a ‘gradini’, approccio che è diventato nel tempo un punto
di riferimento anche per il trattamento del dolore di natura
benigna. Le indicazioni della scala probabilmente all’epoca
rispondevano ai requisiti di appropriatezza terapeutica sulla base delle conoscenze e delle evidenze scientifiche sul
dolore cronico e sulle opzioni terapeutiche disponibili. Gli
studi e le evidenze stratificatisi negli anni hanno portato in
più occasioni la comunità scientifica a suggerire una revisione della scala, fino ad arrivare al 2012, quando le Linee
guida AIOM ESMO ed EAPC hanno decretato, con alcune
modifiche alla WHO’s pain ladder, l’anacronismo della stessa (11-13).
Secondo la scala WHO i farmaci sono suddivisi in base
alla potenza antalgica in 3 gradini: paracetamolo e farmaci antiinfiammatori non steroidei (FANS) sono indicati nel dolore lieve (valutazione del dolore secondo scala
visuo-analogica VAS da 1-4) (I gradino); nel II gradino, per
il dolore lieve-moderato (VAS 5-6) sono collocati gli oppiacei deboli, eventualmente in combinazione con farmaci
del I gradino, mentre gli oppiacei forti sono compresi nel
III gradino, per il trattamento del dolore moderato-severo
(VAS 7-10), eventualmente in combinazione con farmaci
del I gradino. La scala suggerisce l’uso di farmaci con
una capacità analgesica crescente, basato sulla gravità del dolore riferito dal paziente, a cui si possono aggiungere adiuvanti, come antidepressivi e antiepilettici.
Tuttavia, come anticipato, per favorire scelte terapeutiche appropriate, non si può prescindere dalle evidenze
recenti, in particolare quelle che riguardano l’efficacia e
la tollerabilità dei farmaci posizionati nei gradini più bassi della scala (14-18). Infatti, le recenti linee guida AIOM
ed ESMO hanno rivoluzionato il rigido approccio progressivo e sequenziale della scala, e accanto alla ormai
consolidata raccomandazione di riservare i farmaci del I
gradino solo a trattamenti di breve durata per i noti eventi avversi, vi è il suggerimento di utilizzare gli analgesici
del III gradino a basse dosi in alternativa ai farmaci del II
gradino, estendendo di fatto l’impiego degli oppiacei forti
anche al dolore da lieve a moderato (11, 13). Una delle
ragioni del suggerimento del salto del II gradino potrebbe
essere spiegata dalla maggiore efficacia nel controllo del
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21
Gestione del dolore cronico e appropriatezza terapeutica
dolore degli oppiacei forti rispetto agli oppiacei deboli mostrata in diversi studi in pazienti naive (19-21), nonché nella
breve durata dell’efficacia antalgica degli oppiacei deboli,
che in genere non supera i 30-40 giorni; inoltre, oltre alla
perdita di efficacia, gli oppiacei deboli presentano anche
un problema di tollerabilità derivante dall’effetto tetto:
dopo il raggiungimento del dosaggio massimale l’efficacia del farmaco peggiora e contestualmente aumentano gli
eventi avversi. Secondo la definizione della WHO, la tollerabilità, nell’ambito di una terapia efficace, è un elemento
imprescindibile dell’appropriatezza terapeutica e diventa
ancora più importante nei trattamenti a lungo termine. Infatti, uno dei principali problemi di una terapia antalgica
cronica è che spesso il controllo del dolore è ottenuto a
fronte di eventi avversi che possono portare ad un’analgesia sub-ottimale (22, 23).
Per quanto riguarda i farmaci del primo gradino è ormai
nota da tempo la tossicità a livello gastrico, cardiaco e renale dei FANS, che si configurano come possibili effetti di
classe, mentre un problema di sicurezza meno noto riguarda il paracetamolo: studi clinici compiuti negli ultimi anni
su paracetamolo hanno fatto emergere anche per questo
farmaco un profilo di sicurezza tutt’altro che rassicurante
(24, 25).
