giorgio Morandi, saggi e ricerche

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giorgio Morandi, saggi e ricerche
Giorgio Morandi
Saggi e ricerche 1990-2007
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Marilena Pasquali
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Sommario
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Il volume è stato realizzato dal
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Comune di
Grizzana
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Un ringraziamento particolare va a
Paola Ghiringhelli Folon
per la sua costante disponibilità e amicizia.
Si ringraziano inoltre, per il loro prezioso aiuto,
Eugenio Riccòmini, M. Giovanna Guidi Pallotti,
Federica Filippi Gabardi, Giulia Pasquali,
Roberto De Caro, Elena Massarenti.
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La foto di pagina 146 è di Luciano Calzolari.
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In copertina: Giorgio Morandi, Natura morta,
1957 (V. n. 1059).
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Progetto grafico
Studio Noè, Firenze
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con il contributo di
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7 Premessa. Una storia lunga vent’anni
La vita e l’opera
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Le radici, la famiglia, la formazione (1890-1911)
Gli incontri del giovane Morandi (1910-1914)
Il confronto con le avanguardie (1913-1917)
La stagione della Metafisica
e dei “Valori Plastici” (1918-1921)
L’emergere di un paesaggio interiore (1920-1943)
Un piccolo capolavoro ritrovato (1943)
L’immagine dell’assenza. I paesaggi
degli anni di guerra (1940-1944)
Il perfezionamento di un percorso: il campo percettivo,
la variante, la densità (1946-1964)
L’ultima estate a Grizzana (1963)
Impaginazione
Paula Becattini, Reggello
Fotolito
Dardanelli, Firenze
Stampa
Filograf - Forlì
Divieto di riproduzione immagini.
Tutti i diritti riservati
© Marilena Pasquali, per i testi
© noedizioni, 2007
I temi, il metodo, la poesia
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Oggetti e stati d’animo
L’immagine di Grizzana
Una cristallina purezza: i fiori di Morandi
Una natura incline alla contemplazione
Lo studio e il metodo
Una storia lunga vent’anni
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157 Il mutare di intensità luminosa e di vibrazione emotiva
nell’arte morandiana
167 Il tempo come durata
171 Percezione e allusione nell’arte matura di Giorgio Morandi
185 Morandi e Leopardi
197 L’incontro fra Giorgio Morandi e Dino Campana
205 Le ragioni di un rifiuto. Il punto di vista di Giorgio Morandi
sul saggio monografico di Francesco Arcangeli
219 Appendice 1. Appunti inediti di Morandi (1961)
233 Appendice 2. Lettere inedite (1959-1963)
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L’attesa è un incantesimo.
Roland Barthes 1
ormai trascorso molto tempo da quando, nel 1978, scrissi il primo articolo su Giorgio Morandi, ma posso dire che la mia vera storia con lui e con la sua pittura sia iniziata nel 1982, quando proposi a Franco Solmi, direttore della Galleria comunale d’arte
moderna di Bologna, di mettere in piedi un archivio documentario riservato al pittore che
allora – e a torto – ritenevo unicamente il più grande artista bolognese del Novecento. A
torto, dico, perché in realtà Morandi non è solo questo, ma è certamente il più grande
artista italiano ed uno dei più grandi maestri internazionali del ventesimo secolo, uno dei
pochissimi che sanno interpretare il proprio tempo e insieme travalicarlo, dando volto e
immagine ad una dimensione del pensiero che abita il presente e prefigura il futuro.
Dal 1982 molto tempo è passato e molte cose sono accadute: dalla crisalide dell’Archivio
e Centro Studi Giorgio Morandi – da me e Franco Solmi ‘inventato’ come sezione della
Galleria bolognese, senza decisioni formali né finanziamenti specifici – con un lavoro tutto in salita di ben undici anni è uscita la farfalla splendida del Museo Morandi, inaugurato
il 4 ottobre 1993, grazie alla sensibilità del sindaco Renzo Imbeni e soprattutto al gesto
unico di Maria Teresa Morandi, che ha donato alla Città di Bologna ben 118 opere del fratello, ponendo come clausola-chiave della donazione la costituzione in Palazzo d’Accursio,
nel cuore di Bologna, del museo a lui dedicato ed affidandone a me la responsabilità.
Né va dimenticato come l’attività dell’Archivio e Centro Studi prima e del Museo Morandi poi abbia contribuito credo in maniera determinante alla sempre maggiore conoscenza
dell’artista e della sua arte a livello internazionale (ben 23 rassegne organizzate per musei
esteri in 15 anni, tra il 1985 e il 2000!), insieme al lavoro di Franz Morat in Germania e
nei paesi limitrofi ed a quello di altri studiosi che se ne sono occupati in diversi contesti,
dagli Stati Uniti all’Australia, dall’Inghilterra al Giappone.
Ma, come ogni splendida farfalla, anche il Museo Morandi ha avuto vita breve – parlo
di una vera vita di museo, di un luogo cioè ricco di proposte e di attività, e non di un
mero contenitore vuoto di idee e povero di pubblico, una sorta di deposito ordinato da
cui attingere opere per prestiti a volte discutibili. I nemici del Museo, a Bologna, non
sono molti ma sono abbastanza autorevoli per condizionare le amministrazioni pubbliche
e l’intellighenzia locale. I motivi della loro ostilità verso il Museo Morandi sono diversi,
ad iniziare da una non ancora sopita sensazione di fastidio, di peso, di non amore verso
l’artista, che accusano di aver soffocato la cultura locale, a cui si aggiunge il desiderio di
poter gestire senza controlli e come ‘merce di scambio’ le più di 200 opere morandiane
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257 Bibliografia
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che oggi costituiscono il suo inestimabile patrimonio. Tutto ciò ha reso difficile e assai
faticoso anche il mio lavoro per il Museo, stretto fra le Scilla e Cariddi della cronica
scarsità di finanziamenti pubblici e dei continui intralci burocratico-amministrativi, fino
a che nel 2001, dopo le grandi mostre di Giacometti e Klee e l’unanime riconoscimento
internazionale al lavoro svolto per Morandi, ho preferito dimettermi e fondare un nuovo
centro studi, il cui primo obiettivo resta quello della valorizzazione dell’opera morandiana. Sono d’altronde convinta che, se l’Amministrazione comunale non concederà al
Museo Morandi la tante volte richiesta e indispensabile autonomia dalla Galleria d’arte
moderna – istituto assai diverso per obiettivi ed ambiti di competenza –, per il Museo
non ci sarà alcuna possibilità di vita e sviluppo. E, d’altronde (ecco la considerazione più
amara), se la città non vuole veramente questo museo, se non lo difende e anzi non lo
pretende, non possono certo essere poche persone a portare sulle spalle tutto il peso di
una lotta senza prospettive.
Penso da molti anni ad uno studio monografico su Morandi, un po’ perché ritengo di
aver maturato una mia autonoma posizione critica sull’artista che, pur anticipata in numerosi saggi ed in diverse occasioni, fino ad oggi non era stata ancora sistematizzata in
un testo unico, ordinato e conseguente; e un po’ perché, dopo le straordinarie letture di
Cesare Brandi e di Francesco Arcangeli, fondamentali ma ormai lontane nel tempo – la
prima data al 1942 con revisione nel 1952, la seconda ha visto la luce nel 1964, più di
quarant’anni fa2 – in Italia non si sono più avuti studi monografici complessivi su Morandi, a fronte di numerosi ed interessantissimi saggi comparsi su riviste e, soprattutto, nei
cataloghi delle rassegne che si sono succedute negli ultimi vent’anni3.
Mentre il catalogo generale delle opere è completo ed aggiornato – grazie prima al basilare lavoro di Lamberto Vitali compiuto sui dipinti e sulle acqueforti (1957-1964, per
le incisioni, e 1977-1983, per le tele) e poi a quello di Efrem Tavoni per il corpus dei
disegni (1981-1984, con la nuova edizione ampliata ed aggiornata a mia cura nel 1994)
ed al mio intervento per gli acquerelli (1991) e per la revisione all’anno 2000 del catalogo
generale – non altrettanto si può dire per le pubblicazioni monografiche, volumi specifici
che presentino il punto di vista del singolo studioso arricchendolo di contributi diversi, di
immagini, di documenti, di aperture sul presente e sulle prospettive della fortuna critica
morandiana.
L’impegno quotidiano per il Museo Morandi e per le rassegne che ogni anno, quasi a
getto continuo, abbiamo organizzato, non mi ha consentito per anni di concretizzare
questa mia idea di monografia. Ma ora ciò è finalmente possibile. Lo dovevo anzitutto a
me stessa, per il rapporto fondante, costitutivo che mi lega da anni all’arte morandiana
e al suo creatore, pittore che giorno dopo giorno attraverso il suo sguardo e le sue opere
mi ha insegnato a guardare il mondo e la natura, a leggere la realtà sfrondandola di ogni
distrazione, a distinguere le linee portanti, essenziali, di un paesaggio, di un’architettura,
di un oggetto, persino di un’espressione.
Questo studio nasce perciò dal doveroso ripensamento di una ricerca di ben venticinque
anni e prende la forma dell’antologia di saggi, cioè di una scelta, revisione ed ordinamento
secondo un criterio cronologico e tematico degli scritti a mio avviso più interessanti che,
con approccio ogni volta variato e mirato, ho prodotto in questo mio costante colloquio
con l’arte morandiana. È stato inoltre rivisto, ampliato e completato il corredo delle note
testuali e bibliografiche.
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Dedico tutto ciò – la monografia attuale ed il lavoro che l’ha preceduta – a due donne
che oggi non ci sono più, ma che mi sono state vicine e mi hanno sempre appoggiato con
affetto e fiducia nella mia avventura morandiana: mia madre, cui va tutto il mio amore
di figlia e di amica, e Maria Teresa Morandi che in tanti anni di vicinanza e di dialogo
serrato ho imparato ad apprezzare come donna intelligente, forte e serena e di cui spero
di aver meritato la stima e forse anche un poco di affetto. Un pensiero va anche al mio
maestro, Franco Solmi, che per primo mi ha introdotto nel mondo morandiano. Un
ringraziamento particolare va poi a mio marito Giancarlo De Maria, che in questi ultimi
anni ha compreso e condiviso le mie scelte, dandomi gioia e voglia di vivere anche nei
momenti più difficili.
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Per chiarezza di esposizione e di lettura, le pagine che seguono sono state suddivise in
due sezioni: La vita e l’opera, secondo un dichiarato approccio storico-biografico, cui fa
seguito un approfondimento critico-linguistico condensato ne’ I temi, il metodo, la poesia.
Chiude il volume un saggio recente sul rapporto di stima e amicizia che per tanti anni ha
unito Giorgio Morandi a Francesco Arcangeli e sulle motivazioni che hanno portato alla
rottura di questa loro intesa, preziosa per entrambi ma, purtroppo, fragile.
Dalla selezione sono rimasti esclusi, perché facilmente rintracciabili, alcuni testi credo anche di qualche importanza, come quello che introduce il Catalogo generale degli acquerelli e
l’altro per il Catalogo generale dei disegni4. Tra quelli compresi, invece, un saggio è inedito in
Italia, in quanto pubblicato solo in lingua spagnola per la grande antologica curata insieme
a Tomás Llorens e Juan Manuel Bonet nel 1999 per il Museo Thyssen di Madrid5, ed un
secondo – quello dedicato al rapporto fra l’arte morandiana e la poesia di Giacomo Leopardi – non è mai stato pubblicato perché, nato come relazione introduttiva al convegno
organizzato nel 1999 dal Museo Morandi per il bicentenario leopardiano, ha condiviso la
sorte di tutti gli altri pur autorevolissimi interventi6 di quella giornata di studio per la quale
non è stato possibile pubblicare gli atti a causa dell’abituale e voluta mancanza di fondi del
Museo. Oltre al capitolo sulla ‘questione’ Morandi-Arcangeli, con le sue due ‘appendici’
documentarie, e ad una breve riflessione su un dipinto di Fiori del 1943 che amo molto7,
un terzo scritto – Il confronto con le avanguardie (1913-1917) – è del tutto nuovo: nella
fase di revisione del materiale, mi sono infatti resa conto di non aver mai scritto pagine
specificamente dedicate a questa stagione imprescindibile dell’arte morandiana, anche se
naturalmente la sua conoscenza è sempre stata alla base della mia ricerca8.
Ma, distinguendomi dal tradizionale approccio ‘nazional-novecentesco’ a Morandi, peraltro all’estero ormai del tutto superato, io non considero i suoi primi anni fino alla stagione
metafisica compresa, come i più importanti, quelli che giustificano e sostengono la sua
grandezza, quelli dei suoi unici, poi insuperati capolavori. Credo piuttosto, insieme a
Roberto Longhi ed alla più attenta critica internazionale contemporanea, che il percorso
dell’artista sia paragonabile non a un diapason ma ad una «traiettoria ben tesa»9 che lo
porta, di riflessione in riflessione, di esperienza in esperienza, di opera in opera, a scavare
sempre di più in se stesso fino ai dipinti struggenti e bellissimi degli ultimi anni.
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A questo proposito e quasi ad incipit di tutto il lavoro, credo che possano essere utili alcune osservazioni, tenendo ben presente che i caratteri di fondo della poesia – e non solo
della poetica – morandiana sono certamente presenti in nuce nelle sue opere degli esordi
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ma hanno bisogno di tempo e lavoro per svilupparsi ed esprimersi al meglio. Morandi
è artista che, nonostante alcune ‘folgorazioni’ giovanili (e penso immediatamente all’incredibile Paesaggio del giugno 1911), matura tardi, intorno ai cinquant’anni e più, e che
nel tempo precedente non fa altro che mettere a fuoco lo sguardo sul reale per saggiare
le diverse vie dell’immagine che gli paiono percorribili e man mano intuire, delineare,
perfezionare ed eleggere quella che riconosce come la più ‘giusta’ per il suo sentimento
del mondo. La ricerca non si quieta neppure quando Morandi trova pienamente se stesso,
perché per tutti gli anni Cinquanta e sempre più fino a quella primavera del 1964 in cui
il suo ininterrotto colloquio con la pittura deve giocoforza concludersi, egli continua a
scavare all’interno dell’immagine per saggiarne ogni ulteriore possibilità d’espressione,
per forzare fino all’estremo limite il proprio bisogno di un appiglio al reale, non tarpando
però il desiderio di scoperta, la voglia di andare oltre per gettare uno sguardo (e che sguardo sapiente è il suo…) al di là della soglia: al di là della convenzione della figura, del limite
della forma, persino del confine imposto dall’equilibrio e dal distacco.
Forse ciò che egli sente con intensità particolarissima fin dalle sue prime prove è quella
luce delle cose che per anni circonderà come un’aureola dorata i suoi modelli e si farà respiro d’alba o silenzio meridiano nei suoi paesaggi, fino a che nelle prove più mature non
diverrà luminosità tutta interna al corpo stesso dell’immagine, un bagliore che emana dal
fondo della tela e letteralmente crea lo spazio e le forme che lo abitano. Qualche anno fa
Pietro Citati a proposito dell’arte di Vermeer ha parlato dello «splendore quieto della sua
mente»10: ecco, mi sento di assumere pienamente questa intuizione anche per Morandi,
che – è appena il caso di ricordarlo – per il maestro olandese ha una vera e propria venerazione; ed anche un grande poeta danese innamorato del nostro artista, Erik Lindegren,
nel dedicargli alcuni versi ha inteso soprattutto sottolinearne la «irradiante quiete»11, la
facoltà quasi medianica di suscitare luce, di evocarla soltanto con il pensiero, con l’intensità della propria concentrazione.
Probabilmente Morandi non avrebbe approvato espressioni quali ‘evocazione’, ‘facoltà
medianica’ o ‘aureola dorata’, lui che nella sua medietas, nel suo caparbio understatement
preferisce discorrere di una marca di colori o di come quella specifica mattina la luce entri
dalla finestra per rischiarare quello specifico oggetto!
Ma è cosa nota: ‘angelo’ sta per ‘messaggero’, colui che ci aiuta ad intuire anche solo una
scintilla del divino nella pasta fangosa dell’essere umano. Se questo è vero, allora Rembrandt e Mozart, Emily Dickinson e Paul Klee sono messaggeri e quindi angeli, e tale è
anche Morandi con il suo sguardo rivolto all’essenza delle cose come lo sono solamente i
veri artisti, quale che sia la loro scelta espressiva, il modo tramite il quale si offrono all’incontro con la realtà e con gli altri uomini.
