i patti parasociali occulti tra opa obbligatoria e tutela dell`investimento

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i patti parasociali occulti tra opa obbligatoria e tutela dell`investimento
UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE DI MILANO
Dottorato di Ricerca in Diritto Commerciale Interno e Internazionale
Ciclo XXV
S.S.D.: IUS/04
I PATTI PARASOCIALI OCCULTI
TRA OPA OBBLIGATORIA
E TUTELA DELL’INVESTIMENTO
Tesi di Dottorato di:
Simone LEGNANI
Matr. N° 3811951
Anno Accademico 2011/2012
UNIVERSITA’ CATTOLICA DEL SACRO CUORE
MILANO
Dottorato di Ricerca
in Diritto Commerciale Interno e Internazionale
Ciclo XXV
S.S.D.: IUS/04
I patti parasociali occulti
tra opa obbligatoria e tutela dell’investimento
Coordinatore: Ch.mo Prof. Duccio Regoli
Tesi di Dottorato di: Simone Legnani
Matricola: 3811951
Anno Accademico 2011/2012
Indice
Pag.
Capitolo I
La trasparenza dei patti parasociali:
rapporti tra fattispecie e profili di disciplina
1. Precedenti storici in tema di trasparenza e piano dell’indagine.
2. La trasparenza dei patti parasociali nella disciplina codicistica e nel
T.U.F.: rapporti tra fattispecie.
3. Segue: il requisito della stabilizzazione degli assetti proprietari o del
governo della società: significato e portata applicativa.
4. Segue: la natura del requisito della stabilizzazione degli assetti
proprietari o del governo della società tra interpretazioni
“soggettivistiche” e “oggettivistiche”.
5. Ulteriori problemi di interpretazione delle fattispecie: la rilevanza dei
patti a carattere occasionale e di quelli conclusi in vista di singole
assemblee.
6. Segue: l’obbligo di pubblicità dei c.d. gentlemen’s agreements.
7. Profili di disciplina dell’art. 2341-ter c.c.: i poteri degli organi sociali
in caso di omessa pubblicità dei patti e il patto occulto stipulato nella
società controllante una s.p.a. “aperta”.
8. Conseguenze della mancata pubblicità dei patti stipulati nella società
controllante una società con azioni quotate.
9. La trasparenza delle modifiche e il rinnovo tacito non pubblicizzato
dei patti parasociali rilevanti.
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Capitolo II
I patti parasociali occulti
tra opa obbligatoria e problema della prova
Sezione I - Patti parasociali occulti, azione di concerto e opa obbligatoria
1. Inquadramento normativo: gli artt. 101-bis e 109 T.U.F. e la
fattispecie dell’azione di concerto.
2. L’accordo “volto ad acquisire, mantenere o rafforzare il controllo
della società emittente” (o a contrastare il conseguimento degli
obiettivi di un’offerta pubblica di acquisto o di scambio).
3. Il patto parasociale (anche nullo) quale presunzione di concerto: i
limiti di rilevanza del c.d. conscious parallelism.
4. Il fenomeno del controllo nella nozione di azione concertata:
ammissibilità di una prova liberatoria.
5. Segue: possibili obiezioni all’ammissibilità della prova liberatoria e
loro critica.
6. Segue: ulteriori profili di rilevanza dello scopo di acquisire,
mantenere o rafforzare il controllo della società (o di contrastare il
conseguimento degli obiettivi di un’offerta pubblica di acquisto o di
scambio).
7. Il valore dei gentlemen’s agreements nella disciplina del concerto e
dell’opa obbligatoria.
8. La successione temporale dei due presupposti dell’opa obbligatoria:
l’acquisto di azioni e la stipulazione del patto parasociale.
9. Segue: accertamento dei patti parasociali occulti e permanenza delle
condotte attuative; la rilevanza dei patti a carattere occasionale.
10. Modifiche occulte dei patti parasociali ed effetti della risoluzione del
patto sull’obbligo di offerta.
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Sezione II - Profili concernenti la prova dei patti parasociali occulti
11. La prova per presunzioni dei patti parasociali mantenuti segreti:
principi generali.
12. Segue: prova dell’esistenza dei patti parasociali e principio
dell’apparenza giuridica.
13. Segue: i patti parasociali occulti tra negozi indiretti e simulazione.
14. Segue: il ruolo dei derivati nell’accertamento di un patto parasociale
occulto e la recente casistica.
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Capitolo III
I patti parasociali occulti
nella prospettiva dei rimedi:
le tutele dei soci estranei e degli investitori
1. Il successivo sviluppo della trattazione.
2. La responsabilità da mancata opa: natura e danno risarcibile.
3. Il patto parasociale occulto come ipotesi di informazione privilegiata
non rivelata al mercato.
4. Il rapporto tra la responsabilità da mancata opa e la responsabilità
civile da insider trading a fronte della scoperta di un patto occulto.
5. L’insider trading da patto occulto tra responsabilità risarcitoria e
applicabilità di rimedi contrattuali.
6. I patti parasociali occulti come ipotesi di aggiotaggio.
7. Patti parasociali occulti e (semplice) responsabilità per omessa
informazione.
8. La responsabilità da mancata disclosure dei patti parasociali nelle
società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio.
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Indice delle opere citate
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Capitolo I
La trasparenza dei patti parasociali:
rapporti tra fattispecie e profili di disciplina
Sommario: 1. Precedenti storici in tema di trasparenza e piano dell’indagine. - 2. La trasparenza
dei patti parasociali nella disciplina codicistica e nel T.U.F.: rapporti tra fattispecie. - 3. Segue: il requisito
della stabilizzazione degli assetti proprietari o del governo della società: portata applicativa e significato.
- 4. Segue: la natura del requisito della stabilizzazione degli assetti proprietari o del governo della società
tra interpretazioni “soggettivistiche” e “oggettivistiche”. - 5. Ulteriori problemi di interpretazione delle
fattispecie: la rilevanza dei patti a carattere occasionale e di quelli conclusi in vista di singole assemblee. 6. Segue: l’obbligo di pubblicità dei c.d. gentlemen’s agreements.- 7. Profili di disciplina dell’art. 2341ter c.c.: i poteri degli organi sociali in caso di omessa pubblicità dei patti e il patto occulto stipulato nella
società controllante una s.p.a. “aperta”. - 8. Conseguenze della mancata pubblicità dei patti stipulati nella
società controllante una società con azioni quotate. - 9. La trasparenza delle modifiche e il rinnovo tacito
non pubblicizzato dei patti parasociali rilevanti.
1. Precedenti storici in tema di trasparenza e piano dell’indagine.
Come è noto, gli studi aventi ad oggetto i patti parasociali si sono concentrati per
diversi decenni attorno al problema della loro validità.1
In assenza di norme generali che disciplinassero questo fenomeno - che, peraltro,
veniva a diffondersi in maniera crescente nella realtà delle imprese societarie italiane 2 una funzione di regolamentazione era svolta dalle diverse leggi speciali che si
susseguivano nel corso degli anni, le quali, tuttavia, lungi dall’adottare un approccio
sistematico, si limitavano a dettare disposizioni di carattere settoriale, strettamente
funzionali alla materia che le stesse normative specifiche avevano ad oggetto.
1
Per una panoramica del dibattito portato avanti nel passato dalla dottrina, si vedano in particolare G.
ROSSI, Le diverse prospettive dei sindacati azionari nelle società quotate e in quelle non quotate, in Riv.
soc., 1991, 1353 ss.; LIBONATI, Riflessioni critiche sui sindacati di voto, in Riv. dir. comm., 1989, I, 513
ss.; JAEGER, Il problema delle convenzioni di voto, in Giur. comm., 1989, I, 201 ss.; VISENTINI, I
sindacati di voto: realtà e prospettive, in Riv. soc., 1988, 1 ss.; SALANITRO, Il regime dei sindacati
azionari, in Riv. soc., 1988, 743 ss.; OPPO, Le convenzioni parasociali tra diritto delle obbligazioni e
diritto delle società, in Riv. dir. civ., 1987, I, 517 ss.; FARENGA, I contratti parasociali, Milano, 1987;
ID., Sindacati di voto, sindacati di blocco e poteri della Consob in ordine alla trasparenza del mercato
azionario, nota a Pret. Roma, 19 luglio 1986 (decr.), in Riv. dir. comm., 1986, II, 470 ss.; UBERTAZZI,
Sindacati azionari e attività d’impresa, in Dir. banca e merc. fin., 1987, 211 ss; SANTONI, Patti
parasociali, Napoli, 1985; nonché i più antichi lavori di COTTINO, Le convenzioni di voto nelle società
commerciali, Milano, 1958, e di OPPO, Contratti parasociali, Milano, 1942.
2
Sul punto RORDORF, I sindacati di voto, in Società, 2003, 20.
4
Dottrina e giurisprudenza avevano dato vita, dunque, ad ampie discussioni circa
l’ammissibilità in via generale degli accordi parasociali nel nostro ordinamento e, più
specificamente, in merito alle condizioni di validità dei medesimi.3
Non è questa, naturalmente, la sede per ripercorrere i termini di tale (sin troppo
noto, del resto) dibattito4; quel che qui interessa sottolineare, invece, è che non di rado
gli interpreti già si curavano di mettere in evidenza la centralità della trasparenza di tali
accordi e l’importanza di una compiuta informazione della compagine sociale e del
mercato in ordine alla loro esistenza e al loro contenuto, affinché divenisse possibile
valutare la loro incidenza sugli aspetti di maggior rilievo della vita e del governo delle
società, specialmente quotate: proprio questo profilo veniva spesso individuato quale
condizione per il riconoscimento della stessa validità dei patti parasociali.5 Analoga
esigenza era stata avvertita anche dalla Consob allorché, con le tre note circolari della
prima metà degli anni ottanta, aveva posto l’urgenza del tema della disclosure dei patti
parasociali.6
3
E’ risaputo, inoltre, che l’attenzione degli interpreti si soffermava in modo particolare sui sindacati di
voto: in argomento, v. ad esempio, COTTINO, Anche la giurisprudenza canonizza i sindacati di voto?,
nota a Cass. 20 settembre 1995, n. 9975, in Giur. it., 1996, I, 1, 164 ss., il quale, dopo parecchi anni di già
intenso dibattito, evidenziava che la riflessione sulla validità delle convenzioni di voto avrebbe dovuto
misurarsi con le regole in tema di contratti e di società, ancora interrogandosi sull’esistenza di “qualche
paletto discriminatorio tra lecito ed illecito”. La citata sentenza, che si occupava della validità dei
sindacati di voto a tempo indeterminato aventi ad oggetto le modalità di nomina di amministratori e
sindaci, era stata pubblicata anche in Giur. comm., 1997, II, 50 ss., con commenti di BUONOCORE,
CALANDRA BUONAURA (Sindacati di voto e durata indeterminata), CORSI, COSTI, GAMBINO
(Tutela delle minoranze e ragioni dell’impresa nei sindacati di voto) e JAEGER.
4
Sul tema della validità dei sindacati di voto è di recente intervenuta Cass. 18 luglio 2007, n. 15693,
pubblicata in parte in Giur. it., 2007, IV, 2754 ss., con nota di COTTINO, Patti parasociali: la
Cassazione puntualizza (ibidem, 2756 ss.).
5
Si vedano, in giurisprudenza, Trib. Milano, 28 marzo 1990 (ord.), pubblicata in Giur. comm., 1990, II,
786 ss., con nota di FARENGA, Ancora in tema di validità dei sindacati di voto: tale pronuncia
affermava espressamente che condizione per il riconoscimento della validità dei sindacati di voto doveva
ritenersi la loro pubblicità e, al contempo, riteneva tale obbligo di comunicazione esteso a tutti i patti
parasociali, in virtù dell’esigenza di informare i soci attuali e potenziali. Critico nei confronti di tale
posizione era però FARENGA, op. ult. cit., il quale, pur auspicando un intervento del legislatore che
imponesse precisi obblighi pubblicitari, contestava l’idea che la sanzione applicabile in caso di patto
mantenuto segreto dovesse collocarsi sul piano della validità dello stesso. V. inoltre G. ROSSI, Le diverse
prospettive, cit., 1365, ove si stabiliva un preciso collegamento tra la validità e l’efficacia degli accordi
parasociali, da un lato, e l’osservanza del principio della trasparenza, dall’altro; LIBONATI, Sindacato di
voto e gestione d’impresa, in Riv. dir. comm., 1991, I, 114-115; SALANITRO, op. cit., 755, che
auspicava precise forme di pubblicità dei sindacati di voto, tra cui “il deposito dei testi degli accordi
parasociali presso la sede sociale”; JAEGER, Il problema, cit., 206 e 259: l’A. osservava che
l’atteggiamento di chiusura mostrato da coloro che si opponevano al riconoscimento della validità dei
patti parasociali finiva per agevolare il mantenimento della loro segretezza; analog. VISENTINI, op. cit.,
15; FARENGA, I contratti parasociali, cit., 358 ss., il quale, da un lato sottolineava con vigore l’esigenza
informativa che nasce, specialmente nelle società quotate, intorno ad un patto parasociale e, dall’altro,
prospettava una responsabilità anche degli organi sociali in caso di mancata comunicazione alla Consob,
salva la prova dell’effettiva ignoranza del patto; cfr. anche ID., Sindacati di voto, cit., 480 ss. Più in
generale, le diverse esigenze di trasparenza degli assetti proprietari nelle società quotate erano state già
messe in evidenza da D’ALESSANDRO, La “trasparenza” della proprietà azionaria e la legge di
riforma della Consob, in Giur. comm., 1986, I, 327 ss.; e, ancor più diffusamente, da LIBONATI, La
“quarta” Consob, in Riv. soc., 1985, 433 ss.
6
La Consob, con questi tre diversi interventi, aveva esplicitato quali dovessero essere gli obblighi di
trasparenza dei patti parasociali: con la Circolare 12 marzo 1981, n. 81/02348 (pubblicata in Riv. soc.,
1981, 245 ss.), si era riservata il potere di richiedere tra l’altro, in mancanza di adempimento spontaneo,
informazioni circa l’esistenza di sindacati di voto; con la Comunicazione 13 gennaio 1983, n. 83/00350
5
Eccettuato qualche isolato e antesignano caso7, si può dire che una vera e propria
presa di coscienza dell’importanza del tema da parte del legislatore si sia avuta soltanto
all’inizio degli anni novanta: il pensiero corre, in primo luogo, alla previgente disciplina
in materia di OPA8 e, poco dopo, al Testo Unico Bancario (d. lgs. n. 385/1993), il quale
prevedeva (e tuttora prevede) obblighi di comunicazione alla Banca d’Italia di
particolari tipi di accordi conclusi tra i soci.
Si è dovuto attendere l’avvento del Testo Unico Finanziario (d. lgs. n. 58/1998),
tuttavia, per assistere all’introduzione di norme di portata generale (per quanto,
naturalmente, riferite alle sole s.p.a. quotate), volte a disciplinare quelli che tuttora
appaiono i due pilastri della disciplina dei patti parasociali, ossia la pubblicità e i limiti
di durata degli accordi, prevedendo espressamente la nullità degli accordi mantenuti
segreti e, dunque, adottando un’impostazione che già era stata auspicata da parte della
dottrina.9
La legge delega 3 ottobre 2001, n. 366 per la riforma del diritto societario, poi,
sancendo definitivamente la necessità di scongiurare la segretezza dei patti parasociali,
aveva imposto al legislatore delegato [art. 4, comma 7, lett. c)] di “prevedere una
disciplina dei patti parasociali, concernenti le società per azioni o le società che le
controllano, che [...] ne assicuri il necessario grado di trasparenza attraverso forme
adeguate di pubblicità.” Sulla falsariga del T.U.F., la riforma del diritto societario ha
dunque inserito nel codice civile gli art. 2341-bis e 2341-ter, rubricati rispettivamente
“Patti parasociali” e “Pubblicità dei patti parasociali”, che, come si vedrà nel prosieguo,
sollevano però delicati problemi di coordinamento con la normativa dettata in tema di
società quotate.10
(pubblicata in Riv. soc., 1983, 322 ss.), aveva precisato che la dichiarazione concernente i sindacati di
voto dovesse “essere resa anche nell’ipotesi di insussistenza o di mancata conoscenza”; con la
Comunicazione 11 aprile 1985, n. 85/07191 (pubblicata in Riv. soc., 1985, 315 ss.), aveva esteso gli
obblighi di comunicazione circa l’esistenza, la mancata conoscenza o l’insussistenza degli accordi anche
ai sindacati di blocco, prescrivendo la relativa dichiarazione in assemblea e il suo inserimento a verbale.
Perplesso nei riguardi delle circolari della Consob era OPPO, Le convenzioni, cit., 529, per il fatto che
esse avevano esteso l’obbligo di comunicazione dei patti parasociali oltre i limiti segnati dalla legge
sull’editoria (l. 416/1981).
7
Si veda, ad esempio, l’art. 2 l. 416/1981 (legge sull’editoria), che imponeva la comunicazione
dell’esistenza dei sindacati di voto nelle società appartenenti al settore.
8
La l. n. 149/1992 in materia di OPA (sulla quale si veda anche infra, cap. II), all’art. 10 stabiliva che
“ogni accordo tra soci in merito all’esercizio dei diritti inerenti alle azioni e al trasferimento delle stesse
deve essere comunicato alla Consob entro quarantotto ore dalla data di stipulazione” (ciò sebbene ai fini
dell’obbligo di lancio dell’OPA assumessero rilievo unicamente i sindacati di voto: sul punto SBISA’,
Patto di sindacato e OPA, in Contr. e impr., 1992, 655-656, ove ulteriori riferimenti; COSTI, I sindacati
di blocco e di voto nella legge sull’OPA, in Banca, borsa, tit. cred., 1992, I, 472 ss.).
9
Cfr. ad esempio CERRAI-MAZZONI, La tutela del socio e delle minoranze, in Riv. soc., 1993, 65, ben
avvertiti del fatto che il patto mantenuto segreto comporta “disinformazione del mercato su un elemento
di indubbia rilevanza ai fini della valutazione della convenienza o meno di investire nei titoli di quella
società”; analog. COTTINO, Il D. L. 24 febbraio 1998, n. 58. Il nuovo regime delle società quotate:
prime considerazioni, in Giur. it., 1998, 1297. Per una sintesi dei precedenti normativi del T.U.F. in
materia di trasparenza dei patti parasociali, si veda RESCIO, I sindacati di voto, in Trattato delle società
per azioni, diretto da G. E. Colombo e G. B. Portale, Torino, 1994, (ristampa 2000), 3, *, 714 ss.
10
L’introduzione di un regime di trasparenza anche dei patti parasociali relativi a società (non quotate,
ma) aperte al mercato dei capitali di rischio era stata in precedenza incoraggiata da COSTI, I patti
parasociali, in AA.VV., La riforma delle società quotate, Milano, 1998, 134.
6
E’ di immediata evidenza, nel tessuto normativo, il peso dell’aspetto della
trasparenza degli accordi aventi le caratteristiche descritte dall’art. 2341-bis c.c. e
dall’art. 122 T.U.F.; il legislatore, in entrambi i casi, ha avuto cura di garantire la
conoscibilità degli accordi paralleli al contratto sociale che rispondano alle
caratteristiche individuate dalle rispettive fattispecie.11
Proprio questa rapida e schematica ricostruzione storica ha già in qualche modo
introdotto la prima problematica che dovrà essere affrontata nelle pagine seguenti, ossia
la delimitazione dell’area (o meglio, delle aree) di operatività dell’obbligo di
pubblicazione dei patti parasociali e, per contro, di quella degli accordi che potrebbero
legittimamente essere mantenuti segreti. Un’analisi del tema dei patti parasociali occulti
e, dunque, della rilevanza che il fenomeno può spiegare nell’ordinamento societario (in
particolare, nelle società quotate e nella disciplina in tema di OPA) non può che partire,
infatti, dalla disamina delle fattispecie in tema di pubblicità, che costituirà la premessa
per lo sviluppo dell’indagine condotta nei due capitoli successivi: nel secondo, si
cercheranno di mettere in luce, da un punto di vista sia esegetico che sistematico, gli
effetti che il fenomeno del patto parasociale occulto produce sulla disciplina (e in
occasione) dell’offerta pubblica di acquisto obbligatoria, in connessione ai problemi
posti dalla definizione di azione concertata; inoltre, verranno esaminati i principali
aspetti che riguardano il tema della prova e dell’accertamento di un patto occulto. Nel
terzo capitolo, invece, si tenterà di indagare l’esistenza e l’operatività di possibili rimedi
e tutele - che si collochino tanto sul terreno civilistico quanto nell’ambito del diritto
societario - a disposizione dei soci estranei al patto originariamente mantenuto segreto e
successivamente portato alla luce.12
Proprio perché, come si è detto, la disamina delle fattispecie in tema di
pubblicità - tese ad evitare che gli accordi tra azionisti rimangano segreti - costituisce
eminentemente la (pur imprescindibile) base per il prosieguo del lavoro, si ritiene di
dover sin d’ora avvertire che ci si limiterà nel presente capitolo a fare luce sugli snodi
maggiormente rilevanti in tale prospettiva: per tale ragione, non ci si addentrerà in
un’approfondita analisi delle sanzioni espressamente previste dal legislatore per
l’ipotesi in cui patti non siano comunicati o pubblicati (sulla quale, del resto, soprattutto
la dottrina si è ampiamente soffermata), essendo più opportuno limitarsi a richiamare
tali aspetti solo in quanto necessari o utili nel percorso che si intende seguire. Non si
può invece fare a meno, come si è detto, di operare una ricostruzione dei confini delle
fattispecie in tema di pubblicità dei patti parasociali, alla quale sin d’ora si procede.
11
Secondo taluno, la pubblicità dei patti sarebbe in definitiva “l’unica tutela concessa dal legislatore” ai
soci estranei: RUBINO-SAMMARTANO, I patti parasociali, in La riforma del diritto societario, a cura
di M. de Tilla, G. Alpa e S. Patti, Roma, 2003, 185.
12
Non si mancherà di rivolgere, nel corso della trattazione, un costante sguardo ai principali ordinamenti
stranieri in cui il problema dei patti occulti tra azionisti emerge ed è disciplinato (non solo con riferimento
alla disciplina del concerto e dell’OPA obbligatoria, ma anche in relazione agli obblighi di disclosure):
per una panoramica storico-comparatistica, sebbene non più del tutto attuale, cfr. ANDREOLI, I patti
parasociali. L’esperienza americana, inglese e francese, in Il governo delle società dopo il D. Lgs.
24.2.1998, n. 58, a cura di E. Andreoli, Padova, 2002, 308 ss.
7
2. La trasparenza dei patti parasociali nella disciplina codicistica e nel
T.U.F.: rapporti tra fattispecie.
Al fine di identificare i patti parasociali soggetti agli obblighi di trasparenza e,
corrispondentemente, quelli che potrebbero legittimamente rimanere “segreti”, è
indubbiamente cruciale il problema dei rapporti tra la disciplina codicistica e quella
contenuta nel Testo Unico della Finanza. Non ci si riferisce, per il momento, al rapporto
tra le fattispecie in tema di pubblicità e quelle che riguardano l’offerta pubblica di
acquisto, bensì, prima ancora, al nesso ed al necessario confronto tra le norme sulla
pubblicità contenute nel codice civile (art. 2341-ter c.c.) e quelle corrispondenti dettate
dall’art. 122 T.U.F. E’ del tutto noto che il contenuto precettivo di queste due
disposizioni non coincide: il primo stabilisce che i patti parasociali nelle società per
azioni “aperte” (o in società che le controllano) debbano essere comunicati alla società e
dichiarati in apertura di ogni assemblea (dichiarazione da trascriversi poi nel verbale,
destinato ad essere depositato nel registro delle imprese); il secondo, invece, prevede
l’obbligo di comunicazione alla Consob, di pubblicazione per estratto sulla stampa
quotidiana, di deposito presso il registro delle imprese e, oggi, anche di comunicazione
“alle società con azioni quotate”, nel termine unificato di cinque giorni dalla
stipulazione. Un ulteriore profilo di disallineamento tra le due discipline, di immediata
percezione, consiste nella comminatoria della nullità dei patti parasociali mantenuti
segreti nelle sole società quotate (o loro controllanti), prevedendo viceversa la disciplina
codicistica - sul piano della risposta sanzionatoria - unicamente il divieto di esercizio
del diritto di voto inerente alle azioni coinvolte nel patto occulto. La riforma del 2003,
dunque, non ha raccolto l’invito della dottrina a ricavare dalle disposizioni del T.U.F.
“un principio generale che consenta di subordinare, almeno per le società per azioni, la
validità dei sindacati di voto all’adozione di adeguate forme di pubblicità”.13
13
Tale suggerimento, rimasto inascoltato, era formulato da COSTI, La Cassazione e i sindacati di voto:
tra dogmi e “natura delle cose”, nota a Cass., 23 novembre 2001, n. 14865, in Giur. comm., 2002, II,
674; l’A. considerava infatti la conoscibilità “ai soci e ai terzi con adeguate forme di pubblicità”
l’elemento capace di disegnare “i limiti entro i quali i sindacati di voto possono essere considerati
compatibili con un ragionevole ordinamento delle società di capitali” (id est: di tutte le società di capitali).
Sulla stessa linea, e perciò fortemente critico verso l’impostazione della riforma, era anche
KUSTERMANN, Considerazioni critiche sui patti parasociali, come previsti nella legge delega n. 366
del 2001, in Società, 2002, 169 ss., il quale contestava apertamente la previsione di un regime di
pubblicità limitato alle sole s.p.a. aperte al mercato del capitale di rischio, con la conseguenza che nelle
altre società si finisce per imporre al socio, “nel caso di patto per lui o per la società dannoso [...] l’onere
di provarne in giudizio l’esistenza e di provare che il patto stesso è invalido per avere contenuti contrari a
norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume o comunque non obbedienti alle regole di
correttezza” (ibidem, 171). L’A. individuava altri due inconvenienti nella scelta adottata dal legislatore
del 2003: da un lato, la creazione di una sorta di “scalino” tra modelli societari che potrebbe essere di
ostacolo alla crescita e allo sviluppo dimensionale di una società nella quali i soci sindacati preferiscano
conservare la libertà di mantenere occulto il patto stipulato; dall’altro, l’incoerenza di tale diversità di
trattamento, che assoggetta a discipline differenti società in cui i soci estranei al patto hanno le medesime
esigenze di conoscibilità dei reali centri di potere, tanto più in considerazione del fatto che ai diversi tipi o
modelli societari non corrisponde uno standard dimensionale prestabilito (come dimostra anche la s.r.l.
riformata).
8
La divaricazione tra le due prescrizioni non si apprezza però soltanto sul piano
della disciplina, bensì, cosa che ancor più interessa in questa sede, su quello delle
rispettive fattispecie e, correlativamente, dell’ampiezza dei relativi confini.14
E’ bene tentare di fare chiarezza in ordine al legame tra le stesse, al fine di
munirsi di acquisizioni interpretative che consentano poi di affrontare le numerose e
delicate questioni che il fenomeno del patto parasociale occulto pone nella disciplina del
concerto e dell’OPA obbligatoria. Il loro esame, infatti, presuppone necessariamente
un’adeguata ricostruzione delle fattispecie in materia di trasparenza15 e, in particolare,
14
Mentre l’art. 2341-ter c.c. richiama genericamente “i patti parasociali” (salvo verificare, come si dirà
poco oltre nel testo, se il riferimento sia ai soli patti indicati nel precedente art. 2341-bis c.c.), l’art. 122
T.U.F. individua ben precise tipologie di accordi che devono essere resi noti: si tratta degli accordi sul
voto nelle società quotate o loro controllanti (comma 1); degli accordi di preventiva consultazione per
l’esercizio del voto nelle medesime società; di quelli limitativi del trasferimento delle azioni o degli
strumenti finanziari che attribuiscono diritti di acquisto o di sottoscrizione delle stesse; di quelli che
prevedono l’acquisto di tali titoli; dei patti “aventi per oggetto o per effetto l’esercizio anche congiunto di
un’influenza dominante su tali società”; nonché di quelli volti a favorire o contrastare il successo di
un’offerta pubblica di acquisto (comma 5, lettere a - d-bis). E’ frequente in letteratura l’osservazione che
la disciplina codicistica non sia applicabile alle s.r.l., salvo che queste controllino società per azioni: per
tutti, PICCIAU, Sub artt. 2341-bis - 2341-ter, in Costituzione - conferimenti (a cura di M. Notari),
Commentario alla riforma delle società, diretto da P. Marchetti, L. A. Bianchi, F. Ghezzi, M. Notari,
Milano, 2008, 331; DONATIVI, Sub art. 2341-bis, in Società di capitali, Commentario a cura di G.
Niccolini e A. Stagno d’Alcontres, Napoli, 2004, *, 162.
15
In Germania, manca una vera e propria disciplina generale dei patti parasociali e della loro pubblicità,
ma la loro ammissibilità è riconosciuta da tempo: si veda il non più recente studio di NOACK,
Gesellschaftvereinbarungen bei Kapitalgesellschaften, Tübingen, 1994, spec. 61 ss.; nonché, più
recentemente e con particolare riguardo ai sindacati di voto, LÖHDEFINK, Acting in concert und
Kontrolle im Übernahmerecht, Köln-Berlin-München, 2007, 260; nella manualistica, WINDBICHLER,
Gesellschaftsrecht, München, 2009, 396. In anni recenti, peraltro, essi sono stati indirettamente presi in
considerazione, in attuazione di due distinte direttive europee, da due diversi corpi normativi: il
Wertpapierhandelsgesetz (WpHG) prevede (§ 22, Abs. 2) che, ai fini degli obblighi di pubblicazione delle
partecipazioni rilevanti di cui al § 21, Abs. 1, si tenga conto anche dei diritti di voto facenti capo a
soggetti con i quali l’obbligato (alla pubblicazione) o una società da questo controllata “sein Verhalten in
Bezug auf diesen Emittenten auf Grund einer Vereinbarung oder in sonstiger Weise abstimmt;
ausgenommen sind Vereinbarungen in Einzelfällen. Ein abgestimmtes Verhalten setzt voraus, dass der
Meldepflichtige oder sein Tochterunternehmen und der Dritte sich über die Ausübung von Stimmrechten
verständigen oder mit dem Ziel einer dauerhaften und erheblichen Änderung der unternehmerischen
Ausrichtung des Emittenten in sonstiger Weise zusammenwirken [...]”: ossia “coordini il suo
comportamento con riferimento all’emittente sulla base di un’intesa o anche in altro modo; sono escluse
le intese riguardanti casi singoli. Un comportamento coordinato presuppone che l’obbligato o la società
da questo controllata e il terzo si accordino sull’esercizio dei diritti di voto o, con lo scopo di un durevole
e rilevante cambiamento dell’organizzazione imprenditoriale dell’emittente, cooperino in altra maniera”.
Questa regola, che contempla in definitiva una figura analoga a quella dei patti parasociali nel nostro
ordinamento (e che, come si dirà, pone analoghi problemi di prova delle intese rilevanti non comunicate),
vale anche per l’imputazione dei diritti di voto nell’ambito della disciplina del concerto e dell’insorgenza
dell’obbligo di lanciare un’offerta pubblica di acquisto: essa, infatti, è ripresa pedissequamente dal § 30,
Abs. 2 del Wertpapiererwerbs- und Übernahmegesetz (WpÜG, attuativo della c.d. Direttiva OPA), che
completa la disciplina contenuta nel § 29 WpÜG, il quale impone l’obbligo di offerta a chi raggiunga il
controllo, identificato con la disponibilità di almeno il 30% dei diritti di voto in assemblea. Per una
sintetica ma generale panoramica in argomento, cfr. BUCK-HEEB, Kapitalmarktrecht, HeidelbergMünchen-Landsberg-Frechen-Hamburg, 2010, 164 ss. e 229 ss. A scanso di equivoci, “l’obbligato alla
comunicazione” o “l’offerente” - come le due norme rispettivamente si esprimono in relazione ai due
contesti - possono essere tanto azionisti della società quanto terzi: così, per tutti, VON BÜLOWBÜCKER, Abgestimmtes Verhalten im Kapitalmarkt- und Gesellschaftsrecht, in ZGR, 2004, 697. E’ bene
avvertire sin d’ora che, salvo venga specificato diversamente, ogni successivo riferimento nel testo al § 22
dovrà intendersi effettuato al WpHG e ogni successivo riferimento al § 30, invece, al WpÜG. Nonostante
la pressoché identica formulazione letterale, di fronte al problema se le due fattispecie - attesa la diversità
9
l’esatta delimitazione dell’ambito applicativo dell’art. 122 T.U.F., il quale, essendo
richiamato espressamente dall’art. 101-bis, comma 4-bis, T.U.F., diventa fondamentale
delle conseguenze giuridiche - debbano o meno venire interpretate allo stesso modo, la dottrina tedesca è
divisa (il dibattito si attesta quindi principalmente sul rapporto tra la fattispecie in tema di disclosure e
quella che prevede l’obbligo di offerta: anche per comodità espositiva, è preferibile illustrarlo
immediatamente). La maggior parte dei commentatori propende per la soluzione negativa: cfr.
SCHNEIDER, § 22, in Wertpapierhandelsgesetz Kommentar, herausgegeben von H. D. Assmann - U. H.
Schneider, Köln, 2009, 1034, che richiama il differente scopo e significato delle due disposizioni, delle
quali solo la seconda presupporrebbe un’ipotesi di controllo societario; ID., § 30, in Wertpapiererwerbsund Übernahmegesetz Kommentar, herausgegeben von H. D. Assmann, T. Pötzsch, U. H. Schneider,
Köln, 2005, 849-850, ove aggiunge che il § 22 è orientato a garantire la massima trasparenza
(“größtmöglicher Transparenz”), mentre il § 30 presuppone un’esigenza di protezione degli azionisti di
minoranza; DRINKUTH, Gegen den Gleichlauf des Acting in concert nach § 22 WpHG und § 30 WpÜG,
in ZIP,2008, 677 ss., il quale argomenta proprio in base al differente scopo delle due norme ma propone
che la minore estensione del campo applicativo del § 30 sia precisata a livello normativo, al fine di farvi
ricadere soltanto le fattispecie di acquisto effettivo del controllo; PSAROUDAKIS, Acting in concert in
börsennotierten Gesellschaften, Köln, 2009, 296 ss., che mette in evidenza il fatto che le due disposizioni
sono state introdotte con l’attuazione di due diverse direttive (l’A. si mostra peraltro molto critico circa la
scelta legislativa di disegnare in maniera pressoché identica la norma in materia di pubblicità e quella in
tema di OPA: ibidem, 313-314). Su questa stessa linea interpretativa anche PRASUHN, Der Schutz von
Minderheitsaktionären bei Unternehmensübernahmen nach dem WpÜG, Köln, 2007, 185 ss., che
individua lo scopo del § 22 nell’esigenza di assicurare la massima trasparenza delle partecipazioni e
quello del § 30 nella verifica del potere di cui dispongono gli azionisti e aggiunge che proprio le gravose
conseguenze giuridiche previste da quest’ultimo suggerirebbero una più ampia interpretazione del § 22,
tale cioè da farvi ricadere anche i casi dubbi; nonché GAEDE, Koordiniertes Aktionärsverhalten im
Gesellschafts- und Kapitalmarktrecht, Hamburg, 2008, 251, che osserva non essere indispensabile ai fini
della trasparenza l’effettiva possibilità di esercizio del controllo, bastando una volontà iniziale degli
azionisti in tal senso e anche comportamenti che ai fini del § 30 potranno rilevare come semplici indizi.
Anche SCHOCKENHOFF-SCHUMANN, Acting in concert - geklärte und ungeklärte Rechtsfragen, in
ZGR, 2005, 574, riferiscono la fattispecie di cui al § 30 al mutamento della situazione di controllo (“eine
neue Kontrollsituation”); nondimeno, affermano che le due norme hanno uno scopo comune, ossia quello
di far emergere una rilevante influenza sulla società dovuta al coagularsi di diritti di voto (“Stimmblöcke”)
e concludono nel senso dell’identità dei rispettivi ambiti di applicazione: ne discende che l’analisi
condotta riguardo all’una può essere estesa anche all’altra (ibidem, 609); per questa seconda linea di
pensiero, che muove dall’intento del legislatore (e dall’esigenza) di evitare complicazioni e incertezze sul
mercato finanziario, prevenendo differenti metodi di applicazione, cfr. anche RALOFF, Acting in concert,
Jena, 2007, 146 ss.; WALZ, § 30, in Frankfurter Kommentar zum Wertpapiererwerbs- und
Übernahmegesetz, herausgegeben von W. Haarman - M. Schüppen, Frankfurt am Main, 2005, 634;
SCHÜPPEN-WALZ, § 30, in Frankfurter Kommentar zum Wertpapiererwerbs- und Übernahmegesetz,
herausgegeben von W. Haarman - M. Schüppen, Frankfurt am Main, 2005, 657; nonché WEIß, Der
Wertpapierhandelsrechtliche und übernahmerechtliche Zurechnungtatbestand des acting in concert,
Bonn, 2006, 46 e 52, sia in virtù dell’esigenza di garantire la certezza del diritto, sia in base al rilievo che
il § 37 WpÜG prevede che la BaFin (autorità di vigilanza del mercato finanziario) possa concedere una
dispensa dall’obbligo di offerta in determinate circostanze, introducendo quindi in ogni caso un elemento
differenziale rispetto alla disciplina di cui ai §§ 21 e 22 WpHG. Su una posizione intermedia si attestano
VON BÜLOW-BÜCKER, op. cit., 703-704, i quali propongono una valutazione caso per caso circa
l’ammissibilità di una omogenea lettura delle medesime. Anche nell’ordinamento francese il concerto
rileva tanto ai fini degli obblighi di trasparenza delle partecipazioni, quanto, come si vedrà, per
l’insorgenza dell’obbligo di promozione di un’offerta pubblica. Per ciò che concerne il primo profilo,
l’art. L. 233-7 del code de commerce prevede obblighi di comunicazione al superamento di determinate
soglie di partecipazione, a carico di “toute personne physique ou morale agissant seule ou de concert”;
inoltre, l’art. L. 233-9 ribadisce che sono imputati alla persona tenuta alla comunicazione anche “les
actions ou les droits de vote possédés par un tiers avec qui cette personne agit de concert”. Sulla nozione
di concerto in Francia, v. amplius infra. Più specificamente, l’art. L. 233-11 impone che tutte le
convenzioni che prevedono condizioni di prelazione nell’acquisto o nella cessione di azioni ammesse alle
negoziazioni su un mercato regolamentato riguardanti almeno lo 0,5 % del capitale sociale o dei diritti di
voto siano comunicate entro cinque giorni alla società e all’AMF (Autorité des marchés financiers).
Analog., in precedenza, l’art. 356-1-4 della loi 24 juillet 1966: sul punto, v. LAPRADE, Concert et
côntrole, Paris, 2007, 242 ss.
10
proprio al fine di studiare gli effetti che i patti parasociali occulti provocano - quale
presunzione dell’esistenza di un concerto - sulla disciplina dell’OPA obbligatoria.16
16
Mentre i principali ordinamenti europei presentano una stretta connessione tra la disciplina della
disclosure dei patti tra soci e quella dell’offerta pubblica di acquisto (che, a determinate condizioni,
diventa obbligatoria per i partecipanti all’accordo), tale collegamento è presente nell’ordinamento
americano in una forma diversa, meno netta. Le intese tra azionisti e l’azione di concerto rilevano infatti
primariamente nell’ambito della disclosure (per quanto indirettamente) e solo eventualmente nella
regolamentazione delle tender offers. La Section 13(d)(1) del Securities Exchange Act richiede, in sintesi,
che chiunque (“any person”), dopo aver acquisito direttamente o indirettamente la disponibilità
(“beneficial ownership”) di più del 5% delle partecipazioni, ne dia comunicazione alla SEC (tramite la
Schedule 13D) entro dieci giorni, fornendo una serie di dettagliate informazioni aggiuntive, tra cui: gli
obiettivi dell’acquisto e in particolare se lo scopo è quello di raggiungere il controllo dell’emittente;
l’identità del soggetto [e, se si tratta di un gruppo, l’identità di ogni membro del gruppo: v. SEC v. Savoy
Indus. Inc., 587, F.2d 1149 (D.C. Cir., 1978)]; nonché ogni “information as to any contracts,
arrangements, or undestandings with any person with respect to any securities of the issuer”. Sul
concetto di “beneficial owner” è intervenuta la SEC, la quale [Rule 13d-3(a)] ha stabilito che esso
“includes any person who, directly or indirectly, through any contract, arrangement, understanding,
relationship, or otherwise has or shares: voting power which includes the power to vote, or to direct the
voting of, such security; and/or, investment power which includes the power to dispose, or to direct the
disposition of, such security”. Ma ciò che ancor più rileva è la previsione della Section 13(d)(3), la quale
stabilisce che “when two or more persons act as a partnership, limited partnership, syndicate, or other
group for the purpose of acquiring, holding, or disposing of securities of an issuer, such syndicate or
group shall be deemed a ‘person’ for the purposes af this subsection”. E’ chiaro, dunque, l’obbligo di
rendere noti i patti che coinvolgano in sostanza una percentuale superiore al 5% del capitale: che si debba
trattare di patti tra soci emerge dal fatto che ogni membro “must have beneficial ownership of the
securities of the issuer prior to becoming a group member”: così LEVY, Regulation of Securities, SEC
Answer Book, New York, 2011, 5-20. Come si è osservato, “The function of ownership disclosure is to
enable investors to make their own informed assessment as to how the ownership structure of a particular
firm may impact the value of the share”: così SCHOUTEN, The Case for Mandatory Ownership
Disclosure, in Stanford Journal of Law, Business and Finance, 2010, 127 ss. e in www.ssrn.com, 9, da cui
si cita. Il collegamento eventuale con la disciplina delle offerte pubbliche sta in ciò, che la Section 14
(d)(1) del SEA rende - si noti - illegittima (“unlawful”) per chiunque la promozione diretta o indiretta di
un’offerta pubblica se, dopo il suo espletamento, l’offerente risulti il titolare (“beneficial owner”) di più
del 5% delle partecipazioni, a meno che si ottemperi tempestivamente alla pubblicità contemplata nella
Section 13(d) e quella eventualmente richiesta dalla SEC. Entrambe le regole contenute in queste due
Sections dichiarano espressamente l’esigenza di soddisfare il “public interest” e la “protection of
investors”, che passa non tanto per la previsione di un obbligo di offerta, ma nella facoltà di promozione
dell’offerta a condizione che si sia provveduto ad un’adeguata disclosure, in connessione “to every large,
rapid accumulation of securities, regardless of the technique employed, that might represent a shift in
corporate control”: sul punto BROWN-FERRARA-BIRD-KUBEK-REGNER, Takeovers, A Strategic
Guide to Mergers and Acquisitions, New York, 2010, §2.04[A], 2-20; e v. in giurisprudenza GAF Corp.
v. Milstein, 324 F. Supp. 1062 (S.D.N.Y.). Peraltro, l’esistenza di legami tra gli azionisti acquista
rilevanza anche nell’ambito della Section 16 del SEA, che contiene quella che per lungo tempo è stata la
prima ed embrionale disciplina dell’insider trading negli Stati Uniti (ma sul punto v. infra, cap. III). Si
prevede infatti che chiunque detenga più del 10% delle partecipazioni di un emittente, comunichi tra
l’altro ogni successiva operazione di acquisto o alienazione delle medesime; dato che, secondo la Rule
16-a1 della SEC, la nozione di “beneficial ownership” è in prima battuta la medesima nella Section 13 e
nella Section 16 del SEA, ciò significa che se un gruppo detiene congiuntamente più del 10% del capitale,
ogni suo membro deve rendere note le sue transazioni ai sensi della Section 16: sul punto anche
SODERQUIST-GABALDON, Securities Law, New York, 2007, 175; BROWN et. al., op. ult. cit., §
2.05[A], 2-51; LEVY, op. cit., 6-20. La Rule 16a-1(a)(2) della SEC aggiunge anche che il concetto di
“beneficial ownership” indica anche “any person who, directly or indirectly, through any contract,
arrangement, understanding, relationship or otherwise, has or shares a direct or indirect pecuniary
interest in the equity securities[…] The term pecuniary interest in any class of equity securities shall
mean the opportunity, directly or indirectly, to profit or share in any profit derived from a transaction in
the subject securities”. Per un’ampia panoramica sulla Section 16 del SEA, cfr. HAMILTONRASMUSSEN, Guide to Section 16, Insider Reporting and Short-Swing Trading Liability, Chicago,
2004.
11
Proprio questa analisi, che costituisce il cuore del presente lavoro, non può tuttavia
essere portata avanti se non partendo da una lettura sinottica delle previsioni in tema di
pubblicità dei patti parasociali contenute nei due plessi normativi di riferimento; senza,
peraltro, che questo implichi necessariamente un abbandono nel prosieguo della
trattazione di tale confronto, ove esso continui a rivelarsi necessario o comunque
proficuo.17
Ciò premesso, è tuttavia necessario fare un passo indietro e prendere le mosse
dal problema - che si colloca, se vogliamo, a monte - del rapporto tra l’art. 2341-bis e
l’art. 2341-ter c.c., non essendo del tutto pacifico se quest’ultimo, nell’evocare
genericamente i “patti parasociali”, si riferisca unicamente alle tipologie di patti indicate
nel primo.18 Secondo un primo filone dottrinale, la norma riguardante la pubblicità
avrebbe un ambito di applicazione più ampio, riguardando ogni possibile patto
parasociale.19
17
Può essere interessante anche notare che, mentre in Germania il § 22 WpHG “assorbe” la trasparenza
dei patti tra azionisti nell’alveo della disciplina sulla comunicazione delle partecipazioni rilevanti, nel
sistema del T.U.F. gli obblighi di comunicazione e pubblicazione dei patti parasociali di cui all’art. 122
T.U.F. sono, come noto, collocati in una disposizione diversa da quella (l’art. 120 T.U.F.) rubricata
appunto “obblighi di comunicazione delle partecipazioni rilevanti”. Nell’ordinamento tedesco, il WpHG
impone, a coloro che soddisfino le condizioni di cui al § 22, Abs. 2, un obbligo di comunicazione
all’Autorità (BaFin) e alla società del superamento di determinate soglie di partecipazione o della
riduzione della partecipazione al di sotto delle medesime. Un’impostazione analoga a quella dell’attuale
norma tedesca era adottata in passato dall’art. 5-bis, co. 2, l. 216/74, ove si prevedeva che per il calcolo
delle percentuali rilevanti si tenesse “conto anche delle azioni possedute da uno o più soggetti con i quali
si è concluso, direttamente o indirettamente, un accordo scritto per l’esercizio concertato dei diritti di
voto” e “anche delle azioni che in virtù di un accordo, stipulato direttamente o indirettamente, si possono
acquistare di propria iniziativa”: sul punto SBISA’, Sub art. 120, in Commentario al Testo Unico delle
disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, a cura di G. Alpa e F. Capriglione, Padova, 1998,
II, 1116 (ma in argomento v. anche CHIAIA, Le partecipazioni rilevanti in società quotate o ammesse al
mercato ristretto. Novità legislative e regolamentari, in Giur. comm, 1993, I, 280 ss.). Tuttavia, un
approccio volto a determinare, sotto il profilo applicativo, un’integrazione delle due citate norme del
T.U.F. è quello adottato dal Regolamento Emittenti della Consob (adottato con delibera n. 11971 del 14
maggio 1999), il cui art. 127, comma 1, stabilisce che “gli aderenti a un patto parasociale previsto
dall’articolo 122 del Testo Unico avente ad oggetto partecipazioni complessivamente pari o superiori alla
soglia indicata dall’articolo 120, comma 2, del Testo Unico, sono solidalmente obbligati a darne
comunicazione alla Consob”; inoltre, l’art. 117 del Regolamento impone un obbligo di comunicazione
alla Consob in caso di superamento di determinate soglie di partecipazione al capitale e l’art. 120 del
Regolamento stesso prevede - con disposizione dal tenore simile a quella tedesca del § 22 WpHG - che
“coloro che detengono una partecipazione inferiore alla soglia del 2% e aderiscono ad un patto
parasociale rilevante si sensi dell’articolo 122, commi 1 e 5, lettere a) e d), del Testo Unico, computano,
ai fini degli obblighi di comunicazione di cui all’articolo 117 [...] anche le azioni conferite nel patto dagli
altri aderenti [...]”. Come si vede, la Consob considera qui rilevanti solo i patti di voto, di consultazione
per l’esercizio del voto e quelli aventi per oggetto o per effetto l’esercizio congiunto di un’influenza
dominante, coerentemente del resto con l’art. 120, comma 1, T.U.F., il quale espressamente avverte di
voler prendere in considerazione nella sezione I (rubricata “Assetti proprietari”) solo il capitale
“rappresentato da azioni con diritto di voto”.
18
Come noto, l’art. 2341-bis c.c. impone limiti di durata per i patti che, stipulati “al fine di stabilizzare gli
assetti proprietari o il governo della società: a) hanno per oggetto l’esercizio del diritto di voto nelle
società per azioni o nelle società che le controllano; b) pongono limiti al trasferimento delle relative
azioni o delle partecipazioni in società che le controllano; c) hanno per oggetto o per effetto l’esercizio
anche congiunto di un’influenza dominante su tali società”.
19
Così CHIONNA, La pubblicità dei patti parasociali, Milano, 2008, 104 ss.; BLANDINI, Società
quotate e società diffuse, Napoli, 2005, 338; LEOGRANDE, Sub artt. 2341-bis - 2341-ter, in Il nuovo
diritto delle società, a cura di A. Maffei Alberti, Padova, 2005, v. I, 107; MEOLI-SICA, I patti
parasociali nella riforma del diritto societario, in Giur. comm., 2003, I, 614, i quali argomentano dal
12
Pare più convincente, tuttavia, la tesi che prospetta una coincidenza dell’ambito
di applicazione delle due norme, le quali, pertanto, andrebbero riferite alle medesime
fattispecie.20 Risulta difficile, in particolare, respingere l’idea che le due disposizioni
codicistiche costituiscano un microsistema normativo, nell’ambito del quale il
legislatore ha evidentemente ritenuto superfluo ripetere in seno all’art. 2341-ter c.c. gli
elementi di fattispecie già definiti nell’articolo che immediatamente lo precede.21
Taluno ha invece ritenuto, all’opposto e secondo un’ulteriore impostazione, che
non tutte le fattispecie di patti di cui all’art. 2341-bis c.c. siano soggette agli obblighi di
trasparenza: più precisamente, la dichiarazione in apertura di assemblea riguarderebbe
soltanto gli accordi in grado di spiegare una specifica rilevanza in sede di formazione
della volontà assembleare (in particolare: gli accordi di voto) e non, ad esempio, i patti
di prelazione.22 La tesi, pur autorevolmente sostenuta, non persuade, vuoi in forza di
quanto poc’anzi osservato in merito al rapporto tra le due disposizioni codicistiche in
materia, vuoi perché gli adempimenti pubblicitari prescritti - e specialmente, appunto, la
dichiarazione assembleare da inserire nel verbale, oggetto di deposito nel registro delle
imprese - hanno certamente, come meglio si dirà, l’obiettivo di informare non solo i
soci estranei al patto ma anche i terzi: non vi è dubbio che questi ultimi possano essere
interessati a conoscere l’esistenza di un patto parasociale anche diverso da quello avente
ad oggetto il diritto di voto in assemblea. Aggiungasi, del resto, che l’art. 2341-ter c.c.
non fa cenno alcuno a siffatte limitazioni del suo ambito di applicazione.
Tornando all’interrogativo posto all’inizio del presente paragrafo, relativo ai
rapporti tra la disciplina codicistica e il T.U.F., non è chiaro se il campo di applicazione
delle disposizioni in materia di pubblicità previste nei due corpi normativi coincida.23 E’
risaputo che il comma 5-bis dell’art. 122 T.U.F. dichiara inapplicabili “ai patti di cui al
presente articolo” gli artt. 2341-bis e 2341-ter del codice civile: tale norma parrebbe
tracciare una netta linea di confine tra la disciplina delle società quotate e quella dettata
fatto che le esigenze di trasparenza riguardano anche patti parasociali diversi da quelli individuati dall’art.
2341-bis c.c. e in particolare anche i patti di consultazione.
20
Per questa condivisibile interpretazione, sostenuta dalla dottrina prevalente v. RESCIO, I patti
parasociali nel quadro dei rapporti contrattuali dei soci, in Il nuovo diritto delle società, Liber amicorum
G. F. Campobasso, diretto da P. Abbadessa e G. B. Portale, Torino, 2007, 1, 449 (nt. 6); ID., I patti
parasociali dopo il d. lgs. 6/2003, in AA.VV., Le società: autonomia privata e suoi limiti nella riforma,
Milano, 2003, 109-110; LIBERTINI, I patti parasociali nelle società non quotate. Un commento agli
articoli 2341-bis e 2341-ter del c.c., in Il nuovo diritto delle società, Liber amicorum G. F. Campobasso,
diretto da P. Abbadessa e G. B. Portale, Torino, 2007, 4, 494; BADINI CONFALONIERI, I patti
parasociali, in Le nuove s.p.a., opera diretta da O. Cagnasso e L. Panzani, Bologna, 2010, *, 289 ss.;
FIORIO, Sub artt. 2341-bis - 2341-ter, in Il nuovo diritto societario, diretto da G. Cottino, G. Bonfante,
O. Cagnasso, P. Montalenti, Bologna, 2004, *, 154; DONATIVI, Sub art. 2341-ter, in Società di capitali,
Commentario a cura di G. Niccolini e A. Stagno d’Alcontres, Napoli, 2004, *, 183.
21
E v., per un simile rilievo, anche PICCIAU, Sub artt. 2341-bis - 2341-ter, cit., 363, ove si considera
“poco plausibile che il legislatore abbia voluto mutare il presupposto di applicazione delle norme sulla
pubblicità senza introdurre alcuna specificazione”.
22
E’ l’opinione di PAVONE LA ROSA, La “trasparenza” dei patti parasociali nelle società per azioni
“aperte”, in Giur. comm., 2007, I, 549 ss.; la tesi era stata già sostenuta dall’Autore nello scritto I patti
parasociali nella nuova disciplina della società per azioni, in Giur. comm., 2004, I, 10.
23
Sul punto già RESCIO, Dei patti parasociali, in Parere dei componenti del Collegio dei docenti del
Dottorato di ricerca in Diritto commerciale interno ed internazionale, Università Cattolica di Milano, in
Riv. soc., 2002, 1459, che si mostrava critico nei confronti della formulazione della norma codicistica e si
chiedeva per quale ragione il novero dei patti parasociali rilevanti ai fini della pubblicità, previsto per le
società “diffuse” e per quelle quotate, non venisse fatto coincidere.
13
per le società (semplicemente) facenti ricorso al mercato del capitale di rischio; si
tratterebbe, dunque, di una partizione fondata su un criterio di ordine, per così dire,
tipologico - o, per meglio dire, attinente al modello di società cui il patto parasociale
inerisce24 - anziché sulla natura e sull’oggetto degli accordi.
Prima dell’introduzione della disposizione testé citata, vari autori sostenevano la
plausibilità di un’operazione ermeneutica volta ad integrare e coordinare le due
discipline sulla trasparenza, con il precipuo e dichiarato scopo di rendere in qualche
modo i precetti del codice estendibili anche alle società quotate.25 La tesi è stata tuttavia
riproposta anche in seguito e pare fondarsi su tre ordini di argomenti26: (i) in primo
luogo, quello che muove dal combinato disposto dell’art. 2341-ter c.c. e dell’art. 2325bis c.c., per sostenere che non vi è alcun conflitto tra gli obblighi di trasparenza imposti
dal T.U.F. e quelli aventi la loro fonte nell’articolato codicistico; le norme del T.U.F.
per le società quotate, cioè, non disporrebbero “diversamente” rispetto a quelle dettate
dal codice per le società “aperte” e quindi - in via generale, si potrebbe dire - pure per le
quotate, anche perché l’art. 122 T.U.F. detterebbe una disciplina riferita
all’informazione diretta al mercato, mentre l’art. 2341-ter c.c. si preoccuperebbe
dell’informazione endosocietaria27; (ii) secondariamente, si nota che l’esclusione
dell’applicabilità dell’art. 2341-ter c.c. è letteralmente riferita, nel contesto dell’art. 122
T.U.F., ai “patti di cui al presente articolo”, con la conseguenza che gli accordi di tipo
diverso da quelli in esso contemplati potrebbero venire assoggettati, nelle quotate,
quantomeno all’applicazione della norma del codice28; (iii) inoltre, si osserva che il
24
In merito alla “scelta del legislatore di selezionare le forme di società non più esclusivamente per ‘tipi
negoziali’, ma per ‘modelli’ o ‘tipi socio-economici’ (o modelli tipologici)”, v. ABBADESSAGINEVRA, Sub art. 2325-bis, in Società di capitali, Commentario a cura di G. Niccolini e A. Stagno
d’Alcontres, Napoli, 2004, *, 8 (ai quali appartiene il virgolettato), ove ulteriori riferimenti; PORTALE,
La società quotata nelle recenti riforme (note introduttive), in Studi in onore di Vittorio Colesanti,
Napoli, 2009, II, 942; ancor prima, tra gli altri, ABBADESSA, La gestione dell’impresa nella società per
azioni. Profili organizzativi, Milano, 1975, 51.
25
Cfr. ad es. RESCIO, I patti parasociali dopo il d. lgs. 6/2003, cit., 110-111; SEMINO, Il regime di
pubblicità dei patti parasociali relativi a società quotate alla luce del D. Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, in
Società, 2003, 1462; GRIECO, Patti parasociali e riforma societaria, in Giust. civ., 2003, II, 534;
FIORIO, Nota ad App. Milano, 28 febbraio 2003 (decr.), in Giur. it., 2003, III, 1877, il quale richiamava
l’esigenza di “intensificare la tutela dell’informazione del mercato” ma, nel contempo, riconosceva il
differente ambito oggettivo di applicazione dell’art. 2341-ter c.c. e dell’art. 122 T.U.F. sotto il profilo
delle categorie di patti parasociali rilevanti per l’una e per l’altra norma.
26
V. in particolare CHIONNA, op. cit., 85 ss.
27
Così, di recente, CHIONNA, op. cit., 91.
28
Di nuovo CHIONNA, op. cit., 87. L’A. ha anche prospettato l’idea che i patti parasociali diversi da
quelli specificamente elencati dall’art. 122 T.U.F. debbano in ogni caso essere resi noti al pubblico, in
quanto fatti rilevanti per il mercato, ai sensi della più generale norma dell’art. 114 T.U.F. (ibidem, 163 ss.
e spec. 165). Secondo l’A., l’assunto sarebbe confermato dalla disciplina di attuazione contenuta nel
Regolamento emittenti adottato dalla Consob, il cui art. 109-bis impone alle società diffuse
l’informazione al pubblico “della comunicazione di cui all’articolo 2341-ter del codice civile, indicando
ogni elemento necessario per una compiuta valutazione del patto”. In realtà, anche questo argomento si
risolve in una petizione di principio, dando per scontato che l’art. 109-bis del Regolamento sia destinato
ad applicarsi a tutte le società quotate anziché alle sole società (diffuse) cui sia effettivamente applicabile
la norma del codice. Della stessa opinione appena criticata BLANDINI, Società quotate, cit., 339. Contra
invece RESCIO, La disciplina dei patti parasociali dopo la legge delega per la riforma del diritto
societario, in Riv. soc., 2002, 848, il quale affermava condivisibilmente che “nessun obbligo di
comunicazione a particolari autorità e di pubblicità a vantaggio di tutti gli interessati può porsi, perciò, in
capo a chi partecipa a patti non rientranti tra quelli di cui all’art. 122 T.U.F.”
14
coordinamento (o meglio: l’applicazione cumulativa) delle due discipline avrebbe il
positivo effetto di intensificare e migliorare la trasparenza a beneficio degli operatori e
del mercato.29
Il primo argomento non sembra fondato, atteso che l’art. 122 T.U.F. detta una
disciplina differente e più specifica30: in ogni caso, esso pare aver perso consistenza alla
luce delle novelle degli ultimi anni, dal momento che oggi anche l’art. 122, comma 1,
lett. d) T.U.F. prevede la comunicazione del patto “alle società con azioni quotate” e
dunque non si può dire che esso, a differenza dell’art. 2341-ter c.c., si occupi soltanto
dell’informativa esterna alla società e diretta al mercato. Il secondo argomento, per
quanto astrattamente meritevole di considerazione, risulta smentito proprio dal chiaro
dettato dell’art. 122, comma 5-bis, T.U.F., il quale rivela una scelta di politica
legislativa affatto diversa: assai frequente, in letteratura, è il rilievo che il legislatore con
tale ultima norma abbia “eliminato ogni dubbio” in proposito, sancendo l’inapplicabilità
delle disposizioni del codice civile alle società quotate, a prescindere dalla tipologia
dell’accordo di cui trattasi.31 Appare infatti arbitraria l’operazione ermeneutica volta ad
estendere la disciplina codicistica ai patti non compresi nell’elenco recato dall’art. 122
T.U.F. Quanto al terzo argomento, esso è speso portando l’esempio del patto stipulato
“dopo febbrili trattative” nell’imminenza dell’assemblea di una società quotata 32:
ebbene, secondo il suo sostenitore l’applicabilità dell’art. 2341-ter c.c., che prescrive la
dichiarazione del patto in apertura di assemblea, avrebbe il vantaggio di consentire ai
paciscenti il pieno esercizio del diritto di voto nell’assemblea stessa, anche qualora non
siano ancora stati adempiuti gli obblighi di cui all’art. 122 T.U.F. al momento
dell’adunanza. Anche questo genere di considerazioni sembra però aver perso mordente
in seguito all’introduzione del nuovo obbligo di comunicazione alla società di cui
all’art. 122, comma 1, lett. d) T.U.F., perché è del tutto plausibile ritenere che nella
descritta ipotesi il patto debba essere comunicato alla società, al più tardi, proprio in
apertura dell’assemblea che dovesse celebrarsi in pendenza del termine di cinque
giorni.33 Questo modo di intendere l’obbligo di comunicazione alle società con azioni
29
V. SEMINO, Il regime, cit., 1462.
Così anche MACRI’, Patti parasociali e attività sociale, Torino, 2007, 124.
31
Cfr. ad es. FIORIO, I patti parasociali, in Il nuovo diritto societario nella dottrina e nella
giurisprudenza: 2003-2009, diretto da G. Cottino, G. Bonfante, O. Cagnasso, P. Montalenti, Bologna,
2009, 81; ID., Sub artt. 2341-bis - 2341-ter, cit., 141-142.; LENER, Appunti sui patti parasociali nella
riforma del diritto societario, in Riv. dir. priv., 2004, 47; DONATIVI, Sub art. 2341-ter, cit., 183,
secondo il quale, peraltro, anche in assenza della chiarificazione introdotta con il comma 5-bis dell’art.
122 T.U.F., “sarebbe stata comunque più convincente un’interpretazione che escludesse l’estensione
dell’art. 2341-ter alle società con azioni quotate, sul rilievo che i due diversi meccanismi ‘pubblicitari’,
ancorché non incompatibili tra loro, sembrano tuttavia essere stati pensati dal legislatore - a torto o a
ragione - quali ‘sistemi’ informativi destinati ad interpretare, ciascuno di essi nel modo più congeniale e
compiuto, le esigenze specifiche poste dai rispettivi ambiti soggettivi di riferimento.” In giurisprudenza,
ha di recente accolto la soluzione qui ritenuta preferibile App. Genova, 19 dicembre 2009, in Società,
2010, 587 ss. e in www.consob.it.
32
Cfr. nuovamente SEMINO, Il regime, cit., 1462.
33
Si è anche sostenuto che proprio tale dichiarazione debba avere luogo anche nelle società quotate - sulla
base del principio generale di correttezza nell’esecuzione del contratto - là dove il patto possa presentare
in concreto un’incidenza sul conflitto d’interessi e la relativa regolamentazione: MACRI’, Patti
parasociali, cit., 157 (nt. 154). Nemmeno tale considerazione pare però significativa, giacché in tale
ipotesi sarà proprio la disciplina sul conflitto di interessi a trovare applicazione.
30
15
quotate può risolvere gran parte dei problemi interpretativi appena riferiti (del resto,
come si è visto, la tesi qui criticata è stata resa da più parti prima della novella apportata
all’art. 122 T.U.F.34). D’altra parte, se è vero che la lettera della norma non esclude di
per sé che tale comunicazione alla società possa avvenire anche in via riservata, è da
ritenere che la società stessa (tramite i suoi organi sociali) debba diffondere
l’informazione quanto prima: in ogni caso, al più tardi, in occasione della prima
assemblea successiva, eventualmente provvedendo altresì in via sostitutiva alla
pubblicità che i pattisti - primi destinatari dei relativi obblighi - abbiano omesso.
In conclusione, sembra corretto ritenere che l’art. 2341-ter c.c. si riferisca solo al
più limitato elenco di patti approntato dall’art. 2341-bis c.c. e che, al contempo,
concerna unicamente le società aperte al mercato del capitale di rischio ma non quotate;
per le società quotate, varrà (soltanto) il regime di trasparenza dettato appunto dall’art.
122 T.U.F., in relazione alle tipologie di patti in esso descritte. 35 Non sarebbe invece
34
E. v. anche RESCIO, Gli strumenti di controllo: i patti di sindacato, in RDS, 2008, 69, il quale riteneva
che l’inapplicabilità dell’art. 2341-ter c.c. alle quotate avrebbe dovuto essere limitata “al caso in cui il
patto abbia goduto della pubblicità di cui all’art. 122, 1° comma, t.u.f.”.
35
Ma per l’opinione che le nozioni di patto parasociale contenute nel codice civile e nel T.U.F.
normalmente coincidano, v. TRIMARCHI, I patti parasociali nella riforma del diritto societario, in La
riforma del diritto societario, a cura di M. de Tilla, G. Alpa e S. Patti, Roma, 2003, 143. Entrambe le
fattispecie generali illustrate possono intrecciarsi anche con la disciplina della trasparenza dei patti
parasociali contenuta anche nel secondo comma dell’art. 20 T.U.B., sebbene allo specifico fine di
consentire alla Banca d’Italia di intervenire con il proprio potere autorizzatorio in relazione all’acquisto di
partecipazioni in una banca ai sensi dell’art. 19 T.U.B. (peraltro, taluno ha auspicato un rafforzamento
degli “obblighi di trasparenza della proprietà delle banche, non solo verso la Banca d’Italia ma anche
verso il pubblico”: così SANTORO, Il coordinamento del testo unico bancario con la riforma delle
società. Due profili problematici: gli assetti proprietari e l’indipendenza degli esponenti aziendali, in
Dir. banca e merc. fin., 2005, 8). Recita infatti l’art. 20 T.U.B.: “ogni accordo, in qualsiasi forma
concluso, compresi quelli aventi forma di associazione, che regola o da cui comunque possa derivare
l’esercizio concertato del voto in una banca, anche cooperativa, o in una società che la controlla deve
essere comunicato alla Banca d’Italia dai partecipanti ovvero dai legali rappresentanti della banca o della
società cui l’accordo si riferisce. Quando dall’accordo derivi una concertazione del voto tale da
pregiudicare la gestione sana e prudente della banca, la Banca d’Italia può sospendere il diritto di voto dei
partecipanti all’accordo stesso.” Lo spettro applicativo della norma è particolarmente ampio, avendo la
stessa riguardo ad ogni accordo “in qualsiasi forma concluso”, dal quale possa scaturire come semplice
effetto “l’esercizio concertato del voto” in una banca o in una sua controllante: cfr. ROSA, Patti
parasociali e gestione delle banche, Milano, 2010, 58, la quale individua l’elemento caratterizzante della
fattispecie nel“l’effetto pratico, anche solo potenziale, dell’esercizio concertato del ‘diritto di voto’
nell’assemblea, ordinaria o straordinaria della banca (o della società che la controlla).” L’A. ha ritenuto,
giusta l’ampiezza della fattispecie, non del tutto conforme alla disciplina il provvedimento del
Governatore della Banca d’Italia del 12 maggio 2009, che ha rinviato (paragrafo 1, nota 1 dell’Allegato 1)
agli “accordi per l’esercizio concertato dei diritti di voto” (ibidem, 192, nt. 90). Sul punto anche
BENOCCI, Sub artt. 20-21, in Testo unico bancario, Commentario a cura di M. Porzio, F. Belli, G.
Losappio, M. Rispoli Farina, V. Santoro, Milano, 2010, 215, che menziona espressamente i patti di
consultazione. Per un’interpretazione estensiva dell’art. 20, comma 2, T.U.B., v. anche TUCCI, Patti
parasociali e governance nel mercato finanziario, Bari, 2005, 114-115 (e spec. nt. 80). Sembra invece
attestarsi su una posizione diversa BOCCUZZI, Gli assetti proprietari delle banche, Regole e controlli,
Torino, 2010, 44, perché l’A. opina nel senso che l’accordo “deve avere come obiettivo quello di regolare
l’esercizio del diritto di voto” (corsivo aggiunto); così già MANZONE, Partecipazione al capitale delle
banche, in La nuova legge bancaria, Il T. U. delle leggi sulla intermediazioni bancaria e creditizia e le
disposizioni di attuazione, Commentario a cura di P. Ferro-Luzzi e G. Castaldi, Milano, 1996, t. I, 363, il
quale si spingeva a ritenere necessario l’accertamento ex ante di tale finalità in capo agli aderenti; in
quest’ultimo senso anche NASTASI, Sub art. 20, in Commentario al testo unico delle leggi in materia
bancaria e creditizia, a cura di F. Capriglione, Padova, 2001, t. I, 171. Va anche osservato che il campo di
applicazione dell’art. 20 T.U.B. sembra ulteriormente ed indirettamente ampliato dal comma 1-bis
16
accettabile - lo si ribadisce - un’interpretazione volta a ritenere assoggettato a pubblicità
nelle società quotate ogni possibile patto parasociale, a pena di frustrare il significato e
la portata prescrittiva dell’elencazione tipologica recata dalla norma. Non è da
escludere, peraltro, che patti di tipo diverso debbano essere resi noti, ai sensi dell’art.
114 T.U.F., quali informazioni privilegiate di cui all’art. 181 T.U.F., senza però che il
loro occultamento determini le sanzioni previste tipicamente dall’art. 122 T.U.F. e, in
particolare, la nullità del vincolo.36
3. Segue: il requisito della stabilizzazione degli assetti proprietari o del
governo della società: significato e portata applicativa.
Proprio nel quadro della problematica analizzata nel precedente paragrafo quella del rapporto tra le disposizioni codicistiche e il T.U.F. - si colloca un altro degli
interrogativi di importanza decisiva (come si vedrà anche oltre) ai fini dell’indagine
condotta nel presente lavoro, ossia quello che riguarda la portata del requisito
consistente nella finalità di “stabilizzare gli assetti proprietari o il governo della
società”, contemplato in esordio dell’art. 2341-bis c.c. ma non riprodotto né in seno
all’art. 2341-ter c.c., né nell’ambito del T.U.F. con riferimento alle società quotate 37.
Anche l’art. 122 T.U.F., invero, tace sul punto, salvo individuare nei patti “aventi per
oggetto o per effetto l’esercizio anche congiunto di un’influenza dominante” una
specifica categoria che si affianca alle altre delineate dalla norma stessa [art. 122,
comma 5, lett. d), T.U.F.]: norma che, essendo stata pedissequamente ripresa dalla lett.
c) dell’art. 2341-ter c.c., non può tuttavia svolgere alcun ruolo decisivo in tal senso.38 Ci
dell’art. 22 T.U.B. (inserito dall’art. 1.1, lett. f, n. 2, d. lg. 27 gennaio 2010, n. 21), il quale prevede che
“ai fini dell’applicazione dei capi III e IV [rubricati rispettivamente “partecipazioni nelle banche” e
“requisiti di professionalità e di onorabilità”, n.d.r.] si considera anche l’acquisizione di partecipazioni da
parte di più soggetti che, in base ad accordi in qualsiasi forma conclusi, intendono esercitare in modo
concertato i relativi diritti, quando tali partecipazioni, cumulativamente considerate, raggiungono o
superano le soglie indicate nell’art. 19”: nel senso che il generico riferimento ai “diritti” comprenda anche
“impegni parasociali anche soltanto di blocco o di consultazione, purché stabili”, v. ROSA, op. cit., 182
(nt. 66).
36
Sui rapporti tra patti parasociali occulti, informazioni privilegiate e insider trading ci si soffermerà
diffusamente nel terzo capitolo.
37
Alla vigilia della riforma, esprimeva perplessità nei confronti dell’introduzione di tale requisito
RESCIO, Dei patti parasociali, cit., 1458-1459, sia in quanto non agevolmente comprensibile, sia in
quanto probabilmente in grado di esonerare dagli obblighi pubblicitari i patti stipulati dalle minoranze
(magari di blocco).
38
E’ dubbio se tale categoria di patti possa comprendere anche gli accordi con cui taluni azionisti si
impegnino reciprocamente ad esercitare un’influenza sugli amministratori. Anche prima dell’entrata in
vigore della norma, taluno aveva negato la liceità di siffatti patti, argomentando in base al principio di
libertà e responsabilità degli amministratori, che impedirebbe ai soci di vincolarsi validamente ad
“esercitare pressioni (indebite) sui consiglieri di rispettiva designazione”: così SCHLESINGER, Oggetto
delle clausole dei sindacati di voto, in Sindacati di voto e sindacati di blocco, a cura di F. Bonelli e P. G.
Jaeger, Milano, 1993, 101 ss.; ma v. più di recente anche RORDORF, I patti parasociali: tipologia e
disciplina, in Trattato del contratto, a cura di V. Roppo, Milano, 2006, v. VI, 804 ss.; PRATELLI,
Problemi in tema di “sindacati di gestione”, in Giur. comm., 2005, I, 112 ss., entrambi argomentando
principalmente sulla scorta del contrasto di tali patti con l’art. 2380-bis c.c. In senso parzialmente diverso
TRIMARCHI, Strumenti per assicurare l’adempimento dei sindacati di voto, in Sindacati di voto e
sindacati di blocco, a cura di F. Bonelli e P. G. Jaeger, Milano, 1993, 115 ss., il quale riteneva che tali
17
si deve chiedere, quindi, se la clausola inserita nella norma del codice civile sia una
sorta di presupposto generale per l’applicazione di ogni disciplina riguardante la figura
dei patti parasociali.
La soluzione del quesito assume una portata di grande rilievo, tanto con
riferimento all’esigenza di sceverare i patti parasociali soggetti agli obblighi pubblicitari
previsti dal codice civile e dal T.U.F., quanto in rapporto al tema dell’accertamento dei
patti parasociali occulti e, di riflesso, dell’individuazione degli elementi di fattispecie
che a tal fine devono costituire oggetto di prova. Ora, per quanto riguarda le società
facenti ricorso al mercato del capitale di rischio, risulta dominante e condivisibile
l’opinione secondo cui il requisito in esame vada esteso anche alla disciplina della
pubblicità di cui all’art. 2341-ter c.c., in nome dell’esigenza di coerenza interna al
microsistema delineato dal codice civile, da leggersi, come già si è detto, in intima
connessione.39 Maggiori incertezze sorgono, invece, proprio in relazione alla normativa
riguardante le società quotate40: su questo punto è necessario soffermarsi, anche in
pattuizioni, pur non potendo vincolare gli amministratori, sarebbero state del tutto valide tra i soci. In
Germania, sono per lo più ritenuti rilevanti gli accordi in virtù dei quali gli azionisti esercitano una
pressione congiunta sul consiglio di sorveglianza o sugli amministratori: cfr. DRINKUTH, op. cit., 677;
SCHNEIDER, § 22, cit., 1070, il quale osserva come la norma sia attualmente inequivocabile in tal senso
e possa riferirsi anche all’influenza di fatto sull’assemblea; nonché, ancora con riferimento al § 22,
PSAROUDAKIS, op. cit., 304-305 (l’A., peraltro, richiama l’esigenza che l’influenza di fatto sia
concretamente provata). Contra, con particolare riguardo al § 22, GAEDE, op. cit., 260. Il problema si era
posto soprattutto con riferimento alla precedente versione delle due norme (in cui l’eccezione del caso
singolo era letteralmente riferita all’esercizio del diritto di voto), sulla cui base la nota sentenza del BGH
del 18 settembre 2006 (in ZIP, 2006, 2077 ss.) aveva ritenuto che anche la fattispecie generale
comprendesse soltanto le intese aventi ad oggetto l’esercizio del diritto di voto. La sentenza è stata
pubblicata anche in RDS, 2008, 74 ss., con nota di F. M. MUCCIARELLI, Acting in concert e opa
obbligatoria in una sentenza del BGH tedesco. Concorde con tale pronuncia si è mostrato LÖHDEFINK,
op. cit., 336 ss., il quale si è espresso per la riconducibilità alla fattispecie dell’ipotesi in questione qualora
esistano circostanze che garantiscano di fatto un’influenza sull’intero organo; per un commento già critico
verso tale decisione, v. invece SCHNEIDER, Acting in Concert: Vereinbarung oder Abstimmung über
Ausübung von Stimmrechten?, in ZGR, 2007, 440 ss.: l’A. ha osservato che l’intesa sull’esercizio del voto
in assemblea non è né necessaria - giacché “il controllo è raggiunto, quando sussiste la possibilità di
esercitare un’influenza di fatto sulla base dei diritti di partecipazione” (“Kontrolle ist erlangt, wenn die
Möglichkeit besteht, den auf den Mitgliedschaftsrechten beruhenden faktischen Einfluss einzusetzen”) né sufficiente, poiché l’assemblea non è competente per le decisioni di gestione e d’altra parte l’accordo
sulla scelta dei membri del consiglio di sorveglianza non potrebbe garantire automaticamente
un’influenza sulla gestione. Il dubbio circa la rilevanza di altre condotte - diverse dall’esercizio del voto sembra ormai essere stato eliminato a seguito della modifica della norma, che non riferisce più
l’eccezione del caso singolo al voto in assemblea: v., con riferimento al § 22, PSAROUDAKIS, op. cit.,
300 ss. Restano di avviso contrario, con riguardo al § 30, GAEDE, op. cit., 216, in quanto per garantire
l’esercizio del controllo ogni intesa dovrebbe riguardare l’esercizio dei diritti di voto; LÖHDEFINK, op.
cit., 286, che ritiene sufficiente l’intesa avente tale oggetto, a prescindere dal fattivo e materiale esercizio
del controllo, bastando la sua potenzialità (ibidem, 293); nonché HAMANN, op. cit., 1090, che ritiene i
casi di influenza di fatto sugli amministratori - atteso che costoro sono vincolati soltanto a perseguire il
bene dell’impresa - esclusi dal campo di applicazione del § 30 e soggetti soltanto a rimedi di diritto
societario quali la responsabilità dei gestori stessi.
39
MACRI’, Patti parasociali, cit., 71 ss. Si è sostenuto però anche che la finalità di stabilizzazione degli
assetti proprietari o del governo della società sia strettamente coerente e funzionale alla (sola) disciplina
in tema di durata dei patti parasociali, ossia all’art. 2341-bis c.c., e non anche a quella riguardante la
pubblicità: CHIONNA, op. cit., 135.
40
Per i termini della questione cfr. SEMINO, Il problema della validità dei sindacati di voto, Milano,
2003, 363 ss., il quale pare propugnare la soluzione della verifica caso per caso e in concreto
dell’applicabilità del requisito nelle società quotate. Cfr. sul punto LIBERTINI, op. cit., 489, il quale
osserva che i sindacati di blocco presuppongono implicitamente in via generale il fine di stabilizzare la
18
ragione delle ricadute applicative che la soluzione di questo problema è destinata ad
avere sulla disciplina del concerto e dell’OPA obbligatoria.41
proprietà, mentre quelli di controllo “tendono a stabilizzare il governo”; riconosce però l’A. che il
problema rimarrebbe per i sindacati di voto (i quali, peraltro, costituiscono l’ipotesi più diffusa e
frequente di patto parasociale): tanto basterebbe perché la questione conservi intatta la sua urgenza e
rilevanza. Si osservi, peraltro, che analoga considerazione vale per i patti di consultazione e per quelli di
acquisto di azioni (anch’essi contemplati dall’art. 122 T.U.F.).
41
Nell’ordinamento tedesco, le due norme in tema di pubblicità e di offerta pubblica di acquisto
obbligatoria nelle società quotate (§ 22, Abs. 2 WpHG e § 30, Abs. 2 WpÜG) assicurano maggiore
certezza, richiedendo, come già si è visto, che vi sia una cooperazione con lo scopo di determinare un
durevole e rilevante cambiamento dell’organizzazione imprenditoriale della società. Si noti, peraltro, che
tale requisito assume una connotazione chiaramente speculare rispetto a quello “nostrano”, proprio perché
richiede un mutamento e non tanto una cristallizzazione delle dinamiche inerenti alla conduzione
dell’impresa sociale: da questo punto di vista, parte della dottrina lo ha interpretato restrittivamente,
escludendo che vi possa rientrare, appunto, un’azione concertata diretta alla conservazione dello status
quo: cfr. VON BÜLOW-STEPHANBLOME, Acting in concert und neue offenlegungspflichten nach dem
Risikobegrenzungsgesetz, in ZIP, 2008, 1799. In senso diverso, pare, SCHNEIDER (§ 22, cit., 1069) che
ha richiamato la necessità di un “progetto comune” (“Gesamtplan”), sotteso alla durevole e rilevante
influenza sulla società, che non deve però necessariamente tradursi in un cambiamento della politica
commerciale (“nicht zwingend erforderlich ist aber eine Änderung der Geschäftspolitik”). Cfr. anche
SCHÜPPEN-WALZ, op. cit., 651, ove si sottolinea, con riferimento al § 30, la necessità dello scopo
dell’imposizione di importanti obiettivi societari, in una forma continua e durevole. Il problema
interpretativo più spinoso che le norme tedesche pongono, però, è se tale generale requisito valga anche
per le intese sul diritto di voto, essendo letteralmente riferito soltanto ai comportamenti coordinati di
diversa natura: per una risposta affermativa con riferimento ad entrambe le norme v. ANDERS-FILGUT,
Abgestimmte Stimmrechtsausübung - ist die Einzelfallausnahme systemwidrig?, in ZIP, 2010, 1115 ss., i
quali osservano che l’esercizio coordinato del diritto di voto è soltanto una specifica ipotesi di
comportamento omogeneo e pertanto rileva in presenza dei medesimi presupposti; sempre con
riferimento ad entrambe le norme, VON BÜLOW-STEPHANBLOME, op. cit., 1798, ove si evidenzia
che il coordinamento del diritto di voto deve mirare “auf eine nachhaltige und beständige Einflussnahme
auf die Gesellschaft im Sinne eines Gesamtplans” (ossia “ad un durevole e costante influsso sulla società
inteso come progetto comune”) e deve essere “spürbar” (percepibile); nonché PSAROUDAKIS, op. cit.,
291. Similmente, ma con riferimento al § 22, GAEDE, op. cit., 252, che prospetta l’idea secondo cui
anche l’intesa sul voto deve avere una certa rilevanza, al fine di evitare il pericolo di una sovrainformazione del mercato che, ove riguardasse fatti poco rilevanti, finirebbe per essere controproducente.
Di diverso avviso HAMANN, In concert or not in concert? Eine methodische Konkretisierung von § 30
Abs. 2 Satz 1 WpÜG, in ZIP, 2007, 1091, secondo cui l’esercizio del diritto di voto in assemblea non deve
a tale fine avere alcuna particolare connotazione ulteriore, anche in considerazione delle difficoltà di
prova dell’esistenza di un coordinamento. Anche negli Stati Uniti lo scopo di raggiungimento del
controllo rileva ai fini della disclosure, ma non tanto come elemento costitutivo della fattispecie
dell’obbligo di pubblicità [la Section 13(d) richiede del resto che sia data notizia dello scopo degli
acquisti, che potrebbe anche essere diverso], quanto nella prospettiva di un possibile alleggerimento della
disclosure: secondo la Section 13(d)(5), si può beneficiare di un modello semplificato di informazione
(Schedule 13G) nel caso in cui la percentuale rilevante sia acquistata nell’ambito della corrente attività del
detentore “and were not acquired for the purpose of and do not have the effect of changing or influencing
the control of the issuer nor in connection with or as a participant in any transaction having such
purpose or effect”. La norma è attuata pressoché pedissequamente dalla Rule 13d-1(b)(1) della SEC: sul
punto LEVY, op. cit., 5-15. Si tratta, come rilevato in dottrina, di una norma tipicamente pensata per gli
investitori istituzionali: cfr. BROWN et al., op.cit., § 2.04[A], 2-21. Ciononostante, è comunque emersa
l’opinione che tali previsioni possano comunque avere l’effetto negativo di scoraggiare il coinvolgimento
degli investitori istituzionali nella corporate governance: sul punto COFFEE Jr.-SELIGMAN-SALE,
Securities Regulation: Cases and Materials, New York, 2007, 719. Peraltro, la Rule 13d-1(e)(2) della
SEC prevede che sino a quando l’investitore, dopo aver cambiato i suoi obiettivi, non provveda ad una
piena disclosure, non possa né esercitare il voto per le sue partecipazioni, né acquistarne altre. Le Corti
hanno avuto occasione di affermare, da un lato, che se la Schedule 13D non contiene l’informazione circa
lo scopo di acquisizione del controllo e successivamente viene promossa una tender offer, l’informativa
deve essere ritenuta falsa e ingannevole [v. ad es. Chromalloy Am. Corp. v. Sun Chem. Corp., 611 F.2d
240 (8th Cir. 1979)]; dall’altro, che su questo punto la disclosure deve riguardare un’intenzione ben
19
Secondo un primo orientamento, tale direzione finalistica degli accordi non
sarebbe necessaria al fine dell’assoggettamento agli obblighi di pubblicità previsti dal
Testo Unico della Finanza: di conseguenza, non vi sarebbero dubbi sulla necessità di
pubblicizzare anche i patti intervenuti, ad esempio, tra soci di minoranza.42 Questa tesi è
stata sostenuta anche sulla base dell’argomento per cui l’esigenza di una piena
informativa al pubblico suggerirebbe di dare pubblicità a qualunque tipo di accordo,
anche in ragione delle varie peculiarità che essi assumono in concreto e della difficoltà
di distinguere categorie di patti parasociali dai contorni precisi.43
In base ad una differente ricostruzione, viceversa, lo scopo degli accordi
parasociali descritto in maniera pressoché solenne dall’art. 2341-bis c.c. dovrebbe
considerarsi un tratto fondamentale e comune a tutti i patti parasociali presi in
considerazione dalla legge, ossia un presupposto necessario dell’applicazione della
disciplina, specialmente ai fini degli obblighi di trasparenza, sia nell’ambito delle
società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, sia nelle società quotate.44
precisa (e non già dai contorni indefiniti), che sia cioè più di una vaga previsione futura [Azurite Corp. v.
Amster & Co., 52 F.3d 15, 18 (2d Cir. 1995); ma per la tesi che tale scopo non debba necessariamente
essere accompagnato da un piano già definito, v. Standard Financial, Inc. v. La Salle/Kross Partners, LP,
1997 WL 80946, No. 96 C 8037 (N.D. III Feb. 20, 1997), riportato da DAVIS, Mergers & Acquisitions:
Cases and Problems, Buffalo, New York, 2007, 178 ss.]. Lo scopo del raggiungimento e dell’esercizio
del controllo non è menzionato nemmeno nella Section 16, anche se in dottrina si è rilevato che “Section
16 is intended to reach those persons who can be presumed to have access to inside information because
they can influence or control the issuer as a result of their equity ownership”: così HAMILTONRASMUSSEN, op. cit., 22-23; per un’analoga osservazione con riferimento alla Section 13 - che
riguarderebbe pur sempre “persons who may have the potential to exercise influence over the company”,
cfr. BARTOS, United States Securities Law: A Practical Guide, Norwell, 2002, 131 (ove il virgolettato.
Ma già la giurisprudenza aveva osservato: “that the purpose of section 13(d) is to alert the marketplace to
every large, rapid aggregation or accumulation of securities, regardless of technique employed, which
might represent a potential shift in corporate control is amply reflected in the enacted provisions”: v.
GAF Corp. v. Milstein, 453 F.2d 709 (2d Cir. 1971). E’ bene osservare che, secondo quanto previsto dalla
Rule 12b-2 della SEC, applicabile anche alla Section 13(d) del SEA, il controllo consiste in “the
possession, direct or indirect, of the power to direct or cause the direction of the management and
policies of a person, whether through the ownership of voting securities, by contract or otherwise”.
42
La rilevanza dei patti parasociali stipulati anche dalle minoranze era messa in luce da OPPO,
Maggioranza e minoranze nella riforma delle società quotate, in Riv. dir. civ., 1999, II, 233, il quale
riteneva però che difficilmente gli azionisti di minoranza avrebbero fatto ricorso a tale strumento.
Sostengono la maggiore ampiezza dell’ambito di applicazione dell’art. 122 T.U.F., proprio in ragione
dell’assenza del mancato richiamo di tale requisito, BLANDINI, Società quotate, cit., 342; FERRARA
JR.-CORSI, Gli imprenditori e le società, Milano, 2009, 784.
43
Cfr. SEMINO, Brevi spunti su alcune questioni relative alla disciplina sulla disclosure dei patti
parasociali nelle società quotate (deposito dei patti presso il registro delle imprese, regime sanzionatorio
di cui all’art. 122 t.u.i.f. e accordi di lock-up), nota a Trib. Como, 31 gennaio 2000 (decr.), in Giur.
comm., 2002, II, 282; e, in modo non molto dissimile, MEO, Le società di capitali, Le società con azioni
quotate in borsa, in Trattato di diritto privato, diretto da M. Bessone, Torino, 2002, v. XVII, 79.
44
Così, espressamente, MACRI’, Patti parasociali, cit., 78; RORDORF, I patti parasociali, cit., 798. In
tal senso anche G. F. CAMPOBASSO, Voto di lista e patti parasociali nelle società quotate, in Banca,
borsa, tit. cred., 2003, I, 128 ss. e spec. 130, il quale opinava nel senso che gli accordi tra più azionisti per
la presentazione congiunta di una lista di candidati al consiglio di amministrazione - non affiancati da un
parallelo accordo sul voto - non costituirebbero patti parasociali rilevanti ai sensi dell’art. 122 T.U.F. in
quanto “non sono destinati ad incidere sugli assetti proprietari e sulla contendibilità del controllo delle
società quotate”. Conf., ma con diversa motivazione, CHIAPPETTA, I patti parasociali nel Testo Unico
delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, in Riv. soc., 1998, 998 (nt. 30). Tale
prospettiva è stata accolta anche da CARIELLO, Tutela delle minoranze e accordi parasociali nelle
società quotate, in Riv. soc., 1999, 718 ss.: l’A. osservava che la disciplina del Testo Unico può spiegarsi
soltanto con la necessità di garantire la massima trasparenza degli assetti di controllo e che, in particolare,
20
Proprio con riferimento a queste ultime, la giurisprudenza ha in più occasioni
recentemente affermato che “caratteristica comune dei patti rilevanti ai fini della norma
in esame [l’art. 122 T.U.F., n.d.r.] è quella dell’essere volti a stabilizzare gli assetti
proprietari o il governo della società, e la finalità della pubblicità è quella di garantire la
trasparenza degli assetti proprietari della società quotata, a tutela del mercato” 45.
In tal senso, peraltro, si era già pronunciata la Consob ancor prima delle novelle
del T.U.F. intervenute nel 2007 e nel 2009, allorché aveva ritenuto che nelle fattispecie
di cui all’art. 122 T.U.F. dovessero ritenersi rientranti solamente i patti aventi lo scopo
di incidere sugli assetti proprietari e sulla contendibilità del controllo delle società
quotate.46
La risposta all’interrogativo posto all’inizio del presente paragrafo merita però
un ulteriore approfondimento. Occorre ammettere la correttezza dell’assunto che, in
linea di principio, l’esigenza di pubblicizzare altresì i patti di minoranza non collide di
per sé con la necessità che si ravvisi (anche) il presupposto della stabilizzazione degli
assetti proprietari o del governo della società: come si è giustamente notato, “mentre il
fine di stabilizzare il governo societario caratterizza i sindacati di maggioranza (e quelli
che, pur di minoranza, sono in grado in talune ipotesi e in presenza di certe condizioni
di influire sulle decisioni societarie), invece la stabilizzazione degli assetti proprietari
può concernere anche patti di minoranza.” 47 Tale affermazione, per quanto
le sanzioni irrogate in caso di inosservanza degli obblighi pubblicitari trovano giustificazione soltanto se
riferite ad accordi in grado di garantire l’influenza dominante sulla società, manifestando altrimenti la
loro eccessività; secondo l’A., “l’art. 122, nella parte in cui prescrive tre diverse forme di pubblicità, è
privo di ratio qualora se ne invochi l’applicazione con riferimento agli accordi di minoranza” (ibidem,
739). Sul punto anche COSTI, I patti parasociali e il collegamento negoziale, in Giur. comm., 2004, I,
206, il quale, in maniera più ambigua, rilevava che il fine di stabilizzazione “non viene esplicitamente
richiesto con riferimento alle società quotate, anche se potrà considerarsi implicitamente perseguito pure
per queste ultime nella massima parte dei casi”.
45
Così App. Genova, 19 dicembre 2009 (decr.), pubblicata in Società, 2010, 587 ss.; nonché App.
Bologna, 27 gennaio 2010, pubblicata in Società, 2010, 591 ss.
46
Così la nota Comunicazione Consob n. 29486 del 18 aprile 2000, la quale aggiungeva che la funzione
dei patti parasociali destinati ad essere assoggettati agli obblighi di trasparenza “può essere sinteticamente
individuata nello scopo di dare un indirizzo unitario all’organizzazione e alla gestione sociale […] e nello
scopo di ‘cristallizzare’ determinati assetti proprietari”. Tale comunicazione è stata poi ripresa dalle
successive comunicazioni n. DEM/2060863 dell’11 settembre 2002; n. DEM/3077483 del 28 novembre
2003 e n. DEM/5044981 del 22 giugno 2005. Sul punto, v. anche DE CANTELLIS - GIUDICI TERRILE, Rassegna delle comunicazioni Consob in materia di offerte pubbliche di acquisto, in Riv. soc.,
2001, 556. Si è di recente osservato che il legislatore del 2003 sembra aver recepito quanto già era stato
affermato dalla Consob con riferimento alle società quotate e averne ricavato un principio generale: così
BOVE, Sub art. 122, in Commentario all’offerta pubblica di acquisto, a cura di G. Fauceglia, Torino,
2010, 235 (nt. 30). Come si legge nella Relazione al d. lgs. n. 6/2003, inoltre, la comune finalità dei patti
parasociali è volta a “scongiurare il rischio, già manifestatosi in relazione alle società quotate, di
un’impropria estensione delle norme sui patti parasociali a fattispecie che nulla hanno a che vedere con
questi”. Sul punto, v. anche GUACCERO, Interesse al valore per l’azionista e interesse della società,
Milano, 2007, 337 ss., il quale ritiene siano riconducibili all’art. 122 T.U.F.: (i) gli accordi con i quali si
attribuisce un diritto di opzione a favore degli azionisti che non intendano aderire ad un’offerta pubblica
di acquisto né recedere da un preesistente ed ulteriore patto parasociale; (ii) gli impegni aventi ad oggetto
l’acquisto di azioni mediante un’offerta concorrente; tali patti, ad avviso dell’A., presenterebbero le
esigenze di trasparenza di cui all’art. 122 T.U.F. vuoi in quanto aventi ad oggetto l’acquisto di azioni,
vuoi in quanto idonei ad incidere sugli assetti proprietari e sul controllo della società.
47
Sono le parole di MACRI’, Patti parasociali, cit., 81. Conf. PICCIAU, Sub artt. 2341-bis - 2341-ter,
cit., 340; FIORIO, Sub artt. 2341-bis - 2341-ter, cit., 143-144; DONATIVI, Sub art. 2341-bis, cit., 169;
LENER, Appunti, cit., 47; i quali richiamano la formazione di una minoranza di blocco nelle assemblee
21
condivisibile, non risolve però il problema se il requisito debba in ogni caso essere
presente ai fini dell’applicazione della disciplina e dunque, per quanto riguarda i patti
parasociali occulti, costituire oggetto di prova.
Un tentativo di soluzione potrebbe passare attraverso la verifica se tale clausola
sia compatibile con tutte le categorie di patti indicate dall’art. 122 T.U.F.: il riferimento
è, in particolare, agli accordi volti ad aderire ad un’offerta pubblica, che non parrebbero
certo volti a stabilizzare gli assetti proprietari o il governo della società. In realtà, non è
da escludere che tale effetto “stabilizzatore” possa anche essere previsto riguardo al
futuro, ossia all’assetto proprietario come destinato a configurarsi proprio in seguito al
successo dell’OPA: in altre parole, non è affatto scontato che gli “assetti proprietari”
menzionati dalla norma del codice civile siano necessariamente quelli esistenti al
momento della stipula del patto parasociale, ben potendo quest’ultimo, appunto,
limitarsi inizialmente a non opporsi ad un mutamento del controllo che sia destinato
successivamente a consolidarsi.48 Rientrano nella fattispecie di cui alla lett. d-bis) anche
gli accordi con cui un terzo si impegni a promuovere un’offerta concorrente a quella
ostile al gruppo di comando della società bersaglio: si è correttamente osservato che
anche in tal caso emergono esigenze di trasparenza dell’accordo, specie in capo
all’offerente ostile, il quale ha evidentemente interesse a conoscere l’offerta concorrente
e gli accordi ad essa sottostanti.49
Anche tale percorso argomentativo, tuttavia, non sembra in grado di dimostrare
la necessità del presupposto in esame ai fini dell’applicazione della disciplina del
T.U.F.: altro è che il requisito sia astrattamente compatibile con tutte le tipologie di patti
contemplate dall’art. 122 T.U.F., altro è sostenere che esso sia imprescindibile, con
conseguente condanna all’irrilevanza degli accordi che in concreto ne siano privi.
Tale imprescindibilità non potrebbe essere ricavata neppure dal tenore dell’art.
101-bis T.U.F., che individua i patti parasociali di cui all’art. 122 T.U.F. (ad esclusione
di quelli di cui alla lett. d-bis) quale ipotesi presuntiva di un’azione concertata, che si
fonda sull’accordo “volto ad acquisire, mantenere o rafforzare il controllo della società
emittente” (o a contrastare un’offerta pubblica di acquisto o di scambio): tale locuzione,
come si avrà modo di illustrare più diffusamente nel capitolo successivo e salva la
necessità di precisarne la portata, gioca un ruolo chiave ai fini propri dell’insorgenza
dell’obbligo di promuovere un’OPA, ma non anche nell’ottica della trasparenza, non
trovandosi del resto traccia della stessa nell’art. 122 T.U.F.
Né sembra avere importanza decisiva nella presente questione, come anticipato,
il fatto che l’elenco di cui all’art. 122 T.U.F. contempli i patti aventi per oggetto o per
effetto l’esercizio di influenza dominante sulla società [lett. d) del quinto comma]: tale
fattispecie, invero, coincide con quella di cui all’art. 2341-bis c.c., n. 3, nel cui contesto
straordinarie e anche la stipulazione di un sindacato di blocco da parte di soci minoritari. Sul punto anche
OPPO G., Patto sociale, patti collaterali e qualità di socio nella società per azioni riformata, in Riv. dir.
civ., 2004, II, 57 ss.; LEOGRANDE, op. cit., 101; TRIMARCHI, I patti parasociali, cit., 141.
48
Sul punto, v. BOVE, op. cit., 236. L’A. aggiunge anche che “chi si è impegnato ad aderire ad un’OPA
agisca normalmente di concerto con colui che l’ha promossa o la promuoverà” (ibidem, 235). Nessun
dubbio, invece, sul fatto che gli impegni di non adesione all’OPA siano rilevanti ai fini della
cristallizzazione degli assetti proprietari: cfr. App. Bologna, 27 gennaio 2010, cit..
49
V. BOVE, op. cit., 241 (testo e nt. 58).
22
essa convive proprio con il generale requisito della finalità di stabilizzazione degli
assetti proprietari o del governo societario.50
Si può accedere all’idea che tale categoria di patti costituisca una fattispecie di
chiusura che non vale di per sé ad escludere la rilevanza, con riguardo alle altre
tipologie di patti elencate dall’art. 122 T.U.F., degli accordi stipulati anche dalle
minoranze.51 Se questo è vero, non è meno vero che tale assunto debba oggi certamente
essere corretto alla luce del comma 5-ter dell’art. 122 T.U.F. - che fissa al due per cento
del capitale sociale la soglia di rilevanza dei patti destinati ad essere comunicati nelle
società quotate - ma risulta certamente condivisibile. A ben guardare, è proprio
l’introduzione di questo requisito numerico (ad opera del d. lgs. n. 146/2009) a poter
fornire una prospettiva di soluzione. Si può constatare, cioè, che il legislatore ha evitato
di inserire ulteriori limiti alla pubblicità dei patti parasociali di società quotate, pur
essendo a conoscenza dei termini del presente (e già esistente) dibattito52. Né risulta
condivisibile l’interpretazione proposta da chi ha osservato che tale soglia riguarderebbe
a ben vedere i soli “obblighi di comunicazione” (come letteralmente prevede lo stesso
comma 5-ter) e non anche quelli di pubblicazione, che rimarrebbero in ogni caso
fermi53: una simile soluzione, invero, sarebbe razionale se fossero i più gravosi obblighi
di pubblicazione ad essere limitati ad una fascia più ristretta di patti e non già quello di
50
E’ probabilmente vero che, come sostiene DONATIVI, Sub art. 2341-bis, cit., 173, se un patto ha per
oggetto o per effetto l’esercizio di un’influenza dominante soddisfa altresì il requisito generale della
finalità di stabilizzazione: il problema, però, è proprio quello di verificare se esso possa ritenersi
presupposto generale di applicazione della disciplina anche per le altre tipologie di patti contemplate
dall’art. 122 T.U.F.
51
Cfr. SANTONI, I patti parasociali nella nuova disciplina delle società quotate, in Riv. dir. priv., 1999,
204, il quale, ammettendo pertanto la necessaria pubblicizzazione dei patti di minoranza, evidenziava che
“non è dato individuare una particolare categoria di soggetti, e specificamente i c.d. soci di minoranza,
che si avvantaggerebbero della disciplina in esame, la quale ha invece come proprio effettivo obiettivo la
tutela del mercato”; e v. anche ID., Sub art. 122, in Testo Unico della Finanza (d. lg. 24 febbraio 1998, n.
58), Commentario diretto da G. F. Campobasso, Torino, 2002, **, 1003 e 1005. Analog, OPPO, Patti
parasociali: ancora una svolta legislativa, in Riv. dir. civ., 1998, II, 224, il quale affermava che “fatta
salva l’ipotesi di ‘influenza dominante’ […], la disciplina, come quella stessa del sindacato di voto,
prescinde dalla creazione o dalla preesistenza di una situazione di controllo”. Conf. ATELLI, Sub artt.
122-124, in Il testo unico della intermediazione finanziaria, Commentario al D. Lgs. 24 febbraio 1998, n.
58, a cura di C. Rabitti Bedogni, Milano, 1998, 677.
52
Per i termini della questione cfr. MACRI’, Patti parasociali, cit., 82 (nt. 94). Dopo la riforma
societaria, del resto, si era proposto di introdurre in relazione alle società quotate proprio il riferimento
alla soglia di rilevanza del 2%, in linea con la disciplina della comunicazione delle partecipazioni
rilevanti e dei limiti alle partecipazioni reciproche contenuta nel T.U.F.: v. ad esempio DONATIVI, Sub
art. 2341-bis, cit., 170-171. Quanto appena detto introduce implicitamente la questione se si dovranno
computare tutte le azioni detenute dagli aderenti o soltanto quelle espressamente vincolate al rispetto del
patto parasociale: esigenze di natura antielusiva militano nel primo senso. La questione potrebbe essere
sdrammatizzata se si ritiene, come taluno ha fatto, che la partecipazione singolarmente detenuta (e
formalmente estranea al patto) vada comunque resa oggetto di comunicazione ai sensi e per gli effetti di
cui all’art. 120 T.U.F.: BOVE, op. cit., 231. Sotto altro profilo, l’A. osserva che debbano essere
computate al denominatore soltanto le azioni con diritto di voto (anche se limitato o sospeso), mentre al
numeratore (ossia ai fini del calcolo del 2%) anche gli strumenti finanziari che attribuiscono diritti
amministrativi.
53
Si è rilevato infatti che il comma 5-ter dell’art. 122 T.U.F. si riferisce letteralmente agli “obblighi di
comunicazione”, che dovrebbero essere distinti dagli “obblighi di pubblicazione”: così BOVE, op. cit.,
230, il quale sottolinea in particolare che, mentre il comma 3 della norma menziona genericamente gli
“obblighi di cui al comma 1” e il comma 2 distingue appunto la “comunicazione” dalla “pubblicazione”
dei patti, il comma 5-ter si rivolge espressamente ai soli “obblighi di comunicazione”.
23
comunicazione. Dunque, può certamente ammettersi l’assoggettabilità degli accordi
parasociali di minoranza nelle società quotate - rientranti, naturalmente, nelle tipologie
elencate dall’art. 122 T.U.F. - agli obblighi di pubblicazione e comunicazione ivi
previsti, essendo necessario ma anche sufficiente che essi coinvolgano azioni in misura
superiore alla predetta percentuale. Il dato normativo, su questo punto, sembra
difficilmente equivocabile.
Sulle impostazioni di ordine restrittivo tese a valorizzare quale discrimine la
finalità “di stabilizzare gli assetti proprietari o il governo della società”, risultano
dunque destinati a prevalere, da un lato, il comma 5-ter dell’art. 122 T.U.F., che come si
è visto milita nel senso che la soglia in esso individuata si configuri quale requisito
necessario e sufficiente per l’insorgenza degli obblighi di trasparenza; dall’altro, ancora
una volta, il chiaro disposto del comma 5-bis dello stesso art. 122 T.U.F., che sancisce
l’inapplicabilità - ai patti in esso previsti e relativi appunto a società quotate - degli artt.
2341-bis e 2341-ter c.c. Né si può obiettare che la disposizione del comma 5-bis si
riferisca unicamente alla disciplina dettata dagli articoli del codice, rimanendo la
fattispecie ivi descritta (o quantomeno taluni suoi elementi) estendibile anche ai patti
parasociali di società quotate: questa tesi si risolverebbe in un’evidente forzatura del
dato normativo, atteso che l’art. 122 T.U.F. mostra chiaramente, attraverso
un’elencazione delle tipologie di patti (in parte sovrapponibile, ma comunque)
differente, di voler configurare in maniera autonoma anche la fattispecie (rectius: le
fattispecie) soggette agli obblighi informativi da esso imposti.
Anche volendo prescindere da questi argomenti di natura esegetica - per quanto,
ad opinione di chi scrive, di per sé decisivi - si può osservare che in ragione delle
maggiori e pressanti esigenze di trasparenza che emergono nel contesto delle società
quotate, non sembra ragionevole limitare in relazione a queste ultime l’ambito
applicativo delle norme in tema di disclosure dei patti parasociali, uniformandolo a
quello delle disposizioni codicistiche. Anche la dottrina tedesca, in relazione al § 22
WpHG - che in sostanza sancisce, come si è visto, l’obbligo di comunicazione degli
accordi tra soci in quanto rilevanti per la disclosure delle soglie di partecipazione al
capitale - ha evidenziato, da un lato, la necessità di ricomprendervi anche i casi dubbi 54;
dall’altro, che tale norma mira a garantire la massima trasparenza, anche di assetti
proprietari non di controllo.55 Non è chi non veda come la tesi che propugna
l’assoggettamento a pubblicità dei soli patti volti a stabilizzare gli assetti proprietari o il
governo della società finisca per avere ricadute applicative decisamente problematiche,
giacché non sarebbe certo semplice stabilire in concreto se un determinato patto
parasociale sia o meno da rendere noto; nel caso di un patto occulto, per di più, tali
difficoltà si aggiungerebbero a quelle derivanti dalla prova (tanto del patto stesso
quanto, in particolare, dello specifico requisito di cui si è detto).
Ad ogni modo, come si vedrà nel capitolo successivo, la conclusione rassegnata
non implica affatto l’assoluta irrilevanza, nel tessuto normativo approntato dal T.U.F.,
dell’idoneità del patto a stabilizzare gli assetti proprietari o il governo della società, ben
54
55
PRASUHN, op. cit., 185 ss.
VON BÜLOW-BÜCKER, op. cit., 703-704.
24
potendo tali o simili effetti - che abbiano a prodursi in concreto - rivestire un ruolo
chiave ai fini della prova dell’esistenza di un patto parasociale occulto, basata
primariamente sul comportamento conforme dei presunti concertisti e sul relativo
impatto nell’ambito della vita societaria.
4. Segue: la natura del requisito della stabilizzazione degli assetti
proprietari o del governo della società tra interpretazioni “soggettivistiche” e
“oggettivistiche”.
Le ultime battute del precedente paragrafo hanno già anticipato ed in parte
introdotto il successivo approdo della trattazione. Si è poc’anzi ritenuta più corretta
l’impostazione secondo cui la finalità di stabilizzazione degli assetti proprietari o del
governo della società costituisce un elemento caratterizzante ed essenziale per i soli
patti parasociali soggetti alla disciplina codicistica in tema di pubblicità, relativa cioè a
società facenti ricorso al mercato del capitale di rischio ma non quotate. La clausola non
rileva, viceversa, ai fini dell’insorgenza degli obblighi di trasparenza di cui all’art. 122
T.U.F. Nel tessuto normativo del codice civile, si pone però l’ulteriore problema se la
predetta destinazione teleologica dell’accordo debba altresì costituire oggetto della
prova volta a far emergere un patto parasociale occulto.56 Altro quesito, tutt’altro che
secondario, è se, correlativamente, la predetta finalità di cui all’art. 2341-bis c.c.,
costituente presupposto dell’applicazione anche dell’art. 2341-ter c.c., debba essere
intesa e valutata in senso oggettivo o soggettivo.57
La Corte d’Appello di Bologna, in una recente pronuncia riguardante il noto
caso Unipol-BNL, pur presupponendo la rilevanza del requisito anche nell’ambito della
disciplina del T.U.F., ha risposto alla prima questione, per quanto implicitamente, in
senso affermativo, là dove ha ritenuto che gli elementi indiziari forniti dalla Consob non
fossero sufficienti a provare “l’intento di stabilizzazione degli assetti proprietari
necessario per poter ravvisare la sussistenza di un patto parasociale rilevante ai sensi
dell’art. 122 T.U.F.” 58 (corsivo aggiunto). Con tale passaggio, come si può notare, la
Corte ha altresì attribuito al requisito una valenza soggettiva, lasciando intendere che
tale elemento della fattispecie debba costituire oggetto di rappresentazione e volontà dei
paciscenti e che, appunto, su di esso debba essere raggiunta la prova.
56
Non si può passare sotto silenzio, in argomento, l’originale ma isolata posizione di BADINI
CONFALONIERI, op. cit., 285, che, con riferimento alla disciplina del codice civile, ritiene il requisito
funzionale di cui all’art. 2341-bis c.c. “presunto nei patti parasociali indicati dalla norma stessa”, salva la
prova contraria.
57
Nella dottrina tedesca, alcuni autori hanno optato per interpretare in senso soggettivistico il requisito
del cambiamento dell’organizzazione dell’impresa sociale o comunque dell’influenza durevole sulla
società, ma si tratta di opinione - a quanto consta - minoritaria: in tal senso, VON BÜLOWSTEPHANBLOME, op. cit., 1799, i quali ritengono che esso debba presentarsi nella forma di un intento
che sta alla base dell’intesa, non essendo necessario che l’influenza sulla società abbia, in ultima analisi,
successo. Conf. HAMANN, op. cit., 1092.
58
Così App. Bologna, 27 gennaio 2010, cit., 591.
25
Questa impostazione risulta essere però minoritaria in dottrina e, in ogni caso,
poco convincente, giacché è “evidente come la soggezione alla disciplina non possa
dipendere da un elemento soggettivo di difficile e insicuro accertamento” 59.
In letteratura tende infatti a prevalere l’idea che la clausola vada intesa
oggettivamente: in questa prospettiva, però, le posizioni si diversificano ulteriormente.
Taluni, in particolare, ritengono che si debba avere riguardo ai possibili effetti del patto
parasociale.60 Altri, sempre nell’ambito della tesi “oggettivistica”, preferiscono
interpretare la locuzione alla stregua di una “causa concreta” dell’accordo61: si osserva,
in proposito, che l’applicabilità della disciplina non può dipendere da una valutazione ex
post avente ad oggetto gli effetti pratici del patto.62 Quest’ultima impostazione presenta
tuttavia alcuni punti deboli. Innanzitutto, non si tratterebbe necessariamente di
procedere ad una valutazione ex post, bensì ad una valutazione ex ante secondo il
criterio della prognosi postuma: se, poi, si riscontra che il patto parasociale ha
concretamente prodotto effetti di tal fatta, anche tale prova ne risulterà agevolata; in
secondo luogo, la causa concreta intesa come intento od obiettivo comune delle parti è
concetto scivoloso e finisce per essere a livello pratico pressoché indistinguibile dai
motivi o, comunque, dallo stato soggettivo dei paciscenti; infine, si può forse osservare
che la nozione di causa afferisce alla struttura di un determinato negozio, a prescindere
dalla percentuale di capitale detenuta dagli azionisti che lo pongono in essere (il patto
stipulato da una strettissima minoranza, cioè, ha la medesima causa di quello di
contenuto identico ma stipulato da una percentuale rilevante) 63: affinché sia
configurabile in concreto l’idoneità del patto a stabilizzare gli effetti proprietari o il
governo della società, invece, occorrerà pur sempre che l’accordo coinvolga una
percentuale del capitale sociale (certamente variabile a seconda dei casi e tuttavia) tale
da consentire (concretamente, appunto), la produzione di tale effetto.
59
Così, condivisibilmente, PICCIAU, Sub artt. 2341-bis - 2341-ter, cit., 338.
Aderiscono a questo orientamento MACRI’, Patti parasociali, cit., 72; DONATIVI, Sub art. 2341-bis,
cit., 172; più sfumata ma analoga appare la posizione di ABRIANI, L’assemblea, in Le società per azioni,
a cura di N. Abriani, S. Ambrosini, O. Cagnasso, P. Montalenti, in Trattato di diritto commerciale, diretto
da G. Cottino, Padova, 2010, v. IV, t. I., 549, che giudica decisiva la “obiettiva capacità del patto
parasociale di incidere sugli assetti proprietari e sul governo societario”.