Da quanto esposto, secondo le evidenze scientifiche suffragate anche dalle recenti Linee guida, da provvedimenti
restrittivi e warning messi in atto dalle Autorità sanitarie Italiane internazionali su FANS, COXIB e oppiacei deboli (2629) (che verranno illustrati nel paragrafo successivo), tali farmaci sembrerebbero non avere le caratteristiche di efficacia
e sicurezza indispensabili per un trattamento di lunga durata. Caratteristiche invece proprie degli oppiacei forti e in
particolare della formulazione a rilascio prolungato ossicodone/naloxone che, oltre ad aver mostrato la sua efficacia
nel dolore cronico sia oncologico che di natura benigna in
numerosi studi clinici a lungo termine e anche in real world,
possiede anche un buon profilo di tollerabilità nel trattamento cronico (30-33). Formulazione che sembrerebbe quindi
possedere i requisiti indicati dalla WHO nella definizione di
appropriatezza terapeutica riportata in apertura.
Antinfiammatori non steroidei e oppiacei deboli
nel dolore cronico: occorre cautela
Sebbene la tossicità correlata ai FANS sia ormai nota alla
comunità scientifica, essi rappresentano la classe di farmaci più prescritti nel dolore cronico di natura benigna.
22
I FANS agiscono inibendo in modo non selettivo l’enzima
ciclossigenasi 1 e 2 (COX-1 e COX-2). Gli effetti antiinfiammatori e analgesici degli inibitori COX non selettivi si pensa
siano mediati dall’inibizione della COX-2, mentre gli eventi avversi sono stati associati all’inibizione della COX-1.
Questo ha portato allo sviluppo di inibitori della COX-2
specifici, i COXIB, che avevano mostrato minori complicanze gastrointestinali rispetto agli inibitori non selettivi
(34-36). Successivamente però revisioni sistematiche e
meta-analisi hanno inequivocabilmente dimostrato che i
COXIB hanno sì una minore gastrolesività rispetto ai FANS
non selettivi, ma sono gravati da un maggiore rischio cardiovascolare (16, 37). Il rischio cardiovascolare dei COXIB
è causato proprio dalla loro azione sulla COX-2, enzima
coinvolto nell’omeostasi vascolare, la cui inibizione determina un’azione protrombotica; l’inibizione della COX-2
abbassa i livelli di prostaciclina, inibitore piastrinico e vasodilatatore, e la mancata inibizione di COX-1 determina
una produzione continua di trombossano A-2, noto per
promuovere l’aggregazione piastrinica (16). L’azione cardiotossica degli inibitori selettivi della COX-2 ha portato
al ritiro dal commercio di rofecoxib (38). Inoltre ha introdotto particolari restrizioni terapeutiche per etoricoxib (27)
che ora è controindicato in pazienti con una persistente
ipertensione superiore a 140/90 mmHg, per l’aumentato
rischio di sviluppare ipertensione.