Il modo di Morandi, il suo personale sentimento del mondo è un impasto di attenzione
e curiosità da un lato (con un corredo di rispetto per tutto ciò che incontra) e concentrazione fino a uno stato di contemplazione assorta, dall’altro. Egli, immobile, quieto
nella sua esistenza apparentemente fin troppo timorata e assennata, guarda il frammento
di mondo che si è scelto come la parte per il tutto e lo trasforma in immagine, lasciando emergere nelle sue tessiture di vibrazioni trasparenti quell’in-frazione, quella rottura
interna alle cose che evita la trappola dell’entropia, della stasi e ricrea continuamente la
vita, restituendocene il senso profondo, il nucleo vitale, l’essenza. In questa operazione di
riconoscimento si avverte nello stesso artista uno stupore integro, un incanto sospeso di
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fronte alla bellezza che gli si va scoprendo davanti agli occhi: per non interrompere il momento magico, per non disturbare l’epifania del visibile, egli resta fermo e tace, in attesa
che la trasposizione metaforica si compia, che l’opera veda la luce.
Tale facoltà di sospensione diviene anche, con la sua maturazione di uomo e con l’approfondirsi del suo rapporto con il reale, accettazione dell’assenza, della sua ineluttabilità sub
specie di privazione e morte; accettazione e consapevolezza che per lui artista, inevitabilmente, si riflettono in un’immagine che è vuoto di uomini e suoni, che è silenzio. Se è
Heidegger a comprendere che «i poeti dicono il taciuto» e se è proprio un poeta amico di
Morandi, Giovanni Giudici, a ricordarci «…la poesia che, quasi persona, parla dal dentro
del nostro silenzio con la sua voce im-pertinente»12, Morandi offre un volto al silenzio e
all’indicibilità del reale e lo fa con tutta la discrezione, la ricchezza, la semplicità sofferta
del suo animo complesso.
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R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Torino, Einaudi, 1979, p. 41.
Di recente (febbraio 2007) l’Editore Umberto Allemandi di Torino ha ripubblicato il lungo saggio
di Francesco Arcangeli, nella sua Stesura originaria inedita, con introduzione, apparati e note a cura
di Luca Cesari. Si tratta di un imponente volume di più di 700 pagine, arricchito da 14 tavole a
colori e 197 riproduzioni in bianco e nero.
3
Va citato a parte, per la sua acutezza critica, il recente saggio monografico di Fabrizio D’Amico,
Giorgio Morandi, Milano, Edizione Five Continents, 2004. Per le principali indicazioni criticobibliografiche sull’artista, cfr. la Bibliografia pubblicata in coda al volume, un’antologia ragionata
di voci che ho aggiornato fino ai testi più recenti e con numerosi contributi stranieri apparsi negli
ultimi anni in libri, cataloghi e riviste.
4
Entrambi i cataloghi sono stati da me curati e pubblicati dall’Electa: il primo nel 1991 ed il secondo nel 1994.
5
Tra i miei testi mai pubblicati in Italia posso inoltre ricordare quello scritto per l’Albertina di
Vienna ed il Kunsthal di Rotterdam, Morandi. L’acquerello (1994), i saggi La maturità di Morandi,
per il Teylers Museum di Haarlem e I linguaggi espressivi per i musei di Klagenfurt e Lubiana (1996)
e quello per il Teien Art Museum di Tokyo, Morandi e il sentimento della natura (1998).
6
Tra i partecipanti al convegno vanno almeno ricordati, per la profondità e l’acutezza delle loro
relazioni, Antonio Prete, Rolando Damiani, Emilio Pasquini, Marco Antonio Bazzocchi, Eugenio
Riccòmini, Alessandro Parronchi, Italo Tomassoni.
7
Cfr. p. 79: Un piccolo capolavoro ritrovato (1943).
8
Riferimenti particolarmente ricchi ai primi anni morandiani si possono trovare in Morandi, fascicolo monografico, Firenze, Giunti, 1990; La pittura del primo Novecento in Emilia Romagna (19001945), in AA.VV., La pittura in Italia. Il Novecento 1. 1900-1945, vol. I, Milano, Electa, 1992;
Giorgio Morandi. Dipinti 1922-1964, Palermo, Ada Edizioni, 2002.
9
Cfr. R. Longhi, Exit Morandi, in “Paragone”, n. 175, Firenze, luglio 1964, p. 3-4 con la menzione
«trasmesso all’ “Approdo” televisivo del 28 giugno 1964» (ripubblicato in Da Cimabue a Morandi,
Milano, Mondadori, 1973, p. 1101).
10
Cfr. P. Citati, La donna che sconfisse le tenebre del mondo, in “la Repubblica”, Roma, 28 maggio
1996.
11
Cfr. E. Lindegren, Augusti. Till Giorgio Morandi [Agosto. A Giorgio Morandi], dalla raccolta di
poesie Vinteroffer 1954, in Dikter, Stoccolma-Roma, 1963.
12
Cfr. G. Giudici, La poesia im-pertinente, in “Effe”, n. 7, Milano, autunno 1997. La citazione di
Heidegger è tratta da U. Galimberti, Scovare il senso in gocce di nulla, in “Il Sole-24 Ore”, Milano,
20 giugno 1993.
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La vita e l’opera
Le radici, la famiglia, la formazione
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(1890-1911)
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iorgio Morandi non solo nasce, nel luglio del 1890, a Bologna, ma alla città emiliana
appartiene per famiglia, cultura e sensibilità. L’artista infatti condivide dell’indole
bolognese i caratteri più profondi, facendone propria la parte più autentica: la discrezione
e il rispetto per gli altri (si chiede per sé quella riservatezza che si riconosce agli altri); l’ironia sagace, a volte affilata come una lama fino a ferire, ma sempre con leggerezza e qualche
bonomia; il piacere della discussione, comunque commisurata alla civiltà dei rapporti; la
quotidianità del respirar cultura, come se l’atmosfera della più antica università del mondo avesse permeato di sé, nei secoli, le case che nel centro storico le si stringono intorno.
Tutto ciò, insieme all’amore per la vita apprezzata anche nei suoi aspetti più terreni, è alle
radici della nostra civiltà e, se pur oggi pare sempre più spesso smarrirsi nel chiasso e nella
volgarità di un presente che sembra senza memoria, resta alla base di tutto e giustifica
– in Morandi, come in noi – un attaccamento alla città che altrimenti né allora né oggi
avrebbe alcun senso.
Il padre di Giorgio, Andrea Morandi, è proprietario terriero in Romagna e prima rappresentante e poi socio di una importante seteria di Lione, tanto che in casa tutti parlano
correntemente il francese e sanno qualche cosa anche di inglese; e questo nei primi anni
del secolo. La madre, Maria Maccaferri, discende per linea femminile da una delle più
stimate famiglie della città, i Dozza di Villa Ghigi, proprietari di terre e di carrozze,
amanti dell’arte e della letteratura, imparentati con i protagonisti del risveglio cittadino
di fine Ottocento (primo fra tutti, il colonnello Paolo Bovi Campeggi, figura di spicco
del Risorgimento italiano, aderente alla Repubblica romana del 1848 e vicino a Garibaldi
nell’impresa dei Mille). Dall’unione fra Andrea e Maria nascono, uno dopo l’altro, cinque
figli: Giorgio, nel 1890; Giuseppe, due anni più tardi (ma il bambino morirà di difterite, a
soli 11 anni); e poi Anna, nel 1895; Dina, nel 1900; la piccola Maria Teresa, nel 1906, più
giovane del fratello maggiore di ben sedici anni. Ma poco tempo dopo, nel 1910, anche il
padre muore per una malattia infettiva, lasciando la moglie da sola con quattro ragazzi, il
più grande dei quali, Giorgio, non ha ancora vent’anni e frequenta già da qualche tempo
i corsi inferiori dell’Accademia di Belle Arti. Maria, la madre, è una donna forte che ha
compreso la passione del figlio per la pittura e, ben lungi dallo scoraggiarla, la condivide
e la rispetta, facendo di tutto per aiutare il giovane. Ma anche le tre sorelle riceveranno
una buona istruzione, a prezzo di sacrifici non piccoli e con l’aiuto costante della famiglia
materna, fino a diplomarsi maestre e ad essere in grado di mantenersi con dignità (parola-
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A pagina 12: Giorgio Morandi nell’aula di incisione all’Accademia
di Belle Arti di Bologna, nella seconda metà degli anni Trenta
(V. n. … )
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Abbreviazioni
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Lamberto Vitali (a cura di), Morandi. Catalogo Generale, 2 voll. Milano, Electa,
1977-19832.
(V. Inc. n. … ) Lamberto Vitali, L’opera grafica di Giorgio Morandi, Torino, Einaudi, 1957-19642.
(P. 1991, n. …) Marilena Pasquali (a cura di), Morandi. Acquerelli. Catalogo generale, Milano,
Electa, 1991.
(P. 2000, n. …) Marilena Pasquali (a cura di), Morandi. Opere catalogate tra il 1985 e il 2000, Bologna, Museo Morandi-MusicaInsieme, 2000.
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Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita,
arsa sulla pianura sterminata nell’Agosto torrido,
con il lontano refrigerio di colline verdi e molli
sullo sfondo. [...] e del tempo fu sospeso il corso.
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Le radici, la famiglia, la formazione (1890-1911)
chiave, questa, nell’universo morandiano), contribuendo al bilancio familiare e garantendo in ogni circostanza il loro appoggio al fratello, nel quale tutti in famiglia credono fin
dai primi anni, avendone compreso per tempo le straordinarie potenzialità artistiche.
Questo è l’ambiente in cui il giovane si forma, nell’affetto delle donne di casa, nell’attenzione reciproca, nel costante interesse, e rispetto, per la cultura, sentita come nutrimento
necessario al vivere di ogni giorno. Si possono perciò considerare solo in parte credibili,
più che altro frutto della ‘leggenda Morandi’, le voci che ci dicono di una famiglia modesta, umile, ai limiti dell’indigenza: certamente di soldi in via Fondazza, almeno fino al
1930, se ne vedono pochi2, ma questo nulla toglie allo spessore culturale e umano di una
famiglia che tiene in conto soprattutto le cose importanti della vita, lasciando ad altri
ricerca di potere e piaceri effimeri.
Entrato all’Accademia di Belle Arti di Bologna nel 1907, Morandi ne uscirà diplomato
nel 1913, dopo un anno di incomprensioni con i professori che lo considerano troppo
fuori dagli schemi3 e quando già la sua poetica si è precisata e ha dato primi, straordinari
frutti d’immagine. La sua è un’educazione artistica insieme tradizionale e autodidatta,
singolare fusione di tre elementi fondamentali: insegnamenti d’accademia accettati e meditati per apprendere la tecnica; studio appassionato della grande pittura italiana ed europea del passato (amore che farà di Morandi uno dei più raffinati conoscitori d’arte, cui
si rivolgono quasi a consulto su un’opera appena scoperta studiosi del calibro di Roberto
Longhi e Cesare Brandi); elaborazione del tutto personale del presente, sforzo di condivisione della ricerca più avanzata che si basa sulle scarne informazioni sulle avanguardie
artistiche, soprattutto francesi, che possono giungere fino alla chiusa e sonnacchiosa Bologna dei primi del Novecento4.
Così nasce Morandi. I suoi primi dipinti adulti sono del 1910: il Paesaggio estivo, scorcio
di un viale di periferia, già colmo di accorgimenti cézanniani, e la piccola, forse precedente, Nevicata, ancora immatura per certe notazioni descrittive ma già tutta sua nella
ricchezza delle sfumature del bianco e il digradar attento dei piani verso l’orizzonte. Già
nel giugno dell’anno dopo ‘esploderà’ quel primo capolavoro che è il Paesaggio Vitali5, così
controllato nell’impianto compositivo, così severo nella costruzione della scala cromatica, quasi un monocromo in cui sono ammessi solo i toni tra il verde e il grigio, ma con
quanta e quale emozione visiva!
È un artista maturo quello che lavora così e non è credibile che il giovane ventunenne sia
giunto ad esiti di tale perfezione senza aver messo alla prova più e più volte la propria capacità e la propria forza interiore. Certamente molte opere mancano all’appello per questi
primissimi anni e per quelli che seguono fino almeno alla metà degli anni Venti (Giuseppe
Raimondi parla, per gli anni Dieci, addirittura di bei nudi di donna carnosi e sereni come
una giornata di sole!6), tentazioni e tentativi, rapidi innamoramenti, sbandate e ripensamenti prontamente dominati, quasi rimessi in riga dal giovane ma controllato artista.
Già in tempi così precoci e poi spesso in seguito, col senno di poi, Morandi infatti provvede a distruggere ciò che non lo convince, ciò che – magari tentativo interessantissimo
– non pare a lui rientrare compiutamente nel ‘suo’ percorso, nella ‘sua’ linea interpretativa, quella che egli stesso traccia con mano ferma e senza esitazioni, secondo la scelta di
un’arte limpida, apollinea, classica nel senso della misura, dell’equilibrio e del rigore.
Morandi non è tutto qui, è anche passione, trasalimento, malinconia, attimi di pura gioia
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Paesaggio, 1911 - (V. n. 2) - Milano, Pinacoteca Nazionale di Brera
e discese senza difesa nelle regioni dell’ombra. Ma ogni cosa deve stare dentro i binari che
egli stesso ha fissato. L’obiettivo viene comunque raggiunto, anche a prezzi molto alti:
prima, in tempi di controllo non ancora perfetto, perfino tramite la distruzione fisica
dell’opera; in seguito, quando già la conoscenza del Sé si è fatta più precisa, grazie ad un
reiterato processo di elaborazione di ogni dato sensoriale ed emotivo, così che tutto, anche
la scintilla più ardente o la tentazione del buio, venga trasfuso nell’immagine, divenendo
nutrimento di vita indispensabile alla sua limpidezza. A questa disciplina del distacco
corrisponde quello che un altro artista del ventesimo secolo, Henri Michaux, ben lontano
da Morandi per temperamento e scelte artistiche, ha felicemente chiamato il «lontano
interiore». Tutto avviene dentro la persona; gli strumenti dell’arte valgono solo in quanto
attrezzi del mestiere, conosciuti a fondo per dominarli e trasformarli secondo necessità;
ciò che importa è il saper partecipare al «sentimento delle cose» – e queste sono parole
di Morandi – pur senza venirne travolti, collocando ogni dato in una lontananza che è
innanzi tutto contemplazione.
(da La lontananza del visibile. Appunti per una monografia, in catalogo della mostra Giorgio Morandi. Dipinti 1922 – 1964, Palermo, Palazzo Sclàfani, maggio-giugno 2002. Palermo, Ada, 2002, p. 12-14).
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Cfr. D. Campana, La Notte, in Canti Orfici, a cura di F. Ceragioli, Milano, Rizzoli, 1989, p. 53,
v. 1-4 e 12-13. Per Campana, la «vecchia città» di questo folgorante incipit è Faenza; per Morandi,
il riferimento vale ovviamente per Bologna, ma mi sembra che l’approccio della memoria abbia in
entrambi un analogo timbro di evocazione visiva.
2
Cfr. in proposito la lettera che Emilio Cecchi scrive alla moglie, Leonetta Pieraccini, il 6 giugno
1918: «Vidi Bacchelli, assai a lungo: si andò con lui da quel pittore Morandi del quale ti rammenterai la pittura di quel paese nevoso, alla “Secessione” nella sala di Pizzirani. È un tipo malato, logoro,
disfatto, che sta in una casa misera, con un sentore di disgrazie e di malattie ereditarie: in una stanza
opaca, che è studio, camera da letto, tutto. [...] Che gente laboriosa, nobile, nella sua disdetta» (E.
Cecchi e L. Pieraccini, Lettere, Firenze, Gabinetto Viesseux, 1990). In effetti, Morandi nel 1917
è per mesi malato, a causa di incessanti dolori reumatici e articolari che gli impediscono quasi di
lavorare, ma il giudizio dello scrittore romano pare troppo duro e forse si può spiegare pensando
al dolore, non ancora elaborato, che tutta la famiglia Morandi prova per la prematura perdita del
padre.
3
Cfr. P. Mandelli, Giorgio Morandi 1907-1913, in “Analisi”, Bologna, 15 ottobre 1978 (ripubblicato in Id., Via delle Belle Arti, Bologna, Minerva, 2002, p.13-17).
4
È questo il «torpore» di cui scrive Riccardo Bacchelli in una sua lettera del 26 maggio 1926 a Giuseppe Raimondi. Il giovane scrittore, amico di Morandi, ha appena lasciato Bologna per trasferirsi
a Milano: «Alla luce delle notizie ricevute da Raimondi, mette a raffronto la tranquillità della vita
bolognese con l’agitazione di quella milanese» (M. Saccenti in Giuseppe Raimondi fra poeti e pittori.
Mostra di carteggi, Bologna, Alfa, 1977, p. 142).
5
Cfr. L. Vitali, Morandi.Catalogo Generale, Milano, Electa, 1977-1983, n. 2, ripr. La tela, appartenuta per tanti anni al primo e più importante ‘sistematore’ dell’opera morandiana, per sua volontà
testamentaria è entrata nel 2000 a far parte delle collezioni della Pinacoteca di Brera. Per informazioni più dettagliate, cfr. Brera. Un milanese che parlava toscano. Lamberto Vitali e la sua collezione,
Milano, Electa, 2001.