61
PICCIAU, Sub artt. 2341-bis - 2341-ter, cit., 338. Un’opinione simile è emersa nella letteratura tedesca
con riferimento al requisito degli accordi rilevanti, sia per il § 22 che per il § 30: si è detto, cioè, che conta
il perseguimento da parte degli interessati di uno scopo comune (“ein gemeinsames Ziel”), ma non anche
dei medesimi obiettivi a livello soggettivo, essendo irrilevanti i motivi individuali: così RALOFF, op. cit.,
192-193. Nello stesso senso si orienta la dottrina francese, nel momento in cui sottolinea che la “politique
commune” implica “la présence d’un élément intentionnel particulier, une sorte d’affectio concertis”:
così LAPRADE, Concert et côntrole, cit., 543; essa, però, non si identifica con i motivi individuali perché
“ils agissent de concert non point nécessairement parce qu’ils veulent tous la même chose, mais parce
que leur politique commune permet à chacun d’obtenir ce qu’il veut”: sono parole di SCHMIDT, Action
de concert, in Rép. Sociétés Dalloz, 2000, n. 42.
62
In dottrina, per tale posizione, v. in particolare CHIONNA, op. cit., 115 ss. e spec. 118: l’A. ammette
l’irrilevanza dei motivi individuali inespressi e riconosce la (sola) rilevanza della “causa concreta”
dell’accordo, che sarebbe determinata dall’unanime volontà manifestata in sede di stipulazione del patto
dai suoi aderenti.
63
In tal senso DONATIVI, Sub art. 2341-bis, cit., 172, il quale aggiunge che, quand’anche si aderisse alla
tesi soggettivistica o a quella causale, si dovrebbe intendere la finalità di stabilizzazione come
comprensiva anche di uno scopo-mezzo e non solo di uno scopo-fine.
60
26
Quanto testé detto verrà ripreso anche nel capitolo successivo, allorché si
approfondirà il significato dell’obiettivo di “acquisire, mantenere o rafforzare il
controllo della società”, individuato dall’art. 101-bis, comma 4, T.U.F. come un tratto
fondamentale dell’accordo in cui si sostanzia l’azione concertata.
5. Ulteriori problemi di interpretazione delle fattispecie: la rilevanza dei
patti a carattere occasionale e di quelli conclusi in vista di singole assemblee.
A questo punto occorre chiedersi se siano soggetti agli obblighi pubblicitari
anche i patti parasociali di carattere, per così dire, episodico - che si risolvono, cioè, in
un adempimento meramente puntuale - tra i quali rientrano quelli conclusi in vista ed in
occasione di singole assemblee.64
Quanto alle società quotate, l’aver escluso l’imprescindibilità del requisito di
stabilizzazione degli assetti proprietari o del governo della società ai fini
dell’applicazione della disciplina, da un canto, e l’assenza di indicazioni di carattere
limitativo nell’elencazione contenuta nell’art. 122 T.U.F., dall’altro, inducono a
propendere per la risposta affermativa.65 Naturalmente, non va dimenticato che la quota
di capitale sociale detenuta dai soci avvinti nel patto deve essere almeno pari al due per
cento.
Il dubbio potrebbe acquisire maggiore consistenza, semmai, per i patti di cui alla
lett. d), che si riferiscono al“l’esercizio anche congiunto di un’influenza dominante”: in
proposito, vi è chi ha sostenuto che vi rientrino anche i patti stipulati in vista di una sola
assemblea, dunque non aventi carattere di stabilità.66 Senz’altro, come è stato scritto, è
da escludere che possano rientrare nella fattispecie di cui alla lett. d) anche i patti di
carattere occasionale stipulati dalle minoranze. 67 Anche in merito ai patti conclusi in via
del tutto episodica da soci in grado di riunire una percentuale rilevante - magari di
controllo - del capitale sociale, tuttavia, non è agevole predicare in via generale ed
astratta la loro riconducibilità alla predetta categoria. Si potrebbero forse invocare, a
64
Come si è già visto, nell’ordinamento tedesco è stata esclusa la rilevanza delle “Vereinbarungen in
Einzelfällen” (cioè delle intese in casi singoli, ossia episodiche), ma resta il problema di verificare in che
modo debba essere intesa la portata dell’eccezione (v. infra).
65
Con riferimento alle società quotate, ritiene sempre rilevanti i patti stipulati occasionalmente
MONTALENTI, La società quotata, in Trattato di diritto commerciale, diretto da G. Cottino, Padova,
2004, v. IV, t. II, 141; contra TRIMARCHI, I patti parasociali, cit., 140-141.
66
Così SANTONI, I patti parasociali, cit., 205, il quale argomenta a partire dall’osservazione che “lo
stesso art. 2359 cod. civ. non richiede affatto che l’influenza dominante debba essere duratura o
continuata”.
67
E’ quanto riconosce anche SANTONI, I patti parasociali, cit., 207. I patti stipulati dalle minoranze
rileveranno senz’altro, invece, nell’ambito delle altre figure di patti elencate dall’art. 122 T.U.F. Si noti,
del resto, che in sede di emanazione del Testo Unico si era detto che “il problema dei patti parasociali non
è un problema di maggioranze o minoranze, ma essenzialmente un problema di informativa al pubblico,
sicché si è ritenuto non praticabile limitare la pubblicità solo a quelli di maggioranza ovvero fissare limiti
di rilevanza dei patti, per non dare spazio a comportamenti elusivi”: così il direttore generale del Tesoro
nell’audizione alla Commissione Finanze della Camera (21 gennaio 1998), pubblicata in Riv. soc., 1998,
204 ss. Tale impostazione può conservare anche oggi la sua valenza di fondo, nonostante le modifiche
apportate all’art. 122 T.U.F. e l’introduzione della soglia di rilevanza del 2%, che, come si è detto,
concerne non solo gli “obblighi di comunicazione” ma anche quelli di pubblicazione.
27
titolo di esempio, quelle intese concluse in vista della nomina (o della revoca) degli
amministratori o dei membri del consiglio di sorveglianza: 68 non vi è dubbio che un
accordo di tal fatta, per quanto destinato a risolversi in un adempimento puntuale e
circoscritto ad un’unica assemblea (salve, eventualmente, le successive convocazioni),
rechi in sé una potenziale vocazione ad incidere sul governo e sulla gestione della
società; affinché vi sia, nondimeno, (vero e proprio) esercizio di un’influenza dominante
non sembra si possa prescindere dalla persistenza (e dalla correlativa possibilità di
riscontro) di condotte che, in quanto poste in essere in via continuativa, manifestino
un’intensità tale da consentire ai loro autori di influire concretamente sulla conduzione
dell’impresa sociale e sulla sua gestione, nonostante la discrezionalità che gli
amministratori conservano in via di principio in questo ambito.69
68
Sul punto anche RESCIO, Gli strumenti di controllo, cit., 61-62.
In Germania si è sviluppato un intenso dibattito proprio intorno all’interpretazione da dare
all’eccezione del caso singolo - prevista espressamente sia dal § 22, Abs. 2 che dal § 30, Abs. 2 - con
ricadute problematiche inerenti proprio all’accordo per la nomina degli organi sociali. Diverse e variegate
sono le posizioni che si riscontrano in letteratura, riconducibili peraltro a due principali filoni. Alcuni
sostengono, sebbene con qualche variante, l’adozione di un criterio formale, in base al quale ogni patto o
intesa conclusi in vista di una determinata circostanza (per esempio, in occasione di una certa delibera
assembleare) possa sempre beneficiare dell’esenzione, a prescindere dal fatto (ed ammesso) che sia in
grado di produrre durevoli e rilevanti effetti sulla società: per tale linea interpretativa, con riguardo al § 22
e al § 30, si vedano PSAROUDAKIS, op. cit., 318-319 e 326-327; VON BÜLOW-STEPHANBLOME,
op. cit., 1799, i quali osservano che se si volessero sottrarre dall’operatività dell’eccezione le condotte
anche puntuali ma con effetti di lungo termine, la sua portata e il suo significato ne uscirebbero svuotati,
giacché la regola generale richiede appunto una durevole e rilevante influenza sulla società. Aggiungono
gli A. che, in base al criterio formale, ciò che conta è soltanto che il coordinamento degli azionisti si basi
su di un’unica decisione comune: pertanto, rimarrebbero “casi singoli” anche più condotte omogenee
nell’esercizio del voto - con riferimento a diversi oggetti di decisione - nell’ambito di un’unica seduta
assembleare, come anche i comportamenti coordinati aventi un unico obiettivo ma che richiedono di
essere attuati attraverso un più o meno lungo lasso di tempo (ibidem, 1799). Analog. VON BÜLOWBÜCKER, op. cit., 700-70, secondo i quali può parlarsi di caso singolo ogni qual volta il comportamento
coordinato riguardi un’unica ed omogenea circostanza e si fondi su di una nuova decisione degli
aderenti, a prescindere dal fatto che esso debba o meno essere ripetuto in più occasioni ed
indipendentemente dalla propagazione nel tempo dei relativi effetti sulla società. Conf. WEIß, op. cit.,
126 ss. Posizione simile è quella di STEINMEYER, § 30, WpÜG, Wertpapiererwerbs- und
Übernahmegesetz Kommentar, von R. Steinmeyer zusammen mit M. Häger, Berlin, 2007, 525, che ritiene
decisiva l’unicità dell’oggetto della decisione assembleare, a prescindere da considerazioni di carattere
temporale inerenti la ripetizione delle condotte. Il c.d. criterio formale è stato accolto anche dal BGH nella
già citata pronuncia del 18 settembre 2006 (in riforma della sentenza dell’OLG München del 27 aprile
2005), il quale, riconducendo all’eccezione l’accordo sulla nomina di membri del consiglio di
sorveglianza, ha individuato come parametro di valutazione la frequenza delle condotte, argomentando
sia in base alla lettera della norma che a esigenze di certezza del diritto. Analog. l’OLG Stuttgart, nella
pronuncia del 10 novembre 2004 (in NZG, 2005, 432 ss.), che ha ritenuto rientrino nell’eccezione di cui al
§ 22 le intese per l’esercizio del voto in un’assemblea e ha evidenziato che la condotta omogenea in
assemblea di per sé non è comunque sufficiente per ipotizzare un comportamento coordinato. Optano
espressamente per un criterio di tipo materiale, invece, LÖHDEFINK, op. cit., 294 e 310-311, il quale
riferisce all’eccezione la singola decisione che sia, al contempo, irrilevante per il raggiungimento del
controllo, sussistendo altrimenti i presupposti del concerto, e aggiunge che anche condotte ripetute non
sono sufficienti se non permettono alcun controllo; nonché (quantomeno in rapporto al § 30), PRASUHN,
op. cit., 219-220, la quale reputa che il criterio della durevolezza (“Nachhaltigkeit”) imponga una
valutazione di tipo qualitativo in relazione agli oggetti di decisione (“eine qualitative Gewichtung im
Hinblick auf die Beschlussgegenstände”). Ha tentato di conciliare le diverse proposte interpretative
HAMANN, op. cit., 1094, il quale ha proposto di risolvere il contrasto affermando che le condotte
(tipicamente, le votazioni in assemblea) debbano essere ripetute (anche se non necessariamente con
carattere di stretta continuità) e, al contempo, siano dirette ad un obiettivo di più lungo termine (analog.
GAEDE, op. cit., 222 ss. con riferimento al § 30 e 254 con riferimento al § 22, la quale richiede che le
69
28
Tale riflessione dischiude allora una diversa prospettiva, che riconosce la
necessità di compiere un’analisi indirizzata al singolo caso concreto, al fine di verificare
l’effettiva sussistenza di un’influenza dominante derivante dall’accordo (ma anche e
soprattutto dalle successive condotte) e di non ledere “la necessaria trasparenza di
accordi rilevanti per il mercato”70.
Quanto appena detto vale, si badi, proprio e soltanto per la categoria di patti
individuata dalla lett. d) del quinto comma dell’art. 122 T.U.F.; per le altre, invece,
come si è detto, non si ravvisano solidi argomenti per mandare esenti dagli obblighi di
pubblicità anche gli accordi perfezionati in una singola, determinata occasione. Torna in
gioco e diviene prevalente, infatti, l’interesse alla più ampia trasparenza degli accordi
conclusi tra gli azionisti di una società quotata. Di conseguenza, i patti di voto o di
consultazione conclusi unicamente in vista dell’assemblea chiamata al rinnovo delle
cariche sociali, anche se non riconducibili di per sé alla lett. d) del quinto comma,
dovranno senz’altro essere pubblicati ai sensi, rispettivamente, del primo comma o della
lett. a) del quinto comma.71 Si può allora affermare che, mentre con riferimento alle
condotte concernano più di una assemblea e al contempo non si limitino ad una sola questione tecnica):
non basterebbero, dunque, per ritenere integrata la fattispecie generale, né una condotta puntuale con
effetti rilevanti di più lunga durata (come vorrebbe il c.d. criterio materiale), né una condotta ripetuta ma
inidonea ad influire stabilmente sulla società in ragione dell’oggetto su cui ricade (come risulterebbe dal
c.d. criterio formale). Su una posizione simile si sono collocati SCHOCKENHOFF-SCHUMANN, op.
cit., 589.
70
Questa la conclusione cui giunge SEMINO, Il regime, cit., 1463.
71
Il problema della rilevanza dei patti a carattere occasionale è stato affrontato in Germania, proprio in
relazione alla nomina del consiglio di sorveglianza, da diversi autori: v. DRINKUTH, op. cit., 676, il
quale ritiene che il coordinamento ad essa riferito non rientri nell’eccezione del caso singolo allorquando
essa concerna più membri dell’organo o sussistano circostanze particolari, come quando vengono adottate
unitamente alla stessa altre misure di carattere strutturale (ibidem, 677). Così anche SCHNEIDER, § 22,
cit., 1070; il medesimo autore, con riguardo al § 30, ha sostenuto che l’accordo per la scelta di due o più
membri del consiglio di sorveglianza deve anche essere accompagnata da ulteriori intese aventi lo scopo
di esercitare una continua e durevole influenza sulla società (§ 30, cit., 880). Similmente GAEDE, op. cit.,
184 ss. ove, con riferimento al § 30, si prospetta l’idea che l’accordo per la scelta dei componenti del
consiglio non basti per integrare la fattispecie del concerto, dovendo accompagnarsi ad una stabile
maggioranza e ad un’ulteriore intesa anche tacita tra essa volta ad influenzare l’organo (“Es muss
ausdrücklich oder konkludent vereinbart werden, auf die Aufsichtsratmitligeder in eine bestimmte
Richtung einzuwirken”); nonché PRASUHN, op. cit., 248, secondo cui la scelta coordinata dei membri
dell’organo non garantisce di per sé la possibilità di imporre in maniera durevole determinati obiettivi.
Diversamente, VON BÜLOW-BÜCKER, op. cit., 714, i quali, coerentemente al criterio generale di tipo
formale da essi accolto, hanno sostenuto che l’accordo per la scelta del consiglio di sorveglianza rientri
nell’eccezione, anche qualora sia ripetuto con riferimento alle successive nomine, purché sia ogni volta il
frutto di una nuova manifestazione di volontà dei pattisti. Conf. PSAROUDAKIS (op. cit., 325), che
individua nell’accordo per l’elezione del consiglio di sorveglianza “un tipico esempio di caso singolo”
(“ein klassisches Beispiel von Stimmrechtsausübung in einem einzelnen Fall”). Su una posizione
intermedia, ma più vicina al c.d. criterio materiale, sembrano attestarsi, invece, SCHÜPPEN-WALZ, op.
cit., 655, i quali hanno evidenziato che la nomina del consiglio di sorveglianza non rientra
automaticamente nell’eccezione del caso singolo, ma nemmeno nella fattispecie generale, dovendo a tal
fine essere riscontrato un ulteriore obiettivo imprenditoriale comune. Si può qui anticipare (ma v. meglio
il capitolo successivo) che nell’ordinamento inglese uno dei presupposti dell’OPA obbligatoria a seguito
di azione concertata è dato dall’obiettivo definito dal Takeover Panel (l’organismo chiamato
all’intepretazione e all’applicazione del City Code on takeovers and mergers) di “board control-seeking”
(ossia, potremmo dire, di conseguimento del controllo sull’organo amministrativo), che nell’ipotesi di
accordo per la nomina dei membri del board in occasione dell’assemblea annuale è ritenuto integrato
soltanto a certe condizioni, che dipendono anche dal numero e dallo specifico ruolo degli amministratori
da eleggere: su questi aspetti cfr. The Takeover Code, documento a cura del Takeover Panel del 19
settembre 2011.
29
altre ipotesi previste dall’art. 122 T.U.F. la valutazione di rilevanza è già stata compiuta
una volta per tutte dal legislatore in base ad una valutazione “tipologica” di quelli che
sono gli impegni (e le relative condotte) che scaturiscono dall’accordo in capo alle parti,
il caso di cui alla lett. d) del quinto comma richiama l’intervento dell’interprete, al fine
di verificare se il patto concluso possa produrre effetti durevoli sulla società in punto di
esistenza di un’influenza dominante.
Per quanto concerne, invece, le società facenti ricorso al mercato del capitale di
rischio, la risposta all’interrogativo circa la rilevanza - ai fini di cui all’art. 2341-ter c.c.
- dei patti stipulati occasionalmente non può che basarsi sul fondamentale parametro
orientativo costituito dalla finalità di stabilizzazione degli assetti proprietari o del
governo della società. Proprio questa clausola ha indotto parte delle dottrina ad
escludere tout court che gli accordi di carattere puntuale vadano assoggettati
all’applicazione della norma codicistica in tema di pubblicità. 72 Sembra, tuttavia, che
tale conclusione possa essere messa in discussione alla luce di una più meditata
riflessione. Sono, infatti, esigenze di natura antielusiva a richiedere di ricondurre alla
disciplina della trasparenza anche i patti parasociali stipulati occasionalmente o in vista
di singole assemblee, quantomeno allorché siano in grado di incidere sugli assetti
proprietari o sul governo della società.73 Il fatto che tale finalità non sia incompatibile
con accordi destinati a risolversi in adempimenti puntuali può essere agevolmente
dimostrata con alcuni esempi. Non ci si riferisce tanto al patto che introduce limiti
all’alienazione delle partecipazioni: del resto, la condotta consistente nell’astenersi dal
disporre delle azioni è pur sempre destinata a protrarsi nel tempo. Si può pensare,
piuttosto, all’accordo con cui più soci si impegnano ad ostacolare in assemblea
straordinaria, attraverso un’azione congiunta, l’approvazione di un aumento di capitale
o l’emissione di obbligazioni convertibili, che potrebbero portare - in ragione delle
circostanze concrete - ad una destabilizzazione degli assetti proprietari esistenti; o
ancora, all’accordo con cui più soci si impegnano a votare in assemblea a favore della
rielezione dei membri dell’organo amministrativo, al fine di stabilizzare il “governo
della società”, attribuendo allo stesso una continuità nella linea di gestione.
Ciò che conta, in conclusione, è che il patto, nonostante sia fonte di obblighi
immediati e puntuali, abbia pur sempre gli effetti individuati dall’art. 2341-ter c.c.,
destinati dunque a protrarsi nel tempo con carattere di stabilità.74 Non basterebbe quindi
agli aderenti all’accordo invocare la sua “occasionalità” per sottrarsi agli obblighi di
72
G. F. CAMPOBASSO, Voto di lista, cit., 130, il quale escludeva la rilevanza dei patti a carattere
occasionale ritenendo che essi dovessero necessariamente essere destinati a durare nel tempo;
RORDORF, I sindacati di voto, cit., 23; MEO, Le società, cit., 85; nonché ABETE, Patti parasociali e
sindacati di voto, in Società, 2006, 962.
73
Sono di questo avviso MACRI’, Patti parasociali, cit., 74; PICCIAU, Sub artt. 2341-bis - 2341-ter,
cit., 339; FIORIO, Sub artt. 2341-bis - 2341-ter, cit., 144, il quale rileva la necessità di analizzare in ogni
caso il contenuto del singolo patto; nonché DONATIVI, Sub art. 2341-bis, cit., 170.
74
Cfr. DONATIVI, Sub art. 2341-bis, cit., 169; PINNARO’, I patti parasociali, in Intermediari
finanziari, mercati e società quotate, a cura di A. Patroni Griffi, M. Sandulli, V. Santoro, Torino, 1999,
806.
30
disclosure e mantenerlo segreto75; un rilievo dirimente dovrà essere attribuito alla natura
e alle conseguenze del patto all’interno della società.
6. Segue: l’obbligo di pubblicità dei c.d. gentlemen’s agreements.
E’ inoltre necessario verificare se debbano essere pubblicati quei patti che si
configurino come semplici gentlemen’s agreements, privi dunque per volontà delle parti
della forza di legge del contratto e della conseguente vincolatività giuridica. 76
Una prima corrente di pensiero opina nel senso dell’opportunità di ricondurre un
siffatto genere di accordi alla disciplina di cui agli artt. 2341-ter c.c. e 122 T.U.F. e
dunque, di riflesso, anche alle norme sul concerto. 77 Anche la dottrina tedesca si mostra
quanto mai compatta nell’attribuire rilevanza ai gentlemen’s agreements, tanto
nell’ambito della fattispecie di cui al § 22, Abs. 2, WpHG in materia di pubblicità,
quanto in quella relativa all’OPA obbligatoria (§ 30, Abs. 2, WpÜG), come si vedrà
anche nel capitolo successivo.78
Un indice contrario alla rilevanza, all’interno del nostro sistema normativo
riguardante i patti parasociali, dei gentlemen’s agreements potrebbe provenire dalla
nullità comminata dall’art. 122 T.U.F. per l’ipotesi della mancata pubblicazione dei
patti parasociali stipulati nell’ambito di società con azioni quotate o di società
controllanti una società con azioni quotate. Non è chi non veda, invero, come l’efficacia
dissuasiva di tale sanzione venga ad essere notevolmente compressa - se non addirittura
azzerata - nei casi in cui il patto, ab origine e per volontà delle parti stesse, risulti privo
di vincolatività giuridica e dunque tale, per sua stessa natura, da non permettere la tutela
delle situazioni giuridiche derivanti dal medesimo. A soluzione diversa si potrebbe,
forse, pervenire con riferimento ai patti relativi a società facenti ricorso al mercato del
75
Sul punto BLANDINI, Società quotate, cit., 356, la cui conclusione è proprio la riconducibilità alla
disciplina della trasparenza anche dei patti stipulati in vista di una sola assemblea, non potendo essere
riconosciuta ai soci sindacati un’agevole difesa consistente appunto nel sostenere “l’esistenza del
sindacato occasionale”; cfr. anche ID., Sul requisito della forma nei patti parasociali, in Riv. dir. impr.,
2005, I, 59.
76
Il problema ha ragione di porsi in quanto è pacifico che il patto parasociale sia, in linea di principio, un
vero e proprio accordo contrattuale con effetti obbligatori, nel senso che esso vincola gli aderenti al patto
a tenere i comportamenti concordati (in tal senso di recente Cass. 5 marzo 2008, n. 5963, in Riv. not.,
2009, I, 460 ss., con nota di BUCCIARELLI DUCCI, I patti parasociali: natura giuridica e profili di
tutela, ibidem, 462 ss.; nonché in Foro it., 2009, I, 2195 ss.). Non sembra, invece, che possa venire qui in
rilievo la questione, già emersa anche in giurisprudenza, dell’ammissibilità nel nostro ordinamento del
c.d. intento giuridico negativo: sul punto, cfr. SICA, Gentlemen’s agreements e intento giuridico
negativo: elaborazione dottrinale e “risveglio” giurisprudenziale, in Contratti, 2001, 85 ss.
77
Tale è l’opinione di MACRI’, Patti parasociali, cit., 64 ss., il quale richiama le finalità antielusive delle
norme in questione e fa appello al tenore letterale delle medesime, che, comprendendo i patti stipulati “in
qualunque forma”, sarebbe idoneo ad includere anche i gentlemen’s agreements; gli stessi argomenti sono
utilizzati da SEMINO, Il problema, cit., 246-247. L’argomento basato sulla lettera della norma appare
però il frutto di una forzatura, giacché la volontà delle parti di escludere gli effetti giuridici
potenzialmente derivanti dall’accordo costituisce parte del contenuto di questo e non incide sulla sua
forma.
78
Si vedano, ex multis, VON BÜLOW-STEPHANBLOME, op. cit., 1799; SCHOCKENHOFFSCHUMANN, op. cit., 583-584; PRASUHN, op. cit., 213; RALOFF, op. cit., 190 e 197, ove ritiene
sufficiente un vincolo di carattere fattuale; PSAROUDAKIS, op. cit., 289; con specifico riferimento al §
22, Abs. 2, SCHNEIDER, § 22, cit., 1068.
31
capitale di rischio ma non quotate, atteso che l’art. 2341-ter c.c. non colpisce con la
nullità quei patti parasociali che non siano stati pubblicati secondo le modalità previste
dalla norma stessa. Ragioni di armonia sistematica inducono tuttavia a negare
cittadinanza ad un simile disallineamento tra la disciplina del codice civile e quella del
Testo Unico della Finanza. Prevalgono in entrambi i casi, infatti, esigenze di natura
antielusiva, non potendo permettersi che accordi che vengono a configurarsi come
gentlemen’s agreements rimangano legittimamente occulti, ben potendo gli stessi essere
attuati e quindi produrre in via di fatto i medesimi effetti e risultati di un patto valido
giuridicamente vincolante.79 Anzi, proprio l’indebolimento della risposta sanzionatoria
che, almeno nelle società quotate, si verificherebbe in tali ipotesi, induce a non
abbassare la pretesa normativa di trasparenza rispetto ad accordi aventi il medesimo
potenziale di influenza sulla società ma il cui incentivo alla pubblicità risulta affievolito
dal venir meno dell’effetto deterrente rappresentato dalla minaccia della nullità.
Tale soluzione pare ulteriormente rafforzata se si osserva che proprio il cammino
legislativo in direzione della più ampia trasparenza dei patti parasociali sia coinciso, da
un lato, con il definitivo riconoscimento della dignità giuridica di tali accordi e,
dall’altro, con l’intento di farli uscire “dalla sfera inizialmente attrattiva dei patti tra
gentiluomini”80. La pubblicazione dei gentlemen’s agreements, secondo le modalità
previste dal codice civile e dal T.U.F., potrebbe inoltre essere imposta dal generale
obbligo di buona fede nell’esecuzione del contratto sociale, in grado di costituire il
fondamento della necessità di rendere noto ogni tipo di accordo tra soci che possa
incidere sulla società alla stessa stregua di quelli previsti - quali veri e propri patti
parasociali - dagli artt. 2341-ter c.c. e 122 T.U.F.81
7. Profili di disciplina dell’art. 2341-ter c.c.: i poteri degli organi sociali in
caso di omessa pubblicità dei patti e il patto occulto stipulato nella società
controllante una s.p.a. “aperta”.
Come noto, il comma 2 dell’art. 2341-ter c.c. sanziona con il divieto di esercizio
del diritto di voto “i possessori delle azioni cui si riferisce il patto parasociale” che non
abbiano effettuato la dichiarazione in apertura di assemblea imposta dal primo comma. 82
79
La necessità di togliere spazio ad elusioni è sottolineata, come si è visto da MACRI’, Patti parasociali,
cit., 64 ss.; ma anche da SEMINO, Il problema, cit., 246-247.
80
Questo il rilievo di SICA, op. cit., 88.
81
Il tema della valenza dei gentlemen’s agreements verrà trattato anche in seguito con riferimento ai
presupposti dell’OPA obbligatoria: cfr. cap. II, § 7.
82
Questa norma sembra risolvere con sufficiente chiarezza il quesito - più volte affiorato in letteratura circa gli effetti del conferimento al patto parasociale di una parte soltanto del pacchetto azionario
riconducibile all’aderente. Il divieto di esercizio del diritto di voto, infatti, per espressa disposizione
normativa colpisce “i possessori delle azioni”: dunque, non soltanto le azioni sindacate (sul punto, per
tutti, PICCIAU, Sub artt. 2341-bis - 2341-ter, cit., 377; RORDORF, I sindacati di voto, cit., 26). E’
evidente la ratio antielusiva del precetto, dal momento che è del tutto ragionevole attendersi che i membri
del patto adottino un comportamento omogeneo con riferimento all’intera partecipazione da essi detenuta
nella società (si pensi, tipicamente, proprio al caso del sindacato di voto).
32
Prosegue la norma stabilendo che le delibere adottate con il voto determinante di quelle
azioni sono impugnabili a norma dell’art. 2377 c.c.
Come si può notare, la sanzione è destinata ad applicarsi soltanto in mancanza
della predetta dichiarazione assembleare e non anche in caso di mancata (previa)
comunicazione alla società ai sensi del comma 1 dell’art. 2341-ter c.c.83 Si dovrebbe
concludere, pertanto, nel senso che la sanzione riguardi non soltanto i patti
effettivamente mantenuti segreti (dunque, nemmeno comunicati precedentemente alla
società), ma anche gli accordi rispetto ai quali non si sia ottemperato soltanto alla
seconda delle formalità pubblicitarie previste dalla legge (la dichiarazione in apertura di
assemblea, appunto).84
83
Si può notare come, a differenza di quanto stabilito dall’art. 122 T.U.F., la disciplina codicistica, con
riguardo ai patti stipulati nell’ambito di società aperte, non fissi un termine per l’adempimento degli
obblighi pubblicitari. Questo aspetto può però trovare una spiegazione di ordine sistematico. Per quanto
concerne la dichiarazione assembleare, innanzitutto, è evidente che essa debba avere luogo ogni volta che
la compagine sociale abbia a riunirsi e, pertanto, la fissazione di un termine non avrebbe alcun significato;
quanto, poi, all’obbligo di comunicazione alla società, è da ritenere che la comunicazione vada effettuata
senza indugio e che, in mancanza, sarà sempre possibile addivenire - verosimilmente in via giudiziale all’accertamento dell’esistenza del patto parasociale mantenuto segreto. Si è sostenuto, infatti, che tale
comunicazione debba essere “immediata”, anche qualora il patto sia sottoposto a condizione sospensiva o
a termine iniziale: così MACRI’, Patti parasociali, cit., 147; PINNARO’, op. cit., 784. Diversamente
PICCIAU, Sub artt. 2341-bis - 2341-ter, cit., 368, che, da un lato, propone il termine di cinque giorni in
analogia a quanto previsto dal T.U.F. e, dall’altro, ritiene che esso decorra solo dal momento in cui il
patto acquisti efficacia.
84
La sensazione di una rigidità sanzionatoria all’apparenza ingiustificata pare acuirsi ove si aderisca
all’idea che la dichiarazione in apertura dei lavori assembleari possa (anziché avere carattere analitico)
limitarsi a richiamare i contenuti della precedente comunicazione effettuata alla società e dunque gli
elementi principali dell’accordo: così CHIONNA, op. cit., 172 ss.; DONATIVI, Sub art. 2341-ter, cit.,
194-195; BLANDINI, Sul requisito di forma, cit., 62; SEMINO, I patti parasociali nella riforma delle
società di capitali: prime considerazioni, in Società, 2003, 352; TUCCI, Patti parasociali, cit., 182,
secondo cui la natura più sintetica della dichiarazione rispetto alla preventiva comunicazione sarebbe
desumibile “già sulla base del tenore letterale della norma”; nonché FIORIO, Sub artt. 2341-bis - 2341ter, cit., 156, il quale però evidenzia che i terzi non hanno accesso alla comunicazione interna e non
potranno che essere informati sulla base delle risultanze del registro delle imprese, a loro volta fondate sul
contenuto del verbale d’assemblea. Altri, pertanto, ritengono che la dichiarazione assembleare debba
essere integrale (MACRI’, Patti parasociali, cit., 155; SALAFIA, Esame di validità di alcuni patti
parasociali relativi a società non quotate, in Società, 2008, 1334), o quantomeno accompagnata dalla
consegna di una copia del patto, in modo da non appesantire lo svolgimento dei lavori assembleari: così
PICCIAU, Sub artt. 2341-bis - 2341-ter, cit., 375-376. Quest’ultima pare la soluzione più convincente: la
copia del patto sarà dunque allegata al verbale (nel quale viene riprodotta la vera e propria dichiarazione
della sussistenza dell’accordo) e depositata unitamente a questo nel registro delle imprese, sì da garantire
la piena conoscibilità ai terzi del testo aggiornato del patto parasociale. La persuasività di una siffatta
ricostruzione è avvalorata dalla constatazione che tale adempimento dovrà essere eseguito - come
prescrive la norma - in apertura di “ogni assemblea”: sorgerà quindi l’esigenza di non appesantire
oltremodo lo svolgimento dei lavori assembleari attraverso la verbalizzazione di dichiarazioni
particolarmente lunghe e complesse. Sulla necessità di una dichiarazione in apertura di ogni assemblea v.
RESCIO, I patti parasociali dopo il d. lgs. 6/2003, cit., 118, ma l’A. ritiene necessaria e sufficiente una
dichiarazione che illustri il contenuto del patto, ossia “la esplicitazione di tutti gli elementi richiesti per
l’estratto ai fini della pubblicazione sulla stampa quotidiana ai sensi dell’art. 122 t.u.f.”; se ne trova una
conferma in ID., Assemblea dei soci. Patti parasociali, in AA. VV., Diritto delle società, Manuale breve,
Milano, 2008, 209, ove l’A. prende posizione nel senso che, stando alla lettera delle legge, a dover essere
depositato presso il registro delle imprese è “il verbale in cui è trascritta la dichiarazione - non il patto”,
dunque (pare) non necessariamente il testo integrale del medesimo. Proposta diversa è quella di chi ha
ritenuto, proprio muovendo dalla considerazione che la dichiarazione debba essere effettuata in occasione
di ogni assemblea, che essa debba avere carattere integrale solo nella prima assemblea successiva alla
stipulazione del patto, bastando nelle seguenti un semplice rinvio: così SALAFIA, I patti parasociali
33
Una spiegazione di tale apparente stranezza può rinvenirsi nella circostanza che
la dichiarazione in assemblea deve essere trascritta nel verbale, il quale a sua volta è
soggetto al deposito presso l’ufficio del registro delle imprese, come prevede
espressamente l’art. 2341-ter, comma 1, c.c.. Emerge anche sotto questo profilo
l’assoluta centralità che l’informazione del pubblico (rectius: del mercato) occupa nella
disciplina dei patti parasociali; è evidente, infatti, che l’informazione rivolta
(unicamente) alla società (id est: ai suoi amministratori) non ha un immediato sbocco
“esterno”: il verbale assembleare, viceversa, proprio in quanto destinato al deposito
presso il registro delle imprese, presenta certamente una vocazione informativa di
portata più generale.85
Certo, il patto parasociale comunicato alla società ma non dichiarato in apertura
di assemblea non può, a rigore, ritenersi “occulto”86; tuttavia, i suoi membri sono
nelle società non quotate, in Società, 2005, 946. Diverso problema è se oggetto di disclosure debbano
essere anche le decisioni interne al patto parasociale e magari la volontà espressa da ciascuno dei membri
dell’accordo in sede parasociale: in senso affermativo MACRI’, Patti parasociali, cit., 153; contra
PAVONE LA ROSA, La “trasparenza”, cit., 552. Sul punto, cfr. inoltre PISELLI, La validità e
l’efficacia dei patti parasociali dopo la riforma societaria, nota a Cass. 18 luglio 2007, n. 15963, in
Società, 2009, 201 (nt. 7); TOFFOLETTO, Patti parasociali e società quotate, in Governo dell’impresa e
mercato delle regole. Scritti giuridici per Guido Rossi, Milano, 2002, t. I, 283; nonché RESCIO, Gli
strumenti di controllo, cit., 68-69, il quale auspica una presa di posizione del legislatore sul punto.
85
L’idoneità di tale strumento ad informare il mercato è sottolineata da BADINI CONFALONIERI, op.
cit., 298; e, precedentemente, da MEOLI-SICA, op. cit., 613. Tale assunto potrebbe essere messo in
dubbio dalla tesi che ritiene l’informativa preassembleare limitata alla notizia dell’esistenza del patto o, al
limite, dei suoi elementi essenziali; anche accogliendo tale impostazione, tuttavia, è da ritenere che gli
amministratori debbano preoccuparsi di garantire che tramite il registro delle imprese sia possibile
accedere in ogni momento al testo integrale ed aggiornato dei patti parasociali già comunicati alla società.
In senso diverso da quanto affermato nel testo, tuttavia, CHIONNA, op. cit., 214, secondo il quale la
pubblicazione presso il registro delle imprese avrebbe, da un lato, la funzione di informare i soci estranei
che non hanno preso parte all’assemblea e, dall’altro, quella (per lo meno con riferimento ai sindacati di
voto) di informare circa il comportamento tenuto dai pattisti in assemblea; l’A. ritiene infatti che
l’informazione al mercato sia già garantita dall’art. 114 T.U.F. e dall’art. 109-bis del Regolamento
Emittenti, applicabili per espresso disposto normativo anche alle società aperte non quotate. DONATIVI,
Sub art. 2341-ter, cit., 188, ha invece ravvisato una lacuna normativa nell’assenza di ogni previsione
riguardante la possibilità per i soci di prendere visione del contenuto del patto e per i terzi di consultarlo
attraverso il registro delle imprese. In termini ancor più negativi nei confronti dell’utilità della pubblicità
presso il registro delle imprese si è espresso PAVONE LA ROSA, I patti parasociali, cit., 14-15, secondo
il quale essa è destinata “a non assolvere alcuna utile funzione”.
86
Tale considerazione dovrebbe conservare la sua validità anche nel caso in cui la comunicazione, in
concreto, non abbia avuto ad oggetto il contenuto del patto e si sia limitata alla notizia della sua esistenza
(o, tutt’al più, ad indicarne i connotati essenziali). Assolutamente prevalente e condivisibile è, ad ogni
modo, l’opinione che ritiene oggetto della comunicazione alla società il testo integrale dei patti, atteso che
solo in questo modo diviene possibile garantire un’adeguata informazione dei soci estranei e controllare
la sua corrispondenza con la successiva dichiarazione assembleare: cfr., tra i tanti, MACRI’, Patti
parasociali, cit., 149, il quale argomenta, sotto un profilo sistematico, a partire da quanto previsto dalla
Consob nel Regolamento Emittenti, che richiede [art. 127, comma 2, lett. a)] una “copia integrale del
patto”; nonché, da un punto di vista teleologico, sottolineando che la comunicazione integrale consente
agli organi sociali di riscontrare in apertura di assemblea la completezza e la veridicità della
dichiarazione. Come si è osservato (FIORIO, I patti parasociali, cit., 83) tale opinione trova conforto
proprio nella disciplina del Regolamento Emittenti, il cui art. 109-bis ha previsto che gli emittenti azioni
diffuse informino il pubblico “della comunicazione di cui all’art. 2341-ter del codice civile, indicando
ogni elemento necessario per una compiuta valutazione del patto.” Sul punto v. anche TUCCI, Patti
parasociali, cit., 183. Per la tesi della necessaria comunicazione integrale del patto, v. inoltre CHIONNA,
op. cit., 179 ss., il quale ipotizza altresì un obbligo degli amministratori di “successiva diffusione
dell’integrale contenuto della comunicazione”; BADINI CONFALONIERI, op. cit., 298; PICCIAU, Sub
artt. 2341-bis - 2341-ter, cit., 367; DONATIVI, Sub art. 2341-ter, cit., 186, il quale sostiene un’analoga
34
egualmente sanzionati con il divieto di esercizio del voto, perché la loro condotta non ha
consentito la generale conoscibilità dell’accordo, necessaria nelle società aperte al
mercato dei capitali: si potrebbe dire, allora, che il legislatore abbia voluto colpire i patti
parasociali che, quand’anche noti in ambito “endosocietario”, siano invece stati tenuti
nascosti al mercato.87 Naturalmente, la mancata comunicazione originaria alla società
farà sì probabilmente che non vi saranno nemmeno le successive dichiarazioni in
apertura di assemblea, con conseguente applicazione della sanzione prevista
(allorquando, s’intende, l’esistenza del patto venga successivamente rivelata od
accertata in un giudizio di cognizione)88: anche da questo angolo visuale, l’apparente
soluzione per la comunicazione alla Consob nelle società quotate; SEMINO, I patti parasociali, cit., 352.
Contra, invece, LEOGRANDE, op. cit., 107, e SBISA’, La disciplina dei patti parasociali nella riforma
del diritto societario, in Nuova giur. civ. comm., 2004, II, 493, per i quali sarebbe sufficiente la
comunicazione degli elementi essenziali dell’accordo.
87
Tale conclusione necessita peraltro di un’opportuna precisazione: la sanzione della sospensione del
diritto di voto colpisce soltanto l’omessa dichiarazione e non anche il mancato deposito nel registro delle
imprese del verbale che la contiene: così PICCIAU, Sub artt. 2341-bis - 2341-ter, cit., 373, il quale
ipotizza in quest’ultima ipotesi l’applicabilità del rimedio risarcitorio.
88
Qualora, invece, la dichiarazione in apertura di assemblea venga effettuata nonostante la mancata
previa comunicazione alla società, gli aderenti al patto parasociale non dovrebbero essere passibili di
sanzione, salvo probabilmente in due casi: (i) qualora la dichiarazione - non preceduta, appunto, dalla
comunicazione - non sia stata sufficientemente analitica ed idonea a rivelare, anche a mezzo del deposito
di una copia, l’intero contenuto del patto; (ii) qualora si provi che il patto risalga in realtà ad un momento
antecedente rispetto ad una precedente ed ulteriore adunanza assembleare, nella quale il patto stesso non
era stato dichiarato: con riferimento a tale precedente assemblea, il divieto di esercizio del voto (con
conseguente eventuale impugnabilità della delibera) dovrebbe riacquistare piena applicazione, sempre che
non sia decorso il termine di novanta giorni per l’impugnativa. A questo proposito, va osservato in linea
generale che tale termine potrebbe spirare senza che il patto parasociale occulto sia già venuto alla luce:
se così è, le esigenze di tutela connesse agli obblighi di trasparenza dei patti ed all’eventuale applicazione
delle relative sanzioni potrebbero risultare frustrate. Si pone dunque il problema se il termine per esperire
l’azione di impugnazione della delibera possa decorrere dal diverso e successivo momento in cui il patto
venga accertato o comunque reso conoscibile ai terzi. Effettivamente, in prima battuta sembra doversi
evitare che dall’occultamento di un patto parasociale possano derivarne effetti favorevoli in capo a coloro
i quali sono venuti meno all’obbligo informativo previsto dalla legge. E’ evidente, infatti, che un notevole
limite della sanzione costituita dal divieto di esercizio del voto in assemblea è dato dal fatto che essa
presuppone la scoperta del patto: è quanto fa notare SCHLESINGER, La disciplina dei patti parasociali
nel Testo Unico della Finanza, in Il governo delle società dopo il D. Lgs. 24.2.1998 n. 58, a cura di E.
Andreoli, Padova, 2002, 195, il quale aggiunge che “se i paciscenti non vogliono che si sappia
dell’esistenza del patto e lo stipulano deliberatamente in modo riservato, o al limite non stipulano alcun
accordo, ma tengono quello che nella legislazione antitrust si chiamano le prassi concordate […] le
possibilità di scoperta dell’esistenza di questo patto, della vigenza di questo patto, sembrano piuttosto
remote”. Ciò è tanto più vero se si accede all’idea che “solo una condotta reiterata nel tempo consenta agli
amministratori, e soprattutto agli altri soci, di comprendere la natura della condotta, frutto di una
regolamentazione parasociale”: così ZACCHEO, I patti parasociali, in La riforma del diritto societario, a
cura di M. de Tilla, G. Alpa e S. Patti, Roma, 2003, 150. Tuttavia, il termine di impugnazione è di
decadenza e quindi non può trovare applicazione la regola dettata con riferimento alla prescrizione in base
alla quale questa decorre (solo) a partire dal momento in cui il diritto può essere fatto valere. Hanno
infatti negato ogni possibilità di procrastinare la decorrenza del termine per l’impugnativa, anche con
riferimento alle società quotate, AZZARO, Frazionamento dell’acquisto diretto e O.P.A. obbligatoria, in
Contr. e impr., 2006, 734; OPPO, Patti parasociali, cit., 227; ID, Sub artt. 122-123, in Commentario al
testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, a cura di G. Alpa e F.
Capriglione, Padova, 1998, t. II, 1142; PICCIAU, Sub art. 122, in La disciplina delle società quotate nel
testo unico della finanza d. lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, Commentario a cura di P. G. Marchetti e L. A.
Bianchi, Milano, 1999, t. I, 88 ss.; FIORIO, Sub artt. 2341-bis - 2341-ter, cit., 160, quest’ultimo tuttavia
critico nei confronti dell’efficacia di una sanzione così articolata. Un’ulteriore opzione interpretativa
potrebbe essere quella di ritenere che la violazione degli obblighi di trasparenza integri una violazione di
principi generali dell’ordinamento del mercato finanziario tale da inficiare per relationem la validità della
35
singolarità dell’apparato sanzionatorio predisposto dal legislatore può quindi trovare
una spiegazione soddisfacente.
A questo punto si innesta però l’interrogativo se gli organi sociali, segnatamente
gli amministratori, debbano, nel caso di un patto parasociale precedentemente
comunicato alla società, effettuare la relativa dichiarazione in assemblea (con
conseguente trascrizione nel verbale), qualora i paciscenti non vi provvedano
spontaneamente o siano assenti.89
La risposta negativa potrebbe derivare non tanto dalla necessità di impedire in
ogni caso l’esercizio del voto a coloro che, in una simile situazione, a rigore
permarrebbero comunque inadempienti (prospettiva, questa, nella quale non sarebbe
difficile scorgere una sorta di accanimento sanzionatorio probabilmente poco
giustificato), quanto dalla necessità - che sembra trasparire dal dettato normativo - di
accertare la permanente sussistenza e vigenza del patto: la dichiarazione in tal senso
degli aderenti, da questo angolo visuale, non sarebbe dunque sostituibile da quella
effettuata dagli organi sociali e basata unicamente sulla precedente comunicazione,
proprio in quanto occorrerebbe verificare l’attualità della vigenza dell’accordo.90
delibera assembleare da esso influenzata e renderla illecita: è la tesi prospettata da SCHLESINGER, La
disciplina, cit.,, 196, il quale osserva peraltro che il problema non sarebbe completamente risolto
nemmeno per questa via, giacché anche l’impugnazione ex art. 2379 c.c. è soggetta ad un termine di
decadenza, oltre il quale potrebbe emergere l’esistenza del patto parasociale occulto. Sul punto v. anche
AZZARO, op. cit., 738. Naturalmente, qualora già sussistano elementi tali da far presumere la sussistenza
di un patto mantenuto segreto, sarà possibile esperire da subito l’azione di annullamento, che presupporrà
in via preliminare l’accertamento dell’esistenza dell’accordo. Tornando al rapporto tra i due obblighi di
trasparenza, concorde a quanto sopra osservato sub (i) è FIORIO, I patti parasociali, cit., 83, secondo il
quale, in mancanza della comunicazione alla società, la dichiarazione assembleare potrebbe evitare la
sterilizzazione del voto “solo qualora contenga tutti gli elementi propri della comunicazione, ovvero
quando ad essa sia allegato il testo dell’accordo parasociale”; similmente PICCIAU, Sub artt. 2341-bis 2341-ter, cit., 369, il quale, specularmente, aderisce all’idea che, nonostante l’omessa comunicazione,
qualora il patto “sia stato dichiarato e reso conoscibile in sede assembleare” la sanzione non sia
applicabile. Contra LIBERTINI, op. cit., 495, che ritiene che “in caso di mancata previa comunicazione,
l’eventuale dichiarazione in assemblea assume il carattere di dichiarazione irregolare”, con conseguente
annullabilità della delibera. Analog. CHIONNA, op. cit., 203 ss.: viene affermata dunque una
complementarietà dei due obblighi, dalla quale scaturirebbe l’applicazione della medesima sanzione in
caso di violazione di uno di essi; conf. DONATIVI, Sub art. 2341-ter, cit., 190. Questa tesi risulta però in
conflitto - oltre che con il dato letterale - anche con il dichiarato intento del legislatore della riforma di
limitare i casi di tutela reale e, pertanto, di ridurre le possibilità di impugnativa delle delibere degli organi
sociali: è dunque probabilmente prospettabile, in un simile caso, l’ingresso di una tutela di tipo
risarcitorio a beneficio dei soci che non siano stati messi in grado, prima dell’adunanza assembleare, di
venire a conoscenza del patto (purché, ovviamente, un danno sia provato). Sul fenomeno di “arretramento
delle tutele reali, ossia invalidatorie [...], e di loro graduale sostituzione con quelle obbligatorie, cioè
risarcitorie”, cfr. tra gli altri D’ALESSANDRO, Il conflitto d’interessi nei rapporti tra socio e società, in
Studi in onore di Vittorio Colesanti, Napoli, 2009, I, 510 ss. (cui appartiene il virgolettato); nonché, con
particolare riferimento proprio all’impugnazione delle delibere assembleari, STAGNO D’ALCONTRES,
L’invalidità delle deliberazioni dell’assemblea di s.p.a. La nuova disciplina, in Il nuovo diritto delle
società, Liber amicorum G. F. Campobasso, diretto da P. Abbadessa e G. B. Portale, Torino, 2007, 2, 186
ss.
89
Taluno ha effettivamente ritenuto gli amministratori, destinatari dell’originaria comunicazione,
legittimati ad effettuare la dichiarazione in assemblea: BADINI CONFALONIERI, op. cit., 299.
90
Cfr. MACRI’, Patti parasociali, cit., 159, che esclude la legittimazione degli organi sociali ad
effettuare la dichiarazione al fine di dare al patto la pubblicità prevista dalla legge, ma ammette che il
presidente dell’assemblea possa escludere dal voto i soci inadempienti (ipotesi possibile, ovviamente,
qualora la previa comunicazione alla società sia stata regolarmente effettuata o comunque il patto sia in
seguito venuto alla luce); in tale ultimo senso v. anche CHIONNA, op. cit., 62, che ammette l’esistenza di
36
Nondimeno, è evidente che ragionando in questi termini si finirebbe per porre in
capo alla società l’onere della prova circa la persistenza del patto parasociale
precedentemente comunicato ma non dichiarato nelle successive assemblee; detto
altrimenti, dalla semplice mancanza di tale dichiarazione assembleare si finirebbe per
presumere (seppure relativamente) il venir meno del patto stesso. Si tratterebbe tuttavia
di un risultato non conforme al sistema, il quale, viceversa, si preoccupa di garantire la
massima trasparenza dei patti parasociali e soprattutto di prevenire comportamenti
elusivi. Aggiungasi che l’incertezza circa l’attuale vigenza del patto non fa comunque
venir meno l’interesse alla conoscenza della pregressa (comunicazione della) stipula di
un patto parasociale rilevante. E’ allora senz’altro preferibile ritenere, al contrario, che il
comportamento reticente (in una successiva assemblea, s’intende) degli aderenti al patto
precedentemente comunicato alla società faccia presumere la persistenza e l’attualità
dell’accordo parasociale, con una duplica conseguenza: per un verso, il presidente
dell’assemblea potrà far verbalizzare la sussistenza del patto in forza della dichiarazione
degli amministratori (affinché ne sia data notizia per il tramite del susseguente deposito
presso il registro delle imprese) e, nel contempo, escludere i soci inadempienti dalla
votazione91; per l’altro, sarà a carico dei paciscenti l’onere di provare eventualmente che
l’accordo ha esaurito i suoi effetti e deve ritenersi superato. Diversamente deve dirsi,
invece, per l’ipotesi in cui sia mancata ogni forma di esteriorizzazione del patto, il
quale, dunque, non è nemmeno stato comunicato preventivamente alla società: è
corretto ritenere che in questi casi gli amministratori non abbiano il potere-dovere di
tale potere in capo al presidente dell’assemblea anche qualora questi sia “venuto in qualche modo a
conoscenza di un patto parasociale non pubblicato”.
91
Anche secondo PICCIAU, Sub artt. 2341-bis - 2341-ter, cit., 374, in presenza della comunicazione ma
in difetto della successiva dichiarazione, sorge in capo agli organi sociali e al presidente dell’assemblea
“il potere-dovere di provvedere alla dichiarazione”; conf. SBISA’, La disciplina, cit., 494; per quanto
concerne il potere di estromettere dal voto i soci che abbiano omesso la dichiarazione, v. FIORIO, Sub
artt. 2341-bis - 2341-ter, cit., 158. In senso parzialmente difforme DONATIVI, Sub art. 2341-ter, cit.,
194, il quale ammette il potere del presidente e degli organi sociali di effettuare la dichiarazione in via
sostitutiva ma, su questa base, giunge ad escludere (purché vi sia stata la preventiva comunicazione alla
società) l’applicabilità della sanzione, ritenendola operante soltanto allorché “la mancata dichiarazione in
assemblea si accompagni alla mancata comunicazione alla società”, nonché qualora la pur effettuata
dichiarazione assembleare non sia stata preceduta dalla comunicazione. E’ evidente, tuttavia, che una
simile ricostruzione finisce per riferire la sanzione - in chiaro contrasto con la lettera della norma - non
già alla mancata dichiarazione assembleare ma soltanto alla mancata comunicazione preventiva (!). Al
contrario, in una prospettiva di maggiore aderenza al disposto dell’art. 2341-ter, c.c. pare più corretto
ritenere che: (i) come già rilevato nel testo, in caso di effettuazione della comunicazione e di omessa
dichiarazione assembleare, gli organi sociali possano effettuare la dichiarazione in via sostitutiva e la
sanzione della sospensione del voto trovi comunque applicazione, anche in considerazione del fatto che
permarrà comunque un’incertezza in merito alla persistente vigenza del patto e al suo attuale contenuto;
(ii) in caso di mancata comunicazione preventiva, qualora la dichiarazione assembleare venga effettuata
la sanzione non si applicherà, purché quest’ultima sia accompagnata dal deposito di copia integrale del
patto, da allegare al verbale. Certo, rimarrebbe la perplessità di chi ha rilevato che, essendo la sanzione
connessa unicamente all’omessa dichiarazione assembleare, i soci estranei potrebbero venire a
conoscenza dei patti soltanto in assemblea (così FIORIO, Sub artt. 2341-bis - 2341-ter, cit., 161). In ogni
caso, è auspicabile che la soluzione proposta - connessa in particolare al deposito integrale del patto
presso il registro delle imprese - trovi quanto prima un espresso riconoscimento normativo, al fine di
eliminare la criticità forse maggiore del sistema della trasparenza disegnato dal codice civile e, in ogni
caso, di fare maggiore chiarezza (del resto, anche DONATIVI, Sub art. 2341-ter, cit., 205, pur non
condividendo tale soluzione come proposta interpretativa, ha auspicato la sua introduzione a livello
normativo).
37
effettuare la dichiarazione, né il presidente abbia quello di effettuare la relativa
verbalizzazione e di escludere dalla votazione i soci presunti membri del patto occulto,
giacché mancherebbe in prima battuta la prova dell’esistenza dell’accordo (salva,
ovviamente, l’applicazione delle sanzioni in caso di successivo accertamento).92
Altro problema, fermo restando che le disposizioni dell’art. 2341-bis c.c. si
applicano tanto ai patti stipulati nell’ambito di società per azioni quanto di società che le
controllano, è se le norme in tema di trasparenza di cui all’art. 2341-ter c.c. riguardino
solo i patti parasociali intervenuti nelle società “aperte” - come la lettera della norma
lascia intendere - oppure anche quelli conclusi nelle società che le controllano. E’ del
tutto plausibile accogliere questa seconda soluzione, vuoi per esigenze di natura
antielusiva, vuoi, ancora una volta, sulla base del convincente rilievo che le due norme
codicistiche costituiscano una sorta di “microsistema” e si riferiscano alle medesime
fattispecie.93 Detto ciò, il problema che si pone è quello della modalità di operatività
92
Così anche MACRI’, Patti parasociali, cit., 188; DONATIVI, Sub art. 2341-ter, cit., 201; MEO, Le
società, cit., 114. In ogni caso, secondo PICCIAU, Sub artt. 2341-bis - 2341-ter, cit., 376, il presidente
dell’assemblea deve sempre chiedere se tra gli azionisti siano stati stipulati patti parasociali rilevanti e
verbalizzare la relativa dichiarazione. E’ interessante osservare che in Francia la giurisprudenza ha
escluso che l’assemblea (rectius: il bureau, ossia l’ufficio interno con mansioni segretariali) abbia il
potere di accertare l’esistenza di un concerto (spettando esso soltanto al giudice o all’AMF): pertanto, la
sanzione della sospensione del diritto di voto in mancanza della comunicazione del superamento delle
soglie potrà essere applicata o qualora sia certo che l’accordo è stato concluso o allorché siano applicabili
le presunzioni legali di concerto sancite dall’art. L. 233-10 II code de commerce: così Tribunal de
commerce de Nanterre 6 mai 2008, SA Grupo Rayet c/ SA Eiffage et SAS Effaime, in Revue des sociétés,
2008, 842 ss., con nota adesiva di PACLOT, Les pouvoirs du bureau de l’assemblée en matière de
privation des droits de vote en cas de franchissement de seuil par action de concert, ibidem, 845 ss. La
sanzione, conforme a quella prescelta dal nostro legislatore, è prevista dall’art. L. 233-14 del code de
commerce per il caso di mancata comunicazione delle soglie rilevanti ai sensi dell’art. L. 233-7 code de
commerce e dura fintanto che non si provveda all’adempimento di tale obbligo. Un caso in materia è stato
quello deciso da Tribunal de commerce de Nancy, 23 décembre 2008, GHM, MMF et GCL c/ Journal de
l’Est républicain et autres, in Revue des sociétés, 2009, 385 ss., con nota di LAPRADE, Lorsque le droit
des sociétés s’empare de l’action de concert, ibidem, 390 ss. Tornando al nostro ordinamento, è
interessante notare, sotto il profilo sistematico, che il comma 2 dell’art. 20 T.U.B., menzionando anche i
“legali rappresentanti della banca o della società cui l’accordo si riferisce”, sembra far emergere il
problema dei potenziali obbligati all’adempimento degli obblighi di disclosure (trattasi, nel caso di
specie, dell’inoltro della comunicazione alla Banca d’Italia); in linea con quanto sostenuto con
riferimento alla disciplina del codice civile, sembra preferibile ritenere che gli organi sociali possano
provvedervi solo qualora il patto parasociale sia stato precedentemente comunicato loro dagli aderenti,
mancando altrimenti obiettivi elementi di valutazione: qualora, invece, i legali rappresentanti della banca
o della sua controllante nutrano semplicemente un sospetto circa l’esistenza di un patto occulto, potranno
certamente effettuare apposita segnalazione alla Banca d’Italia affinché questa provveda al loro
accertamento per il tramite dei poteri ad essa attribuiti dagli artt. 20, comma 4, e 21 T.U.B. Posto che la
sanzione per l’inadempimento dell’obbligo di cui all’art. 20, comma 2, T.U.B. e comminata dall’art. 24,
comma 1, T.U.B. consiste, in linea con quanto previsto dal codice civile e dal T.U.F., nel divieto di
esercizio del diritto di voto inerente alle partecipazioni per le quali e stata omessa la comunicazione, si
pone anche in tale contesto il problema se il presidente dell’assemblea possa escludere dalla votazione i
membri dell’accordo non comunicato. Una parte della dottrina si è mostrata, effettivamente, di tale
avviso: ANTONUCCI, Sub art. 24, in Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, a cura di
F. Belli, G. Contento, A. Patroni Griffi, M. Porzio, V. Santoro, Bologna, 2003, v. I, 341; SANTONI, Sub
art. 24, in Commentario al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, a cura di F.
Capriglione, Padova, 2001, t. I, 197.
93
In tal senso PICCIAU, Sub artt. 2341-bis - 2341-ter, cit., 264, che richiama altresì l’esigenza di una
coerenza sistematica con quanto previsto dal T.U.F. per le società quotate; analog. FIORIO, Sub artt.
2341-bis - 2341-ter, cit., 154; SEMINO, I patti parasociali, cit., 351; ID., Il problema, cit., 354;
DONATIVI, Sub art. 2341-ter, cit., 210, il quale sostiene l’applicabilità ad entrambe le società degli
38
della sanzione consistente nel divieto di esercizio del voto: su questo punto, sono state
proposte due differenti soluzioni. Secondo taluno, il divieto di esercizio del voto, in
quanto testualmente riferito alle “azioni”, si applicherebbe solo nelle assemblee della
controllata “aperta” e non anche in quelle delle controllanti, giacché non sarebbe
possibile distinguere nell’ambito di queste ultime tra società azionarie e non.94 In base
ad un diverso indirizzo, la sospensione del voto ex art. 2341-ter c.c. dovrebbe applicarsi
non solo alle azioni della s.p.a. aperta controllata, detenute dalla controllante, ma anche
con riferimento alle quote sindacate della stessa società controllante.95 Secondo il suo
fautore, si renderebbe infatti necessaria la duplicazione integrale degli obblighi
pubblicitari, al fine di consentire all’organo amministrativo della holding di comunicare
e soprattutto dichiarare l’esistenza del patto in occasione delle assemblee della seconda.
Su quest’ultimo punto si può concordare, perché dovendo essere il patto dichiarato nelle
assemblee della controllata, non potranno che provvedervi gli amministratori della
controllante che vi partecipino, a loro volta precedentemente informati (per quanto, in
realtà, nulla impedisca che quantomeno alla comunicazione del patto alla controllata
provvedano direttamente coloro che lo hanno stipulato). Questa tesi solleva però un
problema ulteriore: che succede se il patto viene regolarmente comunicato dalle parti
alla società controllante cui si riferisce, ma gli organi di questa non provvedono poi a
mettere al corrente la società controllata? In tale ipotesi pare difficile sostenere che
l’inibizione del diritto di voto colpisca anche i pattisti che abbiano regolarmente
comunicato (e dichiarato) l’esistenza dell’accordo all’interno della società controllante.
Sicuramente rimarrà ferma la preclusione per quest’ultima di esercitare il diritto di voto
nelle assemblee della controllata, ma a questa dovrebbe aggiungersi soltanto una
responsabilità degli amministratori della holding nei confronti della società ed
eventualmente dei soci per il pregiudizio causato, rimanendo invece liberi i pattisti di
esprimere il loro voto nell’assemblea della controllante. Anche in caso di omessa
comunicazione (e dichiarazione) alla controllante, sembra che la soluzione debba essere
analoga (con responsabilità, tuttavia, dei pattisti e non degli amministratori),
conformemente del resto a quanto si dirà tra breve a proposito dei patti conclusi
nell’ambito della controllante di una società quotata.
adempimenti imposti dall’art. 2341-ter c.c.; ABETE, op. cit., 963. Ma v. anche PAVONE LA ROSA, La
“trasparenza”, cit., 553, che ha escluso l’obbligo di dichiarazione del patto nell’assemblea della
controllata aperta e ha ritenuto inapplicabile il divieto di voto alle azioni detenute dalla controllante nella
controllata aperta. Per una posizione più articolata v. RORDORF, I patti parasociali, cit., 814, secondo il
quale occorrerebbe distinguere a seconda che la società controllante sia o meno una società che
strutturalmente si presti all’applicazione delle modalità di comunicazione previste dall’art. 2341-ter c.c.,
specialmente sotto il profilo dell’esistenza in seno alla medesima dell’organo assembleare (assente, come
noto, nelle società personali). Tale opinione non sembra però condivisibile, alla luce di quanto si dirà
subito nel testo.
94
Così BADINI CONFALONIERI, op. cit., 291. Conf. RESCIO, I patti parasociali dopo il d. lgs.
6/2003, cit., 123, il quale ha ritenuto che “non avrebbe qui senso il divieto di voto in capo ai soci della
controllante, partecipanti al patto non dichiarato”.
95
V. MACRI’, Patti parasociali, cit., 161 ss.
39
8. Conseguenze della mancata pubblicità dei patti stipulati nella società
controllante una società con azioni quotate.
Sin dalla sua entrata in vigore, l’art. 122 T.U.F. ha previsto per le società quotate
e le loro controllanti un più ampio spettro di obblighi di disclosure per le categorie di
patti parasociali in esso contemplati, articolantesi nella comunicazione alla Consob,
nella pubblicazione per estratto sulla stampa quotidiana e nel deposito presso il registro
delle imprese del luogo in cui si trova la sede sociale.96 Il d. lgs. n. 146/2009 ha
modificato l’art. 122 T.U.F. in una triplice direzione: in primis, ha aggiunto a quelli già
contemplati l’obbligo di comunicare i patti “alle società con azioni quotate”97; in
secondo luogo, ha unificato il termine per l’adempimento dei suddetti obblighi di
trasparenza - precedentemente differenziato - in “cinque giorni dalla stipulazione”;
infine, come già si è visto, ha stabilito (comma 5-ter) che gli obblighi di comunicazione
non si applichino ai patti parasociali aventi ad oggetto partecipazioni complessivamente
inferiori al due per cento del capitale sociale.
Ferma restando l’attribuzione alla Consob del potere di stabilire con
regolamento le modalità e i contenuti degli obblighi di comunicazione, le sanzioni
previste per il caso di inadempimento sono le stesse già comminate dalla versione
originaria del T.U.F. (art. 122, commi 3 e 4): oltre ad una sanzione amministrativa
pecuniaria (art. 193 T.U.F.)98, da una parte il divieto di esercizio del voto “inerente alle
azioni quotate per le quali non sono stati adempiuti gli obblighi”, con possibilità di
impugnazione della delibera anche da parte della Consob in caso di inosservanza99;
dall’altra, la nullità dei patti.100
96
Secondo SANTONI, Sub art. 122, cit., 1010, la Consob dovrebbe verificare la conformità tra la
comunicazione ricevuta ed il testo del patto depositato presso il registro delle imprese. Per la necessità di
un deposito del testo integrale del patto nel registro delle imprese, v. PICCIAU, Sub art. 122, cit., 879.
97
Secondo BOVE, op. cit., 228 (nt. 28), tale comunicazione non può limitarsi ad un estratto, dovendo
essere trasmesso “il testo integrale del patto”. Peraltro, tale obbligo era già previsto dall’art. 129 del
Regolamento emittenti, il quale richiede che, contestualmente alla pubblicazione, l’estratto del patto sia
inviato alla società e, per la relativa diffusione, alla società di gestione del mercato: la dottrina aveva già
rilevato che il significato di tale disposizione dovesse essere individuato nell’esigenza di “far segnalare la
notizia dell’esistenza del patto rispetto al momento assembleare”: cfr. CHIONNA, op. cit., 183-184, nt.
43).
98
Nell’ordinamento tedesco, la violazione degli obblighi di pubblicazione degli accordi previsti dal
WpHG comportano la perdita dei diritti sociali collegati alle azioni e una sanzione pecuniaria: sul punto,
RALOFF, op. cit., 149.
99
Occorre rilevare che, a differenza di quanto previsto dall’art. 2341-ter c.c., l’art. 122 T.U.F. prevede la
sterilizzazione dei diritti di voto (non già con riferimento ai “possessori” delle azioni, bensì) rispetto “alle
azioni quotate per le quali non sono stati adempiuti gli obblighi previsti dal comma 1”. Tuttavia, esigenze
di natura antielusiva dovrebbero consigliare di estendere l’applicazione della sanzione all’intero pacchetto
azionario detenuto dai soggetti che si sono sottratti alla pubblicizzazione del patto parasociale. E’
probabilmente per questo che in dottrina si è talora proposto di interpretare la norma del codice civile alla
stregua di un principio generale, estendibile, dunque, anche alle società quotate: in tal senso MACRI’,
Patti parasociali, cit., 174; RORDORF, I sindacati di voto, cit., 26 (nt. 23), ad avviso del quale la norma
del codice civile ha avuto un “effetto chiarificatore”. In proposito, si veda anche TUCCI, Patti
parasociali, cit., 183.
100
Ci si è chiesti se la nullità debba colpire anche i patti occulti (non afferenti a società quotate o società
che le controllano, bensì) stipulati in una società facente ricorso al mercato del capitale di rischio qualora
non siano state rispettate le prescrizioni di cui all’art. 2341-ter c.c.: autorevole dottrina si è espressa in
senso affermativo, ritenendo che “i patti parasociali segreti, ossia caratterizzati dall’impegno di
40
Il principale dubbio interpretativo che la novella del 2009 ha sollevato è analogo
a quello esaminato nel paragrafo precedente e deriva dal nuovo obbligo di
comunicazione dei patti “alle società con azioni quotate”: posto che la disciplina si
applica (in questo caso per espressa previsione normativa) sia ai patti parasociali
conclusi nell’ambito di società quotate sia a quelli stipulati nelle loro controllanti, è
necessario chiedersi se lo specifico obbligo in esame riguardi solo la prima delle due
ipotesi o se esso imponga, nel secondo caso, che i soci della controllante comunichino il
patto intervenuto tra di essi (anziché, appunto, alla loro società) unicamente e
direttamente alla società quotata controllata.101 La lettera della norma pare corroborare
quest’ultima soluzione, anche in considerazione del fatto che, a differenza dell’art.
2341-ter c.c., non si prevede l’obbligo di dichiarazione in assemblea, che invece
potrebbe essere adempiuto solo dagli amministratori della controllante. Tuttavia, tale
modalità di effettuazione della comunicazione potrebbe accentuare il problema, già
postosi in passato, concernente l’applicazione della sanzione del divieto di voto in caso
di omissione102: posto che il quarto comma dell’art. 122 T.U.F. inibisce il voto “inerente
alle azioni quotate per le quali non sono stati adempiuti gli obblighi” e non anche quello
inerente alle azioni (o quote) che i pattisti detengono nella società controllante non
quotata, le alternative sembrano essere soltanto le seguenti: da una parte, quella di
segretezza, dovranno ritenersi nulli perché diretti ad occultare le situazioni di controllo azionario; e
dovranno ritenersi nulli, e non semplicemente soggetti al regime conseguente alla omessa pubblicità,
anche per le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio” (così GALGANO, Il nuovo
diritto societario, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, a cura di F.
Galgano, vol. XXIX, t. I, Le nuove società di capitali e cooperative, Padova, 2003, 91). Più convincente
sembra, tuttavia, l’opinione contraria, secondo cui “non sembra possibile desumere in via interpretativa
una norma imperativa (o un principio) con così gravi conseguenze”: queste le parole di TUCCI, Patti
parasociali, cit., 184 (nt. 45); conf. PAVONE LA ROSA, I patti parasociali, cit., 12; BLANDINI,
Società quotate, cit., 372; nonché CARBONETTI, I patti parasociali nelle società non quotate alla luce
del Testo Unico della Finanza, in Riv. soc., 1998, 911, secondo cui la previsione della nullità “si inquadra
agevolmente nella disciplina della informazione societaria concernente le società quotate” e non è dunque
analogicamente applicabile ai patti parasociali relativi a società non quotate (sempre che, ovviamente, non
controllino società quotate). Analogo problema è sorto in relazione alle previsioni del T.U.B., che pur
imponendo la pubblicità dei patti tra soci con determinate caratteristiche, non prevede la nullità degli
accordi non comunicati. Una recente dottrina ha ritenuto di poter ripianare in via interpretativa tale
difformità, a motivo del fatto che l’omessa disclosure integrerebbe “un’intenzione contrattuale contraria
alle istanze che, a protezione dell’interesse - generale e pubblico - del risparmio, impongono la
conoscibilità, da parte della Banca d’Italia, dei contenuti di tutte le convenzioni extrastatutarie riferite alla
banca”: ROSA, op. cit., 205 ss., la quale richiama a sostegno di tale tesi la corrente giurisprudenziale che
ha ricondotto all’alveo dell’art. 1418 c.c. la lesione di interessi di natura generale e pubblica protetti dalla
norma violata, di istanze cioè “che si collochino al vertice della gerarchia dei valori protetti
dall’ordinamento giuridico” e, di conseguenza, propone la nullità delle intese parasociali mantenute
segrete, riconducendola alla illiceità della causa ai sensi degli artt. 1343 e 1344 c.c. Come si è detto
poc’anzi con riferimento alla norma del codice civile, tuttavia, non sembra che un simile risultato possa
essere ricavato in via interpretativa.
101
Tra i primi commenti si è ritenuto che le “società con azioni quotate” di cui parla la norma sarebbero
“quelle interessate al patto”: così BADINI CONFALONIERI, op. cit., 302 (nt. 112); il problema non è
però così risolto, perché società interessata al patto potrebbe essere anche una controllante non quotata di
una s.p.a. quotata.
102
Ha di recente auspicato un’espressa soluzione del problema a livello legislativo PROVERBIO, I patti
parasociali, Milano, 2010, 173. Merita segnalare peraltro che, tra i patti afferenti a società italiane quotate
regolarmente comunicati, quelli stipulati nelle loro controllanti rappresentano circa il terzo del totale: si
veda l’interessante studio empirico di FIGA’-TALAMANCA - FERIOLI - RASTIELLO, Controllo e
sindacati azionari nelle società quotate italiane, in RDS, 2010, 174 ss.
41
ritenere che la mancata comunicazione (direttamente rivolta) alla società quotata
controllata di un patto intervenuto tra soci della controllante non quotata vada soggetta
unicamente alla sanzione della nullità e a quella pecuniaria 103; dall’altra, quella - più
aderente al dettato normativo - di prospettare comunque (oltre alla nullità e alla
sanzione pecuniaria, anche) un’inibizione del diritto di voto per le azioni quotate
detenute dalla holding nella società figlia, nonostante il patto sia stato stipulato in seno
alla prima e non sia stato comunicato nemmeno alla holding.104 Tale reazione
dell’ordinamento affonderebbe del resto le sue radici nell’esigenza di evitare che i
(para)soci della holding non quotata riescano indirettamente ad esercitare un’influenza
dominante sulla società quotata e in quest’ottica conserverebbe una sua logica: del resto,
è probabile che ciò costituisca il vero obiettivo di chi stringe un accordo nell’ambito
della holding. Ed è forse proprio per questo che una simile conclusione è stata ritenuta
da alcuni non pienamente appagante quantomeno nell’ipotesi in cui l’accordo
parasociale mantenuto segreto coinvolga soci di minoranza della controllante 105:
sebbene una simile distinzione non trovi un sicuro fondamento nel dato normativo, essa
risponde certamente alla sua ratio, per quanto - occorre dirlo - possa presentare
particolari difficoltà l’accertamento in concreto della quota di capitale sociale coinvolta
nel patto inizialmente occultato.106
E’ senz’altro possibile che con la recente introduzione di tale ulteriore obbligo di
rendere noto il patto alla società con azioni quotate il legislatore abbia avuto in mente
l’ipotesi di un doppio canale di comunicazione dell’accordo parasociale: dapprima, dai
soci paciscenti alla loro società (la controllante non quotata); successivamente, dalla
holding (tramite i suoi amministratori) alla controllata quotata. Nulla esclude, peraltro,
che i soci stipulanti della controllante provvedano direttamente ad effettuare la
comunicazione (anche) a beneficio della società controllata quotata. Non sembra, ad
103
Per tale opinione, in passato, v. PINNARO’, op. cit., 819. Inoltre, l’A. da ultimo citato rilevava
l’impossibilità di concepire un’impugnazione da parte della Consob delle delibere della holding non
quotata; su quest’ultimo punto v. altresì MEO, Le società, cit., 112, il quale individuava la probabile ratio
di tale differenza di disciplina nelle difficoltà che la Consob incontrerebbe nell’accertare la sussistenza di
patti occulti in una società non quotata e, di conseguenza, nel promuovere l’azione di annullamento delle
relative delibere. Anche secondo ATELLI, op. cit., 674, in tale ipotesi la sola sanzione applicabile sarebbe
quella della nullità del patto.
104
Tesi già sostenuta da SANTONI, Sub art. 122, cit., 1009, secondo cui la segretezza del patto
parasociale relativo alla holding non quotata non pregiudicherebbe in ogni caso le delibere della
controllante, ma (ferma restando la sanzione della nullità) provocherebbe anche “la diretta sanzione del
divieto di voto delle azioni quotate da quest’ultima posseduta”, con potenziale pregiudizio per le delibere
della società figlia. Similmente SEMINO, Il problema, cit., 305, secondo cui il divieto, colpendo solo le
“azioni quotate”, non può applicarsi nelle assemblee della controllante.
105
Proprio al fine di evitare che l’inadempimento degli obblighi informativi da parte dei soci di
minoranza della controllante possa finire per impedire l’esercizio del diritto di voto di quest’ultima nella
controllata, si è proposto di ritenere l’inibizione del voto della società madre nell’assemblea della figlia
limitata alle ipotesi di mancata disclosure di un patto parasociale di controllo della holding: cfr. MACRI’,
Patti parasociali, cit., 164; SEMINO, Il problema, cit., 307-308; MEO, Le società, cit., 78 (nt. 64).
106
In tale frangente, ossia in presenza di un dubbio circa la “consistenza numerica” e il concreto peso del
patto, appare ragionevole continuare a prospettare la paralisi del diritto di voto della controllante, salva la
responsabilità dei pattisti occulti, i quali potranno essere chiamati a risarcire i danni in tal modo cagionati
alla propria società ed ai soci estranei; ma ad analoga responsabilità dovrebbero andare sempre soggetti i
(para)soci di maggioranza della holding per aver portato alla paralisi del voto esercitabile da questa nelle
assemblee della controllata: per uno spunto in tale ultimo senso v. RESCIO, I patti parasociali dopo il d.
lgs. 6/2003, cit., 123.
42
ogni modo, che da ciò possano discendere, nel silenzio della legge, differenze di
trattamento in caso di omissione dell’una o dell’altra comunicazione, unica essendo la
sanzione prevista.107
9. La trasparenza delle modifiche e il rinnovo tacito non pubblicizzato dei
patti parasociali rilevanti.
A conclusione di questo primo capitolo, merita soffermare l’attenzione su un
aspetto che si avrà occasione di riprendere anche in seguito, vale a dire il problema,
postosi da tempo, della necessità di pubblicazione delle modifiche apportate ai patti
parasociali e del rinnovo degli stessi tacitamente intervenuto.
In proposito, alcuni autori hanno ritenuto che debbano essere comunicate
soltanto le modifiche in grado di determinare una variazione dell’assetto dei patti;
dunque, in caso di rinnovo tacito, dovrebbero essere rese note soltanto eventuali disdette
di taluni dei partecipanti all’accordo, in mancanza delle quali dovrebbe presumersi che
l’accordo prosegua inalterato tra le parti originarie.108 Diversamente, si è ritenuto che
l’obbligo di pubblicità rimanga salvo in ogni ipotesi di rinnovo tacito, nella quale è
ravvisabile una nuova stipulazione per comportamento concludente.109 Come noto, la
stessa ammissibilità del rinnovo tacito dei patti è questione discussa: alcuni la escludono
sulla base dell’idea che gli adempimenti pubblicitari costituiscano requisiti di forma dei
patti.110 Quest’ultima opzione interpretativa è però da respingere, non tanto in forza di
un (anch’esso controverso) principio di libertà di forma dei patti parasociali111, ma
107
Pare in ogni caso necessario riconoscere che con la prescrizione di tale ulteriore adempimento - già
peraltro previsto dall’art. 129 del Regolamento emittenti - il legislatore abbia voluto allineare
sistematicamente, a livello di normativa primaria, la disciplina del T.U.F. con quella codicistica,
garantendo in entrambi i casi la piena informazione dei soci in ordine all’esistenza di patti parasociali:
come si era condivisibilmente sostenuto poco prima della recente novella, l’obbligo di preventiva
comunicazione alla società si spiega nell’ottica della necessità di tenere a disposizione dei soci, presso la
sede sociale ed in occasione di ogni riunione assembleare, tutti i documenti e le notizie necessari per un
adeguato e consapevole esercizio dei diritti sociali: v. CHIONNA, op. cit., 189 ss., il quale offre tale
ricostruzione teleologica dell’istituto muovendo dall’art. 130 T.U.F. per quanto riguarda le società quotate
e dai principi generali del codice civile per quanto concerne le società aperte. Ne deriva dunque in tutti i
casi un diritto dei soci estranei di prendere visione del contenuto dei patti comunicati alla società: come
l’A. ha osservato, “qualsiasi assemblea di società diffusa, peraltro, come si ritiene normalmente accada
per le quotate, può ragionevolmente diventare per il socio occasione per capire se vi siano ancora le
condizioni per mantenere o meno l’investimento” (ibidem, 197).
108
Per questa tesi, cfr. CHIAPPETTA, op. cit., 1005, il quale riteneva tale opinione confortata dall’art.
123, comma 2, T.U.F., il quale stabilisce che al recesso dai patti si applichino i commi 1 e 2 dell’art. 122.
L’A. propugnava altresì la nullità del recesso non pubblicizzato per contrasto con norme imperative.
109
OPPO, Patti parasociali, cit., 226. Anche secondo MEO, Le società, cit., 98, debbono essere
assoggettati a comunicazione il rinnovo tacito, il rinnovo espresso e formalizzato, lo scioglimento dei
patti ed ogni altra modifica degli stessi; conf. DONATIVI, Sub art. 2341-bis, cit., 178.
110
BLANDINI, Sul requisito di forma, cit., 76.
111
Il principio della libertà di forma dei patti parasociali è affermato da una parte della dottrina, “salvo
alcune ipotesi legali in cui indirettamente la forma scritta deriva dall’obbligo di comunicazione del patto a
specifiche pubbliche autorità investite della tutela di pubblici interessi”: queste le parole di PANUCCIO, I
patti parasociali, in La riforma del diritto societario, a cura di M. de Tilla, G. Alpa e S. Patti, Roma,
2003, 193. Altri hanno invece sostenuto che all’inciso “in qualunque forma stipulati” debba “riconoscersi
il più modesto significato di ricomprendere nella categoria delineata tutti i patti, ciascuno con la forma
43
soprattutto per la ragione che l’esigenza di impedire che il socio resti indefinitamente
vincolato al patto è soddisfatta dalla (indiscutibile) facoltà di sciogliersi dal patto alla
scadenza, manifestando la propria volontà in tal senso, presente o meno che sia nel patto
parasociale una clausola di rinnovo salvo disdetta (c.d. clausola di rinnovo
automatico).112
Ciò detto, è probabile che la risposta al superiore interrogativo possa derivare
dalla messa a fuoco di ciò che concretamente la nozione di “rinnovo tacito” identifica.
In mancanza di pubblicità dell’intento dei pattisti di prolungare la durata del vincolo
contrattuale inizialmente sorto, potrà parlarsi di rinnovo tacito allorché i paciscenti
continuino a tenere un comportamento corrispondente all’attuazione dell’accordo
originario.113 E’ evidente che si verrà a creare una situazione di incertezza agli occhi dei
terzi che dovrà essere rimossa: per tale ragione, è preferibile affermare la persistenza (o
meglio: la reviviscenza) dell’obbligo di provvedere alla pubblicità (ai sensi dell’art.
2341-ter c.c. o dell’art. 122 T.U.F.). 114 Le relative sanzioni potranno trovare
applicazione solo se, da un lato, vengano riscontrate condotte conformi all’esecuzione
del patto originario senza soluzione di continuità e, dall’altro lato, l’obbligo stesso non
risulti adempiuto nelle forme e nei termini previsti dalle due disposizioni poc’anzi
richiamate (a seconda, naturalmente, di quale delle due sia applicabile in concreto).
Pertanto, in mancanza di disdetta e in assenza di una clausola del patto che preveda
espressamente il rinnovo automatico, può operare una presunzione di prosecuzione
dell’accordo originario (o di nuova stipulazione tacita o per comportamento
che il suo contenuto richiede”, dato che le norme sui patti parasociali non regolerebbero “un contratto, ma
una classe di contratti”: in questi termini, probabilmente risolutivi, SAMBUCCI, Durata dei patti
parasociali e limiti all’autonomia privata, in Riv. dir. comm., 2008, 904.
112
Per l’ammissibilità della clausola di rinnovo automatico, cfr., per tutti, PRATELLI, Rinnovo di patti
parasociali e opzioni put & call, in Giur. comm., 2010, I, 936; PICCIAU, Sub artt. 2341-bis - 2341-ter,
cit., 354, il quale rileva giustamente che le norme codificano la possibilità di rinnovare il patto alla
scadenza, “senza escludere le ipotesi del rinnovo automatico o del rinnovo tacito”, le quali si distinguono
dal rinnovo espresso soltanto per “il modo in cui è manifestata la volontà negoziale”. Per l’opinione
contraria v. RORDORF, I patti parasociali, cit., 810-811, il quale si è espresso per l’inammissibilità della
clausola di rinnovo automatico (da lui però chiamata di “rinnovo tacito”), in quanto essa darebbe vita in
sostanza ad un patto a tempo indeterminato con possibilità di recesso (anziché in qualsiasi momento)
soltanto ogni tre o cinque anni. Altri ancora hanno invece ritenuto opportuno introdurre una distinzione
tra società quotate e non quotate, escludendo la facoltà di rinnovo tacito con riferimento alle prime in
ragione del maggiore interesse - che in queste si registra - alla contendibilità del controllo: RESCIO, I
patti parasociali dopo il d. lgs. 6/2003, cit., 116.
113
Come efficacemente si è rilevato, proprio questo elemento vale a distinguere il rinnovo tacito dal
rinnovo automatico, derivante cioè da una clausola del patto che preveda espressamente il protrarsi degli
effetti dell’accordo in caso di mancata disdetta: BADINI CONFALONIERI, op. cit., 294. Sul punto anche
PICCIAU, op. ult. cit., 356, il quale osserva che il rinnovo tacito si verifica allorché “la prolungata
esecuzione del patto successivamente alla sua scadenza originaria determini la sua proroga” (corsivo
aggiunto).
114
Tale soluzione sembra confortata anche dagli attuali artt. 128 e 131 del Regolamento Emittenti Consob
(modificati da ultimo con la recentissima delibera n. 18214 del 9 maggio 2012), i quali, pur non facendo
più espresso riferimento al rinnovo anche tacito dei patti parasociali quale oggetto di comunicazione e
pubblicazione, impongono comunque la comunicazione del rinnovo dei patti parasociali senza distinguere
tra rinnovo espresso e rinnovo tacito.
44
concludente) allorché vengano in concreto riscontrate condotte ad esso
corrispondenti.115
Da questo angolo visuale, è evidente il collegamento tra tale problematica e
quella riguardante la prova per presunzioni dei patti parasociali non comunicati, che
verrà trattata nel capitolo successivo: basti per il momento dire che, qualora venga
ravvisata la prosecuzione del comportamento conforme ad un patto precedentemente
comunicato, sarà indubbiamente più agevole l’inferenza presuntiva tesa ad affermare la
sua persistente vigenza in virtù del rinnovo tacito (o, se si preferisce, la stipulazione
tacita di un nuovo patto dal contenuto analogo).
Al di là del problema specifico posto dal rinnovo tacito del patto parasociale, è
comunque opportuno che ogni modifica degli accordi già pubblicizzati (intervenuta nel
periodo in cui essi sono in vigore tra le parti) venga resa nota nelle stesse forme,
essendo arbitrario il procedimento ermeneutico volto ad introdurre delle distinzioni a
seconda della tipologia della modifica apportata.116 Detto questo, si pone il problema se,
nelle società quotate, l’omissione dell’informativa inerente alla modifica del patto
parasociale determini la nullità del solo accordo modificativo o se, viceversa, ne risulti
colpito tout court l’accordo originario.117 In via di prima approssimazione, si potrebbe
sostenere che ad essere colpita sia soltanto la volontà negoziale successivamente
intervenuta e non pubblicata; si è però correttamente rilevato che a seguito dell’accordo
modificativo il patto originario non esiste più, proprio in quanto (almeno parzialmente)
sostituito: la sanzione della nullità, dunque, non potrebbe che riguardare l’attuale
regolamento negoziale nel suo insieme, ossia l’unico vigente a seguito delle intervenute
variazioni.118 Tale impostazione è in linea di principio condivisibile, a meno che risulti
applicabile, in questa ipotesi, l’art. 1419, comma 1, c.c. in tema di nullità parziale,
allorché la modifica riguardi solamente clausole accessorie.119
115
V. ancora BADINI CONFALONIERI, op. cit., 295, il quale osserva che in tal modo il patto diviene a
tempo indeterminato, con conseguente applicazione della relativa disciplina sul recesso. Sul punto anche
FIORIO, I patti parasociali, cit., 80. Diversamente PICCIAU, Sub artt. 2341-bis - 2341-ter, cit., 356.
116
Si può condividere l’incisiva osservazione di DELLE DONNE, Sindacati di voto e “riforma Draghi”:
le nuove frontiere del “parasociale” nelle società quotate, in Corr. giur., 2001, 1253: si chiedeva l’A.
“che differenza c’è infatti tra un patto non pubblicizzato e perciò occulto, e un patto pubblicizzato in
maniera differente da come è nella realtà, che questa differenza sia iniziale o sopravvenuta?”. In arg. V.
anche RESCIO, I patti parasociali nel quadro dei rapporti contrattuali tra i soci, cit., 469 (testo e nt. 47),
ove l’A. rileva che l’intervenuta modifica o cessazione di un patto (id est: di ogni patto, n.d.r.) incluso
nello statuto deve essere comunicata alla società e dichiarata in apertura di assemblea, secondo quanto
previsto dall’art. 2341-ter c.c., affinché gli amministratori provvedano al deposito della versione
aggiornata dello statuto presso il registro delle imprese. Il condivisibile assunto può essere esteso anche ai
patti non risultanti dallo statuto, dovendo essi comunque risultare dal registro delle imprese secondo
quanto previsto dallo stesso art. 2341-ter c.c. Nell’ordinamento statunitense, ogni “material change” alle
informazioni contenute nella Schedule 13D deve essere comunicato tempestivamente (“promptly”), sulla
base della Section 13(d)(2) del SEA; secondo quanto previsto dalla Rule 13d-2(a) della SEC, rientrano in
tale nozione gli atti dispositivi di almeno l’1% delle partecipazioni; nel caso in cui riguardino una
percentuale inferiore, occorrerà una valutazione delle circostanze concrete. Secondo la Rule 12b-2, il
termine “material” indica la probabilità che la circostanza da comunicare sia presa in considerazione da
un investitore ragionevole al fine di decidere se comprare o vendere titoli della società.
117
Sul fatto che la modifica occulta sia illecita in quanto contraria ad una norma inderogabile, cfr.
nuovamente DELLE DONNE, op. cit., 1253.
118
In tal senso MEO, Le società, cit., 108.
119
Pur senza voler approfondire in questa sede l’argomento, è noto che in tema di nullità parziale si
fronteggiano due orientamenti: il primo predilige una valutazione di tipo soggettivo - volta, cioè, ad
45
Quanto alla inibizione del diritto di voto, applicabile anche nelle società che
fanno ricorso al mercato del capitale di rischio ma non quotate, si è correttamente
sostenuto che essa colpisca tutti i paciscenti in caso di modifica (occulta) al patto nella
sua interezza, apportata cioè al regolamento negoziale come originariamente stabilito;
altrimenti, in caso cioè di semplice variazione soggettiva o quantitativa, “la sospensione
del voto si applicherà alle azioni di tutti solo se, avuta la notizia, nessuno degli aderenti
abbia assolto agli obblighi pubblicitari.”120
indagare la volontà delle parti - circa l’essenzialità o l’accessorietà delle clausole nulle; il secondo ritiene
viceversa preferibile un giudizio di carattere oggettivo: sul punto e per qualche riferimento cfr. M.
PINTO, La ratio del limite di durata dei patti parasociali a tempo determinato e l’art. 2341-bis, ultimo
comma, c.c., in Riv. soc., 2008, 1022-1023 (nt. 33). Più difficile sembra invece, in concreto, prospettare la
conversione del contratto nullo (quello, cioè, risultante dalle modifiche non pubblicizzate) in quello
originario, regolarmente reso noto: è da escludere infatti che le parti non conoscessero la causa di nullità
(come richiesto in via generale dalla norma dell’art. 1424 c.c. ai fini della conversione), in tal caso
derivante proprio dalla mancata pubblicazione della modifica.
120
Il virgolettato è di MEO, Le società, cit., 115.
46
Capitolo II
I patti parasociali occulti
tra opa obbligatoria e problema della prova
Sommario: Sezione I - Patti parasociali occulti, azione di concerto e opa obbligatoria. - 1.
Inquadramento normativo: gli artt. 101-bis e 109 T.U.F. e la fattispecie dell’azione di concerto. - 2.
L’accordo “volto ad acquisire, mantenere o rafforzare il controllo della società emittente” (o a contrastare
il conseguimento degli obiettivi di un’offerta pubblica di acquisto o di scambio). - 3. Il patto parasociale
(anche nullo) quale presunzione di concerto: i limiti di rilevanza del c.d. conscious parallelism. - 4. Il
fenomeno del controllo nella nozione di azione concertata: ammissibilità di una prova liberatoria. - 5.
Segue: possibili obiezioni all’ammissibilità della prova liberatoria e loro critica - 6. Segue: ulteriori profili
di rilevanza dello scopo di acquisire, mantenere o rafforzare il controllo della società (o di contrastare il
conseguimento degli obiettivi di un’offerta pubblica di acquisto o di scambio). - 7. Il valore dei
gentlemen’s agreements nella disciplina del concerto e dell’opa obbligatoria. - 8. La successione
temporale dei due presupposti dell’opa obbligatoria: l’acquisto di azioni e la stipulazione del patto
parasociale. - 9. Segue: accertamento dei patti parasociali occulti e permanenza delle condotte attuative; la
rilevanza dei patti a carattere occasionale. - 10. Modifiche occulte dei patti parasociali ed effetti della
risoluzione del patto sull’obbligo di offerta. - Sezione II - Profili concernenti la prova dei patti
parasociali occulti. - 11. La prova per presunzioni dei patti parasociali mantenuti segreti: principi
generali. - 12. Segue: prova dell’esistenza dei patti parasociali e principio dell’apparenza giuridica. - 13.
Segue: i patti parasociali occulti tra negozi indiretti e simulazione. - 14. Segue: il ruolo dei derivati
nell’accertamento di un patto parasociale occulto e la recente casistica.
Sezione I
Patti parasociali occulti, azione di concerto e opa obbligatoria
1. Inquadramento normativo: gli artt. 101-bis e 109 T.U.F. e la fattispecie
dell’azione di concerto.
Come hanno mostrato i casi venuti alla ribalta delle cronache finanziarie negli
ultimi anni, il contesto nel quale il tema dei patti parasociali occulti è elettivamente
destinato ad acquisire maggiore rilevanza è quello delle società quotate, nel cui ambito
essi non vengono in considerazione unicamente nell’ottica dell’imposizione di obblighi
di pubblicità (art. 122 T.U.F.), ma anche nella disciplina dell’offerta pubblica di
acquisto obbligatoria.1
1
Peraltro, le esigenze di trasparenza degli assetti proprietari non sono affatto trascurate dalle norme in
tema di OPA, bensì da queste ricomprese ed assorbite: in proposito, si è efficacemente osservato che “la
47
E’ noto che, in forza del combinato disposto degli artt. 109 e 101-bis T.U.F.,
sono tenuti a promuovere un’offerta pubblica di acquisto coloro che siano giunti a
detenere una partecipazione complessiva superiore a quelle indicate dagli artt. 106 e 108
T.U.F. in virtù di un’azione concertata, la quale è ritenuta dalla legge essere esistente
nell’ipotesi della stipulazione di un patto parasociale (anche nullo) di cui all’art. 122,
comma 1 e comma 5, lett. a), b), c) e d) T.U.F., purché la soglia rilevante sia superata
dagli aderenti in forza di acquisti di azioni avvenuti nei dodici mesi precedenti la stipula
del patto stesso.2
Il fatto che la nullità dell’accordo parasociale possa derivare dall’inadempimento
degli obblighi di trasparenza di cui all’art. 122 T.U.F. e, dunque, dalla segretezza del
patto, è un dato di per sé sufficiente a rendere la misura dell’importanza che presenta la
connessione tra patti parasociali occulti e OPA obbligatoria. 3
finalità prevalente delle norme in tema di offerta pubblica di acquisto […] è di assoggettare a disciplina di
trasparenza e correttezza tutte quelle operazioni che possono avere rilevanza alla luce degli interessi
tutelati”, tra cui, naturalmente, i patti parasociali: così SERSALE, Sub art. 101-bis, in Commentario
all’offerta pubblica di acquisto, a cura di G. Fauceglia, Torino, 2010, 5. Analog., ancor prima, REGOLI,
Doveri di assistenza degli amministratori e nuovo ruolo dei soci in pendenza di opa, in Riv. soc., 2000,
799, ove si evidenziava ancor più chiaramente che in materia di OPA “il legislatore ha adottato un
impianto tripartito di tutela, composto, in parte, da norme dirette a garantire agli azionisti il diritto di
disinvestire a condizioni eque in caso di trasferimento del controllo (exit); accanto a queste e in rapporto
di strumentalità, da norme con finalità di trasparenza, dirette ad assicurare un più consapevole e informato
esercizio dell’exit; infine, da norme che attribuiscono agli azionisti oblati un diritto di intervento/voice
[...]”. I problemi posti dagli interessi in gioco in questo ambito si complicano ulteriormente allorché le
operazioni in questione assumano carattere transnazionale: sull’argomento, v. MAZZONI, Patti
parasociali e regole di mercato nel diritto del commercio internazionale, in Dir. comm. int., 2005, 487 ss.
I più recenti casi in cui è emersa l’esistenza di patti parasociali occulti (SAI-Fondiaria, BNL,
Antonveneta, S.S. Lazio), saranno richiamati infra nel corso della trattazione. Per una vicenda più
risalente ma non meno nota, si veda CASTELLANO, Il patto parasociale Mediobanca: sindacato di
blocco e sindacato di voto, in Giur. comm., 1985, I, 342 ss.
2
La norma sull’acquisto di concerto non era contemplata nella previgente legge sull’OPA (l. n.
149/1992): un precedente era invece ravvisabile nell’art. 8 della l. n. 474/1994 (legge sulle
privatizzazioni), che prevedeva appunto l’obbligo di lancio di un’offerta pubblica di acquisto a carico di
chi avesse concluso un patto in qualsiasi forma, “desumibile anche dal comportamento concertato”. Sulla
differenza tra questa disposizione e l’art. 101-bis T.U.F. si tornerà poco oltre nel testo.
3
Atteso che i patti nulli sono equiparati a quelli validi ai fini della disciplina in esame, non sembra qui
avere particolare peso la soluzione che si voglia dare al problema se le sanzioni debbano applicarsi anche
in caso di inosservanza di uno soltanto degli obblighi di pubblicità sanciti dal primo comma dell’art. 122
T.U.F.: vengono senz’altro in considerazione, infatti, anche i patti parzialmente o irregolarmente
comunicati. Ad ogni modo, l’opinione prevalente in dottrina propende per la risposta affermativa: cfr.
SEMINO, Il problema, cit., 274; ID., Brevi spunti, cit., 279; SANTONI, I patti parasociali, cit., 196;
CIAN, Società con azioni quotate: profili sanzionatori della disciplina dei patti parasociali nella riforma
Draghi, in Corr. giur., 1998, 733; KUSTERMANN, Osservazioni sui patti parasociali dopo la “riforma
Draghi”, in Società, 1998, 914; PINNARO’, op. cit., 814; TORINO, I contratti parasociali, Milano,
2000, 476 ss.; ATELLI, op. cit., 671, il quale precisava anche che la nullità non opererebbe allorquando
ad essere violate siano soltanto le prescrizioni integrative dettate dalla Consob; con specifico riferimento
al divieto di esercizio del voto, SALAFIA, I patti parasociali nella disciplina contenuta nel d. lgs.
58/1998, in Società, 1999, 264. Da ultimo, v. CHIONNA, op. cit., 14, ad avviso del quale il patto
“resterebbe in qualche modo ‘illegittimo’” in caso di adempimento parziale agli obblighi pubblicitari.
Tuttavia, non pare debba escludersi la possibilità di verificare se un adempimento soltanto parziale degli
obblighi di informazione possa ricevere un trattamento diverso da quello del totale occultamento del patto
parasociale. Premesso che difficilmente tale ipotesi sembra potersi verificare in concreto - atteso che
l’intento di mantenere segreti i patti si tradurrà verosimilmente nell’inadempimento totale degli obblighi
di disclosure - è interessante notare che una recente pronuncia della Corte d’Appello di Roma,
nell’ambito della complessa vicenda riguardante la scalata a BNL, ha annullato la sanzione
amministrativa irrogata dalla Consob ad Unipol e Deutsche Bank, il cui patto era stato sì inserito nel sito
48
Centrale diviene, in particolare, il problema della prova dell’esistenza di siffatti
accordi, poiché, qualora essi rimanessero nell’ombra, la piena applicazione della
disciplina in materia di offerta pubblica di acquisto obbligatoria ne risulterebbe
evidentemente frustrata.
Ciò non significa, naturalmente, che, come si è visto nel capitolo precedente,
l’approfondimento delle modalità e dei limiti con cui sia possibile determinare
l’emersione di un patto parasociale occulto non abbia un peso decisivo anche con
riferimento all’esigenza di garantire l’effettività delle sanzioni previste - tanto dal
T.U.F. quanto dalla disciplina codicistica (ma anche dal T.U.B.) - nell’ipotesi di
inosservanza degli obblighi di pubblicità (art. 2341-ter c.c., art. 122 T.U.F. e artt. 19 ss.
T.U.B.).
Prima di approfondire i profili di maggior rilievo in punto di prova, è però
necessario affrontare le questioni, di carattere esegetico e sistematico, che la disciplina
dell’OPA obbligatoria solleva, assumendo naturalmente come angolo visuale il tema
generale cha fa da sfondo al presente lavoro - quello cioè dei patti parasociali mantenuti
segreti - e indagando gli aspetti sui quali tale fenomeno può reagire in maniera
problematica sull’applicazione delle disposizioni di cui si compone il tessuto normativo
costruito dagli artt. 101-bis ss. T.U.F. Il d. lgs. n. 146/2009 ha operato una significativa
rivisitazione della nozione di azione di concerto, incidendo sulle disposizioni dell’art.
101-bis T.U.F., introdotto ex novo dal d. lgs. n. 229/2007 in attuazione della c.d.
Direttiva OPA.4
della Consob, ma non altrimenti pubblicato: ebbene, la Corte ha ritenuto che una siffatta comunicazione
dovesse ritenersi idonea e sufficiente ad informare il pubblico (cfr. App. Roma, 29 settembre 2009, decr.,
reperibile in www.ipsoa.it). I giudici romani hanno scelto dunque un’impostazione antiformalistica,
mostrando di ritenere le sanzioni previste dalla legge applicabili unicamente ai patti che siano stati tout
court occultati. Tale impostazione può essere accolta, anche perché indirettamente confortata dal tenore
letterale dei commi 3 e 4 dell’art. 122 T.U.F., i quali, facendo menzione degli “obblighi” (al plurale,
dunque) rimasti inadempiuti, danno l’impressione di presupporre una totale inosservanza dei medesimi.
Sembra derivarne, a contrario, che anche una sola delle modalità previste per la pubblicazione dovrebbe
mettere al riparo gli aderenti dall’applicazione delle sanzioni. Tale conclusione merita tuttavia di essere
adeguatamente moderata, facendovi probabilmente eccezione i casi in cui ad essere stati effettuati in
concreto siano la pubblicazione sulla stampa quotidiana e/o la neo introdotta comunicazione alla società
quotata; tali adempimenti, invero, non sembrano istituzionalmente in grado, di per sé, di garantire
quell’informativa generale diretta al mercato che, nelle società quotate, richiede un grado di tutela ancor
più elevato: il mancato raggiungimento di tale risultato per causa imputabile ai paciscenti reclama,
pertanto, la comminatoria delle sanzioni di legge. Viceversa è a dirsi per la comunicazione alla Consob e
per il deposito presso il registro delle imprese: anche uno solo di essi dovrebbe porre al riparo i membri
del patto dalle conseguenze di cui ai commi 3 e 4 dell’art. 122 T.U.F. Questa proposta interpretativa, tra
l’altro, ha il pregio di assicurare anche una certa coerenza sistematica con la ricostruzione offerta in sede
di analisi della disciplina dettata dal codice civile (cfr. cap. I, § 7).
4
Sull’attuazione della Direttiva 2004/25/CE (c.d. Direttiva OPA) nel nostro ordinamento, cfr. TOLA, La
direttiva europea in materia di OPA: prime riflessioni, in Banca, borsa, tit. cred., 2005, I, 490 ss.; F.M.
MUCCIARELLI, L’attuazione della Direttiva opa nell’ordinamento italiano, in Giur. comm., 2008, I,
448 ss.; ANGELILLIS - MOSCA, Considerazioni sul recepimento della tredicesima direttiva in materia
di offerte pubbliche di acquisto e sulla posizione espressa nel documento della Commissione Europea, in
Riv. soc., 2007, 1106 ss. E’ bene sottolineare sin da ora che già tale Direttiva imponeva che il documento
di offerta indicasse “l’identità delle persone che agiscono di concerto con l’offerente”, e dunque gli
accordi da questo conclusi con altri soggetti interessati all’operazione. Per una prospettiva più recente
sull’armonizzazione delle discipline in tema di OPA a livello europeo, anche de jure condendo, si veda
ENRIQUES, Né con gli scalatori né con i gruppi di comando: per una disciplina neutrale sulle opa
nell’Unione Europea, in Riv. soc., 2010, 657 ss.
49
In origine, il legislatore del Testo Unico aveva preferito evitare l’introduzione di
una definizione generale di concerto5, fornendo viceversa l’indicazione di quattro
specifiche fattispecie, sulla cui qualificazione le interpretazioni della dottrina non erano
(e non sono nemmeno attualmente) univoche: all’indomani dell’entrata in vigore del d.
lgs. n. 58/1998, invero, si era immediatamente posto il problema - tuttora dibattuto con
riferimento all’attuale art. 101-bis T.U.F. - se tale elenco (precedentemente contenuto,
però, nell’art. 109 T.U.F.) individuasse (e ancora oggi individui) presunzioni legali
assolute o, piuttosto, ipotesi tassative di concerto.6
Non si può non richiamare, in proposito, l’art. 8 della vecchia legge sulle
privatizzazioni (l. n. 474/1994), il quale stabiliva che l’obbligo di procedere ad
un’offerta pubblica di acquisto derivasse dall’apporto di azioni “ad un patto di sindacato
di voto o di consultazione, in qualsiasi forma concluso, desumibile anche dal
comportamento concertato”: come si può notare, nel contesto di tale disposizione, il
comportamento concertato delle parti - fenomenicamente percepibile - era il
fondamento di una presunzione legale circa l’esistenza di un patto parasociale (di voto o
di consultazione).7
5
La soluzione originaria era stata salutata favorevolmente dalla dottrina, in quanto sembrava eliminare “il
rischio di affidare alla Consob la valutazione di casi concreti sulla base di una definizione sfuggente”:
così WEIGMANN, Offerte pubbliche d'acquisto (voce), in Enc. giur. Treccani, vol. XXI, Roma 2001, 10.
6
Secondo l’opinione prevalente esse costituiscono presunzioni legali assolute di concerto: si vedano G.F.
CAMPOBASSO, Diritto Commerciale. 2. Diritto delle società, ottava edizione a cura di M. Campobasso,
Torino, 2012, 264, nt. 23; MOSCA, Comportamenti di concerto e patti parasociali, in Scritti giuridici per
Piergaetano Marchetti, Milano, 2011, 454; GUIZZI-TUCCI, Articolo 109, in Le offerte pubbliche di
acquisto, a cura di M. Stella Richter jr, Torino, 2011, 264; SERSALE, Sub art. 109, in Commentario
all’offerta pubblica di acquisto, a cura di G. Fauceglia, Torino, 2010, 189 e 193; AZZARO, op cit., 717;
BAGLIONI, Il patto “di concerto” Antonveneta accertato da Consob, in Società, 2005, 1045;
WEIGMANN, Sub art. 109, in Testo Unico della Finanza (d. lg. 24 febbraio 1998, n. 58), Commentario
diretto da G. F. Campobasso, Torino, 2002, **, 932; P. FERRO-LUZZI, Il “concerto grosso”; variazioni
sul tema dell’o.p.a., in Giur. comm., 2002, I, 657; BIANCHI, Sub art. 109, in La disciplina delle società
quotate nel testo unico della finanza d. lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, Commentario a cura di P. Marchetti e
L. A. Bianchi, Milano, 1999, t. I, 439. Secondo altri, invece, l’elencazione portata dalla norma è da
ritenersi (soltanto) tassativa e quindi preclusiva di altre ipotesi di concerto concretamente riscontrabili: v.,
ad es., ROMAGNOLI, Diritti dell’investitore e dell’azionista nell’OPA obbligatoria, Padova, 2005, 184,
il quale esclude pertanto ogni possibilità di interpretazione estensiva o analogica; TUCCI, Patti
parasociali, cit., 189 (nt. 55); MONTALENTI, OPA: la nuova disciplina, in Banca, borsa, tit. cred.,
1999, I, 155; nonché CALLEGARI, Acquisto di concerto, in La legge Draghi e le società quotate in
borsa, diretto da G. Cottino, Torino, 1999, 66. Non è mancato, peraltro, chi ha ritenuto le due prospettive
conciliabili e, pertanto, entrambe condivisibili: v. DESANA, Tribunale versus Corte d’Appello nella
vicenda Sai Fondiaria: due pronunce ambrosiane sulle conseguenze della violazione dell’Opa
obbligatoria, in Banca, borsa, tit. cred., 2007, II, 595; EAD., Opa obbligatoria “da concerto occulto”:
alcune osservazioni a margine della vicenda Sai-Fondiaria, nota a Cons. Stato, VI Sezione, 13 maggio
2003, n. 4142, in Giur. it., 2004, IV, 2113. Similmente GIUDICI, L’acquisto di concerto, in Riv. soc.,
2001, 495, il quale scriveva che “sul piano degli effetti […] le due tesi non possono che condurre ad
identici risultati”, stante l’impossibilità di impiego dell’analogia, “preclusa dalla natura eccezionale della
norma” (ibidem, 496). Sul punto, da ultimo, VENTURINI, Difese, concerto e derivati nelle ultime
modifiche alla disciplina OPA, in Società, 2010, 450.
7
La dottrina, peraltro, riteneva trattarsi di presunzione legale relativa: così GIUDICI, op. ult. cit., 493. Sul
punto, v. BASSO, Sub art. 109, in Commentario al testo unico delle disposizioni in materia di
intermediazione finanziaria, a cura di G. Alpa e F. Capriglione, Padova, 1998, t. II, 1014, il quale
evidenziava che “il comportamento concertato, quindi, nella legge del 1994 costituiva un espediente per
alleggerire l’onere della prova dell’esistenza dei patti parasociali indicati nella disposizione, ma non
anche un autonomo presupposto per l’obbligo di OPA a carico dei soggetti concertanti”. Sui problemi
interpretativi sollevati dalla previgente disciplina, cfr. anche CHIAPPETTA, op. cit., 1009.
50
Fu proprio il Testo Unico della Finanza - sin dalla sua prima versione - a
determinare un vero e proprio rovesciamento di prospettiva: l’art. 109 T.U.F., invero, a
differenza del precedente art. 8 l. n. 474/1994, non concepiva più - secondo lo schema
della presunzione legale - il comportamento concertato quale sintomo dell’esistenza di
un patto parasociale; al contrario, considerava (e l’art. 101-bis T.U.F. tuttora considera)
la stipula di un patto parasociale, anche nullo, di cui all’art. 122 T.U.F., quale indice
(rectius: quale vera e propria figura) di azione concertata, questa sì fonte diretta
dell’obbligo di promozione dell’offerta pubblica di acquisto (in presenza, naturalmente,
degli altri presupposti di cui all’art. 109 T.U.F.). 8
Anche il d. lgs. n. 229/2007 - limitandosi ad aggiungere una quinta ipotesi di
concerto [quella de “i soggetti che cooperano tra loro al fine di ottenere il controllo della
società emittente”: lett. e) dell’art. 101-bis T.U.F., in vigore sino al 2009 e poi
soppressa] alle quattro già contemplate dall’art. 109 T.U.F. e trasferendo queste ultime
proprio in seno all’art. 101-bis T.U.F. (di nuova introduzione, appunto) - aveva
rinunciato a tracciare in via generale i contorni della fattispecie.9
Si era osservato che l’ipotesi di cui alla lett. e), omettendo ogni riferimento ad un
“contratto” o ad un “accordo”, pareva “andare oltre la nozione di ‘contratto’ anche
nullo” ed ammettere la rilevanza - ai fini dell’individuazione del concerto - dei
comportamenti di collusione tacita.10 Premesso che su quest’ultimo punto vi sarà modo
di soffermarsi nel prosieguo, è sufficiente per il momento sottolineare che il d. lgs. n.
146/2009 ha provveduto a riscrivere l’art. 101-bis T.U.F., eliminando tale specifica
ipotesi presuntiva e delineando per la prima volta i tratti generali della nozione di
concerto.
Recita infatti l’attuale comma 4 della norma: “per ‘persone che agiscono di
concerto’ si intendono i soggetti che cooperano tra di loro sulla base di un accordo,
espresso o tacito, verbale o scritto, ancorché invalido o inefficace, volto ad acquisire,
8
L’art. 109 T.U.F., infatti, nella sua prima versione così recitava:
“Acquisto di concerto - 1. Sono solidalmente tenuti agli obblighi previsti dagli artt. 106 e 108, quando
vengano a detenere, a seguito di acquisti a titolo oneroso effettuati anche da uno solo di essi, una
partecipazione complessiva superiore alle percentuali indicate nei predetti articoli: a) gli aderenti a un
patto, anche nullo, previsto dall’art. 122; b) un soggetto e le società da esso controllate; c) le società
sottoposte a comune controllo; d) una società e i suoi amministratori o direttori generali. 2. L’obbligo di
offerta pubblica sussiste in capo ai soggetti indicati nel comma 1, lettera a), anche quando gli acquisti
siano stati effettuati nei dodici mesi precedenti la stipulazione del patto ovvero contestualmente alla
stessa.” Sul previgente art. 109 T.U.F., v. D’AMBROSIO, Sub artt. 102-112, in Il testo unico della
intermediazione finanziaria, Commentario al D. Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, a cura di C. Rabitti
Bedogni, Milano, 1998, 607, ove si osservava che l’ampia portata dell’art. 122 T.U.F. avrebbe potuto
comunque “compensare” la mancata previsione di una fattispecie generale di azione di concerto “a
soggetto indifferente”.
9
Ma proprio la lett. e) poteva legittimare il dubbio che fosse comunque stata introdotta una nozione
generale di concerto, come rilevato da BRUNETTA, Sub art. 109, in La disciplina dell’offerta pubblica
di acquisto, in Le nuove leggi civ. comm., 2010, 210.
10
Così LIBONATI, Corso di diritto commerciale, Milano, 2009, 314, il quale ammetteva la ricorrenza
della fattispecie del concerto “in ogni ipotesi di parallelismo consapevole di comportamenti che pur
tuttavia non attinga gli estremi della fattispecie patto parasociale”; VENTURINI, Difese, cit., 451, il quale
nota altresì che tale opzione normativa si esponeva ad ulteriori critiche da parte della dottrina, quale ad
esempio l’affiancamento della fattispecie di cui alla lett. e) ad altre - quelle, appunto, già originariamente
previste - certamente “dai confini meno ampi”. Sulla rilevanza delle c.d. collusioni tacite e del
parallelismo consapevole di comportamenti, ad ogni modo, si tornerà nel prosieguo della trattazione.