Tornando ai FANS non selettivi, oltre alle note complicanze
gastrointestinali che includono sintomi lievi come dispepsia,
ma anche gravi eventi avversi come ulcere complicate e pericolosi sanguinamenti (39-41), diversi studi ne hanno mostrato un profilo di tollerabilità che li rendono inappropriati in
alcuni casi addirittura nell’impiego nel dolore acuto, e sicuramente nell’utilizzo a lungo termine, a prescindere dall’età
del paziente (42, 43). L’azione di inibizione della COX-2 conferisce anche ai FANS non selettivi un’azione protrombotica,
con aumento del rischio cardiovascolare (16). Studi epidemiologici hanno mostrato infatti come la cardiotossicità di
tale classe di farmaci sia paragonabile a quella dei COX-2
selettivi, con un aumentato rischio di ipertensione arteriosa,
insufficienza cardiaca congestizia, angina, infarto e ictus (17,
18). Studi clinici nati con l’obiettivo di indagare la relazione
tra utilizzo di FANS e insufficienza cardiaca hanno mostrato
un aumento di ospedalizzazione per insufficienza cardiaca
nei pazienti in trattamento con tale classe di farmaci. Oltre
agli eventi avversi cardiovascolari, i FANS sono associati a
tossicità renale, dalla nefrite interstiziale all’insufficienza renale acuta (14, 15). Il problematico profilo di tollerabilità dei
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FANS ha portato le Autorità regolatorie di alcuni paesi, tra cui
la FDA statunitense, ad emanare dei warning su tale classe
di farmaci. In Italia, l’AIFA con la nota 66 ha fatto il punto sui
rischi dei FANS limitandone l’impiego sia dal punto di vista
della durata del trattamento, sia in base alla patologia e alla
tipologia di paziente (17). Nel dettaglio, la nota 66 dell’AIFA
(27) limita l’utilizzo dei FANS soltanto ad artropatie su base
connettivitica, osteoartrosi in fase algica o infiammatoria, dolore neoplastico e attacco acuto di gotta. Secondo la nota, i
FANS devono essere utilizzati con cautela negli anziani per
il rischio di eventi avversi anche fatali, nelle donne in gravidanza, durante l’allattamento, e nei soggetti che hanno difetti della coagulazione. L’impiego a lungo termine di alcuni
FANS può addirittura determinare la riduzione della fertilità
nelle donne. Naturalmente i FANS vanno utilizzati con cautela nei pazienti con insufficienza renale e non devono essere
impiegati in soggetti con scompenso cardiaco. In merito alla
durata del trattamento, nella nota 66 dell’AIFA viene chiaramente indicato che il limite massimo di utilizzo dei FANS
è di 3 settimane. Da quanto illustrato appare chiaro come
i FANS non siano un’opzione terapeutica appropriata per il
trattamento del dolore cronico.
Per quanto riguarda il paracetamolo, per anni è stato
considerato l’opzione di prima scelta per il dolore lieve e
moderato (44). Le nuove evidenze scientifiche offuscano
il buon profilo di tollerabilità attribuito al farmaco per decenni. Il paracetamolo, essendo un inibitore della ciclossigenasi, può causare eventi avversi gastrointestinali, tra
cui dispepsia, diarrea, aumento della pressione arteriosa e
sanguinamento gastrointestinale con riduzione dei livelli di
emoglobina (24, 25). Inoltre, sovradosaggi di paracetamolo sono stati associati a un rischio elevato di insufficienza
epatica cronica (45).
Gli oppiacei deboli, altra classe di farmaci compresa nella
WHO’s pain ladder per il trattamento del dolore cronico,
sono analgesici dotati di una buona efficacia antalgica, anche se lo stesso controllo del dolore può essere raggiunto
con basse dosi di oppiacei forti, come dimostrano diversi
studi (19-21). Inoltre, come anticipato precedentemente, la
loro durata è limitata nel tempo e tale elemento, insieme
all’effetto tetto (condiviso peraltro con FANS e paracetamolo) determina sovente il passaggio al trattamento con
oppiacei forti.
Vanno inoltre considerati alcuni dati farmacocinetici di
codeina che potrebbero sconsigliarne l’uso nei pazienti con patologie renali: l’effetto analgesico della codeina
si esercita mediante metabolizzazione a livello epatico a
morfina e circa il 10%-15% dei pazienti caucasici sono
poor metabolizer, quindi l’efficacia del farmaco è scarsa o
assente, mentre il 2% dei pazienti della stessa etnia sono
ultrarapid metabolyzer, con il rischio di overdose di morfina
(46). Il suggerimento riportato dalle Linee guida AIOM ed
ESMO di saltare il II gradino della scala WHO, ossia il trattamento con oppiacei deboli, passando direttamente agli
oppiacei forti, è oggi suffragato da warning sia dell’AIFA
che dell’EMA. I comunicati emanati da EMA e AIFA, oltre
a vietare l’impiego di medicinali contenenti codeina nei
bambini sotto i 12 anni di età e nelle donne che allattano,
raccomandano di utilizzare tali medicinali alla dose minima
efficace e per il più breve tempo possibile; inoltre, sia negli
adulti che nei bambini, non devono essere utilizzati in pazienti metabolizzatori CYP2D6 ultrarapidi.