6
Cfr. G. Raimondi, Giorgio Morandi, in “Il Nuovo Paese”, Bologna, 12 aprile 1923. L’articolo, proprio per questi suoi riferimenti certo non graditi all’artista, è stato espunto per più di sessant’anni
dalla bibliografia morandiana ed è tornato alla luce soltanto nel 1984, alla morte del suo autore,
quando tutto l’album morandiano di Raimondi è stato da lui donato al costituendo Museo Morandi. Questo è il brano cui si fa riferimento: «Soprattutto si mostrava affezionato a un paio di tele con
figure di donna staccate in un cielo di fantasia popolare. Donne dai grandi seni e dalle acconciature
voluminose di una volta. Un gusto raffinato, un’ironia affabile di vecchi figurini, una immaginazione da bellezza di fiera, e quella gaia solidità di persone e di cose ognora presente a chi le contempli
in un giorno luminoso di domenica della nostra bolognese Montagnola».
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ino dai suoi esordi Morandi è uomo di vivace curiosità, di impregiudicati interessi
e di grande intuizione critica, dotato di ‘antenne’ particolarmente sensibili, sempre
pronte a recepire quanto di meglio stia di volta in volta nascendo e si stia sviluppando
in campo artistico. Sul piano culturale, Morandi non ha mai sbagliato un rapporto. Se
questo è vero per la sua maturità – è nota la sua stima nei confronti di Matisse, Mondrian
e Burri, il legame discreto, a distanza, che lo unisce ad esempio a Julius Bissier – figurarsi
che cosa può comportare un atteggiamento di tale attenzione e capacità recettiva e reattiva
nei suoi anni di gioventù, quando Morandi non è ancora l’individuo schivo e chiuso su
cui si è costruita una leggenda fatta di qualche verità e di molte forzature, ma è piuttosto
un ragazzo entusiasta e non ancora frenato dall’esperienza, che vuole conoscere, vuole
crescere e vuole per sé il meglio.
Purtroppo la quasi totalità dei carteggi e dei documenti relativi a questo periodo è andata
perduta nel trasloco, tutto interno alla casa di via Fondazza ove i Morandi abitano dal
1910, cui la famiglia è costretta nel 1933 a causa delle peggiorate condizioni di luce nella
prima, a noi sconosciuta, camera-studio di Giorgio (nella nuova sistemazione l’artista
troverà ancor più raccoglimento e quella luce leggera che, spiovendo dai colli bolognesi,
trapassa il cortile ed entra dalla finestra a dissetare la sua pittura). Ma qualche cosa di
quegli anni è giunto fino a noi attraverso i primi articoli sulla sua arte, le testimonianze
di chi con tanta precoce acutezza ne ha compreso l’unicità, qualche documento, lettera e
appunto inedito conservati presso il Centro Studi Giorgio Morandi di Bologna.
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Innanzi tutto i luoghi. Si è detto di via Fondazza, strada stretta e lunga, tutta portici, quasi
al margine estremo del centro storico bolognese ‘verso la porta’, avara di aria, di luce e
ricca solo di umanità (scriverà nel 1946 Mario Bacchelli, il fratello pittore di Riccardo:
«via Fondazza, dai portici bassi e dalle bottegucce scure, che hanno nelle vetrine oggetti
che si direbbe nessuno debba mai comprare: omini ocarine e cavallucci impastati di farina
di castagne, trombe e fischietti da bimbi, santini e madonnine di zucchero fuso»1). Questo il ‘luogo’ per antonomasia di Morandi, l’ambito gelosamente protetto dei suoi affetti
così come il campo delle sue speculazioni per immagini, senza però dimenticare le aule
dell’Accademia di Belle Arti che il ragazzo frequenta dal 1907 al 1913 – i corsi inferiori
e quelli superiori fino al diploma –, le strade percorse parlando e parlando fino a tarda
notte, i caffè del centro, soprattutto il Caffè San Pietro in via Indipendenza all’angolo
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con via Altabella, dove quasi quotidianamente si ritrovano allo stesso tavolino «presso un
divano rosso»2, i giovani intellettuali un po’ scapigliati, un po’ ribelli, un po’ provocatori,
che sono i primi, veri amici di Morandi.
Eccoli dunque, iniziando dai primi, i prescelti tra i compagni di Accademia: durante
l’anno scolastico 1909-1910 Morandi incontra i più giovani Osvaldo Licini, Giacomo
Vespignani e Severo Pozzati, pittori i primi due, allora scultore il terzo, poi divenuto uno
dei maggiori cartellonisti e grafici europei. Con loro Giorgio stringe quell’amicizia che
solo tra giovani è possibile, dividendo propositi e lavoro, rabbie ed entusiasmi.
Non sappiamo se già nel 1910 partecipino anche loro alle prime due tappe del suo personale ‘viaggio in Italia’, ma ciò non si può escludere e certo essi divengono i primi depositari dei suoi racconti ricchi di scoperte e di illuminazioni. Ma lasciamo la parola a Francesco
Arcangeli che meglio di chiunque altro ha saputo tratteggiare questi inizi: «Ecco allora,
nel 1910, i primi grandi incontri. Accaddero, come poi quasi sempre in Morandi, su due
piani ugualmente approfonditi: incontro con pochi grandi antichi, incontro con pochi
grandi moderni. Pochi, non per l’esperienza, che Morandi ha assai vasta, e sorretta da
una intuizione e da una memoria associativa da suscitar francamente invidia in noi della
professione, ma per l’attenzione amorosa e inesausta che riserba a rari maestri del passato
e dei tempi nuovi […]. Il 1910 è l’anno dei primi due viaggi memorabili: a Firenze, appunto, e a Venezia per la Biennale. “Ancor oggi – ha scritto Vitale Bloch – racconta del
suo primo giorno a Firenze: le chiese, a cercar gli affreschi di Giotto, di Paolo Uccello, di
Masaccio; agli Uffizi; la sera stava a letto con un febbrone”. […] A Venezia, soprattutto,
i Renoir. […] Sono passati molti anni da quando vidi, con emozione, tra le mani di
Morandi, i fogli ingialliti strappati al vecchio catalogo: i fogli di Renoir. Scrive, di quella
sala, il coetaneo Roberto Longhi: “Me ne ricordo bene, perché per tutti noi, giovani sui
vent’anni, sia pittori che critici, fu la prima rivelazione diretta della pittura moderna”»3.
Poche cose meglio di questa notissima pagina di Arcangeli, che porta con sé anche Longhi
e Bloch, possono restituire il sapore di quelle scoperte, di quella bruciante sindrome di
Stendhal che la sera blocca a letto, arso dalla febbre del troppo bello, il giovane Morandi
(e, in qualche cosa, pare affacciarsi fin da questo momento la figura maudit di Campana,
quest’altro giovane preso nel vortice d’incanto delle immagini che, in lui, si fanno parola
di poesia). Ma in quel primo aprirsi al mondo della cultura e dell’arte non ci sono solo i
maestri, perché per Morandi e compagni molto vale l’immediata contemporaneità, l’interesse per il futurismo e per quei pittori d’Oltralpe che, facendo proprie le conquiste di
Cézanne, hanno intrapreso la scomposizione della forma.
Mentre per il maestro di Aix-en-Provence e per Picasso le fonti per quanto valide non
possono essere che indirette, soprattutto riproduzioni in bianco e nero e gli articoli di
Ardengo Soffici che appaiono su “La Voce”4, con i protagonisti del futurismo l’incontro
è possibile e questo è ciò che i giovani bolognesi – di nascita o, come Licini, di adozione
– cercano con entusiasmo e determinazione.
Un punto è fondamentale: Morandi non sarà mai futurista, neppure per un breve periodo5, perché la sua indole umana e la sua scelta artistica richiedono rigore ed equilibrio,
senso della costruzione e misura, concentrazione e silenzio. Per questo la sua attenzione
vera, il rispetto dovuto ai maestri, il desiderio di imparare e rielaborare sono tutti per
Cézanne e, in second’ordine, per il cubismo. Ma il richiamo di Marinetti e del suo movimento è davvero seducente e il giovane segue l’amico Licini come spettatore delle serate
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Ritratto della sorella, 1913 - (V. n. 3) - Bologna, Museo Morandi
futuriste di Modena e Firenze, nonché alla pièce Elettricità di Marinetti, rappresentata
con «grande gazzarra» al bolognese Teatro del Corso il 19 gennaio 19146.
Ma già prima di queste date Morandi ha incontrato Marinetti e Boccioni tramite Balilla
Pratella a Lugo di Romagna, ove è di casa il terzo amico, il lughese Giacomo Vespignani
conosciuto insieme a Licini due anni prima in Accademia. Balilla Pratella aderisce al movimento con il Manifesto dei musicisti futuristi dell’11 ottobre 1910 ed apre la sua casa ai
giovani del paese e non solo, per fare proseliti e per diffondere la conoscenza del nuovo
linguaggio in vista della nuova cultura, del nuovo mondo che deve nascere.
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Natura morta di vetri, 1912-1913 - (V. n. 4)
Lasciamo la parola al musicista che così ricorda nella sua Autobiografia7 quel periodo
così elettrizzante: «Anche la mia casa di Lugo cominciò nel 1911 ad essere frequentata
da molti giovani, studenti, pittori, letterati, musici, concorrentivi non solo dal paese, ma
anche da quelli vicini; attirativi dall’amicizia, ma attirativi pure e allora dalla celebrità e
dal fascino personale del Marinetti e da quello delle sue idee audaci, geniali e nuove, se
pur paradossali. Ne capitavano, oltre che da Lugo, da Ravenna, da Forlì, da Faenza, da
Bologna. I giorni in cui c’era il Marinetti, ci si trovava assieme da tutto il pomeriggio sino
alle ore piccole dopo la mezzanotte; ed era un continuo succedersi di audizioni musicali, di mostre di pitture, di lettura di poesie, di accese discussioni artistiche, culminanti
sempre nella incomparabile declamazione da parte di Marinetti delle sue pirotecniche
poesie e di quelle di altri poeti futuristi quali il Buzzi, il Govoni, il Palazzeschi. […] Né
devo lasciar passare sotto silenzio il passaggio dalla mia casa e la frequenza in essa, e specialmente nei primi tempi, del primo scrittore e romanziere italiano vivente, Riccardo
Bacchelli, allora agli albori della sua luminosa carriera, del fratello Luigi, buon pittore [si
tratta, in realtà, di Mario Bacchelli, n.d.r.]; del grande e geniale pittore Giorgio Morandi
e del suo bravo compagno d’arte Osvaldo Licini marchigiano, entrambi studenti allora,
e col lughese Giacomo Vespignani, all’Accademia di Belle Arti di Bologna, essendo essi
– i più – di Bologna, o standovi. Se il Vespignani, come ho già detto, e il Licini avevano
aderito per lo meno idealmente ai principi del futurismo, il Morandi perlomeno li aveva
presi in seria considerazione, e il Bacchelli non si dimostrava né avversario, né spregiatore
del movimento».
Assai fine è il giudizio di Balilla Pratella: Morandi, come fa con tutto ciò che lo interessa
veramente, prende davvero in «seria considerazione» la proposta futurista, ma non la trova
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Fiori, 1913 - (V. n. 5) - Venezia, Peggy Guggenheim Faundation (deposito Collezione Gianni Mattioli)
a sé confacente e perciò partecipa sì a tutte le occasioni possibili, ma come semplice osservatore. E non è ancora finita. Mentre leggiamo in un suo appunto inedito: «Ricevevamo
tutti i manifesti futuristi – non ‘il mio futurismo’ di Papini – ‘Pittura e scultura futuriste’
di Boccioni – ‘Cubismo ed oltre’ di Soffici ed anche, quasi certamente, ‘Cubismo e futurismo’»8, sappiamo che è lui uno dei tre protagonisti dei Racconti di Bruto, scritti da
Osvaldo Licini nella sua Montevidon Corrado durante l’estate del 1913 e inviati a Balilla
Pratella affinché ne proponga la pubblicazione su “Lacerba”9: insieme a Bruto (l’autore
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stesso) e a Giacomo, Giorgio vive avventure da studente, scandalizza le signorine di buona
famiglia con scherzi e parole persino audaci, ‘va a casino’ con gli amici, trascorre le notti
a chiacchierare e a discutere.
Sicuramente il motore di tutto questo è l’irrequieto e scapigliato Licini, ma il buon Morandi non si tira indietro e mostra una fisionomia a dir poco inaspettata, lasciandoci finalmente comprendere come l’uomo serio e schivo della maturità si sia sostituito solo con gli
anni al giovane assetato di vita, ricco di interessi non solo artistici che abbracciano, oltre
alle parole nuove del futurismo, la poetica nicciana e faustiana di Dino Campana e i versi
del «corruttore» Arthur Rimbaud, un interesse che divide con l’amico letterato Giuseppe
Raimondi, più giovane di lui di nove anni e vivace nello stabilir stimolanti rapporti culturali forse ancor più di Osvaldo Licini. Viene quasi il sospetto che Morandi, così cauto
e chiuso nel proprio guscio, ammiri proprio quei caratteri che sembrano opposti al suo,
subendone il fascino e traendone stimoli per la sua comunque solitaria speculazione (oltre
a Licini e Raimondi, un terzo amico ‘rompicollo’ conserverà Morandi per tutta la vita,
il toscanaccio Mino Maccari, che con lui si comporta con stima ma anche con pungente
ironia e una qualche spiccia affettuosità).
Gli scritti di memorie di Giuseppe Raimondi, sempre affascinanti, lasciano qualche dubbio sull’esattezza di luoghi, date ed episodi, ma restano comunque una miniera di informazioni e sanno far rivivere felicemente l’atmosfera di quegli anni, tra il 1910 e il 1918,
in cui la borghese, accademica e sonnolenta Bologna, per merito di questo pugno di
giovani, si trasforma in quella che Ragghianti ha definito la «Bologna cruciale», crocevia
di acquisizioni e di rielaborazioni culturali valide per tutta Italia.
Così egli, che conosce Morandi negli ultimi mesi del 191610 per divenirne amico fraterno
agli inizi del 1918, scrive ad incipit di Viene Morandi, secondo capitolo dei suoi Divertimenti letterari11: «Era il tempo in cui noi si leggeva Rimbaud. […] Noi, vuol dire il
sottoscritto e l’amico pittore. Si lavorava, più che col nostro poco di francese, di fantasia;
inducendo nel significato quanto era possibile di conoscenze moderne: poesia, giri di
frase di chi, in Francia, c’era stato (Soffici, Bacchelli), e soprattutto il gusto con cui stare
in compagnia tra artisti, al caffè, o in trattoria, le quali cose messe insieme, davano un
carattere, un tono di modernità, cioè di intellettuale rivolta verso l’educazione, verso la
compostezza della scuola e della famiglia. In modo diverso, ci sentivamo tutti antiborghesi. O, almeno, un poco, o molto, diversi da quelli di prima. Poesia, o vita civile. Rimbaud,
il grande corruttore, il dissipatore della nostra gioventù artistica, letteraria. Rimbaud era
l’altra faccia della medaglia, che recava sul rovescio la faccia antica di Cézanne. […] E a
Morandi compiaceva il parlare, affocato ma tremendamente calmo, di Rimbaud; dove le
indicazioni, le suggestioni d’immagine nuova, ferrea e ‘moderna’, potevano essere dedotte
e piegate secondo la piega del suo temperamento. Che, d’altra parte, non fu mai quello,
solamente, di un contemplativo. Né in arte, né nella vita; che erano poi, per lui, la medesima cosa. Non fu mai quello che si dice un uomo tranquillo».
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Per comprendere Morandi e la sua pittura è necessario tenere a mente queste parole di
Raimondi, forse una delle poche persone che hanno con lui condiviso interessi e passioni,
fino a goderne della più completa confidenza e quindi a conoscerlo a fondo.
Pochi altri gli sono altrettanto vicini in questi anni fondamentali. A ben guardare forse i
soli fratelli Bacchelli, Riccardo e Mario, conosciuti nel dicembre del 1913 e con i quali
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l’artista dividerà altre avventure della mente: la passione per Renoir, personalmente conosciuto da Mario a Parigi, nel 1912-’13, durante un soggiorno di studio; la scoperta
abbacinante, nel 1914, degli affreschi di Vitale da Bologna a ‘mezzaratta’ sulla salita dell’Osservanza; il primo articolo a lui dedicato da Riccardo su “Il Tempo” di Roma il 29-30
marzo del 1918. Ma, a questa data, dopo una guerra insensata e grondante di sangue che
ha falciato un’intera generazione di giovani e, con loro, ha ucciso il senso della giovinezza
e della bellezza, il mondo è cambiato – è iniziato davvero «il secolo breve» – ed anche Morandi, ammalato per lunghi mesi nel 191712, è cambiato. Dalla crisi più grave, dal fondo
dell’abisso, egli emergerà temprando la sua arte al filo del dolore e dando vita a quella
stagione irripetibile e unica che è la sua personale interpretazione della Metafisica.