51
mantenere o rafforzare il controllo della società emittente o a contrastare il
conseguimento degli obiettivi di un’offerta pubblica di acquisto o di scambio”; il nucleo
essenziale della fattispecie viene così ad essere individuato nella sussistenza di un
accordo, accompagnato da una condotta attuativa e caratterizzato da un preciso obiettivo
comune alle parti.11
11
Tale generale definizione riprende molto da vicino, sebbene non esattamente, quella già contenuta
nell’art. 2 della Direttiva 2004/25/CE, la quale considerava agenti di concerto le “persone fisiche o
giuridiche che cooperano con l’offerente o la società emittente sulla base di un accordo, sia esso espresso
o tacito, verbale o scritto, e volto ad ottenere il controllo della società emittente, o a contrastare il
conseguimento degli obiettivi dell’offerta”. Un’attuazione pressoché pedissequa di tale definizione
(simile dunque a quella rinvenibile nel T.U.F.) si è avuta anche nell’ordinamento inglese, dove la Rule 9.1
del City Code on Takeover and Mergers stabilisce che “persons acting in concert comprise persons who,
pursuant to an agreement or under standing (whether formal or informal), co-operate to obtain or
consolidate control [...] of a company or to frustrate the successful outcome of an offer for a company. A
person and each of its affiliated persons will be deemed to be acting in concert all with each other.” La
norma prosegue indicando una serie di presunzioni che (a differenza di quelle contenute nell’art. 101-bis
T.U.F., interpretato secondo l’opinione dominante) sono espressamente presentate come relative (“unless
the contrary is established”). Inoltre, la Rule 9.1(a) prevede che scatti l’obbligo di offerta pubblica se un
soggetto acquista partecipazioni che, considerate unitamente a quelle di coloro con i quali agisce di
concerto, attribuiscono il 30% o più dei diritti di voto. Si afferma poi che la cooperazione tra azionisti
condurrà all’applicazione della disciplina del concerto solo se essi perseguono uno scopo qualificato,
ossia “requisition or threaten to requisition a meeting for the consideration of a ‘board control-seeking’
proposal” (cioè richiedono o minacciano di richiedere un’adunanza per la presa in considerazione di uno
scopo di acquisto del controllo del board): così lo UK Takeover Panel, Response to the European
Commission’s Green Paper on the EU corporate governance framework , 22 luglio 2011, 3 ss., ove si
individuano anche alcuni fattori idonei ad indicare l’esistenza di tale scopo, come il rapporto esistente tra
i soci e gli amministratori che vengono proposti, un eventuale pregresso rapporto o la sussistenza di un
accordo o di un’intesa tra gli stessi (ibidem, Appendix). La corrispondente norma tedesca di attuazione
della Direttiva (§ 30, Abs. 2 WpÜG), pressoché coincidente con quella dettata ai fini degli obblighi
pubblicitari (§ 22, Abs. 2 WpHG), è già stata riportata, come si ricorderà, nel capitolo precedente.
Nell’ordinamento francese, la norma di riferimento è contenuta nell’art. L. 233-10 del code de commerce,
che, come modificato dall’art. 18 della Loi n. 2007-211 del 19 febbraio 2007, dispone: “sont considérées
comme agissant de concert les personnes qui ont conclu un accord en vue d’acquérir ou de céder des
droits de vote ou en vue d’excercer les droits de vote, pour mettre en oeuvre une politique commune visà-vis de la société ou pour obtenir le contrôle de cette société”. Quest’ultima parte della definizione, che
fa riferimento allo scopo del raggiungimento del controllo, è stata inserita solo di recente, principalmente
sulla scorta dell’osservazione dell’AMF secondo cui l’intento di mettere in atto una politica societaria
comune non riusciva a comprendere le ipotesi di azione concertata nell’interesse di uno solo dei pattisti:
sul punto LE NABASQUE, Commentaire des principales dispositions de la loi de régulation bancaire et
financière du 22 octobre 2010 intéressant le droit des sociétés et le droit financier, in Revue des sociétés,
2010, 547 ss., il quale si è espresso però criticamente nei confronti di detta “aggiunta”, evidenziando che
in realtà l’accordo volto ad acquisire il controllo della società è una sottocategoria di quello atto a porre in
essere una politica comune. La previsione generale richiamata è seguita da un’elencazione di presunzioni
di concerto, che a differenza di quelle contenute nel nostro art. 101-bis T.U.F. e al pari di quelle “inglesi”,
sono ritenute presunzioni relative di concerto: LAPRADE, Concert et côntrole, cit., 232. Inoltre, la legge
di attuazione della c.d. Direttiva Opa (2004/25/CE), ossia la Loi n. 2006-387 del 31 marzo 2006, aveva
già ampliato la nozione di concerto, inserendo nel Code una norma (art. L. 233-10-1) che dispone: “en
cas d’offre publique d’acquisition, sont considérées comme agissant de concert les personnes qui ont
conclu un accord avec l’auteur d’une offre publique visant à obtenir le controle de la société qui fait
l’object de l’offre. Sont également considérées comme agissant de concert les personnes qui ont conclu
un accord avec la société qui fait l’object de l’offre afin de faire échouer cette offre”. Anche in Francia
scatta l’obbligo di offerta pubblica in caso di superamento della soglia rilevante, individuata nella
detenzione di un terzo del capitale sociale o dei diritti di voto dell’emittente: tale obbligo, in caso di
azione di concerto, grava solidalmente su tutti gli agenti. L’art. L. 433-3 del Code monetaire et financier
affida al Regolamento generale dell’AMF il compito di individuare i presupposti per l’obbligo di
depositare un progetto di offerta. Prevede dunque l’art. 234-2 del Regolamento generale dell’AMF:
“lorsqu’une personne physique ou morale, agissant seule ou de concert [...], vient à détenir plus du tiers
52
Si potrebbe forse criticare l’eccessiva ampiezza dell’attuale fattispecie, tale cioè
da attribuire (alla Consob) un margine di discrezionalità alquanto ampio
nell’accertamento delle ipotesi di azione concertata, anche in considerazione del fatto
che, come hanno dimostrato i ben noti casi di concerto da patto occulto emersi negli
ultimi anni, rimane a tal fine “imprescindibile l’intervento dell’autorità di vigilanza” 12; è
anche vero però che gli estesi confini della fattispecie, pur ponendo problemi
interpretativi di non poco momento, tendono a svolgere, nella prospettiva del
legislatore, una chiara funzione antielusiva, proprio al fine di garantire l’adeguata
soddisfazione degli interessi protetti dalla disciplina dell’OPA obbligatoria.13
des titres des capital ou plus du tiers des droits de vote d’une société, elle est tenue, à son iniziative, d’en
informer immédiatement le conseil et de déposer un projet d’offre publique visant la totalité des titres de
capital et des titres donnant accès au capital ou aux droits de vote et libellé à des conditions telles qu’il
puisse être déclaré receivable”. La sanzione prevista per la violazione di tale obbligo è la privazione del
diritto di voto inerente ai titoli eccedenti la soglia rilevante (art. L. 433-3, I Code monetaire et
financiaire). Per una analitica disamina di questi temi nella letteratura francese cfr. in particolare
BONNEAU, L’action de concert, in Les offres publiques d’achat, diretto da G. Canivet, D. Martin, N.
Molfessis, Paris, 2009, 97 ss.; VIANDIER, OPA, OPE et autres offres publiques, Levallois, 2006, spec.
231 ss. Si noti che, nonostante gli auspici della Commissione Europea in tal senso, non è a tutt’oggi
ravvisabile una nozione omogenea di azione concertata negli ordinamenti dei Paesi europei che hanno
attuato la c.d. Direttiva OPA; lo UK Takeover Panel, nel suo Response, cit., 3 ss., ha però espresso parere
recisamente sfavorevole ad un’eventuale opera di ulteriore armonizzazione in materia, manifestando il
convincimento che gli Stati membri debbano rimanere liberi di declinare la relativa disciplina in ragione
delle peculiarità dei singoli ordinamenti nazionali.
12
Il virgolettato è di DESANA, Tribunale versus Corte d’Appello, cit., 597; analog. EAD., Opa
obbligatoria, cit., 2113, ove l’A. rileva che il caso del patto non comunicato “implica necessariamente un
intervento dell’autorità di vigilanza volto a svelarne l’esistenza”.
13
Negli Stati Uniti, come si è detto nel capitolo precedente, la nozione (e la rilevanza) del concerto
riguarda invece solo eventualmente (anche se probabilmente frequentemente) le offerte pubbliche (tender
offers), assumendo invece un ruolo primario nella disciplina della disclosure di una partecipazione
superiore al 5%. La Section 13(d)(3) del SEA attribuisce infatti espressamente rilevanza, a quest’ultimo
fine, ai gruppi di soggetti agenti congiuntamente, e la Rule 13d-5(b)(1) della SEC, implementando detta
previsione, delinea così i contorni di un gruppo (concerto): “when two or more persons agree to act
together for the purpose of acquiring, holding, voting or disposing of equity securities of an issuer, the
group formed thereby shall be deemed to have acquired beneficial ownership, for purposes of Sections
13(d) and(g) of the Act, as of the date of such agreement, of all equity securities of that issuer beneficially
owned by any such persons.” Come si è notato, la SEC ha aggiunto lo scopo di “voting”, non contemplato
nella Section 13(d)(3) del SEA, dando adito a dubbi di “overregulation”: COFFEE Jr. et al., op. cit., 719.
Naturalmente, può ben essere riscontrabile un’offerta promossa da un gruppo di soggetti, i quali devono
aver previamente effettuato la disclosure secondo quanto previsto proprio dalla Section 13(d) del SEA:
non a caso, la Section 14(d)(2) contiene esattamente la stessa definizione della Section 13(d)(3),
estendendo il concetto di “person” a chiunque agisca - in senso lato - come gruppo. Qualora il gruppo
agente di concerto si formi successivamente alla promozione dell’offerta, sarà necessaria un’opportuna
informativa o il lancio di una nuova offerta da parte di tutti i membri del gruppo: sul punto BROWN et
al., op. cit., § 4.02[C], 4-16. La possibile rilevanza di un concerto nell’ambito delle offerte pubbliche
(rectius: “tender offers”) è stata esplicitata anche dalla SEC almeno in due diversi contesti. In primo
luogo, in sede di emanazione di linee guida interpretative della Rule 14d-1(g)(2), la quale prevede che il
termine “bidder” (offerente) indica “any person who makes a tender offer or on whose behalf a tender
offer is made”; ebbene, l’Autorità americana ha stabilito (cfr. SEC Current Issues and Rulemaking
Projects, November 14, 2000; nonché BARTOS, op. cit., 137) che uno dei fattori da considerare a tale
riguardo è se un soggetto agisce di concerto “with the named bidder”, ossia con il principale offerente.
Pertanto, potrebbe derivarne in questo modo l’obbligo di offerta in capo a quest’altro soggetto concertista.
Inoltre, nella Rule 14e-5 si prevede che, in presenza di un’offerta pubblica, “a covered person” non possa
acquistare direttamente o indirettamente azioni dell’emittente o titoli correlati se non nell’ambito della
stessa offerta; e tra questa categoria di soggetti rientra “any person acting, directly or indirectly, in
concert with any of the persons specified in this paragraph (c)(3) in connection with any purchase or
arrangement to purchase any subject securities or any related Securities” (così la Rule 14e-5(c)(3). Va
53
2. L’accordo “volto ad acquisire, mantenere o rafforzare il controllo della
società emittente” (o a contrastare il conseguimento degli obiettivi di un’offerta
pubblica di acquisto o di scambio).
Come si è appena avuto modo di notare, la nozione di concerto “torna ad avere,
quale denominatore comune, un ‘accordo’” 14; inoltre, essa abbraccia - oltre ai patti resi
oggetto di una formalizzazione scritta - tanto gli accordi conclusi verbalmente quanto
quelli perfezionatisi tacitamente, anche se invalidi o inefficaci.
Tale scenario normativo sollecita immediatamente due fondamentali
interrogativi. In primo luogo, non è chiaro se per tale via il legislatore abbia senz’altro
dato ingresso anche al semplice “parallelismo consapevole di comportamenti”15: in
aggiunto, tra l’altro, che negli Stati Uniti il concetto di “tender offer” non è chiarito dalla Section 14 del
SEA ed ha costituito oggetto di un dibattito anche tra le Corti, le quali hanno proposto diversi criteri di
identificazione: per i termini della questione v. in particolare SODERQUIST-GABALDON, op. cit., 140
ss.; THOMPSON Jr., Mergers, Acquisitions and Tender Offers, New York, 2011, v. 2, 8-52 ss.; nonché,
meno recentemente, EBERT M. D., “During the Tender Offer” (or Some Other Time Near it): Insider
Transactions Under the All Holders/Best Price Rule, in Villanova Law Review, 2002, v. 47, 677 ss.
14
Così TUCCI, Le offerte pubbliche di acquisto, in L’ordinamento finanziario italiano, a cura di F.
Capriglione, Padova, 2010, t. II, 936; SERSALE, Sub art. 109, cit., 180; VENTURINI, Difese, cit., 451, il
quale evidenzia anche come siano state aggiunte “le espressioni ‘mantenere o rafforzare’ il controllo della
società emittente, in ragione della maggiore estensione della nozione interna di OPA rispetto a quella
comunitaria” (ibidem, nt. 58); GUIZZI-TUCCI, op. cit., 265. L’accordo è ritenuto alla base dell’azione
concertata anche nell’ordinamento francese: sul punto, LAPRADE, Affaire Gecina: et si la Cour de
cassation s’était trompée de contentieux? Note sous Cour de Cassation (com.) 27 octobre 2009, 3 arrêts,
in Revue des sociétés, 2010, 118; VIANDIER, op. cit., 233; nonché nella dottrina e giurisprudenza
americane: “formation of a group occurs whenever individuals agree to act together for a common
purpose” (così BROWN et al., op. cit., § 2.04[C], 2-33) [e v., nelle Corti, Texasgulf Inc. v. Canada Dev.
Corp., 366 F. Supp. 374, 403 (S.D. Texas, 1973); per l’affermazione che una semplice “relationship” non
sarebbe sufficiente, National Home Prods, Inc. v. Gray, 416 F. Supp. 1293, 1322 (D. Del. 1976); nonché,
ancor più espressamente, Wellman v. Dickinson, 682 F.2d 355 (2d Cir. 1982), ove si è rilevato che “the
touchstone of a group within the meaning of section 13(d) is that the members combined in furtherance of
a common objective”]. Peraltro, come si è visto, tale scopo comune non necessariamente deve coincidere
con l’acquisto congiunto del controllo: v. Roth v. Jennings, 489 F.3d 499, 508 (2d Cir. 2007); in
letteratura, LEVY, op. cit., 5-18. Nel vigore della versione originaria dell’art. 109 T.U.F., che non
comprendeva una definizione generale di concerto, si discuteva invece circa la necessità di raggiungere la
prova anche in ordine ad una presunta “volontà di concertarsi”: sul punto GIUDICI, L’acquisto, cit., 496;
tale opinione era tuttavia da ritenere priva di fondamento, stante la presenza del meccanismo delle
presunzioni legali, mentre oggi il dubbio è chiarito proprio dall’attuale nozione di concerto, che postula
inequivocabilmente la sussistenza di un accordo e dunque l’esistenza di volontà convergenti (salvo,
naturalmente, il problema di accertare in concreto l’esistenza di detto accordo). Inoltre, già si affacciava
talvolta l’idea - peraltro decisamente poco condivisibile anche nel previgente contesto normativo - che la
fattispecie del concerto coincidesse in sostanza con l’elemento oggettivo rappresentato dalla pluralità di
acquisti da parte di più soggetti, di per sé idoneo, dunque, a generare l’obbligo di lancio dell’OPA “anche
a prescindere dalla sussistenza di un patto”: così AZZARO, op. cit., 724. Come si vedrà successivamente,
non è esatto affermare che l’acquisto di azioni integri la fattispecie dell’azione concertata, rappresentando
viceversa un ulteriore presupposto che, unitamente a quest’ultima, determina l’insorgenza dell’obbligo di
lancio dell’offerta pubblica di acquisto.
15
Così invece, espressamente, VENTURINI, Difese, cit., 452. La dottrina francese lo esclude
recisamente, rilevando plasticamente che “à défaut d’intention commune, ce parallélisme conscient ne
constituera qu’un simple indice d’action concertée et non une preuve”: così LAPRADE, Concert et
côntrole, cit., 435; analog. VIANDIER, op. cit., 248 e 236, ove si parla di “commounauté d’objectifs”
quale caratteristica fondamentale del concerto. A proposito dei comportamenti che possono costituire
indizi di un concerto e sempre con riferimento all’ordinamento francese, va menzionata la regola che
attribuisce all’AMF il potere di indagare - interrogando gli interessati - in ordine ad elementi e
54
prima battuta, si può osservare come proprio il richiamo della norma alla necessaria
esistenza di un “accordo” induca a pensare che la convergenza delle condotte sia un
elemento necessario ma non sufficiente, occorrendo altresì, in via di principio, una
comunanza di intenti in vista di un determinato risultato.16 Certamente, l’esistenza di un
vero e proprio accordo sarà desumibile in via indiziaria; è bene però sottolineare che la
sola omogeneità delle condotte non può in linea di massima considerarsi sufficiente a tal
fine, dovendosi procedere ad un’indagine concernente la sussistenza di ulteriori e più
significativi elementi idonei a rivelare l’effettiva esistenza di un incontro di volontà.
Al riguardo, è utile osservare che il semplice acquisto sul mercato delle azioni di
una determinata società da parte di più soggetti, quand’anche ciascuno sia a conoscenza
della condotta degli altri, non può certo rappresentare di per sé l’esistenza di un patto
(quand’anche avente proprio tale oggetto) - e nemmeno di una più generica forma di
cooperazione (id est: di concerto) - volto al conseguimento del controllo di quella
medesima società: come si dirà meglio in seguito, ai fini dell’insorgenza dell’obbligo di
promozione di un’offerta pubblica di acquisto, il rastrellamento di azioni sul mercato è
presupposto distinto ed ulteriore rispetto alla sussistenza del concerto (e dunque del
patto parasociale ad esso eventualmente sotteso e volto all’acquisizione del controllo).
Quanto precisato consente di introdurre il secondo dei due interrogativi cui si
faceva cenno. Occorre subito rilevare che il riferimento teleologico contenuto nell’art.
101-bis, comma 4, T.U.F. - il quale, come si è visto, richiede che l’accordo sia “volto ad
acquisire, mantenere o rafforzare il controllo della società emittente o a contrastare il
conseguimento degli obiettivi di un’offerta pubblica di acquisto o di scambio” - solleva,
analogamente alla clausola di cui all’art. 2341-bis c.c., il dubbio se esso incarni
l’elemento soggettivo della fattispecie o se, viceversa, si limiti a descrivere gli effetti
che - sul piano giuridico-fenomenico - l’accordo deve essere in grado di produrre.17
Certamente, l’accoglimento della prima soluzione, comportando la necessità
dell’accertamento di uno stato soggettivo, avrebbe l’effetto di rendere la prova
dell’esistenza del concerto maggiormente difficoltosa, a meno di ritenere che gli effetti
comportamenti che fanno presumere l’intenzione di preparare un’offerta pubblica (art. L. 433-1 Cod.
mon. fin.). Sul punto cfr. DAIGRE, Rumeur d’OPA: comment réagir?, in BJB, 2008, 190 ss.
16
In tal senso SERSALE, Sub art. 109, cit., 191 (nt. 32), il quale esclude che “si possa attribuire rilevanza
al mero scambio di informazioni o alla mera consapevolezza di agire coordinato, in quanto la norma in
questione richiede chiaramente l’esistenza di un accordo tra gli agenti, e quindi di una qualche forma di
condivisione di strategie e di obiettivi”. Conf. TUCCI, Le offerte pubbliche, cit., 936, il quale ha osservato
che “un accordo deve comunque essere ricostruibile e, per di più, non nel senso, del tutto generico, di
(reciproca) ‘condivisione’ dell’altrui condotta, ma in un’accezione assai più pregnante, dovendo avere un
oggetto determinato”. Naturalmente (ma sul punto ci si soffermerà più avanti con specifico riferimento ai
patti parasociali occulti) rimane la difficoltà, all’atto pratico, di tracciare una linea di confine tra accordo
tacito (rilevante per espressa disposizione normativa) e semplice convergenza di condotte, magari soltanto
occasionale.
17
Nel primo senso si orienta SERSALE, Sub art. 109, cit., 191, il quale ritiene trattarsi di “una sorta di
elemento psicologico che gli agenti devono avere”, aggiungendo che “il riferimento più plausibile è ai
motivi che spingono le parti all’accordo (art. 1345 c.c.), piuttosto che alla causa tipica dello stesso”
(ibidem, nt. 31); riconosce però l’A. che, “a differenza dell’art. 1345 c.c., la norma […] non richiede
esplicitamente che la ‘volontà’ sia comune ed esclusiva e che, da altra prospettiva, la ratio ed il fine
antielusivo della disciplina impone di considerare l’applicazione della disciplina del concerto anche
laddove una delle parti, pur non essendo mossa dalla ‘volontà’ tipica, si risolva a cooperare e quindi a
favorire consapevolmente l’altra parte per arricchirsi o per altro interesse” (ibidem, nt. 32).
55
concretamente prodottisi - ed empiricamente riscontrabili - in seguito all’azione
congiunta siano un elemento di per sé idoneo a far presumere la sussistenza della
comune volontà degli agenti18; se così fosse, la questione diverrebbe però meramente
nominalistica e, a quel punto, l’ago della bilancia finirebbe sicuramente per pendere in
favore della prospettiva “oggettivistica”, in grado di fornire un più sicuro appiglio
all’opera dell’interprete.
Ad ogni modo, analogamente a quanto si è detto nel primo capitolo a proposito
della clausola contenuta nell’incipit dell’art. 2341-bis c.c., la difficoltà di ammettere che
l’applicazione di tale disciplina possa dipendere dall’accertamento (sicuramente non
semplice ed alquanto delicato) di uno stato soggettivo porta a concludere che oggetto di
valutazione debba essere l’effettiva portata dell’accordo19: tale prospettazione può
peraltro ritenersi confortata dal tenore letterale del quarto comma dell’art. 101-bis
T.U.F., il quale richiede che sia l’accordo medesimo ad essere “volto” ad incidere sul
controllo della società. In altri termini, posta l’irrilevanza, in base ai principi generali,
dei motivi individuali, perderebbe significato l’operazione diretta ad enucleare una sorta
di motivo comune o di elemento psicologico comune, assumendo viceversa esclusiva
rilevanza la valutazione della portata e degli effetti del regolamento negoziale, “volto”,
per l’appunto, nella sua struttura oggettivamente percepibile, “ad acquisire, mantenere o
rafforzare il controllo della società” (o a contrastare il conseguimento degli obiettivi di
un’offerta pubblica). In tal senso depone anche l’altro presupposto richiesto dalla norma
perché vi sia azione concertata, ossia la cooperazione: essa indica che non è sufficiente
una comune volontà (l’accordo, appunto), ma è necessario altresì che questa - per
quanto, eventualmente, soltanto verbale o tacita - sia accompagnata dall’effettiva
realizzazione del programma negoziale. E sarà proprio quest’ultimo elemento a
costituire la “spia” dell’idoneità dell’accordo di concerto ad incidere sulle vicende
relative al controllo della società.20
Quanto appena detto lascia per il momento aperto il problema - sul quale ci si
soffermerà in seguito - se il riscontro di effetti concreti corrispondenti alla finalità del
concerto individuata dalla nozione generale sia o meno, in prima battuta, un
presupposto indefettibile (tale, cioè, da dover costituire immediatamente oggetto di
prova) affinché l’obbligo di promozione di un’offerta pubblica possa sorgere.
18
Così pare esprimersi lo stesso SERSALE, Sub art. 109, cit., 192, il quale, dopo aver negato ogni
rilevanza al fatto “che la cooperazione in questione abbia effettivamente sortito gli effetti voluti” o meno,
precisa però come “l’accertamento di comportamenti del tutto inidonei o inconferenti con la ratio della
norma possa, viceversa, portare a convincersi dell’assenza della volontà richiesta dalla legge” (ibidem, nt.
37).
19
L’irrilevanza dei motivi delle parti nell’ambito della fattispecie di concerto di cui al § 30 WpÜG è
messa in risalto anche dagli autori tedeschi, perché decisiva deve reputarsi soltanto l’acquisizione di un
potenziale di influenza sulla società: v. PRASUHN, op. cit., 212.
20
Da un punto di vista sistematico, tale conclusione è coerente con quanto previsto dal Testo Unico
Bancario: gli artt. 20 e 23 T.U.B. attribuiscono espressamente rilievo agli accordi che abbiano per effetto,
rispettivamente, la concertazione del voto e l’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento; né
sembra possa smentire tale impostazione l’art. 22 .T.U.B., il quale contempla quegli accordi in forza dei
quali gli aderenti “intendono esercitare in modo concertato i relativi diritti”: invero, essi possono essere
conclusi “in qualsiasi forma” e la predetta intenzione, qualora il patto non sia stato esteriorizzato, non
potrà che essere desunta dall’esercizio stesso di quei diritti e dunque dall’effetto concretamente prodotto
dall’accordo.
56
3. Il patto parasociale (anche nullo) quale presunzione di concerto: i limiti
di rilevanza del c.d. conscious parallelism.
Tra le presunzioni assolute di concerto21, l’art. 101-bis, comma 4-bis, T.U.F.
annovera in primo luogo i patti parasociali, anche nulli, di cui all’art. 122, comma 1 e
comma 5, lett. a), b), c) e d), T.U.F.22: dunque, tutte queste tipologie di accordi possono
venire in rilievo quali ipotesi di concerto.23
21
Sebbene, come già si è detto, la dottrina dominante le qualifichi in questi termini, può essere
legittimamente avanzata l’idea che le ipotesi contemplate dalla norma, introdotte dalla locuzione “in ogni
caso”, identifichino in fin dei conti vere e proprie fattispecie di concerto. Dal punto di vista pratico,
tuttavia, non sembrano potersi riscontrare significative differenze, dal momento che in entrambi i casi
risulterebbe (ed infatti risulta) impedita l’eventuale prova - volta ad evitare l’applicazione della disciplina
- circa l’eventuale inesistenza di elementi che compongono la nozione generale di concerto sì come
confezionata dal quarto comma dell’art. 101-bis T.U.F.
22
Non viene menzionata la lett. d-bis) dell’art. 122 T.U.F., che contempla i patti volti a favorire o
contrastare un’offerta pubblica di acquisto: ciò tuttavia non costituisce una svista, come si evince dalla
Relazione illustrativa al d. lgs. n. 229/2007; del resto, tale ipotesi è parzialmente ricompresa nella nozione
generale di concerto, che fa riferimento all’accordo avente per obiettivo il contrasto di un’offerta pubblica
(sul punto VENTURINI, I patti parasociali e la Consob: il caso Unipol - BNL, in Società, 2010, 600).
Restano fuori, dunque, i patti volti a favorire il conseguimento degli obiettivi di un’offerta pubblica, ma la
ragione è facilmente spiegabile: non avrebbe senso imporre a chi sia intenzionato ad aderire ad un’offerta
l’obbligo di promozione di un’ulteriore offerta che, configurandosi gioco forza come concorrente,
finirebbe per innescare una (non voluta!) battaglia per il controllo. Anche nel Regno Unito si tende ad
escludere che gli impegni di adesione all’offerta presi con l’offerente configurino un’azione concertata:
come si legge nel Practical Statement n. 22, Irrevocable committments, concert parties and related
matters, emanato dal Takeover Panel in data 10 luglio 2008 ed emendato il 19 settembre 2011, “the
Executive would not normally consider the offeror to have acquired a right to exercise or direct the
exercise of the voting rights attaching to, or general control of, the relevant shares for the purposes of
Note 9 on the definition of “acting in concert”, la quale prevede che il Panel stabilisca se vi sia azione di
concerto qualora “the terms of irrevocabile commitment give the offeror or the offeree company (as the
case may be) either the right (whether conditional or absolute) to exercise or direct the exercise of the
voting rights attaching to the shares or general control of them” (qualora, cioè, “i termini dell’impegno
irrevocabile danno all’offerente o alla società bersaglio, a seconda dei casi, o il diritto, condizionato o
assoluto, di esercitare od orientare l’esercizio dei diritti di voto inerenti alle partecipazioni o il loro
generale controllo”). Come ricordato in calce al medesimo documento, i Practical Statements sono una
sorta di linee guida che il Takeover Panel emana al fine di fornire indicazioni interpretative inerenti alle
disposizioni del City Code on Takeovers and Mergers, ma non sono vincolanti per lo stesso Panel.
Occorre ricordare anche che il comma 4-ter dell’art. 101-bis T.U.F. attribuisce alla Consob il potere di
stabilire ulteriori presunzioni relative di concerto e di individuare i casi in cui la cooperazione tra più
soggetti, viceversa, non configura un’azione di concerto ai sensi del quarto comma. Parallelamente, l’art.
106, comma 5, T.U.F., prevede che la Consob stabilisca con regolamento i casi in cui il superamento,
anche da parte di più soggetti controllanti, delle soglie rilevanti, non comporti l’obbligo di offerta,
specialmente se determinatosi in particolari contesti, riguardo ai quali il compito dell’Autorità sembra
essere (solamente) quello di disciplinare le modalità di operatività dell’esenzione con riferimento ai
singoli casi. La Consob era quindi giunta ad affermare che i patti parasociali strettamente funzionali ad
una fusione o ad una scissione sono da ritenere parte integrante dell’operazione stessa e dunque rientranti
nella fattispecie di cui all’art. 49 del Reg. Emittenti che prevede l’esenzione dall’obbligo di OPA: cfr.
Comunicazione n. 2050754 del 22 luglio 2002, pubblicata in Società, 2002, 1289, che aveva determinato
il superamento della più risalente Comunicazione n. 42498 del 1 giugno 2000; nello stesso senso si sono
espresse ulteriori Comunicazioni dell’Autorità: v., ex multis, le nn. DEM/DCL/6085619 del 26 ottobre
2006 e DEM/9105951 del 28 dicembre 2009. In giurisprudenza, cfr. inoltre Trib. Firenze, 19 settembre
2007, in Giur. comm., 2009, II, 77. Si è ritenuto però che gli accordi che accompagnano una fusione
possano beneficiare della predetta esenzione soltanto se pubblicati, non potendo la Comunicazione della
Consob “invocarsi a copertura di un patto mantenuto segreto”: è l’osservazione di DESANA, Il caso SAIFondiaria: ancora tre decisioni attendendo la Cassazione, in Giur. comm., 2009, II, 134.
23
Tale scelta legislativa non ha mancato di sollevare critiche: si veda la Circolare Assonime n. 4/2010,
Prime considerazioni sul decreto correttivo sull’opa (d. lgs. 25 settembre 2009, n. 146), in Riv. soc.,
57
Si è detto in dottrina che le presunzioni assolute di concerto - contrariamente a
quanto accade secondo la definizione generale - dispenserebbero dall’accertamento “di
una cooperazione attuativa di un accordo, essendo sufficiente il riscontro della
‘situazione’ descritta”24: l’assunto è corretto se lo si intende nel senso che la
realizzazione di una delle ipotesi previste dalla norma esime dalla verifica circa la
sussistenza dei diversi elementi della fattispecie generale di concerto, fermo restando
tuttavia che anche l’esistenza di un patto parasociale nullo in quanto occulto - lett. a) del
2010, 576, ove si legge che “la norma rischia di sanzionare anche comportamenti non necessariamente
concertati”, quali i patti parasociali “di consultazione o di prelazione convenzionale, o quelli che
vincolano a non superare una certa percentuale di possesso, pur quando essi lasciano i paciscenti liberi di
votare come meglio credono e, quindi, anche di seguire condotte antitetiche”. Tale osservazione parte dal
presupposto che l’azione concertata consista necessariamente in un coordinamento nell’esercizio del
diritto di voto: a rigore, stando al dato letterale dell’art. 101-bis T.U.F., così probabilmente non è, ma la
circolare dell’Assonime adombra un problema di non poco momento, vale a dire se sia possibile far
scattare le conseguenze giuridiche collegate alla fattispecie del concerto anche in assenza di omogeneità
di condotte in assemblea e dunque, in ultima analisi, in mancanza di effettivo esercizio del controllo. La
questione, che viene sostanzialmente a coincidere con quella posta in chiusura del precedente paragrafo,
verrà approfondita in seguito. Per altro verso, anche sulla scorta di quanto emerso nel capitolo precedente,
non può essere condivisa l’opinione di chi ha ritenuto che i patti rilevanti ai fini del concerto debbano
comunque avere la finalità di stabilizzare gli assetti proprietari o il governo della società: BOSI, Sub art.
101-bis, in La disciplina dell’offerta pubblica di acquisto, in Le nuove leggi civ. comm., 2010, 50. In
Germania non tutti gli accordi contemplati dal “nostro” art. 122 T.U.F. sono ritenuti compresi nella
fattispecie del § 30, Abs. 2: innanzitutto, si tende ad escludere in generale che vi sia un’azione concertata
in presenza di un mero patto di consultazione che non sfoci in un accordo sul voto (SCHNEIDER, § 22,
cit., 1075; con riguardo al § 30, GAEDE, op. cit., 216) o che comunque non miri all’attuazione di una
cooperazione (WEIß, op. cit., 146; SCHNEIDER, § 30, cit., 877); inoltre, si è esclusa, ad esempio, la
rilevanza dei c.d. accordi di stand-still, in base ai quali i paciscenti si vincolano reciprocamente a non
cedere il loro pacchetto azionario e/o a non incrementarlo, nonché quella degli accordi per l’alienazione
delle partecipazioni (così SCHOCKENHOFF-SCHUMANN, op. cit., 579, i quali ritengono che tale
conclusione resti ferma anche nell’ipotesi in cui l’accordo di stand-still sia accompagnato da un patto
avente ad oggetto l’esercizio del voto nelle delibere riguardanti operazioni sul capitale); v. anche
GAEDE, op. cit., 208 e 258-259, sul rilievo che tali accordi non attribuiscono di per sé il controllo, né lo
stesso potenziale di influenza assicurato dal 30% dei diritti di voto; conf. VON BÜLOW-BÜCKER, op.
cit., 698-699; SCHÜPPEN-WALZ, op. cit., 653. In senso parzialmente contrario PRASUHN (op. cit.,
215-216), a cui avviso l’accordo di stand-still non è immediatamente rilevante per l’acquisto del controllo
ai fini di cui al § 30, ma potrebbe diventarlo se accompagnato da un accordo per l’esercizio del voto.
Viceversa, si tende generalmente ad affermare che tali tipi di accordi siano soggetti a pubblicità in quanto
rilevanti nell’ambito del § 22, Abs. 2: così SCHNEIDER, § 22, cit., 1071 ss.; ancora GAEDE, op. cit.,
208 e 258-259; PSAROUDAKIS, op. cit., 299, rilevando l’importanza della loro comunicazione ai fini
dell’assunzione delle decisioni di investimento riguardo all’emittente. Nell’ordinamento statunitense, la
lettera della Section 13(d)(1) pare considerare rilevante ogni tipo di accordo, ma ai fini del
raggiungimento (anche congiunto) della soglia rilevante per la disclosure, si ha riguardo soltanto alle
partecipazioni con diritto di voto (e quindi anche a quelle che si potrebbero ottenere con la conversione di
nonvoting securities): sul punto BROWN et al., cit., § 2.04 [C], 2-27; nonché, nelle Corti, Hemispherx
Biopharma, Inc. v. Johannesburg Consol., Inv., 533 F.3d 1351 (11th Cir. 2008). La Section 13(d)(3) e la
Rule 13d-5(b)(1) della SEC, pur introducendo una limitazione, come si è visto, agli accordi che
riguardano l’acquisto, la detenzione, il voto o la disposizione delle partecipazioni, hanno in realtà
praticamente ricompreso tutte le tipologie di accordi tipicamente più rilevanti. Su questo punto, la
giurisprudenza ha recentemente statuito che l’accordo non deve avere necessariamente ad oggetto tutte le
condotte descritte da queste regole, bastandone una: “acquiring, holding, and disposing of are listed in
the disjunctive” [così Roth v. Jennings, cit., 508, la quale ha precisato che l’accertamento di un concerto è
necessariamente una questione di fatto].
24
In questi termini GUIZZI-TUCCI, op. cit., 265.
58
comma 4-bis dell’art. 101-bis T.U.F. - non potrà che essere provata, quantomeno in
prima battuta, sulla base del comportamento tenuto dai presunti pattisti.25
E’ soprattutto in relazione a questa prima ipotesi di azione concertata - come può
accadere per la definizione generale - che si pone il cruciale problema se, ai fini della
disciplina dell’OPA obbligatoria, il patto parasociale, anche nullo, riconducibile
all’elenco di cui all’art 122 T.U.F., possa risultare da una mera collusione tacita, ossia
dalla semplice consapevolezza e volontà di ciascuno dei paciscenti di coordinarsi
reciprocamente.26 Tanto l’art. 101-bis quanto l’art. 109, comma 2, T.U.F., richiamano i
patti, anche nulli, di cui all’art. 122 T.U.F., che, in base al disposto di quest’ultima
norma, possono essere “in qualunque forma stipulati”. Secondo un autore, tale
riferimento normativo “fa scivolare rapidamente il piano della prova dell’esistenza del
patto parasociale rilevante ai fini del concerto da indici formali a indici puramente
comportamentali”27: questa affermazione necessita tuttavia di un’adeguata verifica,
giacché non può darsi per scontata l’idoneità di “indici puramente comportamentali”,
appunto, ad integrare la fattispecie in esame.
La questione è destinata naturalmente a riverberarsi sul problema dell’oggetto
della prova circa l’esistenza di un patto occulto. Qualora, infatti, si propenda per la
sufficienza di un coordinamento tacito ma consapevole (salvo verificare se possa essere
anche occasionale28), occorrerebbe comunque distinguere - sul piano fattuale e, di
riflesso, probatorio - questa fattispecie da quella del mero parallelismo inconsapevole
di comportamenti tenuti da più soci, sicuramente irrilevante29.
25
Uno spunto in tal senso è fornito, nella letteratura francese, da LAPRADE, Concert et côntrole, cit.,
425, il quale nota che la prova dell’accordo alla base del concerto “ne peut résulter que de leur attitude
convergente sur une certaine durée”.
26
Il problema era già posto in questi termini da GIUDICI, L’acquisto, cit., 491, il quale - richiamando a
titolo di esempi il concorso di persone nel reato in diritto penale e le pratiche concertate nel diritto
antitrust - osservava altresì in via generale come “la legge può attribuire significato giuridico alla
semplice evidenza di un comportamento coordinato, cosciente e volontario, considerando irrilevante che a
monte di esso vi sia o meno un accordo, espresso o tacito”. Dalle parole di questo Autore sembra tra
l’altro trasparire l’idea che la collusione tacita possa essere distinta dall’accordo intervenuto tacitamente:
sul punto, v. poco oltre nel testo.
27
Così SERSALE, Sub art. 109, cit., 187; l’A. aggiunge peraltro che le presunzioni di cui all’art. 101-bis
T.U.F. implicano il venir meno della necessità di provare “una comune volontà concertante degli agenti”
(ibidem, 193, nt. 39): quest’idea può essere condivisa, giacché il patto parasociale già integra
quell’accordo, alla base della cooperazione, in cui si sostanzia la nozione di concerto; permane, tuttavia,
proprio la necessità di verificare se il patto parasociale quale ipotesi presuntiva di concerto richieda o
meno l’accertamento di un vero e proprio accordo. La tesi riferita riprende l’opinione di chi, in
precedenza, aveva lamentato l’incoerenza dell’esclusione di condotte non costituenti un vero e proprio
accordo e riteneva che “il momento veramente significativo è costituito dal comportamento parallelo”:
così BASSO, op. cit., 1018. Di quest’ultima opinione era anche OPPO, Sub artt. 122-123, cit., 1140, per
il quale in presenza di condotte uniformi “è giustificato ipotizzare un accordo tacito e comunque non si
può lasciare aperta una così facile via all’elusione”.
28
Escludono tout-court la rilevanza di un coordinamento occasionale GUIZZI-TUCCI, op. cit., 268-269:
ad avviso degli autori, invece, quello reiterato, “vale a dire o il coordinamento sempre tra i medesimi
soggetti più volte in relazione ad un medesimo diritto [...] ovvero il coordinamento sempre dei medesimi
azionisti in relazione a diritti diversi” può essere “considerato elemento indiziario di una prospettiva di
cooperazione stabile”. Per l’esclusione dalla fattispecie dei patti parasociali di quei comportamenti solo
occasionalmente convergenti, v. in precedenza anche PINNARO’, op. cit., 806.
29
La difficoltà di distinguere “tra mero parallelismo di comportamenti, che sia figlio del caso, e
fattispecie di collusione tacita” è stata evidenziata da ultimo da VENTURINI, Ancora sul caso Unipol BNL, Commento a App. Venezia 12 agosto 2010 (decr.), in Società, 2010, 1502. Lo spinoso problema era
59
Prima di procedere nel tentativo di fornire una risposta a tale interrogativo,
occorre rilevare peraltro che anche con riferimento all’ipotesi dell’accordo tacito
qualche dubbio potrebbe residuare. Atteso che i patti parasociali anche nulli - giusta il
disposto del comma 4-bis dell’art. 101-bis - rilevano solo come una delle ipotesi in cui
può manifestarsi la fattispecie del concerto, si potrebbe pensare che la generale
rilevanza (ai sensi del quarto comma della norma) degli accordi taciti non autorizzi a
ritenere che ciò valga anche per i patti parasociali.
Una simile conclusione sembrerebbe avallata, ad una prima impressione, dalla
norma recata dal comma 2 dell’art. 109 T.U.F., il quale, facendo menzione di una vera e
propria “stipulazione del patto”, richiede, ai fini dell’obbligo di promozione dell’OPA,
che essa segua l’acquisto di azioni sul mercato da parte dei paciscenti; quest’ultimo
fenomeno, che isolatamente considerato è qualificabile quale comportamento parallelo,
caratterizzato nella maggior parte dei casi dalla reciproca consapevolezza dei rispettivi
acquisti, non è sufficiente perché sorga l’obbligo di lanciare l’offerta, essendo altresì
necessaria, appunto, anche la successiva “stipulazione del patto”.30
In realtà questo rilievo non è decisivo, perché l’acquisto di azioni sul mercato si
configura quale presupposto distinto ed ulteriore - ai fini, s’intende, dell’obbligo di
lancio dell’offerta pubblica di acquisto - rispetto alla stipulazione del patto parasociale31
già registrato da MONTALENTI, OPA, cit., 156; nonché, con riguardo alla disciplina codicistica, da
FIORIO, Sub artt. 2341-bis - 2341-ter, cit., 145. La dottrina tedesca è pressoché unanime nell’escludere
che la presenza di un acting in concert possa essere desunta unicamente sulla scorta di un comportamento
inconsapevolmente parallelo (“unbewusste Parallelverhalten”): tra gli altri, LÖHDEFINK, op. cit., 257;
PRASUHN, op. cit., 211; WEIß, op. cit., 116; GAEDE, op. cit., 218. Analog. la dottrina francese, che
esclude la rilevanza “du simple parallélisme fortuit”, ma si pone il problema di distinguerlo da “une
authentique concertation”: così LAPRADE, Affaire Gecina, cit., 118.
30
A meno che, naturalmente, non sia possibile individuare nei precedenti acquisti un concerto - di per sé
rilevante a prescindere dall’esistenza di un vero e proprio patto parasociale - qualora risulti direttamente
integrata la fattispecie di cui al comma 4 dell’art. 101 T.U.F.; ovvero, in alternativa, risulti stipulato
proprio un patto parasociale avente presumibilmente ad oggetto l’acquisto di azioni. In effetti, come si
vedrà, non è impedito l’accertamento in via di fatto dell’esistenza di un patto tacito risalente ad un
momento precedente la sua manifestazione esteriore (o formale stipulazione), qualora quest’ultima abbia
effettivamente fatto seguito agli acquisti azionari; così come, più in generale, non è impedito
l’accertamento di un patto risalente ad un momento anteriore all’effettuazione degli acquisti di azioni (v.
infra, § 8).
31
Certamente, l’acquisto parallelo di azioni sul mercato può avere valore indiziario (ma comunque mai di
per sé decisivo) nell’ambito della prova presuntiva riguardante un patto parasociale avente ad oggetto
proprio l’acquisto di azioni [lett. c) dell’art. 122, comma 5, T.U.F.]. Si noti che anche la dottrina tedesca
in prevalenza esclude, nell’ambito del § 22, Abs. 2 come del § 30, Abs. 2 riguardante l’obbligo di lancio
di un’offerta pubblica, la rilevanza del semplice acquisto di azioni, quand’anche abbia luogo in maniera
coordinata: v. VON BÜLOW-STEPHANBLOME, op. cit., 1799; DRINKUTH, op. cit., 677, il quale
prospetta l’idea che sia necessaria, successivamente, anche una cura degli interessi comuni attraverso
l’esercizio dei diritti di partecipazione; analog, ma con specifico riferimento al § 30, Abs. 2, HAMANN,
op. cit., 1090; SCHOCKENHOFF-SCHUMANN, op. cit., 577, che ritengono necessaria anche
un’esplicita o implicita intesa sull’esercizio dei diritti amministrativi (in particolare il diritto di voto);
VON BÜLOW-BÜCKER, op. cit., 699 e 715, i quali evidenziano che tale conclusione discende dalla
necessità che l’intesa sia rilevante per il controllo della società ed in grado di influenzarne l’andamento in
misura consistente; SCHÜPPEN-WALZ, op. cit., 653, giacché occorrerebbe anche l’esercizio coordinato
dei diritti sociali orientato a conseguire il dominio della società; ancora con riferimento al § 30, GAEDE,
op. cit., 207, secondo cui accordi per l’acquisto possono venire in rilievo solo se accompagnati dallo
scopo di conseguire il controllo o da una contemporanea concertazione avente ad oggetto i diritti di voto
(ma poi aggiunge anche che queste due ultime condizioni coincidono, essendo la seconda il presupposto
della prima: ibidem, 215); analog., con particolare riguardo al § 22, PSAROUDAKIS, op. cit., 308-309,
60
e, dunque, non sembra poter incidere sulla problematica che riguarda i connotati che
quest’ultimo deve assumere.32 La Consob, da parte sua, ha da tempo ritenuto che “l’atto
che sostiene questa tesi rifacendosi al requisito normativo della “durevolezza”, che non sarebbe
ravvisabile nell’ipotesi di un semplice acquisto privo di un’ulteriore cooperazione (analog. lo stesso
autore con riguardo al § 30: ibidem, 321 ss.). Questo orientamento è peraltro conforme alla linea seguita,
in giurisprudenza, dall’OLG Frankfurt a. M., 25 giugno 2004, (in ZIP, 2004, 1309 ss., nonché in NZG,
2004, 865 ss.), ove pure si è affermato anche che le parti devono cooperare con lo scopo di esercitare in
maniera coordinata e continua (“koordiniert und kontinuierlich”) i diritti sociali (l’assunto si fonda, nella
ricostruzione della Corte, sulla previsione dell’eccezione del caso singolo); ma è conforme anche
all’impostazione adottata dall’Autorità di vigilanza dei mercati finanziari (la BaFin) nel caso Beiersdorf
AG del 24 gennaio 2004 (cfr. lo Jahresbericht della BaFin del 2005). Sul punto STEINMEYER, op. cit.,
523; WEIß, op. cit., 65. Più articolata, circa l’interpretazione del § 30, la posizione di RALOFF, op. cit.,
157 ss., che ritiene tale norma da interpretare uniformemente a quella contenuta nel § 2, Abs. 5 WpÜG, la
quale, nel dare una definizione generale dell’azione concertata, contempla alternativamente l’esercizio dei
diritti di voto o l’acquisto di azioni della società; quest’ultimo tipo di intesa potrebbe dunque rilevare
autonomamente, ossia a prescindere da un accordo sul voto (più espressamente, ibidem, 207), purché sia
comunque raggiunta la prova circa l’esistenza di un’intesa (ibidem, 210) e circa la volontà dei pattisti di
acquisire il controllo (ibidem, 231-232). Analog., con riguardo al § 30, PRASUHN, op. cit., 216, che
sembra aprire agli accordi per l’acquisto di azioni in quanto “possono condurre all’acquisto del
controllo”. Ancor più netta in tal senso la posizione di BORGES, Acting in Concert: Vom
Schreckgespenst zur praxistauglichen Zurechnungsnorm, in ZIP, 2007, 364, il quale sostiene che il
coordinamento inerente l’acquisto di azioni (se in grado di assicurare una partecipazione di controllo)
rilevi sempre come indizio del fatto che gli azionisti vogliono esercitare un’influenza dominante sulle
sorti della società (“ein sicheres Indiz dafür ist, dass die Beteiligten einen beherrschenden Einfluss auf die
Geschicke der Gesellschaft ausüben wollen”) e pertanto fa scattare l’obbligo di offerta anche in assenza di
un accordo sul voto. Più articolata la riflessione di SCHNEIDER (§ 22, cit., 1071-1072), con riferimento
al § 22: ritiene infatti l’A. che ogni patto riguardante l’acquisto di azioni debba essere immediatamente
pubblicizzato in nome dell’esigenza della trasparenza, anche qualora non vi sia un accordo per l’esercizio
omogeneo dei diritti sociali; mentre, nell’ambito del § 30, sostiene l’A. la necessità che vi sia l’obiettivo
di acquisire ed esercitare il controllo, ma non anche che i pattisti abbiano già l’intenzione di influenzare la
politica societaria in una determinata direzione (§ 30, cit., 878-879). Analog. GAEDE, op. cit., 256 ss., la
quale osserva che ai sensi del § 22 non è necessaria la possibilità di esercizio del controllo e ogni accordo
per l’acquisto cui segua il superamento delle soglie indicate dal § 21 è soggetto all’obbligo di
comunicazione, purché l’acquisto stesso sia realmente effettuato e la soglia venga oltrepassata. In Francia,
l’art. L. 233-10 del code de commerce, come si è visto, comprende espressamente nella nozione di
concerto gli accordi volti ad acquistare o cedere diritti di voto, purché “pour mettre en oeuvre une
politique commune vis-à-vis de la société ou pour obtenir le contrôle de cette société”: la dottrina che più
attentamente ha studiato questa tematica mette in evidenza che, da un lato, tale accordo inerente i “diritti
di voto” è un accordo in realtà riguardante i trasferimenti di azioni (essendo i due profili inscindibili) e
che, dall’altro lato - come del resto la norma lascia chiaramente intendere - occorre un’intesa ulteriore
rispetto a quella immediatamente concernente l’acquisto della partecipazione: LAPRADE, Concert et
côntrole, cit., 182 ss. Nel Regno Unito, il Takeover Panel ha aperto alla possibile rilevanza anche
dell’accordo tra il venditore e l’acquirente di partecipazioni quale ipotesi di concerto, sebbene in
presenza di determinate circostanze ravvisabili in linea di massima nell’intesa per l’esercizio del
controllo, magari garantito dalla somma delle partecipazioni dei soggetti coinvolti (“the Panel will be
concerned to see whether in such circumstances the vendor is acting in concert with the purchaser and/or
has effectively allowed the purchaser to acquire a significant degree of control over the shares retained
by the vendor such that the purchaser should be treated as having acquired an interest in them [...]”: cfr.
The Takeover Code, cit.). Negli Stati Uniti, nonostante, come si è visto, l’acquisto di partecipazioni possa
costituire oggetto dell’accordo tra i concertisti, la Rule 13d-5(b)(2) della SEC precisa anche che non si ha
la formazione di un “gruppo” se più soggetti acquistano in maniera coordinata azioni al di fuori di
un’offerta pubblica e senza lo scopo di cambiare o influenzare il controllo, né di incidere sulla società se
non proprio al (solo) fine di facilitare l’operazione complessiva di acquisto. Nella nostra letteratura, v.
BIANCHI, op. cit., 442, il quale ha escluso che il voto convergente in assemblea in seguito
all’effettuazione degli acquisti possa di per sé far desumere l’esistenza di un concerto.
32
In tal senso Trib. Belluno, 23 gennaio 2010 (ord.), in Giur. comm., 2011, II, 1490 ss., secondo cui
l’acquisto di azioni “di per sé rappresenta un ‘atto neutro’, che trova comprensibili giustificazioni senza
per questo assumere il significato di un ‘inizio di esecuzione’ del patto, del quale certamente non
61
nullo deve comunque avere caratteristiche tali da poter essere considerato un patto ex
art. 122”33: tale precisazione, però, pare voler soprattutto richiamare la necessità di
marcare opportunamente i confini tra le ipotesi di nullità e quelle di inesistenza e non
già escludere la generale rilevanza dei patti parasociali conclusi tacitamente.
In direzione contraria, del resto, milita la lettera dello stesso art. 122 T.U.F., il
quale sembra sì richiedere che i patti siano effettivamente “stipulati”, ma ammette che
ciò possa ben avvenire “in qualsiasi forma”.34
E’ vero che “un patto anche nullo esiste quando vi sia un qualche accordo tra le
parti (e si può dire, con la giurisprudenza e la prevalente dottrina: un qualche accordo
socialmente riconoscibile) su un rapporto patrimoniale”35: proprio la giurisprudenza,
infatti, ha riconosciuto che occorre “un accordo socialmente riconoscibile” e la
“percepibilità oggettiva della ‘vincolatività’ dell’accordo per le parti,
indipendentemente dalla giuridica validità e dalla stessa efficacia dell’obbligo”. 36 Ciò
non toglie, però, che esso possa perfezionarsi anche oralmente o per facta concludentia,
sì come ammesso dagli artt. 2341-bis c.c. e 122 T.U.F., che conferiscono rilievo,
costituisce un indice assoluto ed univoco.” Il problema della rilevanza dell’acquisto di azioni è emerso
anche nell’ambito del noto caso della scalata ad Antonveneta, nel quale la Consob ebbe ad accertare con
la Delibera n. 15029 del 10 maggio 2005 “un patto parasociale avente ad oggetto l’acquisizione
concertata di BAPV e l’esercizio anche congiunto di un’influenza dominante sulla Banca stessa per il
quale non sono stati adempiuti gli obblighi di cui all’art. 122 del d. lgs. n. 58 del 1998”. L’Autorità
ravvisò l’esistenza di siffatto patto sulla base di una serie di indizi che avevano accompagnato la fase di
rastrellamento delle azioni di Antonveneta: era accaduto, in particolare, che una serie di finanziamenti
anomali per le loro caratteristiche erano stati concessi da BPI ad una serie di soggetti (anche correntisti
della Banca), i quali, con il denaro ricevuto, avevano acquistato azioni di Antonveneta prima di
“riversarle” ad ulteriori soggetti nell’imminenza dell’assemblea del 30 aprile 2005, in cui questi ultimi
avevano poi votato in conformità al progetto portato avanti da BPI e a favore della lista di amministratori
da questa presentata. Tutta la nota vicenda è ben ricostruita anche dalla sentenza penale pronunciata dal
Tribunale di Milano in data 28 maggio 2011, inedita ma consultabile su www.penalecontemporaneo.it.
33
Così la Comunicazione del 12 ottobre 2000, n. 75252.
34
Proprio questo inciso, secondo alcuni, “deve essere letto quale affermazione dell’irrilevanza della
forma e dello schema giuridico utilizzati dagli aderenti”: così FIORIO, Nota ad App. Milano, cit., 1876.
Anche nell’ordinamento francese non vi sono dubbi sul fatto che l’accordo rilevante ai fini del concerto
può essere (oltre che verbale) anche tacito: v. LAPRADE, Concert et côntrole, cit., 423, il quale aggiunge
che “la seule condition est que l’accord existe et qu’il révèle une entente concertée et volontaire”. Nella
dottrina tedesca, v. PSAROUDAKIS, op. cit., 289, il quale rileva che il rispetto di forme particolari nella
conclusione dell’intesa non è necessario, ma che “fallen mündlich oder stillschweigend geschlossene
Vereinbarungen ebenfalls in das Anwendugsfeld dieser Regelung” (“ricadono nel campo di applicazione
della regola pure le intese concluse oralmente o tacitamente”). Ancor più espressamente LÖHDEFINK,
op. cit., 258: “Diese Übereinkunft kann in Form einer bindenden Vereinbarung, schriftlich oder
mündlich, oder rechtlich unverbindlich, ausdrücklich oder auch konkludent getroffen werden” (“Questo
accordo può essere raggiunto nella forma di un’intesa vincolante, per iscritto o oralmente, o
giuridicamente non vincolante, espressamente o anche per fatti concludenti”). Anche PRASUHN, op.
cit., 212, ritiene possa bastare una fusione delle volontà intervenuta per fatti concludenti (“konkludente
Willenseinigung”). Per un’analoga conclusione nell’ordinamento americano, cfr. nella giurisprudenza
SEC v. Savoy Industries, Inc., 587 F.2d 1149, 1163 (D. C. Cir. 1978); Wellman v. Dickinson, 475 F. Supp.
783 (S.D.N.Y. 1979), per l’affermazione che un accordo scritto o formale non è necessario, bastando una
semplice intesa (“understanding”); più di recente, Roth v. Jennings, cit. In dottrina, per tutti, LEVY, op.
cit., 5-18; CHOI-PRITCHARD, Securities Regulation: Cases and Analysis, New York, 2008, 763.
35
Il virgolettato è di GIUDICI, L’acquisto, cit., 501.
36
Cfr. App. Genova, 19 dicembre 2009, in Società, 2010, 589 e anche in www.consob.it; sulla rilevanza
dei patti conclusi anche oralmente o tacitamente (e, dunque, per fatti concludenti), si vedano anche App.
Bologna, 26 gennaio 2010, cit.; nonché già App. Milano, 28 febbraio 2003 (decr.), pubblicata in Giur. it.,
2003, III, 1875 ss.
62
appunto, ai “patti in qualunque forma stipulati”.37 Proprio i “fatti concludenti”, del
resto, possono rappresentare quel fattore idoneo a rendere comunque l’accordo
“socialmente riconoscibile” e fenomenicamente percepibile.
In ogni caso, la soluzione prospettata è di certo maggiormente coerente con
l’esigenza di evitare condotte elusive in una materia nella quale l’interesse del mercato
alla più ampia trasparenza e correttezza dei comportamenti degli operatori necessita
della più convinta protezione.38
Ciò detto, bisogna riconoscere che è invece estremamente difficoltoso
distinguere, sul piano pratico, le ipotesi di (vero e proprio) accordo tacito - intervenuto,
cioè, a mezzo di fatti concludenti - da quelle di (semplice) collusione tacita (data dalla
coscienza e volontà degli azionisti di coordinamento - ossia di allineamento - del
proprio comportamento a quello altrui).39 Nondimeno, oltre che sul piano concettuale,
anche dal punto di vista pratico è possibile affermare che la semplice consapevolezza e
volontà da parte di un azionista di conformare la propria condotta a quella tenuta da altri
possa distinguersi da un vero e proprio accordo, per quanto tacito, il quale potrebbe
apprezzarsi per l’ulteriore elemento dato dall’esistenza di un’intesa (implicita, ma
verosimilmente basata su una qualche forma di comunicazione) in virtù della quale gli
agenti attribuiscano ciascuno alla condotta degli altri un significato univoco, tale da
ingenerare una reciproca aspettativa sui rispettivi futuri comportamenti.40
37
Conf., in dottrina, MELILLO, L’OPA obbligatoria da “concerto occulto” e la manipolazione del
mercato nella disciplina del Market Abuse, in Dir. econ. ass., 2011, 135; SERSALE, Sub art. 109, cit.,
194 (testo e nt. 46), secondo il quale è necessario (come, del resto, con riguardo alla definizione generale
di concerto) “che vi sia stato un vero e proprio accordo - per quanto tacito o segreto - tra le parti”. Analog.
TUCCI, Patti parasociali, cit., 197-198, il quale sottolinea l’insufficienza della “mera condotta
‘convergente’ di due o più soci” (corsivo aggiunto) e ribadisce la necessità di verificare che sia stato
effettivamente concluso un contratto, “pur in assenza di una ‘formale stipulazione’”. Più prudente
BLANDINI, Società quotate, cit., 350: l’A. non ritiene di giungere ad una generale conclusione sul punto,
ma giudica “doveroso, invece, un esame specifico del singolo caso concreto”. Da un punto di vista
sistematico, la soluzione ritenuta preferibile nel testo si pone in linea con la disciplina contenuta nel
T.U.B. (cfr. cap. I): come si è visto, tanto l’art. 20, comma 2, quanto l’art. 22, comma 1-bis, T.U.B.,
attribuiscono espressamente rilievo agli accordi “in qualsiasi forma conclusi” ed analoga conclusione
deve valere anche per gli accordi da cui scaturisce l’esercizio del controllo di cui all’art. 23 T.U.B. Sul
punto, v. ROSA, op. cit., 191, la quale, con specifico riferimento all’art. 20, comma 2, T.U.B., ammette
che esso riguarda “anche semplici intese, non obbligatoriamente scritte”.
38
La rilevanza dei patti stipulati per fatti concludenti è ammessa anche da MACRI’, Patti parasociali,
cit., 68, il quale riconosce la necessità di provarne l’implicita stipulazione “sulla base del comportamento
concludente delle parti.” E v. nella giurisprudenza, espressamente, la pronuncia della Corte d’Appello di
Milano del 13 giugno 2012 sul “caso Unipol”, p. 48 (rinvenibile sul sito www.penalecontemporaneo.it).
39
Sul punto, v. anche GIUDICI, L’acquisto, cit., 491.
40
Sia con riferimento all’insorgenza dell’obbligo di lancio di un’OPA che alla fattispecie in tema di
pubblicità, diversi autori tedeschi hanno affermato che l’imputazione delle partecipazioni presuppone una
condotta consapevolmente coordinata a livello comunicativo, ossia che l’intesa deve trovare origine in
una qualche forma di comunicazione: cfr. DRINKUTH, op. cit., 676; GAEDE, op. cit., 218 (“es eines
kommunikativen Prozesses bedarf”, ossia “c’è bisogno di un processo comunicativo”, senza che però esso
debba a tutti i costi consistere in una comunicazione espressa). Così anche WEIß, op. cit., 115-116;
HAMANN, op. cit., 1092, ove si precisa che deve essere ravvisata una qualche forma di comunicazione,
che conduce ad un’intesa a sua volta orientata ad un agire comune. Si vedano anche SCHOCKENHOFFSCHUMANN, op. cit., 583, i quali, rilevando la necessità che gli interessati cooperino consapevolmente
con lo scopo di esercitare in modo omogeneo i loro diritti partecipativi, traggono la conclusione che sia
imprescindibile un reciproco contatto (“gegenseitiger Kontakt”), nella forma di un processo comunicativo
che non si esaurisca nel mero scambio di informazioni (“ist für die Stimmrechtzurechnung jedoch ein
kommunikativer Vorgang unverzichtbar, der sich nicht im bloßen Informationsaustausch erschöpfen
63
Si potrebbe essere tentati di obiettare che la distinzione assume un sapore
eminentemente teorico e che, dunque, non sarebbe possibile attribuirle valore dal punto
di vista della realtà fattuale, atteso che la prova presuntiva dell’esistenza di un patto
intervenuto tacitamente si fonderebbe pur sempre sul comportamento uniforme dei suoi
presunti aderenti: si è rilevato infatti che “l’accordo esplicito, quello tacito e, in certe
situazioni, la collusione sono indistinguibili dall’esterno” 41. Il problema, tuttavia,
consiste proprio nel dare la corretta valenza ai comportamenti paralleli percepibili nella
realtà.42
Pertanto - dopo aver ammesso la possibilità di attribuire rilevanza ad un patto
parasociale intervenuto per facta concludentia - nella prospettiva di garantire la più
ampia tutela agli interessi sottesi alle norme in commento, pare d’obbligo aprire
cautamente la porta della fattispecie del patto parasociale anche ai comportamenti
paralleli che, empiricamente, si mostrino idonei a determinare un risultato equivalente
(in termini, si intende, di rafforzamento della posizione degli agenti all’interno
dell’organizzazione sociale) a quello cui condurrebbe - a parità di condizioni - un vero
e proprio accordo (espresso o tacito).43 Tale risultato equivalente sembra poter essere
garantito proprio in virtù del sorgere di una reciproca aspettativa che consenta a
ciascuno dei presunti pattisti di riporre un fondato affidamento sulla futura condotta
degli altri44: si pensi, ad esempio, all’omogeneità del comportamento assembleare - in
darf”). Gli stessi A. avvertono opportunamente che il mero scambio di informazioni non dovrebbe essere
di per sé sufficiente, al fine di non correre il rischio di atrofizzare, se non addirittura impedire, la
comunicazione tra gli azionisti (ibidem, 585). Conf. RALOFF, op. cit., 189, che parla di “bewussten
kommunikativen Prozess” (“processo comunicativo consapevole”), senza che sia sufficiente il mero
scambio di informazioni (ibidem, 195) e aggiunge che l’oggetto dell’intesa, all’atto della comunicazione,
deve essere sufficientemente determinato o determinabile (ibidem, 190). Analog. PSAROUDAKIS, op.
cit., 290, che, oltre a rilevare l’insufficienza del mero scambio di informazioni o di opinioni, afferma che
la condotta comunicativa deve mostrarsi di una certa intensità al fine di dare vita ad un legame tra i
soggetti coinvolti. Sul punto anche PRASUHN, op. cit., 214. Sembra invece sbiadire la necessità di un
procedimento comunicativo nelle parole di SCHNEIDER (§ 22, cit., 1068), il quale, con specifico
riferimento al § 22, precisa essere necessaria “ein bewusst praktiziertes Zusammenwirken” (ossia,
potremmo tradurre letteralmente, una “cooperazione consapevolmente praticata”), mentre la condotta
inconsapevolmente omogenea non basta, nemmeno a fondare semplicemente l’ipotesi presuntiva
dell’esistenza di un coordinamento; lo stesso concetto è formulato dall’A. in § 30, cit., 877.
41
Così GIUDICI, L’acquisto, cit., 502. Anche MONTALENTI, OPA, cit., 156, si chiedeva quale dovesse
essere il criterio per distinguere “comportamenti sociali casualmente convergenti, ancorché ripetuti, da
comportamenti tali da dover da essi evincere l’esistenza di un accordo”.
42
Come anche la dottrina tedesca ha ben presente, non può infatti certo bastare il semplice sospetto
dell’esistenza di un’intesa a far scattare l’obbligo di OPA, in quanto insufficiente ad integrare la
fattispecie di cui al § 30, Abs. 2: v. SCHOCKENHOFF-SCHUMANN, op. cit., 584; sull’insufficienza di
meri elementi di sospetto, v. anche VON BÜLOW-BÜCKER, op. cit., 702.
43
Un simile rilievo è emerso anche nella letteratura tedesca: v. WEIß, op. cit., 121, ove si osserva che nel
caso di condotte non fondate su una vera e propria intesa (“Abstimmung in sonstiger weise”, nel
linguaggio delle più volte citate norme), gli effetti devono corrispondere a quelli di una vera e propria
intesa (“in ihren Wirkungen einer Abstimmung durch eine Vereinbarung entsprechen”).
44
Anche in Germania diversi autori hanno fatto leva su tale concetto di aspettativa: cfr.
SCHOCKENHOFF-SCHUMANN, op. cit., 586, ove si è efficacemente rilevato che “ist deshalb
erforderlich, dass jeder Beteiligte seine Absichten dem anderen gegenüber bewusst zu erkennen gibt und
dass beide Beteiligten, jedenfalls im Sinne eines ‘Gentlemen’s Agreement’ objektiv davon ausgehen
können und subjektiv auch davon ausgehen, dass die jeweils andere Seite in Kenntnis und mit Rücksicht
auf die übereinstimmenden Absichten Handeln werde” (ossia, è necessario che ogni parte faccia capire
all’altra le proprie intenzioni e che entrambe, quantomeno nel quadro di un gentlemen’s agreement,
possano partire dal presupposto che ciascuna agirà nella consapevolezza e con riguardo alle concordate
64
punto di esercizio del diritto di voto - tenuto ripetutamente da più azionisti con
riferimento ad un certo tipo di delibere, tale da mostrare la loro predilezione per un certo
tipo di politica societaria (con riferimento ad un determinato settore di attività, a
particolari scelte di investimento ecc.).45 E’ proprio tale aspettativa che può essere
equiparata ad un vero e proprio accordo (sebbene tacito) e può quindi essere ritenuta
sufficiente a segnalarne la presenza: naturalmente, anch’essa non può che essere
ravvisata sulla scorta di un procedimento inferenziale basato sull’osservazione della
realtà, ma tanto basta per ribadire la necessità che il comportamento uniforme dei
presunti pattisti sia in concreto sempre accompagnato da ulteriori elementi indiziari
affinché si possa pervenire alla conclusione circa l’esistenza di un patto parasociale.46
intenzioni). In questi stessi termini RALOFF, op. cit., 191, la quale osserva anche che gli azionisti
interessati devono avere la consapevolezza che al loro comportamento può essere attribuito da ciascuno
degli altri un determinato valore, un significato univoco (“beiden Beteiligten muss bewusst sein, dass
ihrem Verhalten für den jeweils anderen Beteiligten ein Erklärungswert zukommt”) (ibidem, 189). Simile
la posizione di LÖHDEFINK, op. cit., 259, il quale peraltro ha cura di ribadire l’irrilevanza di
un’aspettativa che non sia il frutto di una comunicazione, come del resto accade nel diritto della
concorrenza: “Damit scheiden [...] die Erwartung eines bestimmten Verhalten ohne Kommunikation als
abgestimmte Verhaltensweisen wie im Kartellrecht aus”. Sul punto, sempre in chiave comparatistica, è
interessante la sentenza pronunciata in Nuova Zelanda dalla New Zealand Court of Appeal del 4
novembre 2003, pubblicata anche in Dir. comm. int., 2006, 417 ss. con nota di DIALTI, Equity swaps ed
obblighi di disclosure (ibidem, 428 ss.). Per un’analisi della vicenda v. anche LUPOI, L’interposizione
finanziaria, Milano, 2008, 123 ss. Il caso riguardava la stipula da parte di una società, Perry Corporation,
di due contratti di equity swap con due banche, aventi ad oggetto azioni di una diversa società, Rubicon.
La Corte aveva dovuto stabilire se le modalità con cui l’operazione risultava congegnata integrassero
altresì la fattispecie di arrangement o understanding, resi oggetto di un obbligo di disclosure (purché
concernenti il diritto di voto) dalla section 5 (1) (f) del Securities Markets Act. Ebbene, la Corte rilevava
che queste due nozioni “describe something less than a formal contract” e che, tuttavia, è necessario un
vero e proprio incontro di volontà (a “meeting of minds”), il quale può anche derivare da una “expectation
as to future conduct, meaning that there is consensus as to what is to be done. This necessarily involves
communication. The communication does not, however, need to be formal or even verbal”. In sostanza,
l’incontro di volontà necessario per poter ravvisare un accordo sul voto soggetto all’obbligo di disclosure
può anche derivare da una sorta di aspettativa reciproca, purché a sua volta fondata su una qualche forma
di comunicazione, ma non necessariamente formale o verbale.
45
Una considerazione simile è quella fatta da SCHNEIDER, § 22, cit., 1074, secondo il quale un
elemento indicativo di una strategia comune - soltanto nell’ottica della quale, cioè, esso acquisterebbe
significato - sarebbe la condotta consapevolmente omogenea tenuta da più azionisti rispetto a più punti
dell’ordine del giorno (“in mehreren Tagesordnungspunkten”).
46
Conforme pare l’affermazione MOSCA, Comportamenti, cit., 462, la quale osserva che il
comportamento posto in essere di concerto può costituire solo un indizio “dell’esistenza di un patto
nullo”. La conclusione raggiunta è altresì coerente con quella che emerge nella dottrina tedesca, sia con
riferimento agli obblighi pubblicitari che a quello di OPA: il comportamento parallelo egualmente
orientato ma non concordato non può condurre alla reciproca imputazione delle partecipazioni, né può
bastare il semplice sospetto di un coordinamento di comportamenti, nonostante le difficoltà poste dalla
relativa prova: così VON BÜLOW-STEPHANBLOME, op. cit., 1800. Conf. STEINMEYER, op. cit.,
524; LÖHDEFINK, op. cit., 256-257, il quale afferma che un comportamento egualmente orientato ma
senza un’intesa, ossia senza comunicazione, non basta, essendo necessario un processo comunicativo che
conduca ad un accordo quantomeno implicito (“zu einer stillschweigenden Übereinkunft”); HAMANN,
op. cit., 1092, ove si chiarisce che “das zwar bewusste, aber nicht kommunizierte Parallelverhalten schon
mangeln Interaktion kein Fall abgestimmten Verhaltens sein kann” (ossia, il parallelismo di
comportamenti consapevole ma non accompagnato da una qualche comunicazione, proprio per mancanza
di vera e propria interazione non può essere considerato un caso di comportamento coordinato rilevante
per il § 30, Abs. 2); prosegue l’A. (ibidem, 1093) notando che, a differenza del diritto della concorrenza ove il parallelismo di comportamenti rileva come indizio (potenzialmente sufficiente) - nella fattispecie in
questione deve sempre avere luogo un’intesa consapevolmente raggiunta (e dunque devono essere
ravvisati elementi ulteriori rispetto alla condotta omogenea). Si veda inoltre PRASUHN, op. cit., 210 ss.,
65
E’ opportuno aggiungere che quanto detto vale in ogni caso in cui si rende
necessaria la prova dell’esistenza di un patto parasociale, tanto ai fini dell’applicazione
delle sanzioni conseguenti all’omessa pubblicità, quanto, naturalmente, nell’ambito
della disciplina dell’offerta pubblica di acquisto obbligatoria. Con una precisazione:
come si è visto, mentre la disciplina codicistica richiede anche che i patti siano volti a
“stabilizzare gli assetti proprietari o il governo della società”, tale requisito non è
richiesto dall’art. 122 T.U.F., che esclude l’applicabilità degli artt. 2341-bis e 2341-ter
c.c.. Rimane da chiedersi cosa accada sotto questo profilo nel microsistema normativo
delineato dal combinato disposto degli artt. 101-bis e 109 T.U.F., in connessione con gli
artt. 106 e 108 T.U.F.; se, cioè, in tale contesto sia altresì necessario fornire la prova che
l’accordo - concluso magari tacitamente - sia “volto ad acquisire, mantenere o rafforzare
il controllo della società” o a contrastare il successo di un’offerta pubblica: a questo
interrogativo verrà fornita una risposta nel prosieguo dell’indagine. Per il momento,
basti osservare che la conclusione circa la possibile valenza di quelli che si sono definiti
“comportamenti paralleli” - seppure alle condizioni testé illustrate - e, dunque, la loro
potenziale riconducibilità (per quanto in via presuntiva) alla figura dei patti parasociali,
sembra essere corroborata da due ulteriori ordini di argomenti: (i) il primo muove dalla
semplice osservazione del dato normativo, e consiste nel fatto che se (come dispone
inequivocabilmente l’art. 101-bis T.U.F.) dall’esistenza di un patto parasociale anche
nullo la legge presume la sussistenza di un’azione concertata, ciò significa che la prima
fattispecie non può essere di estensione minore rispetto alla seconda e, pertanto, con
riferimento ad essa non deve risultare più difficoltoso l’assolvimento dell’onere
probatorio inerente al suo accertamento; (ii) in secondo luogo, si è più volte notato in
letteratura che ai fini di cui all’art. 109 T.U.F. - attesa l’irrilevanza del profilo della
che mostra essere necessaria e sufficiente una “cooperazione consapevole (“bewußt Zusammenwirken”),
ma poi aggiunge che tale consapevolezza debba comunque derivare da una comunicazione, non
necessariamente orale o scritta, potendo anche trattarsi di una “konkludente Kommunikation” (posizione
praticamente coincidente con quella di LÖHDEFINK, op. cit., 258: anch’egli parla di “bewußten
Zusammenwirken” e, come si è visto poc’anzi, ritiene sufficiente che esso sia accompagnato da un’intesa
intervenuta anche per fatti concludenti). Nell’analisi del § 30, SCHÜPPEN-WALZ, op. cit., 651, evocano
la necessità dell’elemento soggettivo dell’intesa, che deve essere consapevolmente e volutamente
stabilita. Posizione netta è quella assunta da RALOFF, op. cit., 193, la quale evidenzia che non basta il
comportamento parallelo, né inconsapevole né consapevole, ed afferma esplicitamente (ibidem, 194) che
esso “può in determinate circostanze fondare o rafforzare il sospetto di un’intesa. Un tale sospetto [...]
non esonera tuttavia gli interessati dalla necessità di provare una vera e propria intesa” (“Ein einheitliches
Abstimmungsverhalten mag zwar unter bestimmten Umstanden den Verdacht einer Absprache begründen
oder verstärken. Ein solcher Verdacht [...] befreit somit nicht von der Notwendigkeit, den Beteiligten eine
Abstimmung nachzuweisen”). Anche nella letteratura francese viene espresso il concetto secondo cui il
parallelismo di comportamenti non basta a caratterizzare il concerto, essendo necessaria, come ritenuto
dall’Autorità dei mercati finanziari (AMF), una “démarche collective organisée tendant à la poursuite
d’une finalité commune” (“azione collettiva organizzata tendente al perseguimento di una comune
finalità”): così LE CANNU, Les silences d’un concert espagnol, Note sous Cour d’appel de Paris, 1re
ch., sect. H, 2 avril 2008, SA Sacyr Vallehermoso et autre c/SA Eiffage, in Revue des sociétés, 2008, 394
ss., 404, il quale precisa che, pertanto, è necessaria la volontà degli agenti di operare di concerto.
Aggiunge ancora l’A. che “on peut avoir la même analyse du marché sans pout autant se mettre
d’accord” (“si può avere una medesima lettura del mercato senza tuttavia mettersi d’accordo”, pur agendo
appunto allo stesso modo). Conf. LAPRADE, Concert et côntrole, cit., 434, il quale osserva che pur non
bastando “le simple parallélisme de comportements”, essi “pouvent en constituer un indice sérieux
d’action de concert”, dovendo però essere necessario anche l’elemento soggettivo (“l’élément
intentionnel”).
66
validità dei patti parasociali, i quali, appunto, possono essere anche nulli - gli stessi sono
concepiti dalla norma quali (meri) fatti giuridici piuttosto che come veri e propri
contratti47: da questo angolo visuale, l’attenzione deve soffermarsi sull’omogeneità di
determinate condotte e sugli effetti concretamente e praticamente derivanti dall’agire
comune.
Quello appena enunciato sembra essere il criterio più idoneo a garantire la
corretta applicazione della disciplina in esame e, al contempo, per operare un’adeguata
analisi della “realtà fenomenica”; in altre parole, si potrebbe dire che l’osservazione di
condotte uniformi poste in essere da più azionisti (tanto più ove appaiano in grado di
determinare un’influenza dominante dei medesimi sulla società) possa essere idonea a
far presumere l’esistenza di un patto parasociale occulto, dal quale, a sua volta, la legge
fa derivare l’esistenza di un’azione concertata (art. 101-bis, comma 4-bis T.U.F.), che
come si è visto postula necessariamente la sussistenza di un accordo. Con la
precisazione, naturalmente, che i comportamenti uniformi dovranno essere
accompagnati da elementi indiziari ulteriori.48 Tale conclusione pare quella
47
In questi termini, espressamente, GUIZZI-TUCCI, op. cit., 265; MONTALENTI, OPA, cit., 155;
CHIAPPETTA, op. cit., 1010-1011; ATELLI, op. cit., 671. V. anche GIUDICI, L’acquisto, cit., 499, il
quale richiamava altresì il concetto di “pratica facilitante”, intesa come meccanismo di rafforzamento
degli interessi comuni dei paciscenti, possibile a prescindere dalla giuridica vincolatività dell’accordo.
Con riferimento alla normativa bancaria, analoga considerazione è espressa da MOTTI, Sub artt. 20-21,
in Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, a cura di F. Belli, G. Contento, A. Patroni
Griffi, M. Porzio, V. Santoro, Bologna, 2003, v. I, 320, la quale osserva che rilevano ai fini dell’obbligo
di comunicazione alla Banca d’Italia di cui all’art. 20, comma 2, T.U.B., anche “gli accordi nulli per
inosservanza degli obblighi di cui all’art. 122 T.U.F. o per qualsiasi altra causa”. La distinzione tra la
problematica del patto “come prova, presuntiva di un fatto giuridico” e quella della validità dello stesso
“quale contratto” era già messa in evidenza da GALGANO, Il paradosso dei sindacati di voto, in Contr. e
impr, 1995, 65-66; sul punto anche SBISA’, Il definitivo riconoscimento dei patti parasociali nell’attuale
legislazione, ibidem, 71. Posizione diversa aveva assunto in passato COSTI, Il problema della validità dei
sindacati di voto alla luce della legislazione più recente, in Sindacati di voto e sindacati di blocco, a cura
di F. Bonelli e P. G. Jaeger, Milano, 1993, 45 ss.: l’A., anche se con specifico riferimento al fenomeno del
controllo da sindacato, affermava comunque in termini generali che la presa in considerazione da parte
del legislatore del “contratto-sindacato di voto per ricollegare allo stesso degli effetti” presupponga “un
giudizio di compatibilità in linea di principio di tale contratto con l’ordinamento”. Un concetto analogo a
quello espresso nel testo è presente nella dottrina tedesca: si vedano, con riferimento al § 30,
SCHÜPPEN-WALZ, op. cit., 652, i quali hanno rilevato che per l’integrazione dei requisiti della
fattispecie non è necessario un contratto efficace secondo le regole del diritto civile; RALOFF, op. cit.,
203, la quale precisa che contratti inefficaci sono soggetti alla disposizione non tanto come intese
(“Vereinbarungen”), quanto come coordinamento di tipo ulteriore (“Abstimmung in sonstiger Weise”).
Ancor più esplicitamente PSAROUDAKIS, op. cit., 288, il quale osserva che in nessun caso le norme in
esame presuppongono l’effetto giuridico derivante dalla conclusione di un vero e proprio contratto
(“keinesfalls darf nämlich Rechtswirkung, also die Schlieβung eines Vertrags, vorausgesetzt werden”).
Nella dottrina francese, v. LE CANNU, Les silences, cit., 404; LAPRADE, Affaire Gecina, cit., 118, il
quale precisa però che l’azione di concerto deve essere mantenuta nell’ambito contrattuale, dal momento
che l’art. L. 233-10 del code de commerce “la désigne comme la situation de fait qui résulte de la
conclusion d’un accord”. Non diversa sembra l’impostazione espressa ancor prima da SCHMIDT-BAJ,
Réflexions sur la notion d’action de concert, in Droit bancaire, 1991, 87 ss., i quali opinavano che
“l’accord est la condition nécessaire de l’action concertée et non simplement son révélateur”. Tale
riflessione può essere recepita anche con riferimento al nostro ordinamento, dal momento che, come già si
è detto, occorre pur sempre l’accertamento dell’esistenza di un accordo.
48
Così, espressamente, anche ROMAGNOLI, Diritti dell’investitore, cit., 185-186, il quale ha osservato
che “se pur non è possibile trarre l’esistenza di un acquisto di concerto dalla condotta di più soggetti che
compiono scelte parallele o votano in modo uniforme in più assemblee sociali, quel dato potrà essere uno
degli elementi che valutato unitamente ad altri indizi conduce alla dimostrazione di un patto”: dove gli
altri indizi, in base a quanto sostenuto nel testo, dovranno consistere eminentemente negli effetti di
67
maggiormente in grado di raggiungere un punto di equilibrio tra l’esigenza di non
imputare con troppa leggerezza ai presunti pattisti conseguenze giuridiche
indubbiamente gravose e, dall’altra parte, quella di non rendere troppo difficoltoso il
percorso probatorio volto a far emergere l’esistenza dell’accordo.49 A tale ultimo
proposito, vale la pena richiamare le parole di un illustre civilista, il quale avverte che
“se i paciscenti non vogliono che si sappia dell’esistenza del patto e lo stipulano
deliberatamente in modo riservato, o al limite non stipulano alcun accordo, ma tengono
quello che nella legislazione antitrust si chiamano le prassi concordate - e quindi si
comportano in coerenza ad un ipotetico accordo che però non risulta da nessuna parte la possibilità di offrire la prova dell’esistenza del patto e quindi di un concerto
considerato illecito - perché non reso trasparente da una adeguata pubblicitàcomunicazione, le possibilità di scoperta dell’esistenza di questo patto, della vigenza di
questo patto, sembrano piuttosto remote”50.
Un’ultima riflessione, di ordine sistematico, risulta qui opportuna: con
riferimento alla disciplina dettata in materia bancaria, si è negata la rilevanza del mero
“conscious parallelism”, sulla base del rilievo che l’obbligo di comunicazione degli
accordi sul voto di cui all’art. 20, comma 2, T.U.B. (con la correlativa eventuale
sanzione) è posto anche a carico di soggetti estranei ai medesimi, vale a dire il
rappresentante legale della banca o della società controllante cui il patto si riferisce, “dai
quali non si può evidentemente pretendere di scrutinare il contegno in assemblea” 51 dei
presunti pattisti. Tale ultima considerazione può valere anche alla luce delle discipline
contenute nel codice civile e nel T.U.F., come del resto è emerso anche dall’indagine
condotta nel capitolo precedente con riferimento ai poteri degli organi sociali in
materia52; non sembra, viceversa, che essa sia spendibile con riferimento alla tematica
siffatte condotte. Il problema della portata assunta dal controllo e dunque dall’influenza dominante
eventualmente esercitati dai pattisti verrà approfondito infra. Conf, nella dottrina tedesca, WEISS, op.
cit., 128, ove si afferma che quanto più di frequente i soci cooperano e quanto più rilevante per il
controllo risulta tale convergenza, tanto più ciò suggerirà l’ipotesi di un collegamento tra le singole
condotte e quindi della sussistenza di un sodalizio tra gli azionisti (“eines Gesellschafterblocks”). Occorre
infatti ribadire come sia in ogni caso “doveroso [...] un esame specifico del singolo caso concreto, al fine
di evidenziare se, in base ai principi ordinari in materia di prova, sia possibile ritenere che, nella ipotesi
concreta, un patto parasociale è stato comunque stipulato”: così BLANDINI, Sul requisito di forma, cit.,
59-60; v. anche ID., Società quotate, cit., 350. Questa esigenza non è sfuggita alla Consob: cfr. Delibera
n. 17535 del 19 ottobre 2010, in Bollettino Consob 10.2/2010, pubblicata anche in Società, 2010, 1530: il
voto convergente di due azionisti in occasione dell’assemblea per l’elezione dell’organo amministrativo è
stata considerata elemento idoneo a far emergere un patto parasociale occulto (soltanto) in quanto tra i
due soci sussistevano anche “da tempo rapporti di carattere contrattuale e societario relativi alla loro
partecipazione”. La dottrina francese ha ben messo in evidenza che è l’esigenza di adeguata protezione
delle persone sospettate di agire di concerto a determinare l’esigenza che si raccolgano indizi convincenti
(“collectionner des indices convaincants”): LE CANNU, Les silences, cit., 404.
49
Detto altrimenti, come rilevato dallo UK Takeover Panel (Response, cit., 3), si tratta di operare il giusto
bilanciamento “between allowing shareholders to co-operate for normal corporate governance purposes
and providing protection in the case of a change of control of the company” (ossia, “tra il permettere agli
azionisti di collaborare in vista di normali obiettivi di governo ocietario e il fornire una tutela nel caso di
cambiamento del controllo della società”).
50
Sono parole di SCHLESINGER, La disciplina, cit., 195-196.
51
Per tale opinione, cfr. MOTTI, op. cit., 320 (nt. 28).
52
Ad una diversa conclusione può forse condurre l’analisi di FIORIO, I patti parasociali, cit., 85 (nt. 64),
il quale ritiene che l’art. 123 T.U.F., che obbliga a dare notizia dei patti nella relazione sulla gestione,
68
della prova della sussistenza di un patto parasociale (tanto più nella disciplina sulle
offerte pubbliche di acquisto), giacché altro è negare il potere (e a maggior ragione
l’obbligo) degli organi sociali di procedere alla pubblicizzazione di presunti patti in
presenza (solamente) di semplici condotte uniformi, altro ammettere - come pare
corretto - che queste ultime possano dare corpo e fondamento (per quanto in presenza di
altri elementi indiziari e dunque non in via esclusiva) alla prova circa l’esistenza di un
patto parasociale occulto.
4. Il fenomeno del controllo nella nozione di azione concertata:
ammissibilità di una prova liberatoria.
Sebbene, come già argomentato, la finalità - sottesa al patto parasociale - di
stabilizzazione degli assetti proprietari o del governo societario non appaia necessaria
affinché trovi applicazione il regime pubblicitario di cui all’art. 122 T.U.F., occorre
rilevare che le norme in materia di offerta pubblica di acquisto non sembrano trascurare
del tutto questo elemento allorché prevedono che l’azione di concerto presupponga un
accordo “volto ad acquisire, mantenere o rafforzare il controllo della società emittente o
a contrastare il conseguimento degli obiettivi di un’offerta pubblica di acquisto o di
scambio” (art. 101-bis, quarto comma).53 Per la verità, si potrebbe subito osservare
comporti l’obbligo degli amministratori, che siano a conoscenza di patti anche in via ufficiosa, di farne
menzione e di attivarsi per “reperire dagli aderenti agli accordi informazioni più dettagliate”.
53
In ordine al fatto che il concetto di controllo sia al centro della disciplina del concerto, v. GUIZZITUCCI, op. cit., 264. Si è visto che, nell’ordinamento tedesco, la corrispondente norma del § 30 WpÜG
(pressoché identica a quella dettata a fini di trasparenza dal § 22 WpHG) richiede che i concertisti
perseguano lo scopo di un durevole e rilevante cambiamento dell’organizzazione imprenditoriale della
società. Come si è osservato in precedenza, diversi sono gli autori tedeschi che ravvisano nell’acquisto,
nell’esercizio e nel mutamento dell’assetto del controllo l’elemento centrale della disciplina dettata dal §
30: in tal senso, tra i tanti, PRASUHN, op. cit., 221; GAEDE, op. cit., 178 ss. e spec. 180. Si è sostenuto,
però, che tale requisito non presupponga necessariamente un completo programma comune sulla futura
attività dell’impresa, ma sia integrato anche soltanto dal formarsi di rapporti di partecipazione che
possano (anche solo potenzialmente, dunque) dare vita a tali cambiamenti (“Beteiligungverhältnisse, die
solche Änderungen herbeiführen können”): così PSAROUDAKIS, op. cit., 333 ss., il quale aggiunge che,
da un lato, è sufficiente il mutamento dei rapporti di forza interni alla compagine sociale anche non
accompagnato da intese su specifiche misure o iniziative da assumere e, dall’altro, che, mentre ai sensi
del § 22 WpHG devono essere pubblicate anche le intese destinate a protrarsi nel tempo a prescindere
dalla loro incidenza sulla società, gli accordi interessati dal § 30 WpÜG sono quelli in grado di produrre
un effetto durevole e rilevante, nel senso appena chiarito (ovviamente quest’idea muove dall’assunto,
fatto proprio dall’Autore in questione, che le due norme tedesche testé richiamate possano essere
interpretate diversamente nonostante l’identità della loro formulazione). Pongono l’accento sulla concreta
possibilità di comune esercizio del controllo anche WEIß, op. cit., 118-119; LÖHDEFINK, op. cit., 228 e
273, ove si osserva che il concerto sussiste quando il coordinamento delle condotte rende possibile il
dominio sulla società “bersaglio” (“wenn die Verhaltenabstimmung die Herrschaft über die
Zielgesellschaft ermöglicht”). Quest’ultimo A. ridimensiona inoltre la problematica se l’obiettivo
dell’acquisto del controllo debba essere inteso in senso soggettivo o oggettivo, ritenendo che tale
interrogativo nella prassi finisce per giocare un ruolo marginale (ibidem, 296). Negli Stati Uniti, come si è
detto nel primo capitolo, lo scopo di acquisizione del controllo, per quanto spesso presente, non è a rigore
un elemento costitutivo del concerto: come la giurisprudenza ha recentemente statuito, ci può essere
accordo rilevante tra gli shareholders anche se questi, detenendo congiuntamente più del 5% del capitale,
si limitino ad accordarsi per coordinare la vendita delle partecipazioni: cfr. SEC v. Sierra Brokerage
Services, Inc., 608 F. Supp. 2d 923 (S.D. Ohio, 2009); e già in precedenza Wellman v. Dickinson, 1982,
cit. In dottrina, la tendenziale irrilevanza dello scopo di acquisizione del controllo (con l’eccezione
69
come quest’ultima locuzione tenda ad assumere una portata più ristretta rispetto a quella
dell’art. 2341-bis c.c., ben potendo quest’ultima comprendere, come comunemente si
osserva, anche patti stipulati dalle minoranze; non è questo, tuttavia, l’aspetto che qui
preme maggiormente. Ciò che primariamente conta, piuttosto, è verificare se anche nel
microsistema normativo costruito dagli artt. 101-bis e 109 T.U.F. il riscontro di effetti
corrispondenti a tale dimensione teleologica del patto sia o meno un elemento essenziale
della fattispecie (tale cioè da dover costituire oggetto di prova ai fini dell’obbligo di
lancio di un’offerta pubblica).54 Si tratta, cioè, del problema che si è lasciato aperto in
precedenza (supra, § 2); al contempo, occorre cercare di comprendere se le conseguenze
giuridiche ricollegate all’azione di concerto possano prodursi anche in mancanza di un
vero e proprio esercizio di influenza dominante interna, allorquando a venire in rilievo
sia proprio un patto parasociale nullo in quanto inizialmente occultato.
Ci si deve innanzitutto chiedere, dunque, se l’accertamento dell’effettiva
acquisizione (o del mantenimento o del rafforzamento) del controllo (oppure, se si
volesse aderire all’impostazione “soggettivistica”, dell’originario intento dei paciscenti)
sia realmente un presupposto dell’obbligo di offerta, tale da dover costituire oggetto di
prova. Lo stesso art. 101-bis, comma 4-bis, T.U.F. sancisce invero chiaramente che gli
aderenti ad un patto parasociale, anche nullo, di cui all’art. 122 T.U.F. “sono, in ogni
caso, persone che agiscono di concerto”, dando la netta impressione di rimuovere la
necessità di provare che l’accordo abbia l’effetto poc’anzi descritto. Tale conclusione
pare avvalorata dal fatto che l’obbligo di promuovere un’offerta pubblica (ex art. 109
T.U.F.) sorge soltanto se i concertisti vengono a detenere a seguito di acquisti sul
mercato una percentuale particolarmente rilevante del capitale sociale (il 30% in caso di
prevista dalla Rule 13d-1(b)(1) della SEC) è messa in evidenza anche da LEVY, op. cit., 5-15; nonché da
HAZEN, Treatise on the Law of Securities Regulation, St. Paul, 2005, v. 3, 15. Nell’ordinamento
francese, si è visto che la nozione di concerto comprende la finalità di porre in essere una politica
societaria comune: la giurisprudenza ha statuito che essa a sua volta presuppone “une volonté de
contribuer en commun et durablement à la gestion ou à la stratégie économique, commerciale ou
industrielle de la société” (così Cour de Cassation, 27 ottobre 2009, n. 08-18.819, Soler Crespo c/ Sté
Gecina, in Droit des sociétés cotées, 2010, 112 ss.). Come si ricorderà, la nozione di concerto contenuta
nell’art. 101-bis T.U.F. comprende anche gli accordi volti a contrastare il successo di un’offerta pubblica
di acquisto o scambio: l’obbligo di offerta scatterà però solo se vi è anche l’acquisto aggiuntivo di azioni
nei dodici mesi e sino al 30% sì come richiesto dall’art. 109 T.U.F. Al contrario, come già si è visto, solo
l’art. 122 T.U.F. contempla gli accordi volti a favorire un’offerta pubblica, giacché la lett. d-bis) dell’art.
122 T.U.F. non è richiamata dall’art. 101-bis T.U.F. Nella dottrina tedesca, è invece discussa la rilevanza
degli accordi volti a contrastare il buon esito di un’offerta pubblica: la esclude GAEDE, op. cit., 209-210,
la quale ritiene che sarebbe irragionevole limitare la possibilità degli azionisti di addivenire ad intese tra
loro in questa fase, né sembra accettabile la conclusione che questi vengano a trovarsi per forza di cose
nell’alternativa tra accettare l’offerta o doverne proporre loro una (a meno che, naturalmente, provvedano
anche ad acquisti aggiuntivi fino alla soglia del 30%: ma, sostiene l’A., questo non capiterà mai, perché
per rendere poco attraente la società per l’offerente ostile basterà conservare una minoranza
ostruzionista). Circa invece la rilevanza di tali accordi, v. WEIß, op. cit., 156-157. In Francia, v.
LAPRADE, Concert et côntrole, cit., 247, il quale conferma che “toute convention susceptible d’avoir
une influence sur l’issue d’une OPA est potentiellement constitutive d’une action de concert”.
54
Secondo un’opinione dottrinale, i patti parasociali che interessano nel contesto delle disposizioni in
materia di OPA sarebbero quelli che, a prescindere da tali finalità, proprio perché tenuti nascosti mirino,
più semplicemente, proprio ad aggirare la disciplina dell’OPA, “impedendo che venga assicurata quella
trasparenza dei mercati regolamentati”: è l’osservazione di AZZARO, op. cit., 724. Quest’ordine di idee
non sembra interferire con il problema posto, potendo tale obiettivo - in presenza dei presupposti
dell’OPA obbligatoria - essere considerato connaturale al nascondimento di un patto parasociale rilevante
e, quindi, in re ipsa.
70
offerta totalitaria ex art. 106 T.U.F. e addirittura il 95% in caso di offerta c.d. residuale
ex art. 108 T.U.F.): allora, si potrebbe essere tentati di affermare che il legislatore, con
una valutazione ex ante, abbia ritenuto tali soglie sufficienti ad attribuire ai pattisti,
sebbene presuntivamente55, il controllo della società56, con la conseguenza che non
sarebbe necessaria la specifica dimostrazione degli effetti concreti dell’accordo (o,
eventualmente, del corrispondente intento degli aderenti).57 Siffatta argomentazione,
tuttavia, presterebbe il fianco ad almeno due ordini di rilievi. In primis, la nozione di
controllo cui fare riferimento in questo contesto normativo è (e rimane) quella dell’art.
93 T.U.F., che si fonda sul pilastro concettuale dell’influenza dominante astenendosi
dall’attribuire un rilievo decisivo a quote di capitale pari o inferiori al cinquanta per
cento. All’eventuale obiezione che le disposizioni in tema di concerto non richiamano
espressamente una data nozione di controllo pare sufficiente ribattere che la
fondamentale ratio dell’istituto dell’OPA obbligatoria riposa sull’avvenuto mutamento
del controllo della società e questo risulta essere principio ricevuto anche in dottrina. 58
In secondo luogo, il ragionamento qui criticato si regge su un sottile equivoco che
deriva da un’imprecisa lettura delle norme in questione. Certamente non vi sono
ostacoli ad affermare che la sussistenza (debitamente provata) di un patto parasociale,
facendo scattare la presunzione di concerto ex art. 101-bis, comma 4-bis, T.U.F. indica
anche - secondo la valutazione effettuata in questo contesto dal legislatore - la presenza
di un accordo (quantomeno) “volto ad acquisire, mantenere o rafforzare il controllo
della società” (o a contrastare un’offerta pubblica di acquisto), in cui il concerto si
sostanzia: del resto, proprio le ipotesi presuntive elencate dalla norma stanno a
significare che l’ordinamento, di fronte a determinate tipologie di patti tra soci, presume
che essi abbiano come obiettivo ultimo l’esercizio del controllo. Tuttavia, non è esatto
far discendere da ciò l’ulteriore assunto che il raggiungimento della soglia del 30% delle
55
Un cenno sul fatto che la soglia del 30% del capitale faccia presumere, in questo contesto, il controllo
della società si rinviene anche in SAMBUCCI, Durata dei patti parasociali, cit., 915.
56
E’ effettivamente così nell’ordinamento tedesco, dove, almeno ai fini dell’obbligo di promozione di
un’offerta pubblica, secondo quanto previsto dal § 29, Abs. 2, WpÜG il controllo equivale alla
disponibilità di almeno il 30% dei diritti di voto nella società: sul punto, cfr. ex multis SCHNEIDER,
Acting in concert, cit., 447; VON BÜLOW, Sub § 35, in Kölner Kommentar zum WpÜG, herausgegeben
von H. Hirte und C. von Bülow, Köln, 2003, 1030; nonché, nella manualistica, BUCK-HEEB, op. cit.,
229.
57
Ad una conclusione simile giungono COSTI-ENRIQUES, Il mercato mobiliare, in Trattato di diritto
commerciale, diretto da G. Cottino, Padova, 2004, v. VIII, 135, i quali osservano che “la sussistenza delle
relazioni previste dall’art. 109 [oggi dall’art. 101-bis, n.d.r.] è sufficiente ad integrare la fattispecie ivi
prevista [quella, cioè, del concerto], essendo irrilevante che vi sia anche la volontà di perseguire una
determinata strategia comune”.
58
Al riguardo, v. ad esempio MOSCA, Acquisti di concerto, partecipazioni incrociate e responsabilità
per inadempimento dell’obbligo di opa. Note a margine del caso Sai-Fondiaria, in Riv. soc., 2007, 1326
(l’obbligo di offerta rappresenta “una norma che, a livello di sistema, tende a creare le condizioni ottimali
per l’investimento azionario, offrendo la garanzia consistente nella possibilità di partecipare ai mutamenti
del controllo”); TUCCI, Obbligo di offerta e responsabilità civile, in Riv. soc., 2007, 1002 (nt. 7) [“Nella
fattispecie regolata dall’art. 106 T.U.F. il ‘mutamento’ rilevante è, sostanzialmente, l’acquisizione (o il
consolidamento) del controllo di una società quotata”]; ID., La violazione dell’obbligo di offerta pubblica
di acquisto. Rimedi e tutele, Milano, 2008, 42 (testo e nt. 5); ma anche MORELLO, Mancata promozione
di Opa obbligatoria totalitaria e risarcimento del danno, in Società, 2006, 409; GUIZZI, Noterelle in
tema di OPA obbligatoria, violazione dell’obbligo di offerta e interessi protetti, in Riv. dir. comm., 2005,
II, 257; F. FERRO-LUZZI, Regole del mercato e regole nel mercato: due vasi non comunicanti, in Riv.
dir. comm., 2007, II, 208 e 212.
71
azioni con diritto di voto da parte dei pattisti implichi automaticamente, per una sorta di
presunzione juris et de jure, l’acquisto (potenziale o effettivo) del controllo59, anche
perché l’acquisizione di quella partecipazione è contemplata dall’art. 109 T.U.F. quale
presupposto dell’obbligo di offerta ulteriore rispetto all’azione concertata, la quale sì a
sua volta comprende un accordo (ma, si noti, semplicemente) “volto” all’esercizio del
controllo.60
Ciò precisato, resta fermo che l’acquisto effettivo del controllo (o il suo
mantenimento o rafforzamento) non è un presupposto della fattispecie che determina
l’insorgenza dell’obbligo di offerta ai sensi dell’art. 109 T.U.F. sulla base di un patto
parasociale (rectius: non deve costituire oggetto di prova positiva a tal fine), come
inequivocabilmente dimostra anche la previsione in seno all’art. 101-bis T.U.F. di
tipologie di patti parasociali sicuramente inidonee di per sé ad assicurare il controllo
della società: basti pensare a tutti i patti diversi da quelli aventi ad oggetto l’esercizio
del voto, la cui rilevanza in questo ambito prescinde completamente dal fatto che essi
siano affiancati da un accordo sul voto, come proprio le due norme testé richiamate
lasciano indubitabilmente intendere.61 Inoltre, dal momento che l’art. 109 T.U.F.
prevede un obbligo solidale di promozione dell’offerta pubblica in capo a tutti i
protagonisti dell’azione concertata62, si manifesta altresì in prima battuta una sorta di
59
A tale risultato conduce anche la tesi che ritiene in ogni caso irrilevante, proprio sulla base del sistema
della soglia fissa, l’accertamento circa l’effettiva acquisizione del controllo: v. ad es. TUCCI, Condizioni
dell’opa obbligatoria e acquisizione del controllo mediante patto di sindacato, nota a App. Milano, 27
novembre 1998, in Società, 1999, 316 ss.
60
Come si era osservato in dottrina già nel vigore della previgente normativa in materia di OPA, “è
necessario anche distinguere, nella disciplina dell’OPA obbligatoria, il ruolo del ‘concerto’ per l’acquisto
dal ruolo del sindacato di voto, come strumento per l’acquisizione di partecipazioni di controllo”: questa
l’acuta e ancor valida constatazione di COSTI, I sindacati di blocco, cit., 477.
61
Come si è osservato, infatti, è da escludere che “l’acquisizione, la conservazione e il rafforzamento del
controllo congiunto possano discendere anche da accordi aventi ad oggetto la sola preventiva
consultazione circa l’esercizio del diritto di voto in assemblea”: così CARIELLO, “Controllo congiunto”
e accordi parasociali, Milano, 1997, 174. Come osservava anche RESCIO, I sindacati di voto, cit., 688689, occorre distinguere “i sindacati di voto dai patti di consultazione e dalle altre alleanze tra soci che
[...] non danno alcuna influenza dominante”. E’ forse interessante osservare che la previgente normativa
in materia di OPA (l. n. 149/1992), attribuiva rilevanza ai fini dell’obbligo di offerta unicamente ai
sindacati di voto, considerati gli unici in grado di consentire l’acquisizione del controllo: sul punto
SBISA’, Patto di sindacato, cit., 655-656; COSTI, I sindacati di blocco, cit., 472. In Germania, come si è
visto, nonostante l’espressa previsione della rilevanza di condotte uniformi anche diverse (“in sonstiger
Weise”) in seno al § 30 WpÜG, non è del tutto sopito il dibattito circa l’idoneità di intese diverse da quelle
sul voto ad integrare la fattispecie, proprio in ragione della stretta connessione esistente tra obbligo di
offerta, acquisto del controllo e disponibilità di voti in assemblea in misura rilevante.
62
La regola della solidarietà vige anche in Francia, allorché “l’existence d’une action de concert
permettait à l’AMF d’agir contre un seul d’entre eux in raison de la solidarité passive”: così DAIGRE,
Le président du tribunal de grande instance de Paris statuant en la forme des référés peut imposer le
lancement d’une offre publique obligatoire à la demande de l’AMF, Note a CA Paris, 14e ch., sect. A, 19
oct. 2005, n° 05/54287 C. c/ AMF, in BJB, 2006, n. 141, 162. Non è necessariamente questa (pur essendo
possibile) invece la conseguenza del concerto nel Regno Unito, giacché, come chiarito dal Takeover
Panel (The Takeover Code, cit.), l’obbligo di promozione dell’offerta grava primariamente su chi ha
effettuato gli acquisti che impongono l’obbligo stesso; ma, se questo non è il principale membro del
gruppo (“principal member”), “the obligation to make an offer may attach to the principal member or
members and, in exceptional circumstances, to other members of the group acting in concert” (:
“l’obbligo potrebbe incombere sul membro o sui membri principali e, in circostanze eccezionali, sugli
altri membri del gruppo dei concertisti”). E’ improbabile, dunque, che possa essere esteso al nostro
ordinamento il rilievo, emerso talora nella letteratura tedesca, secondo cui le conseguenze giuridiche
72
disinteresse del legislatore per il tipo di controllo - solitario o congiunto - eventualmente
esercitato dai concertisti e sul problema dell’imputazione dello stesso. 63
derivanti dalla scoperta dell’accordo (sia ai sensi del § 22 che del § 30) potranno ricadere su tutti gli
aderenti soltanto se ciascuno di essi ha adeguato il proprio comportamento al risultato dell’accordo,
verificandosi altrimenti l’imputazione solo a carico di chi esercita l’influenza all’interno del patto: VON
BÜLOW-BÜCKER, op. cit., 706 ss.; LÖHDEFINK, op. cit., 331. Diversamente orientata è, del resto,
RALOFF, op. cit., 204, che non ritiene importante individuare chi adegui il proprio comportamento verso
chi o in quale direzione ed afferma anzi che l’imputazione reciproca è la basilare conseguenza di
un’azione concertata ai sensi del § 30 (ibidem, 257-258); così anche WEIß, op. cit., 67; su una posizione
intermedia sembra collocarsi PRASUHN, op. cit., 224, ad avviso della quale l’imputazione ha luogo a
carico di uno solo dei pattisti unicamente nel caso in cui costui sia in grado di esercitare anche
autonomamente un’influenza sull’esercizio dei diritti di voto e dunque sulla società. Ai sensi delle norme
del T.U.F. l’obbligo di lancio dell’OPA sorge sempre solidalmente in capo ai pattisti, pur non essendo
certo esclusa l’eventualità che solo taluno di essi adegui il proprio comportamento a quello degli altri (e
sempre che, naturalmente, ciò sia il frutto di un vero e proprio accordo).
63
L’imputazione del controllo da accordi parasociali è un tema che la nostra letteratura ha affrontato da
tempo e sul quale non è il caso di soffermarsi qui oltremisura: bastino dunque pochi cenni.
Sull’imputazione del controllo congiunto da patti parasociali, la posizione da tempo incarnata da
CARIELLO, “Controllo congiunto”, cit., 179 ss., è nel senso che esso vada riconosciuto in capo ai
membri dell’accordo che siano in grado di spiegare in concreto “un complessivo potere di influenza
qualificata unitamente ad altri” (ibidem, 195), fermo restando che mai il patto parasociale può essere
elevato a soggetto e dunque destinatario nel suo complesso delle norme in tema di controllo e di relativa
imputazione (ibidem, 189). Il tema è stato ripreso dallo stesso autore più di recente: v. ID., Dal controllo
congiunto all’attività congiunta di direzione e coordinamento di società, in Riv. soc., 2007, 30 ss. Sul
punto anche RESCIO, I sindacati di voto, cit., 684 ss., il quale, partendo dall’assunto che il controllo ex
art. 2359 c.c. è concepito come individuale, nel senso che il soggetto controllante deve essere in grado di
esplicare il controllo in via autonoma, giungeva alla conclusione che nel caso delle convenzioni di voto è
necessario che un solo soggetto abbia la capacità di influire sul voto di tutti gli altri, o in virtù della
maggioranza delle azioni sindacate o “in base ad accordi con altri parasoci (sorta di sindacati nel
sindacato)”. L’A. proseguiva rilevando che “là dove il sindacato di voto consente il dominio di una sola
persona (sul gruppo dei soci sindacati e quindi) sulla società, è solo questa a dover essere reputata
controllante” (ibidem, 709); mentre, “quando il sindacato di voto all’unanimità è mezzo di controllo
congiunto, tutti i partecipanti sono necessariamente controllanti”. Anche MONTALENTI, La legge
italiana sulle offerte pubbliche: prime riflessioni, in Giur. comm., 1992, I, 856 ss. e spec. 858, muovendo
dall’idea di controllo individuale sottesa all’art. 2359 c.c., affermava che a parte le specifiche previsioni
di “co-controllo”, un’ipotesi di controllo da sindacato avrebbe potuto verificarsi “soltanto nell’ipotesi in
cui un soggetto acquisti la maggioranza nell’ambito di una convenzione di voto a maggioranza”. Più
radicale e difficilmente sostenibile l’opinione che era stata espressa ancor prima da VISENTINI, op. cit.,
12, secondo cui “ciascuno degli azionisti partecipanti al sindacato acquista la qualifica di controllante,
anche se la sua partecipazione di per sé considerata è esigua, e comunque non tale da determinare di per
sé il controllo”. Su tali questioni si erano soffermati anche MINERVINI e COSTI, Due pareri su come
vada inteso il “rapporto di controllo” in presenza di sindacati di voto (art. 4, comma 3°, legge n.
1/1991), in Contr. e impr., 1991, 1015 ss.; COSTI, Il problema della validità, cit., 32 ss., ove l’A.
escludeva che il controllo da sindacato potesse rientrare nella fattispecie dell’art. 2359 c.c., sia nel caso di
soggetto avente la maggioranza del sindacato, sia nell’ipotesi di controllo congiunto; ma anche ID., I
sindacati di blocco, cit., 477 ss. Tali problemi, quantomeno nel contesto dell’offerta pubblica obbligatoria
che qui interessa, si ponevano maggiormente, per la verità, nel vigore della precedente disciplina, in
quanto l’art. 10 l. n. 149/1992 prevedeva l’obbligo di offerta a carico di “chiunque intenda acquisire
direttamente o indirettamente, per il tramite di interposta persona o di società fiduciaria ovvero attraverso
una partecipazione a sindacati di voto, il controllo di una società quotata in borsa”: diveniva perciò
cruciale l’individuazione del soggetto controllante e dunque obbligato al lancio dell’OPA, specialmente
nel caso di patti parasociali. Come è evidente, le norme attuali sembrano aver consentito un superamento
della questione, atteso che l’obbligo di promozione dell’offerta grava solidalmente in capo a tutti coloro
che vengono individuati come concertisti. In realtà, anche con riferimento alla previgente disciplina in
materia di OPA obbligatoria, il peso della predetta discussione era ridimensionato da chi osservava che,
pur non potendosi attribuire la qualifica di controllante ai singoli membri del patto (se non quando in
grado di disporre proprio tramite il patto della maggioranza dei voti), ai fini dell’obbligo di offerta a
contare sarebbe stata unicamente “la partecipazione rilevante [...] complessivamente posseduta dagli
73
Semmai, ci si può chiedere se sia possibile per i concertisti una prova liberatoria
- volta cioè ad ottenere un’esenzione dall’obbligo di offerta - con la quale essi possano
dimostrare che, nonostante l’accertamento del patto parasociale inizialmente occultato e
l’avvenuto superamento della soglia rilevante in seguito ad acquisti di azioni, non si sia
in concreto determinata un’acquisizione (o un mantenimento o un rafforzamento) del
controllo.64
Sicuramente, in forza di quanto prevede l’art. 106, comma quinto, del T.U.F. è
sempre possibile dimostrare che altri soci - individualmente o congiuntamente detengono una partecipazione di controllo e quindi dispongono di un maggior numero
di diritti di voto.65 Il dubbio, però, è se, con specifico riferimento ai patti nulli (anche) in
quanto occulti, sia consentita (anche) la prova liberatoria - sempre diretta a smentire
l’avvenuta acquisizione del controllo ed a consentire un’esenzione dall’obbligo di
offerta - avente ad oggetto la circostanza che i concertisti non hanno concluso alcuna
intesa avente ad oggetto il diritto di voto e che, in ogni caso, non lo hanno mai
esercitato in maniera uniforme, con la conseguenza che nessuna influenza dominante è
stata spiegata sulla società. Taluno è parso escluderlo, in ragione del fatto che sarebbe
alquanto disagevole e complessa un’indagine volta ad accertare l’eventuale influenza
dominante di fatto esercitata da altri. 66 Questa considerazione si espone però
all’obiezione che i concertisti non necessariamente dovrebbero provare che l’influenza
dominante è esercitata da altri, potendo anche solo dimostrare che nessuna influenza
dominante deriva (rectius: è derivata) dal loro operato nella società.67 Ad ogni modo,
occorre muovere dalla nozione di controllo che viene in rilievo in questo ambito: essa,
come anticipato, è delineata dall’art. 93 T.U.F., il quale, oltre a richiamare l’art. 2359
azionisti sindacati [...] con la quale si può acquisire il controllo di una specifica società”: così SBISA’,
Patto di sindacato, cit., 659.