Gli oppiacei forti nel dolore cronico benigno
Il riconoscimento da parte delle Linee guida internazionali dell’anacronismo della scala WHO, avvenuto quasi
trent’anni dopo la sua elaborazione e quindi in estremo ritardo rispetto all’incalzare delle evidenze scientifiche, ha
decretato gli oppiacei forti come opzione terapeutica di
riferimento nel trattamento del dolore cronico (11-13). Se
al suggerimento delle Linee guida dell’AIOM di saltare il
II gradino della WHO’s pain ladder, intervenendo precocemente con basse dosi di oppiacei forti, si aggiungono
le acquisizioni sui rischi correlati ai farmaci del I gradino,
FANS e paracetamolo, appare ancora più evidente il ruolo
centrale che oggi e negli anni a venire avranno gli oppiacei
forti nella gestione del dolore cronico (14-18, 24, 25, 3941, 45).
Per tale ragione è opportuno fare chiarezza su alcuni elementi farmacodinamici, farmacocinetici e farmacologici in
generale che fanno degli oppiacei forti una classe di analgesici molto eterogenea (11, 13, 47, 48).
L’accurata valutazione di tali aspetti, insieme alla tipologia
di dolore e alle caratteristiche del paziente sono essenziali
per scelte terapeutiche responsabili.
In Italia gli oppiacei forti sono rappresentati da morfina, ossicodone, idromorfone, fentanyl, metadone e buprenorfina.
La morfina è stata considerata per lungo tempo il gold
standard nel trattamento del dolore cronico, sebbene non
esistano studi comparativi che abbiano decretato la superiorità di un oppiaceo forte rispetto a un altro. Se invece si
considerano i profili recettoriali di morfina e ossicodone,
quest’ultimo sembrerebbe avere dei vantaggi rispetto alla
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Gestione del dolore cronico e appropriatezza terapeutica
morfina, poiché questa molecola ha un’attività preferenziale per i recettori Mu, mentre ossicodone ha affinità per i
recettori Mu, Kappa e Delta (32) (vedi anche schede tecniche di targin e morfina).Tale diversità potrebbe svolgere
un ruolo importante nella loro azione antalgica. Sebbene il
recettore Mu sia quello più studiato, è stato recentemente
dimostrato che anche i recettori Kappa e Delta hanno un
ruolo importante nel controllo del dolore e vi sono addirittura evidenze recenti di un’aumentata funzione del recettore Delta nel dolore cronico (49, 50). Un altro dato che
potrebbe propendere a favore della maggiore efficacia di
ossicodone rispetto a morfina specificatamente nel dolore
viscerale è data dalla dimostrazione in modelli sperimentali
che gli oppiacei che agiscono sui recettori Kappa hanno
una maggiore efficacia nel dolore con localizzazione viscerale, come nel caso dell’endometriosi (51).
Nonostante queste evidenze, soprattutto a livello sperimentale, non vi sono al momento chiare indicazioni a
livello clinico sulla scelta dell’oppiaceo forte in base alle
caratteristiche farmacologiche, tuttavia la conferma di
tali evidenze in ulteriori studi potrebbe orientare le scelte
prescrittive.
Vi sono inoltre da tener presente alcune possibili caratteristiche genetiche del paziente che potrebbero avere
una ricaduta sugli effetti degli oppioidi. Esistono infatti
varianti geniche germinali (polimorfismi) sia per i recettori
degli oppioidi che per enzimi deputati al loro trasporto e
metabolismo che potrebbero influenzare la distribuzione
e l’azione farmacologica degli agonisti. Anche in questo
caso non vi sono sufficienti evidenze cliniche a supporto
di questi dati e sono necessari studi clinici che includono
questo tipo di analisi per poter eventualmente indirizzare un tipo di terapia in base alle caratteristiche farmacologiche dell’oppioide e alle caratteristiche genetiche del
paziente.