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(da Gli incontri del giovane Morandi, in “Hortus Musicus”, n. 11, Bologna, settembre
2002, p. 72-75).
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Cfr. Giorgio Morandi, pittore bolognese. Articolo scritto da Mario Bacchelli per la rivista “Magazine
of Art” di New York nel febbraio 1946. Non si sa se in effetti il testo sia stato tradotto e pubblicato
(una lettera di Bacchelli a Morandi del 28 giugno parla dell’intenzione di farlo apparire sul numero
autunnale), ma il dattiloscritto è stato conservato dall’artista e dalle sue sorelle e si trova oggi presso
il Centro Studi Giorgio Morandi.
2
Cfr. G. Raimondi, Solo parlando di Matisse, Morandi s’illuminava, in “il Resto del Carlino”, Bologna, 19 febbraio 1979. Nonostante il titolo persino fuorviante, l’articolo è ricco di informazioni
che, pur richiedendo un filtro particolare e molta cautela, restituiscono soprattutto il sapore di un
luogo e di un tempo.
3
Cfr. F. Arcangeli, cit., 1964, p. 22-23.
4
Per Paul Cézanne, cfr. A. Soffici, L’impressionismo e la pittura italiana, quattro articoli comparsi
su “La Voce” tra il 1 aprile e il 6 maggio 1909 (n. 16-18-20-21) e quello dedicato all’Esposizione
di Pittura Impressionista organizzata dalla stessa rivista al Lyceum di Firenze tra il 15 aprile e il 15
maggio 1910 (“La Voce”, n. 22, 12 maggio 1910); nel 1914, nella collana «I Maestri Moderni»,
uscirà per gli stessi tipi il fascicolo illustrato Sedici opere di Paul Cézanne (il secondo fascicolo verrà
dedicato a Henri Rousseau ed il terzo, sempre nello stesso anno, a Dodici opere di Picasso).
Di quest’ultimo compare anche su “La Voce” la riproduzione di un disegno di Bagnanti appartenente a Soffici (n. 47, 21 novembre 1912), ed è anche del 1912 il volume di A. Gleizes e J. Metzinger, Du cubisme. Come afferma Lamberto Vitali nella sua monografia (cit., 1964, p. 17 e nota 33),
«Morandi l’ebbe di sicuro per le mani».
5
L’unico lavoro conosciuto di Morandi che si avvicina agli stilemi futuristi è un piccolo disegno
del 1915, realizzato a inchiostro ma costruito come un collage in cui spicca un titolo scritto a mo’
di parolibere, Tabak - Regie (E. Tavoni - M. Pasquali, Morandi. Disegni. Catalogo Generale, Milano,
Electa, 1994, n. 1915/2). Sempre conservata dall’artista nel suo studio, nel 1991 l’opera passa alle
raccolte del Comune di Bologna nel quadro della grande donazione di Maria Teresa Morandi, autrice del gesto straordinario che ha determinato la nascita del Museo Morandi.
6
A Modena i futuristi giungono il 3 giugno del 1913, mentre sono a Firenze il 12 dicembre per
la «Grande Serata Futurista» che si tiene al Teatro Verdi e che diviene l’appuntamento centrale
dell’Esposizione di Pittura Libera Futurista organizzata in via Cavour da “Lacerba”, con dipinti di
Boccioni – Stati d’animo –, Carrà – Galleria di Milano e Ritmi di oggetti – e 18 opere di Ardengo
Soffici. Certamente Morandi e compagni non se la lasciano sfuggire.
7
Cfr. B. Pratella, Autobiografia, Milano, Pan, 1971, p. 109-111. Cfr. anche Caro Pratella. Lettere
a Balilla Pratella scelte e commentate da Gianfranco Maffina, Ravenna, Edizioni del Girasole, 1980,
p. 27.
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(1913-1917)
Appunti inediti di Giorgio Morandi ritrovati fra le pagine di un volume donatomi da Maria Teresa
Morandi nel 1994.
9
Cfr. O. Licini, Errante, erotico, eretico. Gli scritti letterari e tutte le lettere, a cura di Z. Birolli e F.
Bartoli, Milano, Feltrinelli, 1974, p. 103 e 191: nella lettera del 17 settembre 1913 a Balilla Pratella,
Licini ribadisce la sua «autenticità di futurista convinto, vecchio e disinteressato» e termina «Saluti
Vespignani e che mi scriva. Peccato che non ci fui anch’io quel giorno insieme a Morandi». Nell’ultima pagina del quadernetto che il giovane artista marchigiano invia invece all’amico bolognese,
si legge, a mo’ di conclusione, la nota: «Le altre le leggerai a Bologna (Mi dispiace, caro Morandi,
di non poterti mandare le altre. mi tocca manoscriverle una per una e tu sai che la pazienza non ce
l’ho avuta mai)».
10
Cfr. anche P. Mandelli, Le ore con Morandi, in Via delle Belle Arti, cit., 2002, p. 195-196: qui il
pittore riferisce la storia del primo incontro tra Morandi e Raimondi, come raccontatagli dal primo: «Una sera, mentre sul tavolo era aperto un vecchio numero della “Voce” (15 settembre 1910)
con l’articolo di Soffici su Henri Rousseau e la riproduzione del dipinto Il poeta Apollinaire e la sua
Musa, il professore mi parlò dell’incontro “con una persona”, così mi disse, “che tu conosci bene
e che sembrava mi fosse molto amico”». La «persona» è l’allora giovanissimo Giuseppe Raimondi,
appena sedicenne; le parole, velate di ironia e delusione, sulla sua supposta amicizia, accennano
alla rottura che all’epoca degli incontri con Mandelli, nella seconda metà degli anni Cinquanta, si
è già consumata tra Morandi e Raimondi, pare a causa della vendita dei dipinti morandiani di sua
proprietà, che il letterato ha deciso senza avvertire l’autore.
11
Cfr. G. Raimondi, I divertimenti letterari (1915-1925), Milano, Mondadori, 1966, p. 19-21.
12
Cfr. M. Bacchelli, cit., 1946 (cfr. nota 1): «Venne la guerra e mentre noialtri del suo gruppo, tutti
fra i 20 e i 25 anni, eravamo presi e mandati nelle caserme e sui campi di battaglia, a Morandi l’avventura che lo avrebbe tolto a forza dalla fissazione dei suoi barattoli fu risparmiata per gravi motivi
di salute. In quegli anni duri per tutti, avemmo forti ragioni di temere che la sua vita d’artista si
sarebbe troncata all’inizio. Nelle rare licenze s’andava a trovar Morandi allampanato nel suo lettino,
presso al tavolo tutto pieno e ingombro delle bocce e dei barattoli che porgevan soggetto alle sue
meditazioni pittoriche».
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Vado a fare ciò per cui sono nato.
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el giugno del 1913 Morandi ha ventitré anni e sta per lasciare finalmente l’Accademia, dopo un ultimo periodo segnato da incomprensioni con i professori2. Il
giovane ha davanti a sé una lunga estate prima di iniziare la sua non facile carriera scolastica di insegnante di disegno nelle scuole elementari del Comune di Bologna, incarico
che manterrà fino all’autunno del 1929, quando sarà chiamato per chiara fama e senza
concorso a insegnare Tecniche dell’incisione, cattedra appena istituita nelle Accademie di
Belle Arti del Regno d’Italia.
La scelta di Grizzana come luogo di villeggiatura nasce da un caso, ma presto si rivela
irreversibile e irrinunciabile: è una giovane laureata che dà ripetizioni alla sorella Annetta
(tutte persone un po’ speciali quelle che stanno intorno ai Morandi: una donna laureata
in ingegneria, nel 1913!) a raccomandare il piccolo paese appenninico, disteso nell’aria
sui gioghi più alti tra Bologna e Firenze, e tutta la famiglia Morandi – la madre Maria,
Giorgio e le tre sorelle più piccole – accoglie il suggerimento e si trasferisce per i mesi
estivi in quello che allora doveva essere un borgo isolato e difficilmente raggiungibile3,
ma di immediato fascino per il giovane pittore che sente in sé il bisogno di decantare in
una dimensione di assoluta pulizia dello sguardo e di rasserenata limpidezza della mente
i fortissimi stimoli ricevuti dalle letture e dalle frequentazioni dei mesi appena trascorsi
– i giorni persino stordenti spesi a conoscere le opere ed i maestri del passato, l’ incontro
con gli artisti e i poeti d’oltralpe, le prime gazzarre futuriste, gli agitati contrasti con i
professori, i sogni e le speranze condivisi con pochi amici.
Nascono in questa dimensione di pacato incanto alcuni paesaggi ricolmi d’aria e di luce,
nitide armonie ricche di mille accordi di verde in cui la lezione cézanniana – il modo di
leggere e di spartire lo spazio e la definizione delle forme al suo interno – si incontra con
la concisione di sensibilità e di sguardo che è già del primo Morandi, con la sua particolarissima facoltà di immergersi nella luce e di colmarne l’immagine. I dipinti che ci sono
rimasti – cinque in tutto, più un isolato e bellissimo Paesaggio di neve probabilmente, in
virtù della sua notevole maturità, già dell’inverno successivo, tra il 1913 e il 1914 – raccontano dell’incontro felice fra l’artista e Grizzana, luogo del cuore ancor prima che del
quotidiano, dimensione mentale che subito diviene per lui punto di riferimento costante
e non sostituibile per ogni avventura del pensiero.
I cinque dipinti non sono tutti uguali, anche se mantengono inalterata la quasi crepitante secchezza luminosa – luce chiara, ombre ben definite, pochissima umidità nell’aria
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– che l’artista riceve in dono dal cielo di Grizzana, sconfinato e ricco soltanto d’orizzonti.
Mentre infatti il primo, il ‘cancelletto’ di casa Veggetti presso i fienili del Campiaro4 pare
quasi uno studio prospettico-spaziale per saggiare l’applicazione del dettato cézanniano
alla rappresentazione di uno scorcio reale e persino domestico, le due ‘stradine bianche’ di
campagna (vere e proprie antenate della ben più complessa Strada bianca dei primi anni
Quaranta e di diverse incisioni di uguale soggetto5) mostrano come la gabbia prospettica articolata sulle ortogonali delle ombre in orizzontale e degli alberi in verticale possa
prender vita e movimento grazie al vettore diagonale della strada. La prima opera, oggi
conservata al Museo Morandi, si distingue dalla seconda per la chiarità dei toni, per quei
frammenti della tela di fondo sapientemente lasciati in vista come particelle di luce pura
(inizia qui, anche, il gioco del finito-non finito che tanta importanza assumerà nell’arte
matura di Morandi), per la trasparenza meridiana che pare anticipare il silenzio assorto
dei paesaggi del tempo di guerra.
Ancora diverso è il quarto Paesaggio 19136, dipinto che vale a dimostrare quanto il giovane pittore sia attento ai suggerimenti dei nuovi linguaggi, in questo caso quello del primo
cubismo, e ciò in anticipo rispetto alle Nature morte che caratterizzeranno la sua ricerca
immediatamente successiva, quella del biennio 1914-’15. Nella tela datata «ottobre 913»
(potrebbe quindi nascere qualche dubbio sul fatto che anche questa appartenga alla prima estate grizzanese), le quinte montane si susseguono come piani prospettici aperti,
squadernati, in un’insistita indagine formale che trasforma questo angolo di natura in un
cadenzato gioco di linee e volumi, il tutto sottolineato da un colore più intenso in cui
brilla persino un tocco di rosso nel digradar dei bianchi e nel rincorrersi dei verdi.
Ed infine il Paesaggio7 in cui tutto appare risolto in un’unica gamma cromatica, in un
andamento continuo e sinuoso di linee-colore in cui i profili dei campi e dei monti sembrano la naturale prosecuzione dei rami del grande albero posto al centro, per spartire
cézannianamente lo spazio della composizione. Lo stesso effetto allo ‘Jas de Bouffan’ (ma
non bisogna certo dimenticare l’alberello tutto geometrico che compare in posizione centrale nel riquadro della Battaglia di Costantino e Massenzio nella Leggenda della Vera Croce
del grande Piero, ad Arezzo!) lo si ritrova nel Paesaggio di neve che, a mio avviso, viene
dipinto nell’inverno successivo, quello che porterà alla mostra ‘cruciale’ di un giorno e
mezzo al nuovissimo Hotel Baglioni di Bologna. Il soggetto è raro in Morandi, ma ogni
volta che lo affronta crea un capolavoro: questo si può con qualche legittimità affermare
già per la piccola Nevicata dipinta addirittura nel 19108, ancora acerba per certi tratti e
per un ancora irrisolto indulgere in qualche particolare descrittivo ma pienamente adulta
per capacità di modulare la sinfonia dei bianchi, e per quel miracolo assoluto che è il Paesaggio con l’ultima neve dell’inverno 19449, vertice dell’arte morandiana al quale questo
scorcio di natura imbiancata di trent’anni prima funge da prologo, un’anticipazione già
matura nell’aspra, tormentata secchezza della materia pittorica e nella tesa sospensione
temporale che esclude ogni movimento a tutto vantaggio della messa in evidenza della
struttura, dell’anima segreta del luogo.
Morandi rientra a fine estate a Bologna e subito si trova coinvolto in una delle stagioni più
impegnative della sua vita professionale, in apparenza così priva di eventi significativi10:
nella primavera del 1914 si tengono infatti sia la mostra ‘a cinque’, aperta il 21 e 22 marzo 1914 grazie ai buoni uffici degli amici Mario e Riccardo Bacchelli11 nel seminterrato
dell’appena inaugurato Hotel Baglioni, sia le due esposizioni romane, diversissime e quasi
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antitetiche l’una rispetto all’altra, della Galleria Sprovieri e della Seconda Secessione al
Palazzo delle Esposizioni. Se a queste l’artista partecipa soltanto con un pezzo o due e su
espresso invito degli organizzatori12, per la rassegna bolognese, sia pur limitata a un solo
giorno di apertura, l’impegno suo e dei suoi amici è notevole e porta frutti contraddittori
quanto interessanti.
Si tratta di un’occasione quasi mitica, passata alla storia come la prima mostra di ‘avanguardia’ tenutasi a Bologna, in equilibrio tra futurismo e secessione, a dare ascolto ai
critici di allora, più frastornati e incerti che realmente contrari. Davanti alle opere di
Giorgio Morandi, Osvaldo Licini, Mario Bacchelli, Giacomo Vespignani e dell’allora
scultore Severo Pozzati, i giudizi approssimativi – c’è chi parla di «figurazione pittorica
dei volumi» e chi avanza un giudizio di «secessionismo»13 – rivelano soprattutto l’impreparazione dell’ambiente artistico ufficiale bolognese di fronte alle idee nuove che hanno
trovato interpreti entusiasti nei cinque giovani.
La decisa opzione verso le avanguardie compiuta da questi e da nessun altro in pittura, in
una città sorniona e vigile quanto diffidente verso tutto ciò che sa di nuovo e di diverso
(ancora oggi a Bologna le ‘punte’, i ‘non allineati’, tutti coloro che ‘non stanno ai detti’
vengono sistematicamente messi da parte e, se si può, eliminati con buona pace dell’ipocrita bonomia dei più) e il significato emblematico dell’iniziativa hanno spinto Carlo
Ludovico Ragghianti a parlare di una «Bologna cruciale 1914» che egli vede come crocevia delle più valide istanze di rinnovamento allora emergenti in Italia. Tanto Ragghianti
è convinto dell’ipotesi critica, da scrivere14: «Che l’orientamento [verso la costruzione,
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l’essenzialità scarnita e denudata della condotta pittorica] fosse deliberato, risultato di
una decisione formale, lo prova il fatto che l’ascetismo cromatico persista anche dopo la
visione diretta dei maestri ispiratori, almeno di Cézanne, resistendo senza una incrinatura
agli esempi ben diversi dei futuristi. Registri e tavolozza […] non mutano nemmeno per
l’esperienza successiva e che oggi appare tanto coerente e inevitabile, dei maestri fiorentini
antichi, Giotto, Masaccio, Paolo Uccello. L’identificazione avviene tra il 1910 e il 1914,
è indipendente da ogni altro impulso, stabilisce un precedente di cultura irrecusabile
rispetto alle rievocazioni prima di Carrà su “La Voce” del 1916 e poi dei “Valori Plastici”.
Anche non potendo cronologizzare puntualmente relazioni o tramiti, l’evidenza dei fatti
formali basta a provare che a Bologna in questi anni si elabora e si chiarisce una situazione
di cultura, che sarà la più pregnante per l’arte in Italia dopo la prima guerra mondiale».