64
Si può già osservare che, perché si determini l’acquisto del controllo, non sembra potersi prescindere
(anche) da una fattiva e riscontrabile cooperazione. Sul punto, si osservi quanto affermava CARIELLO,
“Controllo congiunto”, cit., 117-118 (ma anche 164): “perché un accordo parasociale si riveli funzionale
al controllo solitario o congiunto è dunque necessario e sufficiente, anche nell’ambito normativo, che sia
attestabile la sua potenziale idoneità ad assicurare con un certo affidamento la stabile prestazione della
collaborazione e la stabile attuazione del coordinamento”.
65
Al riguardo, l’art. 49, comma 1, lett. a) Reg. Consob n. 11971 del 1999, esclude l’obbligo di offerta se
un altro socio o altri soci dispongono congiuntamente della maggioranza dei diritti di voto esercitabili in
assemblea ordinaria. Sul punto, si è sostenuto che “ai fini dell’operatività dell’esenzione viene
presupposta l’altrui disponibilità del controllo di diritto, ai sensi dell’art. 2359, c. 1, n. 1 c.c. Ciò significa
che al momento dell’acquisizione in astratto rilevante, la società non deve essere scalabile in quanto il
pacchetto di maggioranza può trasferirsi solo per volontà del suo titolare”: così TOLA, Opa e tutela delle
minoranze, Napoli, 2008, 187.
66
Così ANNUNZIATA-LIACE, Sub art. 106, in Commentario all’offerta pubblica di acquisto, a cura di
G. Fauceglia, Torino, 2010, 152.
67
Del resto, come detto poc’anzi, al di fuori dell’ipotesi qui considerata i concertisti che superino la
soglia del 30% potrebbero beneficiare dell’esenzione dall’obbligo di OPA solo qualora vi siano altri soci
che detengano più del 50% dei diritti di voto esercitabili nell’assemblea ordinaria, come prescritto
dall’art. 49, comma 1, lett. a) Reg. Emittenti. Ma per una critica all’impostazione adottata dall’Autorità,
in quanto “sarebbe stato auspicabile accordare l’esenzione in discorso in presenza di ‘soci di controllo’
anche solo di ‘fatto’ ovvero ‘contrattuale’”, v. RONDINELLI, Sub art. 106, in La disciplina dell’offerta
pubblica di acquisto, in Le nuove leggi civ. comm., 2010, 150-151 (ove il virgolettato). Né il tipo di prova
in discorso può essere ritenuta diabolica in quanto “negativa”, giacché l’abrogazione del quinto comma
dell’art. 147-ter T.U.F. ad opera del d. lgs. n. 303/2006 ha fatto sì che ora le votazioni per l’elezione delle
cariche sociali - in cui si sostanzia tipicamente l’esercizio del controllo - avvengano a scrutinio palese.
74
c.c., prevede, tra l’altro, che sono considerate controllate “le imprese, italiane o estere,
su cui un socio, in base ad accordi con altri soci, dispone da solo di voti sufficienti a
esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria” (così il comma 1, lett. b).
La concezione fatta propria da queste due norme è quella di un controllo meramente
potenziale, fondato sulla disponibilità di diritti di voto che, di fatto o di diritto,
consentano di esercitare un’influenza dominante sull’assemblea68: in altri termini, “il
mancato esercizio del potere, che integra il controllo interno di diritto o di fatto, non fa
venir meno la fattispecie del controllo, e ciò a prescindere dal motivo che sta alla base
del mancato esercizio”69. La presa d’atto di quanto precede parrebbe a prima vista
fornire un’importante indicazione: nell’ipotesi in cui sia stata già raggiunta la prova
dell’esistenza di un sindacato di voto mantenuto segreto - cui si aggiunga, naturalmente,
l’acquisto di azioni in misura tale da consentire il raggiungimento delle soglie rilevanti non sembrerebbe essere consentita alcuna prova contraria (al di fuori, naturalmente, di
quella già concessa in conformità ai principi generali del diritto processuale
nell’eventuale giudizio di cognizione svoltosi oppure nell’istruttoria condotta
dall’Autorità competente, volti appunto all’accertamento dell’accordo 70; o, ancora, al di
fuori di quella espressamente richiamata dall’art. 106, comma 5, T.U.F.); il patto,
invero, ove coinvolgesse una determinata percentuale del capitale sociale, dovrebbe
garantire - almeno potenzialmente - il controllo, sulla base dell’insieme dei diritti di
voto facenti capo ai pattisti e ciò, in virtù della nozione di controllo di cui agli artt. 2359
c.c. e 93 T.U.F., sarebbe sufficiente ad eliminare la necessità di ulteriori indagini. 71
Si può però a questo punto obiettare come tale idea si attagli astrattamente
soltanto al controllo individuale da patto di sindacato valido, che è proprio quello
contemplato dall’art. 93, comma 1, lett. b, T.U.F.72; non, invece, al controllo
68
Con riferimento all’art. 2359 c.c., cfr., per tutti, NOTARI-BERTONE, Sub art. 2359, in Azioni,
Commentario alla riforma delle società, diretto da P. Marchetti, L. A. Bianchi, F. Ghezzi, M. Notari,
Milano, 2008, 701; LAMANDINI, Sub artt. 2359 - 2359-quinquies, in Società di capitali, Commentario a
cura di G. Niccolini e A. Stagno d’Alcontres, Napoli, 2004, *, 398. Per lo stesso rilievo con riferimento
all’art. 93 T.U.F., mai modificato dopo la sua introduzione, v. G. MUCCIARELLI, Sub art. 93, in La
disciplina delle società quotate nel testo unico della finanza d. lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, Commentario
a cura di P. G. Marchetti e L. A. Bianchi, Milano, 1999, t. I, 57. Sul punto anche VOLPE, Sub art. 93, in
Commentario al Testo Unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, a cura di G.
Alpa e F. Capriglione, Padova, 1998, II, 866 ss., secondo cui “non potrebbe dirsi che la nozione di
controllo accolta dall’art. 93 presenti caratteri peculiari particolarmente distinti rispetto alla nozione
basica contenuta nell’art. 2359 c.c.” (ibidem, 871); SALIMEI, Sub art. 93, in Il testo unico della
intermediazione finanziaria, Commentario al D. Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, a cura di C. Rabitti
Bedogni, Milano, 1998, 549 ss.
69
Di nuovo NOTARI-BERTONE, op. cit., 704; analog., per la norma del T.U.F., G. MUCCIARELLI,
Sub art. 93, cit., 57.
70
Sul rispetto del principio del contraddittorio nei procedimenti instaurati dalla Consob, cfr. in particolare
RORDORF, Sanzioni amministrative e tutela dei diritti nei mercati finanziari, in Società, 2010, 991 ss.
71
Si tenga presente che i problemi di cui si va discutendo non si pongono, ovviamente, se uno degli
aderenti al patto occulto già disponga individualmente della maggioranza dei voti in assemblea.
72
Anche RESCIO, I sindacati di voto, cit., 688-689, aveva osservato che solo la validità del sindacato di
voto, che si traduce dunque in una valida pretesa giuridica, può garantire il controllo individuale. Secondo
altra più radicale opinione emersa in passato, invece, il controllo da sindacato non sarebbe mai
riconducibile alla nozione dell’art. 2359 c.c., perché questo esclude dal computo i voti spettanti per conto
di terzi, tra i quali andrebbero annoverati quelli spettanti agli altri soci sindacati: così COSTI, Il problema
della validità, cit., 35-56. Ma non sembra che i voti degli altri soci possano ritenersi spettanti “per conto
75
(congiunto) da patto parasociale nullo (quale è quello occulto)73, perché questo non può
mai garantire una vera e propria disponibilità di diritti di voto in misura tale da
consentire un’influenza dominante individuale (quand’anche potenziale) sull’assemblea.
Inoltre, sempre in ragione del fatto che l’accordo non comunicato è nullo e quindi privo
di effetti tra le parti, finisce inevitabilmente per scomparire in questo contesto la
rilevanza della distinzione tra controllo individuale e controllo congiunto da sindacato 74:
si può parlare di controllo individuale da sindacato, infatti, solo nel momento in cui uno
dei membri, proprio in forza dell’accordo giuridicamente vincolante, venga a disporre
anche dei diritti di voto spettanti agli altri (è questa, lo si ribadisce, l’ipotesi tipicamente
contemplata dall’art. 93, comma 1, lett. b, T.U.F.).75 Proprio perché si registra
di terzi”; semmai risulterebbero, in concreto e in forza del patto, semplicemente esercitati per conto di
terzi.
73
Al controllo esercitato “congiuntamente” sulla base del concerto occulto ha fatto riferimento anche la
Corte d’Appello di Milano nella sentenza sul “caso Unipol”, cit., 48.
74
Rilevanza che era stata invece giustamente individuata in termini generali da chi aveva sostenuto che, a
differenza del controllo individuale, il controllo congiunto può derivare anche da patto di sindacato
invalido, purché venga di fatto osservato e attuato il programma comune: così RESCIO, I sindacati di
voto, cit., 711, testo e nt. 75. Si è più di recente scritto anche che “il coordinamento inteso a condurre a
una concordata politica comune ovvero, più semplicemente, a un raccordato esercizio dei rispettivi poteri
di influenza, a loro volta suscettibili di realizzare una situazione di controllo congiunto, può tradursi nella
convergenza non solo di distinte possibilità di influenza ognuna delle quali, singolarmente presa, sarebbe
inidonea ad assicurare al suo titolare individuale la disponibilità di un potere di influenza qualificata
contrassegnabile come controllo; ma anche di differenti possibilità di influenza delle quali una sarebbe
invece, già di per sé considerata, idonea a riservare al suo titolare la disponibilità di un vero e proprio
potere di influenza qualificabile come controllo”: così CARIELLO, Dal controllo congiunto, cit., 11. La
perdita di significatività della distinzione tra queste due ipotesi di controllo congiunto si apprezza, a
maggior ragione, proprio nell’evenienza qui all’esame, vale a dire qualora il patto da cui origina il
coordinamento (quand’anche al suo interno uno dei membri detenesse la maggioranza) sia, in quanto non
tempestivamente reso noto, nullo e quindi inidoneo a far sorgere pretese giuridiche reciproche in capo
agli aderenti in merito al rispetto dell’accordo.
75
Lo sottolinea con forza G. MUCCIARELLI, Sub art. 93, cit., 62, il quale evidenzia come rimangano
escluse le ipotesi di controllo congiunto da patto di sindacato. Per completezza sistematica, si può
osservare che un’analoga concezione del controllo da patto parasociale è sottesa alla norma dell’art. 23
T.U.B., sebbene operante soltanto ai fini della disciplina della trasparenza delle partecipazioni nelle
banche e dei relativi poteri autorizzativi della Banca d’Italia. Oltre a richiamare l’art. 2359, commi 1 e 2,
c.c., e a fare riferimento a contratti e clausole che abbiano per oggetto o per effetto il potere di esercitare
l’attività di direzione e coordinamento, il secondo comma dell’art. 23 T.U.B. individua una serie di
presunzioni relative di controllo, tra le quali spicca, al n. 1, “l’esistenza di un soggetto che, sulla base di
accordi, ha il diritto di nominare o revocare la maggioranza degli amministratori o del consiglio di
sorveglianza ovvero dispone da solo della maggioranza dei voti ai fini delle deliberazioni relative alle
materie di cui agli artt. 2364 e 2364-bis del codice civile”. La dottrina dominante osserva appunto trattarsi
di controllo individuale: da ultimo ROSA, op. cit., 185 (testo e nt. 76, ed ivi ulteriori riferimenti
dottrinali), ove si argomenta soprattutto a partire dal fatto che là dove il legislatore ha voluto attribuire
rilievo “a poteri congiunti è stato più limpido”. Anche per LAMANDINI, Sub artt. 22-23, in Testo unico
bancario, Commentario a cura di M. Porzio, F. Belli, G. Losappio, M. Rispoli Farina, V. Santoro,
Milano, 2010, 234, il n. 1) del secondo comma dell’art. 23 T.U.B. descrive ipotesi di controllo solitario;
v. inoltre, già in passato, MANZONE, op. cit., 372. Per due esempi di controllo individuale da patti
parasociali, v. GALANTI, La nuova disciplina degli assetti proprietari delle banche, in Banca, borsa, tit.
cred., 1993, I, 511 ss. e spec. 513 (nt. 7), che richiamava l’ipotesi “dell’aderente al quale l’accordo abbia
conferito il potere di decidere come dovrà essere esercitato il voto anche degli altri aderenti”, nonché
quella “del socio che detiene la maggioranza sufficiente per l’adozione, all’interno del patto, di delibere
vincolanti per tutti i soci sindacati”. Diversa da quella prevalente è la tesi sostenuta da PATRONI
GRIFFI, Sub artt. 22-23, in Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, a cura di F. Belli, G.
Contento, A. Patroni Griffi, M. Porzio, V. Santoro, Bologna, 2003, v. I, 335 ss., giacché l’A. distingue
anche le due ipotesi di cui al n. 1 del secondo comma dell’art. 23: mentre la prima (diritto di nomina o
76
l’impossibilità di fare leva su una pretesa giuridicamente azionabile che consenta ad
(almeno) uno dei pattisti di venire a disporre anche dei diritti di voto di cui sono titolari
gli altri soci sindacati, diviene qui (id est: in questo ambito e in presenza di un patto
occulto anche di voto) parzialmente inutilizzabile la nozione generale di controllo di cui
agli artt. 2359 c.c. e 93 T.U.F., che sull’idea di disponibilità (almeno potenziale) dei
diritti di voto, appunto, si fonda.76
La riportata obiezione è fondata (almeno nelle sue premesse) e ciò, pare, basta a
dimostrare la debolezza della tesi che nega l’ammissibilità della prova liberatoria; non si
possono però condividere sino in fondo i risultati cui anche tale modo di argomentare
potrebbe condurre. Con riferimento ai patti nulli in quanto non comunicati, cioè, non
sarebbe accettabile la conclusione che essi, proprio in quanto privi di effetti giuridici tra
le parti, non assicurerebbero mai il controllo. Ciò significherebbe, infatti, “saltare”
letteralmente dal negare spazio alla prova liberatoria sino alla conclusione radicalmente
opposta: seguendo tale ragionamento, infatti, ne discenderebbe che la prova liberatoria
circa l’assenza di un effettivo acquisto del controllo da parte dei concertisti avrebbe
sempre (e automaticamente) successo e, in ultima analisi, non sarebbe più nemmeno
necessaria, sebbene prima della scoperta del patto i diritti di voto potrebbero di fatto
essere stati esercitati ed aver quindi consentito l’esercizio del controllo.
Allora, vista l’impraticabilità delle due ipotesi alternative “estreme” poc’anzi
illustrate, il problema diventa quello di verificare se, nonostante la nullità del patto non
comunicato, gli aderenti siano stati comunque in grado, unendo le loro forze, di
revoca della maggioranza degli amministratori, e oggi anche del consiglio di sorveglianza) integrerebbe
una fattispecie di controllo congiunto, la seconda (disponibilità della maggioranza dei voti esercitabili
nell’assemblea ordinaria) costituirebbe un esempio di “controllo minoritario da patto di sindacato”;
similmente SERRA, Sub art. 23, in Commentario al testo unico delle leggi in materia bancaria e
creditizia, a cura di F. Capriglione, Padova, 2001, t. I, 190, per il quale la prima ipotesi non presuppone
un “controllo stabile dell’assemblea ordinaria”. Si è anche rilevato da un lato che, per quanto le
presunzioni di cui ai nn. 2), 3) e 4) dell’art. 23, comma 2, individuino invece ipotesi di controllo
congiunto, non è certo che esse, pur riferendosi tra l’altro a “rapporti, anche tra soci”, comprendano il
controllo da patti parasociali: su questo punto ROSA, op. cit., 186 (testo e nt. 78) e 189; dall’altro, che il
controllo congiunto è comunque compreso dal nuovo art. 22, comma 1-bis, T.U.F. quale ipotesi “più
rilevante dal punto di vista funzionale” (LAMANDINI, Sub artt. 22-23, cit., 231).
76
Ciò è vero, si noti, indipendentemente dalla soluzione che si voglia dare al più generale problema della
riconducibilità del controllo congiunto (specie da sindacato) all’alveo applicativo dell’art. 2359 c.c.,
essendosi il relativo dibattito chiaramente sviluppato sul presupposto che si abbia a che fare con patti
validi. Prima della riforma, l’opinione prevalente ravvisava nella nozione fornita dall’art. 2359 c.c. una
forma di controllo soltanto individuale o “solitario”: v. ad esempio RESCIO, I sindacati di voto, cit., 684
ss.; MONTALENTI, La legge italiana, cit., 856 ss. (e, in giurisprudenza, si ricorderà il c.d. caso Rizzoli,
deciso dal Tribunale di Milano con sentenza del 6 novembre 1986, in Giur. comm., 1987, II, 413 ss. e in
Foro it., 1987, I, c. 3162). Posizione minoritaria era, pertanto, quella della riconducibilità anche del
controllo congiunto all’art. 2359 c.c.: v., anteriormente alla riforma del 2003, CARIELLO, “Controllo
congiunto”, cit., 112 ss. e spec. 130, ove però non a torto si osservava che sarebbe stato irragionevole
trascurare la rilevanza delle “fattispecie di controllo congiunto, certo più pericolose in quanto di più
difficile accertamento e meglio adatte a essere utilizzate al fine di occultare l’effettiva titolarità del
controllo”; LAMANDINI, Appunti in tema di controllo congiunto, in Giur. comm., 1993, I, 218 ss. e
spec. 241 ss. Dopo la riforma, la dottrina maggioritaria sembra ancora orientata a sostenere la sola
rilevanza generale del controllo individuale (cfr. per tutti NOTARI-BERTONE, op. cit., 683, ove ulteriori
riferimenti), ma alcuni autori hanno continuato a sostenere l’indirizzo minoritario: di nuovo CARIELLO,
Dal controllo congiunto, cit., 1 ss.; LAMANDINI, Sub artt. 2359 - 2359-quinquies., cit., 401 ss. Quanto
all’93 T.U.F., per la verità, il dato normativo sembra escludere con maggiore chiarezza il controllo
congiunto da sindacato.
77
esercitare un’influenza dominante sulla società attraverso l’esercizio dei loro voti in
assemblea. Sembra allora emergere, in questo specifico contesto e proprio a motivo del
fatto che si ha a che fare con un accordo nullo in quanto (almeno originariamente)
occultato, un concetto di controllo in parte differente da quello espresso dall’art. 2359
c.c. e dall’art. 93 T.U.F. (o, se si preferisce, una particolare declinazione della nozione
di controllo congiunto), ben spiegabile in rapporto a quest’ultimo ricorrendo allo scarto
che connota la coppia concettuale potenza-atto: tale diversa tipologia di controllo, pur
fondandosi in ultima analisi sull’esercizio del diritto di voto in assemblea, viene a
poggiare sulla condotta concretamente tenuta dai potenziali controllanti anziché sulla
dimensione puramente potenziale connessa alla (semplice) disponibilità di diritti di
voto.77 In altri termini, essendo certamente fuori gioco la nozione di controllo
individuale da sindacato, resta in campo soltanto quella di controllo congiunto basato
sulla cooperazione (principalmente in assemblea) dei soggetti coinvolti. 78 Tornando
quindi all’interrogativo circa l’oggetto della (possibile) prova liberatoria a carico dei
concertisti, sembra doversi - conseguentemente e logicamente - rispondere nel senso che
esso potrà consistere nella dimostrazione dell’inesistenza di una convergenza delle loro
condotte in sede assembleare tale da garantire (o meglio, aver garantito) al gruppo il
concreto esercizio di un’influenza dominante79.
77
E’ utile richiamare a questo proposito le parole di NOTARI-BERTONE, op. cit., 707, i quali, con
riferimento all’esercizio dell’influenza dominante, acutamente rilevano che “non può escludersi che il
comportamento di fatto tenuto dal socio o dai soci che la esercitano non assuma rilevanza sul piano
dell’applicazione di altre discipline che si basano su nozioni diverse dal controllo” oppure “che si basano
su diverse nozioni di controllo”, che quindi ben potrebbero essere rintracciate all’interno del sistema.
Similmente LAMANDINI, Sub artt. 2359 - 2359-quinquies, cit., 401 ss., il quale, sebbene riferendosi
soltanto all’art. 2359 c.c., ha poi opportunamente osservato come la disciplina in esso contenuta “sia
dettata prioritariamente ai fini della disciplina dell’acquisto indiretto di azioni proprie” e quindi,
aggiungiamo, non esclude affatto che diverse nozioni di controllo possano venire in rilievo in altri,
specifici, contesti o microcontesti normativi. La conclusione tracciata nel testo risulta ancor più
convincente se si aderisce all’idea che lo stesso art. 93, comma 1, lett. b), T.U.F. includa “anche situazioni
di ‘effettività’ in tal senso, quand’anche suscettibili di incorrere nella sanzione di nullità ex art. 122, cit.
co. 3”: così VOLPE, op. cit., 872; ma, come si è già detto nel testo, è difficile sostenere che tale norma
comprenda ipotesi ulteriori rispetto al sindacato di voto valido, stante il tenore letterale della stessa (“un
socio, in base ad accordi con altri soci, dispone da solo di voti sufficienti [...]”). Collima con quanto
rilevato nel testo la proposta avanzata da una parte della dottrina tedesca di meglio definire a livello
normativo una minore estensione dell’ambito applicativo del § 30 rispetto alla norma dettata a fini di
trasparenza, al fine di farvi ricadere soltanto le fattispecie di acquisto effettivo del controllo: cfr.
DRINKUTH, op. cit., 677 ss. Ma anche de jure condito e ancor più espressamente, taluno è giunto ad
affermare che, con riferimento all’obbligo di promozione di un’offerta pubblica, “il controllo è raggiunto
quando sussiste la possibilità di esercitare un’influenza di fatto sulla base dei diritti di partecipazione”
(“Kontrolle ist erlangt, wenn die Möglichkeit besteht, den auf den Mitgliedschaftsrechten beruhenden
faktischen Einfluss einzusetzen”): così SCHNEIDER, Acting in Concert, cit., 453. Ciò viene affermato, si
badi, nonostante manchi nell’ordinamento tedesco la sanzione della nullità del patto non comunicato e
nonostante la nozione di controllo rilevante in tema di concerto sia individuata nel raggiungimento (anche
congiunto) della disponibilità di almeno il 30% dei diritti di voto in assemblea.
78
E in effetti, “la cooperazione costituisce il requisito qualificante l’esercizio del controllo congiunto”,
come osservato da MOSCA, Comportamenti, cit., 467-468.
79
Tale conclusione pare in linea con le riflessioni di chi aveva scritto che, “dal momento [...] che il
controllo congiunto si può dire esistente solo se questo coordinamento risulta concretamente attuato, non
basta riscontrare la presenza di uno o più [...] ‘indizi’ perché si abbia una situazione di controllo
congiunto, ma è richiesto appunto che il coordinamento sia effettivamente realizzato” (CARIELLO,
“Controllo congiunto”, cit., 163). Se così è, risulta ulteriormente confermata la perdita di significato oltre che della distinzione tra controllo individuale e controllo congiunto da patto parasociale - anche del
78
Tale risposta è avvalorata altresì dal già citato disposto del quinto comma
dell’art. 106 T.U.F., che affida alla Consob il compito di determinare con regolamento i
casi in cui il superamento della partecipazione rilevante “non comporta l’obbligo di
offerta ove sia realizzato in presenza di uno o più soci che detengono il controllo” o sia
determinato da altre cause. Non sembra si possa obiettare che l’esenzione di cui si sta
discutendo risulterebbe arbitrariamente introdotta dall’interprete anziché - come
dovrebbe avvenire, appunto - da un intervento dell’Autorità: la norma del T.U.F. testé
menzionata, infatti, pare fornire una conferma a livello sistematico di quella che è la
ratio della disciplina (e della promozione) dell’OPA obbligatoria, vale a dire l’esigenza
di fornire agli azionisti della società l’opportunità di dismettere le rispettive
partecipazioni (soltanto) a fronte di un’avvenuta acquisizione (e conseguente ricambio)
del controllo, la quale va verificata - quantomeno con riferimento alla fattispecie di
concerto costituita dai patti parasociali occulti (e quindi nulli) - secondo i criteri
precedentemente illustrati. Se l’esito cui si è giunti può essere ottenuto, come si è
cercato di dimostrare, anche in via interpretativa, non vi è dubbio che un intervento
della Consob a livello di normativa regolamentare - che contempli espressamente
l’esenzione di cui si è detto in caso di successo della prova liberatoria (ancora: con
riferimento alla sola ipotesi dei patti nulli) - sia quantomeno opportuno, tanto in chiave
ermeneutica quanto in una prospettiva sistematica.80
La questione riguardante l’ammissibilità e l’oggetto della prova liberatoria di cui
i concertisti possono disporre dovrebbe, a maggior ragione, essere risolta nel senso
predetto nelle ipotesi in cui la presunzione assoluta di concerto si basi sulla stipula di un
patto parasociale che non riguardi l’esercizio del voto (ma pur sempre nullo, in quanto
dibattito sulla riconducibilità o meno del controllo congiunto (in generale o da patto parasociale) alla
nozione dell’art. 2359 c.c., come si è anticipato poc’anzi; nel caso che ci occupa, invero, si ha a che fare
con patti nulli e quindi ciò che conta è unicamente il profilo dell’effettivo esercizio di un’influenza
dominante da parte di coloro che, concretamente, fanno convergere le loro condotte in vista di un
obiettivo comune. Interessante è anche la riflessione di una certa dottrina tedesca, che, ribadendo la
rilevanza del controllo ai fini dell’obbligo di OPA, ammette esplicitamente una prova liberatoria a favore
dei concertisti: così WEIß, op. cit., 134, il quale afferma che, in caso di acquisto di azioni da parte di più
azionisti, “wird es ihnen in der Regel möglich sein, darzulegen, dass sie mit der Abgestimmten Erwerb,
durch den sie gemeninsam die formale Kontrollschwelle erreichten, keine materielle Kontrolle über die
Gesellschaft erlangt haben und die Entscheidungsgrundlage der außenstehenden Aktionäre durch den
Abgestimmten Erwerb nicht beeinträchtigt wird” (ossia, deve essere concessa la possibilità di provare che
nonostante il superamento della soglia “del controllo formale”, pari al 30%, in realtà i concertisti non
hanno ottenuto il controllo materiale né hanno pregiudicato i presupposti su cui sono destinate a fondarsi
le decisioni degli altri azionisti). Sul tema del controllo congiunto, si veda nell’ordinamento francese
l’articolo L. 233-3 del code de commerce, il quale stabilisce che “deux ou plusieurs personnes agissant de
concert sont considérées comme en contrôlant conjointement une autre lorsqu’elles déterminent en fait
les décisions prises en assemblée générale”: riguardo a tale norma, la giurisprudenza ha eliminato ogni
dubbio sul fatto che le persone fisiche possono essere controllanti oltre che concertisti (Conseil d’État,
10e et 9e sous-sect. Réunies, 6 luglio 2007, Société 2003 Productions, in Revue des sociétés, 2008, 104
ss., con nota adesiva di LE CANNU, Le contrôle d’une SAS par la mère d’une société minoritaire et par
les cadres de celle-ci, ibidem, 107 ss.).
80
Tale esenzione sarebbe dunque diversa da quella - già prevista dall’art. 49 del Regolamento Emittenti che contempla l’ipotesi in cui “un altro socio, o altri soci congiuntamente, dispongono della maggioranza
dei diritti di voto esercitabili in assemblea ordinaria”.
79
mantenuto segreto).81 Deve senz’altro escludersi, infatti, che i pattisti (individualmente
o congiuntamente) dispongano in senso proprio di diritti di voto in grado di assicurare
loro un’influenza dominante sull’assemblea ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 2359
c.c. e 93 T.U.F. Tuttavia, proprio perché, come si è visto, affiora in questo ambito una
nozione di controllo parzialmente differente rispetto a quella delineata da tali norme, i
pattisti dovranno in ogni caso dimostrare l’assenza di una condotta omogenea in sede
assembleare che, di fatto, abbia consentito loro di esercitare comunque, in via
congiunta, un’influenza dominante (sull’assemblea stessa e quindi) sulla società. 82 Se
quanto detto è corretto, ne deriva che la prova liberatoria dovrà avere in ogni caso il
medesimo oggetto, ossia quello poc’anzi individuato. 83
Si può concludere osservando che, al contrario di quanto accade in materia di
pubblicità, dove, nel rispetto dei dati normativi, i soci estranei al patto meritano la più
ampia tutela consentita dai confini delle fattispecie rilevanti, l’istituto dell’OPA
obbligatoria richiede che si ricerchi un diverso punto di equilibrio degli interessi in
81
Per quanto riguarda, ad esempio, i patti di consultazione, si è rilevato come la ragione della loro
inclusione nell’elenco di cui all’art. 122 T.U.F. risieda con ogni probabilità nel fatto che “sovente si tratta
di veri e propri sindacati di voto in forma mascherata”: così RORDORF, I patti parasociali, cit., 808.
82
E’ allora forse possibile prendere in prestito, a chiusura del ragionamento, la conclusione di chi in
tempi ormai non più recenti già osservava che “l’apprezzamento dei patti di sindacato come strumenti di
controllo congiunto non può essere risolto in modo aprioristico e astratto ma si colleghi ad un ponderato
apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto”: queste le parole di LAMANDINI, Appunti, cit.,
240, le quali acquistano ancor più valore se riferite proprio all’ipotesi del patto di sindacato nullo.
83
Peraltro, è probabile che proprio con riferimento ai patti diversi da quelli sul voto la prova liberatoria
abbia maggiori probabilità di successo, posto che la scoperta di un accordo riguardante il voto in
assemblea si fonderà per lo più (come accade in via generale) sul comportamento omogeneo tenuto dai
pattisti in assemblea, rendendo nei fatti alquanto complicata la dimostrazione dell’assenza di un’influenza
dominante. Il risultato raggiunto non implica, si badi, che i patti rilevanti per l’art. 109 T.U.F. siano in
definitiva soltanto quelli che abbiano “per oggetto o per effetto l’esercizio anche congiunto di
un’influenza dominante sulla società” (così invece GIUDICI, L’acquisto, cit., 499): sia perché cosi
opinando si attribuirebbe una portata generale a quella che costituisce solo una tipologia di patto
parasociale di cui all’art. 122 T.U.F.; sia, soprattutto, perché questa affermazione costringerebbe ad
ammettere - in chiaro contrasto, però, con la struttura delle presunzioni di cui all’art. 101-bis, comma 4bis, T.U.F. - che l’obbligo di offerta sorga soltanto se si provi ex ante che il patto occulto abbia (sempre)
ad oggetto o per effetto l’esercizio anche congiunto di un’influenza dominante. Ma tale conclusione non
sarebbe sostenibile: viceversa, la scoperta, ad esempio, di un semplice patto di consultazione (ma lo
stesso vale per un patto di non alienazione delle partecipazioni) accompagnato da acquisti di azioni tali da
aver determinato il superamento delle soglie rilevanti basterà a determinare l’insorgenza dell’obbligo di
promozione dell’offerta; spetterà, semmai, ai pattisti occulti dimostrare (come si è detto nel testo) che il
loro accordo non produce (o meglio, non ha prodotto) alcun effetto in termini di influenza dominante
sulla società. In base alla conclusione cui si è pervenuti, non potrà perciò mai bastare ai pattisti
dimostrare, ad esempio, che si tratti di un sindacato a maggioranza e che nessuno singolarmente la
detenga, oppure che si tratti di accordo sul voto all’unanimità (nonostante taluno in passato abbia
argomentato che un patto di voto all’unanimità “si converte o degrada a mera consultazione” e pertanto la
differenza con un patto di consultazione rischierebbe di sbiadire: IRTI, I patti di consultazione, in Riv.
soc., 1991, 1377): si concederebbe, altrimenti, una facile quanto inaccettabile via per sfuggire all’obbligo
di promozione dell’offerta pubblica di acquisto. E’ interessante, in chiave comparatistica, una recente
pronuncia della Cour de cassation francese, la quale ha escluso le conseguenze giuridiche della fattispecie
del concerto in ragione del mancato riscontro di un esercizio effettivo di influenza dominante, consistente
nella capacità dei concertisti di determinare in via di fatto le decisioni prese dall’assemblea generale: Così
Cour de cassation (com.), 15 mars 2011, F-D, n. 10-11.877, Sté Libération c/ Aubenas, pubblicata in
Revue des Sociétés, 2011, 552 ss., con nota di LAPRADE, Concert ne rime pas toujours avec contrôle,
ibidem, 554 ss.; cfr. anche il commento di BOMPOINT, Concert n’est pas nécessairement contrôle, in
BJB, 2011, 431 ss. Nella nostra letteratura, un breve commento è offerto da ARDIZZONE, Una sentenza
della Cour de cassation (com.) francese sull’acquisto di concerto, in Riv. soc., 2011, 1344 ss.
80
gioco, che presuppone la verifica di un effettivo e significativo accadimento che
interessi le dinamiche del controllo societario; questa necessità si impone non soltanto
in considerazione delle gravose conseguenze giuridiche che discenderebbero in capo ai
pattisti, ma anche, si noti, proprio in ragione del diverso atteggiarsi delle esigenze di
tutela dei soci estranei al patto, giacché solo un evento che incide in maniera effettiva
sul controllo della società può davvero giustificare una “via d’uscita” dalla stessa, resa
appunto possibile dall’offerta pubblica di acquisto.84
5. Segue: possibili obiezioni all’ammissibilità della prova liberatoria e loro
critica.
Si presenta a questo punto la necessità di togliere spazio a prevedibili obiezioni
circa la possibilità di dare ingresso alla prova liberatoria di cui si è detto, fondata
sull’assenza dell’effettivo esercizio di un’influenza dominante.
Al contrario di quanto potrebbe a prima vista sembrare, va osservato innanzitutto
che essa non è in contrasto con la presunzione assoluta di concerto di cui all’art. 101bis, comma 4-bis, T.U.F.: questa, infatti, in presenza di un patto parasociale di cui
all’art. 122 T.U.F., rimane ferma, ma il fatto che sia riscontrabile la sussistenza di un
concerto (nonché l’ulteriore presupposto dell’obbligo di offerta di cui all’art. 109
T.U.F., vale a dire il superamento della soglia rilevante in seguito ad acquisti di azioni)
significa soltanto che si è presenza di un accordo (semplicemente) “volto” all’acquisto o
al rafforzamento del controllo, ma non esclude affatto che tale obiettivo non venga in
concreto raggiunto o che comunque le corrispondenti condotte attuative non siano state
poste in essere; casi, questi ultimi, in cui l’obbligo di promozione dell’offerta non
appare più giustificato. Le conclusioni raggiunte valgono naturalmente anche con
riferimento allo scopo di “contrastare il conseguimento degli obiettivi di un’offerta
pubblica di acquisto o di scambio”, sebbene l’argomentazione sia stata sin qui condotta
con lo sguardo rivolto all’ipotesi più rilevante e problematica, quella appunto
dell’esercizio del controllo: del resto, il comune intento di opporsi ad un’offerta
pubblica di acquisto può ben costituire un esempio particolare di (accordo volto al)
mantenimento o rafforzamento del controllo (già esistente). In ogni caso, essendo i due
possibili obiettivi del patto contemplati come alternativi dal quarto comma dell’art. 10184
Vi è un ulteriore ragionamento che può supportare le riflessioni sin qui svolte. Come la dottrina ha
osservato (CARIELLO, Dal controllo congiunto, cit., 30) il problema dell’imputazione del controllo
congiunto (quale senz’altro è quello eventualmente derivante da patti parasociali nulli) pone, in relazione
ad ogni singola disciplina di riferimento, di fronte alla seguente alternativa: “si allude all’imputazione del
controllo in via ‘indifferenziata’ o ‘automatica’ (vale a dire, in nome della semplice partecipazione alla
coalizione di controllo e/o della sua concreta attuazione, a prescindere dalla sua disponibilità) ovvero
‘selettiva’ (e cioè, in ragione della disponibilità del potere di influenza qualificata, indipendentemente
dalla sua attuazione)”. Ora, il patto parasociale nullo rende impraticabile la seconda opzione, in quanto la
mancanza di effetti giuridici derivanti dall’accordo impedisce di ragionare in termini di “disponibilità” del
controllo congiunto, nel senso di disponibilità da parte di taluno dei pattisti anche dei diritti di voto
spettanti agli altri: pertanto, al fine di verificare la sussistenza di una fattispecie di controllo congiunto da
patto parasociale nullo non si potrà che fare riferimento all’effettiva attuazione dello stesso, ossia al
concreto esercizio di un’attività ad esso corrispondente.
81
bis T.U.F., se ne possono ricavare due corollari: per un verso, risulta ulteriormente
confermato l’assunto secondo cui la prova dell’effettivo acquisto del controllo non è in
prima battuta necessario perché risultino integrati i requisiti della presunzione di
concerto e quindi sorga l’obbligo di offerta; per altro verso, i concertisti potrebbero
essere costretti a provare non solo l’assenza in concreto di un evento significativo ed
incisivo sul piano delle dinamiche inerenti il controllo della società, ma anche che
l’accordo non ha prodotto in concreto alcun effetto in termini di contrasto ad un’offerta
pubblica di acquisto (qualora ovviamente ne sia già stata promossa una).
La soluzione proposta non sembra contraddire nemmeno la natura e l’operatività
delle sanzioni comminate dal legislatore per il caso in cui il patto parasociale afferente
ad una società quotata rimanga segreto.
In primo luogo, non si può non richiamare la circostanza che l’art. 101-bis,
comma 4-bis, T.U.F. prevede, come più volte detto, che il concerto sia presunto anche
nel caso di patto parasociale nullo: se ne potrebbe inferire che sia proprio tale previsione
ad impedire di spendere l’argomento della nullità per sostenere la parziale
inutilizzabilità della nozione di controllo che scaturisce dagli artt. 2359 c.c. e 93 T.U.F.
In realtà, con tale disposizione il legislatore si è evidentemente preoccupato di prevenire
elusioni, specialmente in relazione a quei patti che sono nulli proprio in quanto
occultati, giacché anche questi potrebbero essere messi in atto e dunque garantire un
risultato di fatto analogo a quello di un patto valido. Ma proprio questo dimostra che
l’aspetto centrale di tale disciplina (a fronte della presenza di patti occulti, si intende)
finisce per essere l’imprescindibile analisi concreta della realtà di fatto; aggiungasi che
la comprensibile attenzione del legislatore per le eventuali condotte elusive non toglie
che, per converso e proprio perché il patto è nullo, ad esso le parti non diano seguito e si
astengano dall’imporre di fatto un’influenza dominante. Pertanto, non si vedono
particolari ragioni per impedire loro - pur se integrati i presupposti di operatività della
presunzione legale - di fornire la prova liberatoria avente tale oggetto (a maggior
ragione, come si è detto, a fronte di accordi che non riguardano il diritto di voto, rispetto
ai quali essa avrebbe certamente migliori probabilità di successo).
Una più ampia riflessione viene richiesta dall’altra risposta fornita dal legislatore
sul piano sanzionatorio, vale a dire il divieto di esercizio del diritto di voto relativo alle
azioni quotate coinvolte nel patto non comunicato (o meglio, alle “azioni quotate per le
quali non sono stati adempiuti gli obblighi previsti dal comma 1”, come si esprime l’art.
122 T.U.F.).
Ci si potrebbe chiedere, infatti, se tale circostanza non determini il venir meno
del significato della prova liberatoria di cui si è detto, non potendo i pattisti votare per le
loro azioni in seguito alla scoperta del patto occulto e, conseguentemente, venendo essi
a perdere comunque ogni possibilità di esercitare - anche in via di fatto - il controllo
sulla società. Tale conclusione non potrebbe però essere accettata per almeno due ordini
di ragioni. In primo luogo, l’obbligo di promozione di un’offerta pubblica di acquisto ha
a che fare, come di consueto si rileva, con un avvenuto ricambio del controllo o
comunque con vicende che abbiano (già) inciso sulle dinamiche del controllo
societario. Da questo punto di vista, la prova liberatoria può avere successo - e prima
ancora, essere fornita - se (e solo se) i concertisti dimostrano di non aver mai tenuto (in
82
passato, quindi) una condotta omogenea (tipicamente, in assemblea) che, nonostante il
divieto di esercizio del voto nascente dall’occultamento del patto, abbia loro permesso
di esercitare congiuntamente in via di fatto un’influenza dominante sulla società. 85 In
secondo luogo, la prospettata obiezione non potrebbe essere accolta anche in quanto vi
sono buoni motivi per ritenere che (contrariamente a quanto la stessa implicitamente
presuppone), una volta scoperto il patto inizialmente occultato, gli aderenti possano
recuperare l’esercizio del diritto di voto in assemblea 86. Appare preferibile, infatti,
ritenere che in ogni ipotesi di emersione di un patto nullo in quanto inizialmente celato dunque, anche in caso di pubblicazione spontanea tardiva ad opera degli aderenti - gli
azionisti che ne fanno parte possano riacquistare la legittimazione all’esercizio del voto
in assemblea: vuoi in quanto tale misura sanzionatoria (o forse sarebbe meglio dire
cautelare) ha significato solo là dove gli altri soci non siano a conoscenza dell’accordo
in sede assembleare e, quindi, affonda le sue radici in un deficit di trasparenza; vuoi in
quanto tale soluzione potrebbe rappresentare un incentivo proprio alla manifestazione
85
E’ ovvio, del resto, che i pattisti non potrebbero comunque provare che in futuro non porranno in essere
condotte attuative del patto o comunque corrispondenti all’esercizio del controllo. Naturalmente, come
già si è detto (cap. I, § 9), qualora accada che, nonostante la prova dell’insussistenza di una (pregressa)
influenza dominante, i concertisti tengano successivamente un comportamento omogeneo corrispondente
al patto originariamente stipulato (specialmente se di voto), sarà più agevole la prova della sua persistente
vigenza (o della conclusione di un ulteriore accordo dal contenuto analogo): ciò innescherà le
conseguenze previste dalla legge, togliendo probabilmente a quel punto spazio, in concreto, al successo
della prova liberatoria.
86
Non vi dovrebbero invece essere dubbi sul fatto che medio tempore il diritto di voto non possa essere
esercitato: si vedano, ex plurimis, TUCCI, Patti parasociali; MEO, Le società, cit., 112-113; ANGELICI,
Le “minoranze” nel decreto 58/1998: “tutela” e “poteri”, in Riv. dir. comm., 1998, 224; CIAN, op. cit.,
735; KUSTERMANN, Osservazioni, cit., 912; PINNARO’, op. cit., 814. A tale conclusione perviene
anche MACRI’, Patti parasociali, cit., 172, il quale afferma a chiare lettere che “la stipulazione del patto
importi la sospensione del diritto di voto finché non vengano adempiuti gli obblighi pubblicitari”. La
sanzione, infatti, opererebbe attraverso l’impugnabilità della delibera adottata con il voto determinante dei
parasoci e quindi potrebbe essere messa in pratica anche prima del decorso dei termini per provvedere
alla pubblicità. E v., più di recente, anche CHIONNA, op. cit., 62; nonché, con riferimento all’analoga
sanzione prevista dal T.U.B. per l’omessa comunicazione alla Banca d’Italia, BENOCCI, Sub art. 24, in
Testo unico bancario, Commentario a cura di M. Porzio, F. Belli, G. Losappio, M. Rispoli Farina, V.
Santoro, Milano, 2010, 242; ANTONUCCI, op. cit., 342. Diversamente orientati RESCIO, Gli strumenti
di controllo, cit., 68-69 (nt. 35), il quale ritiene che la sanzione non potrebbe essere applicata in pendenza
dei termini per provvedere alla pubblicità, “in quanto nessuna violazione di quegli obblighi può dirsi
(ancora) realizzata”; SEMINO, Il regime di pubblicità, cit., 1462; nonché BLANDINI, Sul requisito di
forma, cit., 59 (nt. 24). Di diverso avviso rispetto alla posizione accolta nel testo inoltre RIOLFO, I patti
parasociali, Padova, 2003, 241. Tale differente ricostruzione non pare poter essere condivisa, non solo e
non tanto per l’impossibilità di estendere le disposizioni codicistiche alle società quotate (cfr. cap. I, § 2,
ove si è detto del resto che anche nelle quotate il patto dovrebbe essere comunicato alla società al più tardi
in occasione della prima assemblea successiva in pendenza del termine di cinque giorni), ma anche
perché, come efficacemente osservato, a seguire questa tesi “si giungerebbe all’assurdo di elevare ad
oggetto di tutela delle norme de quibus non già la pronta conoscibilità dei patti [...] quanto invece il mero
rispetto di una serie di obblighi procedimentali”: in questi termini PROVERBIO, op. cit., 175. Infatti,
ragionando diversamente si finirebbe per riconoscere ai parasoci (in maniera probabilmente non
accettabile) la possibilità di votare tenendo gli altri azionisti all’oscuro dell’accordo fintanto che i termini
per provvedere alla pubblicità non sono trascorsi; conclusione, questa, che pare scontrarsi frontalmente
con l’obbligo di dichiarazione dei patti in apertura di assemblea previsto dal codice civile, ma che può
parimenti valere con riferimento alle società quotate, specie se si accoglie l’idea (testé ricordata) secondo
cui anche in queste ultime la comunicazione alla società dovrebbe avvenire al più tardi nella prima
assemblea successiva (quand’anche i termini per la pubblicità siano ancora pendenti).
83
esteriore (quand’anche tardiva) del patto, nonostante questo sia colpito da nullità
insanabile.87
Infine, l’approccio qui suggerito circa l’ammissibilità della prova liberatoria
potrebbe risultare indebolito dall’osservazione che in presenza di un patto valido (di
qualsiasi tipo) nessuno si sentirebbe di ammettere una sorta di prova contraria a
87
La tesi dell’insanabilità della nullità in questione è senz’altro preferibile perché, come diversi autori
hanno sottolineato, se la sanzione avesse rimedio gli aderenti non avrebbero alcun interesse ad
un’immediata pubblicizzazione dell’accordo e vi provvederebbero soltanto nel momento in cui taluno di
essi intendesse farlo rispettare e, quindi, far valere la sua vincolatività: si vedano ad esempio, ex multis,
TUCCI, Patti parasociali, cit., 176, il quale ha scritto che la nullità insanabile “consente di colpire i patti
occulti in modo più incisivo [...] obbligando tutti a una nuova stipulazione, seguita dall’adempimento
degli obblighi di pubblicità”; SEMINO, Brevi spunti, cit., 279; TORINO, I contratti parasociali, cit., 481;
nonché, ancor prima, RESCIO, I sindacati di voto, cit., 723-724; ma anche, con immagine
particolarmente efficace, CASTELLANO, Il sindacato Gemina, in Giur. comm., 1985, I, 580: “vi sono, in
natura, animali o piante che riusciamo a vedere soltanto in circostanze particolari. Tale è la sorte dei patti
parasociali: se ne conoscono l’esistenza e il contenuto quando fra i parasoci sorga controversia non
definibile nel riserbo di un arbitrato, ovvero quando la convenzione appaia sprigionare effetti di natura
politica.” Per l’opinione della sanabilità della nullità si vedano però ATELLI, op. cit., 673; DESANA,
Nota a Trib. Como 31 gennaio 2000 (decr.), in Giur. it., 2001, I, 338 (e la pronuncia giurisprudenziale
annotata, pubblicata anche in Dir. prat. soc., 2000, n. 7, 63 ss., con nota di BASSI, Nullità sanabile dei
patti parasociali viziati da tardivo adempimento; in Società, 2000, 858 ss., con nota di
TUCCI, Contratti di collocamento, patti parasociali e nullità sopravvenuta per omessa pubblicità;
nonché in Notariato, 2000, 447 ss., con nota di MINUSSI, I patti parasociali nelle società quotate). La
nullità insanabile non è in conflitto con la possibilità per i paciscenti, in caso di adempimento tardivo, di
recuperare la legittimazione ad esercitare il diritto in assemblea: cfr. in tal senso COSTI, I patti
parasociali, cit., 128; MEO, Le società, cit., 114, secondo cui la recuperabilità del diritto di voto in
seguito alla pubblicazione tardiva prescinde dalla soluzione della questione circa la sanabilità o meno
della nullità; CIAN, op. cit., 738, il quale ritiene peraltro che al semplice fine di recuperare l’esercizio del
voto sarebbe sufficiente la comunicazione alla Consob. Recenti pronunce giurisprudenziali hanno
affermato che “anche in relazione ai patti nulli o comunque inidonei a produrre effetti sussiste l’obbligo
di comunicazione, che decorre in ogni caso dalla stipula, eventualmente anche orale o perfezionata per
facta concludentia, considerata la previsione normativa che estende l’obbligo ai patti in qualunque forma
stipulati”: così App. Genova, 19 dicembre 2009, cit., 588. Analog. App. Bologna, 27 gennaio 2010, cit.,
che ha parlato però più specificamente di inidoneità “a produrre effetti rilevanti ai sensi dell’art. 122
T.U.F.” (in dottrina, v. RESCIO, Gli strumenti di controllo, cit., 58, nt. 10, il quale condivisibilmente
osserva che anche i patti nulli “esplicano una rilevanza di fatto sulla vita della società”). E’ vero che tale
asserto delle Corti si riferisce ai patti nulli ab origine per vizi diversi dall’omessa pubblicità; esso tuttavia
pare condivisibile anche nella più specifica prospettiva che qui interessa: la nullità del patto, da ritenersi
insanabile una volta decorsi i termini fissati dalla legge per gli adempimenti pubblicitari, non esclude
l’interesse degli altri soci e del mercato a venire a conoscenza di un accordo che potrebbe in via di fatto
essere eseguito dai paciscenti. Per tali rilievi cfr., di recente, CHIONNA, op. cit., 66; nonché,
espressamente, SEMINO, Brevi spunti, cit., 277, il quale ha evidenziato che “questa imprescindibile
esigenza di informazione da parte del mercato è del tutto slegata dalla eventuale nullità degli accordi o
dalla loro vincolatività giuridica ed esiste nel momento in cui i patti parasociali sono comunque in grado
di influenzare le decisioni societarie se non come contratti come meri fatti”. Né si potrebbe obiettare che
il persistente obbligo di portare il patto - già irrimediabilmente colpito dalla nullità - a conoscenza dei
terzi, sia sprovvisto di un’adeguata ulteriore sanzione e rischierebbe dunque di rimanere una “pistola
scarica”: invero, a svolgere una funzione deterrente può ben provvedere proprio il divieto di esercizio del
diritto di voto inerente alle azioni dei paciscenti, destinato ad operare solo fin tanto che l’accordo
mantenuto segreto non venga portato alla luce. In sintesi, il divieto di prendere parte alle votazioni
assembleari è una misura sanzionatoria - o meglio, cautelare - in grado di svolgere due funzioni: (i) quella
di incentivo ad una pubblicazione, anche tardiva, del patto; (ii) quella di evitare che il patto possa essere
di fatto eseguito in mancanza di una piena disclosure, spirato o meno che sia il termine di cinque giorni
per la pubblicazione. Certamente, la seconda funzione vale (soltanto) con riferimento ai sindacati di voto;
ma, a parte il fatto che essi sono quelli che potrebbero determinare l’esercizio (anche congiunto e in via di
fatto) del controllo, per gli altri tipi di patti può rimanere fermo quanto testé osservato sub i): sul punto v.
anche TUCCI, Patti parasociali, cit., 179.
84
beneficio dei pattisti, di tal che sarebbe inammissibile una distinzione in tal senso tra le
diverse fattispecie rilevanti. Tuttavia, a parte il fatto che nel caso in cui si tratti di un
patto di voto (valido, appunto) potrebbe risultare integrata proprio la fattispecie del
controllo di cui all’art. 93 T.U.F., negli altri casi rimarrebbe comunque la possibilità di
dimostrare, a mente dell’art. 106, comma 5, T.U.F., che il controllo non è stato
raggiunto; questa norma fornisce, come si è detto, un’indicazione di ordine sistematico
che, con riferimento ai patti occulti (e dunque nulli), suggerisce di ritenere che la prova
liberatoria possa avere anche un diverso oggetto.88
6. Segue: ulteriori profili di rilevanza dello scopo di acquisire, mantenere o
rafforzare il controllo della società (o di contrastare il conseguimento degli
obiettivi di un’offerta pubblica di acquisto o di scambio).
Fermo restando quanto precede, la rilevanza dei risvolti sul controllo della
società che il patto parasociale sotteso al concerto spesso presenta può svolgere una
funzione importante ai fini della soluzione delle problematiche poste dal tessuto
normativo in esame anche sotto un diverso profilo. Si è già sottolineata la difficoltà di
distinguere, in concreto, gli accordi perfezionatisi per fatti concludenti dalle collusioni
tacite e dai semplici comportamenti inconsapevolmente paralleli. Ebbene, la prova
dell’esistenza di un patto parasociale occulto (e, per questa via, della sussistenza di
un’azione concertata rilevante ai sensi degli artt. 101-bis e 109 T.U.F.) potrà basarsi non
solo sulla continuità delle condotte riscontrate, ma anche sulla natura e sulla stabilità dei
loro potenziali effetti89. Se tale assunto è corretto, esso potrà valere in ogni caso di
prova di un patto parasociale mantenuto segreto, dunque (non solo nell’ambito di
un’OPA obbligatoria, ma, prima ancora) anche ai fini dell’irrogazione delle sanzioni per
omessa pubblicità di cui all’art. 122 T.U.F.
Questa idea non era parsa condivisa dalla Consob allorché, nell’atto di
accertamento del patto parasociale stipulato da BPI con altri soggetti al fine di ottenere
il controllo di Antonveneta, aveva affermato che “la comunanza dell’intento negoziale
dei diversi soggetti che procedono all’acquisto […] implica l’esistenza di un concerto
88
Se poi si volesse concludere, in base all’intero ragionamento sin qui svolto, che anche a fronte di patti
validi diversi da quelli sul voto dovrebbe essere concessa la prova liberatoria nei termini indicati,
troverebbe probabilmente una solida base la critica espressa dall’Assonime nella citata circolare n. 4/2010
circa la previsione, nella fattispecie dell’OPA obbligatoria da concerto, di patti aventi oggetto diverso
dall’esercizio del voto e dunque in ogni caso inidonei ad assicurare il controllo della società.
89
La conclusione prospettata nel testo pare rappresentare in qualche modo la sintesi della risultante del
pensiero di due illustri autori: da un canto, PAVONE LA ROSA, I patti parasociali, cit., 11, ha ritenuto
che la concordanza del voto espresso in assemblea tra azionisti, quand’anche di riferimento, non sia
circostanza sufficiente a rivelare l’esistenza di un patto parasociale, anche in ragione del rilievo che è
normale una qualche forma di consultazione tra azionisti nell’imminenza dell’assemblea; diversamente
dovrebbe dirsi, invece, “nell’ipotesi che la ‘consultazione’ assuma le dimensioni di una prassi abituale o
addirittura costante”. Interessante, poi, lo spunto contenuto nelle riflessioni di LIBONATI, Sindacato di
voto, cit., 115, là dove l’illustre Autore osservava che “i sindacati di voto possono (e devono) essere
valutati non solo per gli effetti che direttamente producono [...] ma anche per le premesse che li
giustificano e per gli effetti indotti.”
85
tra gli stessi soggetti”90: come è lecito ritenere, peraltro, tale “intento negoziale”, anche
nella prospettiva assunta dall’Autorità, non potrebbe certo essere costituito unicamente
dal comune intento di acquistare azioni sul mercato, bensì anche dalla comunanza dello
scopo di giungere - mediante, appunto, un’azione concertata - a quell’ulteriore obiettivo
rappresentato dall’acquisizione del controllo della società “bersaglio” (nel caso di
specie, Antonveneta). Ferma dunque la necessità che, ai fini dell’obbligo di OPA, vi
siano acquisti di azioni che conducano al superamento - anche da parte di più soggetti
congiuntamente - delle soglie di partecipazione rilevanti, seguendo il ragionamento
dell’Autorità se ne dovrebbe inferire che: (i) la finalità del raggiungimento del controllo
della società vada intesa alla stregua di un elemento soggettivo della fattispecie; (ii) che
la prova dell’esistenza di un patto parasociale (e dunque di un concerto, come risulta
anche dalle parole della Consob) venga raggiunta proprio attraverso la dimostrazione (in
via presuntiva, naturalmente) del comune intento finalistico dei partecipanti all’accordo.
Tale prospettiva “soggettivistica”, in realtà, non convince. Si sono già indicate nel
capitolo precedente (sebbene con specifico riferimento alla finalità di stabilizzare gli
assetti proprietari o il governo della società) le ragioni per cui il profilo teleologico
dell’accordo parasociale debba essere valutato in termini effettuali ed oggettivi. Le
considerazioni svolte in quella sede acquistano una valenza ancor maggiore nel presente
contesto: come emerso anche nel paragrafo che precede, il profilo centrale della
disciplina del concerto e dell’OPA obbligatoria risulta essere, specialmente nel caso di
patti parasociali occulti e quindi nulli, la verifica della presenza di una compagine di
azionisti in grado di esercitare effettivamente il dominio della società (o, in alternativa,
di opporsi efficacemente ad un’offerta pubblica già promossa). Le esigenze di “tenuta”
del sistema impongono, quindi, di attribuire un peso decisivo all’osservazione della
realtà in cui le condotte dei pattisti si manifestano e sui risvolti pratici che esse mostrano
di avere.
Più di recente, del resto, la stessa Consob pare essersi implicitamente avvicinata
all’impostazione qui ritenuta preferibile: ha affermato infatti l’Autorità - per quanto con
specifico riferimento ad un patto volto primariamente a stabilizzare gli assetti
proprietari della società - che la valutazione della parasocialità dell’accordo può essere
ricavata dalla valutazione degli effetti obiettivamente prodottisi e, inoltre, che “non
occorre, dunque, ai fini della configurabilità del patto parasociale che la finalità dello
stesso, ossia la cristallizzazione degli assetti proprietari, sia perseguita da entrambi i
paciscenti, ma che il patto risulti ‘oggettivamente funzionale’ a tale scopo, così come
rilevato nelle motivazioni dell’atto di accertamento Consob relativo al patto parasociale
denominato “Spot Hedge” tra Deutsche Bank e Unipol, avente ad oggetto azioni Banca
Nazionale del Lavoro (delibera n. 15259 del 23 dicembre 2005).”91
90
Cfr. nuovamente l’atto di accertamento allegato alla delibera Consob n. 15029 del 10 maggio 2005, cit.
Così la delibera n. 16326 del 30 gennaio 2008, in www.consob.it (poi annullata dal Tar Lazio, 8 ottobre
2008, n. 8835, a sua volta in parte riformata da Cons. Stato, sez. VI, 2 dicembre 2009, n. 1144). La
vicenda è ben riassunta nel corpo della delibera stessa, ove si legge: “nel caso di specie, gli accertamenti
effettuati hanno evidenziato l’esistenza di un accordo tra il Dott. Lotito e l’Arch. Mezzaroma finalizzato
all’acquisto ed al mantenimento in capo a quest’ultimo, per un certo lasso di tempo, del 14,61% circa del
capitale della Lazio. Un tale accordo ha avuto quale effetto oggettivo la sottrazione dal mercato della
partecipazione posta in vendita da Capitalia, che, in mancanza dell’acquisto di Mezzaroma, avrebbe
91
86
Se la prospettiva qui delineata è corretta, il ragionamento ad essa sotteso può
fondatamente ripetersi anche con riferimento al quarto comma dell’art. 101-bis T.U.F.,
secondo cui, come si è visto, l’accordo che si traduce in un’azione concertata deve
essere “volto ad acquisire, mantenere o rafforzare il controllo della società emittente o a
contrastare il conseguimento degli obiettivi di un’offerta pubblica di acquisto”: il
medesimo criterio poc’anzi descritto, in altre parole, dovrebbe valere anche per l’ipotesi
della prova diretta di un concerto, che non dovesse cioè poggiare sulla presunzione
legale a sua volta fondata sull’esistenza di un patto parasociale. Anche prima
dell’entrata in vigore del T.U.F., del resto, vi era chi - con parole sorprendentemente
precorritrici delle attuali norme - affermava: “l’esercizio del controllo congiunto può
inoltre rappresentare l’effetto dell’agire concertato di più soggetti (quindi, la o una
manifestazione dell’esistenza di un accordo diretto a realizzare una politica comune nei
confronti della società partecipata) e in quanto tale assumere rilevanza nell’ambito di
discipline rispetto alle quali a provocare il sorgere dell’obbligo di offerta pubblica è
anche l’azione di concerto intesa all’acquisizione del controllo di società quotate”.92
A questo punto, sulla scorta del ragionamento sin qui svolto, potrebbe forse
sorgere il dubbio circa il rischio di una sorta di “corto circuito” interpretativo e, di
conseguenza, applicativo. Potrebbe, cioè, apparire a prima vista paradossale la sequenza
logica in base alla quale la prova dell’esistenza di un patto parasociale potrebbe
muovere da indizi quali l’effettiva attuazione di una dominazione della società (o di un
contrasto ad un’offerta pubblica), da cui si giunga alla presunzione di concerto ex art.
101-bis, comma 4-bis T.U.F. e di qui, se vi sono acquisti di azioni, all’obbligo di lancio
dell’OPA, rimanendo tuttavia pur sempre aperta (come si è sostenuto) la possibilità per i
pattisti di provare l’assenza di un effettivo e concordato esercizio di influenza
dominante (o l’innocuità dell’azione volta a contrastare un’offerta pubblica). In realtà,
l’apparente incongruenza può trovare, a ben vedere, una possibile spiegazione. Se si
pone mente alla riflessione svolta nel paragrafo precedente, si ricorderà che la
presunzione legale assoluta di concerto opera anche in presenza di accordi diversi da
quelli aventi ad oggetto l’esercizio del voto in assemblea e, pertanto, inidonei di per sé
soli ad assicurare il controllo della società. In casi simili, il problema non si pone
potuto essere, oltre che ceduta a terzi, riversata sul mercato, ovvero mantenuta da Capitalia e gestita con
modalità differenti e, quindi con una maggiore partecipazione alla vita societaria.” E ancora: “la
sussistenza di un tale effetto oggettivo di sottrazione dal mercato di una determinata partecipazione
azionaria, considerato congiuntamente all’entità di tale partecipazione [...] nonché alla possibilità per i
paciscenti di determinare a loro piacimento il momento in cui promuovere l’OPA obbligatoria sul capitale
della Lazio, determina una valutazione in termini di parasocialità dell’accordo, senza che sia necessaria
a questi fini la prova dell’esistenza di un soggetto determinato ad effettuare una scalata ‘ostile’ della
società” (corsivo aggiunto). L’idea secondo cui l’esistenza di un concerto possa essere desunta dalla
vocazione del tentativo degli agenti - concretamente riscontrabile - alla conquista del controllo della
società, è emersa anche nella dottrina francese: così LAPRADE, Affaire Gecina, cit., 118.
92
Così CARIELLO, “Controllo congiunto”, cit., 142 (nt. 121), il quale, pur riferendosi precipuamente a
esperienze straniere, svolgeva come si vede una riflessione che ben si attaglia alla formulazione attuale
della norma in tema di obbligo di offerta pubblica sulla base di un’azione concertata. Una prospettiva
analoga a quella qui proposta è stata adottata, pare, anche dallo UK Takeover Panel, il quale ha di recente
evidenziato che uno dei principali criteri per accertare la sussistenza (o la persistenza) di un concerto è
verificare “whether the parties have been successful in achieving their stated objective” (cioè “se le parti
hanno avuto successo nella realizzazione degli obiettivi che si erano prefisse”): cfr. The Takeover Code,
cit., § 2.
87
giacché è evidente il significato della prova liberatoria e del relativo oggetto, come già
definito: tali patti, invero, non verranno alla luce sulla base dell’effettivo esercizio di
un’influenza dominante (congiunta), che passa viceversa attraverso l’omogeneo
esercizio del voto in assemblea. Proprio per tale ragione l’apparente incongruenza
descritta sembra emergere, piuttosto, allorché sia stato riscontrato un patto di voto. Con
riguardo a tale ipotesi, può però osservarsi quanto segue: o la prova dell’esistenza
dell’accordo è raggiunta senza fare leva (il che è pur sempre possibile) sulle concrete
condotte assembleari dei pattisti, tramite le quali il gruppo di soci sia addivenuto in fatto
all’esercizio (congiunto) del controllo, e allora anche in tal caso la prova liberatoria di
cui si è parlato conserverebbe il suo pieno spazio e significato; altrimenti, l’apparente
aporia non può che risolversi prendendo semplicemente atto della concreta maggiore
difficoltà (o, più probabilmente, impossibilità) di successo - in questo specifico caso della prova contraria stessa.
Quanto, invece, al patto volto a contrastare un’offerta pubblica di acquisto o di
scambio, la prova liberatoria non potrà basarsi (semplicemente) sull’assenza di condotte
continuate, perché in questo caso anche una condotta puntuale in attuazione
dell’accordo potrebbe senz’altro rivelarsi sufficiente allo scopo93: se la prova
dell’esistenza del patto si è basata (anche) sul tipo di effetti (concreti) da esso prodotti,
non vi sarà probabilmente spazio per la prova liberatoria. Tuttavia, è bene sottolinearlo,
ciò non implica affatto la generale inammissibilità della stessa: si tratta semplicemente
di constatare la pressoché totale mancanza di sue concrete chances di successo in
determinate ipotesi.
7. Il valore dei gentlemen’s agreements nella disciplina del concerto e
dell’opa obbligatoria.
Sembra che a questo punto dell’indagine possa essere fornita piuttosto
agevolmente una risposta all’ulteriore quesito se, al di là dei profili riguardanti la
trasparenza, anche i c.d. gentlemen’s agreements possano costituire una tipologia di
accordi in grado di dare vita ad un concerto e, in definitiva, a far scattare l’obbligo di
promozione di un’offerta pubblica.
E’ da dire innanzitutto che esiste un orientamento secondo cui essi possono
essere assimilati soltanto ai casi di parallelismo di comportamenti potenzialmente
idoneo a costituire un indice presuntivo di un patto parasociale nullo, verosimilmente
perfezionatosi per fatti concludenti (o di un’ipotesi di c.d. collusione tacita).94 Questa
tesi appare però errata e del tutto inconducente: non è chi non veda, infatti, come
l’apprezzamento degli accordi con risvolti e vincoli soltanto morali o sociali si collochi
sul piano degli effetti del rapporto instaurato. Per un verso, dunque, i comportamenti
c.d. paralleli non sono verosimilmente in grado, di per sé considerati, di svelare
alcunché circa la natura degli effetti che il presunto accordo ad essi sottostante è
93
Il pensiero corre alle decisioni che anche l’assemblea potrebbe dover prendere in pendenza dell’offerta:
cfr. la disciplina contenuta negli artt. 104 e 104-bis T.U.F.
94
Sul punto, cfr. VENTURINI, I patti parasociali, cit., 600-601.
88
destinato, nell’intenzione degli stipulanti, a produrre nelle rispettive sfere individuali;
per altro verso, l’individuazione di un patto occulto che si configuri come gentlemen’s
agreement presuppone comunque l’assolvimento della relativa prova, fondata (questa
sì) sui comportamenti dei pattisti ed anche su ulteriori elementi indiziari. E’ chiaro
dunque come il medesimo gentlemen’s agreement non possa qualificarsi, esso stesso,
alla stregua di un indizio. Occorre, allora, volgere l’attenzione a profili affatto differenti.
La dottrina tedesca è pressoché unanime nel constatare che anche siffatto genere
di accordi venga in considerazione (oltre che nell’ambito degli obblighi di
comunicazione, anche) ai fini dell’applicazione della disciplina del concerto e
dell’offerta pubblica di acquisto.95 Proprio in quest’ultimo contesto, la “nostra”
giurisprudenza sembra aver implicitamente aperto alla rilevanza di questa tipologia di
intese allorché, richiamando un indirizzo espresso in dottrina, ha rilevato la necessità
che un patto - ancorché nullo (perché, ad esempio, non pubblicato nell’ipotesi in cui si
riferisca a società quotate96) - debba essere caratterizzato dalla “vincolatività
dell’accordo per le parti, indipendentemente dalla giuridica validità e dalla stessa
efficacia dell’obbligo”97; stando a questo passaggio, se ne potrebbe evincere che sia
sufficiente una vincolatività di ordine sociale o morale. Tuttavia, non sembra possibile
ricavare soluzioni sicure dalle parole dei giudici testé riportate. E’ certo, infatti, che un
gentlemen’s agreement non possa comunque essere considerato vincolante
(quantomeno in senso giuridico), ma soprattutto rimane il dubbio che la pronuncia
giurisprudenziale richiamata abbia inteso ribadire la necessità che l’accordo abbia pur
sempre la pretesa di regolare giuridicamente le condotte degli aderenti, quand’anche si
riveli poi (in concreto) invalido o inefficace, eventualmente a causa della sua mancata
pubblicazione.
La soluzione al quesito sembra quindi dover passare per un diverso ordine di
riflessioni. In particolare, si presenta anche in questo caso l’esigenza di ridurre al
minimo il rischio di elusioni della disciplina, che potrebbe consigliare di ricomprendere
nelle nozioni di “accordo” o di “patto parasociale” rilevanti anche gli accordi la cui
sanzione consisterebbe soltanto in una riprovazione di ordine morale, o, per meglio dire,
in una censura da parte della comunità finanziaria.98 Del resto, sebbene sia certamente
vero che l’adempimento di un siffatto genere di pattuizioni non sia giuridicamente
coercibile, è altrettanto corretto rilevare che esse potrebbero ciononostante essere
concretamente attuate, garantendo magari agli aderenti la possibilità di determinare in
95
Con particolare riguardo al § 30, Abs. 2, si vedano per tutti SCHÜPPEN-WALZ, op. cit., 652;
HAMANN, op. cit., 1089 e 1091, il quale osserva che il dominio della società può essere ottenuto anche
con intese o azioni comuni che non siano formalmente e giuridicamente vincolanti, precisando che non è
necessario che gli interessati siano in grado di imporre in via di fatto l’uno all’altro l’osservanza
dell’intesa. La dottrina francese, viceversa, pare orientata diversamente, allorché nota che mentre nel
diritto della concorrenza (anche di matrice comunitaria) rileva qualsiasi genere di accordi, vincolanti
anche solo da un punto di vista fattuale o morale, sarebbe qui ravvisabile una differenza con la nozione di
concerto: così LAPRADE, Concert et côntrole, cit., 439.
96
Come anche la Consob ha rilevato, “il caso tipicamente preso in considerazione dall’art. 109 t.u.f. è
[…] proprio quello nel quale non siano stati adempiuti gli obblighi legali di pubblicità”: così
Comunicazione del 12 ottobre 2000, n. 75252, cit. In tal senso anche BAGLIONI, op. cit., 1045.
97
Così App. Genova, 19 dicembre 2009, cit., 589.
98
L’esigenza di evitare agevoli elusioni in materia è sottolineata a più riprese anche dagli autori tedeschi:
cfr. ad es. SCHOCKENHOFF-SCHUMANN, op. cit., 584.
89
via congiunta l’esercizio del controllo della società - o comunque di incidere sulle
vicende che lo riguardano - in maniera non differente da quanto può avvenire in base ad
un patto parasociale (originariamente pensato per essere giuridicamente vincolante e
tuttavia) nullo. Anche in questa prospettiva, quindi, viene in evidenza il tratto centrale
dell’ambito normativo di cui ci stiamo occupando, vale a dire la necessità di verificare
se il programma portato avanti dai concertisti consenta loro l’esercizio - in via
congiunta e in concreto - di un’influenza dominante sulla società.
Proprio per le ragioni indicate, pare più ragionevole riconoscere la rilevanza dei
gentlemen’s agreements anche nella disciplina del concerto e dell’OPA obbligatoria.99
Certo, nel caso dei patti che vengano mantenuti segreti (e che, pertanto, siano da
qualificare come nulli), è probabile che non si riscontrino significative variazioni, in
quanto ad oneri probatori e quindi da un punto di vista pratico, nella posizione di chi
intenda giungere all’accertamento dell’esistenza dell’intesa occulta: come si è detto,
questo si fonderà eminentemente sulla condotta tenuta dai presunti pattisti e,
conseguentemente, non risulterà particolarmente significativo il profilo dell’originaria e
astratta vocazione dell’accordo a produrre effetti giuridicamente vincolanti; ciò è tanto
più vero se si pone mente proprio al fatto che il patto non comunicato è
irrimediabilmente nullo. Per questo motivo, è probabile che, in definitiva, la portata
pratica dell’affermazione della rilevanza dei gentlemen’s agreements anche nel contesto
normativo che si va esaminando si risolva semplicemente nell’impossibilità per i
presunti pattisti di difendersi negando l’originaria sussistenza di una comune volontà di
addivenire al perfezionamento di un vero e proprio contratto giuridicamente efficace.
Non sarà invece preclusa, nemmeno in questo caso, la prova liberatoria di cui si
è detto in precedenza: i gentlemen’s agreements, in base a quanto motivato poc’anzi,
rilevano quale possibile presupposto di operatività della presunzione legale di cui all’art.
101-bis, comma 4-bis, T.U.F., ma non si vedono motivi per negare che i relativi membri
siano legittimati a fornire la dimostrazione che la loro azione nella società non si è
tradotta nel concreto e congiunto esercizio di un’influenza dominante.
8. La successione temporale dei due presupposti dell’opa obbligatoria:
l’acquisto di azioni e la stipulazione del patto parasociale.
Come noto, il combinato disposto dei commi 1 e 2 dell’art. 109 T.U.F.,
subordina la rilevanza dei patti, anche nulli, di cui all’art. 122 T.U.F., - ai fini,
naturalmente, dell’obbligo di lancio di un’offerta pubblica di acquisto - alla circostanza
che questi facciano seguito ad acquisti di azioni che, nei dodici mesi precedenti, abbiano
determinato il raggiungimento delle soglie di cui agli artt. 106 o 108 T.U.F.100 La lettera
99
Per questa conclusione cfr. anche ROMAGNOLI, Diritti dell’investitore, cit., 186.
Si è opportunamente precisato che rilevano gli acquisti effettuati anche da uno solo dei partecipanti al
concerto, il quale sarà però l’unico obbligato al lancio dell’offerta qualora giunga a superare
individualmente la soglia rilevante: SERSALE, Sub art. 109, cit., 198-199; conf., già prima delle
modifiche del 2007, AZZARO, op. cit., 725 (testo e nt. 45); P. FERRO-LUZZI, Il “concerto grosso”,
cit., 657. Così anche le Comunicazioni Consob nn. DAL/38036 del 18 maggio 2000 e n. DEM/61943 del
9 agosto 2000. La Consob ha inoltre chiarito che nel caso di adesione al patto di un nuovo soggetto, i
100
90
dell’art. 109 T.U.F., come attualmente formulato, sembra considerare unicamente,
dunque, l’ipotesi del patto parasociale che sia preceduto da acquisti di azioni: ciò, in
linea di principio, potrebbe spiegarsi, perché nel caso in cui fosse il patto a precedere
l’acquisto di azioni mancherebbe inizialmente l’altro presupposto necessario per
l’insorgenza dell’obbligo di OPA, costituito proprio dalla disponibilità - anche
congiunta - della partecipazione rilevante a seguito dell’effettuazione di acquisti di
azioni sul mercato.101 Ciò non toglie, naturalmente, che la stipula del patto che preceda
dodici mesi dovranno essere computati a ritroso da tale momento (così la Comunicazione n.
DEM/DCL/4073976 del 6 agosto 2004). Come si è visto, la corrispondente norma tedesca (§ 30, Abs. 2,
WpÜG) è formulata in maniera diversa: pertanto, la necessità che ai fini dell’imputazione e dell’obbligo
di OPA venga effettuato l’acquisto di azioni è stata affermata solo con riguardo al patto avente proprio
tale scopo e non anche con riguardo a quello avente ad oggetto l’esercizio del voto, qualora in tale ultimo
caso il coordinamento dei diritti di voto sia già sufficiente a determinare il raggiungimento (della soglia
rilevante e quindi) del controllo: così RALOFF, op. cit., 249 ss., la quale aggiunge che in questa ipotesi
non è necessario che il voto sia effettivamente esercitato conformemente all’intesa, bastando, secondo una
valutazione ex ante, la semplice possibilità dell’effettiva attuazione della condotta secondo quanto
stabilito. Anche nell’ordinamento inglese sembra riscontrarsi su questo punto una differenza rispetto alla
nostra normativa, perché il Takeover Panel (cfr. Practice Statement no. 26, Shareholder activism, 9
settembre 2009, 10) ha affermato che “when a party has acquired an interest in shares without knowledge
of other persons with whom he subsequently comes together to co-operate as a group to obtain or
consolidate control of a company, and the shares in which they are interested at the time of coming
together carry 30% or more of the voting rights in that company, the Panel will not normally require a
mandatory offer to be made under Rule 9.1” (: “quando una parte ha acquistato partecipazioni all’insaputa
di altre persone con cui viene poi a cooperare come gruppo per ottenere o consolidare il controllo della
società, e le partecipazioni da loro detenute al tempo della concertazione attribuiscono il 30% o più dei
diritti di voto nella società, il Panel non richiederà normalmente un’offerta pubblica ai sensi della Rule
9.1”).
101
Dunque, nel caso in cui i paciscenti vengano congiuntamente a detenere - semplicemente in forza,
cioè, della stipula di un accordo parasociale - una partecipazione superiore alle soglie rilevanti, sussiste
l’obbligo di comunicazione del patto ma non quello di lancio dell’offerta pubblica di acquisto, come
previsto dall’art. 109, comma 2, prima parte, T.U.F. (v. anche poco oltre nel testo): in tal senso v. ad es.
BRUNETTA, op. cit., 218; e già PICONE, Patti parasociali e opa obbligatoria, in Società, 1999, 1493.
Qualora poi i membri del patto si accordino anche per l’effettuazione di ulteriori acquisti di azioni volti
semplicemente ad incrementare il peso delle rispettive partecipazioni, l’obbligo di pubblicizzazione di
tale secondo patto sorge indubbiamente prima dell’ulteriore effettuazione di siffatti acquisti sul mercato;
non così, invece, l’obbligo di promozione dell’OPA, poiché la legge richiede espressamente acquisti
effettuati nell’arco di dodici mesi (la necessità del duplice presupposto ai fini dell’insorgenza dell’obbligo
è stata diffusamente sottolineata in dottrina: cfr. ad esempio DESANA, Opa obbligatoria, cit., 2113; ma
ancor prima COSTI, I sindacati di blocco, cit., 476, il quale osservava che in assenza di acquisti di azioni
il meccanismo dell’OPA obbligatoria non funzionerebbe, perché “non si saprebbe a quale prezzo
effettuarla”). In un caso del genere, pur preesistendo la partecipazione rilevante alla stipulazione del
secondo accordo parasociale, è dunque da ritenere che l’obbligo di lancio dell’OPA scatti solo (e non
appena) abbiano inizio gli acquisti in attuazione dello stesso (contra BRUNETTA, op. cit., 232). Un
concetto del tutto analogo è stato espresso nell’ordinamento inglese, allorché il Takeover Panel (Practice
Statement no. 26, cit., 7-8) ha ribadito che il concerto (e, dunque, l’obbligo di offerta) presuppone tanto
un accordo quanto l’acquisto di partecipazioni sino ad almeno il 30% del capitale, “or, if they are already
interested in shares carrying 30% or more of the voting rights of the company, they acquire further
interests in shares” (o, cioè, “se già detengono il 30% o più dei diritti di voto della società, che essi
acquistino ulteriori partecipazioni”; v. anche ibidem, 10 e 16, ove ancor più chiaramente si afferma che se
le partecipazioni detenute dai concertisti ammontano ad almeno il 30%, “the ‘coming together’ of the
concert party will not normally, of itself, result in a possible requirement to make a mandatory offer. A
requirement to make a mandatory offer would only arise if a member of the concert party were to acquire
additional interests in shares carrying voting rights”: il cooperare dei concertisti non condurrà di per sé,
normalmente, al risultato di un possibile obbligo di offerta; la richiesta di promuovere un’offerta
sorgerebbe solo se un membro del patto acquistasse ulteriori partecipazioni con diritto di voto). Quanto
detto deve però essere integrato con il disposto dell’art. 106, comma 3, lett. b) T.U.F., a mente del quale,
in presenza di un patto tra coloro che già detengono complessivamente una partecipazione superiore al
91
l’acquisto di azioni da parte dei contraenti sia però soggetta sin da subito, in presenza
dei necessari presupposti, agli obblighi di disclosure di cui all’art. 122 T.U.F. e, in caso
di inosservanza, alle relative sanzioni.102
Essendo questo l’effetto immediato di un siffatto patto, è parimenti corretto
affermare che ad esso si aggiungerà l’obbligo di lanciare l’offerta pubblica di acquisto
non appena si riscontrino acquisti di azioni e la soglia rilevante risulti essere superata
(sia che lo fosse al momento della stipula del patto, sia che venga ad esserlo proprio in
virtù degli acquisti stessi)103; gli acquisti successivi, una volta dimostrata l’esistenza
originaria dell’accordo parasociale, avranno dunque l’effetto di determinare
l’insorgenza di tale obbligo.104
L’opinione contraria, secondo la quale sarebbe in ogni caso necessario che gli
acquisti di azioni e dunque il raggiungimento delle percentuali rilevanti precedano la
stipula del patto parasociale105, può apparire aderente al tenore letterale dell’art. 109,
comma 2, seconda parte, T.U.F., ma non risulta condivisibile in quanto chiaramente non
in grado far fronte alle difficoltà che affiorano proprio nel caso in cui si abbia a che fare
con patti parasociali occulti: qualora manchi, cioè, l’esteriorizzazione dell’accordo,
30% del capitale sociale, senza tuttavia detenere la maggioranza dei voti nell’assemblea ordinaria,
l’obbligo di offerta scatta soltanto in seguito all’effettuazione di acquisti superiori al 5%: sul punto v.
MEO, Modifiche di patti parasociali, tutela delle minoranze e opa obbligatoria (considerazioni sul patto
anti-opa RCS MediaGroup), in Giur. comm., 2005, I, 605, il quale osserva anche che in presenza di un
patto parasociale il computo dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria non può essere acriticamente
desunto dalla percentuale di capitale sindacata, ben potendo il patto avere oggetto diverso dall’esercizio
del diritto di voto.
102
Invero, “qualora si realizzi in qualsiasi forma un accordo tra più soggetti per l’effettuazione di acquisti
di partecipazioni, all’apparenza separatamente ma, in realtà, in modo coordinato, al fine di esercitare
congiuntamente il controllo sulla società al termine dell’operazione, o a trasferire le partecipazioni al
soggetto ‘capofila’, si è in presenza di un patto parasociale rilevante ai sensi dell’art. 122 T.U.F.
indipendentemente dalla realizzazione degli acquisti” (così App. Genova, 19 dicembre 2009, cit., 588,
corsivo aggiunto): un simile accordo, si badi, rileva in un primo momento esclusivamente - come
correttamente evidenziato dalla Corte - ai sensi dell’art. 122 T.U.F., ossia con riferimento agli obblighi di
disclosure, e non certo - in mancanza della detenzione di una partecipazione rilevante già al momento
dell’accordo, che derivi da acquisti di azioni - ai fini dell’OPA.
103
In tal senso già AZZARO, op. cit., 725 (testo e nt. 42); MOSCA, Acquisti di concerto, cit., 1300, la
quale osserva che “una volta provata la stipulazione di un patto nullo, l’obbligo di promuovere l’offerta
scatta al superamento della soglia rilevante da parte dei partecipanti all’accordo”; P. FERRO-LUZZI, Il
“concerto grosso”, cit., 658 e 667. Sotto questo profilo, le recenti novelle non sembrano aver introdotto
significativi elementi di novità rispetto alla previgente versione dell’art. 109, comma 2, T.U.F., il quale,
anteriormente al 2007, prevedeva che l’obbligo sorgesse nel caso di acquisti effettuati precedentemente
alla stipula del patto, ma anche “a seguito” o “contestualmente”: cfr. BAGLIONI, op. cit., 1046, il quale
osservava che sarebbe stato quindi rilevante “ogni acquisto effettuato nell’anno precedente,
contestualmente o a seguito della conclusione del patto”; conf. già CALLEGARI, op. cit., 67. Anche la
Consob, nell’ambito dell’accertamento dei patti legati alla scalata Antonveneta, aveva rilevato acquisti
precedenti la data di stipulazione del patto, ma anche successivi, a seguito dei quali era stata superata la
soglia del 30% (cfr. delibere n. 15029 del 10 maggio 2005 e n. 15115 del 22 luglio 2005).
104
Gli acquisti di azioni, si badi, proprio per questo non potranno di per sé soli valere a fondare la prova
presuntiva dell’esistenza del patto, potendo rappresentare (come precedentemente si è detto con riguardo
al parallelismo di comportamenti) solo un possibile indizio in tal senso.
105
In tal senso sembra orientato F. M. MUCCIARELLI, L’attuazione, cit., 477, ove si legge: “la semplice
stipulazione di un patto parasociale, quando la somma delle partecipazioni dei soci che hanno stipulato il
patto supera le soglie rilevanti ai fini dell’opa obbligatoria o dell’obbligo di acquisto, non fa sorgere di
per sé l’obbligo di opa, a meno che i soci che hanno stipulato il patto non abbiano acquistato le azioni nei
dodici mesi precedenti alla stipulazione del patto stesso”; l’A. sembra cioè ritenere necessario che gli
acquisti di azioni precedano la stipulazione del patto.
92
occorrerà indagare il momento dell’eventuale stipulazione del patto, il quale potrebbe
anche risalire ad un momento antecedente agli acquisti sul mercato o essere a questi
contestuale; è di tutta evidenza, però, che escludere tali ipotesi dall’applicazione della
disciplina finirebbe per agevolare - contro il chiaro intento del legislatore - facili
elusioni.106 Vale forse la pena, su questo punto, riportare l’ammonimento che attenta
dottrina faceva già nel vigore della precedente legge sull’OPA (l. n. 149/1992), allorché
avvertiva che “sarà necessario, in concreto, evitare la frode alla legge, realizzabile
attraverso fittizie separazioni fra acquisto delle azioni e stipulazione del patto di
sindacato”.107
Né la conclusione cui si ritiene di aderire risulta smentita dal disposto dello
stesso art. 109, comma 2, prima parte, T.U.F., il quale esordisce escludendo
l’applicazione del primo comma (che prevede appunto l’obbligo di OPA in capo ai
concertisti), “quando la detenzione di una partecipazione complessiva superiore alle
percentuali indicate negli artt. 106 e 108 costituisce effetto della stipula di un patto,
anche nullo, di cui all’art. 122”: questo passo della norma, invero, non ha il significato
di escludere la rilevanza degli acquisti successivi al momento in cui il patto parasociale
viene fatto risalire, ma soltanto di chiarire che se gli aderenti, al momento dell’accordo,
dispongono complessivamente di una percentuale di capitale superiore alle soglie
rilevanti, l’obbligo di OPA non scatta, giacché è proprio l’acquisto delle azioni in un
determinato arco temporale a rappresentare un presupposto indefettibile a tal fine. 108
106
In proposito anche BRUNETTA, op. cit., 230.
Queste le ancora attuali parole di COSTI, I sindacati di blocco, cit., 476. E’ importante notare che la
soluzione qui proposta risulta essere stata, di fatto, accolta dalla Consob negli atti di accertamento del
patto occulto promosso da BPL a cavallo tra il 2004 e il 2005 al fine di ottenere il controllo di
Antonveneta: l’Autorità, con l’atto di accertamento allegato alla Delibera n. 15029 del 10 maggio 2005,
aveva riscontrato l’esistenza di un patto parasociale avente ad oggetto “l’esercizio anche congiunto di
un’influenza dominante sulla Banca” ed aveva aggiunto che esso “è stato stipulato quantomeno in data 18
aprile 2005, con superamento della soglia rilevante ai sensi dell’art. 106 comma 1 del d. lgs. n. 58 del
1998 in data 19 aprile 2005”. Il patto volto all’esercizio dell’influenza dominante, cioè, secondo la
ricostruzione della Consob, risultava avere ispirato il rastrellamento concertato delle azioni e dunque
essere stato perfezionato in un momento anteriore all’effettivo superamento della soglia del 30% ad opera
dei concertisti; anche a prescindere da ciò, peraltro, la stessa complessità della vicenda e la
sovrapposizione di diversi patti parasociali mantenuti segreti hanno dimostrato l’enorme difficoltà di
individuare con precisione il momento della stipula degli stessi. Tanto è vero che, nell’ambito della
medesima indagine, la Consob, con Delibera n. 15115 del 22 luglio 2005 aveva accertato la conclusione
di un diverso patto stipulato dalla BPL di Fiorani con la sola Magiste s.p.a. di Ricucci risalente al 10
marzo 2005 ma ovviamente inserito nel medesimo disegno complessivo architettato da BPI per ottenere il
controllo di Antonveneta e dunque anch’esso seguito da acquisti azionari da parte dei protagonisti; lo
stesso è a dirsi per l’ulteriore patto occulto tra BPL e la Unipol di Consorte e Sacchetti, accertato dalla
Consob solo diverso tempo dopo (cioè in data 28 febbraio 2007), a seguito delle indagini condotte dalla
Procura di Milano, da cui era emerso che in data 22 aprile 2005 Unipol aveva incrementato la propria
partecipazione in Antonveneta al 3,77 % prima di votare all’assemblea del 30 aprile 2005 per l’elezione
degli amministratori facenti capo a Fiorani e a BPL. Anche in quest’ultimo caso, cioè, era assai plausibile
che tale accordo (avente ad oggetto anche l’esercizio del voto in assemblea) fosse stato concluso in epoca
antecedente agli acquisti di azioni e che anzi questi ultimi fossero funzionali ad assicurare proprio il
risultato cui il primo mirava. In quell’assemblea, BPL era in effetti riuscita a raggiungere la maggioranza
dei voti, prima che l’intero e complesso piano venisse, come è noto, alla luce.
108
Sebbene, come si ricorderà, la disciplina statunitense del concerto riguarda in prima battuta gli
obblighi di disclosure e solo eventualmente le tender offers, si può notare che a tali fini non rileva che i
pattisti abbiano posto in essere acquisti di azioni tali da determinare il superamento della soglia rilevante,
perché questo può ben prodursi semplicemente in seguito alla stipula dell’accordo tra soggetti che già
detengano, congiuntamente, più del 5% delle partecipazioni: sul punto LEVY, op. cit., 5-17; BROWN et
107
93
Semmai, ci si potrebbe chiedere se gli effetti dell’applicazione del combinato
disposto degli artt. 101-bis e 109 T.U.F. possano essere evitati dimostrando che in realtà
gli acquisti di azioni sul mercato si collocano al di fuori di un disegno concertato. Pare
corretto rispondere, innanzitutto, negando che sia necessario provare, affinché l’obbligo
di offerta scatti, che l’acquisto di azioni sia stato posto in essere in attuazione di una
strategia comune: altrimenti, perderebbe significato la presunzione di concerto sancita
dall’art. 101-bis T.U.F. allorché si riscontri l’esistenza di un patto parasociale rientrante
nei tipi individuati dalla norma, perché sarà proprio questo a far presumere l’esistenza di
una strategia comune intesa come scopo di acquistare, mantenere o rafforzare il
controllo della società (o di contrastare un’offerta pubblica di acquisto o di scambio) 109.
Né, del pari, sembra possibile dare spazio ad un’eventuale prova contraria, una volta che
si dimostrino l’esistenza del patto parasociale e, appunto, l’effettuazione di acquisti di
azioni sul mercato.110 Vero è, infatti, che il concerto (ossia: il complessivo disegno
ideato dagli aderenti) è presunto ex lege proprio in base alla stipulazione del patto
parasociale, al quale, ai fini dell’obbligo di promozione dell’OPA, devono aggiungersi
il semplice acquisto di azioni ed il superamento delle soglie rilevanti (così il combinato
disposto degli artt. 101-bis, comma 4-bis, e 109, comma 1, T.U.F.).
La soluzione poc’anzi esposta si salda e va a sistema con l’affermazione, fatta
propria anche dalla Consob, secondo cui devono essere computate ai fini del
raggiungimento delle soglie anche le azioni detenute dagli aderenti ma formalmente non
al., op. cit., § 2.04[C], 2-32; nonché, nella giurisprudenza, GAF Corp. v. Milstein, cit., ove si è affermato
espressamente che “the history and language of section 13(d) make it clear that the statute was primarily
concerned with disclosure of potential changes in control resulting from new aggregations of
stockholdings and was not intended to be restricted to only individual stockholders who made future
purchases and whose actions were, therefore, more apparent. It hardly can be questioned that a group
holding sufficient shares can effect a takeover without purchasing a single additional share of stock”; la
stessa pronuncia rendeva anche conto che in tal senso militava chiaramente la relazione di
accompagnamento del c.d. Williams Act. Fermo restando, però, che il concerto può senz’altro tradursi
(anche) nell’acquisto concordato di partecipazioni: per un simile caso, v. Bath Industries, Inc. v. Blot, 427
F.2d 97 (7th Cir. 1970), ove un gruppo di investitori aveva posto in essere tale condotta al fine di formare
una coalizione contrapposta al management, che aveva comportato la detenzione congiunta di una
partecipazione superiore al 5% (v. per questo caso anche DAVIS, op. cit., 177). Ad ogni modo, come le
Corti hanno anche di recente rilevato, solo chi detiene una partecipazione può essere considerato membro
di un gruppo ai sensi della Section 13(d): cfr. Hemispherx Biopharma v. Johannesburg Consol. Inv, cit.
(“the goal af section 13(d)(3) is to prevent persons who already have attained beneficial ownership of
some amount of an issuer’s securities from combining to control over five percent of a class of
securities”); conf. Rosenberg v. XM Ventures, 274 F.3d 137 (3d Cir. 2001); Transcon Lines v. A. G.
Becker, Inc., 470 F. Supp. 356 (S.D.N.Y.). In dottrina, per tutti, LEVY, op. cit., 5-20; HAZEN, op. cit.,
15, per il rilievo che “Section 13(d) does not address attempts to exert control otherwise than through the
ownership of shares”.
109
Per questa opinione v. anche TUCCI, Le offerte pubbliche, cit., 937, il quale efficacemente rileva che
“la concertazione, quando rilevante, non ha per oggetto un acquisto di azioni, bensì la ‘gestione’ del
controllo societario ovvero il contrasto di un’offerta di acquisizione”; così anche GUIZZI-TUCCI, op.
cit., 266. L’acquisto di azioni, in altri termini, non entra nella nozione di “azione concertata”, affiancando
piuttosto quest’ultima quale ulteriore presupposto indefettibile al fine dell’obbligo di promozione
dell’offerta pubblica; in tal senso, difficilmente equivocabile è il disposto dell’art. 109, comma 1, T.U.F.,
che plasticamente individua l’azione concertata e gli acquisti di azioni (“effettuati anche da uno solo” dei
concertisti) quali distinti elementi della fattispecie da cui deriva l’obbligo di OPA.
110
Così BASSO, op. cit., 1020, ad avviso del quale “è preclusa la prova dell’inesistenza di una politica
comune”. Conf. BIANCHI, op. cit., 439 e 435. Ha prospettato la possibilità di dare ingresso a tale prova
contraria, invece, PINNARO’, op. cit., 829.
94
conferite nel patto parasociale111; entrambi gli assunti, infatti, sono perfettamente
coerenti con il disposto del comma 1 dell’art. 109 T.U.F., che prende espressamente in
considerazione gli acquisti di azioni “effettuati anche da uno solo” dei pattisti: infatti,
tale disposizione, da un lato sembra indicare che un disegno comune con specifico
riferimento all’atto di acquisto di azioni non sia necessario e, dall’altro, manifesta un
certo disinteresse del legislatore - preoccupato, come più volte sottolineato, di evitare
elusioni della disciplina - circa la “provenienza” delle azioni comprese nel calcolo della
soglia rilevante.112
A soluzione in parte diversa si dovrebbe forse pervenire allorché si abbia a che
fare con un patto parasociale avente ad oggetto l’acquisto di azioni [lett. c) dell’art. 122,
comma 5, T.U.F.]113; è vero che, anche in tale ipotesi, gli acquisti, quali meri
comportamenti omogenei, non possono bastare da soli a svelare l’esistenza di un
accordo parasociale, essendo necessari ulteriori elementi indiziari e dovendosi altresì
avere riguardo agli eventuali effetti che una siffatta azione congiunta può produrre sulla
società e sul mercato; è anche vero, però, che essendo la prova del patto incentrata
proprio su tale condotta, da un lato gli interessati a tale prova si troveranno nella
condizione di dover dimostrare (per quanto in via presuntiva) una volontà comune
sottesa all’effettuazione degli acquisti e, dall’altro lato, si dovrà necessariamente
riconoscere agli agenti la possibilità di contestare che gli acquisti si collochino
nell’ambito di un disegno unitario in grado di identificare un vero e proprio patto.114
111
La finalità antielusiva di tale asserto è evidente e la Consob non ha mancato di esplicitarla a più
riprese: si vedano, ad esempio, le comunicazioni n. DIS/99061705 del 13 agosto 1999 (pubblicata in
Società, 1999, 1491 ss. con commento di PICONE, Patti parasociali e opa obbligatoria, cit., 1492 ss.);
n. 99024712 del 31 marzo 1999; n. 38036 dell’8 maggio 2000 e n. 4073976 del 6 agosto 2004
(quest’ultima pubblicata in Giur.It., 2004, IV, 2115 ss., con commento di WEIGMANN). In dottrina, cfr.
BAGLIONI, op. cit., 1046; PICONE, op. ult. cit., 1494 ss.; WEIGMANN, Sub art. 109, cit., 933;
RORDORF, I sindacati di voto, cit., 22; BRUNETTA, op. cit., 217, secondo cui il fondamento normativo
dell’assunto risiederebbe nella presenza di un ulteriore patto tacito riguardante le restanti azioni; nonché
GIUDICI, L’acquisto, cit., 507, il quale, pur condividendo la conclusione, tuttavia criticava l’argomento
basato sulle conseguenze abbracciato dalla Consob, la quale rilevava che nella prassi gli aderenti ad un
patto parasociale votano nello stesso modo per tutte le azioni: l’A. osservava infatti che tale argomento
varrebbe soltanto per i sindacati di voto e che, pertanto, si rende necessario il più generale argomento
“teleologico”, in forza del quale “ignorare le azioni ‘non conferite’ al patto equivarrebbe a tradire la
funzione dell’art. 109.” La necessità che si tenga conto dell’intera partecipazione detenuta, anche se dal
punto di vista formale l’accordo riguarda solo una parte di essa, non è pacifica nella letteratura tedesca: in
tal senso VON BÜLOW-BÜCKER, op. cit., 701; contra invece LÖHDEFINK, op. cit., 324, che ritiene
rilevanti ai fini dell’imputazione solo le azioni vincolate al patto.
112
Sul punto già BIANCHI, op. cit., 445, il quale osservava come tali acquisti ben potrebbero essere
effettuati all’insaputa degli altri concertisti. V. inoltre la delibera Consob n. 99024712 del 31 marzo 1999,
cit.
113
Sul punto anche GUIZZI-TUCCI, op. cit., 260. Di ciò si è mostrata avvertita anche la Consob, nella
Delibera n. 15029 del 10 maggio 2005 relativa alla scalata Antonveneta, con la quale l’Autorità ebbe ad
accertare un “patto parasociale avente per oggetto l’acquisto concertato di azioni ordinarie della Banca
Antoniana Popolare Veneta s.p.a.”, accertamento che era seguito al riscontro di numerosi elementi
indiziari che avevano portato a ritenere esistente un progetto comune alla base degli acquisti stessi.
114
Non sembra che possano essere ravvisate ulteriori differenze tra il patto volto all’acquisto di azioni e
quelli di diversa tipologia: in Germania, si è talora affermato che mentre nel primo caso l’obbligo di
offerta sorgerebbe soltanto in seguito all’effettivo acquisto, negli altri casi sarebbe decisivo il momento in
cui l’accordo acquista efficacia (così GAEDE, op. cit., 225-226). Nel nostro ordinamento, non si potrà
mai prescindere, secondo quanto previsto dall’art. 109 T.U.F., dall’effettuazione di acquisti sul mercato
nei dodici mesi precedenti (o seguenti) il perfezionamento dell’accordo.
95
Ci si potrebbe chiedere, inoltre, se l’arco temporale di dodici mesi valga (oltre
che per gli acquisti precedenti la stipula del patto) anche per l’eventuale ipotesi in cui
essi lo seguano o siano ad esso contestuali: la risposta negativa, nel senso cioè che
dovrebbero venire in considerazione tutti gli acquisti effettuati durante la vigenza del
patto, si lascia preferire per almeno due motivi: (i) è solo per gli acquisti anteriori,
limitati appunto ai dodici mesi precedenti la stipula del patto, che si deroga al principio
- valido per le altre fattispecie rilevanti di concerto - secondo cui sono (tutti e soltanto)
gli acquisti successivi a venire in gioco (arg. ex artt. 106, comma 1, e 109, commi 1 e
2)115; (ii) inoltre, si impone anche in questo caso l’esigenza di impedire (o quantomeno
di ridurre al minimo) il rischio di facili elusioni, sebbene esso potrebbe permanere con
riferimento al limite temporale “a ritroso” di cui si è detto.116
Sempre a proposito della successione temporale in cui possono presentarsi i
presupposti dell’obbligo di offerta, occorre poi notare che se l’eventuale successiva
pubblicazione di un patto parasociale non esclude di per sé che esso risalga in realtà ad
un momento antecedente117 (magari coincidente temporalmente con la fase del
rastrellamento di azioni), è anche vero che, come osservato dalla giurisprudenza, “la
mera acquisizione di azioni seguita da un successivo accordo parasociale non
necessariamente implica di per sé sola che il patto sia stato stipulato fin dal momento
dell’acquisto, dovendosi a tal fine individuare gli elementi che consentano di ritenere
raggiunto l’accordo parasociale e riconducibile all’attuazione di esso l’acquisto
stesso.”118 Tale considerazione ha il merito di ribadire che semplici comportamenti
paralleli, quale l’acquisto di azioni, non sono sufficienti ai fini dell’insorgenza
dell’obbligo di cui all’art. 109 T.U.F. e che, soprattutto, da essi non è possibile
desumere automaticamente la preesistenza di un patto parasociale e dunque di un
concerto; detto altrimenti, non si deve cadere nell’equivoco che la seconda parte del
comma 2 dell’art. 109 T.U.F. (che, del resto, ribadisce la regola di cui al primo comma)
determini la presunzione che gli acquisti di azioni siano il frutto di un patto parasociale
ad essi preesistente.119 Tuttavia, proprio il passo giurisprudenziale testé riportato
sottolinea come non debba escludersi, al fine di individuare temporalmente la
decorrenza degli obblighi di pubblicizzazione e di OPA, la possibilità di dimostrare che
115
La ratio di tale principio è ben messa in evidenza da MOSCA, Comportamenti, cit., 472-473, e
consiste nel fatto che, in assenza di un patto parasociale, gli acquisti anteriori all’“effettivo avvio della
concertazione” non possono che esprimere, “per definizione, scelte individuali.”
116
Qualche autore se ne era reso conto poco dopo l’entrata in vigore del T.U.F.: cfr. CALLEGARI, op.
cit., 67.
117
E’ certo infatti che “il momento rilevante ai fini dell’eventuale obbligo di opa [in presenza,
naturalmente, degli ulteriori presupposti, n.d.r.] sia quello della ‘stipula’ dell’accordo e non quello della
sua eventuale, successiva nuova pattuizione formalizzata in rispetto degli obblighi posti dall’art. 122
T.U.F.”: così, correttamente, DE CANTELLIS - GIUDICI - TERRILE, op. cit., 557; in tal senso anche la
Comunicazione Consob n. DEM/DCE/75252 del 12 ottobre 2000. Similmente MOSCA, Comportamenti,
cit., 453, la quale osserva che la decorrenza dell’obbligo di OPA potrebbe essere anticipata - rispetto alla
stipula del patto - alla fase in cui si riscontri una “intensa concertazione”. Lo stesso vale, prima ancora,
per il decorso del termine per la pubblicazione del patto parasociale: v. SEMINO, Il problema, cit., 250, il
quale afferma espressamente che il dies a quo per l’adempimento degli obblighi di cui all’art. 122 T.U.F.
vada individuato in quello della stipula orale (o per fatti concludenti) degli accordi e non in quello della
loro riproduzione documentale.
118
App. Genova, 19 dicembre 2009, cit., 588.
119
Di diverso avviso, a quanto pare, COSTI-ENRIQUES, op. cit., 136 (nt. 51).
96
il patto sia stato in realtà stipulato in un momento antecedente la sua (eventuale)
effettiva manifestazione.
Le riflessioni che precedono ben si attagliano a quanto accaduto nel contesto del
complesso caso relativo alla scalata di BNL, nel quale la Consob ebbe occasione di
contestare la mancata o tardiva pubblicazione di patti parasociali, sostenendo in questo
secondo caso che gli stessi risalissero a momenti antecedenti la loro esteriorizzazione. 120
Certamente si tratta di una prova tutt’altro che agevole, anche in considerazione del
fatto che, in linea di principio, “al fine di perfezionare il vincolo contrattuale, è
necessario che tra le parti sia raggiunta l’intesa sugli elementi costitutivi, sia principali,
che secondari, dell’accordo”121. Nondimeno, la Suprema Corte ha ritenuto anche che,
“qualora l'intesa raggiunta dalle parti abbia ad oggetto un vero e proprio regolamento
definitivo del rapporto [...] non è configurabile un impegno con funzione meramente
preparatoria di un futuro negozio, dovendo ritenersi formata la volontà attuale di un
accordo contrattuale”122; e ancora, “in ipotesi di contratti a formazione progressiva, nei
quali l’accordo delle parti su tutte le clausole si raggiunge gradatamente, il momento di
perfezionamento del negozio è di regola quello dell’accordo finale su tutti gli elementi
principali ed accessori, salvo che le parti abbiano inteso vincolarsi negli accordi
raggiunti sui singoli punti, riservando la disciplina degli elementi secondari” 123. Al fine
di operare tale valutazione volta all’individuazione del momento in cui il patto può dirsi
effettivamente stipulato, occorrerà servirsi dei criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362
ss. c.c. e, conformemente a quanto sopra osservato, soffermare in particolare
l’attenzione sul comportamento delle parti successivo alla presunta conclusione
dell’accordo contrattuale (rectius: parasociale).124
120
Sui patti parasociali legati al caso BNL, si vedano i quattro casi decisi, tutti in senso sfavorevole alle
contestazioni mosse dalla Consob, da: App. Roma, 29 settembre 2009 (decr.), cit.; App. Genova, 19
dicembre 2009, cit.; App. Bologna, 26 gennaio 2010 (decr.), cit.; App. Bologna, 27 gennaio 2010 (decr.),
cit.
121
Così Cass. 11 gennaio 2005, n. 367, in Giust. civ. Mass., 2005, I; nonché Cass. 20 giugno 2006, n.
14267, pubblicata in parte in Società, 2007, 1111 ss. con nota di PISELLI, I patti parasociali tra diritto
dei contratti e diritto societario, ibidem, 1112 ss.: si legge nella sentenza che “ai fini della configurabilità
di un definitivo vincolo contrattuale è necessario che tra le parti sia raggiunta l’intesa su tutti gli elementi
dell’accordo, non potendosene ravvisare pertanto la sussistenza là dove, raggiunta l’intesa solamente su
quelli essenziali ed ancorché riportati in apposito documento, risulti rimessa ad un tempo successivo la
determinazione degli elementi accessori”, con l’avvertenza che tale accertamento “è rimesso alla
valutazione del giudice di merito, incensurabile in Cassazione ove sorretta da motivazione congrua ed
immune da vizi logici e giuridici”. Negli stessi termini, più di recente, Cass. 4 febbraio 2009, n. 2720, in
Guida al diritto, 2009, 12, 51 ss. e in www.dejure.giuffre.it. Sulla tendenziale irrilevanza della fase delle
trattative precedenti la stipula del patto v. anche MOSCA, Comportamenti, cit., 452.
122
Cass. 4 febbraio 2009, n. 2720, cit.; nonché, in precedenza, Cass. 7 aprile 2004, n. 6871, in Giust. civ.
Mass., 2004, 4 e in www.dejure.giuffre.it.
123
Cass. 24 ottobre 2003, n. 16016, in Giust. civ. Mass., 2003, 10, e in Contratti, 2004, I, 221 ss. In tal
senso anche Trib. Belluno, cit., 1497.
124
Cfr. App. Genova, 19 dicembre 2009, cit.; nonché Cass. 4 febbraio 2009, n. 2720, cit., ove si è
precisato che tali criteri valgono non solo per individuare il contenuto dell’accordo, ma anche al fine di
verificare se si è in presenza di un accordo vincolante.
97
9. Segue: accertamento dei patti parasociali occulti e permanenza delle
condotte attuative; la rilevanza dei patti a carattere occasionale.
Dopo aver stabilito che i due presupposti dell’obbligo di offerta contemplati
dall’art. 109 T.U.F. non richiedono una rigorosa e prestabilita successione temporale,
posto che la prova per presunzioni non può che basarsi, in prima battuta, sul
comportamento tenuto dalle parti, si pone un ulteriore interrogativo: ci si deve chiedere,
cioè, se il permanere della condotta attuativa dei partecipanti all’accordo sia un
elemento determinante al fine di considerarlo persistente e, dunque, di far scattare
l’obbligo di promozione dell’offerta pubblica di acquisto. In altri termini, occorre
verificare se, in caso di acquisti non contestuali di azioni, sia necessario accertare e
provare (non solo l’originaria esistenza, ma anche) la permanenza dell’accordo al
momento del superamento della soglia rilevante (qualora questo si determini soltanto in
epoca successiva), o comunque durante tutto l’arco di tempo nel quale si protraggono
gli acquisti.125
Il problema si è posto con evidenza nel noto e già menzionato caso SAIFondiaria, nel quale si sono succeduti tre comunicati della Consob: in un primo tempo,
l’autorità accertò, presuntivamente, l’esistenza di un patto occulto; successivamente,
essa ritenne non più esistente l’accordo proprio in ragione dell’avvenuta interruzione
dell’agire concertato tra SAI e Mediobanca ed originariamente diretto al
raggiungimento del controllo congiunto di Fondiaria; infine, tornò sui suoi passi e, con
un ulteriore comunicato nel quale esprimeva il proprio ravvedimento (sul piano, si badi,
meramente fattuale), ritenne che tale patto era invece da considerarsi ancora sussistente.
Un indirizzo interpretativo cui si ritiene di aderire, contestando la bontà
dell’operato della Consob nel caso testé menzionato, ha negato, una volta raggiunta la
prova dell’esistenza del patto, la rilevanza della persistenza dei successivi ed ulteriori
comportamenti attuativi dell’accordo.126 Si è osservato, in particolare, che “la Consob si
è addossata, nei fatti, l’oneroso compito di verificare, in relazione al patto già ‘svelato’,
la permanenza dell’interesse perseguito e l’attualità dell’accordo, con il pericolo di
avviare una prassi inopportuna: il rischio, cioè, di voler dimostrare, in ogni momento, la
‘vitalità’ dei patti parasociali nulli, dovendo, di conseguenza, dichiarare scaduti gli
accordi dei quali non si sia più in grado di provare la continua concertazione.” 127
Per tali ragioni, fermo restando che dovrà verificarsi la coesistenza di tutti i
presupposti dell’OPA obbligatoria in un dato momento, è senz’altro preferibile ritenere
che l’accertamento dell’iniziale esistenza dell’accordo avrà l’effetto di porre a carico dei
pattisti l’onere di fornire un’eventuale prova contraria, avente cioè ad oggetto la non più
125
La questione è stata così descritta da DESANA, Opa obbligatoria, cit., 2113.
Questo il pensiero di MOSCA, Acquisti di concerto, cit., 1300. Similmente si era già pronunciata App.
Milano, 28 febbraio 2003, cit., ove si leggeva che “l’insorgenza di divergenze tra i pattuenti, in
dipendenza di un successivo dispiegarsi della vicenda non funzionale all’ipotesi propinata, non acquisisce
il significato di prova dell’inesistenza del precedente accordo”.
127
Così, nuovamente, MOSCA, Acquisti di concerto, cit., 1301. V. inoltre DESANA, Opa obbligatoria,
cit., 2113, la quale ha evidenziato che “l’obbligo di una nuova verifica in ordine alla permanenza del
patto, infatti, finisce con il premiare coloro che, in violazione degli obblighi pubblicitari, non hanno
comunicato l’esistenza di accordi per il controllo di una società quotata, riversando sull’Autorità di
vigilanza l’onere di un doppio accertamento”.
126
98
attuale vigenza dell’accordo128 (o anche, sempre al fine di esonerarsi dall’obbligo e in
linea con quanto precedentemente sostenuto, l’inesistenza dell’esercizio congiunto di
un’influenza dominante sulla società).
