- Santo Cielo, Arianna, sei romantica come una pachera

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- Santo Cielo, Arianna, sei romantica come una pachera
Tortura prematrimoniale
di Arianna Lattisi
«Santo Cielo, Marta, sei romantica come una pachera!»
Tutto era iniziato così. Con Francesca che mi spiegava nei minimi dettagli l’organizzazione
del mio imminente matrimonio e io che sbadigliavo annoiata, senza darle soddisfazione.
Il fatto è che sentir parlare di pizzi e merletti, diete depurative pre-cerimonia, calze
autoreggenti e body senza spalline, mi stufava. Insomma, mi veniva da pensare, possibile che per
sposarsi servisse davvero tutto questo? Io che avrei scelto una semplice cerimonia in Comune, con
mamma e papà, un bel paio di jeans e tanta birra, mi ritrovavo invischiata in quello che la mia
futura suocera tendeva a definire ‘il giorno più bello della sua vita’, dimenticandosi, forse, il suo
stesso matrimonio o la nascita dei quattro figli. Il più piccolo dei quali, quello arrivato a sorpresa a
diciassette anni di distanza dagli altri grazie a una focosa notte di rinnovata passione di mio suocero
- il quale aveva vinto cinquecentomila lire al lotto - stava per diventare mio marito.
«Ora ascoltami bene, qui è già tutto sistemato, tu non devi pensare a nulla. Una delle ragazze
ti seguirà e ti spiegherà tutto quello che devi fare. Mi spiace tanto non potermi fermare, ma se non
te li scelgo io, i fiori, chi ci pensa?»
Francesca è mia cugina. Ma è anche la mia migliore amica. Siamo nate a quarantadue giorni
di distanza l’una dall’altra, lei prima di me. Mia madre sorella di sua madre, mio padre fratello di
suo padre. Battesimo, comunione, cresima, asilo, scuole, vacanze, tutto insieme. Sempre. Da
ventisei anni. Tranne il matrimonio. Lei è ancora single. Gli uomini non gradiscono il suo voler
sempre mettere il becco in ogni cosa. A me invece piace, mi evita un sacco di seccature. Come
questa dell’organizzazione del matrimonio.
«Ora vai, vengo a prenderti fra un paio d’ore».
Varco senza troppa convinzione l’uscio del centro estetico e una vampata di vapore
profumato mi avvolge. Musica new age in sottofondo, pareti color carta da zucchero, noto due
donne sedute sulle poltroncine di velluto glicine che sfogliano riviste scandalistiche e di fronte a me
un imponente bancone dietro al quale una ragazza dal viso orientale mi saluta sorridendo come se
mi conoscesse da sempre.
«La sposa?»
Che Francesca abbia prenotato a nome ‘la sposa’ anziché con il mio cognome? Tant’è.
«Ehm… sì. Sono Marta Pennacchi».
«Sì, celto, Malta. Plenotato selvizio completo. Seguimi».
Accolgo con sospetto le sue ‘R’ tramutate in ‘L’, ma obbedisco all’ordine impartito. Per mia
estrema gioia la cinese mi presenta Domitilla, la robusta donna dai capelli rossi e crespi che mi
seguirà ‘lungo tutto il pelcolso pel diventale una bella sposa’. Inizio a preoccuparmi. Non potevo
limitarmi a essere una sposa carina, piacente, un tipo? Insomma, sto con il mio fidanzato da quasi
otto anni, che importa se il giorno delle nozze ho ‘i pori ostruiti’, come mi sta facendo notare la mia
guida nel mondo della bellezza?
Ma non c’è tempo per discutere. Né credo mi sarebbe consentito, quindi vado avanti a
obbedire e seguo il donnone in una stanzetta poco più grande di un box doccia. In pochi minuti
inizia il mio primo - e di certo anche ultimo - trattamento termale viso. Domitilla commenta ogni
suo gesto.
«Per prima cosa serve un’accurata detersione, una pulizia profonda per disincrostare i pori».
Mi sembra d’essere un w.c. abbandonato da mesi. Quella specie di spugnetta abrasiva fa un
male cane, a tratti temo di rimanere senza pelle, il che non sarebbe il massimo dato che domani mi
sposo. I miei pensieri vengono interrotti dal furioso picchiettare dei suoi polpastrelli sulle mie
guance. Poi mi arriva un getto di vapore direttamente negli occhi. Che male ho fatto a questa
donna?
«Ecco, ora mettiamo il fango e nel frattempo ti faccio il peeling alle gambe. Via i vestiti,
metti questo».
Mi porge un camice color verde stinto, mi sembra di essere in un ospedale in procinto di
subire un’operazione, magari l’amputazione di un braccio, che sarebbe forse meno doloroso di
questo peeling. Caspita, sarà anche fatto con sali del mar morto e mosto d’uva, come la mia
simpatica torturatrice sta spiegando orgogliosa, ma fa un male cane. Non faccio in tempo a
riprendermi, che questa prende da uno scaffale un enorme barattolone appiccicoso e capisco al volo
che si tratta di cera. Il terrore mi si dipinge sul volto, mentre Domitilla mi spalma sadicamente
l’inguine di poltiglia giallognola.
Devo resistere, penso, e immagino di essere un generale che morde un proiettile mentre gli
ricuciono la ferita a una coscia senza anestesia.
«Ah!»
«Ma no, non fa male. È cera al miele».
Brutta carogna, il miele mica lo sto mangiando. Sorrido di circostanza mentre lei prosegue a
spatolarmi cera più o meno su tutto il corpo, per poi strappare senza pietà tutti i miei peli, anche
quelli di cui fino a oggi ignoravo l’esistenza.
Sto quasi per allentare la guardia, mentre mi cosparge di olio addolcente al profumo di
cioccolato, quando mi annuncia:
«Ora tolgo il fango, ché facciamo l’extension alle ciglia».
L’ultima tappa del mio tour verso la bellezza mi porta ad aggiungere alle mie unghie
mangiucchiate un gel che, sotto una specie di lampada ustionante, diventa duro come il cemento, e
io penso con nostalgia alla tastiera del pianoforte che sicuramente non ne vorrà più sapere di me.
«Abbiamo finito».
L’annuncio della fine di una guerra non sortirebbe il medesimo effetto. Pian piano inizio a
recuperare la sensibilità del mio corpo martoriato, mi guardo la pelle arrossata e penso che, se ho
superato questo, domani sposarsi sarà una passeggiata.