Al Baglioni Morandi presenta tredici tele e quattro disegni, tra cui alcune Nature morte
di vetri (oggi se ne conosce una sola, in collezione privata milanese15), quattro Paesaggi
grizzanesi dell’estate precedente ed il Ritratto della sorella, quell’aspro, severo, impietoso
ritratto di ragazzina, come le sante di Piero trasformata in dea gnostica, ora conservato
al Museo Morandi16 e per moltissimi anni non uscito dalla casa dell’artista forse proprio
per la sua evidente tangenza (sempre rifiutata da Morandi, che come maestro accetta solo
Cézanne) con il momento ‘gotico’ di André Derain, parentela linguistica che inviterebbe
anche a spostare la data del dipinto dal 1912 – anno proposto da Lamberto Vitali nel suo
catalogo generale su indicazione dell’artista – all’inverno 1913-1914. Né va dimenticato
che nello stesso anno, il 1914, il giovane pittore si cimenta per la prima volta nell’Autoritratto, dando vita ad un’altra figura chiusa e intensa, anche se non così plasticamente
impostata, un volto assorto con qualche cosa di tenebroso e notturno, un alone luminoso
che fa emergere il volto dall’ombra del fondo e gli conferisce tratti quasi luciferini, con
una scontrosità d’espressione che nei quattro Autoritratti di dieci anni più tardi17, più
maturi e meditati, si trasformerà in austera sensazione di distanza e inattingibilità.
Le nature morte. Ecco finalmente a fine marzo 1914, e quindi databili a quegli ultimi
mesi febbrili che precedono la mostra al Baglioni, le prime Nature morte di Morandi che,
contrariamente a quanto comunemente si crede, a queste è giunto dopo alcuni anni di
ricerca come ad una prima conquista, ad un primo punto di arrivo mai più rimesso in
discussione. Il linguaggio di riferimento è chiaramente quello del cubismo ‘cézanniano’ e
‘analitico’ dei Picasso e Braque 1908-1911 (per molti aspetti estetici e caratteriali, più al
secondo che al primo), tanto che le quattro Nature morte catalogate da Lamberto Vitali
per questo periodo (tre datate 1914 ed una 191518) riprendono esplicitamente i dettami
della scomposizione dei piani, la partizione sghemba delle zone, la tensione all’appiattimento delle superfici ed al tempo stesso alla rotazione prospettica delle forme.
Vi è un’altra ‘leggenda’ morandiana da sfatare, quella del suo rifiuto dei viaggi e della sua
volontaria, perenne clausura tra le quattro mura di via Fondazza. A parte il fatto che egli
ha molto viaggiato per lavoro almeno fino ai suoi cinquant’anni ed oltre (incarichi ministeriali per corsi e ispezioni, visite ad amici e a mostre, partecipazioni come espositore e
come giurato alle Biennali veneziane19), va attentamente distinto il primo Morandi – il
giovane pittore di cui sappiamo pochissimo perché quasi tutte le testimonianze giunte
fino a noi si riferiscono al secondo dopoguerra20 – dall’artista maturo che, dopo aver
acquisito ed elaborato gli stimoli più vivi della cultura europea, preferisce isolarsi nel suo
atelier per rimeditare e trasformare ogni cosa nella sua inconfondibile ed inimitabile im-
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Natura morta con il piatto d’argento, 1914 - (V. n. 19) - Roma,
Galleria Nazionale d’Arte Moderna
magine. Ed è lo stesso Morandi a confermarlo, laddove, di fronte a una precisa domanda
di Roditi21, risponde: «Quando avevo vent’anni la mia maggiore ambizione era di andarmene all’estero e di studiare pittura a Parigi. Sfortunatamente le difficoltà materiali erano
troppo grandi e fui costretto a rimanere in Italia. Più tardi ebbi troppe responsabilità con
l’insegnamento e la famiglia, così non ho più pensato di andare all’estero». Ed alla succes-
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Natura morta, 1915 - (V. n. 23)
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Bagnanti, 1915 - (V. n. 21)
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Paesaggio, 1916 - (V. n. 25) - Milano, Pinacoteca Nazionale di Brera
siva domanda dello studioso: «Crede che la sua evoluzione di pittore sarebbe stata diversa
se lei fosse stato in grado da giovane di studiare a Parigi?», Morandi risponde: «No. Se ci
fu mai uno tra i giovani della mia generazione che fosse appassionatamente consapevole
degli sviluppi dell’arte francese, quello ero io. Nei primi decenni di questo secolo pochissimi italiani s’interessavano al pari di me alla pittura di Cézanne e di Seurat».
La più grande difficoltà incontrata da Morandi nel riprendere la lezione cubista di cui
trova esempi significativi nelle riproduzioni de “La Voce”, tutte in bianco e nero o tutt’al
più virate leggermente in seppia22, è quella di indovinarne i colori. Egli supera l’ostacolo,
utilizzando ancora una volta le terre, i bruni e i bianchi della tradizione bolognese e così,
senza precisi appigli informativi e soprattutto per via di mera sensibilità pittorica, risolve il problema e si avvicina istintivamente ai maestri d’oltralpe. È Cesare Brandi, nelle
prime pagine della sua splendida monografia del 194223, a sottolineare la «serie di colori
rinunciatari e feriali, che andavano dal marrone del caffè abbruscato, al verde opaco del
mallo delle noci. Mai forse si era vista una selezione più modesta e meno tributaria agli
sfarzi provinciali di quel borghesissimo tempo». Quindi, da un lato, un giovane artista
«appassionatamente consapevole» – insieme, il sentimento e la ragione –, dall’altro la sua
scelta «rinunciataria e feriale», apparentemente «modesta»: c’è già di che far pensare, e
molto, alla personalità complessa, ricca di sfaccettature di un pittore ventiquattrenne che
si affaccia alla vita con un pieno di emozione e di attenzione ma senza nulla concedere al
gusto imperante, alle pretese del luogo e del tempo in cui vive.
Ma il tempo degli uomini non concede nulla a nessuno, se non una libertà interiore
difficilissima da conquistare e costantemente minacciata dai fatti della storia, cui nessu-
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Natura morta a tortiglioni, 1916 - (V. n. 28)
no può sfuggire. Anche per Morandi pare che tutto finisca nel 1915, programmi, moti
d’audacia, primi riconoscimenti. Scoppia la guerra, la guerra crudele, la guerra sporca, secondo invincibile cavaliere dell’Apocalisse che stronca con la sua falce insanguinata tante
vite e tante illusioni. Della disgraziata generazione di giovani europei – italiani, francesi,
tedeschi o austroungarici, non importa – che viene letteralmente dimezzata dal conflitto,
fa parte anche Morandi, il quale, pur nel suo totale ed assoluto rifiuto della violenza e,
anzi proprio per questo24, ne resta come fagocitato e soffocato fino all’esaurimento, alla
malattia del corpo e della psiche.
L’artista viene chiamato alle armi nel gennaio 1915 ed è assegnato al Secondo Reggimento
Granatieri di stanza a Parma: dopo soltanto un mese e mezzo si ammala gravemente di
«ischialgia bilaterale»25, fortissimi dolori reumatici al nervo sciatico, e viene ricoverato nel
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Il confronto con le avanguardie (1913-1917)
Restano poche opere degli anni di guerra, tra il 1915 e il 1917, ed anche se questo è in
buona parte dovuto alla determinazione con cui l’artista, allora e in seguito, distrugge
tutto ciò che non rientra perfettamente nella linea d’immagine che si è prefissa, non va
sottovalutato il fatto che sicuramente per più di un anno egli produce pochissimo: due
Bagnanti, una Natura morta e un mazzo di Fiori, quasi espressionistici, nel 1915; due
Paesaggi, tre Nature morte ed un vaso di Fiori a tempera nel 1916; un’altra composizione
di Fiori, un Paesaggio montano e un Autoritratto –«detestato»27 e perciò molto più tardi
distrutto – nel 1917.
Ma di queste tredici opere almeno nove sono capolavori. I due dipinti con i Nudi femminili immersi nella natura28 si rifanno come sempre alla lezione di Cézanne (è l’artista
stesso a affermarlo in un appunto del 1961, quando afferma con decisione29: «I nudi unicamente da Cézanne. Conoscevo il disegno di Picasso il quale, probabilmente, derivava
pure da Cézanne ma con il ricordo dell’arte negra e delle D. d’Avignon»), ma subiscono
anche il fascino delle figure danzanti di Matisse30 nelle linea fluida di contorno, nella
sensualità morbida, meno strutturalmente definita dei corpi che paiono perdersi e confondersi tra le fronde verdi degli alberi.
I Paesaggi del 1916, neo-giotteschi per costruzione plastica dei piani e per essenziale riduzione degli accordi cromatici, aprono la strada alle due sconvolgenti Nature morte rosa e
azzurre e alla tempera con i Fiori dello stesso anno31, rivelando tutto l’amore del giovane
artista per i maestri del primo Rinascimento, per le terre colorate, lievi come polvere luminosa, dei loro affreschi, per le partiture matematico-musicali delle loro composizioni. È
questo il modo individuale ed appartato di Morandi di rileggere ed attualizzare il passato,
la sua personalissima ‘parlata su Giotto’, il suo interpretare ed affiancare il primo Piero
della Francesca di Roberto Longhi, il volumetto prezioso che esce proprio nel 1914. Per
‘ritornare al mestiere’ infatti Morandi non ha bisogno di dipingere ‘copie’, passando ore
nei musei di fronte ai capolavori del passato; gli è sufficiente, anzi necessario, studiarli a
fondo per conoscerli e farli propri come linfa per le sue nuove, assolutamente contemporanee, opere d’arte. Significativo è l’esempio dei Fiori della Pinacoteca di Brera, nei
quali il richiamo agli affreschi del primo Quattrocento si unisce ad un influsso neppure
tanto nascosto del Doganiere Rousseau per dar luogo ad un dipinto unico e personale,
del tutto morandiano nella frontalità della composizione, in quella tagliente leggerezza
non priva di crudeltà in agguato che è propria ai suoi fiori di questi anni, innanzitutto
ai Fiori ‘cattivi’ del 1917, tutti punte, artigli, corolle e petali aperti e squadernati come
braccia crocifisse.
Riflessioni analoghe si possono fare a proposito delle due Nature morte rosa e azzurre, in
cui si fondono lo spirito apollineo dell’artista – quello che egli tenta caparbiamente di
assimilare dai maestri preferiti, Piero e Giovanni Bellini, innanzitutto – ed il suo aspetto
dionisiaco, colmo delle inquietudini e dei trasalimenti del presente, quel colpo di vento
che giunge dall’esterno della tela, dal mondo circostante, a scompigliare la forma ordinata
della fruttiera e della bottiglia bianca a tortiglioni. Un sussulto che, come le ombre nei
dipinti metafisici di de Chirico, ombre di qualcuno o qualcosa che non c’è più o non c’è
mai stato, dice tutto sulla condizione di precarietà e di disagio esistenziale in cui il giovane
artista si trova a vivere.
Verranno giorni migliori ed è persino sorprendente come da un momento così difficile
l’artista sappia riprendersi con un incredibile scatto di energia vitale per realizzare di lì a
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Fiori, 1916 - (V. n. 26) - Milano, Pinacoteca Nazionale di Brera
locale ospedale militare; rimandato a casa in luglio per una convalescenza di sei mesi, già
nel gennaio del 1916 è definitivamente congedato «per deperimento organico e debolezza
di costituzione», come recita il suo foglio matricolare. Sono tempi duri, durissimi: poco
denaro, una famiglia non piccola a cui pensare, lavoro compromesso, tutti gli amici lontani, al fronte, con qualche non onorevole sospetto su coloro che restano a casa. E Morandi
rischia quella che noi oggi chiamiamo depressione e non dipinge quasi nulla26.
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turale plasticità. Il tutto inquadrato, come i manichini e le bottiglie bianche delle Nature
morte del 1918, nella cornice di una porta che vale come unica, appena accennata indicazione spaziale. Ma l’assorta poesia delle tele dell’anno successivo qui non pare ancora
raggiunta. Manca quella sorta di ‘sprofondamento nella luce’ che ne farà dei capolavori
assoluti, paragonabili soltanto ai vertici dell’arte matura di Morandi, i Paesaggi degli anni
di guerra e le Nature morte dell’ultima sua inarrivabile stagione espressiva.
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Cfr. Marco Aurelio, Pensieri, Milano, Garzanti, 1993.
È noto dai documenti di Morandi studente all’Accademia di Belle Arti di Bologna, che il ragazzo,
accreditato di voti altissimi per tutti gli anni del corso inferiore – dal 1907 al 1910 – e per i primi
di quello superiore, al momento del diploma, nel giugno 1913, non si trova più d’accordo con gli
insegnanti a causa dei suoi mutati orientamenti stilistici che ormai lo portano lontano dal naturalismo e dal tardo simbolismo imperanti in Accademia, verso le aperture straordinarie di Cézanne e
dell’arte europea d’avanguardia. Pur tenendo conto dell’ottimo percorso scolastico del giovane ma
non potendo approvarne le scelte, i professori decidono di ‘congelare’ il suo diploma fino all’autunno, quando Morandi verrà licenziato con i voti dell’anno precedente.
3
Il ‘viaggio’ da Bologna a Grizzana è di circa 45 chilometri e viene compiuto dalla famiglia Morandi
prima in treno da Bologna a Vergato lungo il corso del fiume Reno, e poi in un biroccio trainato da
un cavallo per l’ultimo tratto dalla stazione di Vergato, a fondo valle, fino alle case alte di Grizzana,
adagiate a 700 metri sul crinale montuoso che domina e separa le valli dei fiumi Reno e Setta.
4
Cfr. Catalogo Vitali n. 6, dato da Morandi ad Ardengo Soffici e in tempi molto più recenti entrato
a far parte della Raccolta Ponti-Loren, per poi perdersi nell’anonimato: nel processo che nella seconda metà degli anni Ottanta ha visto imputati di frode fiscale l’attrice ed il marito, dopo i primi
due livelli di giudizio a loro sfavorevoli, la I Sezione della Cassazione ha ritenuto di restituir loro
tutti i beni confiscati. Dopo di allora si sono perse le tracce dei tredici dipinti di Morandi presenti
nella loro collezione.
5
Per le ‘stradine bianche’, cfr. Catalogo Vitali, n. 7 e 8; per le quattro versioni della Strada bianca,
cfr. Catalogo Vitali, n. 248 del 1939 e n. 339-341 del 1942; per le acqueforti, precedenti ai dipinti,
cfr. L. Vitali, L’opera grafica di Giorgio Morandi, Torino, Einaudi, 1957-1964, n.104 (La strada
bianca, 1933) e n. 129 (Grande paesaggio, 1936).
6
Ibidem, n. 9 (non figurano qui la firma e la data, riscontrate sul verso della tela nell’esame diretto
dell’opera).
7
Ibidem, n. 11 e, per la Nevicata, n. 10.
8
La tela, che non è compresa nel Catalogo Vitali, è stata catalogata e pubblicata a cura mia in
Morandi. Opere catalogate tra il 1985 e il 2000, Bologna, Museo Morandi - MusicaInsieme, 2000,
con il numero 1910/1.
9
Cfr. Catalogo Vitali, n. 481. Il dipinto è conservato presso il Civico Museo Revoltella di Trieste.
10
Nell’intervista concessa nel 1958 ad Edouard Roditi e da questi pubblicata in edizione sia inglese
che tedesca (E. Roditi, Dialogues on Art, Londra, Secker & Warburg, 1960), Morandi esordisce
così: «Mi sarebbe difficile parlarle, come ha fatto Chagall, in termini autobiografici. Sono stato
abbastanza fortunato perché ho potuto condurre una vita non movimentata» (la traduzione inglese
è «uneventful life»).
11
I due fratelli – uno pittore e compagno d’Accademia di Morandi; il secondo letterato d’importanza nazionale – sono figli dell’avvocato Giuseppe, personalità in vista del liberalismo della Bologna
inizio secolo, deputato al Parlamento italiano dal 1907 al 1913, presidente del Consiglio degli
Ordini Forensi e promotore di sodalizi artistici e musicali come la Società per le Arti “Francesco
Francia”. Si deve dunque alle conoscenze e all’influenza del’avvocato Bacchelli se i cinque ragazzi
ottengono gli spazi del grande albergo inaugurato da pochi mesi e con grande sfarzo nel centro
della città.
12
Alla Prima Esposizione Libera Futurista, organizzata dalla Galleria Sprovieri dal 13 aprile al 25
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pochi mesi, verso la metà del 1918, i suoi dipinti metafisici, perle perfette di luce piena
e meridiana dopo una lunga notte di brividi e dubbi. Ne sono anticipazione sia il Cactus
che Vitali data al 1917 ma che pare davvero più opportuno riferire all’anno successivo
– d’altronde, proprio «luglio/ 1918» è scritto di pugno di Morandi sul foglio all’acquerello di uguale soggetto32 –, sia il «detestato» Autoritratto pubblicato su “Valori Plastici”
nel 1919 e che pare la trasposizione aggiornata e in veste maschile del Ritratto della sorella
del 1913: stessa espressione chiusa ed irta, stessa immobilità da idolo assorto, stessa inna-
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Il confronto con le avanguardie (1913-1917)
maggio, Morandi viene invitato da Balilla Pratella, incaricato da Marinetti e Boccioni di scegliere
gli esponenti emiliano-romagnoli, insieme a Mario Bacchelli e a “Ginna” Corradini, figura di spicco del futurismo romagnolo in bilico tra simbolismo e nuove forme di astrattismo orfico. Mentre,
stranamente, Osvaldo Licini resta escluso dall’invito – eppure è proprio lui il più vicino in quel
volger di tempo al movimento futurista, Morandi mantiene comunque una posizione autonoma,
limitando la sua adesione all’analisi delle trasparenze e dei valori prismatici dei vetri –, quest’ultimo
è chiamato ad esporre una Natura morta di vetri e un disegno. Negli stessi mesi primaverili si tiene
anche la Seconda Mostra della Secessione Romana, dalla quale i futuristi sono programmaticamente esclusi: Morandi però è anche qui, segnalato e invitato dal commissario del gruppo bolognese
Ferruccio Scandellari, ed espone il Paesaggio di neve appena ricordato. È a questa stessa mostra che
egli può vedere, in originale, un’intera parete di dipinti di Matisse ed un’altra riservata agli acquerelli
di Cézanne.