Né può obiettarsi, in senso contrario, che il quarto comma dell’art. 101-bis
T.U.F. individua tra gli elementi del concerto - insieme all’accordo volto a controllare la
società o a contrastare un’OPA - la cooperazione tra gli agenti: nel caso in cui sia
ritenuta raggiunta la prova dell’esistenza di un patto parasociale, infatti, viene meno la
necessità di dimostrare la ricorrenza dei singoli elementi della fattispecie del concerto e,
pertanto, ciò che dovrà essere verificato, accanto appunto alla stipula - espressa o tacita
- dell’accordo, sarà soltanto il superamento delle soglie di partecipazione rilevanti in
seguito ad acquisti di azioni sul mercato.129
Le conclusioni qui raggiunte consentono altresì di precisare il valore e la portata
che possono avere, nell’ambito normativo in esame, i patti occulti a carattere episodico,
conclusi in vista di una specifica e puntuale occasione, come tipicamente avviene nel
caso di una determinata assemblea. Nell’ordinamento tedesco, lo si ricorda, il § 22
WpHG e il § 30 WpÜG escludono espressamente la rilevanza di intese riguardanti casi
singoli (“Vereinbarungen in Einzelfallen”), ma il dibattito dottrinale, come si è visto, è
alquanto acceso sul significato da attribuire a tale eccezione. Per quanto concerne la
disciplina contenuta nel Testo Unico della Finanza, se ai sensi dell’art. 122 T.U.F. ogni
patto parasociale - in assenza di dati testuali e di elementi di carattere sistematico di
segno contrario - è destinato ad essere pubblicizzato (sempre che, naturalmente, sia
riconducibile ad una delle categorie previste dalla norma), la questione deve essere
trattata in maniera specifica nel contesto dell’offerta pubblica di acquisto
obbligatoria.130 Tra l’altro, se la dottrina tedesca tende in prevalenza ad interpretare
diversamente, pur nella pressoché assoluta coincidenza del dato letterale, le due norme
testé richiamate in quanto aventi uno scopo distinto, è legittimo pensare che una
divaricazione degli ambiti applicativi debba essere professata, a maggior ragione, nel
nostro ordinamento, in cui, pur essendo l’art. 122 T.U.F. richiamato nella presunzione
128
Così ancora DESANA, op. ult. cit., 2113. Si noti che tale conclusione presenta un’affinità di ordine
sistematico con quella raggiunta nel primo capitolo, con particolare riferimento all’art. 2341-ter c.c., in
tema di poteri degli organi sociali allorché un patto parasociale sia stato comunicato alla società ma poi
non dichiarato in apertura di assemblea: anche in questa ipotesi, si è detto, la perdurante vigenza del patto
parasociale andrà presunta, salva la possibilità dei pattisti di fornire la prova che l’accordo ha invece
esaurito i suoi effetti.
129
Tale conclusione è conforme a quella cui è pervenuta la dottrina tedesca che più diffusamente ha
studiato l’argomento: cfr. LÖHDEFINK, op. cit., 304, il quale ha espressamente sostenuto che “für die
Tatbestände des Übernahmeangebots und des Pflichtangebots genügt es, daß sämtliche
Tatbestandsvoraussetzungen zu einem bestimmt Zeitpunkt erfüllt waren” (cioè, “nell’ambito delle norme
in tema di trasparenza e di offerta pubblica è sufficiente che tutti i presupposti della fattispecie sono stati
integrati in un determinato momento”).
130
Proprio per tale ragione, non risulta condivisibile la tesi di chi ha escluso in via generale la rilevanza
dei patti a carattere occasionale nelle società quotate anche sulla base dell’argomento che gli obblighi di
OPA “sono rivolti a consentire l’uscita a chi non sia soddisfatto del mutamento dell’assetto di governo
della società, ma non anche a chi non sia soddisfatto dell’esito di una singola votazione di nomina degli
amministratori”: così TRIMARCHI, I patti parasociali, cit., 141. Invero, ai fini dell’OPA obbligatoria
(ma a differenza di quanto accade in relazione agli obblighi pubblicitari) il patto non è di per sé
sufficiente a completare la fattispecie, essendo comunque necessario riscontrare altresì il superamento
della soglia rilevante da parte dei concertisti.
99
legale di concerto di cui all’art. 101-bis, comma 4-bis, T.U.F., non si può certo dire che
le due disposizioni abbiano un identico contenuto precettivo (dovendo tra l’altro
quest’ultima combinarsi con il disposto dell’art. 109 T.U.F. ai fini dell’individuazione
dei presupposti dell’obbligo di offerta).
Orbene, le tappe sin qui percorse forniscono una possibile chiave di lettura anche
di questa ulteriore questione, tenendo presente che, lo si ripete, la stipulazione del patto
parasociale può precedere o seguire, senza significative ricadute applicative, l’acquisto
di azioni che conduce al superamento della soglia rilevante. Per comodità espositiva,
tuttavia, è preferibile distinguere le due ipotesi.
Nel caso in cui si accerti che il patto non comunicato risalga ad epoca
antecedente l’acquisto di azioni, si è poc’anzi ritenuto che un ulteriore successivo
accertamento della persistenza degli effetti - concreti - dell’accordo non sia necessario,
pur restando aperta, si è detto, la possibilità per i concertisti di dimostrare che questo
non ha più prodotto alcun effetto: non si tratterà, evidentemente, degli effetti giuridici
(giacché il patto è irrimediabilmente nullo), bensì degli effetti di ordine pratico
consistenti nella sua attuazione e nel fattivo esercizio di un’influenza dominante sulla
società. Dunque, diviene evidente come l’oggetto di tale prova liberatoria venga a
coincidere con quello individuato, sul piano generale, con riferimento al momento in cui
risultino realizzati tutti i presupposti dell’obbligo di offerta: si tratterà di dimostrare che,
nonostante l’originario perfezionamento dell’accordo, questo non produce alcun effetto
ulteriore sul controllo della società, inteso come effettivo esercizio di dominio sulla
stessa, reso possibile dalla concreta cooperazione degli aderenti. Per tali ragioni, non
sarebbe fondata l’obiezione, per la verità comunque generica, secondo cui l’esclusione
della rilevanza di patti che esauriscano puntualmente i loro effetti aprirebbe ad elusioni
della disciplina; non di elusioni, infatti, si tratterebbe, posto che l’obbligo di offerta è da
ritenersi giustificato soltanto in presenza di eventi che determino (e abbiano
determinato) una significativa variazione - o che, viceversa, la impediscano - sul piano
del controllo societario, come sopra inteso; allorché tali fenomeni in concreto non si
riscontrino, non vi è ragione per non rendere possibile un esonero dall’obbligo di offerta
(sempre che, ovviamente, la prova liberatoria abbia successo). 131
Lo stesso ragionamento può valere per la diversa ipotesi - canonica, secondo
quanto risulta dall’art. 109 T.U.F. - in cui il patto parasociale risulti stipulato in seguito
all’acquisto di azioni. Anche in questo caso, nonostante tutti i requisiti necessari per
l’insorgenza dell’obbligo possano ritenersi integrati dopo l’accertamento del patto, non
si potrà negare spazio alla prova liberatoria di cui si è detto.
131
Così come nell’ordinamento tedesco, anche in quello francese si esclude che nella nozione di concerto
possa rientrare un’operazione di carattere puntuale i cui effetti si esauriscano con la stessa, ma essa può
essere anche un’operazione di carattere temporaneo: cfr. Cour de cassation, 27 ottobre 2009, n. 0818.779, in Revue des sociétés, 2010, 114 ss. Nello stesso senso, ancor prima, la Cour d’appel de Paris, 24
giugno 2008, Gecina, in Revue des sociétés, 2008, 644 ss., con nota di LAPRADE, On peut aussi agir de
concert pour séparer, ibidem, 651 ss. L’assunto è ormai acquisito nell’elaborazione dottrinale e
giurisprudenziale d’oltralpe: cfr. sul punto ancora LAPRADE, Concert et côntrole, cit., 190-191, ove si
osserva che l’esigenza posta dalla norma che l’accordo sia concluso “in vista di” (“en vue de”)
presuppone proprio una certa prospettiva temporale.
100
A questo punto, sulla base di tale conclusione, sembra altresì risultare
ridimensionato (almeno in questo ambito del nostro ordinamento) il problema, che tanto
affatica gli interpreti tedeschi, circa il significato da attribuire all’eccezione del patto
concluso in casi singoli: si discute se, nella nozione di caso singolo, l’accento debba
essere posto sull’episodicità della condotta o piuttosto sulla puntualità dei relativi
effetti, che si esauriscano cioè in un intervallo temporale pressoché istantaneo senza
durevoli ripercussioni sull’andamento del governo della società. Ebbene, è possibile
prospettare l’idea che, sulla scorta del significato che assume il controllo congiunto nel
nostro ordinamento in questo specifico contesto, gli effetti del patto che ne è alla base
non possano in realtà andare disgiunti dalle condotte che li producono. E’ vero che,
come osservato da più parti, il concetto di influenza dominante può forse risolversi, in
termini generali, nella capacità del gruppo di azionisti di determinare la nomina
dell’organo amministrativo132; non è meno vero, però, che questa idea sembra dare
implicitamente per scontato che a tale nomina faccia seguito l’esercizio di un’influenza
- in termini puramente fattuali e non certo limitata alla condotta tenuta nell’assemblea di
nomina - sugli amministratori ad opera del gruppo di comando, attraverso canali non
propriamente istituzionali e facendo leva sul rapporto esistente tra i primi ed il secondo;
ora, questo tipo di influenza richiederà certamente che gli azionisti che la esercitano
continuino a comportarsi in maniera omogenea in attuazione del programma comune,
all’interno o all’esterno dell’assemblea. E’ dunque difficile immaginare un’influenza
(dominante, per di più) dispiegata sulla base di una condotta puramente puntuale, che si
mostri in grado (ipotesi, questa, più teorica che reale) di produrre effetti di lunga durata
sul controllo e sul governo della società.133
10. Modifiche occulte dei patti parasociali ed effetti della risoluzione del
patto sull’obbligo di offerta.
Si è già affrontato nel primo capitolo il tema degli obblighi di pubblicazione
delle modifiche successivamente apportate ad un patto parasociale.
Ai fini dell’obbligo di lancio di un’offerta pubblica di acquisto, tuttavia, la
gravità delle conseguenze giuridiche in questione induce a pensare che non tutte le
variazioni dei connotati del patto possano indistintamente rilevare.134
132
Così, ad esempio, NOTARI-BERTONE, op. cit., 710.
Si può quindi concordare con chi ha scritto che “l’accordo ex art. 93 lett. b) [...] debba avere carattere
di stabilità, essendo in contraddizione con la nozione stessa di controllo l’idea di una maggioranza che si
costituisca per circostanze occasionali”: così VOLPE, op. cit., 873.
134
Sul punto TUCCI, Patti parasociali, cit., 198 ss., critico verso l’orientamento della Consob teso a
valorizzare le circostanze del caso concreto; WEIGMANN, Sub art. 109, cit., 935 ss. Per una disamina
anche casistica v. inoltre BIANCHI, op. cit., 445 ss. Nella dottrina tedesca, si è escluso ad esempio che
possa rilevare la semplice adesione di un nuovo socio ad un patto tra azionisti che già detengono il
controllo della società (e continuerebbero a detenerlo anche senza la partecipazione del primo): cfr.
RALOFF, op. cit., 262, la quale argomenta a partire dal rilievo che gli azionisti di minoranza non
necessiterebbero in tal caso della protezione loro garantita in via generale dall’obbligo di OPA. Secondo
l’A., rileva unicamente, oltre all’acquisto del controllo, soltanto un successivo ricambio nel controllo
della società (ibidem, 263-264).
133
101
La Consob ha affrontato a più riprese la questione, ritenendo da un lato che
occorre verificare se si sia in presenza di modifiche sostanziali degli assetti di controllo
“tali da far ritenere che si sia in presenza di un patto nuovo e diverso dal precedente”135;
dall’altro, che il problema dell’accertamento dell’obbligo di OPA si pone “pur in
assenza di un incremento della partecipazione complessivamente ascrivibile ai membri
del patto, qualora i mutamenti determinino una vera e propria novazione, o comunque
implichino una significativa modificazione delle regole di funzionamento del patto o
degli assetti di potere esistenti al suo interno”136. E’ proprio in questi termini che
l’Autorità ha risolto, in particolare, il problema della semplice sostituzione di un
membro ad un altro (qualora, beninteso, la quota complessiva di partecipazione
riconducibile ai concertisti rimanga invariata), nonché quello del trasferimento di azioni
intervenuto tra i partecipanti all’accordo.137 Più di recente, la Consob ha precisato essere
“necessaria una significativa modificazione degli assetti di potere interni al patto, che
può verificarsi solo nel caso in cui un nuovo socio sia in grado di esercitare una stabile
preminenza all’interno del patto o di disporre di uno stabile potere di veto sulle
decisioni che attengono alla gestione ordinaria della società” 138.
E’ bene tenere presente che queste affermazioni di carattere generale non si
riferiscono direttamente ai patti parasociali occulti e alle loro modifiche, ma possono
fornire utili indicazioni anche per l’ipotesi che qui maggiormente interessa, ossia quella
in cui venga mantenuta segreta la modifica apportata ad un patto parasociale già
esistente. Occorre precisare, infatti, che lo specifico problema de quo ha ragione di porsi
(solo) nel caso in cui il patto originario sia stato regolarmente reso noto, applicandosi
altrimenti i principi generali già esaminati (e che si esamineranno anche nel prosieguo
135
Cfr. Comunicazione n. 99024712 del 31 marzo 1999. Tale soluzione è stata criticata da COSTIENRIQUES, op. cit., 137, secondo i quali essa lascerebbe un eccessivo margine di discrezionalità alla
Consob: gli A. proponevano pertanto il più definito criterio della modifica - dovuta, appunto, ai
trasferimenti di azioni - di per sé “sensibile alle soglie”.
136
Così Comunicazione n. DIS/99061705 del 13 agosto 1999, cit.; nonché, nello stesso senso,
Comunicazione n. 38036 del 18 maggio 2000, e Comunicazione n. 61943 del 9 agosto 2000. La posizione
della Consob, che sembrerebbe aver riguardo soltanto ai casi “di cambio immediato ed avvertibile del
controllo” è stata criticata in dottrina, dal momento che la struttura normativa delle disposizioni in tema di
OPA obbligatoria sembrerebbe “indifferente alla velocità con cui si tocca e si supera la soglia”: così
GIUDICI, L’acquisto, cit., 510. Tale orientamento è stato confermato dall’Autorità con numerose ulteriori
comunicazioni: cfr. ad es. Comunicazioni nn. DEM/2010342 del 14 febbraio 2002, DEM/2042919 del 14
giugno 2002, DEM/DCL/7096246 del 26 ottobre 2007, DEM/7103030 del 20 novembre 2007,
DEM/8085779 del 17 settembre 2008 e DEM/9023135 del 16 marzo 2009.
137
Con la Comunicazione n. 38036 del 18 maggio 2000, la Consob ha precisato inoltre che possono
rilevare trasferimenti interni al patto che, lasciando inalterata la compagine degli aderenti, comportino
mutamenti idonei ad alterare la fisionomia originaria dell’accordo. Poco dopo l’entrata in vigore del
T.U.F., di diverso avviso era MONTALENTI, OPA, cit., 158, il quale sembrava più drasticamente
escludere la rilevanza di ogni trasferimento interno alla compagine degli aderenti all’accordo in assenza
di modifiche di ordine quantitativo alla partecipazione complessiva; ma per l’opinione opposta
WEIGMANN, La nuova disciplina delle OPA, in La riforma delle società quotate, a cura di F. Bonelli,
V. Buonocore, F. Corsi, R. Costi, P. Ferro-Luzzi, A. Gambino, P. G. Jaeger, A. Patroni Griffi, Milano,
1998, 206. Anche nella dottrina tedesca, si è sostenuta l’irrilevanza di cambiamenti della compagine di
controllo (sia in entrata che in uscita), senza che si determini un vero e proprio trasferimento dello stesso:
così RALOFF, op. cit., 264, ove si è evidenziata l’ininfluenza, ai fini del § 30, di riduzioni o ampliamenti
del gruppo di controllo; viceversa, l’A. ha affermato essere rilevante il passaggio dal controllo congiunto
al controllo individuale (ibidem, 266 ss.).
138
Così la Comunicazione n. 10064646 del 22 luglio 2010, in Bollettino Consob 7/2/2010, pubblicata
anche in Società, 2010, 1157-1158.
102
di questo capitolo) inerenti al suo accertamento ed alla verifica dei presupposti
dell’OPA obbligatoria. Ciò detto, occorrerà distinguere sostanzialmente due ipotesi,
vale a dire: (i) quella in cui gli aderenti al patto originariamente pubblicato non
detenessero inizialmente e complessivamente una partecipazione superiore alle soglie
rilevanti; (ii) quella in cui, viceversa, i membri del patto già superassero tali soglie ma
non sussistessero i presupposti per l’insorgenza dell’obbligo di offerta, ad esempio per
mancanza di acquisti di azioni nell’arco di tempo individuato dall’art. 109 T.U.F.
L’ipotesi sub (i) sembra meno problematica: se la modifica - tenuta nascosta del patto parasociale ha determinato il superamento delle soglie (attraverso l’ulteriore
acquisto, magari indiretto, di azioni da parte di uno dei pattisti, o anche tramite
l’adesione di un nuovo socio che abbia acquistato azioni nei dodici mesi precedenti e
che, accedendo all’accordo, consenta il superamento delle soglie) sorgerà
indubbiamente l’obbligo di promozione dell’OPA (purché, ovviamente, la modifica
occulta venga adeguatamente provata e portata alla luce)139.
Nell’ipotesi sub (ii), invece, occorre chiedersi se una variazione dell’assetto
interno al patto possa di per sé determinare l’insorgenza dell’obbligo di offerta.
Premesso che (cfr. cap. I, § 9) la modifica non regolarmente comunicata rende - in linea
di principio - nullo il patto nella sua interezza, nel caso in cui si verifichino anche
semplicemente ulteriori acquisti di azioni da terzi sul mercato non vi è dubbio che la
risposta debba essere affermativa, come emerso anche dall’analisi condotta nei paragrafi
precedenti.140 Meno immediata è la soluzione qualora si verifichi soltanto, come detto,
una variazione consistente nel trasferimento interno - anche indirettamente, per mezzo
di soggetti interposti - di azioni, ossia tra i membri del patto: in tal caso, possono essere
di aiuto le affermazioni della Consob poc’anzi riportate, in base alle quali l’obbligo di
offerta potrebbe giustificarsi solo se la modifica (purché, lo si ripete, venga alla luce)
determini anche un’alterazione degli assetti di potere all’interno della compagine. 141 La
139
Anche la Consob ha preso atto che “se uno o più degli aderenti al patto nullo acquistano a titolo
oneroso e tale acquisto comporta il superamento della soglia da parte dell'insieme dei partecipanti,
l'obbligo sussiste”: così la Comunicazione n. 75252 del 12 ottobre 2000, cit.
140
Ciò è pacifico anche nel Regno Unito: il Takeover Panel ha espressamente certificato che “when the
group is interested in shares carrying 30% or more of the voting rights in a company but does not hold
shares carrying more than 50% of such voting rights, an offer obligation will arise if an interest in any
other shares carrying voting rights is acquired from non-members of the group” (: “quando il gruppo
detiene partecipazioni che attribuiscono il 30% o più dei diritti di voto nella società ma non detiene
partecipazioni che attribuiscono più del 50% di tali diritti di voto, un obbligo di offerta sorgerà se
un’ulteriore partecipazione con diritto di voto è acquistata da soggetti esterni al gruppo”): cfr. The
Takeover Code, cit.
141
In tal senso v. anche RORDORF, Il contratto sulla società: patti parasociali, in Trattato del contratto,
a cura di V. Roppo, Milano, 2006, v. VI, 786; MOSCA, Comportamenti, cit., 474-475. E’ interessante
ravvisare una conclusione analoga nelle affermazioni del Takeover Panel britannico, là dove, dopo aver
precisato che in determinate circostanze anche i trasferimenti interni al patto potranno far scattare
l’obbligo di offerta, ha dichiarato che “whenever a group acting in concert is interested in shares which
together carry 30% or more of the voting rights in a company and as a result of an acquisition o fan
interest in shares from another member of the group a single member comes to be interested in shares
carrying 30% or more or, if already interested in shares carrying over 30%, acquires an interest in any
other shares carrying voting rights, the factors which the Panel will take into account in considering
whether to waive the obligation to make an offer include: (a) whether the leader of the group or the
member with the largest individual interest in shares has changed and whether the balance between the
interests in the group has changed significantly […]”. Il tutto si può tradurre così: “ogni qual volta un
103
stessa conclusione può attagliarsi all’eventualità in cui la variazione interna non consista
tanto nel trasferimento di partecipazioni tra i membri, bensì nel mutamento delle regole
del rapporto che conduca a nuovi equilibri di potere all’interno del gruppo. 142
E’ nella cornice del tema delle modifiche ai patti parasociali che viene in rilievo
un altro aspetto senz’altro meritevole di attenzione. Come prevede espressamente l’art.
109 T.U.F., gli acquisti rilevanti ai fini del raggiungimento delle soglie possono essere
effettuati anche da uno soltanto dei concertisti, a nulla rilevando il fatto che ciò avvenga
all’insaputa degli altri.143
Proprio per tutelarsi di fronte ad una simile eventualità, che comporterebbe
l’insorgenza dell’obbligo solidale di lancio dell’OPA in capo a tutti gli aderenti, in sede
di stipulazione del patto parasociale i soci potrebbero convenire che il contratto si
risolva qualora, a seguito degli acquisti effettuati da uno di essi, venga a determinarsi il
complessivo superamento della quota rilevante per l’OPA obbligatoria. Un simile
congegno negoziale potrebbe però essere ideato proprio per eludere le conseguenze
previste dall’art. 109 e dall’art. 110 T.U.F. (che stabilisce le conseguenze
dell’inadempimento degli obblighi di OPA): i membri del patto, cioè, potrebbero aver
regolarmente pubblicizzato l’accordo ab origine proprio al fine di rendere nota anche la
predetta clausola risolutiva espressa ed ingenerare la convinzione che, una volta
superata la soglia rilevante, il patto parasociale sia destinato automaticamente a venire
meno.
Sul trattamento da riservare a tale fattispecie, si registrano in dottrina due diversi
orientamenti. Secondo una prima tesi, la risoluzione del rapporto comporterebbe il venir
meno dell’obbligo di promozione dell’OPA, in quanto segnerebbe inequivocabilmente
il venir meno della volontà di coordinarsi da parte dei pattisti144; si evidenzia, a sostegno
di tale opinione, che non potrebbe giocare un ruolo decisivo in senso contrario la
rilevanza dei patti anche nulli, espressamente sancita dall’art. 101-bis T.U.F.: altro
gruppo di concertisti detiene partecipazioni che attribuiscono il 30% o più dei diritti di voto di una società
e come risultato di un acquisto da un altro membro del gruppo un singolo membro viene a detenere una
partecipazione pari o superiore al 30% o, se già detiene una partecipazione superiore, acquista una
qualsiasi ulteriore partecipazione con diritto di voto, i fattori che il Panel prenderà in considerazione per
verificare l’insorgenza di un obbligo di offerta comprendono: (a) se il leader del gruppo o il membro con
la più ampia partecipazione è cambiato e se l’equilibrio di potere tra le partecipazioni è variato in modo
significativo [...]” (cfr. The Takeover Code, cit.).
142
Contra PICONE, Patti parasociali, cit., 1496, in base all’argomento che la disciplina del concerto (sin
dalla sua versione originaria prevista dal T.U.F.) abbia soppresso la rilevanza del controllo individuale da
sindacato e, dunque, reso irrilevante la posizione individuale dei singoli pattisti. Tale rilievo, per quanto
in linea di massima corretto, non sembra poter giocare un ruolo significativo nell’ipotesi in esame: a parte
la possibilità di qualificare i trasferimenti di azioni interni al patto come acquisti rilevanti ai fini della
norma sul concerto, occorre osservare come la decisione presa segretamente dai pattisti, ad esempio, di
esercitare il diritto di voto secondo le indicazioni di uno di essi, possa indubbiamente spostare gli equilibri
riguardanti l’esercizio del controllo della società. Né si può obiettare che tale accordo modificativo non
comunicato sarebbe nullo e, come già detto, probabilmente in grado di travolgere l’intera pattuizione
parasociale: sino alla sua scoperta, infatti, esso potrebbe di fatto essere messo in esecuzione e spiegare i
suoi effetti sul governo della società. Non vi è dubbio, per altro verso, che, immutati la composizione e
l’assetto interno del patto, nessun obbligo di offerta sorga per il semplice fatto che i membri decidano
semplicemente un mutamento di strategia nelle scelte gestorie e di governo societario: sul punto
BRUNETTA, op. cit., 221.
143
Sul punto v. anche TUCCI, Patti parasociali, cit., 192.
144
Tesi, questa, prospettata da GIUDICI, L’acquisto, cit., 512.
104
sarebbe, infatti, un patto nullo ma comunque messo in esecuzione dai suoi membri, altro
il patto risolto, contraddistinto, appunto, dalla sopravvenuta mancanza di volontà di
agire in via concertata.
Si è però anche sostenuto, in base ad una diversa impostazione, che l’operatività
della clausola risolutiva espressa non potrebbe pregiudicare la piena applicazione
dell’art. 109 T.U.F.145: da un lato, occorrerebbe evitare facili elusioni della disciplina
dell’OPA obbligatoria; dall’altro, si rileva che la diversa soluzione dovrebbe, per
ragioni di coerenza, valere anche nell’ipotesi di risoluzione consensuale, intervenuta (a
prescindere dall’esistenza della suddetta clausola) in seguito al superamento delle
soglie, con il risultato però di “degradare l’offerta totalitaria da concerto a oggetto di
un’obbligazione alternativa”, rimessa interamente alla volontà degli agenti.146
A ben guardare, nessuno dei due argomenti invocati a sostegno di quest’ultima
posizione - a prima vista indubbiamente suggestiva - risulta, però, del tutto persuasivo.
Non lo è il primo, giacché anche chi ha sostenuto la tesi del venir meno dell’obbligo di
OPA riconosce che resta salvo l’obbligo di lancio dell’offerta pubblica qualora si
dimostri che, nonostante l’operare della clausola risolutiva espressa, il patto non sia
concretamente rimasto privo di effetti in ragione della persistenza di comportamenti
conformi all’attuazione del medesimo147; da questo punto di vista, la necessità di
impedire una facile elusione della disciplina sembra fatta salva anche dalla prima delle
due soluzioni prospettate. Né convince il secondo argomento invocato a sostegno della
tesi più “rigida”. La risoluzione consensuale del patto parasociale è infatti una
fattispecie diversa che non può essere chiamata in causa al fine di invocare una pretesa
parità di trattamento: in tal caso, infatti, l’obbligo è già scattato e il relativo effetto non è
più disponibile per gli obbligati, perché la fattispecie dell’acquisto di concerto si è già
perfezionata; mentre la risoluzione (automatica) del patto al momento dei successivi
acquisti impedisce di ritenere integrata la fattispecie rilevante, venendo a mancare la
necessaria coesistenza della vigenza del patto con l’acquisto che comporta il
superamento della soglia148.
145
Tesi, quest’altra, che sembra prevalente: cfr. TUCCI, Patti parasociali, cit., 193 ss.; GUIZZI-TUCCI,
op. cit., 266, i quali rilevano in via generale che i paciscenti estranei all’acquisto non potrebbero “addurre
l’inadempimento del patto quale ‘circostanza esimente’, rispetto all’obbligo solidale di offerta”
(intendendosi per inadempimento proprio l’acquisto ulteriore di azioni compiuto da taluno all’insaputa
degli altri pattisti); nonché ROMAGNOLI, Diritti dell’investitore, cit., 186.
146
Queste le parole di TUCCI, op. ult. cit., 195.
147
Di nuovo GIUDICI, L’acquisto, cit., 512. Cfr. in senso analogo MONTALENTI, OPA, cit., 157,
secondo il quale occorrerebbe (pare, in via generale e a prescindere dalla presenza di una vera e propria
clausola risolutiva espressa) il consenso degli altri aderenti affinché vengano “sindacate” anche le azioni
acquistate successivamente alla stipula dell’accordo (e, dunque, siano computate nell’ambito della
partecipazione complessiva), a meno che sia riscontrabile che a tale acquisto successivo sia seguito “il
concerto di fatto”.
148
E’ interessante ravvisare uno spunto nel senso della tesi qui proposta anche nel Practice Statement no.
26 dello UK Takeover Panel, cit., ove si afferma che “no mandatory offer would be required if, at the
time that any such agreement or understanding is reached, steps are taken to prevent the acquisition of
interests in shares in the relevant company by the activist shareholders” (cioè, “nessuna offerta
obbligatoria sarà richiesta se al tempo in cui l’accordo o l’intesa sono conclusi, vengono prese misure per
impedire l’acquisizione di partecipazioni nella società bersaglio da parte degli azionisti concertanti”:
ibidem, 9).
105
Come accennato, resta aperta la possibilità di dare ingresso all’accertamento che
la successiva azione comune, nonostante il dissolversi degli effetti giuridici connessi
all’accordo originariamente concluso, abbia dato seguito ad un vero e proprio patto
parasociale e, magari, abbia presentato tutte le caratteristiche tipiche dell’esercizio di
un’influenza dominante.149 Né sembra particolarmente incisiva l’obiezione secondo cui,
così ragionando, si finirebbe però per addossare agli interessati la prova della persistente
vigenza (per quanto soltanto fattuale) dell’originario patto, “alleggerendo” la posizione
dei suoi componenti150: come si è già osservato nel capitolo precedente in relazione
all’ipotesi del rinnovo tacito del patto, proprio perché la situazione in esame concerne
un patto che era stato originariamente pubblicato, tale prova può ritenersi più agevole di
quella richiesta in via ordinaria, giacché il riscontro di condotte conformi all’accordo
già noto (e formalmente risoltosi) rappresenterà un indizio molto solido e difficilmente
smentibile nel senso della perdurante sussistenza di un legame tra gli originari
pattisti.151 Certo, in conformità a quanto precedentemente prospettato in via generale,
non potrà negarsi ai presunti pattisti la prova contraria (a quel punto non certo semplice)
dell’inesistenza in concreto di un’influenza dominante da loro congiuntamente
esercitata sulla società.
Come si è più volte ricordato, il patto parasociale rilevante ai sensi degli artt.
101-bis e 109 T.U.F. può essere anche nullo, il che significa che la produzione dei suoi
effetti giuridici non è in questo contesto un fattore determinante. Nell’ipotesi poc’anzi
illustrata, come si è detto, nemmeno l’argomento che equipara il contratto risolto al
contratto nullo, per concludere nel senso dell’immediata insorgenza dell’obbligo di
OPA, risulta convincente: rimane appunto necessario l’accertamento di una vera e
propria azione comune che valga a far presumere l’esistenza del patto parasociale (si
tratti di quello originario ancora attuato o di un nuovo patto, nullo in quanto non
pubblicizzato ma pur sempre esistente). L’art. 101-bis T.U.F. infatti mira a chiarire che
l’idoneità del patto a produrre effetti giuridici non è necessaria, proprio in quanto esso
viene preso in considerazione come fatto e non tanto come contratto; ciò non toglie,
però, che proprio per tale ragione non si possa prescindere dalla sua effettiva attuazione,
ossia dal prodursi in via di fatto dei suoi effetti, perché è a partire da questi che la prova
presuntiva dell’esistenza del patto è destinata a prendere le mosse. E questo vale non
solo per il patto nullo ma anche per quello, appunto, che ha conosciuto il verificarsi di
un evento risolutivo.
149
In tal senso, facendo riferimento al “controllo di fatto”, BRUNETTA, op. cit., 223.
Così MELILLO, op. cit., 145, il quale lamenta l’insorgenza di “un altro difficile problema di prova”.
151
Il peso indiziario di tale elemento sarà tale da ridurre notevolmente la portata pratica dell’eventuale
quesito - di natura, pare, eminentemente teorica - se si abbia a che fare con un nuovo e diverso accordo
perfezionatosi per fatti concludenti o se, viceversa, si tratti di dimostrare che il patto iniziale è (di fatto)
ancora in vita. Propende per la prima soluzione SAMBUCCI, Durata dei patti parasociali, cit., 923-924.
150
106
Sezione II
Profili concernenti la prova dei patti parasociali occulti
11. La prova per presunzioni dei patti parasociali mantenuti segreti:
principi generali.
L’intera trattazione che precede - riguardante le fattispecie e gli obblighi in tema
di pubblicità, da un lato, e la disciplina del concerto e dell’OPA obbligatoria, dall’altro deve ora essere completata attraverso la messa a fuoco dei principi che governano la
prova per presunzioni, cui già si è più volte fatto cenno, così come del modo in cui essi
reagiscono ed incidono sull’accertamento dei patti parasociali occulti. Nei paragrafi
immediatamente successivi, si cercherà di indagare alcuni specifici profili che possono
venire in rilievo allorché si tratti di dimostrare l’avvenuta stipulazione di un patto
parasociale mantenuto segreto. Tutto ciò costituirà, per un verso, occasione di verifica
della bontà di alcune conclusioni precedentemente raggiunte e, per altro verso, la
necessaria premessa dell’indagine che verrà sviluppata nel capitolo successivo, allorché
si cercherà di individuare possibili rimedi e tutele di cui, in caso di emersione di un
patto occulto, i soci ad esso estranei e gli investitori potrebbero disporre.
Fatta questa breve premessa, occorre registrare, innanzitutto, la convinzione
largamente diffusa circa la possibilità di provare per presunzioni i patti parasociali
mantenuti segreti dagli aderenti.152 Peraltro, sebbene l’art. 101-bis T.U.F. presuma
l’esistenza di un concerto dalla stipula di un patto parasociale, le norme di legge non
forniscono indici di generale applicabilità dai quali ricavare la sussistenza di un siffatto
patto.153
152
Cfr. da ultimo SERSALE, Sub art. 109, cit., 194; VENTURINI, I patti parasociali, cit., 600; nonché,
con riferimento anche al settore bancario ed alla vigilanza della Banca d’Italia, ROSA, op. cit., 95 (testo e
nt. 12); MOTTI, op. cit., 320 (nt. 28). In tal senso già ROMAGNOLI, Diritti dell’investitore, cit., 185;
RORDORF, I sindacati di voto, cit., 23, il quale più generalmente ha ritenuto ammissibile “ogni mezzo”
di prova; COSTI-ENRIQUES, op. cit., 138, i quali ben rilevavano come non trovino qui applicazione le
limitazioni poste dal codice civile alla prova per presunzioni, essendo i terzi e non le parti a dover provare
la sussistenza del contratto; ENRIQUES, Mercato del controllo societario e tutela degli investitori. La
disciplina dell’OPA obbligatoria, Bologna, 2002, 107. V. anche GIUDICI, L’acquisto, cit., 491, il quale
già osservava che “dall’esterno, infatti, il legame tra i soggetti non può che essere manifestato da indizi
[…]”; e ancora, che “nessuna disposizione o principio consente di desumere che l’accertamento delle
fattispecie indicate dall’art. 109 T.U.F. [oggi, dall’art. 101-bis, n.d.r.] possa essere sottratto
all’applicazione delle presunzioni semplici di cui all’art. 2729 c.c.” (ibidem, 503). In giurisprudenza, v. in
particolare App. Milano, 28 febbraio 2003, cit. Anche prima dell’avvento delle attuali discipline in
materia di patti parasociali, peraltro, si sottolineava la possibilità di provare l’esistenza dei patti
parasociali “con qualsiasi mezzo, sia per testimoni che con presunzioni ai sensi degli artt. 2721 e 2729
cod. civ.”: così FARENGA, I contratti parasociali, in Nuova giur. civ. comm., 1989, II, 70, il quale
richiamava Cass. 8 agosto 1963, n. 2244, in Giust. civ., 1963, I, 1772, e in Giur. it., 1964, I, 1, 983.
153
Analoga osservazione è stata fatta, con riferimento all’ordinamento tedesco, da SCHNEIDER, § 22,
cit., 1074. Circa l’ammissibilità della prova indiziaria dell’azione di concerto, cfr., per tutti,
STEINMEYER, op. cit., 525. Nella giurisprudenza americana, un’applicazione dello strumento delle
presunzioni per la prova di un concerto è stata fatta in Champion Parts Rebuilders, Inc. v. Cormier Corp.,
661 F. Supp. 825 (N.D. Ill 1987); più di recente, per la generale affermazione che l’esistenza di un gruppo
di soggetti agenti congiuntamente è questione da decidere in concreto, senza predeterminazione delle
possibili circostanze rilevanti, cfr. Hallywood Realty Partners LP v. Gotham Partners LP, 286 F.3d 613
107
Pertanto, non vi sono circostanze in grado di fondare una presunzione assoluta
dell’avvenuta conclusione di un tale accordo.154
Si è osservato, in particolare, che tale prova “consente di ovviare, da un lato, alla
difficoltà di provare fatti che difficilmente sono conoscibili a soggetti estranei
all’accordo, dall’altro agli inconvenienti che si potrebbero creare riconducendo ai patti
parasociali semplici comportamenti paralleli e non coordinati”155.
Tale indirizzo, che ammette l’impiego delle presunzioni nella prova dei patti
parasociali occulti, ha di recente ricevuto un ulteriore avallo della giurisprudenza di
merito, che, espressasi di nuovo nell’ambito della nota e travagliata vicenda UnipolBNL, ha riconosciuto apertis verbis la possibilità di raggiungere la prova dei patti
occulti “alla stregua di circostanze presuntive gravi, univoche e concordanti”156.
La giurisprudenza ha altresì osservato, per quanto incidentalmente, che dagli
elementi indiziari157 forniti da chi ha interesse all’emersione e alla pubblicizzazione di
un patto segreto, dovrebbero potersi individuare con sufficiente precisione il suo
oggetto e gli obblighi nascenti a carico delle parti.158
(2d Cir. 2002). In dottrina, si è recentemente osservato che “proof of group formation may consist of
circumstantial evidence”: LEVY, op. cit., 5-19.
154
Analog., nella letteratura tedesca, GAEDE, op. cit., 220-221, ove si osserva che “denn würde man
tatsächliche Umstände genügen lassen, käme dies einer Aufstellung einer unwiderleglichen Vermutung
gleich. Würdigt man die tatsächlichen Umstände auf Beweisebene, ist dagegen eine Widerlegung
möglich” (“se si ritenessero sufficienti alcune circostanze effettive, ciò equivarrebbe alla formulazione di
un’inconfutabile presunzione. Se si apprezzano le circostanze effettive sul piano della prova, diviene per
contro possibile una confutazione”, ossia la prova contraria). Nondimeno, dato che anche per mezzo delle
presunzioni la prova dell’esistenza di un patto parasociale rimane difficile da raggiungere, in dottrina si è
proposta almeno l’introduzione di presunzioni iuris tantum dell’esistenza di patti parasociali “al
verificarsi di dati indici rivelatori” (così RESCIO, Gli strumenti di controllo, cit., 68).
155
Sono parole di FIORIO, Nota ad App. Milano, cit., 1876. Si noti che sull’idoneità della prova
presuntiva a fondare da sola il convincimento del giudice, non sembrano ormai esservi dubbi: cfr. Cass. 4
marzo 2005, n. 4743, in Foro padano, 2006, 1, I, 50; Cass. 6 luglio 2002, n. 9834, in Giust. civ. Mass.,
2002, 1174; Cass. 21 dicembre 1988, n. 6987, in Giust. civ. Mass., 1988, f. 12.
156
Così App. Venezia, 12 agosto 2010 (decr.), cit., pubblicata in Società, 2010, 1498 ss. La Corte ha
ravvisato gli indizi presuntivi dell’esistenza di un patto occulto tra BPI (oggi “Banca Popolare Società
Cooperativa”) e Unipol, volto ad acquisire congiuntamente il controllo di BNL tramite acquisto di azioni
sul mercato, da un lato nell’assidua consultazione dei rispettivi dirigenti e, dall’altro, nella stipula di un
contratto derivato tra BPI e Barclays Bank, avente ad oggetto un pacchetto di azioni di BNL, che, oltre ad
essere stato, secondo la motivazione, “sollecitato da Unipol”, configurava ad avviso della Corte un
fenomeno di natura interpositoria, con previsione implicita “a carico della parte intermediaria di un
obbligo di consegna delle azioni sottostanti il derivato, a mera richiesta del titolare dell’opzione (in
alternativa al pagamento del differenziale in denaro), nell’interesse del quale le azioni erano state
acquistate” (ivi, 1499). La Corte d’Appello ha dunque confermato le sanzioni già irrogate dalla Consob ai
pattisti per la mancata pubblicazione dell’accordo “avente ad oggetto l’acquisto concertato di azioni
ordinarie BNL e l’esercizio anche congiunto di un’influenza dominante sulla Banca stessa”, nonché per
l’esercizio del voto in violazione della sanzione di cui all’art. 122, comma 4, T.U.F. (così la Delibera
Consob 16 aprile 2009, n. 16867, in Boll. Consob., 4/2/2009). La Consob, in particolare, aveva contestato
a BPI due acquisti di azioni concertati con Unipol, uno effettuato direttamente sul mercato tra il 10 e il 16
maggio 2005 e l’altro avvenuto, appunto, indirettamente attraverso la stipula del derivato con Barclays
Bank.
157
Sia detto per inciso che, come osservato da un autorevole studioso della materia, nessun dubbio
dovrebbe residuare in merito alla “equipollenza sostanziale tra ‘presunzione’ e ‘indizio’”: così
COMOGLIO, Le prove civili, Torino, 2010, 663.
158
Cfr. App. Bologna, 27 gennaio 2010, cit., 591; nello stesso senso App. Bologna, 26 gennaio 2010
(decr.), che ha affermato la necessità di provare “l’intervenuto accordo tra le parti, il contenuto
dell’accordo tale da integrare una delle ipotesi previste dalla norma citata [l’art. 122 T.U.F.], quali
soggetti hanno aderito al patto stesso” (pronuncia reperibile in www.ipsoa.it). Il punto è messo in
108
Come si è visto, la difficoltà di distinguere - in presenza di un parallelismo di
condotte da parte di più soggetti - tra un vero e proprio accordo tacito, una collusione
tacita e l’inconsapevole parallelismo di comportamenti, sollecita l’interrogativo circa la
necessità di fare riferimento a criteri determinati al fine di verificare la sussistenza di un
vero e proprio patto parasociale. Si è detto infatti che, per quanto anche i patti
parasociali stipulati per fatti concludenti debbano essere presi in considerazione ai fini
dell’applicazione della disciplina, occorre dare la giusta valenza alle condotte omogenee
di più azionisti e ricercare elementi indiziari ulteriori.
Il problema è quello di contemperare, da un lato, l’esigenza a che la normativa
non venga aggirata e non si presti ad elusioni e, dall’altro, la necessità di non estendere
l’applicazione delle norme sul concerto e sull’OPA obbligatoria a condotte che non
costituiscono un accordo e che, pertanto, non sarebbero in ogni caso idonee a
determinare il raggiungimento, mantenimento o rafforzamento del controllo della
società (o a contrastare gli obiettivi di un’offerta pubblica di acquisto o di scambio). 159
L’armonizzazione di queste due diverse istanze è certamente questione di non semplice
soluzione e deve naturalmente essere ottenuta in concreto attraverso il corretto impiego
dello strumento presuntivo, secondo i principi generali.160
Per ovviare a tale ostacolo, nell’intento di rinvenire un criterio utile ad attribuire
maggiore certezza ed affidabilità al meccanismo delle presunzioni, parte della dottrina
ha proposto di attribuire rilievo discriminante alle c.d. pratiche facilitanti, come lo
scambio di informazioni tra le parti, quali “indizi rivelatori della coscienza e volontà di
coordinarsi”161. L’idea è coerente con quanto osservato in precedenza circa l’importanza
evidenza anche da PURPURA, Sui presupposti minimi necessari per ritenere accertata l’esistenza di
patti parasociali (occulti) ex art. 122 T.U.F., in Riv. soc., 2010, 256. La prova indiziaria in questo ambito
è ammessa senza particolari dubbi anche nell’ordinamento tedesco, ma spesso emerge la preoccupazione
che il nesso inferenziale tra indizio e circostanza da provare sia “oltremodo solido”, “dovendo la
sussistenza dell’indizio essere quasi sempre accompagnata dalla sussistenza di questa circostanza” (“muss
[...] der Zusammenhang zwischen dem Indiz und der zu beweisenden Tatsache außerordentlich stark sein,
indem das Vorliegen des Indizes fast immer vom Vorliegen dieser Tatsache begleitet werden muss”): il
criterio è così enunciato da PSAROUDAKIS, op. cit., 494. L’A. mette anche in guardia dal rischio di
operare pressoché automaticamente un’inferenza presuntiva a partire da indizi quali il c.d.
comportamento parallelo, il concordato acquisto di azioni, l’intesa in un caso singolo o rapporti di
carattere familiare tra più azionisti, in quanto “la loro considerazione dovrebbe essere possibile accanto ad
altri indizi” (“ihre Mitberücksichtigung neben anderen Indizien möglich sein sollte”: ibidem, 495). Anche
in Francia la giurisprudenza “a admis la production de tous moyens de preuve”: così LAPRADE, Concert
et côntrole, cit., 423. L’art. 1353 del Code civil, peraltro, contempla esattamente gli stessi requisiti di
ammissibilità della prova per presunzioni che valgono nel nostro ordinamento, ossia la gravità, la
precisione e la concordanza.
159
L’esigenza di non impedire discussioni di carattere preliminare e quindi la comunicazione tra gli
azionisti è stata avvertita anche dalla giurisprudenza americana: cfr. Lane Bryant, Inc. v. Hatleigh Corp.
[1980 Transfer Binder] Fed. Sec. L. Rep. (CCH) (S.D.N.Y. June 9, 1980); analog. Paintry Pride, Inc. v.
Rooney, 598 F. Supp. 891 (S.D.N.Y. 1984).
160
Autori tedeschi hanno efficacemente osservato che le difficoltà di assolvimento dell’onere probatorio
in questo ambito non autorizzano ad abbandonare le regole generali in tema di prova: così SCHÜPPENWALZ, op. cit., 652. Conf. RALOFF, op. cit., 197, che reputa necessaria anche la dimostrazione del
nesso causale tra lo scambio di informazioni e il comportamento coordinato ed aggiunge che la difficoltà
di tale prova non può comunque consentire di assoggettare al § 30 i semplici comportamenti paralleli,
consapevoli o inconsapevoli.
161
GIUDICI, L’acquisto, cit., 504. Il problema di individuare possibili criteri “per stabilire in quale
situazione societaria il voto ‘convergente’ assuma rilevanza” era sollevato anche da BIANCHI, op. cit.,
443.
109
che occorre attribuire al riscontro di un procedimento comunicativo che valga a
qualificare la relazione intercorrente tra le parti.
Ciò premesso, pare però indispensabile passare in rassegna, con l’ausilio delle
elaborazioni compiute nel tempo dalla giurisprudenza, le principali caratteristiche della
prova per presunzioni ed i principi che la governano; in particolare, è di grande interesse
ai fini della presente indagine l’individuazione della “soglia minima” di operatività della
medesima.
Al riguardo, è bene evidenziare sin da ora che la Suprema Corte ha affermato
che “la prova per presunzioni non esige che il fatto ignoto sia desumibile da una
pluralità di fatti noti, cioè da una pluralità di fonti certe che parimenti convergano verso
un identico risultato logico-deduttivo, bastando dunque anche un unico fatto noto,
quando tutti gli aspetti di esso, in assenza di circostanze di valenza contraria, siano
chiaramente ed univocamente concordanti sul verificarsi del fatto ignoto”. 162 L’unico
fatto noto, allora, potrebbe consistere nel comportamento delle parti, purché però “tutti
gli aspetti di esso” - tra cui, è da ritenere, la portata e gli effetti delle condotte convergano in un’unica direzione; il mero fatto della condotta uniforme, lo si è già
anticipato, in assenza di ulteriori profili peculiari, non dovrebbe invece poter costituire
indizio sufficiente ad inferire l’esistenza di un patto occulto.
Tale conclusione può certamente rappresentare un primo passo, ma non consente
ancora di mettere a fuoco la potenziale rilevanza delle condotte episodiche rispetto a
quelle che si manifestano con carattere di continuità. La questione è connessa al noto
dibattito sorto intorno al requisito della “concordanza” delle presunzioni, richiesto
dall’art. 2729 c.c. L’orientamento giurisprudenziale prevalente ha da tempo ritenuto che
tale presupposto non implichi necessariamente la presenza di una pluralità di elementi
indiziari e, pertanto, ha concluso nel senso che esso sia meramente eventuale, non
essendo da escludere la possibilità che il giudice “possa legittimamente formare il
proprio convincimento anche su di una sola presunzione semplice, purché grave e
precisa”.163 Inoltre, sebbene con qualche residuo dissenso, la dottrina e la
giurisprudenza sono ormai concordi nell’affermare che l’inferenza induttiva propria del
giudizio di fatto non debba condurre ad una certezza assoluta circa l’esistenza del fatto
da provare, ma possa limitarsi a desumere quest’ultimo “dal fatto noto come
162
Così Cass. 11 dicembre 1998, n. 12481, in Foro it., Rep., 1999, voce Tributi in genere, n. 1053.
Il virgolettato è di COMOGLIO, op. cit., 672, nt. 79. In giurisprudenza tale orientamento è ormai
prevalente: si vedano Cass. 26 marzo 2003, n. 4472, in Giust. civ. Mass., 2003, 613; Cass. 4 maggio
1999, n. 4406, in Giust. civ. Mass., 1999, 1001; Cass. 3 febbraio 1999, n. 914, in Giust. civ. Mass., 1999,
244; Cass. 4 febbraio 1993, n. 1377, in Giust. civ. Mass., 1993, 224, nonché in Giust. civ., 1993, I, 1485.
Residua tuttavia qualche pronuncia contraria: cfr. Cass. 6 agosto 2003, n. 11906, in Giust. civ. Mass.,
2003, 7-8, la quale ha ritenuto che “il requisito della concordanza postula che la prova sia fondata su una
pluralità di fatti noti convergenti”. Peraltro, anche su un piano di analisi ulteriore e più specifico, la
giurisprudenza si divide: da una parte, si ritiene che in presenza di più elementi indiziari il giudice debba
procedere ad una valutazione necessariamente complessiva degli stessi (cfr. ad es. Cass. 18 febbraio
2005, n. 3390, in Rep. Foro it., 2005, Voce Presunzione, n. 9; nonché, più di recente, Cass. 13 novembre
2009, n. 24134, in www.dejure.giuffre.it, ove si legge che “è compito del giudice del merito valutare in
concreto l’efficacia sintomatica dei singoli fatti noti, non solo analiticamente ma anche nella loro
convergenza globale, accertandone la pregnanza conclusiva”); dall’altra, si afferma che il giudice
dovrebbe invece valutare preventivamente ciascuno dei singoli indizi ed escludere quelli “intrinsecamente
privi di rilevanza” (così Cass. 13 ottobre 2005, n. 19894, in Fallimento, 2006, 1392; nonché Cass. 18
settembre 2003, n. 13819, in Giust. civ. Mass., 2003, 9).
163
110
conseguenza ragionevolmente possibile secondo un criterio di normalità” 164; al
contempo, però, è necessario che tale rapporto inferenziale possa ritenersi esclusivo,
cioè non suscettibile di lasciare spazio a diverse alternative, quand’anche di minore
probabilità.165
Proprio questi criteri confermano in linea di massima, salva naturalmente la
necessità di procedere alla disamina dei singoli casi concreti, che la semplice
convergenza di condotte da parte di più soci in una singola occasione non pare
tendenzialmente idonea, in quanto unico indizio, a fondare un’inferenza probatoria di
tipo esclusivo, a meno che, appunto, sia accompagnata da ulteriori elementi
particolarmente incisivi.166 Viceversa, la reiterazione di determinati comportamenti
omogenei da parte di più soggetti può sicuramente presentare quella più intensa valenza
probatoria nel senso dell’esistenza, a monte, di un accordo tra gli agenti, che sia anche
in grado di determinare stabili effetti sul controllo e, quindi, sul governo della società.
Naturalmente, quanto precede non può valere ad escludere l’operatività del
principio del contraddittorio e, dunque, a consentire l’ingresso della prova contraria da
parte dei presunti membri del patto parasociale mantenuto segreto. 167
Già in epoca precedente alle novelle del T.U.F. del 2007 e del 2009, la dottrina
aveva discusso in merito a quelli che costituiscono i più classici sintomi dell’avvenuta
stipulazione di un patto parasociale, ossia la presentazione congiunta di una lista di
candidati al consiglio di amministrazione o la convergenza dei voti di più azionisti in
assemblea. L’opinione maggioritaria ha escluso la rilevanza di simili comportamenti
164
Così nella massima Cass. 10 gennaio 2006, n. 154, in Giust. civ. Mass., 2005, 7/8; conf. Cass. 29
maggio 2006, n. 12282, in Giust. civ. Mass., 2005, 11; Cass. 8 aprile 2004, n. 6889, in Giust. civ. Mass.,
2004, 4; Cass. 20 febbraio 2003, n. 2582, in Giur. it., 2003, 2251, che ha preferito parlare di “ragionevole
probabilità”; Cass. 13 novembre 1996, n. 9961, in Giust. civ. Mass., 1996, p. 1519. In dottrina, v.
COMOGLIO, op. cit., 669.
165
Cfr. Cass. 6 agosto 1999, n. 8489, in Riv. crit. dir. lav., 1999, 902, nella cui massima si esprime la
necessità che “tra il fatto noto e quello da dimostrare sussista un legame che, pur senza essere di assoluta
ed esclusiva necessità causale ma stabilito alla stregua di un canone di probabilità, sia esclusivo, nel senso
che, sia pure con il metro della probabilità, dal fatto noto sia possibile inferire solo quello ignoto.” Così
anche Cass. 28 novembre 1998, n. 12088, in Giust. civ. Mass., 1998, p. 2482. Tale requisito presenta una
stretta parentela con il presupposto normativo della “gravità” della presunzione, la quale, come si è
scritto, rappresenta “la proiezione definitoria del grado o dell’intensità variabile delle probabilità, da
valutarsi caso per caso”: così COMOGLIO, op. cit., 671. Anche nella letteratura tedesca si è ribadito
questo principio, in forza del quale non basterebbe che tra più possibilità una di esse sia più probabile
delle altre: cfr. SCHOCKENHOFF-SCHUMANN, op. cit., 600.
166
Il fatto che, come ritenuto in precedenza, i patti di carattere occasionale e quindi con effetti limitati nel
tempo non siano probabilmente in grado di far sorgere un obbligo di offerta (almeno qualora la prova
liberatoria riguardante l’inesistenza di un’influenza dominante abbia successo), non è in contraddizione
con l’idea ora espressa nel testo secondo cui, in particolari casi, anche la condotta uniforme manifestatasi
una tantum può fondare, se accompagnata da ulteriori elementi indiziari, la prova presuntiva
dell’esistenza di un (non occasionale) accordo.
167
Sollecita a non perdere di vista il basilare principio del contraddittorio, COMOGLIO, op. cit., 674, che
richiama l’esigenza “di garantire costantemente alle parti la possibilità effettiva di esercitare un controllo
dialettico preventivo sui presupposti ‘basici’ del ragionamento inferenziale”. Anche in Germania si è
sottolineato che ai concertisti spetta comunque la possibilità di dare la prova dell’effettivo perimetro e
contenuto dell’accordo, come anche della mancanza di ripercussioni dello stesso sulle vicende riguardanti
il controllo della società: v. PSAROUDAKIS, op. cit., 479-480; WEIß, op. cit., 117. Si noti come tale
conclusione si avvicini molto a quella accolta nelle pagine precedenti circa la possibilità che i presunti
concertisti debbano avere di provare la incapacità del loro legame e delle loro condotte di influire in modo
consistente sulle concrete dinamiche inerenti al controllo societario.
111
quali indici di per sé sufficienti a dimostrare l’esistenza di un patto parasociale 168: è
evidente però che tale condotta potrebbe rappresentare un indizio, che, se
particolarmente connotato alla luce dei criteri dinanzi illustrati, può consentire di
giungere ad individuare la presenza di un ulteriore accordo non comunicato,
verosimilmente avente ad oggetto il voto in assemblea.169 In proposito, è importante
ricordare altresì che il d. lgs. n. 303 del 2006 ha abrogato il comma 2 dell’art. 147-ter
T.U.F., ai sensi del quale “per le elezioni alle cariche sociali le votazioni devono sempre
168
G. F. CAMPOBASSO, Voto di lista, cit., 128 ss. e spec. 130, il quale più radicalmente opinava nel
senso che gli accordi tra più azionisti per la presentazione congiunta di una lista di candidati al consiglio
di amministrazione - non affiancati da un parallelo accordo sul voto - non costituiscono patti parasociali
rilevanti ai sensi dell’art. 122 T.U.F. in quanto “non sono destinati ad incidere sugli assetti proprietari e
sulla contendibilità del controllo delle società quotate”; BIANCHI, op. cit., 442. Analog., più di recente,
MACRI’, Patti parasociali, cit., 60 ss. Il punto è ben messo in evidenza anche dal rapporto del Comitato
ESME (European Securities Market Expert Group) della Commissione Europea, intitolato Preliminary
views on the definition of “acting in concert” between the Transparency Directive and the Takeover Bids
Directive, del 17 novembre 2008 (reperibile in www.ec.europa.eu); vi si legge infatti: “In order to
enhance good corporate governance, especially in case of cross-border shareholdings, it is of major
importance that shareholders know when they are able to exchange information and work together
without any fear of their action triggering undue obligations.” Proprio al fine di non impedire la proficua
collaborazione tra azionisti tramite la costante minaccia di gravosi obblighi, si sottolinea, inoltre,
l’importanza di un’impostazione normativa che distingua adeguatamente tra vero e proprio concerto e
(semplici) condotte attive degli azionisti, specie quelli istituzionali: “for instance, (institutional)
shareholders are increasingly working together in the execution of their corporate governance (or more
broadly: environmental, social and governance) polices towards corporations, without seeking any
controls of these corporations. Therefore, a dividing line between shareholder activism and acting in
concert should be drawn.” Un breve commento al documento in parola è offerto da MOSCA, Il
documento dell’ESME in materia di “acting in concert”, in Riv. soc., 2009, 228 ss.
169
Sulla questione ha inciso direttamente il Documento di consultazione della Consob del 6 ottobre 2010,
con il quale l’Autorità di vigilanza, nell’ambito della facoltà, attribuitale dall’art. 101-bis, comma 4-ter,
T.U.F., di individuare ulteriori presunzioni relative di concerto, aveva proposto di modificare l’art. 44quater del Regolamento Emittenti riconducendo alla fattispecie dell’azione di concerto la presentazione
congiunta di una lista per “l’elezione della maggioranza dei componenti dell’organo amministrativo o del
consiglio di sorveglianza”, nonché la promozione congiunta “di una sollecitazione di deleghe di voto
finalizzata alla votazione di tale lista” (il documento, con i relativi allegati, è consultabile sul sito internet
www.consob.it). E’ importante sottolineare che la stessa Consob, nell’allegato 6 del Documento (pag. 11),
evidenziava che “si è ritenuto di presumere la sussistenza di una cooperazione volta ad acquisire o
mantenere il controllo”, proprio in virtù dell’idoneità di tali forme di cooperazione ad incidere sul
controllo degli organi di governo societari. Tale soluzione è stata però superata dal successivo Documento
di Consultazione del 18 febbraio 2011 (anch’esso consultabile in www.consob.it), con il quale la Consob
ha eliminato la suddetta presunzione dal corpo dell’art. 44-quater del Regolamento, registrando (v. pag.
12 del documento) la critica che “ha riguardato la presunzione di concerto concernente la presentazione di
una lista volta ad eleggere la maggioranza degli organi sociali, in quanto è stato evidenziato come tale
presunzione non consente in concreto di fornire una prova contraria all’atto della presentazione della lista,
operando a prescindere dalla effettiva nomina della maggioranza dei componenti.” Ancora:
“condividendo tale osservazione si è ritenuto di eliminare tale presunzione fermo restando che tale
fattispecie potrà costituire un indizio utile ai fini dell’accertamento di un’azione di concerto” (corsivo
aggiunto). E’ forse per questa ragione che qualche commentatore ha recentemente osservato che la
predetta conclusione dovrebbe probabilmente essere rimeditata alla luce dell’attuale generale nozione di
concerto di cui all’art. 101-bis T.U.F., nel cui alveo - sub specie di accordo volto a mantenere il controllo
della società - sarebbe riconducibile proprio la presentazione di una lista comune di candidati all’organo
amministrativo: così SERSALE, Sub art. 109, cit., 109-110, il quale tuttavia pare prendere in
considerazione soltanto la lista “di maggioranza”. L’Assonime viceversa, nella recente Circolare n.
4/2010, già citata, ha espresso l’auspicio che tale ipotesi venga dalla Consob espressamente fatta oggetto
di esenzione ai sensi dell’art. 101-bis, comma 4-ter, T.U.F., al fine di evitare agli investitori istituzionali e
agli altri azionisti il “timore che i propri comportamenti vengano impropriamente assimilati all’azione di
concerto”.
112
svolgersi con scrutinio segreto”. La dottrina ha ritenuto positiva questa abrogazione per
“il rilievo che assumono le manifestazioni di voto dei presunti paciscenti quale indice
presuntivo dell’esistenza del patto”.170
Non dovrebbero esservi dubbi sul fatto che della prova per presunzioni possano
servirsi tanto la Consob quanto gli altri soggetti interessati all’emersione del patto
occulto, come gli azionisti estranei al medesimo.171 La stessa Consob, peraltro, ha
precisato di non incontrare i limiti previsti dal codice civile per la prova presuntiva del
contenuto dei contratti: in tal senso può essere richiamata una pronuncia del Consiglio
di Stato riguardante il caso SAI-Fondiaria, che ha affermato, con riguardo alla posizione
dell’Autorità, come “la dimostrazione del patto non incontri i limiti previsti dal codice
civile per la prova testimoniale e per le presunzioni semplici, allorché il patto venga in
considerazione nella veste di fatto illecito”172.
170
DESANA, Tribunale versus Corte d’Appello, cit., 597, nt. 17. Già prima del d. lgs. n. 303/2006 altri
autori avevano auspicato l’abrogazione della norma citata, proprio in quanto avrebbe compromesso “la
possibilità di accertare l’aggiramento di discipline quali, per es., quella sull’opa obbligatoria, atteso che il
parallelismo di voto può essere considerato in certe circostanze un indizio di esistenza di un patto
parasociale occulto”: così FERRARINI-GIUDICI, La legge sul risparmio, ovvero un pot-pourri della
corporate governance, in Riv. soc., 2006, 591; analog. G. ROSSI, La legge sulla tutela del risparmio e il
degrado della tecnica legislativa, in Riv. soc., 2006, 7, il quale rilevava l’incoerenza di un’impostazione
normativa che prescrive obblighi di pubblicità ai sindacati di voto e, al contempo, indebolisce fortemente
la possibilità di addivenire al loro accertamento. La possibilità di utilizzo dello strumento presuntivo nel
caso in esame ha trovato anche un fondamento normativo nell’art. 4, comma 227, della l. n. 350/2003, il
quale, in relazione all’impiego della golden share statale sotto forma di opposizione alla stipula di patti ex
art. 122 T.U.F., ha stabilito che “qualora dal comportamento in assemblea dei soci sindacati si desuma il
mantenimento degli impegni assunti con l’adesione ai patti di cui al citato articolo 122 del testo unico di
cui al d. lgs. n. 58/1998, le delibere assunte con il voto determinante dei soci stessi sono impugnabili”.
Tuttavia, è da rilevare che anche tale norma non ha adottato la stessa soluzione contemplata
dall’ordinamento inglese, il quale sancisce una presunzione di agire concertato in presenza di una
convergenza di voti in assemblea su delibere riguardanti la maggioranza dei membri del consiglio di
amministrazione. Così il City Code inglese, alla Note 2 della Rule 9.1. Per una posizione recisamente
contraria all’adozione di un simile criterio anche nel nostro ordinamento, si veda BIANCHI, op. cit., 442.
La norma italiana citata, infatti, fa riferimento ad un’inferenza presuntiva puramente eventuale,
escludendo ogni automatismo e richiedendo implicitamente, dunque, altri indizi in grado di rafforzare il
convincimento circa l’esistenza di un patto parasociale.
171
E’ stata però evidenziata la difficoltà di dimostrare l’esistenza del patto da parte degli azionisti
estranei: SANTONI, I patti parasociali, cit., 214, il quale osservava che “in ogni caso è la Consob a
disporre di penetranti poteri inquisitori ed ispettivi che le consentono di venire in possesso di
informazioni anche in caso di reticenza da parte dei soci aderenti al patto.” Si veda, ad esempio, l’atto di
accertamento allegato alla già citata Delibera della Consob n. 15029 del 10 maggio 2005, in cui l’Autorità
riconosceva di aver fatto ricorso a procedimenti logico-deduttivi e di essersi servita dello strumento delle
presunzioni, richiamando le pronunce che ne avevano precedentemente affermato la legittimità (App.
Milano, decreti del 5-28 febbraio 2003 e del 21 giugno 2003; App. Torino, decreti del 21-27 febbraio
2002; TAR Lazio, sentenza del 23-30 ottobre 2002). La delibera è pubblicata parzialmente in Società,
2005, 1041 ss., con commento di BAGLIONI, op. cit., 1042 ss. Anche in Germania, come si è rilevato,
gli azionisti non hanno a disposizione i medesimi strumenti che può utilizzare l’Autorità (BaFin): cfr.
SCHOCKENHOFF-SCHUMANN, op. cit., 596.
172
Cons. Stato, VI Sezione, 13 maggio 2003, n. 4142, in Giur. it., 2004, IV, 2111. Si è osservato peraltro
che la Consob non è fornita dei poteri di ispezione e di indagine simili a quelli dell’Autorità Antitrust:
così GIUDICI, L’acquisto, cit., 505-506, il quale esprime seri dubbi sul fatto che l’art. 115, comma 2,
T.U.F. “legittimi la Consob anche nei confronti dei soggetti solamente sospettati di essere legati da un
patto nascosto” e conclude nel senso che “nel caso in cui non vi fosse un socio di controllo chiaramente
identificabile, perciò, la Consob non avrebbe comunque alcun potere ispettivo capace di condurre al
superamento dei problemi di prova”.
113
E’ bene da ultimo precisare che la soluzione che ammette la prova presuntiva
dell’esistenza dei patti parasociali non contrasta, giusta la presunzione legale stabilita
dall’art. 101-bis T.U.F., con il divieto di praesumptio de praesumpto, fondato sulla
necessità che il ragionamento inferenziale poggi sull’esistenza di un fatto “noto”, sì
come richiesto dall’art. 2727 c.c., anziché su una circostanza a sua volta presunta 173:
invero, la giurisprudenza riconosce uniformemente che tale divieto non impedisce al
giudice di innestare una presunzione legale su di un fatto accertato mediante
presunzione semplice.174 Proprio il richiamo a detto principio fornisce la conferma
dell’erroneità delle tesi che interpretano in senso soggettivistico le norme che fanno
riferimento alla finalità di stabilizzare gli assetti proprietari o il governo della società
(art. 2341-ter c.c.) o a quella di acquisire, mantenere o rafforzare il controllo (art. 101bis T.U.F.); la ricostruzione che muove dall’intento (quale elemento di carattere
soggettivo) dei presunti pattisti, per ricavarne l’esistenza di un patto parasociale (o
comunque di un concerto) appare infatti in contrasto con il divieto di praesumptio de
praesumpto: presumendo l’esistenza di un patto parasociale dall’intenzione comune
degli acquirenti di azioni, si incorrerebbe evidentemente in una presunzione di secondo
grado, posto che anche l’elemento psicologico non potrà che poggiare su un
procedimento inferenziale di natura presuntiva.175
12. Segue: prova
dell’apparenza giuridica.
dell’esistenza dei
patti
parasociali
e
principio
Un ulteriore aspetto meritevole di essere indagato, anche alla luce dell’analisi sin
qui svolta, riguarda la possibile operatività, nell’ambito della categoria dei patti
parasociali occulti, del principio, di derivazione giurisprudenziale, dell’apparenza
giuridica.
L’elaborazione ad esso sottesa, come noto, si traduce essenzialmente nell’idea
della necessità di tutelare coloro i quali abbiano riposto il proprio affidamento
incolpevole, sulla scorta di dati della realtà obiettivamente idonei ad ingenerare una
situazione di apparenza, nella sussistenza di una determinata situazione giuridica, in
realtà inesistente; la giurisprudenza non si limita, in questi casi, a riconoscere
l’azionabilità di una tutela di tipo risarcitorio ai soggetti danneggiati, ma si spinge ad
173
Il divieto di operare una presunzione di secondo grado, fondata cioè su di un fatto a sua volta soltanto
presunto, rappresenta un principio consolidato: in giurisprudenza si veda, per tutte, Cass. 9 aprile 2002, n.
5045, in Giust. civ. Mass., 2002, p. 612. Tale principio opera anche nell’ordinamento tedesco, come
evidenziato da SCHOCKENHOFF-SCHUMANN, op. cit., 600.
174
V., ex multis, Cass. 18 gennaio 2008, n. 1023, in Giust. civ. Mass., 2008, 1, 58; Cass. 21 dicembre
2007, n. 27032, in Giust. civ. Mass., 2007, 12; Cass. 20 giugno 2006, n. 14115, in Giust. civ. Mass., 2006,
6; nonché già Cass. 9 settembre 1996, n. 8180, in Giur. it., 1997, I, 1, 1244.
175
Come si ricorderà, la Corte d’Appello di Bologna, pur estendendo il requisito della finalità di
stabilizzare gli assetti proprietari o il governo della società anche nell’ambito della disciplina del T.U.F.,
in una recente pronuncia riguardante il caso Unipol-BNL, ha finito per sostenere l’impostazione qui
criticata là dove ha ritenuto che gli elementi indiziari forniti dalla Consob non fossero sufficienti a
provare “l’intento di stabilizzazione degli assetti proprietari necessario per poter ravvisare la sussistenza
di un patto parasociale rilevante ai sensi dell’art. 122 T.U.F.”: così App. Bologna, 27 gennaio 2010, cit.,
591.
114
affermare l’inopponibilità, da parte di chi con il proprio comportamento ha ingenerato
nei terzi l’affidamento incolpevole, dell’inesistenza della situazione giuridica apparente:
quest’ultima, cioè, è ritenuta pienamente sussistente, o meglio può essere fatta valere
come tale da coloro che sono incorsi incolpevolmente nell’errore.
E’ risaputo che di tale principio la Suprema Corte ha fatto un ampio uso con
particolare riferimento al fenomeno della società apparente, con la conseguenza che gli
apparenti soci sono stati ritenuti assoggettati a tutte le conseguenze che sarebbero
derivate in caso di effettiva esistenza della società.176
Applicando tale ricostruzione alla fattispecie dei patti parasociali occulti, ne
potrebbe discendere che l’insieme di una serie di elementi obiettivamente percepibili,
volti a far sorgere nei terzi un affidamento incolpevole in ordine all’esistenza di un
siffatto accordo, dovrebbe determinare l’applicazione della relativa disciplina, con
l’aggravante dell’applicazione delle sanzioni derivanti dalla mancata comunicazione del
patto; di conseguenza, gli altri soci potrebbero, ad esempio, impugnare le delibere
adottate con il voto determinante di coloro che risulterebbero parti del medesimo, senza
che questi possano opporre e far valere l’inesistenza dell’accordo.
Tale ragionamento non pare però sufficientemente persuasivo, in quanto foriero
di esiti non condivisibili alla luce dei risultati interpretativi raggiunti nell’indagine sin
qui condotta. In primo luogo, si rischierebbe probabilmente di attribuire rilievo anche ai
comportamenti paralleli puramente occasionali, magari attraverso un’eccessiva
valorizzazione dell’elemento (per così dire, soggettivo) della non colpevolezza
dell’affidamento; ma soprattutto, sorgerebbero notevoli incertezze in punto di rapporti
tra principio di apparenza e prova presuntiva dell’esistenza del patto, con conseguente
ampliamento dei margini di discrezionalità del giudice nell’ambito del relativo
accertamento.
E’ interessante osservare che un illustre autore ha ancora di recente escluso, con
riferimento all’ipotesi dell’esistenza di una società, che essa possa essere
contemporaneamente occulta ed apparente, giacché i due concetti si escluderebbero a
vicenda: secondo questa dottrina, la situazione di apparenza presupporrebbe
necessariamente, oltre ad una serie di atti corrispondenti all’esercizio dell’attività
economica, la spendita del nome della società nei rapporti esterni, ciò che naturalmente
non può accadere nel caso della società occulta; dunque, la semplice pluralità di
condotte “che possono suscitare l’immagine esteriore di una società [...] possono
integrare la prova di una (esistente) società occulta, non già giustificare il
convincimento dei terzi circa l’apparenza di una (inesistente) società.”177
Tale osservazione sembra utilmente estendibile al caso che qui interessa: anche
per quanto concerne i patti parasociali occulti, cioè, pare più corretto ritenere che la
176
Tale indirizzo giurisprudenziale è risalente ed ormai consolidato: cfr. ad es. Cass. 7 giugno 1985, n.
3388, in Fallimento, 1986, 152; Cass. 9 gennaio 1975, n. 49, in Giur. comm., 1975, II, 597; Cass. 18
giugno 1968, n. 2009, in Dir. fall., 1968, II, 526.
177
Quella esposta è la tesi espressa da GALGANO, Trattato di diritto civile, Padova, 2010, v. II, 413 ss.,
il quale aggiunge che “la società apparente è, tecnicamente, una società simulata, retta dagli specifici
principi della simulazione dei contratti” (ibidem, 415). Si veda anche ID., Della simulazione, in
Commentario del codice civile Scialoja-Branca, a cura di F. Galgano, Artt. 1414-1446, Bologna-Roma,
1998, 22 ss.
115
reiterazione di comportamenti omogenei, anziché determinare in base ad una sorta di
automatismo l’applicazione del principio di apparenza, debba servire unicamente a
fondare la prova presuntiva dell’esistenza del patto, con le conseguenze
precedentemente esaminate.178
L’operatività del principio di apparenza potrebbe forse conservare un margine di
applicazione con riferimento ad ipotesi diverse: esso, cioè, presupporrebbe anche che il
patto, quand’anche concluso tacitamente o per fatti concludenti, oltre ad essere attuato
venga anche dichiarato esistente (si pensi all’ipotesi in cui uno degli aderenti al patto non formalmente esteriorizzato in precedenza - dichiari in assemblea di esercitare il
proprio voto secondo quanto stabilito dal sindacato cui aderisce: in un simile caso non
sarà più opponibile agli altri soci e ai terzi l’inesistenza del patto, proprio perché si
genererà un legittimo affidamento in ordine alla sua effettiva sussistenza). 179 La
dichiarazione del patto come esistente, però, non fa altro che confermare che i principi
in materia di apparenza sono incompatibili con il fenomeno del patto parasociale
occulto (nonché, più in generale, con l’occultamento di fatti giuridicamente rilevanti).
13. Segue: i patti parasociali occulti tra negozi indiretti e simulazione.
Il tema della prova dei patti parasociali occulti induce ad esplorare un ulteriore
fenomeno riscontrabile nella pratica. Può accadere, cioè, che più soggetti pongano in
essere comportamenti che, pur non consistendo propriamente nell’attuazione di un patto
parasociale, potrebbero quantomeno celare un simile accordo e, pertanto, dare vita ad
un’ipotesi di occultamento (o, forse, anche di simulazione).180
Il tema del nascondimento dei patti parasociali dietro lo “schermo” di un diverso
negozio giuridico era stato più volte toccato da numerosi autori che, occupandosi in
passato dell’argomento, rilevavano il possibile intreccio dei due fenomeni. 181 Le ipotesi
178
Anche in Germania diversi autori hanno messo in evidenza l’inadeguatezza e l’inammissibilità di
un’eventuale “Anscheinsregeln” (regola dell’apparenza), in connessione con l’impraticabilità delle
massime di esperienza in questo settore dell’ordinamento: si vedano VON BÜLOW-BÜCKER, op. cit.,
702; PSAROUDAKIS, op. cit., 497-498; PRASUHN, op. cit., 211; SCHÜPPEN-WALZ, op. cit., 652,
ove si precisa che semplici elementi di sospetto non possono mai dare ingresso ad un’inversione
dell’onere della prova; così anche STEINMEYER, op. cit., 525. Propenso ad aprire cautamente la porta
ad un simile meccanismo sembra invece SCHNEIDER, § 22, cit., 1074, temendo che la frapposizione di
ostacoli all’alleggerimento dell’onere probatorio possa privare le norme della loro funzione.
179
Semmai, potrebbe porsi il problema della possibilità per gli altri soci presunti membri del patto di
opporre la propria estraneità ad esso: la questione è delicata, non essendo certo facile accettare l’idea che
tutti i soci che voteranno in assemblea in modo conforme a colui che ha dichiarato di agire sulla base
dell’accordo parasociale siano automaticamente considerati membri di questo. La prova contraria,
dunque, dovrà ritenersi ammissibile, quantomeno a favore degli altri soci ritenuti membri del patto.
180
Il fenomeno della simulazione in rapporto ai patti parasociali risulta essere stato approfondito soltanto
in pochissimi scritti ormai non più recenti: cfr. in particolare CERONI, Simulazione e patti parasociali, in
Riv. trim. dir. proc. civ., 1990, 1111 ss. e spec. 1155 ss., ove però il problema veniva studiato in una
diversa prospettiva, giacché si ipotizzava la rilevanza dei patti parasociali quali possibili
“controdichiarazioni” (non occulte ma espresse, quindi) rispetto al contratto di società; da questo angolo
visuale studiava il problema anche FARENGA, I contratti parasociali, cit., 302 ss.
181
FARENGA, I contratti parasociali, cit., 300 ss.; JAEGER, Il problema, cit., 205, ove si osservava il
“ricorso a diversi istituti, utilizzati indirettamente, come veste formale sotto la quale si nasconde, in tutto
o in parte, la sostanza dei sindacati azionari [...] Essi vanno dalla società holding, società fiduciarie,
116
che più comunemente venivano immaginate dagli interpreti erano la comunione di
azioni, il conferimento da parte di più soci di una società A dei rispettivi pacchetti
azionari ad una società holding B (magari di nuova costituzione), l’intestazione
fiduciaria di azioni.182
Il fatto che simili congegni negoziali possano celare un patto parasociale era già
messo in evidenza in letteratura da quanti osservavano che proprio l’impiego di una
holding può rappresentare lo strumento per dotare il patto di una sorta di “efficacia
reale” tra le parti, per garantirne cioè il pieno rispetto, al pari dell’utilizzo di altri
strumenti giuridici quali, appunto, il trasferimento di azioni ad una società fiduciaria, la
comunione di azioni o anche il mandato.183
Gli esempi testé richiamati sollecitano, tuttavia, un approfondimento della
questione che consenta di fare maggiore chiarezza e, prima ancora, di distinguere
adeguatamente i medesimi fenomeni dalla figura della simulazione.
Non vi è dubbio, innanzitutto, che un patto parasociale, al pari di un comune atto
negoziale, possa essere in concreto simulato: ciò si verificherà allorquando sussista una
controdichiarazione - nota, ovviamente, soltanto agli aderenti - volta ad escludere gli
effetti dell’accordo. Sembrerebbe doversi parlare di vera e propria simulazione (del
contratto in generale e del patto parasociale in particolare) soltanto nell’ipotesi in cui
l’accordo - per quanto, appunto, simulato - si sia manifestato nel mondo giuridico. Non
pare agevole, invero, immaginare un patto simulato che non sia stato esteriorizzato:
verrebbe meno, in quest’ultimo caso, la stessa ragion d’essere della controdichiarazione,
proprio in quanto (il contratto e in particolare) l’accordo parasociale - i cui effetti non
sono voluti dalle parti - non è nemmeno reso percepibile ai terzi. Nell’ambito della
fattispecie simulatoria, infatti, le parti hanno interesse a che il contratto simulato sia
percepito all’esterno come pienamente efficace e dunque, ancor prima, sia riconoscibile
come esistente. Tuttavia, si è autorevolmente scritto che “nulla esclude che il contratto
simulato, quando non sia un contratto per il quale la legge esige la forma scritta, possa
società semplice, comunione di quote, mandato collettivo irrevocabile e previsione di clausole penali”.
Sul punto anche VIDIRI, I sindacati di voto: un antico contrasto tra approdi dottrinali e
giurisprudenziali, nota a Cass. 27 luglio 1994, n. 7030, in Giust. civ., 1995, I, 1328; RESCIO, I sindacati
di voto, cit., 675 ss. Ancor prima, si vedano COTTINO, Le convenzioni di voto, cit., 287; nonché, a
commento di un antico caso giurisprudenziale riguardante proprio il conferimento di azioni in una
holding, BIGIAVI, Nuovi orizzonti in tema di sospensione di delibera assembleare e di sindacati
azionari, in Foro it., 1953, I, 727 ss.
182
Sul fatto che “il sindacato può assumere la veste di una holding”, cfr., in particolare, SBISA’,
Sindacati di voto e rappresentanza in assemblea, in Riv. soc., 1991, 1394. Quanto all’intestazione delle
azioni sindacate ad un trustee, al fine di dare attuazione ad uno shareholders’ agreement, si tratta di un
fenomeno diffuso nell’esperienza statunitense, come rileva anche TUCCI, Contratti parasociali e trust
nel mercato finanziario, in I contratti del mercato finanziario, a cura di E. Gabrielli e R. Lener, Torino,
2004, II, 935.
183
V. OPPO, Sub artt. 122-123, cit., 1137; ATELLI, op. cit., 665; JAEGER, Il problema, cit., 254, per il
rilievo che “nell’ipotesi di società holding, chi voglia contestare che essa nasconde una convenzione di
voto [...] si assume un compito non facile.” Di recente, è intervenuta in argomento anche la Consob, con
la Comunicazione n. DEM/8093480 del 9 ottobre 2008, che ha escluso in tali casi l’operatività
dell’esenzione dall’obbligo di OPA consistente negli “acquisti infragruppo” di cui all’art. 49, comma 1,
lett. c) del Regolamento Emittenti (una volta superata, naturalmente, la soglia rilevante); tale
provvedimento è pubblicato in Riv. soc., 2009, 151 ss., con commento di MOSCA, Riorganizzazione
della struttura proprietaria e opa obbligatoria, ibidem, 136 ss.
117
essere tacitamente concluso.”184 Naturalmente, se l’accordo è reso manifesto le
problematiche emergenti nelle ipotesi di occultamento dei patti parasociali vengono
meno e, pertanto, si tratterà di invocare (soltanto) l’applicazione delle norme del codice
civile in materia di simulazione (artt. 1414-1417 c.c.).185 Se si accoglie l’idea che sia
possibile trovarsi di fronte (ad un contratto e quindi anche) ad un patto parasociale
tacitamente concluso e simulato, a quanto detto si affiancherà peraltro il problema della
validità dell’accordo simulato (quantomeno nelle società quotate), giacché l’art. 122
T.U.F. fulmina con la nullità i patti non comunicati espressamente secondo le modalità
in esso stabilite. E’ però assai arduo riuscire ad accettare questo tipo di ricostruzione:
come da più parti si rileva, il tratto caratteristico e fondamentale del fenomeno
simulatorio consiste nella creazione di un’apparenza di effetti giuridici, pur non
essendo essi voluti.186 Come si è osservato nel paragrafo precedente, l’apparenza (di
effetti giuridici) e l’occultamento sono due concetti antitetici, che non possono
coesistere: se c’è simulazione, c’è per definizione apparenza e dunque non ci può essere
patto occulto. Si è efficacemente evidenziato, inoltre, che “in assenza di una
controdichiarazione, non si può parlare di una dissimulazione, e perciò non si può
nemmeno parlare di una simulazione”187: una controdichiarazione ha senso e significato
proprio (e solo) in quanto vi sia una dichiarazione, ma questa nel caso del patto
parasociale (e, più in generale, del contratto) occulto manca, con la conseguenza che,
non potendosi riscontrare né una dichiarazione né una controdichiarazione, i patti
parasociali occulti non potranno configurarsi come contratti simulati.188 Del resto, è
difficile accogliere l’idea - inevitabilmente presupposta dalla tesi qui criticata - secondo
cui la percepibilità esteriore dell’accordo (pur simulato) possa essere garantita
semplicemente attraverso le condotte attuative dello stesso, in grado semmai di dare vita
ad un sospetto circa l’esistenza del patto più che ad una situazione di apparenza in senso
stretto.
Ad ogni modo, negli esempi innanzi richiamati - conferimento di partecipazioni
in una holding e intestazione fiduciaria - prende corpo, a ben guardare, un fenomeno di
diversa natura: le parti, cioè, si servono di un determinato strumento negoziale per
garantire il pieno rispetto del patto parasociale e, al contempo, per evitare la
184
Così GALGANO, Della simulazione, cit., 27, critico nei confronti dell’indirizzo giurisprudenziale
“che induce a pensare al contratto simulato come ad un contratto espresso”.
185
Non vi è dubbio infatti che, in tal caso, i soggetti estranei all’accordo possano provare il reale stato di
cose per presunzioni: come la Suprema Corte ha precisato, “il divieto posto dall’art. 2722 c.c. è, pertanto,
derogato a favore dei creditori e dei terzi, i quali possono smentire la scrittura che contiene il contratto
simulato, avvalendosi di qualsiasi mezzo di prova”: così, per tutte, Cass. 17 marzo 2005, n. 5765,
reperibile in www.dejure.giuffre.it.
186
Sul punto, chiaramente, ROPPO, Il contratto, in Trattato di diritto privato, a cura di G. Iudica e P.
Zatti, Milano, 2001, 694: “il contratto simulato è quello che le parti fanno per creare la situazione
apparente [...] esso positivamente crea un’apparenza di effetti contrattuali” (corsivo dell’Autore).
187
Così SACCO, Le controdichiarazioni, in Obbligazioni e contratti, Trattato di diritto privato diretto da
P. Rescigno, Torino, 2002, v. 10, t. II, 283.
188
Naturalmente, quanto detto non esclude invece che proprio perché occulti i patti parasociali in parola
possano invece presentarsi all’interno del fenomeno simulatorio in qualità di contratti dissimulati, tenuti
cioè nascosti da una diversa fattispecie negoziale affetta da simulazione relativa: in tali casi, però,
potranno riprendere vigore i criteri già esposti in punto di prova del patto occulto, essendo la simulazione
relativa un semplice congegno utilizzato in concreto proprio per nascondere la pattuizione realmente
voluta dalle parti. In proposito, può valere quanto si dirà immediatamente oltre nel testo.
118
manifestazione di questo all’esterno. In altri termini, l’accordo parasociale rimane
nascosto, ma gli effetti dell’ulteriore contratto posto in essere sono pienamente voluti
dagli aderenti. Tale fattispecie, allora, pare riconducibile a quella del negozio indiretto,
che “si distingue da quello simulato in quanto realmente voluto dalle parti”.189
Nei casi menzionati, è evidente la mancanza di una controdichiarazione dei
contraenti: essi vogliono sia il patto parasociale occulto, sia l’ulteriore negozio indiretto,
che anzi risulta posto in essere proprio al fine di rafforzare gli effetti prodotti dal primo
e di garantirne il rispetto, evitandone la piena manifestazione esteriore.
La costituzione di una società holding cui i paciscenti decidono di trasferire le
proprie azioni, così come l’intestazione fiduciaria, sono state ascritte dalla dottrina e
dalla giurisprudenza alla fattispecie dell’interposizione reale di persona, prima ancora
che alla categoria del negozio indiretto.190 Tale congegno negoziale, come si è rilevato,
“è in linea di principio valido ed efficace, salvi i casi in cui ricorrano gli estremi della
189
Il virgolettato è di MANTUCCI, Sub artt. 1414-1417, in Codice civile annotato con la dottrina e la
giurisprudenza, a cura di G. Perlingieri, Napoli, 2010, Libro quarto, t. I (artt. 1173-1536), 983: l’A.
precisa che “la simulazione si distingue dal negozio indiretto, che è il negozio utilizzato per la
realizzazione di una funzione non corrispondente alla sua causa [...] ovvero per il conseguimento di
finalità diverse, spesso ulteriori, rispetto a quelle normali o tipiche del modello negoziale adoperato”. Nel
senso indicato nel testo si esprime, con particolare riferimento al contratto fiduciario, anche GALGANO,
Della simulazione, cit., 35. Sulla distinzione tra simulazione, contratto fiduciario e interposizione reale,
cfr. anche GENTILI, Simulazione dei negozi giuridici, in Dig. disc. priv., Sez. civ., XVIII, Torino, 1998,
523 ss. Per un rilievo simile a quello proposto nel testo, v. JAEGER, Il problema, cit., 255, già
pienamente consapevole che nell’ipotesi di creazione di una società holding “non si può fare ricorso ai
principi della simulazione, perché lo schema societario è voluto, sia pure avendo in vista un’utilizzazione
ulteriore, di tipo indiretto.” Sul punto v. anche FARENGA, I contratti parasociali, cit., 300 ss. Certo, può
accadere che gli stessi conferimenti di azioni in una holding a copertura di un patto parasociale siano
simulati, come segnalavano già COTTINO, Le convenzioni di voto, cit., 287-288, e BIGIAVI, op. cit.,
731: in tal caso, però, non sembra che sia necessariamente anche tale patto ad essere simulato, potendo
essere lo stesso pienamente voluto dalle parti; l’A. da ultimo citato rilevava anche che in tale ipotesi ogni
socio della holding potrebbe far valere la simulazione e pretendere la restituzione dei titoli apportati, “in
modo da esercitare liberamente il voto che gli compete”. E’ forse possibile ritenere, viceversa, che in
linea di principio, pur continuando il patto a produrre i suoi effetti tra le parti, a venire meno sia soltanto il
meccanismo rafforzativo del suo adempimento e della sua segretezza, rappresentato dal conferimento
delle partecipazioni in un’unica società; è anche vero, tuttavia, che tale soluzione, come si dirà poco oltre
nel testo, sembra attagliarsi soltanto alle società aperte ma non quotate, perché con riferimento a queste
ultime l’art. 122 T.U.F. commina la nullità dei patti mantenuti segreti, con la conseguenza
(sostanzialmente equivalente a quella rilevata da Bigiavi) che i paciscenti non risulterebbero comunque
più vincolati a quanto previsto dal regolamento negoziale.
190
Sul punto, cfr. MANTUCCI, op. cit., 983 ss. e spec. 988, ove l’A. osserva che “nell’intestazione
fiduciaria di titoli azionari (o di quote di partecipazione societaria) si ravvisano gli estremi
dell’interposizione reale di persona”. In giurisprudenza, hanno escluso che il fenomeno fiduciario integri
un’ipotesi di simulazione, Cass. 1 aprile 2003, n. 4886, in Giust. civ., 2004, I, 1591; Cass. 27 novembre
1999, n. 13261, in Società, 2000, 702, nonché in Banca, borsa, tit. cred., 2001, II, 268 (tale pronuncia ha
ricondotto appunto l’intestazione fiduciaria di azioni al fenomeno dell’interposizione reale, prima ancora
che alla generale categoria del negozio indiretto); Cass. 18 ottobre 1991, n. 11025, in Giur. it., 1992, I, 1,
1786, nonché in Giust. civ. Mass., 1991, f. 10; Trib. Milano, 1 febbraio 2001, in Giur. it., 2001, 1441. Sul
punto anche GALGANO, Della simulazione, cit., 35, il quale definiva “il contratto fiduciario come il
contratto mediante il quale si persegue uno scopo diverso dalla causa del contratto prescelto, avendo il
pactum fiduciae la funzione di piegare il contratto prescelto alla realizzazione dello scopo perseguito”;
sempre con riferimento al contratto fiduciario, anche la giurisprudenza si è espressa in termini di contratto
“strumentalmente diretto al conseguimento di uno scopo diverso da quello tipico” (così Cass. 23 gennaio
1971, n. 146, in Foro it., 1971, I, 1655). Sul tema dell’interposizione di persona, cfr. di recente LUPOI,
op. cit., spec. 29 ss.; e in precedenza NANNI, L’interposizione di persona, Padova, 1990, spec. 59 ss. per
quanto concerne i tratti distintivi dell’interposizione reale, del negozio fiduciario e del negozio indiretto.
119
frode alla legge e della conseguente nullità del negozio”. 191 In proposito, occorrerà
distinguere l’ipotesi in cui il patto parasociale occultato ed affiancato da uno dei negozi
indiretti sopra menzionati sia stato stipulato nell’ambito di una società quotata o,
viceversa, di una società aperta al mercato del capitale di rischio ma non quotata (e
rispettive controllanti). Posto che in entrambi i casi il negozio indiretto, in quanto volto
ad aggirare una norma imperativa, non potrà che essere colpito dalla nullità, tale
sanzione si estenderà anche al patto parasociale sottostante soltanto nell’ambito di una
società con azioni quotate, giusta il disposto dell’art. 122 T.U.F. La prova che il negozio
indiretto celi in realtà un patto parasociale mantenuto segreto e che, dunque, esso risulti
stipulato in frode alla legge, può certamente essere fornita a mezzo dello strumento
presuntivo: sotto questo profilo non vi è quindi differenza rispetto alla simulazione, la
cui prova può essere fornita per presunzioni senza limiti dai terzi, ma anche dalle parti
se volta a far valere l’illiceità del contratto dissimulato. Proprio la norma sancita
dall’art. 1417 c.c. sarebbe, secondo un indirizzo dottrinale, la “mera applicazione del
principio, desumibile dagli artt. 1344 e 1418, della nullità del negozio in frode alla
legge”.192
191
MANTUCCI, op. cit., 984, ove ulteriori riferimenti; GALGANO, Della simulazione, cit., 39 e 45, in
generale e con particolare riferimento al contratto fiduciario e al mandato senza rappresentanza; v. anche
SACCO, Le controdichiarazioni, cit., 284, il quale precisa che “un contratto siffatto, se non si prova che
impinga in un’ipotesi di frode alla legge, è lecito”. Più di recente, FUSI, I patti parasociali alla luce della
nuova disciplina societaria e le possibili applicazioni dei voting trust, in Società, 2007, 694. A parte
l’eventualità in cui essi contribuiscano a nascondere un patto parasociale, la legittimità dei congegni
negoziali volti ad attribuire al patto una “efficacia reale” è ormai riconosciuta, in linea di principio, dalla
dottrina: cfr. ad es. RORDORF, I sindacati di voto, cit., 25; ID., I patti parasociali, cit., 800-801;
LOMBARDI, I patti parasociali nelle società non quotate e la riforma del diritto societario, in Giur.
comm., 2003, I, 275; ma v. anche FIORIO, I patti parasociali, cit., 67 ss.; MACRI’, L’efficacia dei patti
parasociali, nota a Trib. Genova, 8 luglio 2004 (ord.), in Banca, borsa, tit. cred., 2006, II, 238 ss.;
GHIONNI, Patti parasociali, sindacati di voto a maggioranza per teste e forme di tutela, nota a Trib.
Genova, 8 luglio 2004 (ord.), in Giur. comm., 2007, II, 248-249; LENER, Appunti, cit., 51 ss. Il Tribunale
di Milano, 10 maggio 2000 (ord.), ha addirittura ritenuto inesistente un patto parasociale di blocco perché
esso non era costruito in modo da limitare effettivamente la libertà degli aderenti di compiere atti di
vendita delle azioni: la pronuncia è pubblicata in Giur. it., 2001, I, 334 ss. con nota di DESANA, D. Lgs.
n. 58 del 1998: una pronuncia del Tribunale di Milano in tema di Opa concorrente, ibidem. Si noti però
che ancora recentemente la Cassazione ha ritenuto inammissibile “la circostanza che al socio stipulante
sia impedito di determinarsi autonomamente all’esercizio del voto in assemblea”, cosa che accade proprio
con il confezionamento dei negozi in esame: così Cass. 5 marzo 2008, n. 5963, cit.; ma già
precedentemente Cass. 23 novembre 2001, n. 14865, in Società, 2002, 431 ss.; in Riv.
not., 2002, 1047 ss.; e in Giur. comm., 2002, II, 666 ss. Stando a questa impostazione, il negozio indiretto
sarebbe da considerare sempre nullo, anche quando non sia rivolto a celare un patto parasociale, bensì
semplicemente a garantirne l’adempimento. Diverso problema è quello dell’ammissibilità di
provvedimenti cautelari volti ad imporre al socio il rispetto del patto parasociale, sul quale si sono
registrate diverse aperture della giurisprudenza: v. da ultimo, POMELLI, Stipulazione per facta
concludentia, efficacia e coercibilità dei patti parasociali di voto, nota a Trib. Belluno, 23 gennaio 2010
(ord.), cit., in Giur. comm., 2011, II, 1498 ss.; in precedenza, oltre ai già citati autori, SEMINO, I patti
parasociali hanno assunto efficacia reale?, nota a Trib. Genova, 8 luglio 2004 (ord.), in Società, 2004,
1267 ss.
192
Di nuovo MANTUCCI, op. cit., 1015, ove ulteriori riferimenti dottrinali. Analog. GIUDICI,
L’acquisto, cit., 491, il quale aggiungeva (nt. 2) che l’art. 1417 c.c., pertanto, “non è affatto una norma
eccezionale”. Occorre evidenziare, poi, che i fenomeni di interposizione o intestazione fiduciaria appena
esaminati si prestano a giocare un ruolo di primo piano anche nel contesto della normativa bancaria sulla
trasparenza degli assetti proprietari: non soltanto perché l’art. 22, comma 1, T.U.B., stabilisce
espressamente che “ai fini dell’applicazione dei capi III e IV del presente Titolo si considerano anche le
partecipazioni acquisite o comunque possedute per il tramite di società controllate, di società fiduciarie o
120
E’ da segnalare, tuttavia, l’opinione secondo la quale i voting trust o intestazioni
fiduciarie non sarebbero riconducibili alle fattispecie dei patti parasociali rilevanti ai
sensi degli artt. 2341-bis c.c. e 122 T.U.F.: si osserva, per un verso, che “l’atto istitutivo
di trust, come pure l’atto di conferimento della partecipazione in trust, è per ciascun
disponente un atto unilaterale e non un patto”; per altro verso, che le finalità dell’atto
istitutivo del trust “possono essere ben più ampie” di quelle descritte nelle due norme
testé richiamate.193 Nessuno di questi due argomenti, tuttavia, persuade.
Quanto al primo, è agevole obiettare che non può certo essere esclusa dal campo
del possibile l’ipotesi di un’intestazione fiduciaria effettuata di comune accordo da più
soci a favore di un unico soggetto, essendo anzi proprio questa l’ipotesi più frequente. 194
Quanto al secondo argomento, la circostanza che le finalità del trust - nonché, più in
generale, di congegni negoziali in grado di determinare il trasferimento in capo a terzi di
diritti sociali195 - possano andare oltre quelle di cui agli artt. 2341-bis c.c. e 122 T.U.F.
per interposta persona”; ma anche, più specificamente, per il fatto che tali ipotesi possono nascondere un
accordo sul voto soggetto all’obbligo di disclosure di cui all’art. 20, comma 2, T.U.B. In dottrina si è
sostenuto che gli accordi rilevanti ai fini di tale ultima norma siano anche quelli connessi alla possibilità
in capo ai partecipanti di influenzare concretamente il voto esercitato da altri, proprio come accade nei
casi di interposizione fiduciaria o persona interposta; né è da escludere a priori che il fiduciario o
l’interposto siano ab origine parte dell’accordo, in maniera tale da dare vita ad una forma di
partecipazione indiretta: cfr. MOTTI, op. cit., 318 ss., la quale ritiene che tale conclusione sia in linea con
il contenuto delle Istruzioni di Vigilanza della Banca d’Italia (Titolo II, Sezione III, paragrafo 2.2) che
specificano il contenuto dell’obbligo di comunicazione imponendo l’indicazione anche dei partecipanti in
via indiretta all’accordo. L’A. esclude però che tale obbligo sussista anche in capo agli stessi partecipanti
indiretti.
193
La tesi riferita ed il virgolettato sono di FUSI, op. cit., 694.
194
Sul punto TUCCI, Contratti parasociali, cit., 936 e 939, ove si sottolinea che “la creazione di un
voting trust si incentra, infatti, su due passaggi fondamentali, consistenti nella stipulazione di un accordo
tra due o più soci e nel trasferimento delle loro azioni ad uno o più trustees”; l’A. aggiunge anche che in
tali ipotesi tanto gli stipulanti quanto i trustees siano tenuti agli obblighi di comunicazione dei patti
parasociali (ibidem, 951). La stessa idea è espressa dal medesimo autore in altra sede, là dove afferma
ancor più chiaramente che l’accordo con cui più azionisti convengano di trasferire le proprie azioni ad un
trustee “allo scopo di uniformare il diritto di voto in assemblea, ovvero di rendere stabili gli assetti
proprietari della società partecipata” si configurerebbe ex se come patto parasociale avente ad oggetto
l’esercizio del voto o il limite al trasferimento delle azioni, “con conseguente applicabilità della relativa
disciplina in tema di pubblicità [...]”:TUCCI, Patti parasociali, cit., 186-187.
195
Il pensiero corre al rapporto tra patti parasociali e associazioni di azionisti (art. 141 T.U.F.). La
profonda rivisitazione dell’art. 141 T.U.F. ad opera del d. lgs. n. 27/2010 ha determinato l’abrogazione
del comma 2, che escludeva le associazioni di azionisti dall’applicazione delle sanzioni di cui ai commi 3
e 4 dell’art. 122 T.U.F. in materia di patti parasociali. Questo enigmatico riferimento aveva suscitato in
dottrina accese discussioni sulla natura delle associazioni di azionisti e dunque sull’applicabilità dei
commi 1 e 2 dell’art. 122 T.U.F. Sul punto, cfr. SACCHI, Sollecitazione e raccolta delle deleghe di voto,
in AA.VV., La riforma delle società quotate, Milano, 1998, 394, che, pur ritenendo le associazioni di
azionisti configurabili quali patti parasociali, manifestava l’impossibilità di rintracciare nelle norme una
soluzione univoca. Anche PISCITELLO, Sub art. 141, in Testo unico della finanza (d. lg. 24 febbraio
1998, n. 58), Commentario diretto da G. F. Campobasso, Torino, 2002, **, 1153, mostrava di considerare
l’associazione di azionisti in quanto tale come patto parasociale, salva la necessità di verificare se essa
potesse configurarsi quale vero e proprio sindacato di voto, tale perciò da determinare anche
l’applicazione delle norme sui patti parasociali in tema di durata e di recesso (artt. 123 e 124 T.U.F.).
Secondo CAVANNA, Sub art. 141, in La legge Draghi e le società quotate in borsa, diretto da G.
Cottino, Torino, 1999, 221, proprio l’applicabilità delle norme in tema di patti parasociali (artt. 122-124)
all’associazione che si fosse configurata come sindacato di voto avrebbe giustificato il sacrificio della
libertà nell’espressione del voto da parte del socio associato, pur sancita dal previgente art. 141 T.U.F.
Sulla possibilità per le associazioni di configurarsi come sindacato di voto, si veda altresì
MONTALENTI, La società quotata, cit., 191. In senso difforme RACUGNO, Associazioni di azionisti e
121
non significa che esse non possano anche coincidere proprio con l’intento di non
manifestare un patto parasociale rilevante; “non sembra possano sussistere dubbi,
dunque, in merito alla riconducibilità del voting trust agreement alla nozione di patto
parasociale avente ad oggetto l’esercizio del diritto di voto in assemblea ovvero di patto
che pone limiti al trasferimento delle azioni”196, come risulta anche da un confronto con
l’esperienza comparatistica197.
tutela dei consumatori, in Giur. comm., 1999, I, 663, che spiegava il mancato richiamo ai primi due
commi dell’art. 122 T.U.F. con l’impossibilità per l’associazione di azionisti di assumere le vesti di un
patto parasociale, attesa la stretta funzionalità di questi ultimi agli interessi dei gruppi di comando e stante
la libertà di voto degli associati sancita dall’art. 141, u.c., T.U.F. Così anche PELLEGRINO, La nuova
disciplina della rappresentanza dell’azionista nelle società quotate, Milano, 2002, 118 ss.
L’interpretazione più piana, anche se non incontrovertibile, della disposizione previgente era nel senso
che le associazioni di azionisti fossero in ogni caso (intendesi: anche quando non configurabili come veri
e propri patti parasociali) soggette agli obblighi pubblicitari di cui all’art. 122 T.U.F., commi 1 e 2 ma
non, appunto, alle relative sanzioni di cui ai due successivi commi: così PRESTI, La nuova disciplina
delle deleghe di voto, in Banca impresa società, 1999, 45, il quale osservava che “la deroga espressa a
una particolare sanzione ha senso solo se persiste l’obbligo sostanziale”; nonché PISCITELLO, op. cit.,
1153. Contra invece FAZZUTI, La raccolta delle deleghe e le associazioni di azionisti, in Intermediari
finanziari, mercati e società quotate, a cura di A. Patroni Griffi, M. Sandulli, V. Santoro, Torino, 1999,
961; e OPPO, Sub artt. 122-123, cit., 1143, in base all’argomento secondo cui sarebbe stata inconcepibile
l’esistenza di un precetto senza sanzione. Peculiare e diversa la tesi di BLANDINI, Società quotate, cit.,
444, ad avviso del quale le norme dei commi 3 e 4 dell’art. 122 T.U.F. sarebbero rimaste inapplicabili
anche qualora l’associazione di azionisti avesse assunto i connotati di un patto parasociale: tali
disposizioni sarebbero però tornate pienamente operanti nel caso in cui l’associazione non avesse
rispettato i requisiti dettati dall’art. 141 T.U.F e, dunque, non fosse risultata legittimata a raccogliere
deleghe di voto. Il legislatore del 2010, nella prospettiva di semplificazione normativa e di
incoraggiamento all’utilizzo di strumenti in grado di determinare un maggior coinvolgimento
dell’azionariato disperso, ha verosimilmente voluto escludere l’automatica applicazione di quegli obblighi
pubblicitari alle associazioni di azionisti, anche perché queste devono pur sempre essere stipulate per
scrittura privata autenticata e sono soggette agli obblighi di trasparenza dettati dall’art. 144 T.U.F. e dalle
disposizioni integrative emanate dalla Consob. Tuttavia, è da ritenere che l’art. 122 T.U.F. torni
pienamente ad applicarsi qualora, in concreto, l’associazione si configuri come patto parasociale rilevante
ai sensi dell’art. 122 T.U.F. Sicuramente, non sempre essa può essere equiparata ad un sindacato di voto:
in passato si era osservato che le prescrizioni in materia di voto divergente e di libertà nel conferimento
della delega operassero nel senso di impedire all’associazione di “divenire il vestito di un sindacato di
voto vincolante per il socio associato” (così PRESTI, op. cit., 44). Questo rilievo è da ritenere ancora
valido perché, nonostante la novella, l’esordio dell’art. 141 T.U.F. mostra di voler preservare la libertà di
espressione del voto dell’associato. Ci si può chiedere, piuttosto, se l’associazione sia o meno da
considerare sempre alla stregua di un patto di consultazione: secondo alcuni sarebbe tale (solo) qualora lo
statuto preveda la formulazione di proposte da parte dell’associazione: cfr. ancora PRESTI, op. cit., 44;
da ultimo, BLANDINI, op. ult. cit., 443. E’ difficile però sostenere che non vi sia, in ogni caso, una
consultazione, quantomeno operata dai (e a beneficio dei) rappresentanti dell’associazione. Ad ogni
modo, per quanto qui interessa, non è da escludere che questa figura negoziale possa nascondere (oltre ad
una vera e propria consultazione tra gli associati) anche un patto di voto (occulto), che potrebbe essere
desumibile in via indiziaria dalla costante uniformità dei voti espressi in assemblea dai membri
dell’associazione. Se così è, se ne dovrà naturalmente tenere conto anche ai fini di un eventuale obbligo di
OPA. La disciplina delle associazioni di azionisti è un modello mutuato in parte dall’ordinamento
francese: per questa prospettiva storico-comparatistica v. TORINO, L’istituzionalizzazione delle
minoranze azionarie. Le associazioni di azionisti in Francia e in Italia, in Riv. soc., 1998, 603 ss.
196
Con queste parole ancora TUCCI, Contratti parasociali, cit., 953.
197
Nell’ordinamento americano, la rilevanza dell’istituto del trust ai fini del computo delle partecipazioni
dei soggetti obbligati alla disclosure (ed eventualmente ad una tender offer) secondo le Sections 13(d) e
14(d), è espressamente contemplata dalla Rule 13d-3(b) della SEC, la quale estende la nozione di
beneficial ownership a chiunque “directly or indirectly, creates or uses a trust”, come anche “any other
contract, arrangement or device [...] as part of a plan or scheme to evade the reporting requirements of
sections 13(d) [...]”. Merita segnalare che anche alcuni autori tedeschi hanno messo in luce la rilevanza,
ai fini della scoperta di un concerto, dell’azione condotta mediante un “rappresentante comune”,
122
Tra l’altro, occorre ricordare che nel caso dell’intestazione fiduciaria, il soggetto
che acquisisce la disponibilità dei titoli azionari dovrà seguire le indicazioni dei
fiducianti nell’esercizio dei relativi diritti, le quali possono senz’altro essere omogenee
proprio in quanto derivanti da un accordo concluso dai fiducianti stessi ma non
rivelato.198
Quanto al conferimento di partecipazioni in una holding, non è superfluo
precisare che il fenomeno in esame si differenzia, in linea di massima, dal patto
parasociale direttamente afferente ad una società controllante una s.p.a. aperta o quotata,
espressamente contemplato dalle norme del codice civile e del T.U.F. 199: nel caso in
questione, infatti, si conferiscono partecipazioni relative ad una determinata società precedentemente detenute - in una diversa società holding proprio allo scopo di
rafforzare - per il tramite di quest’ultima - l’azione congiunta nella società controllata e
garantire una strategia unitaria (beneficiando, eventualmente, anche dei vantaggi che
derivano direttamente dalla partecipazione nella holding).
Per maggiore chiarezza, è bene prendere in considerazione le due ipotesi
separatamente.
Può accadere, come si è appena ricordato, che venga stipulato un patto
parasociale in una società che controlla una s.p.a. aperta o una s.p.a. quotata. Esso sarà
senz’altro da assoggettare a pubblicità secondo quanto previsto dall’art. 2341-ter c.c. e
dall’art. 122 T.U.F. Quanto alla disciplina dell’OPA obbligatoria, occorre porre mente
al fatto che l’art. 105, comma 2, T.U.F. indica che la nozione di “partecipazione”
rilevante ai fini delle norme in tema di offerte pubbliche di acquisto obbligatorie va
intesa come “quota, detenuta anche indirettamente per il tramite di fiduciari o per
interposta persona”. 200 Non vi è dubbio, allora, che vadano incluse nel calcolo anche le
incaricato di agire per conto degli aderenti: con riferimento alla fattispecie del § 22, Abs. 2 e quindi ai fini
della trasparenza, cfr. SCHNEIDER, § 22, cit., 1067. Ancor più specificamente, precisa l’A. che un’intesa
rilevante sussiste anche “wenn die Beteiligten die Koordinierung der Ausübung ihrer Stimmrechte in
einem Verein oder in einer Gesellschaft, gleich welcher Rechtsform, zusammenfassen” (ossia, “quando gli
aderenti riuniscono il coordinamento dell’esercizio dei loro diritti di voto in capo ad un’associazione o ad
una società, in qualunque forma giuridica”). Cfr. anche, proprio con riguardo al § 30, WEIß, op. cit., 148
ss., il quale ammette espressamente l’imputazione ai soci di una fiduciaria (“Treuhänder”) dei diritti di
voto da questa detenuti in una diversa società obiettivo. Conf. RALOFF, op. cit., 256, la quale aggiunge
che in caso di più accordi separati degli azionisti con l’intermediario occorrerà comunque, secondo i
criteri generali, “einen bewussten Kommunikativen Prozess und eine gegenseitige Verständigung der
Beteiligten” (“un processo comunicativo consapevole e una reciproca intesa tra gli interessati”); negli
stessi termini GAEDE, op. cit., 269. E’ stato anche evidenziato che la semplice delega per l’esercizio del
voto ad un’associazione di azionisti, conferita da più soci singolarmente, non può rilevare ai sensi del §
30, a meno che i soci decidano di coordinare il loro comportamento secondo le proposte
dell’associazione: così di nuovo RALOFF, op. cit., 186.
198
Infatti, essendo l’intestazione fiduciaria di azioni riconducibile alla figura dell’interposizione reale, va
tenuto presente che “l’interposto acquista (a differenza che nel caso di interposizione fittizia o simulata) la
titolarità delle azioni o delle quote, pur essendo, in virtù di un rapporto obbligatorio con l’interponente,
tenuto ad osservare un certo comportamento”: così MANTUCCI, op. cit., 988.
199
Così come si differenzia, naturalmente, dal concerto individuabile nel rapporto esistente tra
controllante e controllata, espressamente preso in considerazione dall’art. 101-bis, comma 4-bis, lett. b)
T.U.F.; per un’analoga ipotesi nell’ordinamento americano v. in particolare il Current Issues and
Rulemaking della SEC del 14 novembre 2000, cit., il quale ha identificato i potenziali offerenti
(“bidders”) anche nei soggetti che “control the named bidder, directly or indirectly”.