Altre considerazioni di carattere farmacologico specifiche
per ciascun oppiaceo potrebbero influenzare l’efficacia e
la tollerabilità dei vari oppiacei forti ed essere quindi importanti per orientare le scelte terapeutiche. Per esempio,
la morfina viene modificata per glucuronidazione a due
metaboliti, 6-glucoronide (M6G, morphine-6-glucuronide),
e 3-glucouronide (M3G, morphine-3-glucuronide) che vengono escreti per via renale. In caso di insufficienza renale
i due metaboliti possono accumularsi, quindi morfina non
andrebbe somministrata in pazienti con insufficienza renale (52). M3G, a differenza di M6G non ha attività analgesica, ma ha mostrato un’azione neuroeccitatoria in modelli
24
animali ed è stato ipotizzato possa essere la causa degli
eventi avversi quali allodinia, mioclono e convulsioni negli
esseri umani.
Anche l’idromorfone possiede una farmacocinetica che
potrebbe esporre il paziente a possibili rischi: il farmaco
viene convertito a idromorfone-3-glucuronide (H3G), un
metabolita attivo dotato di un’attività neuroeccitatoria superiore al metabolita M3G di morfina e, quindi responsabile degli stessi eventi avversi (48).
A tale riguardo, recentemente è stato svolto uno studio
prospettico della durata di 4 mesi in pazienti ospedalizzati
in trattamento con idromorfone con l’obiettivo di valutare l’incidenza di hydromorphone-induced neuroexcitation
(HINE). Dai risultati sembrerebbe che la probabilità di sviluppare HINE aumenta con l’innalzamento dell’età del paziente, con dosi di farmaco elevate e con l’aumento della
creatinina sierica (47).
Sempre una caratteristica farmacocinetica, l’emivita plasmatica, può essere una guida nella scelta dell’oppiaceo
forte. Le linee guida AIOM ed ESMO suggeriscono di preferire gli oppiacei a emivita breve o intermedia (morfina e
ossicodone) a quelli a emivita lunga come idromorfone o
molto lunga, come fentanil, buprenorfina e metadone. In
particolare, quest’ultimo, per via dell’emivita imprevedibilmente lunga, deve essere utilizzato soltanto da professionisti esperti.
Per quanto riguarda gli oppioidi transdermici fentanil e
buprenorfina, le linee guida raccomandano di utilizzarli solo in alternativa agli oppiacei forti per via orale in
presenza di difficoltà nella deglutizione, in condizioni di
subocclusione/occlusione intestinale o difficoltà nella
minzione (11).
Tornando alla farmacodinamica, l’evento avverso più frequente e persistente nel tempo degli oppiacei forti, la
Opioid-induced bowel dysfunction (OIBD), è dovuto all’azione di agonismo esercitata sui recettori intestinali Mu degli oppioidi.
A tale riguardo, le linee guida AIOM ed ESMO raccomandano l’impiego profilattico di lassativi, che però non
sono sempre efficaci e suggeriscono di prendere in considerazione l’associazione di naloxone a ossicodone per
prevenire la stipsi. La disponibilità oggi della formulazione
ossicodone/naloxone a dose fissa, che associa l’agonista
oppiaceo ossicodone attivo a livello centrale e periferico
con l’antagonista naloxone, attivo solo a livello intestinale, consente di usufruire dell’efficacia di un oppiaceo forte
senza gli eventi avversi gastrointestinali.