13
Cfr. S. Sani, Pittori d’avanguardia, in “L’Avvenire d’Italia”, Bologna, 23 marzo 1914, e Ask. (Ascanio Forti), La Mostra dei “Secessionisti” al Baglioni, in “il Resto del Carlino”, Bologna, 22 marzo
1914. Annota Mazz. (Mazzuccati) sul “Giornale del Mattino” dello stesso giorno: «…metteremo
Giorgio Morandi, Mario Bacchelli e Osvaldo Licini tra i futuristi, Giacomo Vespignani, invece, e
Severo Pozzati tra i passatisti. Degli altri tre, dei futuristi, non credo opportuno parlare. Ho constatato che le loro ‘espressioni’ non vanno più in là delle ‘nature morte’ del cubista Picasso, del Cézanne e del Boccioni, dove figure di tavole, bottiglie e bicchieri vengono scomposte nel vuoto secondo
le rifrazioni luminose e lo sconvolgimento dei piani». Queste parole suonano come il complimento
migliore alle opere dei giovani artisti che certamente vi si sono riconosciuti, sia pur in negativo!
14
Cfr. C. L. Ragghianti, Bologna cruciale 1914, in “Critica d’Arte”, Firenze, n. 106-107, 1969 (ripubblicato in Bologna cruciale 1914 e saggi su Morandi, Gorni, Saetti, Bologna, Calderini, 1982, p. 57).
15
Cfr. Catalogo Vitali, n. 4, firmata e datata dall’artista “Morandi 912”.
16
Ibidem, n. 3, per il Ritratto della sorella, e n. 12, per l’ Autoritratto.
17
Ibidem, n. 93 (oggi conservato nella Galleria dell’Autoritratto agli Uffizi, come legato testamentario proprio di Lamberto Vitali), 94 e 96 del 1924 e n. 113 del 1925.
18
Ibidem, n. 13, 18, 19 e 23.
19
Cfr. in proposito il mio saggio, Il significato di un dialogo. Carteggio Brandi – Morandi 19381963, in C. Brandi, Morandi, a cura di V. Rubiu e M. Pasquali, Roma, Editori Riuniti, 1990, p.
131-140.
20
Alla scarsa conoscenza dei primi quarant’anni di vita di Morandi ha contribuito non poco la
perdita da parte sua di quasi tutto il materiale documentario precedente (lettere, fotografie, libri…)
durante il trasloco dello studio avvenuto nel maggio 1933. Come mi ha raccontato Maria Teresa
Morandi, ultima sorella dell’artista, in un nostro colloquio del 5 marzo 1992, la famiglia si trasferisce al n. 34 (attuale n. 38) di via Fondazza nel 1910, alla morte del padre Andrea: la stanza riservata
a Giorgio come camera da letto e studio aveva la finestra sulla piazzetta ove inizia via del Piombo e
era «più comoda» perché aveva la porta proprio di fronte all’ingresso: «chi veniva a trovarlo, andava
direttamente da lui e noi spesso non lo vedevamo neppure». Poi, per la costruzione di alcune nuove
case più alte, la luce nello studio cambia radicalmente e l’artista convince la famiglia ed i padroni di
casa ad affittare un altro appartamento, sempre nello stesso palazzo ma con l’entrata al n. 32 (oggi
n. 36) e soprattutto con una stanza tranquilla tutta per lui, uno spazio interno con la finestra sul
giardino, silenzioso e pieno della luce chiara che scende dai colli vicini.
21
Cfr. E. Roditi, cit., 1960. Questa è la domanda-constatazione del critico: «Così lei è forse l’unico
grande artista che non abbia mai sentito l’impulso di andare a Parigi…». Riprendo le citazioni da
un dattiloscritto originale in italiano, come prima stesura del testo inglese, ritrovato tra le carte
dell’artista ed oggi conservato nell’archivio del Centro Studi Giorgio Morandi di Bologna.
22
La rivista fiorentina ospita in primo luogo l’articolo di Ardengo Soffici, Picasso e Braque, apparso il
24 agosto 1911, e poi il saggio di Henri de Pruraux, Intorno al cubismo, apparso il 7 dicembre 1912
e corredato da tre riproduzioni di opere di Picasso. L’anno seguente viene pubblicato un disegno di
Picasso con tre Nudi in un interno (21 novembre 1912). Altri testi che l’artista può avere avuto fra
le mani sono, tra il 1912 e il 1915, il volume di Albert Gleisez e Jean Metzinger, Du Cubisme (Parigi, 1912) e l’opuscolo, ancora delle Edizioni de “La Voce”, Dodici opere di Picasso (Firenze, 1914).
23
Cfr. C. Brandi, Morandi, Firenze, Le Monnier, 1942 (II edizione riveduta e ampliata: Firenze,
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Le Monnier, 1952, p. 8; ripubblicato in Scritti sull’arte contemporanea, Torino, 1976 e in Morandi,
1990, cit.).
24
Cfr. in proposito il mio saggio L’immagine dell’assenza, in catalogo della mostra L’immagine dell’assenza. I paesaggi di Morandi negli anni di guerra 1940-1944, Grizzana Morandi, Sala Municipale
Mostre – Firenze, Palazzo Medici Riccardi, 1994 (qui ripubblicato a p. 81).
25
Cfr. anche P. Mandelli, cit. 2002, p. 195, il quale attribuisce la malattia di Morandi sotto le armi
a «sfibranti sforzi fisici, tanto da “beccarsi” lo sfregamento pleurico con febbre che durò per più di
un anno».
26
Cfr. anche nota 12 del mio saggio Gli incontri del giovane Morandi (1910-1914), qui ripubblicato
a p. 19.
27
Dagli appunti inediti di Morandi, via via da lui stilati su foglietti sparsi a commento dei primi
capitoli della monografia di Arcangeli ed ora conservati nell’archivio del Centro Studi Giorgio Morandi di Bologna. Cfr. Appendice 1, p. 231-232.
28
Cfr. Catalogo Vitali n. 21 e 22: il vero capolavoro è il primo, già di collezione privata romana e
ora di proprietà della Fondazione della Cassa di Risparmio di Verona, di cui il secondo, già nella
raccolta Jucker ed oggi alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, pare poco più che un bozzetto.
Esiste anche un terzo dipinto con una Bagnante, addirittura datato 1914 e che farebbe perciò pensare anche per gli altri due ad un’esecuzione anteriore allo scoppio della guerra (Catalogo Vitali n.
15); questo, nonostante le sue dimensioni non piccole, sembra essere più che altro un frammento,
una parte salvata di un dipinto più grande. Vi sono poi due acquerelli molto belli di Bagnanti, ma
datati 1918 (Cfr. Marilena Pasquali, Catalogo Generale degli Acquerelli, Milano, Electa, 1991, n.
1918/1 e 3).
29
Dagli appunti inediti di Morandi (cfr. Appendice 1, p. 221). Per il disegno di Picasso cui Morandi
fa riferimento, cfr. nota 22: nelle loro monografie, sia Lamberto Vitali (Giorgio Morandi pittore, Milano, Edizioni del Milione, 1964, p. 18) che Francesco Arcangeli (cit., 1964, p. 46) lo citano come
referente obbligato per i Nudi morandiani, e dai commenti dell’artista ben si comprende come egli
non attenui l’importanza di tale filiazione.
30
Scrive l’amico di gioventù Giuseppe Raimondi: «Di Matisse, dal suo primo incontro, teneva in
casa, tra l’altro, due opere: il Portrait de M.me Matisse del 1910 e la Natura morta del ’12, quella con
la fruttiera, i libri e il vaso greco appeso in alto, quasi immagine sacra: “pittura – diceva – che mai
nessuno ha potuto fare l’eguale”. Per Matisse conservò una sorta di devozione fino in tarda età» (cit.,
in “il Resto del Carlino”, Bologna, 19 febbraio 1979).
31
Cfr. Catalogo Vitali, n. 25 e 30; per le Nature morte, cfr. n. 28 e 29; per i Fiori, già appartenuti
ad Emilio e Maria Jesi e per loro volontà passati alla Pinacoteca di Brera, cfr. n. 26; per i Fiori 1917,
cfr. n. 31.
32
Per il dipinto con il Cactus, cfr. Catalogo Vitali n. 34 (si noti anche l’inquietante doppio profilo
frastagliato che accompagna a sinistra la forma a spirale della pianta) e, per l’acquerello di uguale
soggetto, il Catalogo Pasquali, cit., al n. 1918/4. L’Autoritratto viene pubblicato sul numero XI-XII
di “Valori Plastici”, nel 1919; come afferma Lamberto Vitali nel suo Catalogo dei Dipinti al n. 33
(datato 1917), «la tela, che recava a tergo il dipinto di un ‘Cactus in un vaso’ fu distrutta dal pittore». Racconta P. Mandelli, cit., 2002, p. 199: «credo possa interessare la vicenda dell’Autoritratto,
detto metafisico, che Morandi terminò tra il settembre e l’ottobre del 1919 [sic!] e che in novembre
mandò a Roma, tramite Broglio, in regalo all’amico Raimondi. […] Col ritorno di Raimondi a Bologna, alla fine del 1920, l’Autoritratto venne sistemato in una parete dell’ufficio del negozio di stufe, in via Santo Stefano 15, dove Peppino aiutava il padre Torquato. Morandi vedrà spesso il dipinto
nelle visite quasi quotidiane […] Una sera, forse verso il 1928, Morandi portò via il quadro avvolto
in un foglio di giornale. Raimondi per molti anni rimase convinto che l’opera fosse andata distrutta.
[…] Solo verso la metà degli anni Settanta si saprà (pare per l’interessamento di Francesca Alinovi)
che l’Autoritratto metafisico era stato per lungo tempo conservato nella raccolta di Lamberto Vitali a
Milano, ma poi restituito a Morandi che lo aveva distrutto negli ultimi anni della vita».
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egli anni recenti molto è stato chiarito della genesi storico-culturale della Metafisica,
ma vale comunque la pena riprendere le fila di un discorso disperso in pubblicazioni, modi e tempi diversi, dando conto in primo luogo delle parole di un grande critico
letterario del Novecento, Ruggero Jacobbi, interessato alla stagione metafisica in quanto
crogiuolo fertilissimo d’invenzione poetica: «quella della pittura metafisica è la più singolare avventura che abbiano corso gli italiani nella sfera dell’avanguardia. Perché non si
propose come avanguardia e finì per esserlo integralmente. Perché è una storia europea
e non soltanto provinciale, ma si colora di aspetti e sfumature disperatamente nazionali.
Perché, infine, tra tante avanguardie tentate e tradite, questa sola, tentata per breve tempo
e tradita quasi in ossequio ai suoi stessi principi, non ha il tempo di marcire, nasce adulta
e muore subito, muore perfetta»1.
I fatti sono noti: il luogo è Ferrara e la campagna che le fa corona, subito fuori le mura
estensi senza la disperata terra di nessuno delle periferie urbane; il tempo è la primavera-estate del 1917; gli attori, di cui due protagonisti assoluti, sono quattro: Giorgio de
Chirico, Carlo Carrà, Alberto Savinio e Filippo de Pisis; coloro che, da lontano, fungono
da angeli custodi all’incontro sono Ardengo Soffici e Giovanni Papini; l’artista che nei
modi più stupefacenti raccoglie l’eredità della stagione ferrarese è Giorgio Morandi, forse
l’interprete più assoluto, solo nella vicina Bologna, della sospensione e del silenzio metafisici. […]
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Natura morta, 1918 - (V. n. 36) - Mamiano di Parma, Fondazione Magnani Rocca
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È Giorgio Morandi l’erede naturale della Metafisica ferrarese e al tempo stesso colui che la
trasforma, sfrondando ogni immagine del superfluo per ridurla all’essenziale. A ben guardare, non è troppo azzardata la stupefacente definizione che delle tele del 1918 dà Riccardo Bacchelli nel primo articolo monografico scritto sull’artista2: egli parla di «studi di stile», affermando che «nelle nature morte abbiamo forse la maggiore indulgenza alle teorie».
Effettivamente Morandi considera la ricerca metafisica come palestra in cui affinare «i
valori classici» di una pittura «francamente moderna»; per lui non si tratta di un frangente
di crisi né di un punto d’arrivo (la crisi c’è già stata, profonda e dolorosa, l’anno prima; il
punto d’arrivo è ancora molto lontano, tanto da coincidere con la scomparsa dell’artista),
ma di uno snodo centrale della sua maturazione, la soglia di un laboratorio in cui mettere
a punto ogni strumento espressivo, riflettendo sulle teorizzazioni e sulle immagini altrui
per individuare una sua, personale, morfologia d’immagine. Anche per Morandi è indi-
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Natura morta, 1918 - (V. n. 37) - San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage
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spensabile trovare la strada per «conciliarsi con le cose», poiché – come confessa De Pisis
in un brano del 19183 – «troppo le forme stimolano la mia sete di sapere».
Per Morandi la ricerca della forma è ricerca dell’essere, in quanto la forma, nel dare un
volto e un nome alle cose, è l’unica possibile apparizione del reale. È individuazione, è
identità, è specchio di sé; è la chiave per penetrare nell’essere e per accertarsi di farne parte.
La sua metafisica è totale, una tensione dello spirito che trascende, interpretandolo, il reale e non si stempera nelle compiacenze del surreale; è una regione ambigua e provvisoria,
per un istante abitata dalla mente e dai sensi e in seguito tenacemente ricercata come un
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Natura morta, 1918 - (V. n. 35) - Milano, Pinacoteca Nazionale di Brera
santo graal abbacinante. È una pittura non letteraria anche se – in almeno due occasioni
– appare toccata da bagliori di mistero: nel ricciolo imprevisto al collo del mezzo manichino della Natura morta Magnani e, soprattutto, nella fiamma fredda e inestinguibile
come un’ara simbolica che arde la sagoma celeste della Natura morta dell’Ermitage. Non
è neppure un’arte a prevalente carattere pittorico-plastico, se pur le ‘figure’, i manichini
delle Nature morte Jesi e Jucker, sono le più conformi alle leggi della geometria solida, puri
cilindri, parallelepipedi, ovoidi e sfere senza orpelli né tentazioni di squilibrio. Non vi è
ironia, non rimanda a altro da sé, non richiede nulla di esteriore per essere compresa, né
stimoli contingenti né fantasmi della mente: è arte come platonica ombra dell’essere; è
invenzione di un cosmo interiore nuovo, contro ogni tentazione del caos; è affermazione
del reale contro i gorghi del nulla4.
Le nature morte metafisiche di Morandi sono soltanto dieci, più qualche altra opera di
passaggio verso la ripresa di umanità pittorica dei ‘valori plastici’: alcune le distrugge egli
stesso, insieme al pierfrancescano Autoritratto comparso nel 1919 sulla rivista di Mario
Broglio5, probabilmente perché per primo le considera troppo ‘cerebrali’, troppo poco
collegate al fenomeno visibile e soprattutto perché si rende conto di avere già assunto il
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Natura morta, 1918 - (V. n. 38) - Milano, Civico Museo d’Arte Contemporanea
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meglio della metafisica delle «cose ordinarie»6 nel nucleo stesso della sua pittura, tanto da
cogliere il passaggio alla perfezione cui aspira attraverso forme più quotidiane e proprio
per questo più neutre, meno allusive. Nel corso del 1919 Morandi abbandona i manichini, i prismi e le sfere per eleggere una volta per tutte a propri strumenti d’indagine nel
reale le forme matematiche delle bottiglie e dei silenziosi oggetti d’atelier.
Ma come è arrivato Morandi alla Metafisica? Il tramite principale, se non unico, è certamente Giuseppe Raimondi, incontrato alla fine del 1916 e che media per l’amico le
conoscenze acquisite attraverso rapporti epistolari con altri giovani intellettuali italiani
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Natura morta, 1918 - (V. n. 39) - Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna
ed europei, da Apollinaire a Tristan Tzara, da Cardarelli a Ungaretti, da Carrà a de Pisis.