200
La possibile rilevanza dei patti afferenti ad una holding, ai fini dell’OPA obbligatoria sulle azioni della
controllata, è contemplata anche in altri ordinamenti europei, anche se con determinate restrizioni: nel
123
partecipazioni detenute nella s.p.a. quotata tramite società controllate: per un verso,
Regno Unito, il Takeover Panel ha ritenuto che la detenzione da parte di più concertisti di una
partecipazione superiore al 50% in una società che a sua volta, direttamente o indirettamente, da sola o
magari unitamente ai concertisti stessi, controlla una seconda società, non determinerà automaticamente
l’obbligo di offerta con riferimento a tale ultima società se non in circostanze particolari, come il fatto che
“the interest in shares which the first company has in the second company is significant in relation to the
first company” (: “la partecipazione che la prima società detiene nella seconda è particolarmente
significativa in relazione alla prima società”) ovvero “securing control of the second company might
reasonably be considered to be a significant purpose of acquiring control of the first company” (:
“l’assicurarsi il controllo della seconda società può essere ragionevolmente ritenuto essere il vero scopo
dell’acquisto del controllo della prima società”) (cfr. The Takeover Code, cit.). In Francia, un interessante
caso in tal senso è stato deciso da CA Paris, 1re ch., sect. H., 13 sept. 2005, n° 2005/04058 Adam c/ Sté
Hyparlo et autres, in BJB, 2005, n. 177, 735 ss., con nota di BUCHER, De la prédominance au sein d’un
concert dans le cadre d’un cas de non lieu à dépôt d’une offre publique obligatoire indirecte (ibidem, 739
ss.); ma v. anche il commento di SCHMIDT-DELESPAUL, Contrôle conjoint et injonction de dépôt
d’une offre publique, in BJS, 2005, 1385 ss. Era accaduto che due gruppi di azionisti avevano concordato
una variazione degli assetti proprietari all’interno delle società tramite le quali controllavano
indirettamente un’ulteriore società quotata. La Corte aveva fatto applicazione dell’art. 243-3 del
règlement général dell’AMF, il quale prevede che allorché una partecipazione superiore ad un terzo del
capitale di una società quotata sia detenuto tramite un’altra società e costituisca parte essenziale
dell’attivo di questa, l’obbligo di lancio dell’offerta pubblica si applichi (cfr. pronuncia citata, ibidem,
737) “quand un groupe de personnes agissant de concert vient à prendre le contrôle de la société
détentrice [...], sauf si l’une ou plusieurs d’entre elles disposaient déjà de ce contrôle et demeurent
prédominante et, dans ce cas, tant que l’équilibre des partecipations respectives n’est pas
significativement modifié” (: “quando un gruppo di persone agenti di concerto viene ad acquisire il
controllo della società detentrice, salvo che uno o più tra loro già dispongano di tale controllo e
conservino il relativo predominio di tal che, in questo caso, l’equilibrio delle rispettive partecipazioni non
risulti significativamente modificato”). Anche nell’ordinamento tedesco è espressamente prevista
l’imputazione ai concertisti dei diritti di voto spettanti a (e dunque detenuti indirettamente tramite) società
figlie (Tochterunternehmen): inequivocabile in tal senso il § 30, Abs. 1 e Abs. 2. Sul punto, cfr. ad
esempio, ex multis, SCHNEIDER, § 30, cit., 851 ss.; STEINMEYER, op. cit., 529. Come rileva
PRASUHN, op. cit., 191, il concetto di “società figlia” è definito dal § 2, Abs. 6, WpÜG, il quale fa leva
sulla nozione di “influenza dominante” (beherrschende Einfluss) cui la stessa società figlia deve essere
soggetta, senza tuttavia meglio illustrarlo: l’A. propone allora di fare riferimento al concetto di
dipendenza (“Abhängigkeit”) di cui al § 17 AktG, che sarebbe ravvisabile “wenn ein Gesellschafter einen
ausschlaggebenden Einfluss auf die Personalpolitik der fraglichen Gesellschaft ausüben, er also mit
einer Hauptversammlungmehrheit die personelle Zusammensetzung des Aufsichtsrats und somit mittelbar
auch des Vorstands bestimmen kann” (quando, cioè, “un socio può esercitare un’influenza determinante
sulla scelta degli organi della società in questione, vale a dire può determinare con una maggioranza in
assemblea la composizione personale del consiglio di sorveglianza e così in via mediata anche del
consiglio di amministrazione”). Se l’ipotesi immaginata dalla norma sembra essere in prima battuta quella
di società individualmente controllate da ciascuno dei pattisti (cfr. VON BÜLOW - BÜCKER, op. cit.,
709 ss.) non pare certo da escludere l’imputazione, a coloro che controllano congiuntamente una società,
dei diritti di voto a questa spettanti nella (diversa) società obiettivo. In questo senso cfr. WEIß, op. cit.,
147, secondo cui l’imputazione avviene “auf der Annahme, dass die Beteiligten die Stimmrechtsausübung
der gemeinsamen Tochter wegen deren Abhängigkeit lenken können”, vale a dire “in base all’ipotesi che i
concertisti possono influenzare e pilotare l’esercizio dei diritti di voto spettanti alla società figlia
congiuntamente dominata proprio per via della sua dipendenza” (dai soci stessi); analog. STEINMEYER,
op. cit., 525-526, che evoca proprio l’ipotesi in cui tra più soci di una società veicolo vi sia un’intesa
sull’esercizio dei diritti di voto a questa spettanti in una diversa società “bersaglio”. In argomento anche
RALOFF, op. cit., 261, la quale osserva che se due soci controllano e dominano congiuntamente una
società e concludono un accordo per l’esercizio del voto nella stessa, a loro sono imputati i diritti di voto
che la società dominata detiene in una diversa società obiettivo: quindi, sarà a loro carico che scatterà
l’obbligo di offerta sui titoli della società bersaglio. Più cauta e, in definitiva, più restrittiva è
l’interpretazione proposta da PRASUHN (op. cit., 217-218), la quale sostiene che l’imputazione
congiunta a carico dei soci pattisti della società veicolo che superi il 30% nella società “bersaglio”
potrebbe forse verificarsi in maniera automatica solo ai sensi del § 22, ma non anche del § 30 e quindi ai
fini dell’obbligo di offerta, giacché in tal caso sarebbe richiesta la conclusione di un’ulteriore intesa che
vada oltre la holding intermedia e sia specificamente riferita alla società obiettivo.
124
come si è visto poc’anzi, anche queste ultime possono a buon diritto rientrare nel
concetto di “interposta persona”; per altro verso, la quota può considerarsi “detenuta
indirettamente” soltanto se si controlla la società titolare della partecipazione rilevante
nella s.p.a. quotata.201 Da ciò discende che l’obbligo di lancio dell’OPA sorgerà in capo
ai pattisti occulti della controllante soltanto qualora costoro, a loro volta e
congiuntamente, controllino tale società: non basterà, quindi, ad esempio, un semplice
patto di consultazione intervenuto tra essi (che, se celato, condurrà soltanto
all’applicazione delle sanzioni di cui all’art. 122 T.U.F.). A questo punto, però, se si
pone mente alla nozione di controllo enucleata dall’art. 93 T.U.F., ci si rende conto che
anche in questa situazione riemerge tutta la sua problematicità: il patto non comunicato
(anche se di voto) è - secondo quanto prevede l’art. 122 T.U.F. - nullo e quindi inidoneo
di per sé ad assicurare ad uno dei pattisti la disponibilità individuale dei voti che l’art.
93 T.U.F., appunto, richiede. Non si può che fare ancora una volta appello, allora, al
risultato interpretativo raggiunto e proposto in precedenza: se si individua l’esistenza di
un accordo tra coloro che dispongono complessivamente nella holding di partecipazioni
e di diritti di voto astrattamente “di controllo”, l’obbligo di offerta sorgerà senz’altro a
loro carico, ma essi conserveranno la possibilità di provare l’assenza di una condotta
concertata che abbia in concreto portato all’esercizio congiunto di influenza dominante
all’interno della holding e, di riflesso, della partecipata quotata. Come si è già detto,
peraltro, è chiaro che se viene accertata l’esistenza di un patto di voto sulla base del
comportamento tenuto dai pattisti in assemblea, sarà estremamente complicato per
costoro fornire con successo la prova liberatoria.
Si diceva poc’anzi che l’ipotesi appena descritta va distinta, almeno in linea
teorica, da quella del conferimento di azioni di una s.p.a. quotata in una holding che - lo
si è già anticipato - potrebbe rappresentare lo strumento per occultare un accordo in
realtà riferito alla stessa s.p.a. quotata e verosimilmente già esistente tra i conferenti.
Perché sia immaginabile l’insorgenza di un obbligo di offerta, è evidente
innanzitutto che la holding debba arrivare a disporre di una partecipazione nella
controllata corrispondente ad una delle soglie rilevanti a tal fine (non basterebbe,
ovviamente, che i pattisti-conferenti dispongano del trenta per cento o più del capitale
della holding se la quota di capitale da questa detenuta nella controllata quotata si
mantenesse al di sotto delle soglie rilevanti: tipicamente, proprio il trenta per cento).202
201
Una conferma in tal senso si rinviene nell’art. 45 del Regolamento Emittenti della Consob. Giunge a
questa conclusione anche G. MUCCIARELLI, Sub art. 105, in Commentario all’offerta pubblica di
acquisto, a cura di G. Fauceglia, Torino, 2010, 131, ma l’A. argomenta a partire dal combinato disposto
degli artt. 109 e 101-bis, comma 4-bis, lett. b) T.U.F., il quale tra le presunzioni assolute di concerto
menziona il rapporto tra “un soggetto, il suo controllante, e le società da esso controllate”. Tuttavia, è
bene sottolineare che questa è un’ipotesi diversa da quella del patto parasociale occulto afferente alla
controllante di una s.p.a. quotata, tanto è vero che essa è contemplata dall’art. 101-bis, comma 4-bis,
T.U.F. distintamente rispetto alla presunzione di concerto fondata sull’esistenza di patti parasociali. La
lett. b) si limita infatti a presumere l’esistenza di un concerto in presenza di un rapporto di controllo,
allorché vi siano acquisti di azioni in misura tale da condurre al superamento delle soglie rilevanti nella
società quotata: il rapporto di controllo sarà, però, quello fondato sulle nozioni generali di cui agli artt.
2359 c.c. e 93 T.U.F. e non quello derivante da accordi parasociali nulli in quanto non pubblicizzati, con
la conseguenza che non viene in considerazione in tali casi la problematica dell’esercizio concreto e
congiunto di un’influenza dominante.
202
Cfr. nuovamente l’art. 45 del Regolamento Emittenti.
125
Ciò detto, può certamente accadere che più soci di una s.p.a. quotata, che
detengono congiuntamente una partecipazione superiore al trenta per cento del capitale,
decidano concordemente di conferire le loro partecipazioni ad una diversa società magari di nuova costituzione - proprio al fine di servirsi dello “schermo” della holding e
di evitare, per questa via, di dover direttamente promuovere un’offerta pubblica di
acquisto obbligatoria. Proprio su questo punto, la Consob ha in un’occasione ritenuto
che, in caso di conferimento di una partecipazione superiore al trenta per cento detenuta
da più soci di una società A in una società B di nuova costituzione, non sorgerebbe
l’obbligo di offerta in capo ai soci conferenti bensì in capo alla neo-costituita holding, in
quanto “l'uso della forma societaria per la realizzazione di finalità perseguite dai soci,
non può rendere direttamente imputabile ai soci medesimi le attività negoziali compiute
dalla società dotata di autonoma personalità giuridica e non consente di considerare la
società stessa come un mero schermo privo di realtà giuridica” 203: veniva quindi di fatto
esclusa la sussistenza in tale ipotesi di un’azione concertata da parte dei soci. Si è però
correttamente evidenziato che in tal modo diverrebbe irrilevante, ai fini dell’OPA, il
prezzo cui le azioni erano state eventualmente acquistate (magari nei dodici mesi
precedenti il conferimento) dai soci, avendosi riguardo unicamente al valore del
conferimento, il quale potrebbe però essere di proposito determinato in misura inferiore
al primo.204 Una così agevole possibilità di aggiramento delle norme in materia di OPA
non è accettabile e, dunque, la soluzione proposta dalla Consob nel caso richiamato
merita di essere adeguatamente rimeditata. Quanto, innanzitutto, al soggetto tenuto al
lancio dell’OPA, è opportuno un ulteriore approfondimento che parte dall’interrogativo
se sia altresì necessario, affinché tale obbligo sorga in capo ai soci-conferenti, che questi
detengano (o vengano a detenere, in seguito al conferimento) il controllo della holding
conferitaria. Se essi dispongono complessivamente nella holding di partecipazioni e di
diritti di voto astrattamente “di controllo”, non vi dovrebbero essere dubbi sul fatto che
il gruppo dei concertisti sia tenuto a promuovere l’offerta, anche in virtù di quanto
previsto dall’art. 105, comma 2, T.U.F.; salva, anche in questo caso e conformemente a
quanto ribadito poc’anzi, la verifica, nel contraddittorio dei pattisti stessi, circa
l’esistenza o meno di un’effettiva influenza dominante. Ma cosa può accadere se,
viceversa, i concertisti, pur avendo conferito una partecipazione del trenta per cento
nella società quotata, non dispongano nella holding di una partecipazione (nemmeno
astrattamente) di controllo? In tal caso, la conclusione circa l’inesistenza dell’obbligo di
offerta in capo a costoro pare affrettata. Non è da escludere, infatti, che i pattisti si
accordino con gli amministratori della holding in merito all’esercizio dei diritti di voto
nella controllata quotata205: potrebbe allora prospettarsi l’idea che l’obbligo gravi in via
203
Così la delibera n. 13198 del 17 luglio 2001.
Cfr. COSTI-ENRIQUES, op. cit., 136 (testo e nt. 51), per questa ragione giustamente critici nei
confronti della posizione espressa dall’Autorità.
205
Sulla possibilità, peraltro, che alle convenzioni parasociali partecipino anche “terzi estranei alla
compagine sociale”, v. per tutti RORDORF, I patti parasociali, cit., 799; ID., Il contratto sulla società,
cit., 783. In ogni caso, è ben possibile che il descritto comportamento integri la fattispecie (generale) di
concerto tra i soci e gli amministratori a prescindere dalla questione della configurabilità di un (vero e
proprio) patto parasociale tra i primi e i secondi: non vi è dubbio infatti che il concerto possa essere
ravvisato anche rispetto a chi non detiene partecipazioni, come osservato anche da BRUNETTA, op. cit.,
225. E’ vero che, come si è visto nel primo capitolo, sussistono forti dubbi sulla validità dei c.d. sindacati
204
126
solidale sui soci conferenti, sulla holding e sui suoi amministratori; proprio perché
questa costituisce un diverso soggetto giuridico, si può pianamente osservare che essa,
ricorrendone i presupposti, potrà entrare nel novero dei concertisti.206 Se così è, si dovrà
ritenere che (qualora, naturalmente, la partecipazione detenuta dalla holding nella
controllata quotata sia superiore al trenta per cento), l’offerta debba essere promossa al
prezzo cui le azioni erano state eventualmente acquistate dai soci nei dodici mesi
precedenti il conferimento, perché anch’essi vanno considerati - insieme alla holding membri del concerto.207
Si noti che la stessa soluzione può valere anche qualora i pattisti abbiano
conferito nella holding una partecipazione nella controllata inferiore al trenta per cento
del capitale di questa e, nondimeno, pongano in essere un’intesa con gli amministratori
della holding e con altri azionisti della partecipata che consenta di esercitare su
quest’ultima un’influenza dominante.208
di gestione: tuttavia, a parte il fatto che ciò avrebbe il solo effetto di aggiungere alla segretezza
dell’accordo un ulteriore motivo di nullità del patto, nulla impedisce - come più volte si è detto - che esso
venga di fatto eseguito (quantomeno sino alla sua scoperta).
206
Il possibile assoggettamento della stessa holding all’obbligo di offerta è stato immaginato anche in
Germania, ove si è rilevato che vi può ben essere un concerto tra una società e i suoi soci (WEIß, op. cit.,
150); nonché nel Regno Unito, ove il Panel (cfr. The Takeover Code, ult. cit.) ha affermato che la
partecipazione della holding nella controllata può rilevare anche “when aggregated with those which the
person or group is already interested in” (ossia, “unitamente a quelle detenute dalla persona o dal gruppo
dei concertisti”). Lo stesso Panel si è altresì riservato espressamente il diritto di esaminare le ipotesi in
cui anche gli amministratori possano rientrare nel novero dei concertisti (“the right [...] to examine
situations closely should the actions of the directors suggest that they may be acting in concert”). Anche
negli Stati Uniti si è affermato che il management può entrare a far parte del novero dei concertisti,
quantomeno “if management and a third party enter into an agreement relating to management’s
maintaining corporate control, and if management and the third party together own more than 5% of the
company”: così BROWN et al., cit., § 2.04[C], 2-36 (ove si riporta anche il contrasto nelle Corti sul
diverso punto se il management di per sé considerato possa o meno costituire un “gruppo”); conf. LEVY,
op. cit., 5-22; nella giurisprudenza, v. Warner Communications, Inc. v. Murdoch, 581 F. Supp. 1482,
1489 (D. Del. 1984); Jewelcor Inc. v. Pearlman, 397 F. Supp. 221 (S.D.N.Y. 1975).
207
Quanto detto non sarebbe comunque messo in discussione dalla tesi che ha negato, in linea generale, la
configurabilità di patti parasociali tra i soci e la società stessa (per la quale v. RORDORF, Il contratto
sulla società, cit., 784). Per un verso, la situazione evocata nel testo costituirebbe un’ipotesi parzialmente
differente, giacché il concerto coinvolgerebbe sì la società ma con riferimento ad una diversa società,
ossia la controllata; per altro verso, non si può certo escludere che risulti qui integrata la fattispecie
generale del concerto anche a prescindere dall’esistenza di un (vero e proprio) patto parasociale.
208
Non è forse superfluo evidenziare anche che nei casi descritti, una volta provata l’esistenza
dell’accordo sotteso (o parallelo) al conferimento, l’altro presupposto dell’OPA obbligatoria sarà
sicuramente integrato, giacché il conferimento stesso si configura di per sé come acquisto di azioni da
parte della holding, la quale, come si è visto, può certamente entrare a far parte del gruppo dei concertisti.
E’ anche opportuno sottolineare, analogamente a quanto già si è detto a proposito del rapporto di
controllo quale presunzione assoluta di concerto, che il coinvolgimento degli amministratori quali
concertisti nelle ipotesi descritte nel testo si differenzia dalla presunzione di concerto di cui alla lett. d)
dell’art. 101-bis, comma 4-bis, T.U.F. (“una società e i suoi amministratori, componenti del consiglio di
gestione o di sorveglianza o direttori generali”): il caso da questa immaginato, infatti, non riguarda la
presenza di patti parasociali, ma si configura semplicemente in presenza dell’acquisto di azioni quotate da
parte degli organi apicali di una società, che, se in grado di determinare il raggiungimento delle soglie
rilevanti, farà scattare l’obbligo di offerta sia in capo agli uni che in capo all’altra. Secondo taluno,
peraltro, le presunzioni che riguardano il rapporto di controllo e quello tra la società e i suoi organi
sarebbero puramente relative, rimanendo aperta la possibilità di dimostrare “che gli acquisti effettuati non
rispondono ad un disegno comune”: così CALLEGARI, op. cit., 68. Anche in Germania è pacifico che
possa ravvisarsi un concerto tra la società e i suoi organi, in particolar modo gli amministratori: cfr.
SCHNEIDER, § 30, cit., 883; WEIß, op. cit., 150-151.
127
Quanto si è detto pare sufficiente a sgombrare definitivamente il campo da dubbi
sulla compatibilità delle ipotesi descritte con la figura dei patti parasociali (occulti). Si è
infatti sostenuto, ancora in tempi recenti, che il fenomeno sia alternativo alla
stipulazione di un patto parasociale, sulla base di due considerazioni 209: da un lato, le
esigenze di pubblicità sarebbero comunque soddisfatte dalla reperibilità (presso il
registro delle imprese) dell’elenco dei soci della holding e del suo statuto; dall’altro, se
il socio conferente resta in minoranza non avrà più la possibilità “di orientare
l’espressione del diritto di voto nelle controllate”.210 Il primo argomento non sembra
affatto solido, dal momento che la conoscibilità dei soci della holding non assicura certo
anche quella dell’eventuale presenza di ulteriori accordi intervenuti tra gli stessi (o tra
questi ed il management della società). L’incisività del secondo rilievo risulta invece
smentita proprio dalle riflessioni appena svolte. In sintesi, anche qualora la
partecipazione che garantirebbe congiuntamente il controllo della partecipata venga
apportata nella holding, tale situazione potrebbe non impedire ai pattisti di orientare
l’esercizio del diritto di voto nella partecipata da parte della stessa holding (tramite,
ovviamente, gli amministratori di questa). Ciò può accadere sia in virtù di una
partecipazione significativa nella holding, che consenta loro di esercitare
congiuntamente un’influenza dominante su tale società, anche in via di fatto e
nonostante il loro patto sia nullo; sia, in ogni caso, in forza di altri possibili accordi con
gli amministratori della holding ed eventualmente con i restanti soci della controllata.211
Certo, si potrebbe osservare che in tal modo nascerebbe una (ulteriore) intesa che si
riferisce direttamente alla holding; ma, a parte il fatto che anch’essa può venire
ovviamente occultata, la stessa può ben costituire il tramite per dare efficacemente
seguito, rimanendo nell’ombra, ad un’azione comune nei confronti della partecipata e
consentire una strategia concordata anche nell’ambito di quest’ultima 212. Né quanto
209
Per le quali si veda BLANDINI, Società quotate, cit., 354.
Anche MONTALENTI, La società quotata, cit., 140, con argomenti analoghi esclude che possano
ritenersi convenzioni di voto “le società holding che possiedono azioni quotate”, “sia perché l’esercizio
dei diritti di voto consegue in questo caso dall’applicazione del regime legale societario, sia perché lo
statuto della holding è soggetto a pubblicità”.
211
Desta qualche perplessità il combinato disposto dell’art. 106, comma 3, lett. a) del T.U.F. e dell’art. 45
del Regolamento Emittenti, là dove essi paiono richiedere altresì, ai fini dell’obbligo di offerta, che il
pacchetto di azioni della società quotata detenuto indirettamente a mezzo della holding “interposta”
rappresenti la parte prevalente del patrimonio di quest’ultima. Tale previsione (che, per la verità, fa
riferimento unicamente all’ipotesi di acquisto di partecipazioni di controllo nella holding) si dimostra, in
effetti, coerente con il caso (richiamato nel testo) in cui i soci della s.p.a. quotata conferiscano il pacchetto
azionario rilevante (almeno pari al 30% del suo capitale) nella holding di nuova costituzione, acquisendo
in pari tempo il controllo di quest’ultima: se con questa operazione i conferenti giungono a controllare la
società madre (come l’art. 45 del Regolamento richiede), infatti, è probabile che il valore di siffatto
conferimento costituisca la parte prevalente del suo (capitale e del) patrimonio sociale. Tuttavia, fermo
restando quanto osservato nel testo circa la possibilità che l’obbligo di offerta scatti anche in ipotesi
ulteriori, è da rilevare come il requisito richiesto dalle due disposizioni testé richiamate possa prestare il
fianco ad agevoli elusioni.
212
Uno spunto in tal senso era già fornito da TRIMARCHI, Strumenti, cit., 121, il quale rilevava che tali
pattuizioni finiranno per riferirsi “direttamente alla holding e indirettamente alla società controllata”. Una
conclusione simile è emersa anche in Germania, ove si è sostenuto che il semplice conferimento di azioni
ad una società holding (più correttamente definita “Zwischenholding”), non è di per sé sufficiente ai fini
dell’applicazione della disciplina, perché i soci conferenti si spogliano in linea di principio dei diritti di
voto inerenti alle azioni (della diversa società partecipata) conferite; tuttavia, si è anche fatto notare che
un concerto può essere ravvisato se uno o più soci conferenti vengono a dominare la holding (“in den
210
128
detto trova un limite nella circostanza che, come si è visto nel capitolo precedente, nel
caso di patto mantenuto segreto risulterebbe inibito l’esercizio del diritto di voto della
holding nella controllata (e forse, nel caso quest’ultima sia una società aperta ma non
quotata, anche quello dei pattisti soci della holding nelle assemblee di questa): è
evidente infatti che, fintanto che il patto non venga alla luce, il diritto di voto (ma anche
gli altri diritti sociali) sarà (di fatto) esercitato e potrà consentire l’esercizio (di fatto) di
un’influenza dominante.213
Minori sembrano i problemi in punto di OPA obbligatoria nel caso di
intestazione fiduciaria di azioni. La soluzione adottata dalla Consob in relazione al
conferimento in una holding di una partecipazione pari al trenta per cento di una società
quotata non è qui, a maggior ragione, condivisibile. Si è già detto della possibile
equiparabilità tra l’accordo sottostante un voting trust e un patto parasociale: se così è,
almeno nel caso in cui il trustee entri a far parte del patto occorrerà cumulare le
partecipazioni assunte dal trustee a quelle acquistate dai soci a titolo oneroso ai fini
dell’applicazione della disciplina di cui all’art. 109 T.U.F. e del computo delle soglie
rilevanti214; altrimenti, il concerto potrà comunque essere ravvisato, secondo le regole
Fällen, in denen er allein oder gemeinsam mit anderen die Zwischenholding beherrscht”): per tale tesi e
per il virgolettato, cfr. VON BÜLOW - BÜCKER, op. cit., 711; analog. WEIß, op. cit., 147 ss. e spec.
155, ove si osserva chiaramente che “eine Zurechnung der sich koordinierenden Obergesellschafter
untereinander erfolgt, wenn diese gemeinsam beherrschenden Einfluss auf die Zwischengesellschaft
ausüben [...] oder falls sie keine umfassende Beherrschung begründen, wenn sie sich hinsichtlich der
Ausübung der Stimmrechte der Zwischengesellschaft besonders abstimmen” (: “si verifica
un’imputazione a carico dei soci concertisti quando essi esercitano congiuntamente un’influenza
dominante sulla società holding intermedia [...] o qualora essi non danno vita ad un pieno dominio, ma si
coordinano riguardo all’esercizio dei diritti di voto nella stessa holding intermedia”). Per una diversa
opinione, v. GAEDE, op. cit., 266 ss., la quale, pur ammettendo che i soci della holding intermedia
possano giungere a influenzare l’esercizio del voto nella società obiettivo, nega la rilevanza dell’ipotesi
descritta, argomentando che in seguito all’apporto delle partecipazioni i soci conferenti della holding non
possono più spiegare un’azione diretta e coordinata nella partecipata (“Abstimmungshandlung”). Le
riflessioni esposte nel testo sembrano ridurre anche l’incisività dell’opinione, avanzata per la verità meno
recentemente dalla nostra dottrina, secondo cui i descritti meccanismi sarebbero “strutture alternative alle
convenzioni di voto, in quanto si estrinsecano in negozi che hanno per oggetto le azioni e non
direttamente l’esercizio o la titolarità del voto a loro inerente”: così RESCIO, I sindacati di voto, cit., 675
ss., che si riferiva principalmente al conferimento di azioni in una holding ma anche alla comunione di
azioni. Anche tale convincimento si espone infatti ad un’obiezione simile a quella riferita nel testo: non
può escludersi, cioè, che il negozio avente ad oggetto direttamente le azioni sia accompagnato da
un’ulteriore convenzione riguardante anche le modalità di esercizio dei diritti connessi alle partecipazioni
della holding che si ottengono in cambio del conferimento e che potrebbero consentire di orientare le
modalità di esercizio dei diritti sociali da parte della holding nella società controllata (non solo nel caso in
cui il pacchetto complessivamente detenuto dai pattisti-conferenti consenta di spiegare un’influenza
dominante nella holding e indirettamente anche nella partecipata, ma anche in tutti i casi in cui intervenga
un’intesa con gli amministratori della holding al riguardo). Per un orientamento in linea con quanto qui
sostenuto si veda, del resto, SBISA’, Sindacati di voto, cit., 1394, il quale affermava anzi che in ipotesi di
costituzione di una holding ha (o può avere) luogo “l’organizzazione dei partecipanti al sindacato in
forma societaria”.
213
Riemerge, allora, anche il problema del rapporto tra accertamento del patto occulto e termini per
l’impugnativa delle delibere assembleari adottate con l’apporto determinante dei voti invalidamente
esercitati: anche su questo punto si rinvia al capitolo precedente (§ 7).
214
In tal senso, espressamente, anche TUCCI, Contratti parasociali, cit., 955, il quale prospetta pertanto
l’applicabilità analogica dell’art. 109 T.U.F. alla fattispecie del voting trust. Avverte però l’A. che, così
come la mera stipula di un patto parasociale non è sufficiente ai fini dell’insorgenza dell’obbligo di OPA
(essendo necessario anche l’acquisto di azioni sul mercato), parimenti il semplice conferimento di azioni
ad un trustee non assume di per sé rilevanza ai sensi della disciplina del concerto (ibidem, 955). Analog.,
129
generali, in capo ai fiducianti. In entrambi i casi, per la determinazione del corrispettivo
dell’offerta si potrà fare riferimento agli acquisti eventualmente effettuati da alcuno dei
fiducianti nei dodici mesi precedenti il trasferimento al trustee.
14. Segue: il ruolo dei derivati nell’accertamento di un patto parasociale
occulto e la recente casistica.
E’ interessante anche notare come, nel giudizio riguardante l’accertamento della
sussistenza di patti parasociali occulti, l’esperienza pratica abbia più volte evidenziato il
ruolo svolto dalla stipulazione di contratti derivati tesi al nascondimento dell’accordo. 215
Più in particolare, le note vicende degli ultimi anni hanno messo in luce che tale
fenomeno può intersecarsi con la disciplina dell’offerta pubblica di acquisto
obbligatoria sostanzialmente in due differenti modi: (i) da un lato, può accadere che il
derivato sia uno schema negoziale utilizzato per occultare la titolarità di un pacchetto
azionario che, unitamente a quello detenuto da altri soggetti con i quali si agisce di
in precedenza, STELLA RICHTER JR., Il trust nel diritto italiano delle società, in Banca, borsa, tit.
cred., 1998, I, 483. In realtà si potrebbe obiettare che, almeno nel caso in cui il trustee possa essere fatto
rientrare nel novero dei concertisti, il trasferimento delle azioni potrebbe configurarsi come acquisto delle
stesse da parte del medesimo soggetto intestatario. Si noti che quanto detto a proposito della necessità che
il concerto coinvolga anche il fiduciario implica che non basta certo un qualsiasi fenomeno di
interposizione per far sì che l’obbligo di promozione dell’OPA scatti in ogni caso anche in capo
all’interposto: cfr. sul punto la giurisprudenza in materia di responsabilità da mancata OPA (infra, cap.
III), la quale ha escluso che la presenza di accordi di put e call sia sufficiente in tal senso, dal momento
che l’interposto può limitarsi “ad operare per conto dell’interponente, in una posizione quindi priva di una
sua autonoma valenza sostanziale in rapporto agli assetti proprietari” (con queste parole CACCHI
PESSANI S., Violazione dell’obbligo di OPA e risarcimento del danno, nota a Trib. Milano, 7-9 giugno
2007, in Giur. comm., 2008, II, 523). Proprio tale pronuncia ha assunto la posizione testé riferita.
215
Per una sintetica panoramica in argomento, si veda FERRARINI, Prestito titoli e derivati azionari nel
governo societario, in La società per azioni oggi, a cura di P. Balzarini, G. Carcano, M. Ventoruzzo,
Milano, 2007, **, 629 ss. Sul punto anche MOSCA, Comportamenti, cit., 458 (testo e nt. 22, ove ulteriori
riferimenti). Anche la Consob, a motivo della crescente rilevanza assunta dai contratti derivati in
quest’ambito, ha pubblicato in data 9 ottobre 2009 un Position Paper in tema di trasparenza proprietaria
sulle posizioni in derivati cash settled, fermo restando che l’Autorità è altresì legittimata - in forza
dell’art. 105, comma 3-bis, T.U.F. - a determinare “i casi e le modalità con cui gli strumenti finanziari
derivati detenuti sono computati” ai fini delle soglie rilevanti per l’OPA. Anche la dottrina tedesca ha
talora notato la possibile rilevanza dell’accordo volto ad acquisire Debt-Equity-Swaps, che sia
mediatamente diretto all’acquisto di partecipazioni attraverso la trasformazione dell’originario credito da
finanziamento in pacchetto azionario della società: v. GAEDE, op. cit., 273 ss.; contra HALÁSZKLOSTER, Abgestimmtes Verhalten im Sinne des § 30 Abs. 2 WpÜG im Zusammenhang mit einem DebtEquity Swap, in WM Heft, 2006, 2152 ss., i quali (con riferimento, tuttavia, alla precedente versione della
norma, che sembrava dare rilievo soltanto agli accordi per l’esercizio del voto) affermavano che simili
intese ricadrebbero nell’eccezione del caso singolo, mancando un coordinamento con effetti durevoli di
una quota di diritti di voto in misura pari almeno al trenta per cento del capitale. La rilevanza della
stipulazione di contratti derivati - ai fini degli obblighi di disclosure ed eventualmente degli accordi tra
soci - è oggetto di attenzione nell’ordinamento americano già a livello normativo. In particolare, la
Section 16(a)(2)(C) del SEA ne prevede espressamente la rilevanza ai fini dell’obbligo di comunicazione
di ogni operazione sui titoli condotta da chi detiene più del 10% del capitale dell’emittente: si vedano, più
diffusamente, HAMILTON-RASMUSSEN, op. cit., 55 ss. Ma anche la Section 13(d)(1), come emendata
dal recentissimo 2010 Financial Reform Act, prevede che l’obbligo di disclosure riguardi non solo il
titolare (“beneficial owner”) di partecipazioni, ma anche chiunque “otherwise becomes or is deemed to
become a beneficial owner of any of the foregoing upon the purchase or sale of a security-based swap
that the Commission may define by rule”.
130
concerto, determinerebbe il superamento delle soglie rilevanti di cui agli artt. 106 e 108
T.U.F.216; (ii) dall’altro, non è esclusa la possibilità che sia proprio la stipulazione del
contratto derivato - allorché l’accordo contempli ulteriori elementi, quali ad esempio
l’obbligo della c.d. parte corta che detiene le azioni di non aderire ad eventuali OPA
concorrenti - a configurare un vero e proprio patto parasociale.217
La prima ipotesi, che si risolve in un fenomeno di interposizione 218, è stata
ravvisata nella vicenda SAI-Fondiaria, contraddistintasi peraltro per il pendolarismo
della Consob nell’accertamento della sussistenza di un patto occulto tra SAI e
Mediobanca per il controllo di Fondiaria. Si è correttamente rilevato che “se
un’interposizione di persona sia configurabile, l’obbligo di comunicazione della
partecipazione rilevante graverà sia sull’interponente che sull’interposto, mentre le
azioni verranno computate nella partecipazione dell’interponente ai fini dell’OPA
obbligatoria.”219 Al di là delle problematiche che la nozione può sollevare a livello
concettuale, rimane in ogni caso ben possibile fare riferimento allo strumento della
frode alla legge per colpire e garantire l’emersione del patto parasociale cui il contratto
derivato risulti occultamente asservito.220
Il secondo dei due modelli descritti, invece, pare aver caratterizzato un altro caso
ormai celebre, ossia il tentativo di scalata a BNL da parte di Unipol. E’ qui accaduto che
Unipol concludesse con Deutsche Bank un c.d. spot hedge che garantiva alla prima
216
Casi simili si sono verificati anche negli Stati Uniti: SEC v. First City Financial Corp. Ltd., 890 F.2d
1215 (D.C. Cir. 1989), ove First City aveva raggiunto una percentuale rilevante di partecipazione nella
diversa società Ashland Oil Co. (non attraverso acquisti diretti, bensì) servendosi di nominees e
stipulando con questi accordi di put/call al fine di occultare la propria effettiva disponibilità dei titoli.
Analoga la recente vicenda che ha visto protagonisti due hedge funds agenti di concerto a mezzo della
stipulazione di contratti derivati che attribuivano loro la sostanziale disponibilità dei titoli acquistati, salvo
il formale esercizio del diritto di voto in assemblea: CSX Corp. v. Children’s Inv. Fund Mgmt. (UK) LLP,
562 F. Supp 2d 511 (S.D.N.Y.), 2008 U.S. App. LEXIS 19788 (2d Cir. N.Y. Sept. 15, 2008). In
argomento e in particolare su quest’ultimo caso, v. più diffusamente THOMPSON Jr., op. cit., 8-25 e 831 ss.
217
Si è notato, peraltro, che la stipulazione di contratti derivati può essere in concreto funzionale anche ad
un “controllo” del prezzo cui avverrà l’OPA obbligatoria, giacché esso sarà determinato in base agli
acquisti più recenti effettuati dall’obbligato (o dagli obbligati), i quali potranno coincidere con il
trasferimento delle azioni “cedute dalla controparte all’esito dello scioglimento del contratto derivato”:
così SANDRELLI, La nuova disciplina degli “strumenti finanziari derivati” nelle offerte pubbliche di
acquisto, in Riv. soc., 2012, 147-148, al quale si rinvia per ulteriori approfondimenti sul tema.
218
Come si è osservato, la natura interpositoria della fattispecie concreta e, dunque, l’intento di occultare
la proprietà di un pacchetto azionario rilevante, potrebbe palesarsi specialmente in presenza di circostanze
quali la scarsa liquidità delle azioni, “tali da far ritenere che l’operazione sarà verosimilmente chiusa con
un ritrasferimento delle azioni al loro iniziale proprietario”: così FERRARINI, Prestito titoli, cit., 658, il
quale, servendosi delle parole di P. FERRO-LUZZI (Art. 9, comma 1 e 2, l. 281/85: prime considerazioni
esegetiche, in Banca, borsa, tit. cred., 1986, I, 425 ss. e spec. 433) avverte peraltro che il concetto di
interposizione in questo ambito deve essere inteso non tanto in senso strettamente tecnico-giuridico,
quanto “come situazione nella quale malgrado la partecipazione non sia intestata ad un soggetto (né a
società da questo controllata o a società fiduciaria per suo conto) questi tuttavia si trovi rispetto alla
partecipazione in situazione equivalente” (ibidem, 655.)
219
E’ l’ammonimento di FERRARINI, Prestito titoli, cit., 663. Da un punto di vista, per così dire,
sistematico, non può non notarsi l’affinità tra le parole di questo Autore e la soluzione proposta nel
paragrafo precedente con riferimento all’individuazione dei soggetti tenuti a promuovere l’offerta
pubblica nelle ipotesi di conferimento di partecipazioni in società holding e di intestazione fiduciaria di
azioni, in cui si fa particolarmente pressante (come nel caso dei derivati, appunto), l’esigenza di sbarrare
la strada a facili tentativi di elusione della disciplina.
220
Di nuovo FERRARINI, Prestito titoli, cit., 656.
131
un’opzione d’acquisto del sottostante (ossia il 2 per cento circa del capitale di BNL che
Deutsche Bank avrebbe poi acquistato sul mercato) e alla seconda un’opzione di
vendita; la Consob, peraltro, aveva ritenuto sussistente il patto anche in forza
dell’impegno assunto da Deutsche Bank di non aderire né all’OPA di Unipol né ad altre
concorrenti.221
Naturalmente, gli elementi che si affiancano al contratto derivato e che
contribuiscono alla sua identificazione quale vero e proprio patto parasociale possono
anche essere altri, in particolare le previsioni riguardanti le modalità con cui il diritto di
voto dovrà medio tempore essere esercitato dal detentore delle azioni.222
Sempre nell’ambito della medesima complessa vicenda, è interessante notare
che ulteriori patti parasociali intervenuti tra i soggetti protagonisti sono però stati
ricondotti a quello che si è visto essere il primo “modello” di riferimento [supra, (i)]: la
Corte d’Appello di Venezia, nella decisione sull’impugnazione della sanzione
comminata dalla Consob al patto occulto tra BPI ed Unipol per il controllo di BNL, ha
dato un’interpretazione non formalistica del contratto concluso da BPI con Barclays
Bank, avente ad oggetto un pacchetto di azioni BNL pari allo 0,49% del capitale sociale
di quest’ultima. Infatti, nonostante non fosse espressamente prevista una clausola di
physical settlement del sottostante (id est, di consegna fisica delle azioni a BPI alla
scadenza), la Corte ha ravvisato un fenomeno di interposizione che, stante l’interesse
della sola BPI all’acquisto ed al mantenimento nel proprio portafoglio di azioni BNL,
non escludeva la possibilità di una successiva consegna delle stesse azioni da Barclays
221
E’ interessante notare che l’obbligo di lancio dell’OPA venne individuato anche in capo a Deutsche
Bank, soggetto non controllante BNL (cfr. la Delibera Consob n. 15259 del 23 dicembre 2005 e il relativo
atto di accertamento, in cui si rilevava che il patto era volto ad agevolare il raggiungimento di una
posizione di controllo da parte di Unipol e valeva ad individuare
DB come soggetto agente di
concerto con Unipol): questo provvedimento dell’Autorità, tra l’altro, ha costituito la conferma che
l’esercizio del controllo, quand’anche in maniera congiunta, da parte dei concertisti non è un presupposto
essenziale perché sorga a loro carico l’obbligo di offerta ex art. 101-bis e 109 T.U.F., bastando appunto
l’avvenuta conclusione di un accordo (semplicemente) “volto” a tale risultato.
222
Sul punto, SANDRELLI, op. cit., 148; FERRARINI, Prestito titoli, cit., 664, il quale pare anzi ritenere
essenziale una tale previsione ai fini della qualificazione dello swap come patto parasociale intervenuto
tra le stesse parti contraenti. Sembra più plausibile, tuttavia, considerare quello descritto soltanto un
indizio che potrà concorrere alla prova presuntiva dell’esistenza del patto parasociale. Un caso simile si è
verificato in Nuova Zelanda ed è stato deciso con la già citata sentenza della New Zealand Court of
Appeal del 4 novembre 2003. Era accaduto, lo si ricorda, che una società, la Perry Corporation, aveva
concluso due contratti di equity swap con Deutsche Bank e UBS Warburg, aventi ad oggetto pacchetti di
azioni della società Rubicon ed entrambi risolvibili con preavviso. Dato che la section 5 (1) (f) del
Securities Markets Act prevedeva l’obbligo di disclosure di ogni “trust, agreement, arrangement or
understanding relating to the voting security”, la Court of Appeal ha dovuto risolvere la questione se nel
caso di specie ne ricorressero gli estremi. Contrariamente a quanto statuito dal giudice di primo grado, i
giudici d’appello lo hanno escluso: pur essendo l’operazione congegnata in modo tale da rendere certo o
molto probabile che le azioni di Rubicon acquistate dalle banche sarebbero tornate a disposizione di
Perry, la Corte faceva rilevare che un arrangement o un understading presuppone un meeting of minds,
ossia un vero e proprio incontro di volontà (“a meeting of minds is required”), non essendo sufficienti
semplici aspettative reciproche basate semplicemente su dati empirici (“market reality”) ma non
accompagnate da una qualche forma di comunicazione, quand’anche fondate sulla prassi commerciale:
“mutual expectations based on commercial reality (but without such consensus or communication) are
not sufficient to give rise to an arrangement or understanding”. Inoltre, la Corte sottolineava che
l’obbligo di disclosure era posto dalla predetta norma in relazione al diritto di voto.
132
alla stessa BPI.223 In particolare, affermava la Corte che l’interposizione “deve essere
intesa, ai fini della disciplina antielusiva propria della legislazione in materia di mercati
finanziari, sulla base di parametri necessariamente non rigidi, considerata l’estrema
varietà e duttilità degli strumenti di intermediazione disponibili per gli operatori”.224 In
questa prospettiva, i giudici veneziani hanno ritenuto che il predetto “parcheggio” delle
azioni di BNL presso Barclays Bank rispondesse proprio all’interesse sotteso al patto
occulto concluso tra BPI e Unipol.
Come facilmente immaginabile, gli oneri probatori relativi a simili accertamenti
sono notevoli: nonostante ciò, anche i più recenti interventi normativi hanno lasciato
inascoltato l’appello di attenta dottrina ad inserire la stipulazione di derivati tra i
presupposti dell’OPA obbligatoria, al fine di attribuire giuridica rilevanza “all’acquisto
della proprietà economica di azioni effettuato dalla parte lunga di un derivato”. 225
Anche la Consob si è di recente astenuta dall’intervenire su questo fronte: con il
provvedimento n. 16850/2009, sulla scorta delle indicazioni della Direttiva n.
2004/109/CE (c.d. Direttiva Transparency), si è infatti limitata ad imporre l’obbligo di
trasparenza delle “partecipazioni potenziali”, come definite dal nuovo art. 116-terdecies,
comma 1, lett. d) del Regolamento Emittenti. La nozione si scinde in quella di
“partecipazioni potenziali in acquisto” e “partecipazioni potenziali in vendita”: secondo
la dottrina, non sarebbe però ammissibile un’interpretazione volta ad includere nel
perimetro di tale fattispecie “tutte le partecipazioni che un soggetto ha - semplicemente
- il diritto o la facoltà di acquistare. Anche i lavori preparatori sembrano confermare la
tesi in base alla quale la disciplina delle partecipazioni potenziali è essenzialmente volta
a regolare gli obblighi di trasparenza connessi con la stipulazione di contratti derivati
connotati dal c.d. physical settlement”.226
223
Peraltro, secondo SANDRELLI, op. cit., 149, ai fini dell’OPA obbligatoria la Consob, con l’art. 44-ter
Reg. Emittenti, avrebbe dovuto adottare un approccio di tipo funzionale, “così da abbracciare le
fattispecie che, sia pure non attribuendo all’interponente il diritto di succedere all’interposto nella
titolarità della partecipazione, garantiscono comunque al dominus un controllo stabile sulla stessa”.
224
In tale direzione si è mossa anche la Consob, con il Documento di consultazione del 6 ottobre 2010,
già richiamato.
225
E’ la proposta - che pare conservare intatta la sua validità - formulata alcuni anni or sono da
FERRARINI (Prestito titoli, cit., 666-667). Analoga la posizione assunta dalla dottrina americana, che ha
suggerito un ampliamento della nozione di beneficial ownership contenuta nella Section 13(d), al fine di
includervi “any derivative instruments that create a pecuniary interest in the underlying security”: cfr.
BROWN et al., op. cit., § 2.04[C], 2-30.
226
In questi termini ANNUNZIATA, Brevi note in merito alla nuova disciplina delle “partecipazioni
potenziali”: verso quali disclosure?, in Giur. comm., 2010, I, 588; l’A. aggiunge che diviene essenziale il
riferimento al contenuto degli accordi, che dovranno necessariamente contemplare “il diritto
incondizionato o la facoltà di trasferire le partecipazioni” (ibidem, 589).
133
Capitolo III
I patti parasociali occulti
nella prospettiva dei rimedi:
le tutele dei soci estranei e degli investitori
Sommario: 1. Il successivo sviluppo della trattazione. - 2. La responsabilità da mancata opa:
natura e danno risarcibile. - 3. Il patto parasociale occulto come ipotesi di informazione privilegiata non
rivelata al mercato. - 4. Il rapporto tra la responsabilità da mancata opa e la responsabilità civile da insider
trading a fronte della scoperta di un patto occulto. - 5. L’insider trading da patto occulto tra responsabilità
risarcitoria e applicabilità di rimedi contrattuali. - 6. I patti parasociali occulti come ipotesi di aggiotaggio.
- 7. Patti parasociali occulti e (semplice) responsabilità per omessa informazione. - 8. La responsabilità da
mancata disclosure dei patti parasociali nelle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di
rischio.
1. Il successivo sviluppo della trattazione.
Nell’arco della trattazione condotta nei due capitoli precedenti si è più volte fatto
cenno alle sanzioni che il legislatore espressamente commina a fronte dell’occultamento
di un patto parasociale rilevante: da una parte, il divieto di esercizio del diritto di voto
relativo alle azioni coinvolte nel patto e dall’altra - con riferimento alle sole società
quotate e alle loro controllanti - la nullità dell’accordo (cui si aggiunge una sanzione
amministrativa pecuniaria).
La restante parte dell’indagine verrà ora dedicata ad una verifica circa
l’utilizzabilità di rimedi che consentano agli azionisti estranei al patto di essere ristorati
del pregiudizio eventualmente subito in ragione dell’occultamento di un patto
parasociale che avrebbe dovuto essere pubblicato. E’ evidente, infatti, che i presidi
sanzionatori allestiti dall’art. 2341-ter c.c. e dall’art. 122 T.U.F. tendono eminentemente
a determinare la rimozione degli effetti che, sul piano corporativo e della governance
societaria, il patto è destinato a produrre; in altre parole, il legislatore si preoccupa
primariamente di sterilizzare l’impatto che l’accordo mantenuto segreto può avere sul
controllo e, dunque, sul governo e sulla contendibilità della società: ciò dovrebbe
avvenire, appunto, sia con una privazione del diritto di voto in assemblea, sia
impedendo (nelle società quotate e loro controllanti) che dall’accordo tenuto nascosto
possano validamente nascere pretese reciproche in capo ai paciscenti. Le norme invece
tacciono circa l’azionabilità di strumenti di tutela dei soci estranei che permettano, come
detto, di rimuovere le conseguenze pregiudizievoli che si siano prodotte direttamente
134
nella loro sfera giuridico-patrimoniale. Nonostante l’opzione normativa si diriga verso
una protezione dei soci esterni al patto intesi come collettività (o, si potrebbe dire, della
società nel suo complesso e del generale buon andamento della gestione), sembra che la
cura delle posizioni giuridiche individuali di costoro non possa comunque essere
trascurata, anche in considerazione del fatto che l’operatività delle risposte
sanzionatorie apprestate dal legislatore presuppone inevitabilmente, come si è più volte
sottolineato, la scoperta del patto: può accadere, però, che prima di quel momento il
programma negoziale sia comunque messo in atto e produca, di fatto, i suoi effetti sulla
società. Le ripercussioni del patto occulto (comunque attuato) sulla vita della società
potrebbero senz’altro configurarsi come pregiudizievoli anche per i singoli soci ad esso
estranei e, più in generale, per il mercato. Il silenzio del legislatore sul punto non può
perciò essere considerato decisivo e sollecita, semmai, una risposta all’interrogativo se
la via della tutela risarcitoria - secondo i paradigmi generali della responsabilità - e
quella dei rimedi contrattuali siano, in tali ipotesi, percorribili.
E’ su questo tronco che verrà principalmente sviluppata l’analisi che segue, nel
tentativo di conciliare la ricerca di soluzioni sistematicamente coerenti (con il percorso
sin qui compiuto e) con la necessità di dare adeguate risposte alle esigenze di tutela di
quanti operano sul mercato dei titoli azionari, i quali abbisognano di adeguate
informazioni e incarnano perciò in una prospettiva particolaristica un interesse la cui
soddisfazione costituisce al contempo una vera e propria linfa vitale per il mercato nel
suo complesso.1
2. La responsabilità da mancata opa: natura e danno risarcibile.
Come si è potuto ampiamente osservare in precedenza, la figura del patto
parasociale occulto assume una rilevanza notevole soprattutto nelle società quotate, in
particolare nella prospettiva dell’obbligo di promozione di un’offerta pubblica di
acquisto.
Non è un caso, del resto, che proprio in rapporto a tale fenomeno si sia
sviluppato, a partire da alcune pronunce della giurisprudenza di merito, il dibattito circa
la possibilità di riconoscere ai soci estranei al patto occulto, in seguito alla mancata
promozione di un’offerta pubblica di acquisto obbligatoria, un diritto al risarcimento del
danno subito.
1
Sull’intreccio tra interesse individuale all’informazione e interesse del mercato nel suo insieme v.
RORDORF, Importanza e limiti dell’informazione nei mercati finanziari, in Giur. comm., 2002, I, 775. In
proposito, si è osservato nella nostra dottrina che l’adeguata protezione del bisogno di informazione rende
più efficiente il mercato anche nella forma di un’agevolazione dell’incontro di domanda e offerta:
SCHLESINGER, Mercati, diritto privato, valori, in Riv. dir. civ., 2004, II, 325; analog. CAVAZZUTI,
La trasparenza dei mercati finanziari, in Banca impresa società, 2004, 420. Tale convergenza è in effetti
tanto più facilitata quanto maggiore è il grado di certezza che il mercato possa riflettere in ogni momento
le informazioni rilevanti: per una simile considerazione v. S. BRUNO, L’azione per danni da
informazione non corretta sul mercato finanziario: diritto comune e legislazione speciale, in Contr. e
impr., 2001, 1329.
135
E’ bene, pertanto, prendere le mosse da una ricognizione dei profili che questa
problematica presenta, per poi verificare la praticabilità di rimedi risarcitori ulteriori e i
loro possibili rapporti con la responsabilità da mancata OPA.
Il fatto che la mancata promozione dell’OPA obbligatoria possa dare luogo ad
una qualche forma di responsabilità risulta un dato ormai acquisito nel nostro
ordinamento2; piuttosto, sono il titolo e la natura dell’obbligo risarcitorio ad essere stati
(e ad essere tuttora) discussi, con la conseguenza che diverse sono le prospettazioni
offerte da giurisprudenza e dottrina anche in punto di individuazione del danno
risarcibile. Quest’ultimo profilo, come si vedrà, risulterà particolarmente rilevante
nell’accertamento della compatibilità e della possibilità di coesistenza della
responsabilità da mancata OPA con altre forme di responsabilità, a carico di soggetti
anche diversi dai pattisti occulti.
Le prime sentenze di rilievo in materia sono state quelle pronunciate dal
Tribunale di Milano in date 26 maggio 2005 - 9 giugno 2005 in relazione al già
richiamato caso SAI-Fondiaria, con le quali i giudici avevano affermato l’esistenza di
un “obbligo giuridico contrattuale discendente dalla legge” (e valevole ad integrare il
regolamento negoziale a mente dell’art. 1374 c.c.) di promuovere un’offerta pubblica di
acquisto allorché ricorrano i presupposti normativamente contemplati. 3 Secondo la
ricostruzione offerta dal Tribunale, la responsabilità a titolo contrattuale da mancata
OPA non si porrebbe in contraddizione con il meccanismo sanzionatorio costruito
dall’art. 110 T.U.F., il quale stabilisce che, in caso di violazione dell’obbligo, il diritto
di voto “inerente all’intera partecipazione detenuta” non possa essere esercitato e i titoli
2
Sul punto, in particolare, GUIDOTTI, Sub art. 110, in La disciplina dell’offerta pubblica di acquisto, in
Le nuove leggi civ. comm., 2010, 244. Non è così in Germania, dove ancora si discute sull’esistenza di un
vero e proprio diritto all’OPA e sulla configurabilità di una responsabilità del mancato offerente nei
confronti degli azionisti pretermessi in caso di violazione: per i termini della questione e per le diverse
opinioni si vedano, senza pretesa di completezza, BUCK-HEEB, op. cit., 242-243; POHLMANN,
Rechtsschutz der Aktionäre der Zielgesellschaft im Wertpapiererwerbs- und Übernahmeverfahren, in
ZGR, 2007, 9 ss.; VON BÜLOW, op. cit., 1075; SEIBT, Rechtsschutz im Übernahmerecht, in ZIP, 2003,
1876-1877; MÜLBERT-SCHNEIDER, Der außervertragliche Abfindungsanspruch im Recht der
Pflichtangebote, in WM, 2003, 2301 ss. e spec. 2307-2308; HABERSACK, Reformbedarf im
Übernahmerecht!, in ZHR, 2002, 621 ss.; LAPPE - STAFFLAGE, Unternehmensbewertungen nach dem
Wertpapiererwerbs- und Übernahmegesetz, in BB, 2002, 2190-2191. Quanto alle sanzioni espressamente
previste per l’ipotesi di mancata pubblicizzazione dell’acquisto del controllo o per la mancata promozione
dell’offerta, il § 59 del WpÜG prevede la perdita dei diritti sociali collegati alle azioni degli obbligati
(concertisti compresi), salve alcune eccezioni; non è invece imposto (a differenza di quanto fa l’art. 110
T.U.F.) l’obbligo di alienazione della partecipazione eccedente le soglie rilevanti. Inoltre, il § 38 WpÜG
dispone a carico degli obbligati il pagamento di interessi a beneficio degli azionisti pretermessi, in misura
determinata e per tutto il periodo in cui perdura la violazione. Sul punto v., da ultimo, SEIBT, Der
(Stimm-)Rechtsverlust als Sanktion für die Nichterfüllung kapitalmarktrechtlicher Mitteilungspflichten im
Lichte des Vorschlags der Europäischen Kommission zur Reform der Transparenzrichtlinie, in ZIP, 2012,
797 ss.
3
Per alcuni commenti si vedano GAMBARO, Riflessione breve sulla argomentazione giurisprudenziale,
in Giur. comm., 2005, II, 769 ss.; GATTI, Mancata promozione di opa obbligatoria e risarcimento del
danno, in Giur. comm., 2005, II, 774 ss.; MORELLO, op. cit., 408 ss.; GUIZZI, op. cit., 251 ss.;
CARBONETTI, OPA obbligatoria e diritti degli azionisti, in Dir. banca e merc. fin., 2005, 634 ss.;
ROMAGNOLI, Responsabilità contrattuale per omissione d’opa obbligatoria e tutela risarcitoria
subordinata, in Nuova giur. civ. comm., 2006, I, 435 ss.; DE GIOIA-CARABELLESE, Responsabilità
per violazione di Opa obbligatoria: epistemologia e fenomenologia di un passaggio a nord-ovest, in
Società, 2005, 1142 ss.; CAJAZZO, Società quotate: l’obbligo di lanciare l’O.P.A. ha natura
contrattuale, nota a Trib. Milano, 9 giugno 2005, in Corr. merito, 2005, 1156 ss.
136
eccedenti le soglie rilevanti siano alienati entro dodici mesi. 4 Il mancato
ottemperamento a tale previsione, infatti, non eliminerebbe il pregiudizio patito dagli
azionisti che avrebbero dovuto ricevere l’offerta, il quale, nella prospettiva adottata dal
legislatore, dovrebbe in prima battuta essere rimosso proprio con il ripristino della
situazione proprietaria antecedente la stipula dell’accordo e il superamento delle soglie
rilevanti. Il cuore della sentenza in parola è però rinvenibile nell’ulteriore passaggio in
cui si ammette che anche l’alienazione delle azioni eccedenti la soglia rilevante non
escluderebbe l’obbligo risarcitorio qualora essa si dimostri in concreto inefficace, a
motivo del fatto che risulti ugualmente conseguito per altra via il controllo della società.
Attesa la natura contrattuale della responsabilità in discorso, il danno risarcibile
verrà a coincidere con (il c.d. interesse positivo, ossia con) la differenza tra il prezzo al
quale le azioni avrebbero dovuto essere trasferite in seno all’offerta e quello che le
stesse avevano sul mercato al momento in cui si è consumato l’inadempimento.
La ricostruzione testé sintetizzata è stata ripresa dal medesimo Tribunale anche
con la pronuncia dell’8 maggio 2006 5, con l’ulteriore precisazione che, nel caso in cui si
verifichi un incremento del valore delle azioni successivamente al momento in cui
avrebbe dovuto essere promossa l’offerta, non sarà comunque possibile operare una
compensatio lucri cum damno, la quale presuppone che il lucro e il danno destinati
(almeno parzialmente) ad elidersi nascano dal medesimo fatto e non da eventi tra loro
indipendenti.6
Come è noto, la Corte d’Appello di Milano ha assunto, in sede di gravame della
prima pronuncia del Tribunale7, una posizione del tutto differente, esprimendo il
convincimento che l’assenza di un contratto possa portare tutt’al più alla qualificazione
della responsabilità risarcitoria dei pattisti come precontrattuale (e dunque, in ultima
analisi, extracontrattuale)8, ma solo qualora venga leso l’affidamento riposto dai soci
estranei nella promozione dell’offerta9; di conseguenza, il danno risarcibile, da
4
Occorre subito segnalare che l’art. 110 T.U.F. ha subito una modifica importante ad opera del d. lgs. n.
229/2007, ossia in epoca successiva alle prime delle pronunce giurisprudenziali che si vanno illustrando:
il comma 1-bis prevede ora che “in alternativa all’alienazione” dell’eccedenza, la Consob, avuto riguardo
ad una serie di circostanze, possa “imporre la promozione dell’offerta totalitaria al prezzo da essa
stabilito”.
5
Per un commento v. ROLFI, Quando l’O.P.A. diventa veramente “obbligatoria”, in Corr. giur., 2006,
995 ss.
6
Su questo punto v. anche MORELLO, op. cit., 413; MOSCA, Acquisti di concerto, cit., 1336.
Sull’operatività del principio richiamato v. ad es. PINORI - CORRADI, Il principio della riparazione
integrale dei danni, in Il risarcimento del danno contrattuale ed extracontrattuale, a cura di G. Visintini,
Milano, 1999, 41 ss. e spec. 65 ss., ove si aggiunge che ulteriore requisito perché possa operare la
compensatio lucri cum damno è “la omogeneità dei reciproci vantaggi, vale a dire l’inerenza del
vantaggio al bene o interesse leso” (ibidem, 68).
7
La sentenza della Corte, del 15 gennaio 2007, è stata commentata in particolare da MERUZZI,
Responsabilità da contatto, culpa in contrahendo e dintorni: il caso SAI-Fondiaria-Mediobanca tra
vecchi pregiudizi e nuove prospettive, in Giur. merito, 2007, 2594 ss.; FESTI, Mancato lancio di o.p.a.
obbligatoria e responsabilità, in Banca, borsa, tit. cred., 2008, II, 486 ss.; ROLFI, Ancora sull’o.p.a.
obbligatoria e sulle conseguenze della sua violazione, in Corr. giur., 2007, 1594 ss.
8
Per una ricostruzione in termini di responsabilità precontrattuale, adesiva a quella proposta dalla Corte
d’Appello di Milano, v. POLIANI, Risarcimento del danno da mancata promozione di opa obbligatoria,
in Giur. comm., 2009, I, 1097 ss. e spec. 1112 ss.
9
Un primo motivo di perplessità scaturisce proprio da questo passaggio, perché viene da chiedersi su che
cosa possa fondarsi tale legittimo affidamento se non appunto sul fatto che esiste un vero e proprio
137
determinarsi anche equitativamente, coinciderebbe con il c.d. interesse negativo e
consisterebbe soltanto nelle spese sostenute e nei mancati guadagni (quelli, cioè, che
sarebbero derivati da altre occasioni contrattuali perdute).10
La Corte è giunta a tale conclusione sulla base di tre principali ordini di
argomenti, che però, oltre a non risultare condivisibili, sembrano impingere in un
notevole equivoco di fondo, come a breve si dirà.
Innanzitutto, i giudici della Corte d’Appello hanno sostenuto che l’obbligo
contrattuale di acquistare le rimanenti azioni (o meglio, di formulare un’apposita offerta
in tal senso) e la relativa (eventuale) responsabilità sarebbero da escludere in quanto
l’art. 110 T.U.F. impone, all’opposto, l’alienazione delle partecipazioni detenute in
eccedenza rispetto alla soglia rilevante.11 In realtà, una contraddizione non c’è, perché,
come era stato messo in luce dal Tribunale, il rapporto tra i due rimedi può essere inteso
nel senso che in caso di mancato ottemperamento alle previsioni dell’art. 110 T.U.F. (o
di concreta inidoneità delle stesse a ripristinare la situazione pregressa) rimarrà in capo
agli altri azionisti un pregiudizio per non aver ricevuto l’offerta pubblica, destinato ad
essere riparato con un apposito risarcimento. Pertanto, se le azioni in esubero venissero
obbligo previsto dalla legge, cui corrisponde un diritto ad esaminare un’offerta pubblica di acquisto: è
interessante a questo proposito il precedente offerto da Trib. Milano, 20 marzo 2000, in Società, 2000,
1357 ss., ove si affermava proprio che “prima della pubblicazione dell’offerta, il singolo azionista può
solo fare un legittimo affidamento sul lancio dell’OPA, legittimo in quanto il relativo obbligo discende
direttamente dalla legge.” Inoltre, la classica ipotesi di responsabilità precontrattuale per ingiustificata
rottura delle trattative presuppone tipicamente l’assenza di un obbligo di contrarre, a fronte della quale
viene tuttavia leso l’affidamento riposto da una delle parti nella conclusione dell’affare. Proprio per tale
ragione, il danno ritenuto risarcibile è di norma commisurato al c.d. interesse negativo; nell’ipotesi in
esame, invece, non ci si trova nel campo della piena libertà negoziale, essendo imposto dalla legge
l’obbligo di formulare un’offerta pubblica di acquisto. Critico nei confronti della soluzione proposta dalla
Corte è anche CASTRONOVO, Vaga culpa in contrahendo: invalidità responsabilità e la ricerca della
chance perduta, in Europa e dir. priv., 2010, 39: “nella specie non viene in questione, infatti, alcuna
condotta precontrattuale rilevante ai fini di una responsabilità ex art. 1337”.
10
Così App. Milano, 15 gennaio 2007, cit. La Corte d’Appello ha in gran parte riproposto le
argomentazioni già svolte da due precedenti pronunce milanesi rese con riferimento a casi in cui risultava
applicabile la previgente disciplina: ci si riferisce a Trib. Milano, 20 marzo 2000, cit., e ad App. Milano,
27 novembre 1998 (a conferma di Trib. Milano, 23 giugno 1997), in Foro it., 1999, 2712 ss., sulle quali
v. CARBONETTI, OPA obbligatoria, cit., 636 ss.; MORELLO, op. cit., 410, ove ulteriori riferimenti
dottrinali. Un’ulteriore ricostruzione - che appare per la verità infondata - è quella proposta da GUIZZI,
op. cit., 258 ss.: secondo l’A., la violazione dell’obbligo di OPA condurrebbe ad una responsabilità di tipo
extracontrattuale, in quanto “il comportamento che vi dà attuazione è preordinato ad assolvere una
funzione soltanto conservativa di un valore (quello di scambio realizzabile attraverso l’esercizio del
generale potere di disporre) che è già attribuito al patrimonio individuale degli azionisti”; ancora, il
risarcimento qui “non serve (come accade nelle ipotesi di responsabilità contrattuale) a surrogare un
trasferimento di valori programmato da un atto di scambio e non attuato, quanto a ristorare una perdita di
valori già appropriati alla sfera individuale altrui”. Tali affermazioni, tuttavia, paiono contenere
un’evidente contraddizione in termini, giacché si parla di un valore già acquisito al patrimonio degli
azionisti ma si riconosce per altro verso che esso è soltanto “realizzabile”: infatti, esso può essere
realizzato proprio (e soltanto) tramite la condotta imposta dalla legge agli obbligati e volta a soddisfare un
interesse altrui, come tipicamente accade nell’ambito di un rapporto obbligatorio. In tale ultimo senso
anche TUCCI, Obbligo di offerta, cit., 1049: è “più agevole inquadrare la situazione nell’ambito di un
rapporto di cooperazione instaurato ex lege e diretto ad accordare agli investitori un’utilità ulteriore,
anziché in un contesto normativo volto a delimitare le reciproche sfere di attività, prevedendo il
risarcimento per i danni derivanti da una ‘ingerenza’ non consentita.”
11
E per un analogo rilievo in dottrina, v. MORELLO, op. cit., 411; CARBONETTI, OPA obbligatoria,
cit., 641; FESTI, op. cit., 489; GAMBARO, op. cit., 773.
138
alienate come il legislatore prevede, dovrebbe in linea di massima risultare eliminato il
danno, senza il quale non si dà responsabilità12.
Quest’ultimo approccio - accolto (secondo accenti ancor più radicali) anche
dalle più recenti decisioni della Corte d’Appello di Milano13 - potrebbe sembrare a
prima vista confermato dal nuovo comma 1-bis dell’art. 110 T.U.F., il quale prevede
che, “in alternativa all’alienazione di cui al comma 1”, la Consob possa comunque con
provvedimento motivato “imporre la promozione dell’offerta totalitaria al prezzo da
essa stabilito, anche tenendo conto del prezzo di mercato dei titoli”.14 Parrebbe, in altri
termini, che l’alienazione azionaria e l’offerta tardiva siano due meccanismi tra loro
(necessariamente) alternativi, parimenti in grado di cancellare il pregiudizio derivato
dalla mancata offerta.
In realtà, l’idea secondo cui l’alienazione dell’eccedenza rimuova sempre il
danno (salva, eventualmente, l’ipotesi in cui ciò non consenta di eliminare la posizione
di controllo raggiunta per altra via dai pattisti) non è precisa. Il riferito approccio dà
l’impressione, in particolare, di non tenere conto che, a fronte dell’omesso lancio di
un’OPA, la lesione sofferta dagli azionisti pretermessi può atteggiarsi in modo
differente. A ben guardare, è possibile notare che l’alienazione ex art. 110 T.U.F.
potrebbe non essere sempre in grado di rimuovere il pregiudizio originariamente patito
dagli azionisti pretermessi: senz’altro non elimina quello derivato dalla (ormai non più
rimediabile) avvenuta permanenza in società nel lasso di tempo caratterizzato
dall’assenza di adeguata informazione sul nuovo assetto di controllo (si pensi, ad
esempio, alla perdita del valore intrinseco del diritto di voto in assemblea esercitato
medio tempore)15; ma non elimina nemmeno quello di carattere strettamente
12
In questi termini TUCCI, Tribunale versus Corte d’Appello nel caso Sai Fondiaria: le combat
continue, in Banca, borsa, tit. cred., 2008, II, 657; ID., La violazione, cit., 129-130. Non pare del tutto
corretto dire che in seguito all’osservanza dell’art. 110 T.U.F. risulterebbe eliminato l’illecito, come
sostiene invece ROLFI, Quando l’O.P.A., cit., 1002: l’illecito - consistente nella mancata promozione
dell’OPA nel momento in cui era sorto l’obbligo - resta fermo, ma possono esserne rimosse le
conseguenze tramite il ripristino dello status quo ante. A maggior ragione, una responsabilità dei pattisti
dovrebbe sussistere se si ritiene che la scoperta del concerto oltre i dodici mesi prescritti dall’art. 110
T.U.F. per l’alienazione dell’eccedenza impedisca di procedere, appunto, alla dismissione del pacchetto
acquisito: è quanto prospettato da MACCHIAVELLO - PERUZZO, Mancato lancio di OPA
obbligatoria: il puzzle SAI - Fondiaria alla luce di alcune esperienze europee, in Giur. comm., 2008, I,
918.
13
Cfr. App. Milano, 9 febbraio 2012, n. 463, massimata in Società, 2012, 461, la quale ha ritenuto che in
presenza di una dismissione della quota di partecipazione eccedente la soglia rilevante, la pretesa
risarcitoria avanzata dai soci inizialmente pretermessi si risolverebbe (sempre) in un arricchimento
ingiustificato; negli stessi termini, poco prima, App. Milano, 9 gennaio 2012, n. 27, massimata in Società,
2012, 334.
14
E infatti, come rilevato anche da TUCCI, La violazione, cit., 130, la rimozione del danno si può
verificare anche a seguito dell’intervento della Consob che imponga l’offerta tardiva. Risulta dunque non
più proponibile la tesi secondo cui “un’OPA tardiva non può essere lanciata, perché colliderebbe con
l’obbligo di alienazione”, avanzata prima della novella da CARBONETTI, OPA obbligatoria, cit., 641.
La legge, invero, chiarisce ormai che l’OPA tardiva può essere imposta dalla Consob non solo in caso di
mancato rispetto delle misure reattive predisposte dall’art. 110 T.U.F., ma anche “in alternativa”
all’alienazione delle azioni da questo prevista.
15
E’ probabilmente a questo che si riferiva il Tribunale di Milano nella pronuncia del 17 maggio 2007, n.
6212, allorché individuava il danno patito dagli azionisti pretermessi “nella perdita del valore del diritto
di voto, perdita resa definitiva e quindi risarcibile dal consolidamento della posizione di controllo
acquisita dall’offerente, nonostante le sanzioni civili previste dall’art. 110 T.U.F.” La sentenza è
139
patrimoniale “da mancato corrispettivo ricevuto”, allorché il valore delle azioni al
tempo dell’alienazione ex art. 110 T.U.F. sia inferiore rispetto al prezzo che avrebbe
dovuto essere corrisposto in seno all’OPA obbligatoria 16. Proprio in una circostanza di
questo tipo la Consob potrebbe ritenere preferibile l’imposizione dell’offerta tardiva,
che sarebbe in grado di rimuovere (quantomeno) tale seconda voce di danno.17 Dal
momento che il comma 1-bis dell’art. 110 T.U.F. attribuisce all’Autorità un margine di
discrezionalità nella scelta del prezzo dell’offerta (nonché la possibilità di tener conto
dei valori espressi dal mercato), quest’ultima potrebbe essere imposta con modalità tali
da consentire una riparazione della lesione (strettamente patrimoniale) sofferta
inizialmente dagli oblati: quella, cioè, derivata dal non aver potuto uscire dalla società
per un determinato corrispettivo.18 Uno spunto per analoghe considerazioni è fornito
anche dalla recentissima pronuncia della Cassazione che, respingendo la ricostruzione
accolta in prima battuta dalla Corte d’Appello di Milano nel caso SAI-Fondiaria, ha
evidenziato che l’alienazione azionaria prevista dall’art. 110 T.U.F. potrebbe sì
eliminare il pregiudizio sofferto dagli azionisti in seguito al mancato lancio dell’offerta,
ma “senza che se ne possa ricavare un’incompatibilità di ordine logico tra la pretesa
risarcitoria degli azionisti orbati dell’offerta e l’attuazione delle misure previste dal
massimata in Giur. comm., 2008, II, 464, e pubblicata in Società, 2008, 205 ss., con nota di RIZZINI
BISINELLI, Violazione dell’obbligo di Opa totalitaria e risarcimento del danno in favore dei soci di
minoranza, ibidem, 208 ss. Analog., in dottrina, CARIELLO, Tutela delle minoranze, cit., 732, il quale
osservava: “è evidente che un potere di controllo gestito nell’ombra, inaccessibile alla conoscenza di chi
non vi partecipa precluderebbe al singolo azionista e alle minoranze organizzate di essere messi nelle
condizioni di valutare aspettative e prospettive della propria permanenza nella società”; ancora: “la
minoranza ‘qualificata’ che aspira a divenire titolare del controllo in sostituzione o assieme a chi lo
detiene, potrebbe risultare illegittimamente ostacolata nella conoscenza del proprio concorrente e delle
modalità dal medesimo utilizzate per esercitare il controllo, con conseguenze negative per la
predisposizione di strategie adeguate allo scopo da essa perseguito”.
16
E’ vero, infatti, che l’alienazione dell’eccedenza dovrebbe consentire di ripristinare lo status quo ante
con riferimento agli assetti proprietari e di controllo dell’emittente, ma in termini patrimoniali il risultato
complessivo per gli azionisti orbati dell’offerta sarebbe (non già nullo, bensì) negativo, qualora essi si
ritrovino ad avere in portafoglio azioni con un valore inferiore al corrispettivo che avrebbero dovuto (e
potuto) ricevere in sede di offerta pubblica. In presenza di una simile eventualità, la voce di danno
risarcibile può senz’altro coincidere con il parametro generale di riferimento già indicato nel testo, dato
dalla differenza tra il prezzo che avrebbe dovuto essere pagato in seguito all’offerta e il valore che le
azioni avevano sul mercato al tempo dell’inadempimento. Peraltro, in caso di successivi ribassi dei titoli
rispetto a tale ultima soglia (che siano stati, naturalmente, conservati dagli azionisti pretermessi), non
sembra potersi negare la risarcibilità anche di tale ulteriore voce di danno: si tratterebbe, però, di un
danno non ricollegabile tanto alla mancata OPA, quanto piuttosto alla decisione di rimanere in società, a
sua volta influenzata dalla non conoscenza dell’avvenuto mutamento dell’assetto di controllo. Un danno,
in altri termini, che non si sarebbe prodotto se, a fronte di una corretta disclosure, gli azionisti avessero
deciso di cedere le proprie partecipazioni: ferma la necessità che costoro forniscano tale prova (la prova,
cioè, del nesso causale), si può dunque osservare che tale danno è propriamente il risultato di un’omessa
informazione e tale responsabilità avrà, pertanto (come si vedrà infra, § 7), natura extracontrattuale.
17
E per un’impostazione analoga v. Delibera Consob 23 dicembre 2011 n. 18049, riportata in parte in
Società, 2012, 229, la quale nel caso in questione aveva ritenuto di imporre l’OPA ai sensi dell’art. 110,
comma 1-bis, T.U.F. rilevando che il prezzo deve esprimere “un valore credibile, ossia un prezzo
realmente pagato o che in base a dati oggettivi avrebbe potuto effettivamente essere pagato”; come si è
scritto, una delle ragioni della scelta della Consob nel caso di specie è probabilmente da ravvisarsi nel
fatto che l’OPA “avrebbe consentito al mercato di far beneficiare del premio implicito nel prezzo imposto
rispetto al valore di mercato del titolo”: così il commento di VENTURINI, Osservatorio Consob, ibidem,
230.
18
Sul punto anche GUIDOTTI, op. cit., 247.
140
menzionato art. 110”.19 Si può rilevare che l’alienazione dell’eccedenza contemplata da
tale norma fungerà verosimilmente da strumento di rimozione del danno derivato dalla
mancata percezione del corrispettivo d’OPA soltanto nel caso in cui, al momento di
detta alienazione, il valore di mercato dei titoli corrisponda (o sia addirittura superiore)
proprio al corrispettivo che avrebbe dovuto essere originariamente riconosciuto con
l’OPA e, in pari tempo, gli azionisti conservino una concreta possibilità di uscita dalla
società attraverso le contrattazioni borsistiche. In mancanza di ottemperamento
all’obbligo di alienazione, potrà senz’altro venire in gioco (ed essere impiegato) lo
strumento dell’offerta coattiva su disposizione dell’Autorità.
Dunque, l’offerta tardiva imposta dalla Consob potrebbe rappresentare un
efficiente salvacondotto per gli stessi azionisti pretermessi al fine di veder soddisfatte le
loro pretese evitando la promozione di un giudizio ordinario volto ad ottenere tutela 20;
fermo restando, naturalmente, che l’azione giudiziale rimarrà l’unica soluzione possibile
allorché gli obbligati non adempiano nemmeno alle prescrizioni dell’Autorità, ovvero
nell’ipotesi in cui residui una voce di danno nonostante la tardiva promozione
dell’offerta.21
19
Così Cass. 10 agosto 2012, n. 14400, pag. 24, consultata integralmente, al momento della chiusura del
presente lavoro, in www.ilsole24ore.com. Come ha osservato ROMAGNOLI, Responsabilità, cit., 438439, del resto, “la realizzazione di quanto auspicato [dall’art. 110 T.U.F, n.d.r.] non integra l’oblando di
quel guadagno che avrebbe potuto conseguire se l’obbligo primario fosse stato tempestivamente
rispettato”.
20
Non è affatto da escludere, tra l’altro, che il prezzo d’offerta imposto dalla Consob possa essere
stabilito in modo tale da consentire il ristoro di tutte le voci di danno di cui si è detto.
21
Infatti, non manca chi ha fatto notare che “l’offerta tardiva lascia impregiudicato il danno subito dagli
investitori che hanno venduto le azioni prima dell’intervento della Consob e va a beneficio, invece, di
coloro che si trovino per ventura a essere azionisti della società al momento dell’intervento dell’autorità
pubblica (che può essere anche molto tardivo)”: in questi termini GIUDICI, La responsabilità civile nel
diritto dei mercati finanziari, Milano, 2008, 312. La dinamicità del mercato finanziario fa sì che i
destinatari dell’offerta tardiva possano essere soggetti diversi da quelli che avrebbero dovuto
originariamente riceverla e proprio questa ipotesi (che sarà, peraltro, tutt’altro che infrequente) dimostra
come il danno originariamente causato dalla mancata OPA non sempre possa essere rimosso dalla sua
successiva (o meglio: tardiva) promozione: cfr. in proposito anche GUIDOTTI, op. cit., 247. E’ vero che i
precedenti azionisti hanno trovato una via d’uscita dalla società, ma avrebbero avuto (e conservano) il
diritto di pretendere il “prezzo d’OPA”, ove l’alienazione sia avvenuta per un corrispettivo inferiore (v.
anche infra nel testo). E’ probabilmente soltanto in quest’altro caso che può continuare a riconoscersi uno
spazio al risarcimento del danno e non, come taluno ha sostenuto, in ogni ipotesi in cui sia stata
comunque alienata l’eccedenza (cfr. DESANA, Tribunale versus Corte d’Appello, cit., 602; GATTI, op.
cit., 791-792, in base all’argomento che la disciplina dell’OPA tuteli due interessi distinti, facenti capo
agli investitori da un lato e al mercato dall’altro). In tale ultimo senso si è peraltro orientato lo stesso
Tribunale di Milano nelle più recenti pronunce sul tema: v. Trib. Milano, 7-9 giugno 2007, pubblicata in
Giur. comm., 2008, II, 464 ss. con nota di CACCHI PESSANI, Violazione dell’obbligo di OPA e
risarcimento del danno, ibidem, 496 ss.; e in Corr. giur., 2007, 1573 ss., con nota di ROLFI, Ancora
sull’o.p.a., cit., 1594 ss.; Trib. Milano, 15 marzo 2010, in Società, 2010, 771-772. Nella pronuncia del
2007, il Tribunale ha affermato che l’alienazione dell’eccedenza non eliminerebbe la “perdita di
un’opportunità di guadagno collegata al diritto di put” riconosciuto agli azionisti. V. però quanto
affermato da ROLFI, Ancora sull’o.p.a., cit., 1599: “viene spontaneo obiettare, tuttavia, che, in tal modo,
l’O.P.A. cessa di tutelare semplicemente ‘il risparmio’ ed il valore dell’investimento del singolo azionista
- come prima pure aveva argomentato lo stesso Tribunale - e finisce per tutelare una vera e propria
aspettativa di lucro (il plusvalore derivante dalla cessione a prezzo di O.P.A.) che, non ci si può esimere
dall’osservare, forse tutela non tanto il risparmiatore, quanto lo speculatore”. Del resto, come si è
osservato nel testo, non si può escludere a priori che l’alienazione dell’eccedenza risulti in concreto in
grado di rimuovere la perdita collegata all’opportunità di guadagno non concessa tempestivamente (è il
caso, lo si ribadisce, in cui il valore di mercato dei titoli sia in linea con il corrispettivo che avrebbe
141
Tornando alle argomentazioni espresse dalla Corte d’Appello di Milano, un
ulteriore asse portante del ragionamento sviluppato nella sentenza era il seguente: dal
momento che l’obbligo di promuovere l’offerta pubblica sarebbe in ultima analisi
incoercibile (non potendo operare il rimedio di cui all’art. 2932 c.c.), non si potrebbe
ravvisare una (vera e propria) obbligazione a contrarre.22 Tale asserto non convince per
almeno due ragioni: (i) in primis, la Corte parla di “obbligo a contrarre”, dando
l’impressione di dimenticare che l’oggetto dell’obbligazione imposta dalla legge è la
promozione dell’offerta (ossia: la formulazione di una proposta contrattuale secondo un
determinato procedimento) e non già la stipulazione del contratto di compravendita
delle azioni, rimanendo del resto gli altri soci liberi di accettare o meno l’offerta
stessa23; come si è osservato, “la non attualità della pretesa di trasferire le azioni dietro
pagamento del corrispettivo non esclude, di per sé, l’esistenza della pretesa a ricevere
una proposta irrevocabile diretta alla (eventuale) conclusione del contratto di
compravendita”24; (ii) inoltre, è evidentemente scorretta l’affermazione secondo cui
l’esistenza di un’obbligazione dipende dalla sua eseguibilità in forma specifica, giacché
è noto che a fronte di un obbligo di facere infungibile (e, dunque, incoercibile), in caso
di inadempimento rimarrà pur sempre percorribile la via del risarcimento per
equivalente.25
Un terzo argomento dei giudici di seconda istanza era rappresentato dal rilievo
che “dalla legge possono anche sorgere obblighi qualificabili come extracontrattuali, o
doveri o obblighi di natura generale e pubblicistica”. Tale osservazione generale può
essere in sé vera, ma evidenzia il vizio di fondo da cui è percorsa l’intera
argomentazione della Corte: essa insiste più volte sull’inesistenza di un obbligo
contrattuale (ossia, prima ancora, di un contratto)26 e attorno a questo punto focale
dovuto essere riconosciuto in sede di offerta e, in pari tempo, gli azionisti conservino la concreta
possibilità di alienare in borsa le proprie partecipazioni).
22
In questo senso, espressamente, anche C. MARICONDA, OPA obbligatoria e situazioni soggettive: il
contrasto tra il Tribunale e la Corte d’Appello di Milano, in Vita not., 2007, 972. Sulla non operatività
della tutela ex art. 2392 c.c. non sembrano esservi dubbi (in dottrina, per tutti, ROMAGNOLI,
Responsabilità, cit., 437; MORELLO, op. cit., 411; ma per una prospettazione timidamente contraria v.
DE GIOIA-CARABELLESE, op. cit., 1147-1148) e in tal senso si è in seguito espresso anche il Trib.
Milano, 29 maggio 2008, pur non condividendo la soluzione generale offerta dalla Corte d’Appello. Due
sono gli argomenti sviluppati dal Tribunale a sostegno di tale conclusione: (i) da un lato, il rimedio
sarebbe in contrasto con l’obbligo di alienazione delle azioni di cui all’art. 110 T.U.F.; (ii), dall’altro, si è
più efficacemente osservato che la prestazione consistente nel lancio di un’offerta pubblica assume, in
ragione dei vari passaggi procedimentali in cui essa si articola, un grado di complessità tale da renderla
incoercibile.
23
Se ne avvedono MORELLO, op. cit., 411; CACCHI PESSANI, op. cit., 504 ss. Nel medesimo
equivoco di cui è vittima la Corte cade, invece, MARICONDA, op. cit., 974, la quale (erroneamente)
afferma che “la responsabilità contrattuale presuppone l’inadempimento di un’obbligazione a contrarre”.
Anche se la stipulazione del contratto di cessione delle azioni rappresenta un esito eventuale, ciò non
autorizza a trascurare (come la Corte d’Appello ha fatto) che il procedimento di offerta “è imposto dalla
legge (art. 106 t.u.f.); non costituisce il frutto di una scelta di autonomia privata”: con queste parole
TUCCI, Tribunale versus Corte d’Appello, cit., 655.
24
Così, efficacemente, TUCCI, Obbligo di offerta, cit., 1035.
25
Così anche CASTRONOVO, Vaga culpa, cit., 40; TUCCI, Obbligo di offerta, cit., 1024; ID., La
violazione, cit., 70; DESANA, Tribunale versus Corte d’Appello, cit., 603.
26
Tale fraintendimento è messo in luce anche da TUCCI, Obbligo di offerta, cit., 1027; ID., La
violazione, cit., 74 e 76, ove si osserva che l’obbligo di offerta “sorge al verificarsi della fattispecie
descritta dalla norma di legge, non certo per effetto della pubblicazione del documento di offerta”; ancora,
142
costruisce la motivazione, senza avvedersi che un’obbligazione non nasce
necessariamente da un contratto, ben potendo, secondo il noto disposto dell’art. 1173
c.c., derivare anche dalla legge, senza che per questa ragione si possa escludere la
tutela di tipo contrattuale che spetta ad ogni creditore di una prestazione in caso di
inadempimento del debitore.27 E’ probabile che la Corte sia caduta nell’equivoco
determinato dal fatto che con il sintagma “responsabilità contrattuale” si indica
comunemente la responsabilità da inadempimento di un’obbligazione regolata dall’art.
1218 c.c., quale che sia la fonte della medesima (e non solo, ovviamente, la
responsabilità per inadempimento di un’obbligazione nascente effettivamente da un
contratto).28 Inoltre, appare fuorviante il ricorso alla categoria della responsabilità
precontrattuale, atteso che a fronte dell’inadempimento dell’obbligo di lanciare l’OPA
non si assiste - per definizione - ad alcuna trattativa.29
Si è detto che uno dei punti cardine della prima sentenza del Tribunale di Milano
era rappresentato dall’affermazione della sussistenza di una responsabilità risarcitoria
dei pattisti (soltanto) quando la mancata dismissione del pacchetto azionario rilevante o
la concreta inidoneità della cessione ad eliminare gli effetti prodottisi sul controllo
societario fanno sì che permanga un danno in capo agli azionisti estranei (i quali
avrebbero dovuto ricevere un’offerta pubblica totalitaria).30 Alcuni autori, che hanno
“non può ritenersi decisivo il richiamo all’assenza di un diritto alla prestazione derivante dal contratto,
poiché anche la futura stipulazione di un contratto può costituire oggetto di un’obbligazione derivante da
un atto di autonomia negoziale ovvero da una disposizione di legge” (ibidem, 82). Come rileva
ROMAGNOLI, Responsabilità, cit., 436, si dovrebbe parlare di obbligo “previsto quale conseguenza
d’un fatto predeterminato dalla legge”; analog. COSTI-ENRIQUES, op. cit., 169. In ogni caso, la
soluzione circa la natura contrattuale della responsabilità e la misura del danno risarcibile non muta anche
accogliendo l’impostazione del Tribunale di Milano (pronuncia del 9 giugno 2005), che ha preferito
parlare di obbligo contrattuale nascente dalla legge, la quale determinerebbe appunto un’integrazione del
regolamento negoziale a mente dell’art. 1374 c.c.: così anche CACCHI PESSANI, op. cit., 511. Peraltro,
solo con la successiva pronuncia del 9 giugno 2007, il Tribunale di Milano - continuando a richiamare
l’art. 1374 c.c. - ha fatto espresso riferimento ad un diritto soggettivo degli azionisti al lancio dell’OPA,
addirittura parlando di un “diritto di put”: sul punto MARICONDA, op. cit., 957 ss. E’ dubbio però che la
situazione soggettiva nascente in capo agli azionisti possa configurarsi come diritto di put: sotto questo
profilo, non può escludersi a priori, lo si ribadisce, che l’applicazione delle misure reattive di cui all’art.
110 T.U.F. elimini i presupposti dell’OPA obbligatoria nonché il danno inizialmente patito dagli
azionisti. Contraria all’idea che possa ravvisarsi in capo agli azionisti un diritto di put anche MOSCA,
Acquisti di concerto, cit., 1330.
27
In tal senso anche Trib. Milano, 17 maggio 2007, cit. Anche ROLFI, Quando l’O.P.A., cit., 1000,
osserva che pochi dubbi dovrebbero esservi sulla “riconducibilità dell’O.P.A. obbligatoria nell’ambito
delle obbligazioni ex art. 1173 c.c. [...] originando un corrispondente diritto di credito degli altri azionisti
a ricevere l’offerta”; conf. MERUZZI, Responsabilità, cit., 2601, critico nei confronti della soluzione
proposta dalla Corte milanese. Nel fraintendimento di cui si è detto è incorso anche GAMBARO, op. cit.,
771, il quale opina che “occorre fondare il diritto all’opa su un contratto”. D’altra parte, si noti, la Corte
non discute che si tratti di un vero e proprio obbligo e non già di un semplice onere.
28
Si deve osservare, infatti, che “la responsabilità c.d. contrattuale è tale, qualunque [...] sia la fonte del
rapporto, il contratto o la legge”: così CASTRONOVO, Vaga culpa, cit., 2. Sul punto anche MERUZZI,
Responsabilità, cit., 2600; TUCCI, La violazione, cit., 82, nt. 78, ove ulteriori riferimenti con riguardo al
principio, ormai ricevuto, secondo cui la responsabilità contrattuale non deriva necessariamente
dall’inadempimento “di un’obbligazione di fonte contrattuale”.
29
Di nuovo MERUZZI, Responsabilità, cit., 2603; F. FERRO-LUZZI, op. cit., 210; DESANA, Tribunale
versus Corte d’Appello, cit., 604. Cfr. inoltre Cass. n. 14400/2012, cit., 26 ss.
30
Così anche Trib. Milano, 17 maggio 2007, cit. Parzialmente concorde MARICONDA, op. cit., 974, la
quale tuttavia si esprime in termini di responsabilità extracontrattuale, ritenendo che in caso di
ottemperanza alle prescrizioni dell’art. 110 T.U.F. verrebbe meno il danno di cui all’art. 2043 c.c.
143
contestato questo passaggio, hanno ritenuto che la sterilizzazione dei diritti di voto
relativi alle azioni dei pattisti (ossia la seconda misura reattiva contemplata dall’art. 110
T.U.F.) valga in ogni caso a rimuovere il danno, perché impedirebbe il concreto
esercizio del controllo.31 La tesi in parola, però, appare debole. Innanzitutto, seguendo
tale ragionamento la dismissione del pacchetto azionario rilevante ai sensi dell’art. 110
T.U.F. perderebbe paradossalmente significato, proprio perché dovrebbe bastare
l’inibizione dei diritti di voto ad impedire l’esercizio del controllo. In secondo luogo,
l’aggregazione di più azionisti in un gruppo (rectius: concerto) che arrivi a detenere una
partecipazione superiore al 30% non pone soltanto un problema di esercizio del
controllo (il quale, tra l’altro, potrebbe anche non essere concretamente garantito da tale
soglia), ma anche di riduzione del flottante: se i concertisti non intendono alienare
l’eccedenza nei termini prescritti dalla legge, si determinerà evidentemente una
maggiore difficoltà nel raggiungere percentuali di partecipazione equivalenti o più
ampie. La tesi riportata, infine, non tiene conto della già evidenziata circostanza che,
proprio in presenza di un patto parasociale occulto (poi svelato) che abbia condotto al
superamento della soglia rilevante, vi sarà senz’altro un intervallo di tempo (sino alla
scoperta dell’accordo, appunto) in cui il controllo verrà di fatto esercitato, non potendo
ancora essere applicate, naturalmente, le relative sanzioni: è probabile che proprio con
riferimento a tale periodo gli altri azionisti lamentino un danno, perché in tale frangente
avrebbe dovuto essere promossa l’offerta e, di riflesso, avrebbe dovuto essere concessa
loro la possibilità di valutare un eventuale disinvestimento dalla società a fronte della
sostituzione del gruppo di controllo. Il pregiudizio in parola, come si è accennato e
come si dirà meglio tra breve, non potrà essere rimosso dalla (tardiva) dismissione del
pacchetto di controllo32 e, pertanto, dovrà senz’altro essere risarcito. Il fatto che il
problema delle conseguenze della mancata OPA si ponga eminentemente con
riferimento a casi di avvenuta conclusione di patti occulti sembra stranamente sfuggire
alla quasi totalità degli autori che si sono occupati del problema (ed in particolare ai
fautori della tesi testé criticata), sebbene la vicenda che ha portato alla riferita contesa
giurisprudenziale avesse ad oggetto proprio le conseguenze derivanti dalla scoperta di
un patto occulto “di controllo”: come taluno ha osservato, del resto, “appare difficile
che un azionista si ponga apertamente nelle condizioni di dover lanciare l’o.p.a. e non vi
ottemperi”33.
Inoltre, è stato contestato l’assunto del Tribunale secondo cui la responsabilità
può sorgere qualora, nonostante l’alienazione delle azioni in eccedenza, si giunga ad
ottenere il controllo per altra via: si è detto infatti che, “se il controllo sulla società
31
V. POLIANI, op. cit., 1106; MOSCA, Acquisti di concerto, cit., 1329; MORELLO, op. cit., 412;
CARBONETTI, OPA obbligatoria, cit., 640; FESTI, op. cit., 493 e 495; F. FERRO-LUZZI, op. cit., 212213, il quale ritiene addirittura che il risarcimento del danno potrebbe essere riconosciuto soltanto in caso
di effettivo lancio dell’OPA che sia avvenuto ad un prezzo inferiore rispetto a quello pagato ad alcuni
azionisti.
32
Un’analoga questione è stata posta dallo stesso Tribunale di Milano nella successiva pronuncia del 9
giugno 2007, cit.: si osservava infatti che, “visto il lungo tempo concesso (un anno) per ottemperare
all’obbligo di vendere a chi ha violato la disciplina, una serie di conseguenze sul mercato del titolo
saranno inevitabilmente cristallizzate”. Sul punto, in dottrina, FESTI, op. cit., 490. V. anche il già
riportato passo di CARIELLO, Tutela delle minoranze, cit., 732.
33
FESTI, op. cit., 487.
144
obiettivo permane, esso non deriva da quelle azioni”34. Ma negare una responsabilità
risarcitoria in tali casi significa aprire la strada ad elusioni della disciplina dell’OPA
obbligatoria.35
Risulta dunque più corretto affermare, in base a quanto precede, la natura
contrattuale della responsabilità da mancata OPA36, dovendosi ravvisare l’esistenza di
un vero e proprio obbligo, sebbene di fonte legislativa, di promuovere l’offerta, con
conseguente attribuzione ai restanti azionisti di un vero e proprio diritto soggettivo a
riceverla.37 Tale natura della responsabilità de qua è stata confermata dal Tribunale di
Milano anche con le più recenti sentenze del 7-9 giugno 200738, del 29 maggio 200839 e
del 15 marzo 201040, nonché dalla recentissima (già citata) sentenza della Cassazione
del 12 agosto 2012.41
Il danno risarcibile, pertanto, coinciderà con il c.d. interesse positivo, dato, come
si è già osservato, dalla differenza fra il prezzo per il quale le azioni avrebbero dovuto
essere trasferite in sede di offerta pubblica e il valore che esse avevano sul mercato al
momento dell’insorgenza dei presupposti dell’obbligo stesso 42: si tratterà, in buona
34
Così MORELLO, op. cit., 412; conf. CARBONETTI, OPA obbligatoria, cit., 640. In realtà, come bene
è stato messo in luce, nella vicenda in questione la situazione che aveva condotto comunque all’acquisto
del controllo (ossia la fusione) era stata raggiunta anche senza il voto determinante dei mancati offerenti;
nondimeno, gli azionisti pregiudicati potrebbero pur sempre lamentare la circostanza che, ove avessero
conosciuto il reale assetto proprietario determinatosi, avrebbero esercitato il loro voto in maniera diversa:
in questi termini GATTI, op. cit., 794-795, il quale però prospetta per tale ipotesi una responsabilità non
tanto da mancata OPA quanto per commissione di un illecito informativo.
35
Come osserva ROLFI, Quando l’O.P.A., cit., 998-999, questo è l’esito cui condurrebbe la limitazione
dei rimedi applicabili a quelli previsti dal solo art. 110 T.U.F.
36
Per tale conclusione si vedano anche DE GIOIA-CARABELLESE, op. cit., 1144.
37
E’ quindi fuorviante parlare di “obbligo a contrarre” per poi escluderne la sussistenza, sul presupposto
che esso non avrebbe un contenuto “interamente predeterminato”: così MARICONDA, op. cit., 971-972;
l’obbligo di cui si discute, giova ripeterlo, è infatti propriamente quello di formulare un’offerta pubblica
secondo il procedimento stabilito dalla legge.
38
In tale pronuncia, come si è detto, il Tribunale ha parlato di un “diritto di put” che sorgerebbe in capo
agli azionisti al verificarsi di tutti i presupposti dell’OPA obbligatoria. Sembra però più convincente
l’impostazione di chi ha notato che la posizione soggettiva dei potenziali destinatari dell’offerta non può
risolversi in un’opzione di vendita, perché ciò che l’ordinamento vuole garantire attraverso l’imposizione
dell’obbligo di offerta non è puramente e semplicemente “la realizzazione immediata del valore di
scambio del titolo”, bensì (prima ancora) la possibilità di valutare se mantenere o meno l’investimento in
società sulla base delle informazioni fornite dagli obbligati: proprio in ciò consisterebbe la pretesa
nascente in capo agli azionisti (così TUCCI, La violazione, cit., 101 ss., a 102 il virgolettato).
39
Su tale pronuncia v. il commento di TUCCI, Tribunale versus Corte d’Appello, cit., 652 ss. Il Tribunale
ha in tale occasione precisato che gli azionisti “non fanno valere il ‘diritto a vendere’ comunque le loro
azioni, ma il diritto ad ottenere ristoro del danno consistente nella diminuzione patrimoniale rappresentata
dalla perdita di un’occasione di disinvestimento”.
40
Massimata in Società, 2010, 771 ss. Anche in tale occasione il Tribunale ha definito la posizione degli
azionisti in termini (di dubbia condivisibilità) di “diritto di put”; per il resto, ha ribadito la propria
posizione, dando anzi l’impressione di recepire il rilievo di quanti avevano criticato l’argomentazione a
supporto della prima pronuncia per il suo oscillare tra l’affermazione della responsabilità contrattuale e i
riferimenti alla responsabilità aquiliana: per tutti, GATTI, op. cit., 783.
41
Cass. n. 14400/2012, cit., 26 ss.
42
A questo tipo di danno possono aggiungersi, come si è spiegato e come si ripeterà, quello derivato dalla
permanenza nella società in assenza di informazione circa l’avvenuto mutamento dell’assetto di controllo,
nonché, eventualmente, quello consistente nell’ulteriore ribasso dei titoli rispetto al valore di mercato che
essi avevano al momento dell’inadempimento: una voce di danno, quest’ultima, che come si è detto pare
però più corretto ascrivere ad una responsabilità da omessa informazione e, dunque, ad un illecito di
natura extracontrattuale (cfr. anche infra, § 7).
145
sostanza, di un danno da lucro cessante43. La legittimazione ad agire spetterà tanto ai
soci che abbiano conservato le rispettive azioni, quanto a quelli che le abbiano alienate,
in seguito al verificarsi dei presupposti dell’obbligo di offerta, per un corrispettivo
inferiore a quello che avrebbero dovuto ottenere nell’ambito di questa.44
In proposito, è tuttavia da riferire la tesi di chi ritiene che la posizione di queste
due categorie di azionisti vada in linea di massima differenziata e che, più a monte, il
danno risarcibile non coincida necessariamente con il valore di cui si è detto, dovendosi
procedere “a un’analisi caso per caso”.45 Il sostenitore di tale opinione argomenta in
particolare che la misura del risarcimento pari alla differenza tra il prezzo di cui all’art.
106 T.U.F. e il valore di mercato dei titoli al momento dell’insorgenza dell’obbligo
43
Il Tribunale di Milano, nella sua ultima pronuncia del 15 marzo 2010, l’ha però definito “danno
emergente per perdita di opportunità”; si tratterebbe, come il Tribunale aveva già sostenuto nella
pronuncia del 9 giugno 2007 coerentemente all’affermazione dell’esistenza di un diritto di put,
dell’opportunità “di cedere le azioni ad un certo prezzo”, cosicché il risarcimento deve essere
“equivalente al costo che sul mercato quell’opzione avrebbe avuto, ed è quindi pari alla differenza tra il
prezzo d’esercizio del diritto ed il valore del titolo sul mercato”. Conf., in dottrina, GATTI, op. cit., 785.
Sebbene in uno scenario differente, può essere utile osservare che le Corti americane hanno affermato, tra
i possibili rimedi a disposizione del danneggiato da una negoziazione avvenuta in assenza di una corretta
disclosure, il c.d. “benefit of the bargain”, sostanzialmente coincidente con la risarcibilità del mancato
guadagno che sarebbe derivato da un’esatta e completa informazione e che il soggetto pregiudicato aveva
motivo di attenendersi con ragionevole certezza: in particolare, esso “is generally understood as the
difference between the represented value of the security purchased or sold and the fair value of the
security on the date of the trade”: con queste parole KAUFMAN, No Foul, no Harm: the Real Measure
of Damages under Rule 10b-5, in Catholic University Law Review, 1989, 29 ss. Nelle Corti, v. ad es.
DCD Programs, Ltd. v. Leighton, 90 F.rd 1442, 1449 (9th Cir. 1996); e soprattutto, per l’applicabilità del
rimedio nei casi di tender offer misprepresentations (mancata informazione circa un’imminente offerta
pubblica), Osovsky v. Zipf, 645 F.2d 107, 114 (2d. Cir. 1981), ove si stabilì anche che lo strumento può
essere però applicato soltanto a fronte di una ragionevole certezza dell’ammontare del danno (giacché
esso potrebbe prestarsi a manovre di tipo speculativo); nonché più di recente, McMahan & Co. v.
Wherehouse Entm’t Inc., 65 F.3d 1044, 1049 (2d Cir. 1995): “we held that benefit-of-the-bargain
damages, under Rule 10b-5, were particularly appropriate in the context of tender offers”. Ma il punto
non è pacifico e l’utilizzabilità del rimedio è stata negata da un altro filone giurisprudenziale: v. ad es.
Astor Chauffered Limousine Co. v. Rumfield Inv. Corp., 910 F.2d 1540, 1551-1552 (7h Cir. 1990). Sulla
natura di questa misura, v. in particolare WANG, Measuring Insider Trading Damages for a Private
Plaintiff, in UC Davis Business Law Journal, 2009, v. 10, 27 ss., per il rilievo che il rimedio è in qualche
modo speculare alla c.d. out-of-pocket-measure, di cui si dirà oltre; LOWENFELS - BROMBERG,
Compensatory Damages in Rule 10b-5 Actions: Pragmatic Justice or Chaos?, in Seton Hall Law Review,
2000, v. 30, 1096 ss.; meno recentemente, LEE, The Measure of Damages Under Section 10(b) and Rule
10b-5, in Maryland Law Review, 1987, v. 46, 1274 ss. E v., nella giurisprudenza, Janigan v. Taylor, 344
F.2d 871, 786-787 (1st Cir. 1965).
44
Esula invece dalla presente indagine il problema del risarcimento “a quegli investitori che abbiano
acquistato i titoli facendo affidamento su un futuro lancio dell’OPA e che li abbiano rivenduti a prezzo
inferiore subendo, in conseguenza di ciò, una perdita determinata dall’abbassamento del prezzo dopo il
mancato lancio nei termini ed eventualmente alla vendita forzosa dei titoli ex art. 110 Tuf”: così GAETA,
Sub art. 110, in Commentario all’offerta pubblica di acquisto, a cura di G. Fauceglia, Torino, 2010, 212213. E’ evidente, infatti, che l’affidamento sul lancio dell’OPA è ipotesi diversa dalla mancata
conoscenza di un patto parasociale rilevante intervenuto tra azionisti che abbiano determinato il
verificarsi dei presupposti dell’obbligo di offerta.
45
TUCCI, La violazione, cit., 128-129 (ove il virgolettato); nonché Cass. 14400/2012, cit., 29 ss., in base
all’argomento che “un conto è la possibilità di stipulare un contratto altro conto è l’averlo effettivamente
stipulato”. Quest’ultima osservazione non riesce però ad essere del tutto convincente, perché sembra
confondere il profilo della prova dell’esistenza del danno e del nesso casuale con quello della sua
quantificazione: non vi è dubbio che spetta a coloro che si proclamano danneggiati provare che, a fronte
di un’offerta pubblica, vi avrebbero effettivamente aderito; una volta fornita tale prova, tuttavia, come si
dirà anche oltre nel testo, risulta difficile discostarsi dal parametro di riferimento indicato per la
liquidazione del danno risarcibile.
146
vada di pari passo con l’idea (a suo avviso discutibile) secondo cui la ragion d’essere
dell’OPA obbligatoria risieda (soltanto) nel riconoscimento del premio di controllo a
tutti gli azionisti, anziché (come dovrebbe essere più corretto dire) nella tutela
dell’interesse a valutare l’opportunità di disinvestire o meno, alienando le partecipazioni
detenute nella società.46
In effetti, nel prendere compiutamente in esame il problema del quantum
risarcibile, non si può non fare riferimento al tema dell’autentica ragion d’essere del
meccanismo dell’OPA obbligatoria e degli interessi che esso intende soddisfare. A
questo riguardo, si possono delineare essenzialmente due impostazioni. Da una parte,
quella che ritiene che la ratio dell’istituto risieda unicamente nel riconoscere a tutti gli
azionisti il diritto di alienare i propri titoli a chi abbia raggiunto la soglia del 30%, per
un corrispettivo pari al più alto prezzo pagato (rispetto al valore di mercato delle azioni)
da coloro che hanno acquisito la partecipazione rilevante. Questa prima spiegazione,
accolta espressamente dall’ultima giurisprudenza della Cassazione47, appare però
parziale: come si è ampiamente illustrato nel capitolo precedente, sono numerosi gli
indici normativi e sistematici dai quali è possibile ricavare che l’obbligo di lancio
dell’offerta pubblica riposi sull’avvenuto mutamento (effettivo, per di più) degli assetti
di controllo della società. Se questo presupposto è imprescindibile, occorre semmai
domandarsi se sia altresì sufficiente: l’obbligo di offerta - ci si deve chiedere - sussiste
semplicemente in forza dell’avvenuta sostituzione della compagine di controllo oppure
è necessario (anche) che sia stato corrisposto un prezzo maggiore del valore di mercato
delle azioni al fine di arrivare a detenere una partecipazione superiore al 30%? La
medesima decisione della Suprema Corte ha sostenuto che “ove non vi sia stata alcuna
remunerazione del prezzo di controllo da parte dell’acquirente, com’è evidente, il
promuovimento di un’offerta pubblica di acquisto non avrebbe alcun significato, perché
il prezzo d’offerta non sarebbe superiore a quello corrente di mercato, ed a quel prezzo
gli azionisti di minoranza potrebbero comunque già vendere le loro azioni in borsa”.
Tale asserto disvela però una posizione particolarmente radicale e difficilmente
condivisibile, in quanto risulta priva di un solido fondamento normativo e trascura
l’eventualità che proprio in seguito alla scoperta del mutamento del controllo il
trasferimento delle azioni (anche in borsa) risulti maggiormente difficoltoso o meno
remunerativo48; inoltre, esso finisce per attribuire erroneamente alla “regola del prezzo
più alto” il rango di presupposto dell’obbligo di offerta anziché - come risulta, invece,
dal dato legislativo (cfr. art. 106, commi 1 e 2, T.U.F.) - il ruolo di (semplice) valore di
riferimento per la determinazione del prezzo d’OPA. Nulla impedisce, dunque, che
l’offerta debba essere promossa per ottenere azioni al prezzo di mercato, se a questo era
commisurato il corrispettivo precedentemente pagato per il raggiungimento della soglia
rilevante. Del resto, è bene ribadire che non può passare inosservato l’interesse alla
46
Cass. n. 14400/2012, cit., ha in proposito affermato a chiare lettere che la ratio dell’OPA obbligatoria
deve essere individuata (unicamente) nel riconoscimento a tutti gli azionisti del diritto di beneficiare del
prezzo più alto pagato per il raggiungimento delle soglie rilevanti (ibidem, 16 e 25).
47
Cfr. di nuovo Cass. n. 14400/2012, cit., 25.
48
Il risarcimento del danno che potrebbe, in tal modo, manifestarsi in seguito, risulterebbe però
irragionevolmente precluso se si negasse, a monte, l’esistenza stessa dell’obbligo di OPA nelle ipotesi in
cui il prezzo più alto pagato per gli acquisti coincida con quello di mercato.
147
piena trasparenza degli assetti di controllo, del quale - in presenza della stipula di un
patto (occulto) tra soggetti che vengono a detenere il 30% del capitale - gli altri azionisti
sono portatori.
Dunque, è possibile affermare che l’istituto dell’OPA obbligatoria tuteli sia
l’interesse ad uscire dalla società in un dato momento (in seguito, cioè, al mutamento
del gruppo di controllo), sia quello ad ottenere un determinato corrispettivo per la
cessione delle azioni all’offerente (superiore o anche pari al prezzo di mercato). Tale
constatazione consente a questo punto di tirare le conclusioni in ordine alla
problematica dell’esatta individuazione del danno (da mancata OPA) risarcibile.
Come si è visto, il primo di questi due interessi risulterà definitivamente
frustrato in seguito alla mancata tempestiva promozione dell’OPA e, pertanto, sarà
senz’altro meritevole di essere ristorato per il tramite di un risarcimento liquidato
equitativamente (o, comunque, sulla base del pregiudizio - debitamente provato concretamente determinato dalla permanenza in società in seguito all’insorgenza dei
presupposti dell’obbligo di offerta). Tale pretesa risarcitoria sarà avanzata da quei soci
che, in seguito alla scoperta di un patto occulto “di controllo”, lamentino un danno
derivante (semplicemente) dal non aver potuto valutare tempestivamente la possibilità
di uscire dalla società (e, quindi, dall’essere rimasti al suo interno) in seguito al
mutamento degli assetti proprietari (inizialmente occultato)49.
Diversamente, l’interesse (rectius: il diritto) ad ottenere un determinato
corrispettivo per l’alienazione delle azioni in sede di offerta (quello, cioè, pari al prezzo
più alto pagato per gli acquisti precedentemente effettuati dai pattisti) potrebbe, come si
è accennato sopra, essere riparato vuoi dall’alienazione dell’eccedenza ex art. 110
T.U.F. - qualora essa avvenga in un momento in cui il valore di mercato delle azioni
non sia inferiore al prezzo che avrebbe dovuto essere riconosciuto in sede di OPA - vuoi
dall’offerta tardiva imposta dalla Consob (il cui prezzo, in particolare, venga ad essere
determinato in misura corrispondente a quello che avrebbe dovuto essere oggetto
dell’offerta non promossa tempestivamente)50: in presenza, cioè, di presupposti
comunque tali da consentire l’uscita dalla società a quelle medesime condizioni alle
quali essa sarebbe avvenuta se l’OPA fosse stata tempestivamente promossa.
Qualora i due strumenti contemplati dall’art. 110 T.U.F. non siano messi in atto
o non contribuiscano a cancellare il danno in questione, occorrerà distinguere fra le
diverse ipotesi.
Nel caso in cui la “scalata” fosse stata compiuta pagando un prezzo
corrispondente al valore di mercato delle azioni, è probabile che il danno risarcibile
vada determinato (anche equitativamente) in ragione delle peculiarità del caso concreto,
49
Analog., nella dottrina tedesca, WEISS, op. cit., 35, il quale afferma che l’informativa sui patti
parasociali (cui è collegata, come si è visto, la disciplina dell’OPA obbligatoria) rileva non solo per la
decisione di acquisto o vendita dei titoli, ma anche per una consapevole decisione di permanere o meno
nella società (“nicht nur der Entschluss, ein Wertpapier zu kaufen oder zu verkaufen, sondern auch die
bewusste Entscheidung für den Verbleib in der Gesellschaft”).
50
Come si è già detto, non è peraltro da escludere che l’offerta tardiva prescritta dall’Autorità sia
congegnata con modalità tali da consentire, attraverso un’adeguata determinazione del corrispettivo
dovuto, la riparazione di ogni danno patito dagli azionisti in seguito alla mancata promozione tempestiva
dell’OPA.
148
purché, si intende, gli azionisti provino (si tratta nientemeno che del nesso di causalità)
che avrebbero effettivamente alienato le proprie azioni qualora fosse stata promossa
l’offerta.51
Nella diversa ipotesi - che sarà peraltro la più frequente - in cui la “scalata”
occulta sia stata portata avanti corrispondendo agli alienanti un prezzo maggiore di
quello di mercato (che, dunque, avrebbe dovuto essere altresì corrisposto in sede di
offerta), il danno risarcibile tornerà ad essere pari alla differenza tra il suddetto maggior
prezzo e il valore di mercato che i titoli avevano al momento dell’inadempimento. Ciò è
di immediata evidenza rispetto a quanti abbiano alienato le proprie azioni nel periodo di
tempo rilevante - ossia, in seguito al verificarsi dei presupposti per il lancio
dell’offerta52 - per un prezzo inferiore a quello che avrebbero dovuto ricevere in sede di
offerta pubblica53; ma è altrettanto vero con riferimento a coloro che abbiano conservato
le azioni della società54, purché provino il nesso causale, ossia che in presenza
dell’informazione rilevante e a fronte della promozione dell’offerta avrebbero
effettivamente optato per la dismissione della loro partecipazione.55 L’ipotesi più
problematica, d’altra parte, sembra essere quella in cui taluno ha alienato le proprie
azioni ad un prezzo pari o superiore a quello che avrebbe dovuto costituire oggetto
dell’offerta; si è rilevato che (solo) l’accoglimento dell’impostazione in base alla quale
51
E’ probabile, si noti, che tale danno finisca in pratica per coincidere con il successivo ribasso delle
azioni rispetto al valore che esse avevano sul mercato al tempo dell’inadempimento (a sua volta
corrispondente, nel caso in esame, al prezzo d’OPA): in base a quanto si è detto in precedenza, tale danno
corrisponderà pertanto sia a quello provocato dalla mancata OPA, sia a quello determinato dalla condotta
illecita da omessa informazione del patto parasociale rilevante. Se così è, si verificherà un’ipotesi di
concorso tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, tra cui i danneggiati avranno la possibilità di
scegliere liberamente. Qualora, viceversa, il successivo valore di mercato delle azioni sia in linea con
quello originario (dell’epoca, cioè, in cui erano sorti i presupposti dell’OPA obbligatoria) e gli azionisti
conservino la possibilità di alienare le rispettive partecipazioni sul mercato ottenendo quel prezzo, il
danno - come si è visto - dovrà considerarsi rimosso. Resterà invece salva la possibilità di pretendere il
ristoro del pregiudizio subito dall’essere rimasti in società senza una corretta conoscenza del nuovo
assetto di comando (ad esempio: depressione del valore intrinseco del voto o di altri diritti sociali).