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Formulazione ossicodone/naloxone: efficacia e
tollerabilità a lungo termine
La formulazione orale a dose fissa ossicodone/naloxone
(OXN) è stata messa a punto con l’intento di rispondere
all’esigenza di avere a disposizione un analgesico dotato
di comprovata efficacia antalgica e privo dell’evento avverso più frequente e temuto correlato agli oppiacei, la
Opioid-induced bowel dysfunction (OIBD). Tale condizione
interessa il 50% dei pazienti in trattamento con oppiacei
in oncologia ed è particolarmente persistente con un impatto negativo sulla qualità di vita del paziente. Infatti, a
differenza degli altri eventi avversi, per la OIBD non si instaura tolleranza, con il risultato di una scarsa aderenza al
trattamento o addirittura della sua interruzione. Per risolvere la OIBD da oppiacei, come anticipato, le Linee guida
raccomandano l’impiego profilattico dei lassativi, che però
non agendo direttamente sul meccanismo responsabile
della stipsi indotta dagli oppiacei, non sono sempre efficaci. Addirittura più del 50% dei pazienti in trattamento con
oppiacei a cui vengono somministrati lassativi continuano
a soffrire di stipsi (31, 53).
Dal punto di vista farmacodinamico, ossicodone è un agonista oppiaceo che agisce sui recettori Mu, Delta e Kappa
sia a livello centrale che periferico, naloxone è al contrario
un antagonista oppiaceo attivo sui recettori Mu localizzati
a livello intestinale (32) (vedi anche scheda tecnica di targin). L’azione selettiva di naloxone nell’intestino è dovuta
all’effetto di primo passaggio epatico in seguito a somministrazione orale che riduce la biodisponibilità sistemica a
un valore inferiore al 3% (54). La presenza, quindi, in un’unica unità posologica di ossicodone e naloxone consente
di bloccare selettivamente i recettori degli oppiacei a livello
gastrointestinale, senza compromettere l’azione analgesica a livello centrale.
I vantaggi terapeutici della formulazione ossicodone/naloxone a rilascio prolungato nel controllo del dolore di varia
eziologia sono sostenuti da robuste evidenze cliniche, che
non solo ne hanno provato l’efficacia, ma anche il vantaggioso profilo di tollerabilità a lungo termine in real world (3133). In particolare, diversi studi di fase 3 condotti su pazienti con dolore moderato-severo non oncologico hanno
dimostrato che la formulazione ossicodone naloxone ha
un’efficacia non inferiore al solo ossicodone, con il vantaggio, rispetto a quest’ultimo di prevenire la stipsi, favorendo
l’aderenza al trattamento e migliorando la qualità di vita del
paziente (55-60). Di questi, vanno segnalati cinque studi
randomizzati controllati che hanno valutato in totale circa
1500 pazienti (55, 57-60). Tutti e cinque gli studi hanno mostrato chiaramente che l’aggiunta di naloxone non modifica
l’effetto di riduzione del dolore associato al trattamento con
ossicodone e il dato è inequivocabile, considerando la numerosità del campione analizzato e il fatto che sia stato ottenuto in studi randomizzati. Va inoltre sottolineato che altri
studi osservazionali hanno dato gli stessi risultati (61). A tal
proposito occorre sottolineare come in molti degli studi citati, oltre all’efficacia e alla tollerabilità, sia stato valutato anche il miglioramento della qualità di vita del paziente dovuto
all’efficacia antalgica priva di eventi avversi gastrointestinali. In particolare, in uno studio multicentrico in real world,
compiuto su quasi 8000 pazienti con dolore cronico di varia
eziologia, è stato dimostrato, in seguito trattamento con la
formulazione ossicodone/naloxone, un miglioramento in diversi aspetti della vita quotidiana: svolgimento delle attività
in generale, umore, abilità a camminare, attività lavorativa,
relazioni sociali e qualità del sonno (33).