Raimondi nel marzo del 1918 dà vita al periodico “La Raccolta” che in pratica prende
il posto dell’altra rivista bolognese dell’avanguardia letteraria, quella “Brigata” diretta da
Francesco Meriano e di cui è primo redattore Bino Binazzi7.
Già su questo primo foglio è comparsa qualche illustrazione interessante di Carrà – Testa
di giovane gentiluomo e Costruzione lineare di un bicchiere, disegni ‘antigraziosi’ e grotteschi del 1916, e (Realtà Metafisica) Solitudine del 1917 – e di de Chirico, Ettore e Andromaca, nonché qualche brano poetico improntato al nuovo linguaggio. Scrive Papini
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Natura morta, 1919 - (V. n. 44) - Milano, Pinacoteca Nazionale di Brera
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nel numero dell’aprile 1917, utilizzando un tono ironico per fare il verso a qualcosa che
– evidentemente – è dato per conosciuto: «Caffè San Marco: dopo due gelati/ ritorna il
metafisico, il poeta/ mi si trasforma questa porca creta/ in oro a diciotto carati»; mentre
Binazzi chiude una sua lirica pubblicata in autunno con il verso «…la serena coorte dei
fantasmi mediterranei»8.
Qualche cosa in più si trova ne “La Raccolta”: nel primo numero vengono pubblicati la riflessione di de Pisis sul disegno Ettore e Andromaca e il dipinto di Carrà Il dio ermafrodito,
e il suo racconto «futurista» Il ritorno di Tobia che in realtà appare come una «strana favola
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Natura morta con le arance, 1919 - (V. n. 48)
biblico-metafisica»: «…l’essenza fantastica di quella realtà aveva una gravità silenziosa che
dava agli oggetti (mappamondi di cartapesta, termometri, magnetometri, lavagne, tre
fantocci elettrici) un senso spettrale, fantomatico, aberrante»9.
Ancora di Carrà sarà riprodotto nel numero di maggio il disegno L’apparizione della primavera e in quello del novembre-dicembre 1918 il disegno preparatorio per la Natura
morta metafisica Jesi; di de Chirico compare in luglio la Natura morta evangelica, realizzata
a Ferrara l’anno precedente.
Niente di più. Sì, forse Morandi ha sentito parlare della mostra di Carrà presso Chini
a Milano nel dicembre 1917 o di quella romana alla Galleria dell’Epoca nella prima
estate del 1918, in cui compaiono anche le opere di de Chirico10, e non si può escludere
che egli abbia visto qualche originale. Ma, allo stato attuale delle ricerche, questo non è
in alcun modo provato, se si eccettua il disegno di Carrà, L’apparizione della primavera,
secondo le parole di Arcangeli «stagionatosi poi a lungo, nell’originale, e anche sotto
agli occhi di Morandi, negli stanzoni-antri della fumisteria di Torquato Raimondi»,
padre di Giuseppe. Si deve quindi ritenere che – viste alcune riproduzioni in bianco
e nero o in bicromia e discusso a lungo con l’amico Raimondi di ciò che è accaduto a
Ferrara – Morandi colga la novità profonda della proposta, la sua unicità, e vada avanti
per conto suo, in pratica ‘reinventando’ la metafisica tra le pareti del suo studio.
Vediamo, ad esempio, come ‘ricrea’ il motivo della scatola chiusa, della cassetta. Non
più cornici, porte sul mistero, vassoi e scatole da cui sorgono oggetti spaesati ed assurdi.
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Morandi preferisce vedere la scatola come una forma geometrica pura, valida in sé come
corpo solido o, per meglio dire, tridimensionale. Nella Natura morta con le sagome Jesi11,
la cassetta pare fatta dello stesso materiale neutro, monocromo che sostanzia anche le
presenze vicine e si pone sul piano come un elemento geometrico cavo, individuato dall’ombra netta e da una prospettiva matematica esemplare; le altre tre Nature morte con la
cassetta12 paiono invece giocate come forme virtuali, fantasmi di geometria euclidea trasparenti e integri come alabastro. Si tratta infatti di scatole di vetro, il cui studio prospettico è reso più audace dall’inserimento di oggetti apparentemente senza peso e da piani
altrettanto virtuali che determinano fenomeni ottici ai limiti della Gestalt. Ombre rifratte
e moltiplicate, ribaltamenti di senso, apparenze di forme che compaiono e scompaiono,
oggetti dotati di una precisa identità che ‘stanno’ nel vuoto e si trasformano in presenze
attive. L’artista sente profondo il fascino dei cristalli, dei mille volti riflessi di uno spazio
o di una forma; riprende le Nature morte di vetri del 1913-’14 e le reinventa come assorti
recipienti dell’essere, inafferrabili e prismatici come solo il profondo sa essere. Ma nel far
questo, operazione di spaesamento così ardita da toccare la soglia dell’astrazione, Morandi
non perde l’appiglio alla realtà e, novello Galileo che studia ogni suo aspetto per amarla
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Natura morta con il tavolo tondo, 1920 - (V. n. 51) - Milano, Pinacoteca Nazionale di Brera
di più, si costruisce uno strumento sperimentale: una scatola di vetro in cui analizzare a
fondo l’incidenza della luce, il farsi delle ombre e le loro sfumature di intensità, il rapporto degli oggetti fra loro e con lo spazio conchiuso che li ospita. Nel rapporto quotidiano
con questo semplice apparecchio d’atelier – vera camera prospettica trasparente – nascono
scoperte e stupori, possibilità impensate e solitari entusiasmi. Ma la meraviglia non sta
certo nel fatto che l’artista si serva di strumenti tangibili per realizzare i suoi «studi di
stile», quanto nel riconoscere ancora una volta le altezze vertiginose di poesia a cui un
giovane neppure trentenne sa attingere con qualche vetro incollato, una cassa sagomata di
orologio, una bacchetta, una pallina, l’asta modellata di un vecchio fermaporte.
Il 1920 è un altro anno cruciale per Giorgio Morandi, perché il partecipare all’esperienza
di “Valori Plastici”13 coincide in lui con l’accesso ad una prima fase di maturità in cui,
dopo la messe di stimoli esterni raccolta durante gli anni di formazione, pari impegno
viene profuso dall’artista nell’indagare dentro di sé per valutare quali vie espressive gli si
offrano e quale linguaggio pittorico possa dare meglio immagine alla sua poetica. Quella
di “Valori Plastici” è una vicenda importante per Morandi come per gli altri artisti raccolti attorno a Mario Broglio, in primo luogo de Chirico e Carrà, in quanto dalle regioni
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La stagione della Metafisica e dei “Valori Plastici” (1918–1921)
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conferma delle sue scelte e dipingere ‘a caldo’ opere mirabili come la Natura morta ora al
Museo di Düsseldorf 15.
Si tratta di un dipinto splendido, forse uno dei più belli di Morandi, in cui gli elementi
‘francesi’ che paiono dominare la scena – il calice, il coltello, il pane – vengono rivissuti
secondo movenze del tutto morandiane: i tocchi pittorici come fremiti di colore, che
danno vita alla boccetta scura sulla destra e il bagno di luce aurorale, miele e pulviscolo
d’oro, che avvolge e pervade ogni cosa.
Da opere di tale poesia restano colpiti gli stessi artisti del gruppo di Mario Broglio, quelli
con cui Morandi espone a Berlino e in altre città tedesche nel 1921, destando una eco così
vasta da influenzare in modi non superficiali lo stesso sviluppo della Neue Sachlichkeit.
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Ritorniamo al maestro bolognese e alla sua indagine all’interno del Sé: in nome di una sua
imprevedibilità non sufficientemente ribadita, nello stesso volger d’anni e fino al 1925’27 egli approfondisce almeno tre diversi registri espressivi. Il primo è quello testimoniato
da opere quali la Natura morta di Düsseldorf, i Fiori 1924 del Museo Morandi o la Natura
morta 1925 dell’Ermitage di San Pietroburgo16: la composizione è equilibrata e armoniosa, il rapporto fra gli oggetti è limpido e scandito, le forme paiono soffiate nell’aria, i
colori sono toccati da un respiro di luce meridiana; e sarà questa la strada che Morandi
privilegerà, con esitazioni, ritorni e illuminazioni improvvise, nei suoi anni della maturità. A questa dimensione apollinea della sua pittura si contrappone un secondo tempo,
scuro, contratto, dionisiaco per fremito vitale, quasi bruciato di zolfo; le forme calcinate
o disseccate sembrano sopravvissute a un vento del deserto o a una fiamma che si alza dal
cuore della terra (non a caso per le ‘nature morte scure’ del 1920-’21 Arcangeli scrive di
una «anticipazione» rispetto alle inquietudini della Scuola Romana)17.
La terza via, forse la più inaspettata, sperimenta cromie e paste pittoriche con una sensorialità altrove del tutto assente, come se scorresse un piacere quasi fisico nella materia
calda e densa della Natura morta con conchiglia data nel 1921 a Carrà, mentre i colori
acidi e antinaturalistici della frutta di un dipinto realizzato nel 192418 lasciano comprendere come l’artista non trascuri nessun registro espressivo per sottoporre ad una minuziosa
verifica a largo raggio quello che maggiormente può fare al caso suo.
A Bologna Morandi è solo e non ha praticamente rapporti con gli altri pittori. Per comprendere la distanza reale che si crea fra le sue posizioni e quelle dell’ambiente artistico
locale, basta rileggere la pagina di attacco violentissimo che Raimondi riserva su “Valori
Plastici” agli «asini disturbatori», ai «cosiddetti artisti» che espongono alla mostra della
“Francesco Francia”, luogo in cui «vera pittura non è mai entrata» ed anzi ove «c’è qualcuno che pare s’incarichi di tenerla estranea a queste faccende che, nel migliore dei casi, non
vanno mai più in là dei compromessi commerciali»19. Nella sua totale condanna, senza
appello, dell’«epidermico colorismo sensuale che non raggiungerà mai un piano definitivo
dove siano rispettati gli altri elementi del quadro, come la composizione e il disegno», il
letterato coinvolge tutti: dai «falsi impressionisti» Pizzirani e Romagnoli ai «Cèzanne di
provincia» Caviglioni e Malmerendi, per poi terminare con una stroncatura del naturalismo ottocentesco di Luigi Bertelli e di «quell’infelice pittore che fu Luigi Serra». Di fronte
ad una mano così pesante, spiegabile con la deliberata intenzione provocatoria con cui
l’ ‘intellettuale’ Raimondi tenta di smuovere la pigrizia sonnolenta della città, l’ambiente
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Natura morta, 1920 - (V. n. 53) - Düsseldorf, Nordrhein-Westfalen Kunstsammlung
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appena esplorate delle Metafisica essi trascorrono ad un più fidente senso dello spazio e
delle cose, «alla distensione plastica di quel mondo rattratto», mantenendo il rispetto dei
volumi e ammorbidendo le cromie nel leggero ispessirsi della pasta pittorica. Scrive de
Chirico: «La coscienza assoluta dello spazio che deve occupare un oggetto in un quadro
e dello spazio che divide gli oggetti tra loro, stabilisce una nuova astronomia delle cose
attaccate al pianeta per la fatale legge di gravità. L’impiego minuziosamente accurato e
prudentemente pesato delle superfici e dei volumi costituisce canoni di estetica metafisica». Morandi non scrive nulla, non rilascia dichiarazioni di poetica ma si può star certi,
osservando le sue opere, che il problema dell’armonia dei rapporti matematici delle forme
fra loro e con lo spazio che le circonda è per lui – come per Cézanne – il primo e capitale
problema da affrontare.
E il maestro di Aix-en-Provence gli viene ancora in aiuto: infatti se la Natura morta con
il tavolo tondo e i Fiori del 192014 sono prova di un mutato atteggiamento interiore
che si fa diverso modo di dipingere e si ricollegano ai dipinti del 1919 in cui riappare la
‘normalità’, cioè l’esigenza di norma per la vita (ad esempio la Natura morta con le arance
sul tavolo già della raccolta Plaza di Caracas), è nella visita estiva alla Biennale di Venezia
con la sala di ben 28 originali di Cèzanne, che Morandi può ricevere una folgorante ri-
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La stagione della Metafisica e dei “Valori Plastici” (1918–1921)
locale non può che reagire con il rifiuto di qualsiasi dialogo e con il tenere a debita distanza una tal genìa di sobillatori.
Fino alla seconda guerra mondiale, in città Morandi verrà dunque considerato un diverso,
perfino un non-pittore; anche chi scrive sui fogli cittadini non gli è favorevole, preferendogli le forme di un pacato naturalismo senza troppe inquietudini, anche quando – e
è il caso interessante di Nino Bertocchi – questo tende a sovrapporre al fondamentale
impianto pittorico bertelliano un più impegnato piglio di costruzione cézanniana dell’immagine. Morandi resta con i suoi pochi e sceltissimi amici, testimone di una profondità di
cultura che nell’ambiente dei pittori bolognesi non trova praticamente riscontro.
(da La pittura del primo Novecento in Emilia Romagna (1900-1945), in La Pittura in Italia, Il Novecento 1. 1900 – 1945, vol. I, Milano, Electa, 1990, p. 348-376).
Cfr. R. Jacobbi, Al tempo dei manichini, in “L’Albero”, n. 46, 1971 (ripubblicato in L’avventura del
Novecento, Milano, 1984, p. 431).
2
Cfr. R. Bacchelli, Giorgio Morandi, in “Il Tempo”, Roma, 29-30 marzo 1918 (ripubblicato in L.
Vitali, cit., 1964, p. 43-44).
3
Cfr. F. de Pisis, Asilo infantile israelitico. A Giuseppe Raimondi, uno dei pochi che mi capirà, in
“Yoga”, n. 3, 27 novembre 1920 (ripubblicato in F. de Pisis, Divino Giovanni…Lettere a Comisso
1919-1951), a cura di B. de Pisis e S. Zanzotto, Padova, 1988, p. 73.
4
Notissima è, a tale proposito, la definizione di Cesare Brandi, il quale per i dipinti metafisici di
Morandi parla di una «astanza» suscitata da una «integrità impenetrabile di corpo celeste» (C. Brandi, cit., 1942-1952, p. 13-16; cfr. anche C. Brandi, cit., 1990, p. 23-25). Accanto alle pagine dello
studioso romano vanno rilette le riflessioni di F. Arcangeli (cit., 1964, p. 79 e 89-125): «Ogni oggetto sembra nascere davanti a noi come ‘figura’, nel punto di incontro tra un platonismo geometrico
d’ordine tutto mentale e il tremito infinito e segreto della visione naturale». Si segnalano inoltre L.
Vitali, cit., p. 22-24 e F. Solmi, Dagli esordi alla metafisica, in Morandi e il suo tempo, catalogo della
mostra, Bologna, Galleria Comunale d’Arte Moderna, novembre 1985-gennaio 1986 (cat. Milano,
Mazzotta, 1985, p. 38-42).
5
Cfr. “Valori Plastici”, I, n. XI – XII, novembre – dicembre 1919; per il dipinto distrutto, cfr.
Catalogo Vitali, n. 33. Si sa che questo Autoritratto, affidato per molti anni all’amico Giuseppe
Raimondi, venne da questi restituito all’autore che lo distrusse (cfr. anche cap. 3, p. 41, nota 32),
molto probabilmente perché si accorse allora di una eccessiva vicinanza formale tra il proprio dipinto giovanile e il Portrait du fils de l’artiste (1881-’85) di Paul Cézanne, oggi conservato a Parigi, al
Musée de l’Orangerie (Collection Paul et Walter Guillaume).
6
Scrive Carlo Carrà in Delle cose ordinarie, 1918, pubblicato in Pittura metafisica, Firenze, 1919:
«Col progresso degli anni cresce… questa abitudine di cercare la nostra armonia nelle cose che ci
circondano, perché noi sentiamo che se dimentichiamo il reale perisce ogni ordine e proporzione…
Sono le “cose ordinarie” che operano nel nostro animo… e chi le abbandona crolla inevitabilmente
nell’assurdo, cioè nel nulla sia plasticamente che spiritualmente».
7
“La Brigata” esce a Bologna dal giugno 1916 al marzo-aprile 1918 (più un ultimo, conclusivo numero nel giugno 1919). Secondo F. Arcangeli (cit., 1964, p. 86), la rivista «fu, in parte, un ricambio
a “La Voce” di de Robertis, morta sul finire del 1916». Poi la mano passa in pratica a “La Raccolta”,
che inizia le pubblicazioni proprio nel marzo 1918 e prosegue per dodici numeri fino al 15 febbraio
1919. Nella primavera successiva Raimondi si trasferirà a Roma per collaborare alla nuova “Ronda”
di Vincenzo Cardarelli.