52
La situazione di coloro che abbiano, viceversa, alienato le proprie azioni ai pattisti nella fase del
“rastrellamento” e, pertanto, prima che fossero integrati tutti i presupposti dell’obbligo di offerta, sembra
doversi ricondurre - ove ne ricorrano gli estremi - (soltanto) ad una responsabilità da insider trading,
come si dirà nei paragrafi successivi.
53
Proprio in ragione del fatto che quella dell’alienazione rappresenta solo una delle possibili ipotesi di
pregiudizio giuridicamente rilevante (e dunque risarcibile), non si può richiedere, come ha fatto invece
qualche sostenitore della tesi della responsabilità extracontrattuale (cfr. GUIZZI, op. cit., 261-262), che si
verifichi sempre e in ogni caso la cessione delle azioni ad un prezzo inferiore, così “realizzando a
condizioni deteriori il valore dell’investimento”: sul punto anche TUCCI, Obbligo di offerta, cit., 1060
(ove il virgolettato). Si noti, poi, che anche quando ciò accada, il modo di operare del principio della
compensatio lucri cum damno esige che il pregiudizio vada calcolato con riferimento al momento
dell’inadempimento (e il risarcimento commisurato al valore differenziale di cui si è detto), sebbene sia
possibile che il prezzo di (successiva) alienazione sia compreso tra il valore delle azioni al momento
dell’inadempimento e il corrispettivo che avrebbe dovuto essere oggetto dell’OPA: come si è detto e si
dirà, infatti, i successivi incrementi di valore del titolo indipendenti dal comportamento dei soggetti
inadempienti non devono incidere sulla quantificazione del danno e sull’ammontare del risarcimento.
54
Sul fatto che la responsabilità da mancata OPA possa essere predicata anche nei confronti di chi si sia
limitato a conservare le proprie azioni, v. GIUDICI, La responsabilità, cit., 308-309, il quale osserva che
a diversa conclusione condurrebbe l’impostazione fatta propria dalla Corte d’Appello di Milano, cioè al
riconoscimento del risarcimento solo in capo a chi ha venduto le azioni all’epoca in cui l’offerta avrebbe
dovuto essere promossa.
55
E v., in tal senso, CASTRONOVO, Vaga culpa, cit., 42; ROLFI, Quando l’O.P.A., cit., 1000;
MERUZZI, Responsabilità, cit., 2605. In termini non molto dissimili Cass. n. 14400/2012, cit., 31.
149
la disciplina dell’OPA obbligatoria tenderebbe a riconoscere ad ogni azionista la
partecipazione al c.d. premio di controllo dovrebbe portare a escludere il risarcimento
del danno in questo caso56. Anticipando l’analisi che verrà condotta in seguito (v. in
particolare infra, § 4), la soluzione più plausibile sembra tuttavia quella di ammettere la
riparazione del pregiudizio in tale ipotesi (unicamente) qualora l’alienazione di cui si è
detto sia avvenuta per un corrispettivo (bensì superiore al prezzo d’offerta, ma
comunque) inferiore al valore di mercato che le azioni avrebbero acquisito in presenza
di una corretta informazione, secondo lo schema - come si vedrà - della responsabilità
da insider trading. Altrimenti, ove gli alienanti sostengano che avrebbero deciso di non
dismettere la propria partecipazione (e quindi di rimanere in società) se avessero
conosciuto l’esistenza del patto parasociale tra coloro che erano giunti a detenere una
partecipazione superiore al 30%, si verserebbe a ben vedere al di fuori dell’ambito di
operatività della responsabilità da mancata OPA e si ricadrebbe in quello - di cui pure si
dirà (v. in particolare infra, § 7) - della responsabilità da omessa disclosure di
un’informazione rilevante per le decisioni di investimento. 57 Come precedentemente
56
TUCCI, La violazione, cit., 129, il quale (senza tuttavia approfondire il punto) afferma che ove invece
si ritenga che l’interesse protetto dalla normativa sia (anche) quello di garantire la possibilità di valutare
se disinvestire o meno a seguito del mutamento del controllo, non potrebbe escludersi la risarcibilità del
danno anche in tale ipotesi, da determinarsi in via equitativa. Salvo quanto segue immediatamente nel
testo, è senz’altro vero che, come è emerso dall’analisi che precede, i due diversi interessi tutelati
dall’istituto dell’OPA obbligatoria finiscano per corrispondere a due differenti voci di danno in caso di
inosservanza della disciplina normativa.
57
Se, come si ripete diffusamente e come anche qui si è ricordato, la disciplina dell’OPA obbligatoria
mira eminentemente ad attribuire agli azionisti della società bersaglio la possibilità di optare per un
disinvestimento a fronte del mutamento della compagine di controllo, occorre chiedersi se una forma
analoga di tutela possa essere ravvisata anche nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di
rischio ma non quotate. A tal fine, sembra poter venire in rilievo il diritto di recesso di cui all’art. 2497quater c.c., esercitabile tra l’altro “all’inizio ed alla cessazione dell’attività di direzione e coordinamento,
quando non si tratta di una società con azioni quotate in mercati regolamentati e ne deriva un’alterazione
delle condizioni di rischio dell’investimento e non venga promossa un’offerta pubblica di acquisto”. Se si
considera che il controllo congiunto da patti parasociali è senz’altro rilevante anche ai fini della disciplina
contenuta negli artt. 2497 ss. c.c. (in tal senso e con analitica argomentazione CARIELLO, Dal controllo
congiunto, cit., 43 ss.) è da ammettere che la scoperta di un patto occulto di controllo possa consentire
agli azionisti estranei di recedere dalla società (per uno spunto in tal senso cfr. anche Cass. n. 14400/2012,
cit., 21). In tale direzione militano due ulteriori ordini di considerazioni: da un lato, la lettera della norma
poc’anzi citata - con il suo riferimento alle società quotate e alla promozione di un’OPA quali presupposti
negativi della fattispecie - pare proprio voler approntare un diritto di exit del socio allorché - in presenza
di un ricambio della compagine di controllo - queste due circostanze non ricorrano; dall’altro lato,
bisogna ricordare e aggiungere che un patto occulto concluso in una società non quotata non è colpito
dalla nullità e, pertanto, non pone i problemi di cui si è discusso precedentemente (supra, cap. II) in punto
di disponibilità del controllo in capo ai soggetti ad esso vincolati (ma nel senso che la nozione di controllo
congiunto postuli comunque l’effettivo esercizio oltre alla disponibilità dello stesso, cfr. ancora
CARIELLO, op. ult. cit., 49-50; per l’opinione che nell’individuazione dell’inizio e della fine
dell’esercizio della direzione e coordinamento debba contare “il fatto dell’esercizio dell’attività”, ID., Sub
art. 2497-quater, in Società di capitali, Commentario a cura di G. Niccolini e A. Stagno d’Alcontres,
Napoli, 2004, ***, 1892; nonché, più in generale, sul fatto che l’intera disciplina dei gruppi sia dominata
dal principio di effettività, per tutti, VALZER, Il potere di direzione e coordinamento di società tra fatto
e contratto, in Il nuovo diritto delle società, Liber amicorum G. F. Campobasso, diretto da P. Abbadessa
e G. B. Portale, Torino, 2007, 3, 834; TOMBARI, Riforma del diritto societario e gruppo di imprese, in
Giur. comm., 2004, I, 66). L’esercizio del recesso dovrebbe in linea di massima escludere la
responsabilità del soggetto controllante (ma non necessariamente vale la reciproca): cfr. VALZER, Le
responsabilità da direzione e coordinamento di società, Torino, 2011, 79-80. Sul fatto che il diritto di
recesso in parola sia applicabile anche in caso di passaggio da una soggezione ad un’altra, ossia quando si
verifica (semplicemente) il ricambio della compagine di controllo, purché ne risultino alterate le
150
rilevato, non si può invece dare spazio alla compensatio lucri cum damno in ragione
dell’eventuale incremento di valore di mercato di cui le azioni dovessero beneficiare in
seguito al verificarsi dei presupposti dell’OPA obbligatoria. 58
3. Il patto parasociale occulto come ipotesi di informazione privilegiata non
rivelata al mercato.
Una volta individuato il modo di operare della responsabilità risarcitoria che
grava sui pattisti occulti in caso di mancata promozione dell’OPA obbligatoria, è ora
necessario procedere nell’indagine al fine di verificare se la violazione degli obblighi di
trasparenza dei patti parasociali possa dare luogo a qualche ulteriore forma di
responsabilità, che possa operare anche in assenza dei presupposti dell’obbligo di
offerta o, eventualmente, in aggiunta alle tutele attivabili in caso di mancata OPA.
Utilizzando come punto di partenza proprio quest’ultima ipotesi, è agevole
ricordare come il relativo obbligo presupponga un acquisto di azioni - anche da parte di
uno solo dei concertisti - in grado di determinare il superamento, anche congiunto, della
soglia rilevante, cui si aggiunga, per quanto qui interessa, l’avvenuta stipulazione di un
patto parasociale occulto rientrante nei tipi indicati dall’art. 122 T.U.F. Il fatto che ci si
trovi di fronte ad acquisti di azioni collegati alla mancata disclosure di un’informazione
- la stipula del patto, appunto - che avrebbe dovuto essere resa nota, induce a chiedersi
se sia ravvisabile (anche) un’ipotesi di insider trading o abuso di informazioni
privilegiate (art. 184, comma 1, lett. a), T.U.F.), su cui possa essere innestata una
responsabilità risarcitoria degli autori del reato.59
condizioni di rischio dell’investimento v. PENNISI, Il diritto di recesso nelle società soggette ad attività
di direzione e coordinamento: alcune considerazioni, in RDS, 2009, 41-42; ID., La disciplina delle
società soggette a direzione unitaria ed il recesso nei gruppi, in Il nuovo diritto delle società, Liber
amicorum G. F. Campobasso, diretto da P. Abbadessa e G. B. Portale, Torino, 2007, 3, 943;
VENTORUZZO, Brevi note sul diritto di recesso in caso di direzione e coordinamento di società (art.
2497-quater, c.c.), in Riv. soc., 2008, 1187. Ciò significa che può rilevare anche la modifica occulta ad un
patto di controllo regolarmente pubblicato in precedenza, secondo i criteri delineati nel capitolo
precedente (§ 10). Il nesso tra patti parasociali, controllo congiunto e applicabilità dell’art. 2497-quater
c.c. è stato colto anche da SAMBUCCI, Durata dei patti parasociali, cit., 924 ss.; ID., Patti parasociali,
in Riv. dir. impr., 2009, 29.
58
Il principio è stato ribadito più di recente da Trib. Milano, 15 marzo 2010, cit., 771-772. Così anche
GIUDICI, La responsabilità, cit., 309-310; CACCHI PESSANI, op. cit., 521. Contra MERUZZI,
Responsabilità, cit., 2605-2606, il quale ritiene infatti (pur sposando la tesi della natura contrattuale della
responsabilità da mancata OPA) che il danno risarcibile consista nella “differenza tra il valore attuale
della partecipazione (se non alienata) o il valore di alienazione (se alienata al di fuori dell’Opa), da un
lato, e il valore di lancio dell’offerta, dall’altro”, rifacendosi espressamente all’operatività in tali casi del
principio della compensatio lucri cum damno; nonché, pare, MOSCA, Acquisti di concerto, cit., 1336.
59
Si veda l’interessante considerazione di CERRAI-MAZZONI, op. cit., 19, i quali già evidenziavano che
se la violazione di norme di disclosure viene valutata come illecito civile, “l’inevitabile conseguenza è
che la disciplina della disclosure, anziché erodere, finisce per aumentare l’arsenale degli strumenti di
autotutela giuridico-formale concretamente utilizzabili dagli investitori-azionisti esterni all’azionariato di
controllo.” Come taluno ha osservato proprio a proposito dell’insider trading, peraltro, vi potrebbe essere
illecito civile ma non anche commissione del reato, sul presupposto che i requisiti di quest’ultimo (ed in
specie l’elemento soggettivo) siano più stringenti: il rinvio è a GALLI, La disciplina italiana in tema di
abusi di mercato, Milano, 2010, 373 ss.; GIAVAZZI, Insider trading: la prima condanna civile, nota a
Trib. Milano, 14 febbraio 2004, in Società, 2005, 116. Su questa linea si è mossa, del resto, proprio tale
151
Posto che l’astratta configurabilità di una responsabilità civile dell’insider, pur
essendo stata per lungo tempo sottoposta ad attento vaglio critico (specialmente da parte
della dottrina), pare un elemento ormai acquisito al dibattito in argomento 60, una
risposta affermativa al predetto interrogativo non sembra incontrare particolari ostacoli
nella nozione di informazione privilegiata sì come tratteggiata dall’art. 181 T.U.F.: non
pare cioè potersi escludere, in linea generale, che la mancata pubblicazione di un patto
parasociale ne integri gli elementi, venendo a configurare un’informazione “di carattere
preciso, che non è stata resa pubblica”, concernente uno o più emittenti strumenti
finanziari o uno o più strumenti finanziari e che, “se resa pubblica, potrebbe influire in
modo sensibile sui prezzi di tali strumenti finanziari”.61
Dubbi non sembrano esservi quanto alla precisione dell’informazione circa
l’esistenza di un patto parasociale rilevante che avrebbe dovuto essere diffusa (rectius:
resa pubblica); né sembra fondatamente contestabile l’inerenza di tale notizia
all’emittente e in particolare al suo assetto di controllo, con conseguente idoneità ad
influire sul valore di mercato dei titoli.
Alcuni indici ostativi alla riconducibilità del fenomeno oggetto del presente
studio alla fattispecie dell’insider trading e alla relativa responsabilità risarcitoria sono
tuttavia stati rinvenuti proprio in alcuni particolari caratteri che l’informazione
privilegiata dovrebbe (asseritamente) presentare, i quali peraltro - va subito notato sentenza, che ha individuato una responsabilità risarcitoria degli insiders pur a fronte di un
provvedimento di archiviazione in sede penale. Sul reato di insider trading a seguito della nuova
formulazione v. di recente, tra gli altri, SEMINARA, Disposizioni comuni agli illeciti di abuso di
informazioni privilegiate e di manipolazione del mercato, in Dir pen. e proc., 2006, 9 ss.; F.
MUCCIARELLI, L’abuso di informazioni privilegiate: delitto e illecito amministrativo, in Dir. pen. e
proc., 2005, 1465 ss. Come noto, le attuali disposizioni sono il frutto dell’attuazione della Direttiva n.
2003/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio in materia di abuso di informazioni privilegiate e
manipolazione del mercato (integrata a sua volta dalla Direttiva n. 2004/72/CE), che ha sostituito la
Direttiva n. 1989/592/CEE. Per un’approfondita panoramica sulla storia della disciplina europea degli
abusi di mercato, cfr. DI NOIA - GARGANTINI, The Market Abuse Directive Disclosure Regime in
Practice: Some Margins for Future Actions, in Riv. soc., 2009, 782 ss. Le recenti Direttive sono state
commentate nella nostra dottrina, ex aliis, da F. MUCCIARELLI, L’abuso di informazioni privilegiate e
manipolazioni del mercato: le norme della Comunitaria 2004 (II), in Diritto pen. e proc., 2005, 1465 ss.;
COMPORTI, La nuova disciplina sugli abusi di mercato: una prima ricognizione, in Dir. banca e merc.
fin., 2005, II, 62 ss.; FERRARINI, La nuova disciplina europea dell’abuso di mercato, in Riv. soc., 2004,
43 ss.
60
Invero, non sono mancate approfondite discussioni circa l’opportunità di affiancare alla sanzione
penale il rimedio civilistico della responsabilità, risoltesi ormai in senso positivo: non è questa la sede per
ripercorrere le tappe del dibattito e, per tale ragione, si rinvia da ultimo a MACRI’, Informazioni
privilegiate e disclosure, Torino, 2010, 141 ss.; nonché, in precedenza, a FERRARINI, Informazione
societaria: quale riforma dopo gli scandali?, in Banca impresa società, 2004, 411 ss.
61
Tale assunto pare accettabile anche in considerazione della “insanabile indeterminatezza” della
definizione di informazione privilegiata: v. SEMINARA, Disclose or abstain? La nozione di
informazione privilegiata tra obblighi di comunicazione al pubblico e divieti di insider trading:
riflessioni sulla determinatezza delle fattispecie sanzionatorie, in Banca, borsa, tit. cred., 2008, I, 334 ss.
Il carattere preciso dell’informazione è ulteriormente specificato dal comma terzo dell’art. 181 T.U.F. e
consiste nel fatto che essa: “a) si riferisce ad un complesso di circostanze esistente o che si possa
ragionevolmente prevedere che verrà ad esistenza o ad un evento verificatosi o che si possa
ragionevolmente prevedere che si verificherà; b) è sufficientemente specifica da consentire di trarre
conclusioni sul possibile effetto del complesso di circostanze o dell’evento di cui alla lett. a) sui prezzi
degli strumenti finanziari.” Sul fatto che la riservatezza sui patti di cui all’art. 122 T.U.F. possa dare vita
ad asimmetrie informative, “possibili cause di speculazione sui titoli”, v. RESCIO, La disciplina, cit.,
843.
152
introdurrebbero una divaricazione rispetto alla disciplina degli altri principali
ordinamenti.62
62
Gli elementi che compongono la nozione di informazione privilegiata rilevante ai sensi dell’art. 181
T.U.F. sono infatti pressoché coincidenti con quelli scaturiti dalla decennale riflessione dottrinale e
giurisprudenziale condotta negli Stati Uniti: v. BAINBRIDGE, An Overview of US Insider Trading Law:
Lessons for the EU?, in University of California, Los Angeles School of Law, Law & Economics Research
Paper Series, 2004, e in www.ssrn.com, da cui si cita, e spec. 6 ss. (ed ivi una sintetica ma esauriente
panoramica dell’evoluzione normativa dell’insider trading nell’ordinamento americano); ENGLE, Insider
Trading in U.S. and E.U Law: a Comparison, in European Business Law Review, 2010, 465 ss. e in
www.ssrn.com, da cui si cita, 28, ove però si precisa che il sistema europeo non ruota attorno alla
violazione di un fiduciary duty, ma piuttosto al semplice possesso di una “non-public information”. Sul
punto, anche le Corti americane hanno affermato che “to establish a violation of Section 10(b), the
plaintiff must prove by a preponderance of evidence that the defendant made: (1) a misstatement or
omission; (2) of a material fact; (3) with scienter; (4) in connection with the purchase or sale of a
security; (5) upon which the plaintiff reasonably relied; and (6) that reliance was the proximate cause of
plaintiff’s injury.”: così Tracinda Corp. v. DaimlerChrysler AG, 364 F. Supp. 2d 362 (D. Del. 2005),
confermata da F.3d 212 (3d Cir. 2007); nonché Dura Pharm., Inc. v. Broudo, 544 U.S. 336, 341-342
(2005), la quale ha specificato che occorre anche la presenza di un danno patrimoniale (economic loss):
sul punto v. anche VELIOTIS, Rule 10b5-1 Trading Plans and Insiders’ Incentive to Misrepresent, in
American Business Law Journal, 2010, v. 47, 316; FRANCIS, Meet Two-Face: the Dualistic Rule 10b-5
and the Quandary of Offsetting Losses by Gains, in Fordham Law Review, 2009, v. 77, 3052. Come è
noto, la disciplina statunitense è basata sulla Section 10(b) del SEA e soprattutto sulla Rule 10b-5 emanata
dalla SEC nel 1942, la quale, senza menzionare espressamente l’insider trading, prevede: “It shall be
unlawful for any person, directly or indirectly, by the use of any means or instrumentality of interstate
commerce, or of the mails or of any facility of any national securities exchange, (a) to employ any device,
scheme, or artifice to defraud, (b) to make any untrue statement of a material fact or to omit to state a
material fact necessary in order to make the statements made, in the light of the circumstances under
which they were made, not misleading, or (c) to engage in any act, practice, or course of business which
operates or would operate as a fraud or deceit upon any person, in connection with the purchase or sale
of any security.” Tuttavia sono stati alcuni noti casi giudiziari ad aver posto le basi dell’architettura
concettuale che oggi regola il fenomeno dell’insider trading. Per un’analitica ricostruzione delle tappe di
questo percorso giurisprudenziale, v. da ultimo SABINO A. M. - SABINO M. A., From Chiarella to
Cuban; the Continuing Evolution of the Law of Insider Trading, in Fordham Journal of Corporate &
Financial Law, 2011, v. XVI, 673 ss; ma anche CHOI-PRITCHARD, op. cit., 351 ss. I primi passi di tale
percorso erano stati esaminati anche nella letteratura italiana: cfr. ad es. CASELLA, Alcune osservazioni
in tema di insider trading, in Giur. comm., 1989, I, 796 ss.; BALLARINI, Insider trading: problemi
attuali e profili di comparazione, in Contr. e impr., 1990, II, 1160 ss. Dapprima, in SEC v. Texas Gulf
Sulphur Co., 401 F.2d 833 (2d Cir. 1968), la Corte [riprendendo l’opinione espressa dalla SEC in Cady,
Roberts & Co., 40 S.E.C. 907, 912 (1961)] affermò il noto principio della c.d. disclose or abstain rule, in
forza del quale il mercato deve garantire a tutti gli investitori parità di accesso a tutte le informazioni; di
conseguenza, chiunque sia in possesso di una material nonpublic information deve renderla nota prima
della contrattazione o astenersi dal porla in essere. Tale impostazione subì una decisa evoluzione in
Chiarella v. US, 445 U.S. 222 (1980), allorché la Corte Suprema respinse l’idea della parità di accesso
all’informazione e ritenne che non ci può essere insider trading in mancanza di un dovere di parlare, il
quale però non nasce semplicemente in forza della disponibilità della material nonpublic information,
bensì (semmai) in forza del fatto che gli investitori hanno riposto la loro fiducia e il loro affidamento sul
corretto comportamento dell’insider [tesi ribadita dalla Corte Suprema nel successivo caso Dirks v. SEC,
463 U.S. 646 (1983), ove la chiara affermazione che tale dovere “arises rather from the existence of a
fiduciary relation”]. A tale concezione venne poi ad affiancarsi in via complementare la c.d.
misappropriation theory, secondo la quale può sorgere responsabilità per insider trading in capo a chi
ponga in essere delle negoziazioni sfruttando un’informazione riservata appartenente ad un diverso
soggetto, senza comunicare a quest’ultimo l’utilizzo della notizia stessa; in pratica, entra in gioco una
sorta di fiduciary duty nei confronti della fonte dell’informazione, anziché verso coloro (gli shareholders)
con i quali viene posta in essere la contrattazione: v. US v. O’Hagan, 521 U.S. 642 (1997), commentato
favorevolmente, tra gli altri, da QUINN, The misappropriation theory of insider trading in the Supreme
Court: a (brief) response to the (many) critics of United States v. O’Hagan, in Fordham Journal of
Corporate & Financial Law, 2003, v. VIII, 865 ss. (ove diversi ulteriori riferimenti: ibidem, 866-867);
nonché, nella nostra letteratura, da GALLI, Insider trading: l’accoglimento da parte della Supreme Court
153
In primo luogo, il dato normativo potrebbe indurre a pensare che l’informazione
privilegiata non possa essere un’informazione che debba essere resa nota già in forza di
una specifica previsione di legge: in tale direzione parrebbe orientare il primo comma
dell’art. 114 T.U.F., il quale prevede che siano comunicate senza indugio al pubblico le
informazioni privilegiate di cui all’art. 181 T.U.F., ma esordisce dichiarando “fermi gli
obblighi di pubblicità previsti da specifiche disposizioni di legge”, tra i quali sembra
senz’altro rientrare quello di cui all’art. 122 T.U.F. 63
Ciò detto, è tuttavia possibile tentare una prima breve riflessione in grado di
togliere incisività all’obiezione poc’anzi riportata.
federale statunitense della misappropriation theory. Alcune conseguenti riflessioni sulla condotta di
“trading” vietata, come definita nel cosiddetto “Testo Unico Draghi”, in Giur. comm., 1998, II, 712 ss. Il
caso più recente in questo percorso è quello che ha visto ben due pronunce giudiziali: SEC v. Cuban, 634
F. Supp. 2d 713 (N.D. Texas 2009), riformata da 620 F.3d 551 (5th Cir. 2010). La Corte distrettuale del
Texas affermò che un dovere analogo a quello fiduciario può sorgere tramite un accordo che imponga sia
la riservatezza dell’informazione, sia l’astensione dalla negoziazione dei titoli che potrebbe essere
compiuta sfruttando la notizia; il 5th Circuit, invece, dichiarò che dovesse ritenersi riscontrabile in
concreto (e sufficiente) anche un’implicita pattuizione in tal senso, addossando sul convenuto l’onere di
una prova sostanzialmente negativa circa l’inesistenza dell’accordo. Per una disamina di tale vicenda
(peraltro critica nei confronti della pronuncia d’appello) v. in particolare SABINO A. M. - SABINO M.
A., op. cit., 711 ss.; nonché BAILEY Jr., SEC v. CUBAN: the Misappropriation Theory and its
Application to Confidentiality Agreements under Section 10(b) and Rule 10b5-2 of the Securities
Exchange Act of 1934, in Delaware Journal of Corporate Law, 2010, v. 35, 539 ss., (commento
precedente la pronuncia d’appello, ma comunque) critico verso la sentenza della Corte distrettuale per
aver arbitrariamente aggiunto un ulteriore requisito della responsabilità per insider trading (ibidem, spec.
541-542) e per aver ignorato la Rule 10b5-2 emanata nel 2000 dalla SEC, che individua alcuni casi di
responsabilità sulla base della misappropriation theory, tra cui la (semplice) esistenza di un accordo per
mantenere riservata la notizia; perplesso, ma in base ad una diversa motivazione (secondo cui la
comunicazione di informazioni riservate fa sorgere un implicito dovere di riservatezza e di astensione
dalle negoziazioni: c.d. “temporary insider theory”), anche PRENTICE, Permanently Reviving the
Temporary Insider, in The Journal of Corporation Law, 2011, 343 ss. e spec. 369 e 374. Per l’opinione
avversa all’idea che la semplice esistenza (e violazione) di un confidentiality agreement (in assenza di
un’ulteriore relazione qualificata tra le parti) possa fondare la responsabilità per insider trading, v.
DAVIS, Trimming the “Judicial Oak”: Rule 10b5-2(b)(1), Confidentiality Agreements, and the Proper
Scope of Insider Trading Liability, in Vanderbilt Law Review, 2010, 1469 ss. e spec. 1493 ss., il quale
avanza la tesi che la responsabilità per insider trading possa essere predicata in presenza della violazione
di un dovere di astenersi dal profittare dell’informazione privilegiata, il quale può sorgere sia per
contratto che in base ad un “fiduciary duty”; BEXLEY, Reining in Maverick Traders: Rule 10b5-2 and
Confidentiality Agreements, in Texas Law Review, 2009, v. 88:195, 195 ss. Il più recente sviluppo delle
teorie d’oltre oceano riguardanti l’insider trading tende a ridimensionare (se non addirittura a rimuovere)
la rilevanza del requisito del fiduciary duty: nel caso SEC v. Dorozhko, 574 F.3d 42, 50 (2d Cir. 2009), la
Corte ha ravvisato (in base alla distinzione tra mancata disclosure e “misrepresentation” al fine di
ottenere l’accesso a un’informazione riservata, presente nel caso di specie) un’ipotesi di insider trading
nella condotta (diversa dai casi di mancata disclosure) di hacking che aveva consentito al suo autore di
appropriarsi indebitamente di informazioni riservate, poi seguita dal trading dei titoli (un’analisi del caso
è offerta da JONES II, Outsider Hacking and Insider Trading: The Expansion of Liability Absent a
Fiduciary Duty, in Washington Journal of Law, Technology & Arts, 2010, v. 6, 111 ss., da cui si cita, e in
www.ssrn.com, il quale rileva un contrasto tra le corti sul punto). Su questa base, è stata proposta in
dottrina la c.d. “fraud on the investors theory”, secondo la quale sarebbe proibita ogni negoziazione
“based on nonpublic information obtained through illegal means”: così ODIAN, SEC v. Dorozhko’s
Affirmative Misrepresentation Theory of Insider Trading: an Improper Means to a Proper End, in
Marquette Law Review, 2011, 1347, secondo cui ogni indebita appropriazione di informazioni, in
qualunque forma, “defrauds marketplace traders”.
63
Per l’atipicità degli eventi da rendere noti ai sensi dell’art. 114 T.U.F. si è espresso, infatti, RORDORF,
Ruolo e poteri della Consob nella nuova disciplina del market abuse, in Società, 2005, 816.
154
Proprio l’obbligo di comunicare le informazioni privilegiate, sancito dall’attuale
testo dell’art. 114 T.U.F. - come riscritto ad opera della l. n. 62/200564 - può bastare a
smentire l’idea, talora affiorata in dottrina, che l’informazione privilegiata, in via
generale, non possa (rectius: non debba) essere divulgata, pena la commissione del reato
ai sensi della lett. b) dell’art. 184, comma 1, T.U.F., nella forma della comunicazione di
“tali informazioni ad altri, al di fuori del normale esercizio del lavoro, della professione,
della funzione o dell’ufficio”.65 Tale ipotesi, infatti, si riferisce unicamente alla
diffusione della notizia a beneficio di altri soggetti, attraverso canali del tutto informali
ed in via riservata; ben diversa è, naturalmente, l’informazione al pubblico
(obbligatoria) secondo le modalità previste dalla legge e dalla Consob.
Pertanto, non sembra si possa ragionare nel senso che l’informazione
privilegiata, non potendo (anzi, non dovendo) mai essere divulgata, non possa
coincidere con quella fatta oggetto di un obbligo di disclosure da una specifica
previsione normativa66; proprio il disposto dell’art. 114 T.U.F., infatti, smentisce la
premessa, sancendo il principio per cui la notizia in questione debba avere generale
diffusione, coerentemente all’esigenza di fare in modo che ogni informazione rilevante
per il mercato sia resa conoscibile e, dunque, siano eliminate le asimmetrie
informative.67 Come si è osservato, “nel caso dell’insider trading [...] l’informazione è
destinata ad essere portata prima o poi a conoscenza del pubblico degli investitori” 68.
D’altro canto, va detto che l’inciso iniziale dell’art. 114 T.U.F. non sembra poter
determinare in via automatica l’espulsione della notizia dell’esistenza di un patto
parasociale rilevante dalla nozione di informazione privilegiata: anzi, l’imposizione
dell’obbligo di comunicazione al pubblico delle informazioni privilegiate, accanto alle
specifiche ipotesi di disclosure già previste, può suggerire, oltre all’idea di un
avvicinamento dei due regimi, la riconducibilità delle seconde alla categoria generale
incarnata dalle prime e costituente proprio l’asse portante della disciplina dell’insider
64
E’ da notare che tale normativa ha modificato anche l’art. 116, comma 1, T.U.F., il quale ora estende
l’applicazione dell’art. 114 T.U.F. (ad eccezione del comma 7) anche “agli emittenti strumenti finanziari
che, ancorché non quotati in mercati regolamentati italiani, siano diffusi tra il pubblico in misura
rilevante”.
65
Per tale tesi, ma con riferimento alla disciplina previgente, G. SANTORO, Insider trading: profili
civilistici, in Contr. e impr., 1992, 674 ss., secondo il quale l’essenza dell’insider trading avrebbe dovuto
essere individuata nella “violazione di un divieto di fare, non di un dovere di dire” (ibidem, 675): in
pratica, il possessore di un’informazione privilegiata dovrebbe, secondo quest’idea, limitarsi ad astenersi
da eventuali negoziazioni, senza porsi il problema di diffondere l’informazione stessa.
66
Conf. LENER, La diffusione delle informazioni “price sensitive” fra informazione societaria e
informazione riservata, in Società, 1999, 144 (nt. 8).
67
Del resto, già i principi generali del diritto penale che presiedono all’operatività delle cause di
giustificazione escludono, come è noto, che possa farsi luogo ad un’incriminazione in presenza di una
diversa norma dell’ordinamento che imponga o autorizzi la condotta astrattamente vietata. Per di più, nel
caso di specie anche tale ipotetico contrasto tra norme sembra venire meno ove si consideri che
comunque la condotta vietata dalla fattispecie che incrimina l’insider trading non è tanto la diffusione
dell’informazione (a meno che, come si è visto, avvenga ai sensi dell’art. 184, comma 1, lett. b) T.U.F.
anziché a beneficio del mercato), bensì lo sfruttamento a proprio vantaggio della medesima.
68
BARTALENA, Insider trading, in Trattato delle società per azioni, diretto da G. E. Colombo e G. B.
Portale, Torino, 1993 (ristampa 2000), 10, *, 321. Per considerazioni analoghe a quelle proposte nel testo
v., nella dottrina tedesca, MENNICKE, Sub § 14, in Wertpapierhandelsgesetz (Kommentar),
herausgegeben von A. Fuchs, München, 2009, 548-549.
155
trading (purché, naturalmente, sussistano i requisiti elencati e illustrati dalla norma
definitoria di cui all’art. 181 T.U.F.) 69
Un diverso (all’apparenza più consistente) ostacolo alla riconducibilità
dell’esistenza di un patto occulto alla nozione di informazione privilegiata sembra posto
da quanti hanno affermato che questa non può consistere in una notizia relativa alla
sfera personale dell’insider70: accogliendo questa impostazione, i pattisti occulti che
hanno compravenduto azioni in forza della loro condizione non potrebbero essere
ritenuti insiders. Lo sarebbero, semmai, coloro i quali (amministratori, azionisti esterni
al patto, ecc.) siano eventualmente venuti a conoscenza di quell’informazione e abbiano
poi provveduto a compiere operazioni sulle azioni (o su altri strumenti finanziari
dell’emittente), oppure abbiano ulteriormente divulgato la notizia a termini dell’art. 184,
comma 1, lett. b), T.U.F.71 Tuttavia, non è facile individuare indici normativi
univocamente orientati nel senso proposto da detta tesi.72 In ogni caso, anche ove la si
volesse accogliere nelle sue linee generali, bisognerebbe riconoscere che la circostanza
69
Nell’ordinamento statunitense, un primo collegamento normativo tra la disclosure ai sensi della Section
13(d) del SEA (che comprende, come si è visto, la pubblicizzazione degli accordi tra azionisti) e la
disciplina dell’insider trading è stato rintracciato nel caso Kamerman v. Steinberg, 123 F.R.D. 66
(S.D.N.Y. 1988): la Corte ha rilevato, in particolare, che anche la comunicazione di una variazione delle
circostanze rilevanti ai sensi della Section 13(d) che pur soddisfi il requisito della tempestività
(“promptly”) introdotto dalla SEC, non esclude necessariamente una responsabilità per insider trading ai
sensi della Rule 10b-5. Ma soprattutto, la giurisprudenza americana ha anche ammesso che la mancata
disclosure imposta dalla Section 13(d) può dare origine ad un’azione per insider trading ai sensi della
Rule 10b-5: Levie v. Sears Roebuck & Co., 2006 U. S. Dist., LEXIS 12725 (N. D. Ill. 2006). Sul punto
LEVY, op. cit., 5-45.
70
GALGANO, Gruppi di società, insider trading, OPA obbligatoria, in Contr. e impr., 1992, 638;
BARTALENA, op. cit., 328, il quale ne ricavava l’esonero dall’applicazione della disciplina proprio del
“soggetto che si appresta a lanciare un’o.p.a.”. Peraltro, merita notare che gli artt. 181 e 184 T.U.F. non
fanno più riferimento alle informazioni “ottenute”, togliendo spazio al principale argomento utilizzato dal
primo dei due Autori testé citati. Anzi, la seconda di tali norme dà ora rilievo al “possesso di informazioni
privilegiate”, impiegando una terminologia che sul piano lessicale non può escludere la possibilità di
comprendere informazioni concernenti la sfera giuridica dell’insider purché, naturalmente, rilevanti per
l’emittente. Negli Stati Uniti, non sembrano esservi dubbi sul fatto che l’informazione possa essere “selfcreated” da parte dell’insider: v. di recente VELIOTIS, op. cit., 349.
71
E. v in tal senso BARTALENA, op. cit., 328. Sul fatto che anche chi partecipa al capitale dell’emittente
- in particolar modo gli azionisti di comando - possa rivestire la posizione di insider, non dovrebbero, in
linea generale, esservi dubbi: v. NAPOLEONI, Insider trading (voce), in Dig. disc. pen., Agg., ****, A-I,
Torino, 2008, 593; ancor prima, MIGNOLI A., Insider trading: considerazioni e perplessità, in La
società per azioni. Problemi - Letture - Testimonianze, Milano, 2002, I, 451; nella dottrina americana,
COFFEE Jr., Reforming the Securities Class Action: an Essay on Deterrence and its Implementation, in
Columbia Law Review, 2006, v. 106, 1552. Per l’idea che anche gli azionisti di controllo uniti da un patto
di sindacato possano essere considerati insiders si veda, sebbene con riferimento alla disciplina
previgente, BARTALENA, op. cit., 302 ss.
72
La respinge, infatti, NAPOLEONI, op. cit., 583, sulla base dell’ineccepibile rilievo che essa
“ritaglierebbe significativi spazi di liceità alle transazioni compiute in posizione di superiorità
conoscitiva”; l’A. tuttavia sembra riconoscere, senza peraltro argomentare adeguatamente, la validità
dell’impostazione qui criticata con riferimento ai casi “in cui l’intento proprio, fonte del vantaggio
conoscitivo, consista nella stessa decisione di intervenire sul mercato finanziario o in una decisione cui
tale intervento è strumentale”, tra cui “il rastrellamento di titoli della società bersaglio da parte di chi
intende lanciare un’o.p.a.” Peraltro, anche chi volesse condividere quest’ultimo passaggio dovrebbe
riconoscere che altro è la decisione individuale di lanciare un’OPA, altro è l’esistenza di un patto tra
azionisti in tal senso, che può sin da subito produrre effetti rilevanti sulla società ed incidere sugli assetti
proprietari della stessa, oltre che sul prezzo di mercato dei relativi titoli. E’ probabilmente per questo che
lo stesso A. giunge infatti ad ammettere che possa costituire notizia rilevante riferita all’emittente
l’esistenza di un “progetto di scalata” (ibidem, 588).
156
secondo cui l’informazione privilegiata debba riferirsi all’emittente o a strumenti
finanziari da questo emessi non pare in sé idonea ad escludere la rilevanza della notizia
circa l’esistenza di un patto parasociale occulto, giacché questa, pur riguardando
certamente la posizione giuridica soggettiva di ogni membro dell’accordo (detto
altrimenti: i potenziali insiders), può indubbiamente fornire un esatto quadro proprio in
ordine alla situazione proprietaria dell’emittente, nonché al controllo e all’indirizzo
gestionale del medesimo.73
Pare allora preferibile accogliere l’impostazione, adombrata anche da qualche
voce nella dottrina civilistica, secondo cui i patti parasociali possono essere “considerati
informazioni rilevanti (o ‘privilegiate’), ai sensi degli artt. 114 e 116 T.U.F.” 74; dunque,
73
Un cenno in tal senso anche in SAMBUCCI, Patti parasociali, cit., 37. Da questo punto di vista,
sembra qui perdere peso l’osservazione secondo cui le informazioni privilegiate di cui all’art. 181 T.U.F.
potrebbero comprendere, a differenza di quelle rilevanti per l’art. 114 T.U.F., anche le notizie che
riguardano indirettamente l’emittente e quelle “che ancora non si sono verificate ma rispetto alle quali si
possa ragionevolmente reputare che verranno ad esistenza”: MACRI’, Informazioni privilegiate, cit., 6970. In senso contrario alla piena coincidenza delle informazioni privilegiate nel contesto delle due norme,
cfr. anche GALLI, La disciplina, cit., 84 ss.; F. BRUNO - RAVASIO, Ambito soggettivo ed oggettivo
dell’informazione privilegiata post Market Abuse Directive, nota a Cass. Pen., Sez. IV, 10 luglio 2006, n.
2871, in Società, 2007, 1029; nonché la Comunicazione Consob n. DEM/6027054 del 28 marzo 2006, in
www.consob.it (su cui v. anche RACUGNO, Internal dealing: le persone giuridiche controllate da un
soggetto rilevante, in Giur. comm., 2008, I, 397 ss.). Nel senso dell’equivalenza della nozione di
informazioni privilegiate nell’art. 114 e nell’art. 181 T.U.F. è infatti orientata ormai l’opinione
prevalente: si vedano DENOZZA, La nozione di informazione privilegiata tra “Shareholder Value” e
“Socially Responsible Investing”, in Giur. comm., 2005, I, 594; RORDORF, Ruolo e poteri, cit., 816;
NAPOLEONI, op. cit., 579; MAGRO, Manipolazioni di mercato e strumenti derivati, in Dir banca e
merc. fin., 2007, 53; FIECCONI, La nuova disciplina del market abuse. L’insiders list: i suoi obiettivi e
la valutazione dei suoi contenuti, in Corr. giur., 2006, 1769, rilevando anche la funzione di prevenzione
svolta dall’art. 114 T.U.F. rispetto all’insider trading; RUGGERI, Gli obblighi di disclosure delle società
quotate: alcuni problemi interpretativi, in Riv. dir. comm., 2009, I, 523, sulla base dell’argomento,
difficilmente eccepibile, dell’avvenuta riscrittura dell’art. 114 T.U.F., che ha espunto il riferimento ai
“fatti rilevanti” e ha introdotto quello alle “informazioni privilegiate”, addirittura con espresso rinvio
all’art. 181 T.U.F.; l’A. nota che ciò comunque non elimina alcune problematiche interpretative, perché
l’informazione rilevante per l’art. 114 T.U.F. richiede un apprezzamento ex ante, mentre ai fini
dell’insider trading la valutazione (del giudice ed ex post) può basarsi sull’effetto che la diffusione
dell’informazione ha poi prodotto sui prezzi. E’ ovvio, peraltro, che una simile questione non si pone nel
caso in cui si qualifichi come informazione privilegiata il patto occulto, perché non possono esservi dubbi
nemmeno ex ante circa la sua soggezione all’obbligo di pubblicazione. Prima della modifica dell’art. 114
T.U.F., si erano espressi, con vari accenti, nel senso della (soltanto) parziale sovrapponibilità degli ambiti
applicativi delle due norme PICONE, Trattative, due diligence ed obblighi informativi delle società
quotate, in Banca, borsa, tit. cred., 2004, I, 245 ss. e spec. 247-248; F. MUCCIARELLI, L’informazione
societaria: destinatari e limiti posti dalla normativa in materia di insider trading, in Banca, borsa, tit.
cred., 1999, I, 745 ss. e spec. 759. Per una sintetica panoramica europea in argomento, v. DI NOIA GARGANTINI, op. cit., 801 ss., i quali rilevano che anche in Germania i §§ 13 e 15 WpHG contemplano
un’unica nozione di informazione rilevante per la disclosure e ai fini del divieto di insider trading
(ibidem, 804). La nozione di “Insiderinformation”, contemplata dallo stesso § 13 WpHG è del tutto
analoga a quella vigente nel nostro ordinamento. Per un commento, v. di recente MENNICKEJAKOVOU, Sub § 13, in Wertpapierhandelsgesetz (Kommentar), herausgegeben von A. Fuchs,
München, 2009, 354 ss.
74
BADINI CONFALONIERI, op. cit., 297. Come si è osservato in dottrina, del resto, è “‘privilegiata’
qualunque informazione il cui contenuto sia comunque (anche lontanamente) collegato all’emittente o
agli strumenti finanziari, nella misura tale da poter incidere sull’andamento dei prezzi”: così SEPE, La
repressione degli abusi di mercato in L’ordinamento finanziario italiano, a cura di F. Capriglione,
Padova, 2010, 1107; inoltre, si è constatato che “la fonte di provenienza dell’informazione od il suo
contenuto intrinseco perdono rilevanza e solo conta la prospettica modificazione dei corsi che
verisimilmente potrà seguire alla divulgazione dell’informazione stessa”: così BARTALENA, op. cit.,
157
anche ai sensi degli artt. 181 e 184 T.U.F. 75 Ciò è tanto più vero se si accoglie l’idea che
debbano comunque costituire oggetto di disclosure ai sensi dell’art. 114 T.U.F. anche le
attività preparatorie di un’offerta pubblica di acquisto, purché si sia già raggiunta una
ragionevole certezza sulla sua futura promozione.76
322 (per quanto, come si è visto, tale A. respingesse la rilevanza della “self-created information”). Il
possibile intreccio tra OPA obbligatoria e insider trading è stato ravvisato anche nella letteratura tedesca,
sebbene con particolare riferimento alle informazioni che gli acquirenti possono acquisire, nel corso di
una scalata, per mezzo di una due-diligence: cfr. ad es. MENNICKE, op. cit., 517 ss.; VON BÜLOW, op.
cit., 1067 ss. Con riguardo all’ordinamento statunitense, è interessante osservare che la Rule 14e-3
approntata dalla SEC prevede che, se è iniziato un procedimento di offerta (“tender offer”) o se sono stati
compiuti passi per iniziarlo, non si possano acquisire o alienare partecipazioni da parte di chi “is in
possession of material information relating to such tender offer which information he knows or has
reason to know is nonpublic and which he knows or has reason to know has been acquired directly or
indirectly” dall’offerente o dalla società o da soggetti ad essi collegati (e la regola si applica anche alle
persone che in accordo con l’offerente lanciano l’offerta su incarico del medesimo); inoltre, “the SEC
considers a person to have taken a substantial step to commence a tender offer […] if the bidder has
formed a plan to make an offer”: così BROWN et al., op cit., § 2.03, 2-9) . Come si è osservato, questa
regola “serves as an adjunct to rule 10b-5” (così SODERQUIST-GABALDON, op. cit., 145; conf.
BROWN et al., op. ult. cit., § 2.03, 2-7). In argomento v. anche THOMPSON Jr., op. cit., 8-124 ss.;
nonché QUINN, op. cit., 871, per il rilievo che in base a questa norma (e a differenza di quanto statuito in
via generale dalle Corti) non occorre la violazione di un fiduciary duty; così come ai sensi della Section
16(b) non serve la prova della condotta decettiva o dell’utilizzo di una material nonpublic information.
Analog. PRENTICE, op. cit., 372, proponendo appunto che le teorie che governano la materia
dell’insider trading si stacchino dal radicamento alla violazione di fiduciary duties per abbracciare
approcci più ampi, come quello della “fraud on investors theory”. Dato che le informazioni sull’offerta
possono riguardare anche l’identità degli offerenti e l’eventuale esistenza di un concerto tra di essi,
emerge allora un collegamento tra la disclosure degli accordi rilevanti, le tender offers e la disciplina
dell’insider trading, con tutte le possibili conseguenze. Una conferma in tal senso si è avuta nel caso
Ansin v. River Oaks Furniture, Inc., 105 F.3d 745 (1st Cir. 1997), ove l’informazione tenuta nascosta
consisteva proprio nel progetto di lanciare un’offerta pubblica: coloro che avevano alienato le azioni
prima che la notizia venisse resa nota, domandarono un risarcimento pari alla differenza tra il prezzo che
avevano ottenuto nella negoziazione e quello più alto dell’offerta pubblica stessa. Una norma analoga è
presente nel Regno Unito, ove la rule 4.1. del Code stabilisce che “no dealings of any kind in securities of
the offeree company by any person, not being the offeror, who is privy to confidential price-sensistive
information concerning an offer or contemplated offer may take place between the time when there is
reason to suppose that an approach or an offer is contemplated and the announcement of the approach or
offer or of the termination of the discussion”. Sul legame tra insider trading e offerte pubbliche
d’acquisto (specie negli Stati Uniti), v. nella nostra dottrina CASELLA, op. cit., 809 ss.
75
Pare incontestabile, in altre parole, che si tratti di “un’informazione asimmetrica, ovvero della
conoscenza del progetto di coalizione del quale il mercato è ancora all’oscuro”: così MOSCA,
Comportamenti, cit., 453, la quale ne ricava perciò che “l’oggetto della trattativa, ovvero l’acquisizione, il
rafforzamento o consolidamento del controllo, programmati ancorché non attuati, potrebbero
rappresentare un’informazione della quale non abusare ai sensi degli artt. 184 e 187-bis T.U.F.” (ibidem,
nt. 6); e v. anche ibidem, 477-478.
76
Per questa impostazione v. PICONE, Trattative, cit., 234 ss.; analog. FERRARINI, La nuova
disciplina, cit., 52, il quale osserva che proprio il lancio di un’offerta pubblica di acquisto “può costituire
un’informazione privilegiata” (così nella dottrina francese VIANDIER, op. cit., 149): se così è, deve
certamente ritenersi che tale possa essere anche il patto parasociale ad essa prodromico, che nasca cioè
con l’obiettivo dell’acquisto del controllo. Esso, del resto, pur potendo essere in qualche modo
considerato evento preparatorio dell’offerta pubblica, si configura come evento (negoziale) completo in
tutti i suoi elementi. Sul punto anche BARTALENA, op. cit., 327; MAGRO, op. cit., 57; GALLI, La
disciplina, cit., 14-15; nonché F. BRUNO - RAVASIO, op. cit., 1029, secondo i quali, oltre alla notizia
relativa alla scalata della società o al lancio di un’OPA, potrebbero venire in rilievo anche le modifiche
dei patti di sindacato. Per una posizione più prudente, secondo cui cioè “it is questionable whether an
integral disclosure of all facts reasonably leading to a material event is always the best regulatory
choice”, si vedano DI NOIA - GARGANTINI, op. cit., 794 (ove il virgolettato). Come si è appena detto,
però, il patto parasociale perfezionato sembra pienamente considerabile alla stregua di un vero e proprio
material fact; diversa questione può invece emergere allorché si tratti eventualmente di comprendere se
158
In definitiva, il tratto caratterizzante dell’informazione privilegiata sembra
rappresentato dall’idoneità della stessa ad influire in modo sensibile sul prezzo degli
strumenti finanziari, requisito meglio specificato dal quarto comma dell’art. 181 T.U.F.
attraverso il riferimento a quell’informazione “che presumibilmente un investitore
ragionevole utilizzerebbe come uno degli elementi su cui fondare le proprie decisioni di
investimento”: tale può ben essere la notizia circa l’esistenza di un patto parasociale,
specialmente se in grado di riunire una percentuale consistente del capitale sociale. 77
Come si è ulteriormente precisato in dottrina, ciò significa che “l’informazione
costituisce uno degli elementi impiegati per giungere alla scelta di compiere
l’operazione: nel processo formativo della decisione la conoscenza della notizia assume
un ruolo determinante e risolutivo, sicché possa appunto dirsi che si è utilizzata anche
quella informazione per decidere di effettuare quella operazione”.78
gli stadi della trattativa abbiano già condotto ad un vero e proprio accordo tra gli azionisti: i profili che si
vanno esaminando (riguardanti le conseguenze dell’omessa comunicazione del patto) suggeriscono,
tuttavia, di concentrare l’attenzione proprio sull’ipotesi in cui il patto sia stato sì stipulato, ma sia stato al
contempo mantenuto segreto.
77
La potenziale idoneità dell’informazione concernente l’esistenza di un patto parasociale ad influire sul
prezzo delle azioni è evidenziata anche da SAMBUCCI, Patti parasociali, cit., 37. Sul fatto che si tratti di
una valutazione ex ante e sull’interpretazione della nozione di “investitore ragionevole”, cfr. in particolare
DENOZZA, La nozione di informazione privilegiata, cit., 591 ss.: l’A. afferma che il riferimento al
comportamento dell’investitore medio può fornire una prima utile indicazione, ma saranno al contempo
rilevanti anche quelle informazioni prese in considerazione da un numero di investitori “tale da poter
avere con i loro comportamenti una significativa incidenza sui prezzi”, giacché occorre non perdere di
vista “il criterio principale che è rimane il criterio dell’incidenza sui prezzi”. Analog., nella dottrina
americana, ENGLE, op. cit., 11, per il rilievo che gli investitori hanno opinioni diverse e differenti
propensioni al rischio. La difficoltà della valutazione di tale criterio (c.d. materiality) è stata rilevata
anche dalla Corte Suprema degli Stati Uniti [v. Basic, Inc. v. Levinson, 485 U.S. 224 (1988)], la quale ha
altresì affermato nella stessa occasione (sebbene con specifico riferimento ad una merger negotiation e
non ad una tender offer) che l’informazione diviene rilevante soltanto in presenza di un accordo di
massima (“agreement-in-principle”) tra le parti coinvolte (e non già a fronte di semplici discussioni
preliminari): solo a partire da questo momento, quindi, verrebbe soddisfatto il requisito della c.d.
materiality (v. più ampiamente THOMPSON Jr., op. cit., 6-43 ss.).
78
Sono parole di MUCCIARELLI, L’insider trading nella nuova disciplina del d. lgs. 58/1998, in Riv.
trim. dir. pen. ec., 2000, 950. Analog., più di recente, AMATI, L’abuso di informazioni privilegiate: il
reato, in Le nuove leggi civ. comm., 2007, 1053, ove si nota che il verbo “utilizzare” “parrebbe denotare
un collegamento motivazionale tra informazione privilegiata e la scelta operativa più forte”. Alla stessa
conclusione raggiunta nel testo porta la constatazione che “il ruolo dell’informazione [...] è connesso alla
concentrazione proprietaria, alla nascita di un mercato per il controllo del capitale e al conseguente
fenomeno della contendibilità del controllo. La contendibilità del controllo e il contesto competitivo che
essa genera hanno importanti riflessi sulle performance dell’impresa”: così SCARPA, Asimmetrie
informative interorganiche nelle società quotate, in Giur. comm., 2009, I, 516. Non è certo il caso di
ribadire l’influenza che la stipula di un patto parasociale (specie se di controllo) può spiegare sotto questi
profili. Ancora, la soluzione proposta nel testo sembra risultare coerente anche alla luce della riflessione,
ispirata ai paradigmi dell’analisi economica, secondo cui il divieto di insider trading deve colpire coloro i
quali sfruttano un’informazione riservata ed acquisita (lecitamente o illecitamente, ma in ogni caso) senza
sostenere dei costi che giustifichino la posizione di superiorità informativa raggiunta: così
MACCABRUNI, Insider trading e analisi economica del diritto, in Giur. comm., 1995, I, 604 ss. e spec.
609; BALLARINI, op. cit., 1202-1203; nonché, più di recente, ROLFI, L’investitore, le banche e
l’insider trading: quale spazio per la tutela aquiliana, nota a Trib. Milano, 14 febbraio 2004, in Corr.
giur., 2004, 1652, il quale aggiunge che “l’operazione di insider si traduce nella realtà in un trasferimento
indiretto di ricchezza dagli investitori all’insider ottenuto tramite l’occultamento e sfruttamento di
informazioni privilegiate” (ibidem, 1653). Per un analogo rilievo nella dottrina americana, v. di recente
ODIAN, op. cit., 1332: “insider trading involves the nondisclosure of material nonpublic information,
gained not by skill or effort, but rather through the investor’s relationship to the issuing company, its
shareholders, or the source of his non public information”. Non è chi non veda come la presenza di un
159
4. Il rapporto tra la responsabilità da mancata opa e la responsabilità civile
da insider trading a fronte della scoperta di un patto occulto.
Il fatto che l’informazione inerente all’esistenza di un patto parasociale intercetti
l’interesse di quanti vogliano conoscere la struttura proprietaria della società è
senz’altro facilmente comprensibile nel caso in cui si siano altresì verificati i
presupposti dell’OPA obbligatoria da patto occulto, tra i quali spicca l’acquisto di azioni
dell’emittente in un arco temporale di dodici mesi che abbia portato alla disponibilità
anche congiunta di una partecipazione almeno pari al trenta per cento del capitale
sociale; è anche vero, però, che questa pare al contempo l’ipotesi più problematica,
perché impone una verifica circa la compatibilità della responsabilità da insider trading
con quella nascente in caso di mancata promozione dell’offerta obbligatoria; operazione
che, qualora dovesse avere esito positivo, richiederebbe la messa a fuoco dei possibili
rapporti tra le due forme di responsabilità.
Un punto di partenza di ordine sistematico consiste nella semplice osservazione
che non può essere ammessa una duplicazione del risarcimento, allorché venga in
considerazione un’unica voce di danno. Pertanto, è appena il caso di rilevare che un
cumulo delle due responsabilità potrebbe eventualmente essere ravvisato soltanto in
presenza di danni di diversa tipologia (rectius: a fronte di diverse voci di danno).
A prima vista, nei confronti degli azionisti che avrebbero dovuto ricevere
l’offerta pubblica, la responsabilità (di natura contrattuale) dei pattisti occulti sembra
risolversi unicamente in quella precedentemente descritta, volta (e funzionale) a
risarcire il danno consistente nella differenza tra il prezzo d’offerta (o meglio, che
avrebbe dovuto essere corrisposto in seno all’offerta) e il valore di mercato dei titoli al
momento dell’inadempimento.79
Atteso, però, che detto prezzo d’offerta deve essere almeno pari a quello più alto
corrisposto dall’offerente (o meglio, dai concertisti offerenti) per i loro precedenti
acquisti80, ci si dovrebbe chiedere se l’omessa disclosure del patto parasociale, cui si
patto parasociale (occulto) rilevante assuma i connotati di un’ipotesi di superiorità informativa
illecitamente acquisita dai suoi membri (e dagli eventuali soggetti al corrente della stipulazione), proprio
perché sussiste un obbligo di tempestiva disclosure dell’intervenuto accordo.
79
Salve, naturalmente, le eventuali ulteriori voci di danno di cui si è dato conto (supra, § 2).
80
La regola (art. 106, comma 2, T.U.F.), conosciuta come “best price rule”, è prevista anche
nell’ordinamento americano ed è stata esplicitata dalla SEC sulla base della Section 14(d)(7) e in stretta
connessione con la c.d. “all holders rule”. La Rule 14d-10(a)(1) e la Rule 14d-10(a)(2) prevedono infatti
che: “(a) No bidder shall make a tender offer unless: (1) the tender offer is open to all security holders of
the class of securities subject to the tender offer; (2) and the consideration paid to any security holder for
securities tendered in the tender offer is the highest consideration paid to any other security holder for
securities tendered in the tender offer”. Sul punto, cfr. LOSS-SELIGMAN-PAREDES, Fundamentals of
Securities Regulation, Fifth Edition, 2011 Supplement, Austin-Boston-Chicago-New York-The
Netherlands, 2011, 338 ss.; BASTOS, op. cit., 140-141, il quale rileva che nel caso in cui il prezzo cresca
nel corso dell’offerta, esso deve essere corrisposto anche in relazione agli acquisti già effettuati.
Sull’origine e l’evoluzione di tali regole, ritoccate nel 2006, v. anche THOMPSON Jr., op. cit., 8-91 ss.;
EBERT, op. cit., 677 ss. Prima della novella, nella giurisprudenza si era già rilevato che l’applicazione
della regola non dipende dal momento in cui il più alto corrispettivo è stato pagato, bensì (solo) dal fatto
che esso sia strettamente connesso all’offerta e contribuisca al suo successo: v. Padilla v. Medpartners,
Inc., No. CV98-1092-RSWL (SHX), 1998 WL 34073629 (C.D. Cal., July 27, 1998); Katt v. Titan
Acquisitions, Ltd., 133 F. Supp. 2d 632 (M.D. Tenn. 2000); ma v. per una diversa opinione, che limita
l’operatività della regola all’arco di tempo durante il quale ha effettivamente luogo l’offerta, Walker v.
160
siano accompagnati gli acquisti stessi, abbia determinato un abbassamento del valore
delle azioni o, per meglio dire, abbia impedito un loro innalzamento (anche, si intende,
di quelle azioni per le quali è stato pagato il corrispettivo più alto). In tal caso, infatti
(non solo coloro che hanno venduto, ma), anche gli azionisti che hanno semplicemente
conservato le loro partecipazioni (e che perciò avevano il diritto di esaminare un’offerta
pubblica) potrebbero far valere un’ulteriore voce di danno, questa volta a titolo di
responsabilità da insider trading: essa sarebbe appunto pari alla differenza tra il maggior
prezzo delle azioni che il mercato avrebbe fissato se l’informazione circa l’esistenza del
patto parasociale fosse stata resa nota81 e quello effettivamente corrisposto nelle
negoziazioni precedenti l’insorgenza dei presupposti dell’offerta pubblica.82 Il punto va
meglio precisato. E’ vero che, in linea di principio, la responsabilità da insider trading è
predicabile (in capo a e) nei confronti di chi ha operato attivamente sul mercato
nell’intervallo di tempo rilevante83: dunque, in base a ciò essa dovrebbe essere esclusa
nei confronti di chi si sia limitato a conservare le proprie azioni 84; è anche vero, però,
che la responsabilità da insider trading nei riguardi di chi ha ceduto le proprie azioni (ai
pattisti e non, come tra breve si dirà) nel suddetto arco temporale fa sì che il prezzo
dell’OPA avrebbe dovuto attestarsi proprio su quel più alto valore che i titoli avrebbero
raggiunto in presenza di una regolare disclosure. Dunque, è forse più corretto dire (ma il
risultato pratico non muta) che la responsabilità da mancata OPA nei confronti degli
azionisti che si siano limitati a conservare la propria partecipazione senza compiere
negoziazioni possa essere parametrata a quel maggior valore (maggiore, cioè, del più
alto corrispettivo pagato) determinato secondo i criteri della responsabilità da insider
Shield Acquisition Corp., 145 F. Supp. 2d 1360 (N.D. Ga. 2001); tutti riportati da DAVIS, op. cit., 183 ss.
L’attuale formulazione della Rule 14d-10(a)(2), che ha sostituito l’espressione “during such tender offer”
con quella di “securities tendered in the tender offer” sembra aver risolto il dibattito in favore della prima
interpretazione.
81
Sulla modalità con cui il mercato, specialmente attraverso l’attività degli investitori professionali,
provvede a determinare “prezzi che tendono a riflettere tutte le informazioni pubblicamente disponibili”
cfr. PERRONE, Informazione al mercato e tutele dell’investitore, Milano, 2003, 62 (cui appartiene il
virgolettato); nonché S. BRUNO, op. cit., 1330.
82
Per un cenno in tal senso si veda, in passato, BALLARINI, op. cit., 1182. In Francia, in un caso in cui
un certo numero di soci aveva alienato azioni della società alcuni giorni prima dell’annuncio di un
progetto per l’acquisto del controllo, la Corte ha riconosciuto loro il risarcimento del danno
corrispondente alla differenza tra il prezzo offerto per l’acquisto del controllo e quello a suo tempo
ricevuto in sede di alienazione: CA Paris 26 sept. 2003, RJDA 2/04 n. 181, su cui v. anche VIANDIER,
op. cit., 148.
83
Si tratta, naturalmente, dell’intervallo compreso tra il momento della venuta ad esistenza dei fatti (nel
nostro caso: la stipula del patto) che avrebbero dovuto essere resi noti e quello (successivo) della generale
conoscenza della relativa informazione.
84
In base a tale rilievo, certa dottrina aveva in passato escluso in linea generale la possibilità di
prospettare una responsabilità civile degli insiders nei confronti degli operatori ignari, argomentando che
la decisione di questi ultimi potrebbe pur sempre essere il frutto di un’autonoma determinazione e che,
comunque, essi subirebbero il pregiudizio in parola anche in assenza della condotta attiva dell’insider:
BARTALENA, op. cit., 230 ss. e 340 ss., il quale finiva per ammettere unicamente una possibile
responsabilità della società (ed eventualmente dei suoi amministratori) per l’omessa diffusione delle
informazioni privilegiate. Ma poiché l’evento dannoso (come lo stesso Autore riconosceva) “è ravvisabile
nel compimento, da parte dell’operatore ignaro, di un’operazione che avrebbe concluso a condizioni
diverse, qualora fosse stato a conoscenza dei dati non divulgati” (ibidem, 340), non è certo escluso che il
pregiudizio in questione vada in ogni caso risarcito, al limite a titolo di responsabilità per omessa
disclosure di un’informazione che avrebbe dovuto essere resa nota (v. anche infra, § 7).
161
trading.85 Come si è efficacemente messo in luce nella letteratura americana (con
specifico riferimento all’ipotesi in cui la progressiva acquisizione del controllo sia
tenuta nascosta a mezzo dell’acquisto di strumenti finanziari derivati che celino la
sostanziale titolarità di partecipazioni), “it is implicitly assumed [nella c.d. best price
rule, n.d.r.] that the share price reflects the increased probability of a control contest.
This assumption is no longer valid if the market is unable to anticipate a control contest
because the acquirer silently built his stake through derivatives. Thus, derivatives
enable acquirers to effectively reduce the price to be paid in the mandatory bid.”86
Naturalmente, come si è detto, tale danno può essere in primo luogo lamentato
proprio dalle controparti dei pattisti-insiders, ossia da coloro che abbiano venduto le
loro azioni a questi ultimi per un prezzo inferiore a quello che si sarebbe venuto a
determinare in presenza di una regolare disclosure. Un importante corollario è che, ove
vi fossero azionisti che abbiano in parte alienato il loro originario pacchetto azionario e
in parte l’abbiano conservato (dopo aver maturato il diritto a ricevere un’OPA), questi
potranno pretendere il ristoro della voce di danno di cui si è riferito con riguardo ad
entrambi i gruppi di titoli.
L’ipotesi descritta è tutt’altro che difficile da immaginare: basti pensare, infatti,
all’esistenza di un accordo tra soci (cui, appunto, faccia seguito l’acquisto di azioni in
misura rilevante) volto ad ottenere il controllo della società e nel contempo a sviluppare
uno specifico progetto imprenditoriale o di mercato, oppure a risollevare le sorti della
stessa società o ad irrobustirla dal punto di vista patrimoniale.87 E’ evidente che simili
notizie, se diffuse sul mercato, potrebbero determinare un incremento del valore delle
azioni dell’emittente e che, in pari tempo, i pattisti potrebbero avere interesse a
mantenere segreto (magari anche soltanto temporaneamente) il loro accordo proprio al
fine di tentare di ridurre i costi della complessiva operazione di acquisizione del
dominio sulla società.88 Inoltre, se si considera che il patto occulto avente come
85
Si noti che, sul fronte della responsabilità, tale soluzione è del tutto coerente con la possibilità
riconosciuta alla Consob dall’art. 106, comma 3, lett. d), n. 4), T.U.F., in caso di OPA regolarmente
promossa, di determinare il prezzo dell’offerta in misura superiore a quello più elevato pagato ove “vi sia
il fondato sospetto che i prezzi di mercato siano stati oggetto di manipolazione” (corsivo aggiunto).
Similmente, nella letteratura tedesca si è osservato che quando l’obbligo di OPA incrocia i presupposti
della disciplina dell’insider trading, il prezzo dell’OPA dovrebbe essere ragguagliato al valore che le
azioni assumerebbero ove tutte le circostanze rilevanti (o informazioni privilegiate) fossero rese note:
VON BÜLOW, op. cit., 1070.
86
SCHOUTEN, op. cit., 38.
87
Almeno in un caso deciso dalle Corti americane si era posto il problema della responsabilità da insider
trading di un soggetto che, avendo avuto notizia che la società sarebbe stata soggetta ad un’imminente
tender offer, decise di acquistare un ingente quantitativo di titoli al fine di rivenderli ad un prezzo
maggiore in seguito all’annuncio dell’offerta stessa: cfr. United States v. Chestman, 947 F.2d 551 (2d Cir.
1991), commentata da BEXLEY, op. cit., 201 ss. Condannato in primo grado, Chestman fu mandato
esente da responsabilità in appello per la mancanza di un fiduciary duty nei confronti della fonte
dell’informazione (per tale ragione, come rileva l’A. da ultimo citato, questa decisione ha rappresentato il
primo passo della conclusione poi raggiunta dalla Corte Suprema in “O’Hagan”).
88
Sul fatto che ciò sia confermato anche da analisi empiriche si veda, nella dottrina americana,
SCHOUTEN, op. cit., 10. E’ assai interessante notare che una simile conclusione è stata raggiunta anche
in un importante caso deciso negli Stati Uniti, ove la Corte ha osservato che “section 13(d) is a crucial
requirement in the congressional scheme, and a violator, it is legislatevly assumed, improperly benefits
by purchasing stocks at an artificially low price because of a breach of the duty Congress imposed to
disclose his investment position. The disclosure of that position - a holding in excess of 5 percent of
162
obiettivo la corsa al controllo comprenderà normalmente intese di carattere
imprenditoriale o finanziario concernenti la società emittente, risulterà più facile (anche
da un punto di vista pratico) intuire (ed avere una conferma di) come la notizia
sull’esistenza di un accordo parasociale abbia tutte le carte in regola per poter rientrare
nella nozione di informazione privilegiata, proprio in quanto riguardante (anche)
l’emittente e destinata a ripercuotersi sulle sue vicende in misura rilevante.
Certo, non può essere eliminata la difficoltà di prova del danno da insider
trading come sopra descritto89, né quella, ben nota, di individuare, nel caso di
another company’s stock - suggests to the rest of the market a likely takeover and therefore may increase
the price of the stock [...] the circumventions caused injury to other market participants who sold stock
without knowledge of First City’s holdings. We therefore see no relevant distinction between
disgorgement of insider trading profits and disgorgement of post-section 13(d) violation profits”: così la
Corte nel già citato caso SEC v. First City Financial Corp. Ltd., 890 F.2d 1215, 1230 (D C. Cir. 1989).
Dunque, si è qui riconosciuto che la mancata disclosure di una partecipazione rilevante può causare un
danno al mercato e agli investitori, impedendo l’innalzamento dei prezzi che altrimenti ne deriverebbe,
giusta la probabilità di un’imminente offerta pubblica: pertanto, tale condotta reticente dovrebbe essere
sanzionata alla stessa stregua di una condotta di insider trading. Inoltre, diverse volte le Corti americane
hanno riconosciuto agli investitori danneggiati la disponibilità di un’azione di danni per la violazione
della c.d. best price rule [Section 14(d)(7) SEA e Rule 14d-10], che potrebbe coesistere con i rimedi di
natura pubblicistica attivati dalla SEC: v. Katt v. Titan Acquisitions, Ltd., cit.; Epstein v. MCA, Inc., 50
F.3d 644 (9th Cir. 1995); Alidina v. Penton Media, Inc., 2000 WL 98025 (S.D.N.Y. 2000); Perera v.
Chiron Corp., 1996 WL 251936 (N.D. Cal. 1996); Gerber v. Computer Assocs. Intern. Inc., 812 F. Supp.
361 (E.D.N.Y. 1993). Mettendo a sistema queste due conclusioni, ne deriva una possibile responsabilità
in caso di mancata comunicazione di un’informazione rilevante inerente all’offerta, la quale può
consistere nell’esistenza di un patto a ciò finalizzato: può infatti accadere che i concertisti paghino un
determinato prezzo per un pacchetto di partecipazioni a trattativa privata e continuino ad acquistare azioni
sul mercato ad un prezzo inferiore a quello che si formerebbe in seguito ad una corretta disclosure. Nella
prospettiva delineata, la mancata disclosure di un patto parasociale che impedisca un incremento del
valore di mercato dei titoli della società potrebbe consentire di prospettare una responsabilità dei pattistiinsiders anche nei confronti della stessa società: sul punto v. in particolare MACRI’, Informazioni
privilegiate, cit., 109 ss., il quale ipotizza un danno all’immagine sul mercato della società, che proprio in
caso di insider trading sarebbe maggiore rispetto a quello subito nel (semplice) caso di mancata
disclosure di informazioni privilegiate (su cui v. infra). Ma v. anche, in passato, ABBADESSA, L’insider
trading nel diritto privato italiano: prima e dopo la legge n. 157/1991, in Banca, borsa, tit. cred., 1992, I,
749 ss.; MACCABRUNI, op. cit., 611 (ma anche 614 ss.), per il rilievo che “se l’informazione
privilegiata incide, distorcendolo (almeno temporaneamente) sul corso dei titoli di un determinato
emittente, l’investimento nei titoli stessi diviene più rischioso e dunque, più costoso per l’emittente
stesso, il quale, quindi, subisce un danno economico rilevante.”
89
Sui problemi della quantificazione del danno da insider trading nel nostro ordinamento, emersi da
tempo, v. ABBADESSA, L’insider trading, cit., 762 ss.; MACCABRUNI, op. cit., 614 ss. Negli Stati
Uniti, il tema ha costituito oggetto di una ben più estesa riflessione, sia in dottrina che in giurisprudenza:
per una completa panoramica si veda, da ultimo e di recente, WANG, op. cit., 1 ss., il quale osserva che il
tetto massimo del risarcimento che è possibile pretendere dall’insider coincide con il suo profitto e,
dunque, ogni investitore danneggiato potrebbe ottenere un ristoro per il proprio pregiudizio solo
proporzionalmente e in misura limitata (ibidem, 3). Il principio del limite alla risarcibilità dei danni è
riscontrabile nella Section 20A del SEA, ove si stabilisce che (a) “any person who violates any provision
of this title or the rules or regulations thereunder by purchasing or selling a security while in possession
of material, non-public information shall be liable in an action in any court of competent jurisdiction to
any person who, contemporaneously with the purchase or sale of securities that is the subject of such
violation, has purchased (where such violation is based on a sale of securities) or sold (where such
violation is based on a purchase of securities) securities of the same class”; e che (b) “the total amount of
damages imposed under subsection (a) shall not exceed the profit gained or loss avoided in the
transaction or transactions that are the subject of the violation”. Ad ogni modo, i criteri riguardanti
l’esatta determinazione dei danni da insider trading sono eminentemente il frutto dell’elaborazione
giurisprudenziale, che ha tentato di fornire appigli sicuri a fronte di una situazione di incertezza non
ancora dissipata; come si è rilevato, infatti, “no coherent doctrinal statement exists for calculating open-
163
compravendite avvenute sul mercato regolamentato, le controparti degli insiders
legittimate ad agire per il risarcimento del pregiudizio subito.90 A ciò si accompagnano
problemi di non poco conto in punto di prova del nesso causale tra la condotta
dell’insider e il danno lamentato: sotto questo aspetto, però, si può accogliere l’idea
secondo cui “la circostanza per la quale l’operatore di mercato ignaro ha compravenduto
il titolo in questione essendo all’oscuro di notizie note all’insider idonee a determinare
(sulla base di uno standard market model) una variazione del valore reale del titolo
sembra rappresentare sufficiente prova dell’esistenza di un nesso eziologico fra il danno
ed il comportamento del danneggiante”91, a motivo dell’affidamento riposto nella
completezza e correttezza delle informazioni disponibili.
market damages in Rule 10b-5 securities fraud class action”: così CHAMBLEE BURCH, Reassessing
Damages in Securities Fraud Class Actions, in Maryland Law Review, 2007, 349; analog. in precedenza
LOWENFELS - BROMBERG, op. cit., 1084. Peraltro, molte azioni civili per insider trading (per quanto
alcuni Stati ammettano azioni individuali) sono state iniziate dalla SEC ai sensi della Section 21(d),
generalmente con successivo intervento dei soggetti danneggiati: BAINBRIDGE, An Overwiew, cit., 9.
Per un’analisi del rapporto tra sanzioni pubbliche e private nell’ordinamento americano, v. tra gli altri
SHEN, A Comparative Study of Insider Trading Regulation Enforcement in the U.S. and China, in
Journal of Business & Securities Law, 2008, v. 9, 41 ss. e spec. 68 ss. Per le difficoltà di prova di una
condotta di insider trading, in particolare alla luce della necessità di dimostrazione dell’elemento
soggettivo, v. VELIOTIS, op. cit., 313 ss. e spec. 351 ss.
90
A ciò si aggiungono le difficoltà di ordine procedurale concernenti l’esperimento dell’azione. Pur non
essendo questa la sede per approfondire oltremisura il tema, vale la pena segnalare che negli Stati Uniti la
responsabilità in questione è fatta valere attraverso le c.d. Securities class actions, peraltro promosse
generalmente nei confronti della società e non nei confronti degli autori della condotta fraudolenta (per lo
più i suoi amministratori): sul punto CHAMBLEE BURCH, op. cit., 350 (nt. 4). Ciò rappresenta un
aspetto problematico, che la dottrina sta cercando di superare ammettendo un’azione diretta nei confronti
delle persone fisiche responsabili, anche in considerazione del fatto che l’attuale meccanismo finisce per
far ricadere indirettamente i costi dell’azione sugli stessi shareholders: cfr. ad es. COFFEE Jr.,
Reforming, cit., 1534 ss. e spec. 1538, 1566 e 1583 ss. (ma ritenendo la società eventualmente
responsabile in via sussidiaria allorché la stessa abbia negoziato propri titoli nel periodo rilevante); ID.,
Causation by Presumption? Why the Supreme Court Should Reject Phantom Losses and Reverse Broudo,
in The Business Lawyer, 2005, v. 60, 542-543, per il rilievo che l’azione promossa nei confronti della
società perde la sua funzione deterrente. La stessa intenzione è stata espressa dalla SEC (Press Release,
U.S. Sec & Exch. Commission, Statement of the Securities and Exchange Commission Concerning
Financial Penalties, Jan. 4, 2006, disponibile su www.sec.gov). Nel nostro ordinamento, l’ipotesi qui allo
studio consentirebbe la proposizione dell’azione nei confronti dei pattisti-insiders, ma rimarrebbero i ben
noti problemi legati all’esperimento di una class action: v. in argomento FAUCEGLIA, La class action
nel diritto degli strumenti finanziari e delle società: è possibile una via italiana alla tutela collettiva degli
investitori?, in Riv. dir. impr., 2009, 261 ss.; VIGORITI, Class action e azione collettiva risarcitoria. La
legittimazione ad agire ed altro, in Contr. e impr., 2008, 729 ss. Per analoghe considerazioni nella
letteratura francese v. LAPRADE, Concert et côntrole, cit., 260, ove si osserva che è complicato far
valere la responsabilità civile da omessa informazione ai sensi dell’art. 1382 Code Civil, perché ogni
azionista dovrebbe intentare un’azione individuale e la prova del pregiudizio è difficile da fornire.
91
Così, da ultimo, MACRI’, Informazioni privilegiate, cit., 172; ma già PERRONE, op. cit., 187, sebbene
con specifico riferimento alla responsabilità per omessa informazione (su cui v. infra, § 7) e non
all’ipotesi dell’insider trading: osservava pertanto l’A. che la prova del nesso eziologico si risolve “nella
semplice prova che il prezzo si è artificiosamente formato in conseguenza della falsa od omessa
informazione”. Sul problema del nesso di causalità, accreditata dottrina aveva in passato osservato che
l’insider convenuto per il risarcimento dei danni non potrebbe eccepire che “l’attore, dando egualmente
corso alla propria operazione, avrebbe comunque subito il danno [...] in quanto è principio ricevuto che il
nesso eziologico non si interrompe per il semplice fatto che un evento analogo potrebbe verificarsi in
forza di una serie causale distinta (diverso contratto concluso con soggetto non insider)”: con queste
parole ABBADESSA, L’insider trading, cit., 756. Proprio di tale principio ha fatto applicazione il
Tribunale di Milano nella ormai celebre sentenza del 14 febbraio 2004 in tema di risarcimento del danno
da insider trading; del resto, come si è correttamente rilevato, “la ‘depurazione’ degli altri fattori causali è
164
Tale conclusione coincide sostanzialmente con la c.d. fraud-on-the-markettheory, sviluppata da tempo negli Stati Uniti e accolta anche dalla Corte Suprema nel
celebre caso Basic Inc. v. Levinson del 1988, il quale (pur non avendo ad oggetto
specificamente un’offerta pubblica) riguardava la (simile) vicenda di investitori che
vendettero le loro azioni nel periodo compreso tra il diniego da parte di Basic
dell’esistenza di trattative volte ad una merger acquisition e l’annuncio che tale
operazione era in realtà stata avviata: ebbene, gli investitori affermarono di aver alienato
i loro titoli ad un prezzo artificiosamente ridotto proprio dalla mancanza di una corretta
disclosure.92 Ma anche di recente la stessa Corte Suprema americana ha riconosciuto
operazione che, semmai, può rilevare nel momento, successivo, del calcolo della corretta quantificazione
del danno” (così GIAVAZZI, op. cit., 123).
92
Cfr. Basic, Inc. v. Levinson, cit. (1988), ove si affermava che la teoria in questione “is based on the
hyphotesis that, in an open and developed Securities market, the price of a company’s stock is determined
by the available material information regarding the company and its business […] The causal connection
between the defendants’ fraud and the plaintiffs’ purchase of stock in such a case is no less significant
than in a case of direct reliance on misrepresentations [ibidem, 241-242 e riprendendo Peil v. Speiser,
806 F.2d 1154, 1160-61 (3d Cir. 1986)]; pertanto, “an investor who buys or sells stocks at the price set by
the market does so in reliance on the integrity of that price” (ibidem, 247). La tesi era peraltro già stata
prospettata in dottrina: per tutti, FISCHEL, Use of Modern Finance Theory in Securities Fraud Cases
Involving Actively Traded Securities, in The Business Lawyer, 1982, v. 38, 1 ss. V. anche, dopo “Basic”,
tra le altre, Gebhardt v. ConAgra Foods, Inc., 335 F.3d 824 (8th Cir. 2003); Knapp v. Ernst & Whinney,
90 F.3d 1431 (9th Cir. 1996); Gray v. First Winthrop Corp., 82 F.3d 877 (9th Cir. 1996). Come la
dottrina ha rilevato, il fatto che tale elemento sia divenuto nella giurisprudenza un tratto caratteristico
anche delle azioni di insider trading ai sensi della Section 10(b) del SEA e della Rule 10b-5, implica il
venir meno della necessità di prova individuale dell’affidamento nella corretta informazione, proprio
perché la c.d. materiality viene valutata su un piano, per così dire, generale: BROWN et al., op. cit., §
2.03, 2-17. Tale impostazione non è però accettata unanimemente e la stessa Corte Suprema in un’altra
famosa pronuncia - che ha innescato negli ultimi anni una forte contesa dottrinale e giurisprudenziale - ha
statuito che l’attore deve provare specificamente che la condotta del convenuto “caused the loss for which
the plaintiff seeks to recover” [v. Dura Pharmaceuticals, Inc. v. Broudo, 544 U.S. 336 (2005)]. In altre
parole, non sarebbe sufficiente ai fini della prova del nesso causale dimostrare la falsa od omessa
informazione da parte dell’autore dell’illecito e nemmeno l’alterazione del prezzo dei titoli in seguito a
tale condotta, dovendosi riscontrare una perdita economica ex post. La sentenza in parola è stata
commentata adesivamente, da ultimo, da AVDEEV, Proving Causation in Federal Securities Litigation
Cases: Dura Pharmaceuticals, Inc. vs. Broudo, in International Journal of Business and Social Science,
2012, v. 3, 46 ss. (e v. spec. 50). Sulla necessità di prova specifica della “loss causation”, v. anche,
successivamente, Teachers’ Retirement Sys. of La. v. Hunter, 477 F.3d 162, 186 (4th Cir. 2007); Oscar
Private Equity Inv. v. Allegiance Telecom, Inc., 487 F.3d 261, 265 (5th Cir. 2007); Merrill Lynch & Co.,
Inc. v. Allegheny Energy, Inc., 500 F.3d 171, 184 (2d Cir. 2007); Williams Sec. Litig. - WCG Subclass,
558 F.3d 1130 (10th Cir. 2009), rilevando la necessità della prova “that ... losses were attributable to the
revelation of the fraud and not the myriad other factors that affect a company’s stock price”. Ma di nuovo
in adesione a Basic, Inc. v. Levinson, v. Lapin v. Goldman Sachs & Co., 2008 Fed. Sec. L. Rep. (CCH)
§94,842 a 95,516-95,517 (S.D.N.Y. 2008). La posizione assunta dalla Corte Suprema in “Dura” è stata
criticata, con argomentazione alquanto accurata, da FOX, After Dura: Causation in Fraud-on-the-Market
Actions, in Journal of Corporation Law, 2006, 829 ss.: l’A. ha sostenuto che la Corte abbia erroneamente
applicato a negoziazioni avvenute sul mercato categorie tradizionalmente modellate sulle “face-to-face
transactions”, vale a dire la c.d. transaction causation (in base alla quale l’attore deve provare che senza
l’errata od omessa informazione non avrebbe concluso l’operazione, in ragione dell’affidamento riposto
nel comportamento della controparte) e la c.d. loss causation (che richiede la prova di una successiva
variazione del prezzo ricevuto o corrisposto nella transazione e del fatto che essa sia eziologicamente
riconducibile al “misstatement”): la fondazione giurisprudenziale di tale apparato concettuale risale a
Schlick v. Penn Dixie Cement Corp., 507 F.2d 374 (2d Cir. 1974); e a Huddleston v. Herman & MacLean,
640 F.2d 534, 549 (5th Cir. 1981); ma v. anche, più di recente, Suez Equity Investors v. TorontoDominion Bank, 250 F.3d 87, 95 (2d Cir. 2001). La Corte in “Dura”, in altri termini, poggiando il suo
ragionamento su detta distinzione, ha concluso nel senso che la c.d. loss causation non può essere provata
semplicemente mostrando che il prezzo dei titoli era stato inizialmente alterato dalla falsa o mancata
165
l’applicabilità della c.d. presumption of reliance (ossia la presunzione di affidamento
nell’integrità del mercato e nella completezza e correttezza delle informazioni
disponibili) nell’ipotesi di occultamento di un “material fact” in ordine al quale sussiste
un dovere di comunicazione.93 Con riferimento alle ipotesi di mancata disclosure, “the
justification for this presumption of reliance is that it is generally impossibile for a
plaintiff to prove that he relied on what was not disclosed”.94
Dunque, a parte il rilievo che i richiamati ostacoli di ordine pratico non incidono
sulla ricostruzione sistematica che ammette la praticabilità del rimedio civilistico in
parola95, atteso che nell’ipotesi in esame si sono verificati anche i presupposti
dell’obbligo di promozione dell’offerta pubblica e dunque i pattisti-insiders hanno dato
luogo ad acquisti di azioni nella fase di occultamento dell’informazione, in base a
quanto si è detto si può sostenere l’idea che tutti coloro che hanno alienato (ai pattisti e
non) azioni della società nell’arco temporale che va dall’omissione dell’informazione a
quello della sua (comunque avvenuta) scoperta, possano domandare agli insiders il
risarcimento, nella misura di cui si è detto, per aver alienato a un prezzo ridotto:
disclosure; ma l’A. da ultimo citato mette correttamente in evidenza che nell’ipotesi di negoziazioni
avvenute sul mercato non si può richiedere la prova che l’attore non avrebbe contrattato in assenza della
condotta illecita: dato che le negoziazioni sono condotte in modo “impersonale”, ciò che conta è semmai
l’affidamento (di natura diversa) riposto nell’integrità del mercato e nella correttezza dei prezzi da questo
espressi (ibidem, 832-833 e 838-839). Sull’impossibilità di trasferire i tradizionali principi di tort law alle
azioni di danni per condotte fraudolente sui mercati regolamentati v. anche FISCH, Cause for Concern:
Causation and Federal Securities Fraud, in Iowa Law Review, 2009, v. 94, 829 ss. e spec. 841. Per
l’opinione contraria alla sostenibilità della c.d. fraud on the market theory v. invece di recente ENGLE,
op. cit., 21 ss.; LANGEVOORT, Basic at Twenty: Rethinking Fraud on the Market, in Wisconsin Law
Review, 2009, 151 ss. e spec. 178 (“there is no good reason for any investor simply to assume the absence
of fraud”, ma, si badi, l’A. specifica che tale affermazione non vale in presenza di uno specifico “duty to
disclose”: ibidem, 194). Anche più di recente la Corte Suprema, pur occupandosi eminentemente di una
questione processuale collegata all’onere di provare il nesso di causalità, ha ribadito sostanzialmente la
posizione espressa in “Dura” circa la necessità di una prova specifica della c.d. loss causation, ancora
distinguendo quest’ultima dalla c.d. transaction causation: v. Erica P. John Fund, Inc. v. Halliburton
Co., 2011 U. S. LEXIS 4181, No. 09-1403 (U. S. S. Ct., June 6, 2011). Per un commento, v. in
particolare ERDLEN, Time is everything: Markets, Loss, and Proof of Causation in Fraud on the Market
Actions, in Fordham Law Review, 2011, v. 80, 877 ss. E’ opportuno sottolineare che sebbene il dibattito
americano in argomento si concentri pressoché interamente sull’ipotesi in cui il soggetto danneggiato
abbia acquistato azioni ad un prezzo gonfiato dalla condotta fraudolenta, l’analisi che si va conducendo e
le problematiche di cui si dà conto possono senz’altro riferirsi, mutatis mutandis, anche al caso che qui
più interessa, ossia quello di chi abbia alienato le azioni della società ad un prezzo inferiore a quello che
avrebbe dovuto riflettere la piena conoscenza delle informazioni rilevanti, come del resto riconosce
espressamente la già riportata previsione della Section 20A del SEA (e come è accaduto nel caso Basic v.
Levinson). E’ quanto afferma anche FOX, After Dura, cit., 863: “fraud-on-the-market suits are also
available to sellers who sell at a price that has been depressed due to a negative misstatement [...] This
hypothetical concerning a plaintiff seller and a negative misstatement is completely symmetrical to one
involving a plaintiff purchaser and a positive misstatement, and there is no apparent rationale for
treating them differently”. Analog., in precedenza, LOWENFELS - BROMBERG, op. cit., 1086.
93
V. Stoneridge Investment Partners, LLC v. Scientific-Atlanta, 128 S. Ct. 761, 769 (2008); sul punto
FRANCIS, op. cit., 3056. Peraltro la giurisprudenza, anche prima di “Basic”, aveva riconosciuto
l’utilizzabilità della c.d. presumption of reliance proprio nell’ipotesi di omessa disclosure (sebbene il caso
riguardasse una c.d. face-to-face-transaction): v. Affiliated Ute Citizens of Utah v. United States, 406 U.S.
128, 153-154 (1972). La presunzione può essere paralizzata dai convenuti, provando che chi agisce in
giudizio non ha in realtà fatto alcun affidamento sulla pretesa omissione: cfr. Sharp v. Coopers &
Lybrand, 649 F.2d 175, 186 (3d Cir. 1981).
94
Così LEVY, op. cit., 17-22.
95
E v. per un simile rilievo MACRI’, Informazioni privilegiate, cit., 146.
166
inferiore, cioè, a quello che avrebbe dovuto riflettere in maniera completa le corrette
informazioni riguardanti l’emittente.96 Tale danno sarà però diminuito in ragione degli
acquisti che i medesimi soggetti abbiano contemporaneamente (o meglio: nel medesimo
intervallo di tempo) effettuato a un prezzo più basso del dovuto. 97 Quest’ultima
osservazione vale ovviamente anche riguardo ai soggetti che, avendo conservato azioni
della società (avendone o meno, anche in parte, alienate) avrebbero avuto diritto a
ricevere un’offerta pubblica di acquisto: qualora, cioè, essi abbiano proceduto anche ad
acquisti nell’arco di tempo rilevante e per un valore sottostimato a causa dell’omessa
informazione, il loro danno risulterà ridotto in misura corrispondente.98
96
Quello riportato è tradizionalmente il criterio di determinazione del danno da insider trading applicato
in via principale dalle Corti americane, noto con la denominazione di “out of pocket measure” (o anche
“out of pocket loss”) e accolto anche dalla Corte Suprema sin dal noto caso Affiliated Ute Citizens of Utah
v. United States, cit., che concerneva tra l’altro un’ipotesi di frode ai danni dell’alienante dei titoli
negoziati sul mercato. Ma si vedano anche, ex multis, Mathews v. Kidder, Peabody & Co., 260 F.3d 239,
249 (3d Cir. 2001); Ambassador Hotel Co. v. Wei-Chuan Inv, 189 F.3d 1017, 1030 (9th Cir. 1999);
Robbins v. Koger Properties, Inc., 116 F.3d, 1141, 1147 n. 5 (11th Cir. 1997), che individuava il danno
nella “difference between the price paid and the ‘real’ value of the security, i.e., the fair market value
absent the misrepresentations, at the time of the initial purchase”; Edward J. DeBartolo Corp. v.
Coopers & Lybrand, 928 F. Supp. 557, 565 (W. D. Pa. 1996); Astor Chauffeured Limousine Co v.
Rumfield Inv Corp., 910 F.2d 1540, 1551 (7th Cir. 1990); Wool v. Tandem Computers Inc., 818 F.2d
1433, 1437 (9th Cir. 1987); Hackbart v. Holmes, 675 F.2d 1114, 1121 (10th Cir. 1982), per
l’affermazione che “the customary measure of damages in a Rule 10b-5 case is the out-of-pocket loss”;
Glick v. Compagna, 613 F.2d 31, 36 (3d Cir. 1979), ove il rilievo che “the traditional measure of
damages is the difference between the fair value of what the seller receives for his stock and what he
would have received had there been no fraudulent conduct”. In dottrina, per tutti, SODERQUISTGABALDON, op. cit., 165; WANG, op. cit., 5; FOX, After Dura, cit., 839 e 845. Sul fatto che non siano
solo le dirette controparti dell’insider a subire un danno, si vedano in particolare, nella nostra dottrina,
MACCABRUNI, op. cit., 617-618; G. SANTORO, op. cit., 679. In passato, aveva escluso la
responsabilità risarcitoria dell’insider “a vantaggio di tutti coloro che nel periodo critico hanno compiuto
operazioni di segno inverso”, invece, ABBADESSA, L’insider trading, cit., 758; l’A. argomentava in
base all’assenza di una norma dalla quale potesse desumersi un “dovere di informazione erga omnes”
dell’insider, possibile fonte di responsabilità aquiliana: tale norma può però oggi essere ravvisata nell’art.
114 T.U.F. (e, con specifico riferimento ai patti parasociali, anche nell’art. 122 T.U.F.). Si può notare
inoltre che a fronte del danno subito da ogni investitore pregiudicato, vi sarà chi “dall’operazione riceve
un guadagno inaspettato”: PERRONE, op. cit., 63; nella letteratura americana, tra i tanti, CHOIPRITCHARD, op. cit., 342. Non sembra però il caso di ammettere l’esperibilità di un’azione di
arricchimento ingiustificato nei confronti degli investitori che hanno (inconsapevolmente) tratto profitto
dalla condotta dell’insider, anche perché nella specie è individuabile il responsabile di un illecito, ed è su
costui che dovrà gravare il costo del danno subito dagli altri operatori. Ma v. anche GIUDICI, La
responsabilità, cit., 292, per il rilievo che l’insider con le sue operazioni tende ad avvicinare il prezzo di
mercato al “livello su cui si posizionerà con la scoperta dell’informazione segreta”; analog. BARUCCIFARALLI, Una metodologia per l’individuazione di fenomeni di market abuse nei mercati finanziari, in
Banca impresa società, 2004, 524.
97
Per un’osservazione simile nella dottrina statunitense (anche se nella prospettiva di un originario
acquisto e non di un’originaria alienazione), v. FOX, After Dura, cit., 844 e 845, ove acutamente si rileva
che nel caso in cui venga compiuta un’operazione di segno contrario prima dell’acquisizione della notizia
da parte del mercato, si è di fronte ad una situazione di assenza (o diminuzione) del danno.
98
L’assunto può essere meglio precisato accogliendo la tesi, prospettata nella dottrina e nella
giurisprudenza statunitensi, secondo cui in presenza di operazioni di segno opposto, la compensazione tra
perdite e guadagni dovrebbe operare (soltanto) qualora le diverse negoziazioni siano parte di una
medesima strategia o progetto di investimento (c.d. “ongoing trading strategy”): cfr. FRANCIS, op. cit.,
3085 ss. (“when the criteria of an ongoing trading strategy are met, however, the chain of individual
investment decisions can rationally be regarded as one large investment decision merely broken up over
time into smaller units”; e dunque “the investor’s losses on certain investment transactions should not be
offset by gains on other transactions that are completely unrelated to his claim for damages”); nelle
Corti, v. Rocker Management, LLC v. Lernout & Hauspie Speech Products N. V., 2007 WL 2814653, 14-
167
Proprio con riferimento alla posizione di tali soggetti che hanno conservato una
parte di azioni della società, è opportuno sottolineare che il principio secondo cui la c.d.
compensatio lucri cum damno può operare soltanto nel caso in cui i due eventi di segno
opposto trovino le loro radici nel medesimo fatto (illecito), impedisce di tenere conto di
eventuali successive oscillazioni in positivo del valore di mercato delle azioni non
dipendenti dal comportamento dell’insider.99 Ciò significa che il pregiudizio va
“fotografato” per come si delinea al momento della condotta antigiuridica, anche
qualora le azioni (di cui appunto l’attore in giudizio continui a disporre) dovessero
godere di un successivo aumento di valore (prima, o, più verosimilmente) a seguito
della (successiva) diffusione dell’informazione rilevante (rectius: privilegiata).100
15 (D.N.J. Sept. 24, 2007), ove si è anche ritenuto che si debba valutare caso per caso e in base alle
circostanze concrete. Tale impostazione consentirebbe di superare la contrapposizione che si riscontra
nella giurisprudenza americana e che investe anche gli obiettivi primari della tutela civilistica, operando
un adeguato bilanciamento tra gli stessi: secondo un primo, tradizionale, indirizzo (c.d. netting approach),
i guadagni ottenuti da operazioni di segno inverso determinerebbero sempre una diminuzione del danno
risarcibile [v. Abrahamson v. Fleschner, 568 F.2d 862, 878-879 (2d Cir. 1977); Blackie v. Barrack, 524
F.2d 891, 908-911 (9th Cir. 1975); Wolf v. Frank, 477 F.2d 467, 478-479 (5th Cir. 1973); Richardson v.
MacArthur, 451 F.2d 35, 43-44 (10th Cir. 1971)]; secondo altro orientamento (c.d. transactional
approach, che ha riguardo cioè ad ogni singola operazione compiuta) dovrebbe sempre consentirsi al
danneggiato di recuperare le perdite subite in ogni singola negoziazione, senza considerare gli eventuali
profitti eventualmente derivanti da quelle di segno contrario [v. Argent Classic Convertible Arbitrage
Fund L.P. v. Rite Aid Corp., 315 F. Supp. 2d 666, 680 (E. D. Pa. 2004), argomentando principalmente dal
tenore letterale degli Statutes, che parrebbe accordare un’azione di danni per ogni separata transaction;
Kane v. Shearson Loeb Rhoades, Inc., No. 86-551-CIV-MARCUS, 1989 U.S. Dist. LEXIS 19022 (S. D.
Fla. May 3, 1989), sulla base invece del rilievo che il principale obiettivo delle federal securities laws è
quello di incrementare un effetto di deterrenza; Merchant v. Oppenheimer & Co., 568 F. Supp. 639 (E. D.
Va. 1983)]. Come si è osservato, il primo approccio sottende l’idea che l’azione di danni in questo ambito
abbia eminentemente una funzione compensativa e riparatoria del pregiudizio sofferto dai danneggiati; il
secondo, viceversa, considera prioritario l’obiettivo della deterrenza: v. di nuovo FRANCIS, op. cit.,
3071. Per un auspicio circa l’incremento della funzione deterrente della responsabilità civile anche nel
nostro ordinamento, si veda DI MAJO, La responsabilità civile nella prospettiva dei rimedi: la funzione
deterrente, in Europa e dir. priv., 2008, I, 289 ss. e spec. 306 ss.; ma in senso diverso CASTRONOVO,
Del non risarcibile aquiliano: danno meramente patrimoniale, c.d. perdita di chance, danni punitivi,
danno c.d. esistenziale, in Europa e dir. priv., 2008, I, 315 ss. e spec. 326 ss., secondo il quale “è
indubbio che il risarcimento abbia l’esclusiva funzione di ristorare una perdita patrimoniale” (ibidem,
332).
99
Ciò invece non vale, come si è detto, nel caso in cui i soggetti inizialmente danneggiati compiano
operazioni di segno opposto prima che l’informazione divenga nota, elidendo così (quantomeno in linea
di massima) il danno inizialmente patito. E’ interessante in tal senso l’affermazione di uno dei principali
studiosi americani ad essersi occupati del tema, che sembra riecheggiare proprio la modalità operativa del
“nostro” principio della compensatio lucri cum damno, corroborando quanto si è appena sostenuto nel
testo: “the reason for not granting damages [qualora si compiano negoziazioni di segno contrario, n.d.r.]
is that the purchaser has received a benefit arising from the same wrong in an amount equal to the injury
he suffered earlier” (FOX, After Dura, cit., 863); o in altri termini, “[...] courts should net the benefit
against the harm if the defendant's conduct proximately caused the plaintiff’s benefit” (FISCH, op. cit.,
859). Così anche Abrahamson v. Fleschner, cit., 878. Ancora più restrittivo in tal senso il punto di vista
espresso, sempre nella giurisprudenza americana, da Clinton Oil Co. Securities Litigation, M. D. L. No.
137, 1977 U. S. Dist. LEXIS 16787 (D. Kan. Mar. 22, 1977), ove la compensazione era stata ritenuta
ammissibile soltanto per “profits and losses realized on sales of stock acquired in a single purchase
transaction”.
100
Anche questo aspetto è stato (ed è tuttora) al centro del contrasto tra le Corti americane e in particolare
della sentenza “Dura”, con conseguenti ripercussioni nel panorama dottrinale. Il punto incarna una
divergenza che nasce sulla pur generale accettazione del fondamentale criterio della c.d. out of pocket
loss. Secondo alcuni, infatti, su questa base la economic loss (ossia il danno) va sempre identificata nella
differenza tra il prezzo pagato (nel nostro caso: ricevuto) e quello che il mercato avrebbe fissato in
168
Peraltro, tale successivo aumento di valore che si verifichi proprio in connessione
all’emersione del patto parasociale originariamente tenuto nascosto potrà senz’altro
apprezzarsi come elemento indiziario particolarmente incisivo nella prova del danno
subito da chi aveva alienato (ai pattisti e non) per un corrispettivo (indebitamente)
ridotto, nonché da chi aveva diritto a ricevere un’OPA e abbia conservato azioni della
presenza di una piena disclosure, con esclusivo riferimento al momento della negoziazione stessa: v.
FOX, After Dura, cit., 832, per il rilievo che “the defendant’s misstatement injures the plaintiff not
because it caused her to make to make a purchase that later, ex post, turned out to be a losing
transaction. Rather, it injures her because, ex ante, it caused her to pay a purchase price that is higher
than it would have been but for the misstatement […] Thus, the injury is the inflation price at the time of
purchase”; e ancora: “the claimed loss - that plaintiff paid too much - flows directly from the
misstatement” (ibidem, 840). Altri invece, muovendosi sulla scia di “Dura”, escludono la risarcibilità di
tale perdita qualora il prezzo del titolo acquistato sia soggetto a successive variazioni che ne consentano
in qualche misura il recupero (specialmente in ragione del prezzo emerso in seguito alla diffusione
dell’informazione); inoltre e conseguentemente, negano che possa essere lamentato un danno nel caso in
cui si affermi che il valore delle azioni non è cresciuto nella misura che sarebbe stata riscontrata a fronte
di una corretta e tempestiva informazione (una sorta di mancato guadagno, che si avvicina molto
all’ipotesi che qui più interessa): per questa seconda posizione, v. CHAMBLEE BURCH, op. cit., 351 ss.
e spec. 364 (“Under the out-of-pocket-theory, an investor with net monetary gains has no loss and cannot
recover”), argomentando anche in base alla nozione di “actual damages” che rappresenta il tetto del
danno risarcibile secondo quanto previsto dal 15 U.S.C. §78bb(a), intervenuto sulla Section 28(a) del SEA
(ma sul fatto che tale nozione non abbia un significato univoco v. LOWENFELS - BROMBERG, op. cit.,
1086); nonché FERRELL - SAHA, The Loss Causation Requirement for Rule 10b-5 Causes of Action:
The Implications of Dura Pharmaceuticals, Inc. v. Broudo, in The Business Lawyer, 2007, v. 63, 163 ss. e
spec. 172 ss. La voce di danno consistente nella mancata crescita del valore dei titoli (sebbene la Corte
Suprema in “Dura” abbia espressamente dichiarato di non volersi occupare di questo profilo) è stata però
talora ritenuta risarcibile dalle Corti: v. Gebhardt v. ConAgra Foods, Inc., cit., 831-32. In tal senso in
dottrina FOX, After Dura, cit., 848. E’ da notare anche che la seconda tesi riportata è stata sostenuta
(finanche dalla stessa Corte Suprema in “Dura”) principalmente sulla scorta di un argomento che appare
tuttavia errato, ossia sulla base della constatazione che l’investitore danneggiato (dall’acquisto) potrebbe
rivendere velocemente le azioni acquistate a prezzo gonfiato (prima, cioè, che l’informazione in questione
sia resa pubblica) e quindi evitare di subire il danno, che inizialmente sarebbe solo ipotetico (cfr. di nuovo
CHAMBLEE BURCH, op. cit., 359, nt. 53). In primo luogo, va rilevato che in tal modo la perdita
economica sarebbe semplicemente traslata in capo al nuovo acquirente e dunque il ragionamento finisce
per risolversi in un problema di individuazione dei soggetti pregiudicati dalla condotta illecita (v. FOX,
op. ult. cit., 858 e 864). Inoltre, la tesi in parola confonde il caso richiamato (che senz’altro può
consentire, come si è detto, di elidere il danno inizialmente subito attraverso operazioni di segno
contrario) con l’ipotesi, del tutto diversa, in cui i titoli subiscano variazioni per cause non dipendenti dal
comportamento dei soggetti interessati. Un altro argomento non condivisibile adoperato dalla Corte
Suprema americana è quello secondo cui al momento della negoziazione non si materializzerebbe alcun
danno giacché i titoli oggetto della stessa hanno proprio il valore corrispondente al prezzo corrisposto: è
facile ribattere, infatti, che essi tuttavia non hanno il valore che dovrebbero avere, ossia quello in grado di
riflettere le informazioni che rappresentino il reale status quo. Va anche segnalato che una posizione
intermedia è forse quella espressa in una decisione presa nelle more del pronunciamento della Corte
Suprema nel caso “Dura”, la quale ha ritenuto che gli attori debbano provare che la variazione del prezzo
dei titoli seguita alla disclosure correttiva rappresenta la “materialization of the concealed risk”: Lentell v.
Merrill Lynch & Co., Inc.396 F.3d 161 (2d Cir. 2005); più di recente, McAdams v. McCord, 584 F.3d
1111, 1114 (8th Cir. 2009). In letteratura, un tentativo di conciliazione delle diverse posizioni è stato
compiuto da KARMEL, When Should Investor Reliance Be Presumed in Securities Class Actions, in The
Business Lawyer, 2007, v. 63, 25 ss. e spec. 27, ove l’A. propone, quale parziale correttivo della “fraud
on the market theory”, che gli attori provino che la presunzione di affidamento (nell’integrità delle
informazioni disponibili) si configuri come ragionevole; pertanto, essa non dovrebbe operare a carico di
coloro che, essendo estranei alla società, “do not owe a duty to public investors or shareholders”. Ad ogni
modo, il dibattito è ancora assai vivo, come dimostra il fatto che anche in seguito al caso “Dura”, le Corti,
lungi dall’assumere un orientamento uniforme, hanno continuato ad abbracciare posizioni diverse: v. per
alcuni riferimenti OLAZÁBAL, Loss Causation in Fraud-on-the-Market Cases Post-Dura
Pharmaceuticals, in Berkeley Business Law Journal, 2006, 377.
169
società.101 Ciò non implica, tuttavia, che questo sia l’unico modo per provare il danno,
che, come si è visto, va individuato con riferimento al momento della negoziazione (o
della mancata OPA) 102; né, pertanto, ad esso potrà essere attribuito un valore assoluto e
101
NAPOLEONI, op. cit., 588, sebbene con specifico riferimento all’individuazione del requisito della
price sensitivity dell’informazione piuttosto che in rapporto diretto alla determinazione del danno da
insider trading; allo stesso modo FERRARINI, La nuova disciplina, cit., 54. Con riguardo, invece,
proprio alla quantificazione del danno da insider trading, ABBADESSA, L’insider trading, cit., 762-763.
Anche tale criterio è stato talvolta applicato dalle Corti statunitensi a supporto del principale schema della
“out of pocket loss”, soprattutto in ragione della difficoltà di determinare il corretto valore dei titoli
compravenduti al tempo della negoziazione (su questo punto OLAZÁBAL, op. cit., 346): v. ad es.
Microstrategy Inc. Sec. Litig., 115 F. Supp. 2d 620, 664-665 (E. D. Va 2000), ove con riferimento al
parametro enunciato dalla Section 20A si è statuito che il danno consiste nella “difference between the
price the insider realizes and the market price of the securities after the news is released”; conf. Bellevue
Shoe Mfg. Co., 908 F.2d 1385, 1392 (7th Cir. 1990); Elkind v. Liggett & Myers, Inc., 472 F. Supp. 123,
129 (1978), riformata da 635 F.2d 156 (2d Cir. 1980); nonché, in precedenza, Harris v. Am. Inv. Co., 523
F.2d 220, 226-227 (8th Cir. 1975); Richardson v. MacArthur, 451 F.2d 35, 43-44 (10th Cir. 1971); Esplin
v. Hirschi, 402 F.2d 94, 104-105 (10th Cir. 1968). Analogamente, alcune pronunce (con ragionamento
simmetrico) hanno ritenuto assente il requisito della c.d. materiality in mancanza di una significativa
reazione del mercato in seguito alla corrective disclosure: Merck & Co. Sec. Litig., 432 F.3d 261, 269 (3d
Cir. 2005); Oran v. Stafford, 226 F.3d 275, 283 (3d Cir. 2000); ma in senso contrario v. ad es.
Grennhouse v. MCG Capital Corp., 392 F.3d 650, 660-661 (4th Cir. 2004). In dottrina, WANG, op. cit.,
spec. 9 ss.: l’A. parla di “‘expedient’ out of pocket measure” e rileva i limiti che tale impostazione
presenterebbe qualora il relativo criterio venisse adottato in via generalizzata, tra i quali spicca il fatto che
il prezzo che emerge successivamente riflette verosimilmente altri fattori diversi dalla disclosure e nel
frattempo intervenuti; nella giurisprudenza, il punto è stato colto ad es. da Warner Commc’ns Sec. Litig.,
618 F. Supp. 735, 744 (S.D.N.Y. 1985); Bonime v. Doyle, 416 F. Supp. 1372, 1384 (S.D.N.Y. 1976); e, in
un caso diverso dall’insider trading, Crazy Eddie Sec. Litig., 948 F. Supp. 1154, 1165 (E.D.N.Y. 1997).
Nella letteratura, di nuovo OLAZÁBAL, op. cit., 361; e in precedenza, LEV - DE VILLIERS, Stock Price
Crashes and 10b-5 Damages: A Legal, Economic, and Policy Analysis, in Stanford Law Review, 1994, v.
47, 7 ss. e spec. 10, 22 e 30 ss.; FINKELSTEIN, Rule 10b-5 Damage Computation: Application of
Financial Theory to Determine Net Economic Loss, in Fordham Law Review, 1983, v. 51, 839, ove
ulteriori e più risalenti riferimenti giurisprudenziali. Talvolta è stata applicata una variante di tale criterio,
che consiste nel commisurare il danno alla variazione di prezzo che si riscontra in seguito alla diffusione
dell’informazione: Goldberg v. Household Bank FSB, 890 F.2d 965, 966-967 (7th Cir. 1989). Peraltro,
anche tale variante non è esente da problemi analoghi, dovuti principalmente al fatto che nell’arco di
tempo in cui l’omissione della disclosure è proseguita possono essere intervenuti anche altri fattori, idonei
a determinare la stessa variazione del prezzo: v. WANG, op. cit., 13 ss., ove ulteriori riferimenti. In
argomento, in PolyMedica Corp. Securities Litigation, 432 F.3d 16 (1st Cir. 2005), la Corte d’Appello
respinse le pretese degli attori in base al fatto che non si era verificata una variazione sufficientemente
rapida del prezzo dei titoli (più di un giorno): sul punto LANGEVOORT, op. cit., 168 ss. Per tali ragioni,
il Private Securities Litigation Reform Act del 1995 ha aggiunto una nuova Section 21D(e) al SEA, la
quale stabilisce ora che ai fini della commisurazione del danno di cui si è detto si tenga conto della media
dei prezzi di chiusura del titolo nei 90 giorni successivi alla diffusione dell’informazione (o, in
alternativa, fino al momento in cui l’investitore danneggiato aliena o riacquista le azioni precedentemente
compravendute).