Per le caratteristiche sopra indicate, come anticipato nel
paragrafo precedente, la formulazione ossicodone/naloxone, anche se indirettamente, è “raccomandata” dalle stesse
Linee guida AIOM che suggeriscono di associare naloxone
a ossicodone nel trattamento del dolore cronico oncologico
per prevenire la stipsi e migliorare l’aderenza e quindi l’efficacia della terapia antalgica. Un altro punto di forza della formulazione ossicodone/naloxone è la sua efficacia nel
dolore, a prescindere dall’eziologia. Questo elemento rende
la formulazione estremamente versatile in ogni tipologia di
dolore. In particolare, va segnalato uno studio recente (62)
che ha valutato l’efficacia e la tollerabilità di ossicodone/
naloxone nel dolore neuropatico cronico, che come è noto
è associato a diverse patologie, tra cui l’endometriosi. Dallo studio è emersa una riduzione del dolore in generale e
in particolare un aumento della percentuale di pazienti che
non riportavano dolore nelle ore notturne dal 13,5% a inizio trattamento al 45,1% dopo 4 settimane di trattamento.
Questo studio, che ribadisce la nota efficacia di ossicodone/
naloxone nel dolore neuropatico, suggerisce l’appropriatezza del suo impiego nell’endometriosi, malattia in cui il dolore
è causato principalmente da un danno nervoso in seguito
alla compressione da parte delle cisti endometriosiche o dal
coinvolgimento di strutture nervose inglobate nel tessuto cicatriziale endometriosico.
Per quanto riguarda il trattamento del dolore cronico
nell’endometriosi non sono ancora disponibili risultati di
studi sulla formulazione ossicodone/naloxone, anche se
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Gestione del dolore cronico e appropriatezza terapeutica
sono invece disponibili i dati di uno studio compiuto su
pazienti con endometriosi trattate con la formulazione in
fase preoperatoria (63).
Nello studio, condotto su 56 pazienti che dovevano sottoporsi ad intervento laparoscopico per endometriosi da
moderata a severa, la formulazione ossicodone/naloxone
somministrata 24, 12 e 1 ora prima dell’intervento chirurgico ha significativamente ridotto la necessità di una terapia antalgica post operatoria in 45 pazienti, che non hanno
necessitato di alcun trattamento supplementare nelle successive 36 ore. Inoltre, la somministrazione pre-operatoria
non ha determinato la comparsa di effetti indesiderati, a
riprova del vantaggioso profilo di tollerabilità della formulazione (64).
Conclusioni
Secondo la comunità scientifica e la WHO, per appropriatezza terapeutica si intende l’istituzione di un trattamento i cui benefici superino gli effetti collaterali dello stesso,
senza considerazioni economiche. Quindi, affinché vi sia
appropriatezza, non si può prescindere da due concetti
chiave: efficacia e tollerabilità, che nel caso di malattie croniche diventa tollerabilità a lungo termine.
Nel trattamento del dolore cronico sono comunemente utilizzate opzioni terapeutiche quali FANS, COXIB, paracetamolo, probabilmente più per retaggi culturali che in base
alle evidenze scientifiche. Evidenze che hanno persino
portato a provvedimenti restrittivi e al ritiro dal mercato di
alcuni di questi farmaci da parte delle Autorità regolatorie
di diversi Paesi.
Tra gli oppiacei forti, la formulazione a dose fissa ossicodone/naloxone, invece, ben risponde ad entrambi i
requisiti di efficacia e tollerabilità che definiscono l’appropriatezza terapeutica. Se a questo si aggiunge la
comprovata efficacia di ossicodone/naloxone nel dolore
neuropatico cronico che spesso accompagna l’endometriosi, appare evidente come la formulazione sia un
valido strumento terapeutico nella gestione del dolore
correlato alla patologia.
Per meglio definire il dolore cronico la World Health Organization (WHO) ha coniato l’espressione di “dolore globale”
perché non si tratta di una semplice estensione del dolore acuto, ma di una malattia che interferisce anche con
la sfera psicologica e relazionale del paziente, con la sua
abilità lavorativa, ed ha quindi prevedibili ricadute sociali
ed economiche.
Il trattamento del dolore cronico con farmaci inappropriati
si tradurrebbe in ulteriori costi sanitari correlati alla morbilità a lungo termine.
Dichiarazione di conflitto di interessi
Gli Autori dichiarano di non avere conflitto di interessi.
Mario Malzoni
[email protected]
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© 2013 Wichtig Editore - ISBN 978-88-7321-038-2

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