102
Questa era la posizione espressa dalla Corte d’Appello nel caso “Dura”, poi riformata dalla Corte
Suprema americana: “loss causation does not require pleading a stock price drop following a corrective
disclosure or otherwise. It merely requires pleading that the price at the time of purchase was overstated
and sufficient identification of the cause”: così Broudo v. Dura Pharmaceuticals, Inc., 339 F.3d 933 (9th
Cir. 2003); successivamente anche Bearingpoint, Inc. Sec. Litig., 232 FR.D. 534, 544 (E.D. Va. 2006)
(“Moreover, it is also conceivable that the inflationary effect of a misrepresentation might well diminish
over time, even without a corrective disclosure, and thus in-and-out traders in this circumstance would be
able to prove loss causation”); e in precedenza Gebhardt v. ConAgra Foods, Inc., cit., 831; nonché
Knapp v. Ernst & Whinney, cit., 1431, 1438; in dottrina, v. in particolare FOX, After Dura, cit., 867, per
la posizione che un valore dei titoli superiore a quello iniziale non esclude a rigore che un danno si sia
originariamente prodotto e sia pertanto risarcibile; ma in senso contrario, ossia anticipatorio della
posizione poi assunta dalla Corte Suprema in “Dura”, v. Robbins v. Koger Props., Inc., cit., 1448, ove si
richiedeva la “proof of a causal connection between the misrepresentation and the investment’s
170
decisivo103: del resto, la crescita del valore del titolo in seguito alla diffusione
dell’informazione potrebbe essere inferiore a quella che si sarebbe verificata in
precedenza sulla base di una tempestiva disclosure e, quindi, potrebbe risultare inidonea
a consentire il pieno recupero dello scarto tra il prezzo della negoziazione (o, per le
azioni che siano state conservate, tra il valore di mercato al tempo della mancata OPA) e
subsequent decline in value”; seguita da Semerenko v. Cendant Corp., 223 F.3d 165, 185 (3rd Cir. 2000),
la quale aggiungeva però che una volta provato il nesso causale tra la condotta del danneggiante e la
doppia anomala variazione del prezzo dei titoli, un eventuale concorso di cause non esclude il
risarcimento (ibidem, 186-187). In seguito a “Dura”, la correttive disclosure e la successiva variazione
dei prezzi sono state ritenute imprescindibili ai fini della prova del danno in Glaser v. Enzo Biochem, Inc.,
464 F.3d 474, 479 (4th Cir. 2006); e ancor più di recente in McAdams v. McCord, cit., 1111 (8th Cir.
2009); in dottrina, v. da ultimo ERDLEN, op. cit., 881, 886 e 888; FISCH, op. cit., 847. In Italia, tale
impostazione era stata prospettata da CASELLA, op. cit., 837. Come si può notare, la contrapposizione
appena riportata ricalca ancora una volta il contrasto esistente in merito alla validità e all’applicabilità
della c.d. fraud on the market theory, e ne rappresenta un’ulteriore propaggine. Gli autori che hanno
sostenuto l’assoluta necessità di una valutazione ex-post del danno e che perciò hanno abbracciato
l’opinione che ritiene necessaria una successiva caduta del valore di scambio dei titoli (nel nostro caso si
tratterebbe invece di un successivo aumento rispetto al prezzo di alienazione; e v. per questa opinione
nella nostra dottrina, espressamente, GUIZZI, op. cit., 261-262) lo hanno fatto sulla base di un altro
argomento poco convincente, ossia ritenendo che l’azione di danni da insider trading non possa assumere
una funzione “assicurativa” di tutti coloro che acquistano azioni in un dato periodo: cfr. COFFEE Jr.,
Causation, cit., 535 (e v. anche ibidem, 544 ss. e spec. 546 per l’espressa enunciazione della tesi in
parola); CHAMBLEE BURCH, op. cit., 373 (ma in tal senso anche la stessa Corte Suprema in “Dura”,
345, la quale peraltro ha mostrato di ritenere la successiva variazione del valore dei titoli un requisito
necessario ma non sempre sufficiente per la prova del danno, perché su di esso potrebbero aver influito
altri fattori). In realtà, l’accoglimento della c.d. fraud on the market theory e l’ammissibilità della
conseguente presunzione di affidamento sull’integrità del mercato e sulla completezza delle informazioni
non eliminano affatto la necessità di prova del nesso causale tra la condotta e il danno, ma semplicemente
la agevolano, senza togliere al convenuto la possibilità di una prova contraria, come aveva affermato
anche la Corte Suprema in “Basic” (ivi, 248-249): cfr. OLAZÁBAL, op. cit., 348-349 e 366; e in
precedenza THOMPSON, “Simplicity and Certainty” in the Measure of Recovery Under Rule 10b-5, in
The Business Lawyer, 1996, v. 51, 1201, il quale già suggeriva che le Corti riducano l’ammontare del
risarcimento nella misura corrispondente alla parte di perdita che il convenuto dimostri essere dovuta a
variabili di mercato. Quindi, la tesi non sembra in contrasto con la Section 21D(b)(4) del SEA, che
espressamente impone all’attore di provare la c.d. loss causation, ossia che l’atto o l’omissione del
convenuto ha causato la perdita di cui si chiede la riparazione (al contrario di quanto pare ritenere
COFFEE Jr., Causation, cit., 545). Come si è osservato, del resto, “in the PLSRA, Congress did not
eliminate the fraud-on-the-market (FOTM) presumption of reliance created by the Supreme Court in
Basic Inc. v. Levinson”: così BLACK, Reputational Damages in Securities Litigation, in The Journal of
Corporation Law, 2009, 170.
103
Analog., seppur con riferimento all’aggiotaggio c.d. manipolativo, Trib. Milano, 28 ottobre 2011,
massimata in Società, 2012, 338. Anche il criterio in parola può infatti presentare inconvenienti: da un
lato, ci potrebbe essere una reazione eccessiva del mercato alla disclosure correttiva; dall’altro,
quest’ultima potrebbe contenere più informazioni di quelle che avrebbero dovuto essere originariamente
fornite e dunque presentare un impatto maggiore sul mercato: per questi aspetti v., nella letteratura
americana, BLACK, op. cit., 172-173. La previsione dell’ordinamento americano che limita il
risarcimento alla differenza tra il prezzo della negoziazione e quello medio espresso dal mercato nei 90
giorni successivi alla disclosure mira proprio ad arginare i fenomeni di over-reaction del mercato: v.
THOMPSON, op. cit., 1193, il quale peraltro si è espresso criticamente sulla capacità della previsione
normativa di separare le variazioni riconducibili alla condotta fraudolenta da quelle dovute ad altri fattori
di mercato (ibidem, 1194). Come si è osservato, inoltre, il mercato potrebbe realizzare la reale situazione
e quindi assorbire la notizia anche prima della pubblica disclosure (FERRELL - SAHA, op. cit., 168); in
ogni caso, dovrebbero poter essere utilizzati criteri alternativi quali il fatto che “the misstatement was selfevidently important in the sense that if it were considered reliable, it would significantly affect investors’
expectations”: FOX, After Dura, cit., 850 ss. (a 852 il virgolettato), ove anche un’analisi circa le possibili
differenti situazioni che potrebbero verificarsi a fronte della tardiva diffusione della corretta
informazione.
171
quello (più alto) che sarebbe stato espresso proprio in quel momento del passato dal
mercato qualora si fosse potuto tenere conto della notizia inizialmente occultata. 104
Di nuovo con riguardo a coloro che hanno conservato azioni della società,
(avendone o meno, anche in parte, alienate) si potranno invece tenere in considerazione,
ai fini del computo del danno risarcibile, i successivi ribassi dei titoli rispetto al prezzo
di mercato che avevano all’epoca dell’inosservanza dell’obbligo di offerta: come si è
accennato trattando della responsabilità da mancata OPA, tali oscillazioni in negativo
possono essere ritenute (in forza, beninteso, della prova del nesso causale) conseguenza
immediata e diretta della decisione di rimanere azionisti della società, determinata dalla
situazione di incompleta e inesatta informazione, giusta il principio sancito dall’art.
1223 c.c.105 Per inciso, ciò non varrebbe invece per i successivi ribassi dei titoli (rispetto
al giusto valore che il mercato avrebbe dovuto originariamente determinare) che
venissero in considerazione con riferimento a pregressi acquisti a prezzo gonfiato, ove
tali cadute di valore siano indipendenti dalla condotta illecita inizialmente posta in
essere dagli insiders: in altre parole, il danno risarcibile in tal caso va pur sempre
determinato in misura pari alla differenza tra il prezzo (gonfiato) corrisposto per
l’acquisto e quello (più basso) che a quel tempo avrebbe dovuto essere pagato sulla
scorta di una corretta informazione. Come un autore statunitense ha efficacemente
rilevato, infatti, “a defendant found liable for fraud should pay for the fraud but is not
responsible for any change in value due to change in the market”.106 Ad ogni modo,
104
Per un simile (o meglio, simmetrico, perché riferito a casi di acquisto a prezzo gonfiato) approccio si
veda, nella letteratura americana, BLACK, op. cit., 172 ss., la quale ammette la risarcibilità dell’ulteriore
danno (c.d. reputational damage) che risulta dalla maggiore perdita del valore del titolo dovuta ed
imputabile alla riduzione di fiducia del mercato nella credibilità e nell’affidabilità della società e del suo
management: “if the market had understood that management was corrupt or the controls seriously
deficient, it would have discounted the stock price” (ibidem, 178); ma diversamente FERRELL - SAHA,
op. cit., 181 ss.
105
E’ vero che, come si è osservato in dottrina, il principio di cui all’art. 1223 c.c. implica “l’irrisarcibilità
delle conseguenze che pur essendo ricollegabili all’inadempimento o al fatto illecito e quindi non ad altri
fattori causali, non possono essere imputate al soggetto responsabile perché il fatto dannoso costituisce
soltanto l’occasione del verificarsi del danno”: così PINORI, Il criterio legislativo delle conseguenze
immediate e dirette, in Il risarcimento del danno contrattuale ed extracontrattuale, a cura di G. Visintini,
Milano, 1999, 77; in precedenza, VISINTINI, Il criterio legislativo delle conseguenze dirette ed
immediate, in Risarcimento del danno contrattuale ed extracontrattuale, a cura di G. Visintini, Milano,
1984, 11. Tuttavia, l’illecito da omessa informazione di cui si è detto non può considerarsi semplicemente
un fattore occasionale del verificarsi dell’evento dannoso, per lo meno allorquando coloro che lamentano
il suddetto pregiudizio dimostrino (si tratta del nesso causale) che, a fronte di una corretta e completa
disclosure, avrebbero ceduto la loro partecipazione e dunque evitato il successivo decremento del valore
dei titoli.
106
THOMPSON, op. cit., 1180; contra però FISCH, op. cit., 842 e 851. Per un ulteriore approfondimento
delle problematiche concernenti la prova del nesso causale (o meglio, della c.d. loss causation) nelle
Securities class actions statunitensi, anche alla luce di aspetti processuali, si vedano in particolare:
HAYCOCK, Pleading a Loss Cause: Resolving the Pleading Standard For the Element of Loss
Causation in a Private Securities Fraud Claim and a Plaintiff’s Heavy Burden Pleading it Under Iqbal,
in American University Law Review, 2010, v. 60, 173 ss.; HILL, The Rule 10b-5 Suit: Loss Causation
Pleading Standards in Private Securities Fraud Claims after Dura Pharmaceuticals, Inc. v. Broudo, in
Fordham Law Review, 2010, v. 78, 2659 ss. e spec. 2677 ss. In particolare, come i due autori testé citati
hanno messo in luce, in seguito alla sentenza “Dura” (che ha lasciato la questione inevasa), le Corti si
sono divise sullo specifico standard probatorio necessario a dimostrare il nesso eziologico: alcune
pronunce hanno richiesto che questo venga evidenziato secondo il parametro della “plausibility”
(coerente con la Rule 8(a)(2) del FRCP); altre, preferendo un approccio più restrittivo, hanno richiesto la
172
sembra corretto che la prova del fatto che detti ulteriori ribassi siano da ricondurre a
cause diverse dal comportamento illecito venga addossata agli insiders (ossia ai
convenuti in giudizio), onde evitare di rendere oltremodo gravosa la posizione di quanti
esperiscono l’azione per ottenere il risarcimento dei danni subiti.107
E’ intuitivo, poi, che nel diverso caso in cui l’OPA obbligatoria sia invece stata
regolarmente promossa, potrebbe comunque residuare una responsabilità da insider
trading dovuta, appunto, all’avvenuta alterazione del prezzo della medesima in seguito
al nascondimento dell’accordo parasociale, il quale abbia avuto ripercussioni sul valore
dei titoli al momento degli acquisti rilevanti108: si pensi all’ipotesi in cui un soggetto
venga a detenere individualmente una quota di capitale pari o superiore al trenta per
cento e promuova l’offerta, ma abbia omesso di svelare l’esistenza di un accordo con
altri azionisti in grado di irrobustire il grado di influenza dei concertisti sulla società. In
un simile caso, potranno quindi pretendere il risarcimento - oltre eventualmente a coloro
che hanno alienato le azioni della società nell’intervallo di tempo da tenere in
considerazione - anche i destinatari dell’offerta pubblica di acquisto, naturalmente nei
limiti della quota di corrispettivo per azione che nessuno degli aderenti ha percepito a
causa dell’alterazione del prezzo - dovuta alla mancata informazione, appunto determinatasi all’epoca dell’effettuazione degli acquisti precedenti.
E’ invece più difficile immaginare, da un punto di vista prettamente pratico,
l’occultamento di un patto parasociale che, se svelato, determinerebbe un decremento
del valore di mercato delle azioni dell’emittente: mancherebbe infatti l’interesse dei
pattisti a mantenerlo segreto (per lo meno quando il loro obiettivo sia l’acquisizione del
controllo), perché tale nascondimento rischierebbe di elevare i costi del lancio
dell’offerta pubblica di acquisto; inoltre, i danneggiati dalla condotta di insider trading
sarebbero paradossalmente i medesimi autori della stessa, almeno nell’ipotesi, sin qui
presa in considerazione, in cui i pattisti occulti acquistino azioni dell’emittente.
Qualora, viceversa, gli azionisti membri dell’accordo parasociale non pubblicato
si limitino ad acquistare titoli della società in misura tale da non determinare il
raggiungimento della soglia del 30% del capitale, oppure se ne liberino o ancora,
secondo l’ulteriore ipotesi contemplata dall’art. 184 T.U.F., rendano partecipi
dell’esistenza dell’accordo - in via informale e riservata - ulteriori soggetti, verranno
“particularity” evocata dalla Rule 9(b) del FRCP, che si traduce nella necessità di rendere conto di un
rapporto di causalità contraddistinto da una “sufficient specificity”.
107
Nella letteratura americana, v. in particolare CHRISTENSEN, In Re Williams Securities LitigationWCG Subclass: Publicly Traded Corporations Win Leniency in Their Representations After The Tenth
Circuit Redefines Loss Causation in Private Actions For Securities Fraud, in Creighton Law Review,
2010, v. 43, 563 ss., il quale rileva essere eccessiva la pretesa che gli attori provino che il danno sia stato
causato soltanto dalla condotta fraudolenta e non sia riconducibile a nessun altro fattore, come invece
richiesto dalla Corte d’Appello in Williams Sec. Litig. - WCG Subclass, cit., 1137. Questa recente
pronuncia si è posta invero in controtendenza rispetto ad un consolidato orientamento giurisprudenziale,
che ha messo in evidenza come sia irrealistico imporre ai danneggiati la prova (negativa) dell’assenza di
ulteriori fattori causativi del danno: cfr. ad es. Caremark, Inc. v. Coram Healthcare Corp., 113 F.3d 649
(7th Cir. 1997).
108
Ciò è vero non solo e non tanto nel caso di OPA promossa tardivamente, ma soprattutto in caso di
promozione tempestiva, come si dirà subito nel testo. Nel caso di OPA tardiva, come già si è rilevato, la
Consob conserva infatti un opportuno margine di discrezionalità in merito alla determinazione del prezzo
dell’offerta, che potrebbe consentire di porre rimedio ad ogni tipo di danno originariamente patito dagli
azionisti pretermessi.
173
certamente a mancare i presupposti dell’obbligo di lancio di un’OPA, ma rimarranno gli
elementi propri della condotta di insider trading. In questo caso, è probabile che la
sensibile influenza sul prezzo delle azioni dell’emittente vi sia (soltanto) se l’accordo
coinvolga i titolari di una percentuale consistente del capitale sociale, anche inferiore al
30%, ma comunque non determinabile, per ovvie ragioni, in via generale ed astratta.
In simili situazioni, in cui il problema del rapporto tra la responsabilità da
mancata OPA e quella da insider trading non si pone, quest’ultima può operare secondo
i criteri generali individuati dalla dottrina e dalla (scarna) giurisprudenza in argomento.
In particolare, nel caso in cui si verifichi l’alienazione delle azioni da parte degli
insiders, il danno subito da coloro che hanno operato sul mercato in maniera inversa (:
acquistando azioni) potrà consistere - come si è già peraltro visto - nella parte di prezzo
che non sarebbe stata corrisposta in un contesto di piena trasparenza, nel quale cioè i
prezzi di mercato dei titoli si sarebbero collocati su valori più bassi. 109 E’ proprio in
questa prospettiva che può venire in aiuto quella che è stata favorevolmente salutata
come la prima pronuncia giurisprudenziale in materia di responsabilità civile da insider
trading nel nostro ordinamento, nella quale peraltro il Tribunale di Milano, a motivo
della complessità delle operazioni di calcolo (nonché, come si è detto, di prova) del
danno risarcibile, ha ritenuto opportuno - pur senza astenersi dall’indicazione di alcuni
criteri orientativi - fare appello alla valutazione equitativa ammessa dall’art. 1226 c.c. 110
5. L’insider trading da patto occulto tra responsabilità risarcitoria e
applicabilità di rimedi contrattuali.
Si è parlato sin qui di una possibile responsabilità civile da insider trading per
occultamento di un patto parasociale, la quale può ben affiancarsi alla responsabilità da
mancata OPA. Occorre chiedersi, però, se il risarcimento del danno per la condotta di
abuso di informazione privilegiata possa essere a sua volta accompagnato da rimedi
contrattuali che elidano gli effetti pregiudizievoli della condotta dei pattisti-insiders,
quantomeno rispetto alle loro controparti.111
109
E’ proprio con riferimento a questa ipotesi, come si è detto, che la teoria della c.d. out of pocket loss è
stata tradizionalmente sviluppata (soprattutto dalla giurisprudenza) negli Stati Uniti, e rispetto alla quale
possono ripetersi le riflessioni sin qui sviluppate.
110
Il Tribunale ha escluso perciò sia che il danno possa “qualificarsi equivalente a una perdita di chance
di investire su altri titoli con le stesse caratteristiche e margini di rischio”; sia, come si è anche qui
sostenuto ed argomentato, che equivalga “automaticamente all’evento lesivo corrispondente alla perdita
di valore dei propri investimenti (che porterebbe al calcolo della differenza tra valore di acquisto e prezzo
di realizzo)”. Per un commento si vedano GIAVAZZI, op. cit., 116 ss.; ROLFI, L’investitore, cit., 1642
ss.
111
L’interrogativo acquisisce una portata ancor più rilevante se si aderisce all’idea che anche in questo
settore la disciplina del mercato non può non interagire con quella del contratto al fine di ottenere
soluzioni dogmaticamente fondate e al contempo efficienti: sul punto, efficacemente, NERVI, La nozione
giuridica di informazione e la disciplina di mercato. Argomenti di discussione, in Riv. dir. comm., I,
1998, 862. Peraltro, i valori dell’ordinamento giuridico tutelati dal sistema dovrebbero costituire sempre
lo schema di riferimento entro il quale si muova eventualmente un’ulteriore analisi in merito al rapporto
costi-benefici degli strumenti di tutela apprestati dall’ordinamento: cfr. in argomento DENOZZA, La
trasparenza garantita nei mercati finanziari: “prolegomeni” ad un’analisi costi/benefici, in Banca
impresa società, 2007, 181.
174
Premesso che non si potrà invocare la nullità del contratto - trattandosi di effetto
che opera soltanto nel caso in cui sia l’intero regolamento negoziale a porsi in contrasto
con l’ordinamento e non anche qualora il comportamento vietato sia quello di una sola
delle parti112 - il problema che si pone è quello dell’esperibilità di un’azione di
annullamento sub specie di dolo omissivo, individuabile nella condotta reticente
dell’insider.
Si può aderire alla conclusione cui sono pervenuti quanti hanno rilevato che nel
caso di contrattazioni avvenute nel mercato regolamentato, l’impossibilità pratica di
risalire alla reale controparte dell’insider esclude l’operatività del principio della buona
fede contrattuale e precontrattuale.113 L’approdo ultimo di questa linea di pensiero
risulta condivisibile, ma qualche precisazione si impone sotto il profilo
dell’argomentazione che vi è sottesa. Il punto centrale non sembra consistere nel fatto
che il principio di buona fede contrattuale venga messo fuori gioco: è vero che non è
predicabile un obbligo informativo ad personam, ma sussiste pur sempre quello di
informare adeguatamente il mercato (ossia: ogni potenziale controparte contrattuale). 114
Piuttosto, l’effettiva difficoltà di individuare la controparte dell’insider suggerisce di
evitare una disparità di trattamento tra i diversi investitori danneggiati, che si
verificherebbe qualora solo alcuni tra essi potessero attivare il rimedio contrattuale (in
alternativa alla responsabilità per danni di cui si è già detto). Nel mercato borsistico, in
cui non si può dire che qualcuno abbia scelto di contrattare proprio e specificamente con
l’insider, non pare ammissibile differenziare le forme di tutela a disposizione dei
danneggiati sulla base di un criterio che (oltre ad essere difficilmente praticabile in
concreto) finirebbe per riposare sulla mera casualità.
Anche con riferimento alle contrattazioni fuori borsa si è esclusa in via generale
l’azione di annullamento, sulla base del rilievo che l’art. 184, comma 1, lett. b), T.U.F.
impone all’insider di non divulgare la notizia: tale precetto, si osserva, si porrebbe in
contraddizione logica con l’obbligo di informare la controparte.115 Tale conclusione,
però, può probabilmente essere messa in dubbio e comunque offre il destro per meglio
precisare il rapporto tra la norma poc’anzi citata e l’art. 114 T.U.F.
112
Sul punto, specificamente, MACRI’, Informazioni privilegiate, cit., 150-151; meno recentemente,
BARTALENA, op. cit., 333; ABBADESSA, L’insider trading, cit., 761; e, ancor più diffusamente, G.
SANTORO, op. cit., 664 ss.
113
MACRI’, op. ult. cit., 156 ss.; GIAVAZZI, op. cit., 121; analog., in precedenza, BARTALENA, op.
cit., 336-337; G. SANTORO, op. cit., 672, il quale osservava che nel caso di contratto concluso in borsa
con l’insider nessun inganno può lamentare la controparte di questo, non potendo sapere se sta
negoziando o meno proprio con l’insider. Anche il Trib. Milano, 14 febbraio 2004, ha escluso
l’annullamento del contratto stipulato dagli investitori danneggiati, sull’assunto che essi “non hanno
comprato i titoli direttamente dalle banche che li dismettevano”.
114
Per un’idea non dissimile v. ABBADESSA, L’insider trading, cit., 757, il quale precisava che il
dovere precontrattuale di buona fede di cui all’art. 1337 c.c. “non si rivolge soltanto alle parti in senso
formale del futuro contratto, bensì a tutti coloro che in qualche modo partecipano al suo processo
formativo” (quindi - sembra di poter dire - anche agli insiders che si servano di un intermediario per
compiere operazioni di negoziazione dei titoli). Sul punto anche NAPOLEONI, op. cit., 578: l’A. esclude
tale prospettiva di tutela contrattuale ma giustamente rileva che “il ‘malum’ dell’insider trading [...] non
sta nel ‘trading’, ma nel ‘trading without disclosing’”.
115
MACRI’, op. ult. cit., 152 ss., secondo il quale sarebbe così da escludere anche l’ipotesi del dolo
incidente (su cui v. infra).
175
E’ vero che quest’ultima disposizione colloca principalmente in capo
all’emittente l’obbligo di disclosure delle informazioni privilegiate116 e, in una con l’art.
184 T.U.F., costruisce una sorta di microsistema in forza del quale,
corrispondentemente, chi viene a conoscenza di quell’informazione non può divulgarla
se non nell’ambito “del normale esercizio del lavoro, della professione, della funzione o
dell’ufficio” e deve astenersi dallo sfruttamento della stessa a proprio vantaggio.
Tuttavia, non va dimenticato che l’art. 114 T.U.F. impone l’obbligo di trasparenza
anche ai “soggetti” che controllano la società quotata e questi ben potrebbero essere i
pattisti occulti che hanno raggiunto (o stanno per raggiungere, in virtù degli acquisti
coordinati di azioni) la soglia del trenta per cento del capitale. Ma soprattutto, vi sono
buoni motivi per ritenere che la società debba in ogni caso rendere noto, ex art. 114
T.U.F., il patto parasociale che le venga comunicato ai sensi dell’art. 122 T.U.F. 117 Se
così è, e se si condivide quanto osservato in precedenza circa la possibilità che una
simile notizia non ancora divulgata possa costituire una vera e propria informazione
privilegiata, in quanto riguardante (non solo la sfera soggettiva dei paciscenti, ma
anche) l’emittente, non può che derivarne l’obbligo per i pattisti-insiders di informare
tempestivamente (il mercato e contemporaneamente) le loro controparti contrattuali nel
caso di trasferimenti di azioni fuori borsa.118
116
Per un analogo rilievo nel vigore della precedente disciplina v. BARTALENA, op. cit., 337-338.
Uno spunto in tal senso anche in SAMBUCCI, Patti parasociali, cit., 36.
118
Di recente GIAVAZZI, op. cit., 120-121; e uno spunto in tale direzione anche in MACCABRUNI, op.
cit., 618 (testo e nt. 94). Ancor prima, avevano ammesso l’annullabilità del contratto per dolo “fin tanto
che lo scambio avviene in forma diretta”, ABBADESSA, L’insider trading, cit., 755 (ove il virgolettato);
nonché G. SANTORO, op. cit., 676. E’ interessante notare che anche negli Stati Uniti il rimedio della
“rescissory” è stato ammesso dalle Corti in presenza di una relationship tra l’autore della violazione
(l’insider) e il danneggiato, ossia a fronte di una contrattazione privata: v. ad es. Randall v. Loftsgaarden,
478 U.S. 647 (1986) (commentata da LOWENFELS - BROMBERG, op. cit., 1089 ss.; e da KAUFMAN,
op. cit., 45 ss.; ma v. anche OLAZÁBAL, op. cit., 359); Huddleston v. Herman & MacLean, 640 F.2d
534, 554 (5th Cir. 1981). Esso, come la giurisprudenza americana ha più volte osservato, mira appunto a
ripristinare la situazione in cui il danneggiato si trovava prima del contratto di compravendita dei titoli e
presuppone che quest’ultimo non avrebbe concluso l’operazione in presenza di una corretta informazione.
Hanno escluso l’utilizzabilità dello strumento per le controversie ex Section 10(b) Mathews v. Kidder,
Peabody & Co., cit., 250 (2001); Hoxworth v. Blinder, Robinson & Co., 903 F.2d 186, 203 n. 25 (3d Cir.
1990). Sul punto, CHAMBLEE BURCH, op. cit., 363. Non sono mancate peraltro pronunce che hanno
ipotizzato un’applicazione del rimedio anche per danni verificatisi nell’ambito di un c.d. open market: v.
Robertson v. White, 81 F.3d 752, 756 (8th Cir. 1996); Arthur Young & Co. v. Reves, 937 F.2d 1310, 1337
(8th Cir. 1991). Per altri casi in cui questa forma di tutela è stata applicata, v. tra i tanti Ambassador Hotel
Co., Ltd v. Wei-Chuan Inv., cit., 1031, ove si rinviene una chiara illustrazione delle modalità operative del
rimedio: “Rescission reverses the fraudulent transaction and returns the parties to the position they
occupied prior to the fraud. It restores the status quo ante. Under true rescission, the plaintiff returns to
the defendant the subject of the transaction, plus any other benefit received under the contract, and the
defendant returns to the plaintiff the consideration furnished, plus interest [...] If true rescission is no
longer possible (perhaps because the plaintiff no longer owns the subject of the sale ), the court may
order its monetary equivalent”; DCD Programs Ltd. v. Leighton, 90 F.3d 1442, 1447 (9th Cir. 1996);
Blackie v. Barrack, cit., 909, ove si affermava che se il rimedio standard è rappresentato dall’out of
pocket loss, in appropriate circostanze potrebbe essere applicabile la misura della rescissory. Altre volte,
invece, questa è stata negata sulla base dell’argomento che essa garantirebbe il ristoro per perdite non
direttamente causate dal convenuto: Green v. Occidental Petroleum Corp., 541 F.2d 1335, 1342 (9th Cir.
1976). Anche CHAMBLEE BURCH, op. cit., 366, rileva che la rescissory farebbe gravare sul convenuto
il “risk of market decline” (v. anche ibidem, 386); in precedenza LEE, op. cit., 1283. Sul punto v. però
FOX, Demistifying Causation in Fraud-on-the-Market Actions, in The Business Lawyer, 2005, v. 60, 512513, il quale, ipotizzando tra l’altro l’applicabilità della misura anche in un “open market”, sostiene che il
117
176
Per tale ragione, può tornare ad operare il principio di buona fede precontrattuale
di cui all’art. 1337 c.c.119
Ciò detto, la tutela dell’annullamento per dolo potrebbe risultare praticabile in
questa ipotesi anche per una diversa ragione, ossia a motivo della coerenza teleologica
del rimedio con l’obbligo di alienazione delle azioni imposto dall’art. 110 T.U.F. a
coloro che si trovino nella condizione di dover lanciare un’OPA obbligatoria: invero,
avendo riguardo ai contratti di acquisto stipulati dall’insider (che qui più interessano),
entrambi i meccanismi contribuirebbero al ripristino dello status quo ante (ripristino che
sarebbe ancora più preciso, si noti, qualora si agisca con l’azione invalidatoria, la quale
avrebbe l’effetto di ricondurre le azioni nella disponibilità degli originari alienanti, che
avevano venduto ad un prezzo inferiore al dovuto). L’annullamento, pertanto, potrebbe
in linea teorica esimere gli obbligati dall’alienazione delle azioni ex art. 110 T.U.F., se
non vi si opponesse quantomeno un ostacolo di ordine pratico concretamente non
superabile: i tempi per lo svolgimento del giudizio ordinario, cioè, si estenderebbero
certamente oltre il termine di dodici mesi imposto dalla norma da ultimo richiamata
affinché i pattisti si riposizionino al di sotto della soglia rilevante di partecipazione.
Naturalmente, la regolare alienazione delle azioni ai sensi dell’art. 110 T.U.F. non
esclude invece il rimedio contrattuale di cui si è detto, anche perché i due strumenti
ripristinatori (pur trovandosi a condividere, come si è accennato, una comune
direzionalità nell’ottica della restaurazione del precedente assetto proprietario della
società) operano ed incidono su piani diversi: il primo attiene all’ambito propriamente
corporativo e societario, il secondo al rapporto sinallagmatico instaurato tra i contraenti
sulla base del negozio. Va osservato anche che l’annullamento del contratto di
trasferimento fuori borsa delle azioni potrebbe finire per escludere la responsabilità da
mancata OPA dell’insider nei confronti degli altri investitori originariamente
pregiudicati, quantomeno nei casi in cui, come si è visto, il ripristino dello status quo
ante (cui è preordinato, in linea di principio, il meccanismo di alienazione delle azioni ai
sensi dell’art. 110 T.U.F.) determini il venir meno dei presupposti di un’azione per il
ripristino della situazione pregressa andrebbe comunque corretto per la parte di perdita non correlata alla
condotta illecita (come rileva l’A., si tratterebbe quindi di una verifica ex post, a differenza della canonica
“out-of-pocket-measure” che dovrebbe essere basata su di una verifica ex ante). Anche il rimedio di cui si
è riferito presenta una variante (c.d. “cover”), che si basa sul medesimo presupposto secondo il quale il
soggetto danneggiato non avrebbe affatto contrattato in presenza di una corretta e completa informazione,
ma impone in base alle circostanze alla parte attrice “to mitigate damages by reversing her trade within a
‘reasonable’ time after curative disclosure”: così WANG, op. cit., 21, il quale ha aggiunto che proprio il
detto presupposto differenzia questo strumento dall’“expedient” out of pocket measure (ibidem, 24). Per
l’osservazione che il tempo ragionevole di riferimento possa mutare a seconda delle circostanze, v. Nye v.
Blyth, Eastman, Dillon & Co., 588 F.2d 1189, 1198 (8th Cir. 1978). Il principale caso di riferimento è
stato Mitchell v. Texas Gulf Sulphur Co., 446 F.2d 90 (10th Cir. 1971); ma v. in seguito SEC v.
MacDonald, 669 F.2d 47, 48, 53-54 (1st Cir. 1983); American Gen. Ins. Co. v. Equitable Gen. Corp., 493
F. Supp. 721, 764-766 (E.D. Va. 1980). Anche molto di recente le Corti hanno respinto un’azione privata
(relativa ad una close corporation) per mancanza di prova che l’attore avrebbe operato diversamente se
fosse stato adeguatamente informato: Ledford v. Peeples, 605 F.3d 871, 905-912 (11th Cir. 2010).
119
L’annullabilità del contratto per dolo era stata ammessa anche da BARTALENA, op. cit., 226 ss.,
proprio in base all’applicabilità dell’art. 1337 c.c. La necessità di differenziare la forma di tutela a fronte
di una condotta di insider trading, a seconda del fatto che ci si trovi di fronte a negoziazioni intervenute
in borsa o fuori borsa, è stata messa in evidenza, nella letteratura tedesca, da MENNICKE, op. cit., 545, la
quale nota come non siano espressamente previsti dall’ordinamento tedesco rimedi di carattere civilistico,
con la conseguenza che diviene necessario richiamarsi ai principi generali.
177
risarcimento dei danni. Ciò non varrebbe, naturalmente, nell’ipotesi in cui la
restituzione delle azioni in seguito all’annullamento dei contratti conclusi fuori borsa
non basti a ricondurre al di sotto della soglia rilevante la partecipazione
complessivamente detenuta dai pattisti soccombenti in giudizio.
Il ripristino della situazione antecedente (in virtù dell’annullamento dei contratti
di trasferimento oppure dell’alienazione ex art. 110 T.U.F.) non rimuove invece la
responsabilità risarcitoria degli insiders (per la condotta di insider trading, appunto) nei
confronti di quanti avevano alienato la propria partecipazione - nel mercato borsistico ad un prezzo più basso del dovuto.120 Peraltro, una responsabilità per danni potrà
ovviamente essere fatta valere, secondo i principi generali, anche da quanti ottengano
l’annullamento del loro contratto (stipulato con gli insiders) di trasferimento fuori borsa
delle azioni.121
Inoltre, chi risulta essere stato vittima del dolo omissivo dei pattisti in una “faceto-face transaction” può avvalersi di un rimedio alternativo all’annullamento qualora
dimostri che, in presenza di una corretta informazione, avrebbe comunque contrattato
ma a condizioni differenti, ossia al prezzo più alto che il mercato avrebbe fissato nel
caso in cui la notizia fosse stata resa nota: si tratta, come è intuibile, della responsabilità
per danni da dolo incidente ai sensi dell’art. 1440 c.c. A differenza delle ipotesi di
annullamento del contratto, il danno risarcibile coinciderà anche in questo caso, come
già osservato in via generale, con la differenza tra il valore che le azioni avrebbero
120
Sicuramente più difficile sarebbe invece ipotizzare una responsabilità degli insiders nei confronti di
quanti abbiano eventualmente alienato la propria partecipazione fuori borsa a soggetti diversi dagli stessi
insiders, perché è probabile che nel contesto di una trattativa privata il prezzo venga concordato a
prescindere dalla quotazione di borsa dei titoli e dunque in base a parametri diversi; inoltre, potrebbe in
tal caso essere fondatamente contestata l’esistenza di un nesso causale tra la condotta di insider trading e
il danno subito da soggetti (nell’ambito di una trattativa privata, appunto) che non sono mai entrati in
contatto con gli insiders.
121
Sull’intreccio tra tutela contrattuale e responsabilità in tale ipotesi cfr. NERVI, op. cit., 869. In tempi
ormai non più recenti si era osservato che nel caso di annullamento del contratto stipulato con l’insider, il
risarcimento non si limiterebbe alla differenza “tra prezzo praticato e ‘valore reale’ al momento
dell’operazione”, ma dovrebbe tener conto anche delle “successive variazioni di corso” (in positivo e in
negativo) che il risparmiatore avrebbe evitato se non avesse concluso la contrattazione, con la
conseguenza che il riferimento sarà offerto dalla “quotazione raggiunta dal titolo dopo la divulgazione
della notizia”: così ABBADESSA, L’insider trading, cit., 763 (ove i virgolettati); e per analogo rilievo
nella letteratura statunitense, v. di recente LANGEVOORT, op. cit., 183 (“[...] there will be some
instances where it is fair to say that but for the fraud, the investor would not have purchased the stock at
all - rather than simply purchased it at a distorted price - and so would not have suffered the later loss
whatever its cause”. Tale impostazione richiama il tipico modo di operare del rimedio della “rescissory”,
di cui si è dato conto: v. sul punto THOMPSON, op. cit., 1180. Tuttavia, anche in base a quanto si è detto
in precedenza a proposito delle successive oscillazioni del valore delle azioni, sembra preferibile ritenere
che il risarcimento, qualora si cumuli all’annullamento del contratto per dolo omissivo dell’insider,
coincida con il c.d. interesse negativo, tipico parametro di riferimento della responsabilità precontrattuale:
nella dottrina civilistica, per tutti, ROPPO, op. cit., 821. Il valore assunto dal titolo in seguito alla
diffusione della notizia, piuttosto, costituirà il principale (anche se non necessariamente l’unico)
parametro di riferimento in tutte le altre ipotesi di responsabilità risarcitoria da insider trading, diverse
cioè da quella che dà luogo all’annullamento del contratto concluso con l’insider (v. ancora oltre nel
testo). La prospettiva poc’anzi richiamata potrebbe invece astrattamente riacquistare valore qualora gli
originari acquirenti non siano in grado di reintegrare le controparti dei titoli oggetto delle negoziazioni
(per averli a loro volta ceduti) e sia quindi necessario dare spazio al rimedio per equivalente: nondimeno,
difficilmente tale ipotesi si verificherà nel caso in cui ad avere acquistato le azioni siano i pattisti aventi di
mira il controllo della società (giacché questo viene garantito proprio dalla disponibilità di partecipazioni
in misura rilevante).
178
assunto in presenza di una corretta diffusione delle informazioni e il prezzo
concretamente praticato.122 Proprio con riferimento all’ipotesi in cui i pattisti abbiano
corrisposto un prezzo più basso del dovuto in ragione dell’omessa pubblicazione
dell’accordo, non è anzi da escludere che sia questa la strada più appetibile per i
danneggiati, anche perché presenterà minori difficoltà in punto di prova rispetto
all’azione di annullamento.123
Quanto appena detto sollecita un’ulteriore precisazione, preceduta
dall’avvertenza che in questa materia non risulta sempre agevole operare una netta
distinzione tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale nella prospettiva della
tutela degli azionisti-investitori124: mentre la responsabilità da insider trading è da
qualificare in linea generale come extracontrattuale 125, anche in considerazione del fatto
122
Sul fatto che il risarcimento ex art. 1440 c.c. sia volto ad attribuire alla vittima dell’illecito proprio le
migliori condizioni che questa avrebbe ottenuto in assenza della condotta scorretta perpetrata ai suoi
danni, v. tra gli altri SCODITTI, Regole di comportamento e regole di validità: i nuovi sviluppi della
responsabilità precontrattuale, nota a Cass. 29 settembre 2005, n. 19024, in Foro it., 2006, I, 1111;
GALLO, Responsabilità precontrattuale: il quantum, in Riv. dir. civ., 2004, I, 505; SCARPELLO, Il dolo
incidente: una fattispecie ‘determinante’ per i criteri di separazione degli illeciti, nota a Coll. Arb. 26
gennaio 1996, in Nuova giur. civ. comm., 1997, I, 654; in giurisprudenza, v. peraltro Cass. 29 marzo
1999, n. 2956, in Giur. it., 2000, II, 1192 ss., con nota di DALLA MASSARA, Dolo incidente: quantum
risarcitorio e natura della responsabilità, ibidem, 1192 ss.: tale pronuncia già affermava che la misura
indicata non esaurisce necessariamente il danno risarcibile, il quale piuttosto “deve estendersi agli altri
effetti, purché collegati da un rapporto rigorosamente conseguenziale e diretto tra condotta ed evento”
(ibidem, 1194).
123
Si noti per inciso che, ove gli alienanti che facciano valere la tutela ex art. 1440 c.c. per aver
contrattato direttamente con gli insiders abbiano altresì conservato una parte del loro originario pacchetto
azionario e perciò avrebbero dovuto comunque ricevere un’offerta pubblica di acquisto, potranno far
valere anche questa diversa forma di responsabilità con riferimento alla partecipazione tuttora detenuta.
124
Sul punto GIUDICI, La responsabilità, cit., 306, il quale osserva che la scelta può dipendere
dall’ottica in cui ci si pone, a seconda cioè che si dia maggior peso alla dimensione contrattuale o si metta
l’accento sulla qualifica di investitore (attuale o potenziale) del soggetto danneggiato; sulla necessità di
tutela degli azionisti, tanto nella veste di soci quanto in qualità di investitori, un cenno anche in STAGNO
D’ALCONTRES, Informazione dei soci e tutela degli azionisti di minoranza nelle società quotate, in
Banca, borsa, tit. cred., 1999, I, 320. Si veda, sotto questo profilo, l’acuta osservazione di DENOZZA, La
nozione di informazione privilegiata, cit., 597, il quale nota che “in questa prospettiva l’azionista, inteso
come un socio che partecipa con altri ad un’impresa di cui vuol condividere i successi, scompare. Questa
immagine viene sostituita da un’altra, quella dell’investitore che ha comprato azioni di una certa società,
ma non ha ancora deciso di venderle. Quella di azionista diventa qui la transeunte qualità che l’investitore
viene a ricoprire nel periodo intercorrente tra la decisione di acquistare e quella di vendere determinate
azioni.” L’A. precisa che ciò non elimina in radice la possibilità di conflitti tra azionisti interessati alla
diffusione di informazioni ed altri che vorrebbero mantenerle riservate: ma quest’ultimo è evidentemente
un profilo che esula dall’indagine imperniata sull’informazione circa l’esistenza di un patto parasociale,
data l’esistenza in questo caso di norme che impongono specificamente la disclosure. L’avvicinamento
tra le due specie di responsabilità era stata già notata, con riferimento alla responsabilità da informazioni
inesatte, da BUSNELLI, Itinerari europei nella “terra di nessuno tra contratto e fatto illecito”: la
responsabilità da informazioni inesatte, in Contr. e impr., 1991, 539 ss.
125
E’ da notare per inciso che il fatto di prospettare questo genere di responsabilità accanto a quella da
mancata OPA, che si è detto avere natura contrattuale, non involge un problema di concorso tra
responsabilità aquiliana e responsabilità da inadempimento (sui cui contorni cfr. ad es. CASTRONOVO,
Le due specie della responsabilità civile e il problema del concorso, in Europa e dir. priv., 2004, 69 ss.;
DE MATTEIS, Il cumulo di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale: una regola di formazione
giurisprudenziale, in Il risarcimento del danno contrattuale ed extracontrattuale, a cura di G. Visintini,
Milano, 1999, 399 ss.; SACCO, Concorso delle azioni contrattuale ed extracontrattuale, in Risarcimento
del danno contrattuale ed extracontrattuale, a cura di G. Visintini, Milano, 1984, 155 ss.). A ben
guardare, nella situazione descritta sono invero ravvisabili due diversi illeciti: la mancata promozione
dell’OPA obbligatoria e, in aggiunta (o meglio, ancor prima), l’omessa comunicazione di un patto
179
che, come si è rilevato, l’avvenuta stipulazione di contratti in borsa funziona (anziché
come elemento generatore di una vera e propria relazione negoziale, piuttosto) “come
meccanismo identificativo ex post del soggetto danneggiato”126, diverso discorso deve
valere per l’acquisto fuori borsa delle azioni da parte dei pattisti-insiders. Come si è
visto, l’omissione dell’informazione rilevante a beneficio della controparte contrattuale
può dare luogo all’annullamento del contratto ed al risarcimento degli eventuali danni,
nonché ad un’ipotesi di dolo incidente: tipici casi, questi, di responsabilità
precontrattuale.127 E’ noto che la giurisprudenza prevalente riconduce questa categoria
parasociale rilevante. E’ evidente, infatti, che le due fattispecie non debbono necessariamente
accompagnarsi e che, dunque, ciascuna di essere può sussistere in via del tutto autonoma.
126
Così MACRI’, Informazioni privilegiate, cit., 166; aggiunge l’A. che tale responsabilità deriva “da
violazione di norme poste in generale a tutela del mercato, in cui il contratto costituisce soltanto il
meccanismo di individuazione del legittimato all’azione risarcitoria di tipo aquiliano”. Per la natura
extracontrattuale della responsabilità civile dell’insider v. anche ROLFI, L’investitore, cit., 1650;
GIAVAZZI, op. cit., 121, la quale avverte che, in presenza dei relativi presupposti, si potrà agire per far
valere la specifica responsabilità civile da reato; nonché, in passato, MACCABRUNI, op. cit., 618 ss., il
quale avanzava anche l’idea della possibilità di operare una valutazione equitativa del danno; G.
SANTORO, op. cit., 677 ss., che individuava il fondamento della pretesa nel “combinato disposto degli
art. 185 c.p. e 2043 c.c.”. La tutela di un interesse giuridicamente rilevante degli operatori del mercato,
protetto dalle norme in questione, pare escludere che si versi in un’ipotesi di danno meramente
patrimoniale. Peraltro, si è osservato che a seguito della nota sentenza della Suprema Corte S. U. n.
500/1999, che ha affidato al giudice la “selezione degli interessi giuridicamente rilevanti” (parole della
Corte) ai fini della valutazione dell’ingiustizia del danno, “l’obiezione derivante dalla mera patrimonialità
del pregiudizio lamentato pare destinata a perdere gran parte del proprio mordente”: parole, queste, di
PERRONE, op. cit., 82-83. Né dovrebbero sorgere preoccupazioni di ordine sistematico per il fatto che in
tal modo si finirebbe per risarcire a titolo di responsabilità aquiliana quello che si presenta come un
mancato guadagno: si è evidenziato infatti che la “sempre maggiore attitudine dei beni a essere resi
funzionali oltre il puro godimento da parte del proprietario, e perciò capaci di incrementare il patrimonio
stesso” ha avuto come conseguenza che “il lucro cessante appunto non poteva non entrare nel fuoco della
risarcibilità anche della responsabilità extracontrattuale”: così CASTRONOVO, Le due specie, cit., 110.
Ciò è tanto più vero proprio nel caso in cui i beni in questione siano azioni di società. Ma in senso diverso
v. MAZZAMUTO, Spunti in tema di danno ingiusto e di danno meramente patrimoniale, in Europa e dir.
priv., 2008, I, 375-376. L’azione civile da insider trading assume i contorni di “tort claim” anche negli
Stati Uniti, giacché a tale categoria viene tradizionalmente ricondotta la tutela derivante dalla violazione
di un fiduciary duty: sul punto, per tutti e di recente, PRENTICE, op. cit., 373; nonché OLAZÁBAL, op.
cit., 339. Ma in ordine alle differenze che le due tipologie di azione conservano, specie in punto di prova
del nesso causale, cfr. in particolare FISCH, op. cit., 829 ss.
127
Per il rilievo che l’omissione dell’informazione da parte dell’insider costituisca negli scambi diretti
“violazione di un obbligo precontrattuale”, v. GIUDICI, La responsabilità, cit., 293, il quale tuttavia ne
trae l’ulteriore conclusione (non condivisibile) secondo cui, per converso, negli scambi in borsa l’attività
dell’insider non potrebbe dirsi “causalmente correlata alla decisione di chi ha inconsapevolmente
compravenduto all’insider”; pertanto, l’A. esclude che vi possa essere responsabilità civile dell’insider
nei confronti degli investitori pregiudicati (ibidem, 298). Non è difficile scorgere in questa impostazione
l’elevazione degli ostacoli di ordine pratico all’operatività del rimedio risarcitorio (di cui si è dato conto
in precedenza nel testo) al rango di elementi idonei a paralizzare, finanche sul piano sistematico, la
praticabilità di questa forma di tutela: con il risultato che rimarrebbero applicabili unicamente le sanzioni
di carattere pubblicistico. Sulla riconducibilità (anche) dell’ipotesi di cui all’art. 1440 c.c. alla categoria
della responsabilità precontrattuale v. CASTRONOVO, Vaga culpa, cit., 10; GALLO, Responsabilità
precontrattuale: la fattispecie, in Riv. dir. civ., 2004, I, 314 e 318; ID., Asimmetrie informative e doveri di
informazione, in Riv. dir. civ., 2007, 673; SCODITTI, op. cit., 1109, argomentando a partire dal
“principio di non interferenza fra regole di comportamento e regole di validità”. Anche la giurisprudenza
ammette ormai esplicitamente che un’ipotesi di responsabilità precontrattuale possa darsi anche a fronte
della conclusione di un contratto valido, qualificando l’art. 1337 c.c. alla stregua di una clausola generale:
v. in particolare Cass. 29 settembre 2005, n. 19024, pubblicata in Danno e resp., 2006, 25 ss.; in
Contratti, 2006, 446 ss.; in Corr. giur., 2006, 669 ss.; in Foro it., 2006, I, 1105 ss., con nota di
SCODITTI, cit., 1107 ss.; App. Venezia, 31 maggio 2001, n. 724, in Corr. giur., 2001, 1199 ss.,
180
alle regole operative della responsabilità aquiliana128, contrariamente all’opinione
dominante in dottrina129; quale che sia la soluzione che si preferisca in generale, ad ogni
modo, pare arduo predicare la natura extracontrattuale della responsabilità che sorge
nello specifico caso del dolo incidente: qualora esista un contratto valido (come appunto
commentata adesivamente da DALLA MASSARA, Sul risarcimento del danno da dolo incidente,
ibidem, 1202 ss. Conf. MERUZZI, La responsabilità precontrattuale tra regola di validità e regola di
condotta, in Contr. e impr., 2006, 946, per la constatazione che la violazione dell’art. 1337 c.c. “assume
rilievo non solo nel caso di rottura ingiustificata delle trattative (e, quindi, di mancata conclusione del
contratto) o di conclusione di un contratto invalido o comunque inefficace (art. 1338, 1398 c.c.), ma anche
quando il contratto posto in essere sia valido, e tuttavia pregiudizievole per la parte vittima del
comportamento scorretto (1440 c.c.).” Per l’opinione contraria v. D’AMICO, Regole di validità e di
comportamento nella formazione del contratto, in Riv. dir. civ., 2002, I, 41. Qualche dubbio in proposito
è stato espresso anche da SCARPELLO, op. cit., 654-655, sebbene partendo dall’osservazione che la
misura del risarcimento coincide con quella propria della responsabilità contrattuale: la perplessità
dell’A., peraltro, può essere dissipata ove si accolga l’idea secondo cui il regime operativo della
responsabilità precontrattuale deve essere, appunto, quello della responsabilità da inadempimento. Né
dovrebbero residuare dubbi in merito alla risarcibilità anche del lucro cessante nelle varie figure di
responsabilità precontrattuale: in giurisprudenza, Cass. 30 luglio 2004, n. 14539, in Foro it., 2004, I, 3009
ss., con nota di PARDOLESI, Interesse negativo e responsabilità precontrattuale: di paradossi e
diacronie, ibidem, 3010 ss.; App. Venezia, 31 maggio 2001, cit., 1201; in dottrina, per tutti, TURCO,
L’interesse negativo nella culpa in contrahendo, in Riv. dir. civ., 2007, 175.; GALLO, Responsabilità
precontrattuale: il quantum, cit., 492 ss., il quale ritiene inoltre che in tal modo il risarcimento finisca per
inglobare anche l’interesse positivo (che dunque viene fatto coincidere dall’A. con il lucro cessante:
ibidem, 495). In realtà, è forse più corretto dire che il lucro cessante rappresenti una voce di danno
ulteriore rispetto alla prestazione contrattuale venuta meno, corrispondente cioè “alle utilità che da essa si
sarebbero ricavate”: così DI MAJO, Discorso generale sulla responsabilità civile, in Diritto civile, diretto
da N. Lipari e P. Rescigno, vol. IV, t. 3, Attuazione e tutela dei diritti. La responsabilità e il danno,
coordinato da A. Zoppini, Milano, 2009, 47.
128
Cfr. ad es. Cass. 7 febbraio 2006, n. 2525, in Giust. civ. Mass., 2006, 2; Cass. 5 agosto 2004, n. 15040,
in Giust. civ., 2005, I, 669 ss.; Cass., Sez. Un., 26 giugno 2003, n. 10160, in Foro it.., 2004, I, 2206 ss.
Ma in senso diverso, da ultimo e con riferimento ad un caso di responsabilità precontrattuale della
pubblica amministrazione, cfr. Cass. 20 dicembre 2011, n. 27648, in Contratti, 2012, 235 ss. con
commento di DELLA NEGRA, Culpa in contrahendo, contatto sociale e modelli di responsabilità,
ibidem, 238 ss.
129
Per tutti, CASTRONOVO, Vaga culpa, cit., 20; ID., La nuova responsabilità civile, Milano, 2006,
584-585, ove il rilievo che la violazione dell’obbligo di buona fede “è già di per sé contrarietà a una
regola di condotta, che non ha bisogno della colpa per qualificare come antigiuridica la condotta stessa”;
MERUZZI, Responsabilità, cit., 2602, ove ulteriori riferimenti; ID., La responsabilità, cit., 973-974, per
l’argomento che l’instaurazione di una trattativa dà vita ad un’obbligazione in conformità
dell’ordinamento giuridico secondo quanto dispone l’art. 1173 c.c., avente come contenuto “il dovere
giuridico di comportarsi secondo buona fede”; TURCO, L’interesse, cit., 193, il quale aggiunge
l’osservazione che l’art. 1337 c.c. non avrebbe ragione di esistere quale norma dotata di autonomia se il
suo contenuto precettivo fosse già ricompreso in quello dell’art. 2043 c.c. Proprio per tale motivo non è
condivisibile la contraria opinione di GALLO, Responsabilità precontrattuale: la fattispecie, cit., 299,
che opina nel senso della natura extracontrattuale della responsabilità in discorso; analog. DELLA
NEGRA, op. cit., 244. Ma v., per una posizione intermedia, TUCCI, La violazione, cit., 122, secondo cui
“la responsabilità precontrattuale può avere natura aquiliana o contrattuale, a seconda del tipo di interesse,
di volta in volta, leso dall’altrui condotta; interesse che, a sua volta, orienta l’interprete nella valutazione
del danno risarcibile”. E’ anche vero, però, che quest’ultimo A. fa questa affermazione nello studio delle
conseguenze della violazione dell’obbligo di OPA, sostenendo che anche ove si volesse qualificare la
responsabilità dei mancati offerenti come precontrattuale non verrebbe meno la possibilità di ritenere
risarcibile anche il c.d. interesse positivo: in realtà, con la nozione di “responsabilità precontrattuale” ci si
dovrebbe riferire unicamente alle ipotesi in cui mancano obblighi inerenti alla conclusione del futuro (ed
eventuale) contratto; nella disciplina dell’OPA obbligatoria, invece, la legge impone l’obbligo di
formulare l’offerta a determinate condizioni, sicché viene meno la piena libertà negoziale di coloro che,
appunto, sono tenuti al lancio dell’offerta. In caso di violazione, come già si è detto, sorgerà perciò una
responsabilità di tipo contrattuale.
181
accade nell’ipotesi in esame), sembra corretto ammettere che il risarcimento debba
commisurarsi alle migliori condizioni contrattuali che la vittima del raggiro avrebbe
ottenuto in assenza della condotta decettiva della controparte.130 Se così è, il tipo di
danno risarcibile nel caso di responsabilità da dolo incidente finirà per coincidere con
quello che possono lamentare coloro i quali hanno alienato sul mercato regolamentato
azioni della società nell’intervallo di tempo rilevante: esso, lo si ribadisce, sarà pari alla
differenza tra il prezzo che avrebbe dovuto essere pagato per quelle azioni in una
130
In questo senso anche MERUZZI, Responsabilità, cit., 2603-2604. La conclusione proposta nel testo
può essere argomentata in due diversi modi. Innanzitutto, a chi ritiene che quello così descritto
rappresenti il risarcimento del c.d. interesse positivo (anziché, come dovrebbe avvenire in caso di
responsabilità precontrattuale, del c.d. interesse negativo), si può ribattere che la categoria dell’interesse
negativo venne forgiata già dal suo “scopritore” tedesco Jhering con riferimento (solamente) a quella che
è la tradizionale ipotesi di responsabilità precontrattuale, ossia la conclusione di un contratto invalido (cui
si aggiunse poi nell’elaborazione dottrinale la rottura ingiustificata e contraria a buona fede delle trattative
negoziali): v. sul punto TURCO, L’interesse, cit., 170; GALLO, Responsabilità precontrattuale: il
quantum, cit., 487; nonché, espressamente, App. Venezia, 31 maggio 2001, cit., 1201, ove si legge che il
criterio dell’interesse negativo è “correttamente utilizzabile solo per le evenienze in cui il contratto non
sia stato concluso, ovvero, pur perfezionato, risulti invalido.” Soltanto in seguito il nostro codice civile ha
contemplato, in aggiunta, la diversa ipotesi della responsabilità da dolo incidente (art. 1440 c.c.),
ricondotta ormai senza troppe esitazioni - come si è visto - alla responsabilità precontrattuale: essa, però,
sembra richiedere un trattamento parzialmente differente rispetto agli altri due casi menzionati. E’
opportuno ed interessante richiamare nuovamente, in proposito, Cass. n. 19024/2005, la quale ha
affermato che nell’ipotesi di cui all’art. 1440 c.c. “il risarcimento, pur non potendo essere commisurato al
pregiudizio derivante dalla mancata esecuzione del contratto posto in essere (il c.d. interesse positivo),
non può neppure essere determinato [...] avendo riguardo all’interesse della parte vittima del
comportamento doloso (o, comunque, non conforme a buona fede) a non essere coinvolta nelle trattative,
per la decisiva ragione che, in questo caso, il contratto è stato validamente concluso [...] Il risarcimento, in
detta ipotesi, deve essere ragguagliato al ‘minor vantaggio o al maggior aggravio economico’ determinato
dal contegno sleale di una delle parti (Cass. 11 luglio 1976, n. 2840; 16 agosto 1990, n. 8318), salvo la
prova di ulteriori danni che risultino collegati a tale comportamento da un rapporto rigorosamente
consequenziale e diretto [...]”. Come si è osservato, da queste parole traspare la difficoltà della Corte nel
muoversi tra le strettoie delle categorie concettuali tradizionali, ossia tra l’esigenza di riconoscere la
risarcibilità del danno nella misura di cui si è detto lasciandosi alle spalle il limite posto dall’interesse
negativo, da un lato, e quella di evitare un espresso ricorso alla nozione di interesse positivo, dall’altro:
MERUZZI, La responsabilità, cit., 963. Il passo riportato può essere d’aiuto per illustrare pure il secondo
dei due possibili percorsi argomentativi cui si è accennato poc’anzi: anche ove si volesse continuare, cioè,
ad accogliere l’impostazione che proclama (in via forse tralatizia) la risarcibilità del solo interesse
negativo in tutti i casi di responsabilità precontrattuale (per tale opinione v. CASTRONOVO, Vaga culpa,
cit., 30 ss.), è possibile osservare che tale formula dovrebbe per la verità assumere un valore puramente
descrittivo (traducibile cioè nell’interesse a non intraprendere una trattativa che ha condotto ad un esito
variamente pregiudizievole), senza che da essa sia possibile trarre, sul piano dogmatico, conclusioni
automatiche ed univoche circa la commisurazione del danno risarcibile (pur generalmente individuato,
come è noto, nelle spese sostenute per la conduzione della trattativa e nel lucro cessante consistente nella
perdita di opportunità contrattuali alternative): in tal senso v. di nuovo GALLO, Responsabilità
precontrattuale: il quantum, cit., 489, e TURCO, L’interesse, cit., 170, per l’ammonimento che il
concetto di interesse negativo non deve essere inteso quale sinonimo di danno; DE MAURO FORTINGUERRA, La responsabilità precontrattuale, Padova, 2002, 298; MERUZZI, op. ult. cit., 966
ss., il quale rileva anche che se la condotta decettiva porta “a concludere non un contratto diverso da
quello che si sarebbe altrimenti stipulato, ma lo stesso contratto, sebbene a condizioni diverse ed
economicamente peggiorative, l’interesse negativo è dato dalla differenza tra l’interesse positivo
realizzato e l’interesse positivo che si sarebbe ragionevolmente realizzato in assenza della scorrettezza”
(ibidem, 969). In ordine alla circostanza che nell’ipotesi in esame interesse positivo e interesse negativo
finiscano per coincidere v. TURCO, L’interesse, cit., 195; e già ID., Interesse negativo e responsabilità
precontrattuale, Milano, 1990, spec. 700 ss.; BIANCA, Diritto civile, III, Il contratto, Milano, 1998, 628
(“il risarcimento del danno si adegua ad un criterio analogo a quello valevole per l’inadempimento”).
Secondo DALLA MASSARA, Dolo incidente, cit., 1193, la responsabilità da dolo incidente finisce per
reclamare proprio il risarcimento dell’interesse positivo.
182
situazione di piena e corretta informazione e quello effettivamente corrisposto dagli
autori della condotta decettiva (o anche da altri, ignari, acquirenti sul mercato).131
Un’ulteriore possibilità di far valere il rimedio dell’annullamento per dolo
potrebbe prospettarsi con riguardo alla diversa situazione di chi, dopo aver acquistato
azioni di una società, venga a conoscenza dell’esistenza di un patto parasociale rilevante
in precedenza mantenuto nascosto.132 Naturalmente, la questione va posta con
riferimento a casi diversi da quello in cui ad aver alienato le azioni sia un soggetto che
fosse parte dell’accordo parasociale, perché in tale situazione non vi sarebbero dubbi
sull’applicabilità della tutela invalidatoria (salvo, in base a quanto si è detto, che la
compravendita sia avvenuta in maniera “anonima” all’interno del mercato
regolamentato). L’interrogativo deve, allora, essere qui apprezzato in una prospettiva
diversa, allorché cioè l’alienante non sia parte dell’accordo parasociale. Anche in questa
ipotesi va esclusa la tutela contrattuale se l’acquisto è avvenuto in borsa, salvo
eventualmente il risarcimento dei danni; in caso contrario, verrà in gioco la regola che
disciplina il raggiro perpetrato dal terzo (art. 1439, comma 2, c.c.), la quale, come è
noto, stabilisce che il contratto può essere annullato se il contraente che ne ha tratto
vantaggio era a conoscenza della condotta decettiva del terzo stesso (nel nostro caso,
dell’esistenza di patti occulti).133
6. I patti parasociali occulti come ipotesi di aggiotaggio.
Posto che, come si è cercato di dimostrare, l’omessa informativa sulla stipula di
un patto parasociale può ritenersi riconducibile alla condotta di insider trading e alla
relativa responsabilità (non soltanto penale, ma anche) civile, la mancata disclosure di
tali accordi è stata invece espressamente considerata, da qualche autore e dalla
giurisprudenza, integrativa del reato di aggiotaggio, disciplinato oggi da due diverse
disposizioni, l’art. 2367 c.c. e l’art. 185 T.U.F. (quest’ultimo rubricato “manipolazione
del mercato”).134 Entrambe le norme hanno riguardo alla “sensibile alterazione del
131
Diverso è, lo si ripete, il danno risarcibile nel caso in cui il soggetto pregiudicato ottenga
l’annullamento del contratto di alienazione delle azioni stipulato fuori borsa: dal momento che
l’operazione negoziale viene meno con effetto retroattivo e l’originario alienante torna in possesso delle
azioni (ove possibile, naturalmente), il risarcimento sarà commisurato - secondo le regole generali - al c.d.
interesse negativo.
132
Uno spunto interessante in tale direzione era offerto, sebbene implicitamente, da COTTINO, Il D. L.
24 febbraio 1998, n. 58, cit., 1297, ove affermava che il vantaggio offerto dalla disciplina del T.U.F. è
“per il risparmiatore e per chi non è ancora socio, di sapere, allorché acquista azioni di una società
quotata, in qual misura essa sia avvolta e condizionata da patti parasociali accettandone con l’acquisto i
corollari.”
133
Sul fatto che l’annullamento del contratto può condurre altresì alla responsabilità aquiliana del terzo v.
PERRONE, op. cit., 171 (nt. 48, ove qualche ulteriore riferimento). E’ bene forse aggiungere che, in base
a quanto detto nel testo, difficilmente potrebbe prospettarsi un’ipotesi di annullamento del contratto per
errore dell’acquirente riconoscibile dall’alienante: se la condotta di quest’ultimo è colorata da dolo, essa
varrà ad assorbire la rilevanza dell’errore; in caso contrario (ove, cioè, anche l’alienante non sia a
conoscenza del patto parasociale) è probabile che l’errore non possa considerarsi riconoscibile.
134
Per la giurisprudenza, il riferimento è ad App. Milano, 13 giugno 2012, cit., 104 ss.; ma anche alla
distinta pronuncia della stessa Corte d’Appello di Milano dell’11 giugno 2012 sul “caso Antonveneta”, 17
ss. e 185; nonché a Trib. Milano, 28 ottobre 2011, cit. Sul reato di aggiotaggio e di manipolazione del
183
prezzo di strumenti finanziari” determinata da chiunque “diffonde notizie false, ovvero
pone in essere operazioni simulate o altri artifici”; la disposizione del T.U.F., però,
opera soltanto con riferimento agli strumenti finanziari quotati.
Ebbene, si è ritenuto che l’omissione dell’informativa riguardante l’esistenza dei
patti parasociali possa costituire uno degli “altri artifici”, contemplati dalle due norme in
via residuale e tali da disegnare la fattispecie criminosa come reato a forma libera.135 Si
è detto infatti che devono ritenersi artifici tutti “gli espedienti operativi diversi dalla
diffusione di informazioni fallaci”, essendo sufficiente che si tratti di “mezzi di
induzione di altrui comportamenti sul mercato”136.
Questa tesi fa leva sostanzialmente su due percorsi argomentativi 137: in prima
battuta, si osserva che il bene giuridico tutelato dalle norme in materia di aggiotaggio e
dagli obblighi di cui agli artt. 106 e 122 T.U.F. è il medesimo, ossia la trasparenza e il
corretto andamento del mercato finanziario138; secondariamente, si evidenzia che la
giurisprudenza di legittimità si è espressa in generale nel senso che l’artifizio ed il
raggiro possono consistere anche in un comportamento reticente, ossia nel silenzio
serbato a fronte di un obbligo di informazione previsto anche in una norma
extrapenale139. Se ne inferisce, dunque, che la condotta posta in essere in violazione
mercato si vedano, senza pretesa di completezza, ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Leggi
complementari, I, a cura di C. F. Grosso, Milano, 2007, 501 ss.; MUSCO, I nuovi reati societari, Milano,
2007; MELCHIONDA, Aggiotaggio e manipolazione del mercato, in I reati societari, a cura di A. Lanzi
e A. Cadoppi, Padova, 2007, 240 ss.; A. ROSSI, Le fattispecie penali di aggiotaggio e manipolazione del
mercato (artt. 2367 c.c e 185 d. lgs. 24 febbraio 1998, n. 58): problemi e prospettive, in Studi in onore di
Giorgio Marinucci, a cura di E. Dolcini e C. E. Paliero, Milano, 2006, III, 2637 ss.; F. MUCCIARELLI,
Aggiotaggio, in Il nuovo diritto penale delle società. D. lgs. 11 aprile 2002, n. 61, a cura di A. Alessandri,
Milano, 2002, 421 ss.; SEMINARA, L’aggiotaggio, in I nuovi reati societari: diritto e processo, a cura di
A. Giarda e S. Seminara, Padova, 2002, 543 ss.
135
La tesi è stata propugnata espressamente da ACCINNI, Opa obbligatoria e condotta “artificiosa” nel
reato di aggiotaggio c.d. “manipolativo”, in Riv. soc., 2006, 70 ss.; da MELILLO, op. cit., 150 ss.;
nonché da MAGRO, op. cit., 63 ss. In giurisprudenza, nello stesso senso si è espressa la già citata
sentenza emessa dal Tribunale di Milano nel caso relativo alla scalata di Banca Antonveneta (pagg. 1415), la quale ha fatto rientrare la mancata comunicazione di patti ex art. 122 T.U.F. nella fattispecie
dell’aggiotaggio (“altri artifici”), rilevando che tale informativa è “determinante per orientare le scelte
degli investitori” e di impatto immediato “sulle modalità e sui prezzi in cui possono avvenire gli scambi
dei titoli”. Più cauto sul punto, invece, MACRI’, Informazioni privilegiate, cit., 128 (nt. 127). Sulla natura
a forma libera del reato di aggiotaggio, v. in particolare A. ROSSI, op. cit., 2663.
136
MUCCIARELLI, Aggiotaggio, cit., 429. Occorre osservare anche che il CESR (Committee of
European Securities Regulators) ha elaborato delle linee guida di applicazione inerenti alle possibili
ipotesi di manipolazione del mercato (v. sul punto ROMOLOTTI, Recepimento della direttiva “Market
abuse” e nuove linee guida del CESR, in Società, 2005, 1309 ss.); in proposito, v. anche la
Comunicazione della Consob n. 5078692 del 29 novembre 2005, in www.consob.it. Si è escluso invece
che possano rilevare come operazioni simulate le omesse pubblicazioni dei patti parasociali: cfr. A.
ROSSI, op. cit., 2663, secondo la quale “è imprescindibile la ‘pubblicità’ dell’operazione secondo le
regole del mercato, posto che soltanto così tali operazioni possono essere in concreto idonee ad incidere
sull’andamento delle quotazioni”. Tale conclusione è in linea con quanto si è detto nel capitolo
precedente circa la difficoltà di pensare al fenomeno simulatorio senza la creazione di una situazione di
apparenza. E’ anche vero peraltro che, nel momento in cui l’omessa informativa circa l’esistenza di un
patto parasociale viene considerata rilevante nella forma di ulteriore artificio, la questione assume qui una
portata meramente classificatoria e nominalistica.
137
Per i quali v. nuovamente ACCINNI, op. cit., 70 ss.
138
Di interesse alla “stabilità del mercato” ha parlato anche A. ROSSI, op. cit., 2653.
139
E. v, in tal senso, Cass. pen., 13 novembre 1997, n. 870, in Cass. pen., 1999, 1140.
184
degli artt. 106, 109 e 122 T.U.F sia idonea ad incidere in maniera patologica sul prezzo
degli strumenti finanziari140.
A ben guardare, per la verità, l’ipotesi più piana di integrazione del delitto di
aggiotaggio (manipolativo) dovrebbe ritenersi proprio quella della semplice violazione
della norma sulla pubblicità, che si verifica cioè allorché sia riscontrabile (in presenza,
naturalmente, degli altri elementi contemplati dalla norma penale) l’omessa
comunicazione ai sensi dell’art. 122 T.U.F. (e forse anche dell’art. 2341-ter c.c.);
dunque, anche qualora non ricorrano i presupposti per il lancio dell’OPA
obbligatoria.141 In effetti, è stata ipotizzata in dottrina la possibilità dell’autonoma
rilevanza della violazione della disposizione in tema di trasparenza.142 Non è da
escludere, in quest’ottica, che anche un patto parasociale “di minoranza” non
comunicato possa in concreto, in ragione del particolare contesto in cui si situa la
condotta, determinare un’alterazione del prezzo di strumenti finanziari; già si è rilevato,
del resto, che l’omessa comunicazione di un patto parasociale sembra certamente idonea
a determinare scelte di investimento nella società da parte dei terzi, proprio in ragione di
quelli che sono gli assetti di potere in essa esistenti; sembra pertanto soddisfatto il
requisito della rilevanza generale della notizia non diffusa.143 Data la struttura a forma
libera dell’illecito, ad ogni modo, pare opportuno non eccedere in categorizzazioni che
rischierebbero di estromettere ingiustificatamente dall’alveo della disposizione condotte
in grado di ledere i beni giuridici tutelati dalle norme144.
Quanto al patto parasociale occulto che conduca altresì alla realizzazione dei
presupposti dell’obbligo di promozione di un’OPA, se quanto detto in precedenza è
corretto bisognerebbe desumerne l’applicabilità dell’art. 184 T.U.F. in tema di abuso di
informazioni privilegiate piuttosto che dell’art. 185 T.U.F.; in quest’ultima
disposizione, come si è visto, la condotta reticente in grado di determinare
un’alterazione dei prezzi è di per sé sufficiente ad integrare l’elemento oggettivo della
condotta illecita (cui deve affiancarsi, naturalmente, l’elemento soggettivo), mentre
l’acquisto di azioni che si accompagni ad un accordo tra soci mantenuto segreto sembra
140
Ancora ACCINNI, op. cit., 74.
Contra SCOLETTA, Osservatorio di giurisprudenza penale dell’impresa, in Società, 2012, 339, il
quale dubita del fatto che l’artificio meramente omissivo possa integrare la fattispecie penale, sulla base
del rilievo che anch’esso “si colloca in un ben più ampio contesto operativo che costituisce il fatto
unitario di aggiotaggio penalmente rilevante”.
142
Di nuovo ACCINNI, op. cit., 73. Più in generale, ha adombrato la possibilità che la violazione di
norme di trasparenza nel mercato secondario integri la fattispecie dell’aggiotaggio PERRONE, op. cit.,
156 (testo e nt. 6).
143
Come un illustre autore ha osservato, ai fini della configurabilità del delitto di aggiotaggio, è
necessario che vengano in considerazione operazioni rivolte al mercato, non bastando un’informazione
distorta concernente lo specifico rapporto con una controparte contrattuale: CRESPI, Manipolazione del
mercato e manipolazione di norme incriminatrici, in Banca, borsa, tit. cred., 2009, I, 117 ss.; analog. ID.,
Le difficili intese sull’aggiotaggio informativo, in Banca, borsa, tit. cred., 2010, I, 253, ove l’A. nega la
configurabilità di condotte manipolative “se non si dimostra che l’andamento di quel titolo altro non è che
il previsto risultato di un intenzionale turbamento del mercato o di un altrettanto intenzionale suo uso
asservito alla realizzazione dei propri scopi”; l’A. nega altresì che il mendacio o la reticenza a fronte di
una richiesta di informazione avanzata dalla Consob ex art. 114 T.U.F. possa costituire di per sé una
manipolazione del mercato, specialmente se perpetrati per un interesse prettamente individuale ed in
assenza dell’intento di operare una turbativa del mercato.
144
A. ROSSI, op. cit., 2662, ha evidenziato “l’impossibilità concreta di una precisa catalogazione astratta
delle operazioni sospette”.
141
185
avvicinarsi maggiormente, come si è cercato di dimostrare, ai connotati tipici
dell’insider trading.145 Se così è, a poco serve affermare che “l’informazione idonea ad
integrare la condotta manipolativa è necessariamente diversa da quella rilevante ai fini
dell’insider trading”146: non sembra sia questo il discrimine tra le due fattispecie, posto
che l’esistenza di un patto non comunicato è un’informazione privilegiata di cui sono in
possesso - in linea di principio e in assenza di pubblicazione - i soli aderenti.147
Peraltro, proprio nel caso in cui siano riscontrabili i presupposti dell’OPA
obbligatoria, non è da escludere che sul terreno prettamente civilistico la distinzione tra
le due figure di reato perda gran parte della sua importanza, atteso che anche con
riferimento alla fattispecie della manipolazione del mercato il pregiudizio patito dalle
vittime della condotta illecita tende a risolversi, come la norma stessa suggerisce, in una
“sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari”. Se così è, non pare che il
problema del danno risarcibile, eventualmente in aggiunta a quello determinato dalla
mancata promozione dell’offerta pubblica di acquisto obbligatoria, venga a configurarsi
in termini differenti da quelli in precedenza descritti (in particolare allorquando,
appunto, i pattisti occulti abbiano proceduto ad acquisti di azioni della società tali da
determinare il superamento, anche congiunto, della soglia rilevante).148
Da ultimo, può essere opportuno rilevare che secondo l’art. 184 T.U.F. la
compravendita di azioni rilevante ai fini dell’insider trading può essere posta in essere
anche “indirettamente”, cioè per interposta persona o tramite una società controllata.
L’osservazione consente di applicare l’analisi testé svolta alle ipotesi, esaminate nel
145
Questo pare essere il criterio più sicuro per sceverare in concreto i casi in cui la condotta debba essere
ricondotta nell’alveo dell’art. 184 piuttosto che dell’art. 185 T.U.F.: sul punto ANTOLISEI, op. cit., 594,
il quale osserva che l’insider trading costituisce un “reato istantaneo”, che richiede il compimento delle
condotte tipiche indicate dal primo comma dell’art. 184 T.U.F.; analog. NAPOLEONI, op. cit., 596, per il
rilievo che il principio di materialità del reato esige una vera e propria condotta attiva dell’insider che si
aggiunga all’omessa disclosure, essendo “irrilevante il cosiddetto insider non trading”. Vale forse la pena
notare che, secondo l’A. che più diffusamente ha argomentato la correlazione tra patti parasociali occulti
e aggiotaggio, se si verificano i presupposti dell’OPA obbligatoria non sarà possibile sostenere che
“l’eventuale ‘concerto’ non sarebbe inteso ad incidere sui prezzi delle azioni” (ACCINNI, op. cit., 75):
conclusione, questa, in linea con quanto sostenuto nel capitolo precedente riguardo all’obbligo di
promozione dell’OPA, là dove si è detto che non può ritenersi necessaria la prova dell’intenzione di agire
di concerto, bastando la prova della sussistenza del patto parasociale e dell’effettuazione di acquisti di
azioni tali da determinare il superamento delle soglie rilevanti. Sulla distinzione tra insider trading e
manipolazione del mercato si era soffermato, in passato, anche CRESPI, Insider trading e frode sul
mercato dei valori mobiliari, in Riv. soc., 1991, 1673 ss. e spec. 1676 ss.
146
Sono le parole di LUNGHINI, Manipolazione del mercato come difesa dell’impresa?, in Banca,
borsa, tit. cred., 2010, I, 241.
147
Questa impostazione sembra confortata dall’osservazione che “nel caso degli azionisti, avrà rilievo
solo ed esclusivamente l’utilizzo di corporate informations (vale a dire le informazioni specificamente
attinenti la società della quale l’insider è azionista), mentre rimarranno fuori dall’ambito punitivo le c.d
market informations (informazioni di mercato più in generale): ciò è deducibile dal testo della legge,
laddove limita la punibilità all’ipotesi in cui la partecipazione sia quella al ‘capitale dell’emittente’”: così
ANTOLISEI, op. cit., 589.
148
Si veda in proposito quanto rilevato da App. Milano, 13 giugno 2012, cit., a pag. 104, ove la Corte,
qualificando la mancata OPA da concerto occulto quale ipotesi di aggiotaggio, osserva (coerentemente a
quanto già rilevato nel corso della trattazione che precede) che la comunicazione del patto occulto
“avrebbe obbligato i paciscenti a lanciare un’OPA, la cui elusione aveva appunto lasciato i prezzi ad un
livello più basso di quello che l’OPA stessa avrebbe determinato” (corsivo aggiunto).
186
capitolo precedente, in cui il patto parasociale occulto coinvolga una pluralità di
fiducianti o, appunto, i soci di una holding che controlla una società quotata.149
7. Patti parasociali occulti e (semplice) responsabilità per omessa
informazione.
Se in presenza dei presupposti dell’OPA obbligatoria la riconducibilità della
condotta reticente dei pattisti alla fattispecie dell’insider trading piuttosto che a quella
dell’aggiotaggio non dovrebbe comportare, sotto il profilo civilistico, significative
divergenze applicative, l’aver adombrato poc’anzi una possibile responsabilità civile dei
pattisti anche in mancanza di acquisti di azioni rilevanti per l’art. 109 T.U.F. dischiude
un’ulteriore prospettiva civilistica: si tratta, appunto, della configurabilità di una
responsabilità per mancata disclosure di informazioni, concepita come ipotesi distinta
da quella per insider trading o che comunque determini altresì l’integrazione dei
requisiti dell’obbligo di lancio di un’offerta pubblica. Sin qui, del resto, si sono presi in
esame i casi di responsabilità risarcitoria che potrebbero affiancarsi o comunque
interferire con la responsabilità da mancata OPA; non può escludersi, tuttavia, che taluni
soggetti subiscano un pregiudizio per il solo fatto di non aver potuto avere contezza
dell’esistenza di un patto parasociale che avrebbe dovuto essere pubblicato.
Il discorso, così impostato, si può a questo punto riferire anche alle società
aperte al mercato ma non quotate e, dunque, all’inadempimento degli obblighi
pubblicitari previsti dall’art. 2341-ter c.c., oltre che di quelli di cui all’art. 122 T.U.F. Il
richiamo alla disciplina codicistica introduce però nuovamente la distinzione di cui si è
detto nel primo capitolo. Mentre per le società che fanno ricorso al mercato del capitale
di rischio occorrerà che si tratti di patti parasociali idonei a stabilizzare gli assetti
proprietari o il governo della società, ogni patto rientrante nelle tipologie descritte
dall’art. 122 T.U.F. dovrebbe, come si è detto, costituire oggetto di comunicazione e di
pubblicazione (se raccoglie una partecipazione almeno pari al due per cento del
capitale) nei modi normativamente stabiliti. L’idoneità dell’omessa comunicazione di
un accordo parasociale rilevante per il T.U.F. ad essere fonte di danno per alcuni
soggetti operanti sul mercato dipenderà probabilmente dalla percentuale di capitale in
esso coinvolta, ma si tratta di una valutazione che dovrà essere effettuata in concreto e
che impone di evitare ogni ulteriore considerazione generalizzante sul punto.
Più in particolare, si è ritenuto in dottrina che l’omessa comunicazione di
informazioni privilegiate di cui all’art. 114 T.U.F. dia luogo ad una responsabilità di
natura extracontrattuale nei confronti degli investitori danneggiati per aver contrattato
149
Un cenno in NAPOLEONI, op. cit., 596; nonché in RACUGNO, Internal dealing, cit., 396. Un indice
normativo nel senso indicato nel testo si rinviene del resto nel comma 7 dell’art. 114 T.U.F., il quale
prevede che “chiunque detenga azioni in misura almeno pari al 10 per cento del capitale sociale, nonché
ogni altro soggetto che controlla l’emittente quotato, devono comunicare alla Consob e al pubblico le
operazioni, aventi ad oggetto azioni emesse dall’emittente o altri strumenti finanziari ad esse collegati, da
loro effettuate, anche per interposta persona” (corsivo ovviamente aggiunto).
187
“sulla scorta di un quadro informativo insufficiente”.150 Il fondamento di una
responsabilità così configurata sarebbe la violazione di una norma volta a proteggere
l’interesse giuridicamente rilevante di soggetti non previamente determinabili 151,
circostanza, quest’ultima, che impedirebbe di rintracciare l’esistenza di una vera e
propria obbligazione, possibile fonte di responsabilità contrattuale.
Se è vero, come si è visto, che l’omessa pubblicizzazione di un patto parasociale
rilevante è assimilabile alla mancata comunicazione di un’informazione privilegiata sì
come individuata dagli artt. 114 e 181 T.U.F., allora la predetta ricostruzione può essere
estesa altresì a tale ipotesi (nella quale, cioè, non vi sia anche un trading di azioni),
sebbene in questo caso i soggetti responsabili della violazione debbano considerarsi in
150
MACRI’, Informazioni privilegiate, cit., 115 ss. (a pag. 119 il virgolettato). Per la ricostruzione in
termini di responsabilità extracontrattuale si erano già espressi in precedenza PERRONE, op. cit., 162 ss.;
PINARDI, La responsabilità per danni da informazione nel mercato finanziario, in Nuova giur. civ.
comm., 2002, II, 362. Negli Stati Uniti, la giurisprudenza tende ad escludere un’azione di danni da parte
di singoli investitori danneggiati semplicemente sulla base della mancata disclosure di fatti rilevanti ai
sensi della Section 13(d): per un verso, si è affermato che un risarcimento sarebbe ammissibile (solo) ai
sensi della Section 18(a) del SEA, che richiede altresì la prova dell’affidamento [cfr. in tal senso, tra le
altre, Motient Corp. v. Dondero, 529 F.3d 532 (5th Circ. 2008); Kamerman v. Steinberg, 891 F.2d 424
(2d Cir. 1989); Rubin v. Posner, 701 F. Supp. 1041 (D. Del. 1988)]; in dottrina CHOI-PRITCHARD, op.
cit., 765; HAZEN, op. cit., 88; ma il punto non è pacifico: v. Edelson v. Ch’ien, 405 F.3d 620 (7h Cir.
2005), secondo cui esiste un’azione privata ai sensi della Section 13(d), ma “only in the context of a
tender offer or other contest for control”; Deneau v. Amtel, (1980 Transfer Binder) Fed. Sec. L. Rep.
(CCH) § 97,645 (S.D.N.Y. 1980). Per altro verso, si preferisce ammettere che i singoli investitori abbiano
il diritto di pretendere unicamente un’informazione correttiva: v. BROWN et al., op. cit., § 2.04[D], 2-44;
LEVY, op. cit., 5-44. Una posizione diversa è stata però assunta dalla Corte Suprema nel caso Rondeau v.
Mosinee Paper Corp., 422 U.S. 49 (1975), allorché essa ebbe a respingere, in base alle circostanze
concrete, la domanda della società di inibire l’esercizio del voto o ulteriori acquisti da parte dell’autore
della violazione, ma affermò che un’azione di danni dovrebbe essere riconosciuta agli shareholders
qualora vendessero ad un prezzo depresso a causa della mancata disclosure di cui alla Section 13(d).
Anche in Standard Financial Inc. v. La Salle/Kross Partners, L.P., cit., la Corte affermò che la mancata
disclosure ai sensi della Section 13(d) può causare un “irreparable harm to shareholders and investing
public”, ma si limitò in tal caso ad imporre una disclosure correttiva e l’astensione da ulteriori acquisti o
alienazioni di titoli per un breve arco di tempo, proprio in base all’argomento che ciò sarebbe stato
sufficiente ad evitare in concreto un “irreparable harm”. Si vedano anche, più di recente, Bender v.
Jordan, 439 F. Supp. 2d 139, 160 (D. D. C. 2006); Dow Chemical Securities Bhopal Litigation, [20002001 Transfer Binder] Fed. Sec. L. Rep. (CCH), § 95,586 [S.D.N.Y.] ed ivi l’affermazione che la Section
13(d) non offre viceversa alcun rimedio agli azionisti della società acquirente (offerente). Comunque, è
pacifico che vi sia un’azione di danni a disposizione degli investitori qualora essi abbiano negoziato
azioni nel periodo in cui la mancata disclosure è perdurata: la pretesa si fonderà non solo e non tanto sulla
violazione della Section 13(d), ma anche e soprattutto sulla violazione della Rule 10b-5: sul punto
COFFEE Jr. et al., op. cit., 751; HAZEN, op. cit., 89; in giurisprudenza Phillips Petroleum Securities
Litigation, 881 F.2d 1236 (3d Cir. 1989). Inoltre, vale la pena fare cenno al fatto che le Corti americane si
sono mostrate più liberali nel riconoscere un’azione di danni per violazione della Section 14(d), ossia
nell’ambito di una tender offer: cfr. ad es. Field v. Trump, 850 F.2d 938 (2d Cir. 1988); più di recente
Katt v. Titan Acquisitions, Ltd., 133 F. Supp.2d 632 (M. D. Tenn. 2000).
151
Tale interesse viene individuato in quello all’integrità del patrimonio degli investitori e si afferma,
operando un parallelo con la responsabilità degli amministratori ex art. 2395 c.c., che la lesione
dell’affidamento riposto nella completezza e correttezza delle informazioni divulgate escluda la
configurabilità di un danno meramente patrimoniale: MACRI’, op. ult. cit., 119. Pur concorde, come si è
visto, in termini generali, PERRONE, op. cit., 168, respinge tuttavia l’idea che si sia in presenza di un
vero e proprio affidamento, che sarebbe immaginabile soltanto con riferimento agli investitori
professionali e non già in capo ad ogni possibile danneggiato. In tal senso anche S. BRUNO, op. cit.,
1296-1297, la quale esclude altresì la mera patrimonialità del danno in quanto è possibile ravvisare la
“violazione delle disposizioni in materia di trasparenza previste nel codice civile e nel testo unico della
finanza” (ibidem, 1293).
188
prima battuta i pattisti e non già la società (con riguardo alla quale la configurazione
come extracontrattuale della responsabilità da omessa informazione è stata, in dottrina,
principalmente prospettata). Questa circostanza non muta infatti la natura della
responsabilità in questione, come si potrebbe essere portati a pensare facendo leva
sull’esistenza del contratto sociale che lega gli azionisti dell’emittente. A parte il fatto
che in questo ambito la qualità di azionista assume contorni più sfumati e finisce per
rappresentare una semplice declinazione contingente di quella di investitore 152, si può
osservare che a differenza dell’obbligo di lancio di un’offerta pubblica di acquisto - i cui
beneficiari sono determinati o determinabili, essendo individuabili negli azionisti
attuali153 - quello avente ad oggetto la disclosure è volto a soddisfare gli interessi del
mercato o, in altri termini, di un insieme di soggetti non previamente identificabili. 154
Allo stesso modo, può indubbiamente rilevare altresì la modifica di un patto
parasociale, che, pur essendo soggetta - come si è detto nei capitoli precedenti - agli
obblighi pubblicitari corrispondenti, potrebbe non accompagnarsi alla realizzazione dei
presupposti per il lancio di un’OPA. 155
Peraltro, non può essere escluso in radice che alla responsabilità dei principali
obbligati possa aggiungersi, a beneficio dei danneggiati, quella della società stessa e dei
suoi amministratori. Ciò può accadere quando l’esistenza del patto sia sì comunicata dai
relativi membri agli organi della società, ma venga poi omessa la pubblicazione della
notizia nei modi previsti dalla legge. Per quanto riguarda, innanzitutto, le società
assoggettate alla disposizione dell’art. 2341-ter c.c., è ipotizzabile che i soci
comunichino l’esistenza del patto alla società, ma in seguito non provvedano alla
dichiarazione in assemblea o comunque non si proceda poi alla trascrizione nel verbale
o al suo deposito nel registro delle imprese. In caso di omessa dichiarazione potrebbero
rimanere responsabili la società e i suoi amministratori ove si accolga l’idea, proposta in
precedenza, secondo cui la presunzione di persistente vigenza dell’accordo imporrebbe
agli organi sociali di effettuare comunque la trascrizione nel verbale. Ove invece i
paciscenti effettuino regolarmente la dichiarazione in assemblea ma gli organi sociali
non adempiano ai successivi obblighi pubblicitari, saranno senz’altro questi ultimi ad
andare soggetti a responsabilità risarcitoria nei confronti dei danneggiati. 156 Una
responsabilità solidale dei pattisti e degli organi sociali può essere ipotizzata anche nelle
152
Come già si è visto, risulta cioè condivisibile l’idea che “nelle società quotate e ad azionariato diffuso,
i piccoli azionisti sono assimilabili a puri investitori finanziari, la cui tutela è rimessa fondamentalmente
all’informazione resa cogente dal disposto di legge e dal mercato”: parole, queste, che si prendono a
prestito da SCARPA, op. cit., 508.
153
Sul punto anche CACCHI PESSANI, op. cit., 510.
154
Sul punto anche S. BRUNO, op. cit., 1294-1295.
155
Anche la modifica di un patto di sindacato potrebbe costituire un esempio di informazione privilegiata
da comunicare al mercato: lo sostengono, come già si è visto, F. BRUNO - RAVASIO, op. cit., 1029.
156
In tal senso, espressamente, FIORIO, Sub artt. 2341-bis - 2341-ter, cit., 160. Sulla responsabilità
aquiliana da omessa comunicazione di patti parasociali, v. anche DONATIVI, Sub art. 2341-ter, cit., 189190. Perplessità sulla praticabilità del rimedio risarcitorio sono invece state avanzate da PICCIAU, Sub
artt. 2341-bis - 2341-ter, cit., 373-374. Data l’assenza di disposizioni che impongono la pubblicità dei
patti parasociali nelle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, ci si può chiedere a
questo punto se anche nelle società c.d. chiuse la mancata disclosure di un’informazione in concreto
rilevante possa essere fonte di danno e quindi di responsabilità (con riferimento all’informazione non
corretta, ha dato una risposta affermativa S. BRUNO, op. cit., 1312). Sul punto v. infra, § 8.
189
società quotate, qualora i primi provvedano (soltanto) ad effettuare la comunicazione
alla società e nessun’altra informativa venga in seguito diffusa (ai sensi, tra l’altro,
dell’art. 114 T.U.F.).
In tali casi, i danneggiati - soci o terzi - potranno quindi far valere non solo la
responsabilità dei membri del patto, ma anche (o soltanto) quella della società o dei suoi
amministratori ex art. 2395 c.c.157: quest’ultima, per opinione ormai assolutamente
prevalente, costituisce un’ipotesi di responsabilità extracontrattuale. 158 Peraltro, la stessa
società potrebbe subire un danno dalla mancata disclosure di cui si è detto, consistente
nel pregiudizio arrecato alla sua immagine sul mercato, in forza del quale risulterebbe
legittimata a far valere una responsabilità sia dei soci che degli amministratori nei propri
confronti.159 Non costituisce un problema di ordine sistematico il fatto che gli
amministratori possano venire chiamati a rispondere verso singoli soci o terzi ex art.
157
Per la natura solidale della responsabilità di questi soggetti per omesse informazioni, v, PERRONE,
op. cit., 217 ss.
158
Per tutti, V. PINTO, La responsabilità degli amministratori per “danno diretto” agli azionisti, in Il
nuovo diritto delle società, Liber amicorum G. F. Campobasso, diretto da P. Abbadessa e G. B. Portale,
Torino, 2006, 2, 897 ss., ove ulteriori riferimenti.
159
Per questa impostazione cfr. SEMINO, Il problema, cit., 293-295, ove si rileva tra l’altro che “la piena
trasparenza degli accordi parasociali, nelle società quotate, s’impone non solo nell’interesse del mercato,
ma anche nell’interesse della stessa società”, giacché “una società rispetto alla quale l’informazione è
reticente sarà considerata poco appetibile e ciò porterà nel lungo periodo ad un’uscita degli investitori
dalla società con il conseguente depauperamento dello Shareholder Value”; MACRI’, Informazioni
privilegiate, cit., 124 ss.; LENER, La diffusione, cit., 144. Nell’ordinamento americano, l’azione della
società nei confronti dei responsabili della non corretta disclosure ai sensi della Section 13(d) del SEA è
diffusamente ammessa, ma soprattutto (come avviene per i singoli shareholders) ai fini di ottenere
un’esatta informazione: v. ad esempio Chevron Corp. v. Pennzoil Co., 974 F.2d 1156, 1158 (9th Cir.
1992); Gearhart Industries Inc. v. Smith Intern Inc., 741 F.2d 707 (5th Cir. 1984); Florida Commercial
Banks v. Culverhouse, 772 F.2d 1513 (11th Cir. 1985), in cui la Corte ha rilevato che l’azione della
società consente di rimediare sia alle difficoltà degli investitori di munirsi dei necessari elementi (specie
di carattere informativo) per l’attivazione della tutela, sia a quelle in cui potrebbe incorrere la SEC, che
non ha i mezzi idonei a monitorare l’intero mercato; per questa ragione, tale strumento a disposizione
della società svolgerebbe anche una funzione di enforcement. Anche la Corte Suprema (Rondeau v.
Mosinee Paper Corp., cit.) non ha negato il diritto di azione dell’emittente, seguita dal caso Indiana
National Corp. v. Rich, 712 F.2d 1180 (7th Cir. 1983). Non sono mancati peraltro casi in cui
l’azionabilità di tale rimedio da parte della società è stata posta in discussione, sulla base dell’argomento
che le disposizioni in questione proteggono in maniera preponderante proprio gli shareholders: cfr. ad es.
Liberty National Insurance Holding Co. v. Charter Co., 734 F.2d 545, 555-559 (11th Cir. 1984); Leff. v.
CIP Corp., 540 F. Supp. 857 (S.D. Ohio 1982); First Alabama Bancshares, Inc. v. Lowder, [1981
Transfer Binder] Fed. Sec. L. Rep. (CCH), § 98,015 (N.D. Ala. May 1, 1981). In sostanza, la
giurisprudenza tende a preferire rimedi di natura diversa dal risarcimento dei danni agli investitori o alla
società (a meno che ricorrano anche i presupposti di cui alla Section 18(a) del SEA o di cui alla Rule 10b5, come si è detto): v. ad es. anche Hallwood Realty Partners , L.P. v. Gotham Partners, L.P., 286 F.3d
613 (2d Cir. 2002), commentata da CHOI-PRITCHARD, op. cit., 761 ss. In alcuni casi, le Corti hanno
proibito agli autori della falsa o mancata disclosure di effettuare nuovi acquisti di partecipazioni sino alla
completa e corretta informativa: v. ad es. Dan River, Inc. v. Unitex, Ltd., 624 F.2d 1216 (4th Cir. 1980);
Saunders Leasing Sys., Inc. v. Societe Holding Gray D’Albion, 507 F. Supp. 627 (N.D. Ala. 1981); Kirsch
Co. v. Bliss & Laughling Indus., Inc., 495 F. Supp. 488 (W.D. Mich. 1980). In altre occasioni, si è
intimato di non procedere ad ulteriori acquisti o a sollecitazioni di deleghe (proxies) sino all’alienazione
delle partecipazioni acquistate nel periodo della non corretta informativa al mercato: cfr. ad es. General
Steels Indus., Inc. v. Walco Nat’l Corp., [1981-1982 Transfer Binder] Fed. Sec. L. Rep. (CCH), § 98,402
(E.D. Mo. Nov. 24, 1981). Inoltre, le Corti hanno a volte sterilizzato il diritto di voto relativo alle azioni
acquistate a seguito dell’omessa o errata informazione: Hanna Mining Co. v. Norcen Energy Res. Ltd,
574 F. Supp. 1172, 1202-03 (N.D. Ohio 1982). Si noti comunque che anche la SEC può comminare
sanzioni amministrative. Non esiste invece un’azione esperibile dai privati per le violazioni della Section
16(a) del SEA: Scientex Corp. v. Kay, 689 F.2d 879 (9th Cir. 1982); in letteratura LEVY, op. cit., 6-21.
190
2395 c.c. e contemporaneamente nei confronti della società, anche perché l’obbligo
risarcitorio loro imposto è destinato nei due casi a ristorare pregiudizi di diversa
tipologia (e diversa sarebbe la natura della responsabilità: extracontrattuale nel primo
caso e contrattuale nel secondo). Semmai, occorrerà verificare se la condotta degli
amministratori che si trovino ad essere responsabili verso singoli soci o terzi si traduca
in un illecito imputabile soltanto a loro stessi o se, viceversa, ci si trovi di fronte ad un
illecito commesso dalla società per il tramite dei gestori persone fisiche attraverso i
quali essa necessariamente agisce. Dato che il caso in esame involgerebbe una
responsabilità aquiliana (degli amministratori ex art. 2395 c.c. e) della società, il
problema non è quello (da lungo tempo discusso) di ravvisare in un inadempimento
contrattuale della società anche un illecito degli amministratori 160, bensì, all’opposto,
quello di stabilire se a partire da quest’ultimo si possa ritenere esistente (anche) un
illecito imputabile alla società. Accogliendo la dominante tesi “che consente senza limiti
la propagazione institoria della responsabilità alla società”, la risposta dovrebbe essere
senz’altro affermativa.161
Quanto al nesso di causalità, si è sostenuto che esso costituisce oggetto di una
presunzione a favore di tutti gli investitori “che hanno operato sul mercato in un periodo
critico (ossia nel lasso temporale che va dal momento in cui ha inizio la reticenza o il
silenzio dell’emittente fino al momento della pubblicazione della notizia)”, giacché il
danno sarebbe rappresentato proprio dal pregiudizio patito per aver posto in essere
operazioni a condizioni diverse da quelle che avrebbero dovuto discendere da una
situazione di piena trasparenza162; non è da escludere, peraltro, che possano risultare
danneggiati anche coloro che non hanno negoziato strumenti finanziari (mancata
vendita o mancato acquisto) a causa della non corretta formazione del prezzo163,
sebbene in tale ipotesi la presunzione di cui si è detto dovrebbe cessare di operare 164. A
160
Sul punto e per i termini del dibattito si rinvia a PERRONE, op. cit., 130 ss. (nt. 174); sul problema v.
anche REGOLI, Offerte pubbliche di acquisto e comunicato agli azionisti, Torino, 1996, 202 ss.
161
PERRONE, op. cit., 172 (ove il virgolettato); ma v. anche ibidem, 127 (nt. 166) per ulteriori
riferimenti; PINARDI, op. cit., 358, il quale aggiunge che la soluzione vale tanto nel caso in cui soggetto
passivo dell’obbligo di trasparenza sia la società, quanto nel caso in cui lo siano gli amministratori.
162
Così MACRI’, op. ult. cit., 129 ss., ove il virgolettato riportato. L’A. aggiunge che la prova del fatto
che il prezzo di negoziazione sarebbe stato diverso in presenza dell’informazione può essere fornita anche
con modelli statistici; ancor meno problematica sarebbe la prova della sussistenza dell’elemento
soggettivo dell’illecito, in quanto “dalla prova della mancata disclosure può desumersi quantomeno la
colpa per negligenza da parte dell’emittente” (ibidem, 132). In senso parzialmente diverso, su
quest’ultimo punto, PERRONE, op. cit., 177, il quale osserva “l’impossibilità di desumere la sussistenza
della colpa dal mero fatto della violazione dei precetti sull’informazione societaria”, dovendosi tenere
conto anche della percepibilità in concreto del dovere di informazione; peraltro, nel caso specifico della
mancata pubblicità dei patti parasociali, è senz’altro possibile affermare che la colpa, in presenza della
violazione della norma di trasparenza, vada considerata in re ipsa.
163
PERRONE, op. cit., 185-186, il quale aggiunge che in tal caso si complica inevitabilmente
l’identificazione dei legittimati a pretendere il risarcimento e non si potrà che fare “un uso accorto e
rigoroso delle presunzioni semplici”. L’A. evidenzia inoltre la necessità di fornire al convenuto l’appiglio
per una possibile prova liberatoria, che consista nella presenza di un ulteriore fattore di mercato che
avrebbe comunque prodotto il danno o nella scelta operata dall’investitore nella piena consapevolezza
della falsa od omessa informazione. Sul danno subito da chi non ha posto in essere contrattazioni
(investitori attuali nel caso di mancato disinvestimento; investitori sia attuali che potenziali nel caso di
mancato investimento), cfr. anche S. BRUNO, op. cit., 1287 ss.
164
S. BRUNO, op. cit., 1330 ss., la quale correttamente precisa che la presunzione sul nesso eziologico
non può operare, da un lato, per strumenti finanziari non quotati e, dall’altro, per “danni diversi
191
quest’ultimo si avvicina, fra l’altro, il caso di coloro che hanno conservato azioni di una
società a seguito di una mancata OPA obbligatoria165, rispetto alla (sola) voce di danno
consistente nel deprezzamento del titolo rispetto al valore di mercato che esso aveva al
tempo dell’inadempimento: come si è visto (supra, § 2) pare corretto ascrivere tale
pregiudizio patrimoniale (ove il nesso di causalità risulti provato) all’illecito omissivo
derivato dalla mancata diffusione dell’informazione circa il nuovo assetto proprietario
della società.
Al di fuori di quest’ultima ipotesi, analogamente a quanto si è visto con
riferimento alla responsabilità da insider trading, il danno risarcibile da (semplice)
omessa informazione dovrebbe consistere nella differenza tra il prezzo che il mercato
avrebbe determinato in presenza di una regolare informativa (nel caso che qui interessa,
sull’esistenza di un patto parasociale rilevante) e quello dell’avvenuta contrattazione.166
Va detto che potrebbero lamentare un danno sia coloro i quali abbiano alienato ad un
prezzo più basso del dovuto, sia coloro che abbiano acquistato ad un prezzo “gonfiato”.
Secondo alcuni autori, un riferimento utile per quantificare siffatto danno può essere
offerto dal prezzo che viene a formarsi una volta che la notizia sia stata resa nota,
eventualmente depurato “dall’influenza che hanno avuto gli altri fattori price
sensitive”167: se è indubbio (come già si è illustrato a proposito della responsabilità da
insider trading) che tale valore possa rappresentare un utile criterio orientativo di
massima per la determinazione del quantum del risarcimento, è probabilmente più
corretto adottare, sulla scorta di un’opzione normativa recentemente accolta negli Stati
Uniti, il riferimento alla “media del trading price in un determinato intervallo di tempo
successivo” alla piena diffusione dell’informazione168, avendo comunque cura di
espungere dal calcolo quelle oscillazioni che si sappia - con alto grado di probabilità essere dovute ad eventi successivi e indipendenti. Come si è già visto con riguardo al
danno da insider trading, è da escludere infatti che, nel caso di acquisto ad un prezzo
maggiore del dovuto, le successive oscillazioni in negativo (rispetto al prezzo che
avrebbe dovuto essere originariamente pagato) non dipendenti dal comportamento dei
responsabili possano venire in rilievo nella determinazione del pregiudizio
(originariamente) patito e come tale risarcibile.
Se la responsabilità risarcitoria per insider trading o più semplicemente per
omessa informazione può configurarsi nei termini di cui si è detto, qualche perplessità
dall’investimento o dal disinvestimento (e quindi nel caso di mancato investimento o mancato
disinvestimento)” (ibidem, 1333).
165
Naturalmente, mentre il caso finora in esame prescindeva dall’acquisto di azioni da parte dei membri
del patto non comunicato, il riscontro dei requisiti dell’OPA obbligatoria presuppone che siano state
acquistate azioni in misura rilevante: tuttavia, l’ipotesi che qui si prende in considerazione quale figura di
danno da (semplice) omessa informazione, si noti, è quella che si riferisce unicamente al tipo di
pregiudizio descritto subito oltre nel testo.
166
PERRONE, op. cit., 211, sebbene la particolarità dei singoli casi concreti non esclude che si possano
delineare ulteriori voci di danno. Sulle voci di danno risarcibile per informazione non corretta v. anche
PINARDI, op. cit., 363.
167
Così MACRI’, Informazioni privilegiate, cit., 134, il quale aggiunge peraltro che se i soggetti
danneggiati provino che in presenza di una corretta informazione non avrebbero concluso il contratto, a
loro dovrebbe spettare un risarcimento pari al valore dell’intera operazione conclusa.
168
Per questa diversa impostazione si rinvia a PERRONE, op. cit., 214. Ma v. anche quanto
precedentemente osservato nel corso dell’analisi sulla responsabilità da insider trading.
192
ha destato la previsione dell’art. 187-undecies T.U.F., il cui secondo comma ha
attribuito come noto alla Consob la facoltà di costituirsi parte civile nel processo penale
per i reati di cui agli artt. 184 e 185 T.U.F., al fine di richiedere “a titolo di riparazione
dei danni cagionati dal reato all’integrità del mercato, una somma determinata dal
giudice anche in via equitativa [...]”. E’ probabile che la norma abbia voluto introdurre
un ulteriore strumento di enforcement - a metà strada, peraltro, tra la tutela privatistica e
quella pubblicistica - in una prospettiva di deterrenza; ma, a parte il fatto che esso, come
è stato osservato, richiama i danni punitivi dell’ordinamento statunitense 169, non vi sono
certamente ragioni per affermare che questo meccanismo possa in qualche modo
escludere la tutela privatistica di cui ci si è sin qui occupati.
8. La responsabilità da mancata disclosure dei patti parasociali nelle società
che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio.
Come noto, nessuna norma in tema di pubblicità dei patti parasociali è prevista
con riguardo alle s.p.a. chiuse: pertanto, gran parte della dottrina ha osservato come essi
possano rimanere all’oscuro, venendo meno in tali società le esigenze di trasparenza
connesse all’attività delle società con vocazione di apertura al pubblico risparmio. 170
Tale impostazione poggia su due ordini di considerazioni: in primis, ci si riporta al dato
normativo che, appunto, pare del tutto inequivocabile; inoltre, si osserva che le società
“chiuse” si collocano al di fuori di quel mercato dell’investimento (e,
corrispondentemente, del disinvestimento) che impone la massima trasparenza di quei
fatti e circostanze che possono incidere sulle scelte di coloro che agiscono all’interno di
esso.171
Tuttavia, non sono mancate voci che hanno voluto sottolineare come, nonostante
l’assenza di una vocazione al mercato, anche in tali società la conoscenza dell’esistenza
di patti parasociali possa essere un elemento importante “non solo per le minoranze, ma
anche e soprattutto per chi finanzia la società con capitale di debito e per i potenziali
acquirenti delle partecipazioni”172.
Si è affermato che “è forse possibile evincere dal sistema una regola generale,
espressione del principio di correttezza, valevole nell’ordinamento societario, secondo
la quale i soci aderenti ad un sindacato, stante il collegamento che intercorre tra il
contratto sociale e quello parasociale, hanno l’obbligo (discendente appunto dal dovere
di buona fede nell’esecuzione del contratto sociale) di informare gli altri soci e la
società dell’esistenza di accordi parasociali nelle ipotesi in cui la presenza di un accordo
169
RORDORF, Ruolo e poteri, cit., 818.
Sul punto, v. ad es. BADINI CONFALONIERI, op. cit., 275; CHIONNA, op. cit., 141 e 155;
RUBINO-SAMMARTANO, op. cit., 185, per l’idea che siano rimaste “totalmente scoperte le società non
quotate”. Sostiene con convinzione tale posizione SBISA’, La disciplina, cit., 496, il quale esclude che
possano applicarsi sanzioni nell’ipotesi di segretezza di patti parasociali nelle società “chiuse”. Conf.
KUSTERMANN, Considerazioni, cit., 170.
171
V. CHIONNA, op. cit., 224 ss., il quale si riporta alle indicazioni offerte dal “diritto positivo”, che
rivelerebbe in modo evidente la scelta di attribuire la prevalenza - nell’ambito, appunto, delle società
“chiuse” - all’interesse dei pattisti a mantenere il segreto sull’accordo (ibidem, 227).
172
In questi termini FIORIO, Sub artt. 2341-bis - 2341-ter, cit., 161.
170
193
parasociale possa coinvolgere l’interesse della società determinandone un possibile
pregiudizio”.173 Secondo, poi, un particolare punto di vista, l’esigenza di addivenire ad
una piena disclosure dei patti parasociali nelle società chiuse emergerebbe specialmente
qualora la posizione di conflitto d’interessi di uno dei membri del patto venga a
coinvolgere anche gli altri: la delibera sarà dunque annullabile per conflitto d’interessi
e, dunque, impugnabile ex art. 2377 c.c., sempreché sia raggiunta la c.d. prova di
resistenza.174
Ma forse, anche a prescindere da tale ultimo profilo, non è azzardato sostenere
che il dovere di correttezza imporrebbe sempre di dare notizia agli altri soci della
stipulazione del patto175: naturalmente, mancando una disciplina normativa sul punto ed
essendo necessario il riferimento al principio di buona fede oggettiva, risulta impedita
un’operazione ermeneutica che miri a stabilire a priori ed in astratto i tipi di patti
parasociali potenzialmente rilevanti a tal fine e non rimane che affermare la necessità di
una valutazione in concreto.
Ne deriva inoltre che, in casi simili, può avere ingresso una tutela di tipo
risarcitorio a beneficio dei soci estranei al patto qualora gli obblighi di disclosure non
siano stati adempiuti.176
Sempre a proposito della tutela risarcitoria, la si è ipotizzata rilevando
l’inadeguatezza della sanzione dell’impugnabilità della delibera, che finirebbe per
ripercuotersi sulla stessa società.177
173
Così MACRI’, Patti parasociali, cit., 133, il quale precisa che tale obbligo di comunicazione potrebbe
valere “per i soli patti per i quali la mancata informazione intrasociale può incidere sulla validità della
delibera assembleare”.
174
Di nuovo MACRI’, op. ult. cit., 139-140.
175
Così GALGANO, Il nuovo diritto societario, cit., 91 ss.: l’illustre Autore osservava infatti essere
inesistente un interesse alla riservatezza meritevole di tutela o comunque prevalente rispetto all’esigenza
di una piena disclosure, per poi giungere alla conclusione che anche nelle s.p.a. “chiuse” i patti non
comunicati debbono ritenersi nulli, in quanto “diretti ad occultare le situazioni di controllo azionario”.
Tale percorso argomentativo è seguito anche da MEOLI-SICA, op. cit., 615 ss.; da PANUCCIO, op. cit.,
198; e da GRIECO, op. cit., 533, che esclude la liceità dei patti segreti nonostante l’assenza di obblighi
pubblicitari.
176
MACRI’, op. ult. cit., 139. Così anche MEOLI-SICA, op. cit., 618, secondo i quali la sanzione
risarcitoria sarebbe l’unica possibile, in quanto “non sussistono nella specie quelle esigenze di tutela del
mercato e delle libertà economiche dei risparmiatori, che legittimano le inefficienti sanzioni previste
dall’art. 122 t.u.i.f. e dall’art. 2341-ter.” Il diritto al risarcimento dei danni, secondo una dottrina,
sorgerebbe anche qualora non si sia tempestivamente provveduto all’effettuazione della comunicazione
alla società dei patti ai sensi dell’art. 2341-ter c.c.: di nuovo MACRI’, op. ult. cit., 145. Secondo la
giurisprudenza americana, la mancata disclosure nell’ambito delle closed corporations può dare luogo ad
un rimedio che va oltre il danno patito dai soggetti pregiudicati in quanto è commisurato ai profitti
conseguiti dall’autore della violazione: si tratta del c.d. “disgorgement of windfalls profits”, che quindi
consentirebbe di superare il generale limite al risarcimento dei danni fissato dalla Section 28(a) del SEA.
Cfr. in particolare Pidcock v. Sunnyland Am., Inc., 854 F.2d 443 (11th Cir. 1988); Rochez Bros., Inc. v.
Rhoades, 491 F.2d 402, 405, 411-413 (3d Cir. 1974); ma ancor prima Janigan v. Taylor, 344 F.2d, cit.,
781, cit., per l’affermazione che “it is more appropriate to give the defrauded party the benefit, even of
windfalls, than to let the fraudulent party to keep them” (ibidem, 786); analog. Pittsburgh Terminal Corp.
v. Baltimore & O.R.R., 824 F.2d 249, 255 (3d Cir. 1987). La dottrina ha osservato poi che “the measure is
usually applied when the plaintiff sells shares that greatly increase in value after the sale, if the plaintiff
can prove that the defendant acquired the stock by fraud”: così WANG, op. cit., 26-27. Come si è detto,
la misura non risulta però applicata alle publicly traded securities: così anche SEC v. MacDonald, 699
F.2d 47 (1st Cir. 1983); nonché, in dottrina, CHAMBLEE BURCH, op. cit., 368-369 e 387.
177
MACRI’, Patti parasociali, cit., 183 (nt. 212).
194
Nel caso in cui i paciscenti abbiano stipulato un reciproco obbligo di segretezza,
dunque, questo non sarà esigibile per la prevalenza del dovere di esecuzione del
contratto sociale secondo correttezza e buona fede, capace di imporre la piena e
tempestiva pubblicità degli accordi parasociali anche nell’ambito delle società
“chiuse”.178
Più corretto pare però sostenere che tale ultima soluzione valga anche per le
società aperte di cui all’art. 2341-ter c.c., nel senso che il patto di riservatezza sarà nullo
per contrasto con quest’ultima norma (ferma la validità del patto parasociale), con la
conseguenza che troveranno piena applicazione gli obblighi di pubblicità in essa previsti
nonché, eventualmente, le relative sanzioni.179
178
In tal senso MACRI’, Patti parasociali, cit., 142; in precedenza, anche RESCIO, La disciplina, cit.,
848-849, il quale precisava che nelle società quotate l’inesigibilità dell’obbligo di riservatezza deriva
dall’inderogabilità dell’art. 122 T.U.F. e dall’interesse generale da esso tutelato, mentre con riferimento
alle altre società verrebbe in considerazione proprio l’obbligo di buona fede, inteso quale “obbligo sociale
(quindi: soltanto verso la società e verso gli altri soci) di informazione circa i rapporti parasociali
intrecciati.”
179
Così SBISA’, La disciplina, cit., 495.
195
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