8
B. Binazzi, Oriani, i n “La Brigata”, Bologna, n.12, ottobre-novembre 1917.
9
“La Raccolta” stessa nasce da appassionati scambi tra Raimondi e Carrà. Si vedano a tale proposito
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la cartolina di quest’ultimo a Soffici del 22 febbraio 1918: «Con Raimondi sto mettendo in piedi
una rivista a Bologna che sarà la nostra palestra» e la risposta di Soffici del 25 febbraio: «Non conosco Raimondi se non per quell’opuscoletto-catalogo sulla tua opera». L’artista toscano si riferisce alla
piccola pubblicazione che Raimondi ha curato per Carrà nel gennaio 1918, pubblicando fra l’altro
Gentiluomo ubriaco e ricollegandolo al primitivismo colto di Rousseau Le Douanier.
10
Carrà espone presso la Galleria di Paolo Chini, in corso Venezia a Milano, dal 18 dicembre 1917
al 10 gennaio 1918: sotto la singolare etichetta di «Mostra personale del futurista Carlo Carrà»,
egli presenta ventinove opere tra cui figurano tutti i dipinti realizzati nel 1917 a Ferrara e nei mesi
successivi. Tra il maggio e il luglio 1918, nel ridotto del giornale “L’Epoca” a Roma, si tiene una
mostra collettiva organizzata da Enrico Prampolini, a cui sono presenti insieme ad artisti romani di
punta, anche Carrà e de Chirico con le opere della stagione metafisica.
11
Cfr. Catalogo Vitali, n. 44. Ora il dipinto è conservato presso la Pinacoteca di Brera, tra le opere
della prima donazione di Emilio e Maria Jesi.
12
Ibidem, n. 37, San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage; n. 38, Milano, collezione Eredi Jucker; n.
39, ex collezione Jucker, ora di proprietà della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma.
13
Attorno alla rivista fondata nel 1918 da Mario Broglio e di cui escono quindici fascicoli, dal
n. 1 del 15 novembre 1918 al n. 5 del 31 ottobre 1921, si stringono artisti di varia provenienza,
tutti parimenti interessati al «rinnovamento della pittura in Italia», per dirla con le parole di Carrà.
Oltre al fondamentale ruolo di cassa di risonanza per l’arte metafisica, la rivista svolge anche quello
altrettanto importante di organo di diffusione in Italia delle teorie e delle immagini delle avanguardie europee, dal cubismo al neoplasticismo e al purismo. Si vedano ad esempio le Figure cubiste di
Lipchitz e Laurens, pubblicate sui n. 2-3 del febbraio-marzo 1919, e la loro stretta analogia con la
struttura ‘meccanica’ de Il grande metafisico 1917 di de Chirico. Di Morandi vengono riprodotte
in «grandi tavole fototipiche» sedici opere fra cui le principali Nature morte metafisiche ed alcune
Figure all’acquerello del 1918. Sui n. 4-5 dell’aprile-maggio 1919 compare anche l’Avvertimento
critico a lui riservato da Raffaello Franchi. Con Mario Broglio Morandi stringerà anche l’unico contratto commerciale della sua carriera, legandosi alla sua organizzazione di mostre e di vendite dal 26
dicembre 1919 fino al 1924 (cfr. Catalogo Vitali, cit., vol. II, Aggiunte alla prima edizione, 1983).
14
Cfr. Catalogo Vitali, n. 51 e 56.
15
Per la Natura morta ex Plaza, ivi, n. 48; per quella conservata al Kunstsammlung NordrheinWestfalen di Düsseldorf, ivi, n. 53.
16
Per i Fiori 1924, ivi, n. 88; per la Natura morta 1925, ora all’Ermitage, ivi, n. 107. È da citare
inoltre, per la limpidezza della stesura color rosa che costruisce i valori geometrici della casa e del
muro in primo piano, il Paesaggio di Chiesanuova del 1925, ora a Brera (ivi, n. 110).
17
Cfr. F. Arcangeli, cit., 1964, p.181-182: «In Italia, l’atteggiamento di Morandi dopo il ’20 fu
quello più profondamente – anche se più oscuramente, implicitamente e quasi involontariamente
– protestatario. Più delle ribellioni introverse di Corrente, e prima, di parecchi anni, dei più chiusi
racconti di Moravia, dei Scipione più desolati, dei più alti fra i Fiori secchi e le Demolizioni di Mafai,
Morandi andò in controcorrente al clima della sua generazione. E lo stesso movimento romano
sarà preceduto, poi accompagnato – e col massimo di profondità – dall’opera morandiana che si
scala dal ’28 al ’35-’36 all’incirca. Per ora, in Italia soltanto Montale è, quasi contemporaneamente,
fratello a quel Morandi che non conosce».
18
Per la Natura morta con conchiglia del 1921, cfr. Catalogo Vitali, n. 62; per la Natura morta con
le pere 1924, ivi, n. 98.
19
Cfr. G. Raimondi, Esposizioni bolognesi, in “Valori Plastici”, I, Roma, n. 6-10, giugno-ottobre
1919.
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A pagina seguente: Giorgio Morandi
nel suo studio in via Fondazza, nel 1943
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iorgio Morandi appartiene alla stirpe degli uomini che cercano. Come gli altri esploratori della mente, l’artista segue suoi particolarissimi tracciati che s’avvalgono di
mappe dell’avventura affatto personali, di portolani segreti che guidano il passo quotidiano attraverso soste e ritorni parziali, sempre superati in virtù di quella tensione interiore
che brucia di un fuoco freddo, inestinguibile quanto perennemente controllato.
Nella ricerca ognuno è solo – pensa agisce cade si rialza continua da solo –, incontrando
possibili congeneri nelle dimensioni più dilatate del pensiero, in un luogo e un tempo che
non è quello definito da coordinate usuali, per irradiarsi a 360° nello sfaccettato universo
della conoscenza.
Probabilmente Morandi non si sarebbe riconosciuto in questa interpretazione di sapore
prometeico, preferendo presentar se stesso semplicemente come un pittore, un costruttore
di immagini che diffida di rimandi troppo allargati per affidarsi alla pratica quotidiana e
schiva del far pittura, del realizzare quel singolo dipinto – o, acquerello, disegno, acquaforte – come frutto di una ben determinata situazione spazio-temporale che non richiede
parole, parallelismi, riferimenti. Eppure i suoi compagni di elezione, quelli stessi con
cui egli colloquia ogni giorno, si chiamano Pascal e Leopardi, Rembrandt e Piero della
Francesca, e poi ancora Cardarelli, Ungaretti e Montale, e potrebbero chiamarsi Bach,
Mozart e Petrarca.
Siamo nel regno della poesia, della facoltà di creare altri mondi, di inventarli e popolarli
attraverso il potere sterminato dell’immagine come riflesso vivente, metafora del pensiero.
Non importa se la nuova dimensione è costituita da pochi o molti elementi, se la realtà
interiore che prende forma s’avvale di una definizione elaborata o se si affida all’essenzialità e alla parsimonia dei mezzi espressivi; ciò che conta è la pienezza dell’invenzione, la
sua autonomia fatta ancor più risaltare da un mai accantonato legame con la concretezza,
altrettanto inafferrabile, della realtà d’ogni giorno.
Ciò che ogni artista ricerca è il modo con cui restituire la sostanza di un problema, di
un assunto che è innanzitutto nel pensiero ma che non può fare a meno, per vivere, di
esprimersi attraverso una forma, la più aderente e consustanziale possibile ai fantasmi
della mente.
Vi è un archetipo, un modello primo a cui l’artista tende con tutte le sue forze anche
quando esplora la molteplicità dell’esistenza, traducendolo di volta in volta in realizzazioni parziali e limitate, che lasciano sempre trasparire l’intenzionalità dell’agire e la com-
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Autoritratto, 1924 - (V. n. 93) - Firenze, Uffizi, Galleria dell’Autoritratto
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plessa unicità del pensiero che le ha determinate. Quando il modo è individuato e risolto,
quando la forma si fa tutt’uno con la necessità interiore, allora il risultato è raggiunto e
si ha un’opera d’arte, senza aggettivi né rimandi ulteriori. Scrive Cesare Brandi, in un
breve saggio dedicato a Morandi dopo la sua scomparsa1, che egli era «se si vuole accanto
a Picasso […] il solo pittore che producesse una pittura che non si affidava all’interpretazione integrante dello spettatore, una pittura che nella sua presenza pregnante assolvesse
in pieno a questa sua presenza. Non significati secondi, non messaggi si potevano dedurre
da tale pittura, esemplare se mai ce ne fu, se non il messaggio che non è messaggio, que-
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Fiori, 1924 - (V. n. 88) - Bologna, Museo Morandi
sto suo porsi in presenza come una realtà assoluta. Quindi il valore da riconoscersi nelle
opere di Morandi non è certo quello di essere dipinte con i pennelli, ma l’atto di fede
nell’autosufficienza di quella realtà sui generis, inconfondibile con la realtà esistenziale,
che da secoli riceve il nome di arte, anche se pretestuosamente se ne voglia ora revocare
in dubbio la nozione o ridurla sotto la generica e indifferenziata copertura del messaggio,
dell’informazione cioè. La coscienza di questo valore intrinseco all’opera e non desumibile
in altro modo che con la fruizione immediata dell’opera stessa, è ciò, crediamo, che rinnova continuamente l’attualità di Morandi come a una fonte a cui ci si disseta e che non
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Paesaggio di Chiesanuova, 1925 - (V. n. 110) - Milano Pinacoteca Nazionale di Brera
va ricercata nella fuga dei tempi». Lo studioso romano, profondo conoscitore dell’opera
morandiana, scrive queste parole in tempi di laceranti dibattiti e di brucianti rivolgimenti culturali, negli ultimi mesi di quel fatale 1968 che avrebbe segnato nel bene e
nel male tanta parte degli eventi successivi. Si comprende quindi il suo appassionato
scendere in campo a favore dell’autonomia dell’arte contro ogni possibile sua lettura
contenutistica o mediatica; eppure tale monito mantiene inalterata la sua validità, nel
sottolineare l’unicità dell’atteggiamento e del fatto artistico e l’appartenenza di Morandi a quella rarefatta schiera di autentici maestri che hanno saputo far coincidere vita
e arte, al punto di vivere nelle opere e attraverso di loro, bandendo ogni distrazione e
ogni disturbo esistenziale. Questa è la dimensione della vicenda umana e artistica di
Morandi, la ragione prima di quel suo vivere appartato e apparentemente tranquillo,
del suo rifiuto di polemiche e clamori, della frequentazione di pochi, eletti amici e della
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Natura morta, 1924 - (V. n. 101) - Firenze, Fondazione Roberto Longhi
vicinanza intellettuale con altri, lontani quanto sempre presenti, compagni di strada.
C’è chi ha letto nella ‘severità’, nell’assolutezza dell’atteggiamento morandiano e delle
sue opere il sintomo più probante del suo essere classico, apollineo, distaccato in un iperuranio intangibile; altri vi hanno visto la decantazione ardua e sofferta di un ribollire di
fremiti e spinte esistenziali che nell’opera trovano ricomposizione; qualcuno ha preferito
leggervi, più superficialmente, una dimensione piccolo-borghese di cui l’artista sarebbe il
primo e più convincente interprete. A mio parere, ognuna di queste posizioni critiche ha
in sé qualcosa di convincente – persino quella più riduttiva e asfittica del «cantore delle
piccole cose» –, a ulteriore dimostrazione del fatto che l’arte di Morandi non è definibile
una volta per tutte e rifiuta letture unilaterali. Trovandomi personalmente più vicina alla
linea critica che vede in Morandi un «nuovo Incamminato» – per usare ancora una volta
le audaci parole di Roberto Longhi2 –, l’erede dell’altissima tradizione classica che informa l’arte italiana del Rinascimento, preferisco riconoscere nelle sue opere una tensione
al classico, un desiderio di armonia, nella dialettica sempre presente e attiva fra incalzare
di sensorialità e necessità di distacco, ravvisandovi perciò la sua piena appartenenza alla
nostra contemporaneità.
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L’emergere di un paesaggio interiore (1920-1943)
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La bellezza è l’obiettivo, il fine di ogni ‘arti-ficio’, quella meta irraggiungibile che con
determinazione l’artista persegue pur avvertendo di non poterla comunque raggiungere:
è l’alfa e l’omega di tutta la sua ricerca.
E la bellezza nelle sue opere è data proprio dal coesistere di elementi sensibili e di tensione
all’assoluto, nella consapevolezza dolente di non poter mai «toccare il fondo, l’essenza delle cose», come ebbe a dire egli stesso nella scarna e pur densissima intervista concessa nel
1937 al direttore de “Il Frontespizio”3. Continua l’estensore dell’articolo: «Dice essenza
e si sente che intende dire essere. Non parere, essere [...]. Sopra un trespolo notiamo un
gruppo di strane bottiglie. Le bottiglie di Morandi. Ci ricordiamo di quando ad Arezzo,
Gianni Poggeschi4 mostrandoci i numerosi e composti garretti di Pier della Francesca,
uscì in questa esclamazione: “Guardate Morandi!”. Usciamo fuori insieme (…). Di mostre, di esposizioni e di polemiche non sa nulla. Non ha che un ritornello: “Mi lasciassero
in pace! Prima di morire vorrei condurre a fine due quadri, due soli quadri”».
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Natura morta, 1926 - (V. n. 114) - Firenze, Raccolta Alberto Della Ragione
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Natura morta, 1929 - (V. n. 140)
A riprova di quanto ho cercato di esporre in parole, pur nella convinzione della loro
inadeguatezza di fronte alla complessità e alla ricchezza dell’arte morandiana, può essere
significativo ripercorrere la sua vicenda artistica lungo quell’ampio arco di anni che va
dalla definizione della calda volumetria dei “valori plastici”, nel 1920, alle luminosità
trasparenti, scarnificate dei Paesaggi 1942-1943. Proprio in questo periodo, segnato da
rivolgimenti culturali e sociali che hanno coinvolto l’Europa e il mondo intero in uno
dei suoi momenti di più profonda tragicità, Morandi porta lo scavo all’interno di sé fino
alle estreme conseguenze concessegli dalla sua natura, per poi riemergere alla luce con un
patrimonio di esperienze che gli consentiranno negli anni a venire di dominare compiutamente la sua immagine, facendone un cristallo senza incrinature.
Ma è nel crogiuolo degli anni Venti e Trenta che ogni impulso viene bruciato al fuoco di
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L’emergere di un paesaggio interiore (1920-1943)
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Grande natura morta con la lampada a destra, 1928, acquaforte - (V. Inc., n. 46)
una necessità interiore che richiama l’antico «conosci te stesso» e che risponde all’esigenza
di quello «studio dell’uomo» che l’artista, facendo proprio il pensiero di Pascal, sente
come imperativo etico e culturale.
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Dopo la stagione ‘siderale’ della Metafisica, per la quale tornano alla mente le parole con
cui Vincenzo Cardarelli riflette nel 1916 sulla propria poesia e che ben si attagliano alla
pittura morandiana: «Luce senza colore, esistenza senza attributi, inni senza interiezioni,
impossibilità e lontananza, ordini e non figure», si mantiene punto di partenza obbligato
per un itinerario morandiano tra il 1920 e il 1943 la Natura morta con il tavolo tondo e
l’orcio, dello stesso 19205.
L’opera è assai nota e potrebbe apparire superfluo soffermarvisi, se non per ribadire ancora
una volta la sua centralità, il suo esser cardine di una scelta artistica che approda a una
più fidente dimensione terrena, non per rifiutare l’impianto assorto dei dipinti precedenti
ma per ritrovare il senso del volume e della corporeità. Le forme riacquistano un sapore
sia pur depurato di fisicità, la prospettiva di Piero e di Paolo Uccello ritorna a far valere
le sue leggi e l’aria riprende a circolare fra gli oggetti, accarezzandoli con una luminosità
di miele. Il motivo dell’orcio, che suggerisce un interesse non casuale e il massimo punto
di tangenza della pittura morandiana con le coeve suggestioni classico-mediterranee di
Picasso e de Chirico, ritornerà nelle stupende Nature morte del Museum Ludwig e dell’Ermitage, ove la plastica rotondità sfuma nello spazio di fondo, trasformando l’oggetto
in un’apparizione che sta affacciandosi alla realtà fenomenica.
Tale effetto verrà ripreso dall’artista molti anni più tardi in alcune sconvolgenti Nature
morte del 1963, per fare emergere in superficie inaspettate porzioni d’immagine come
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Natura morta con il panneggio, 1931, acquaforte - (Cat. Vitali Incisioni, n. 80)
parte di un tutto che per un attimo si manifesta secondo quella determinata forma, ma
che, un attimo dopo, può assumerne infinite altre.
Anche i Fiori del 1920 si offrono come un manifesto della poetica dei ‘valori plastici’,
punto di risoluzione della Metafisica dopo le raggelate atmosfere e i fuochi segreti delle
scatole magiche, dei manichini e dei prismi. Se pur assai depurato, lo spazio non è più
virtuale e assapora di nuovo il gusto del peso e della materia, mentre la forma si arrotonda e l’ombra appena accennata ricostruisce il senso della profondità. Ma se il vaso rivela
l’attenzione plastica ora sviluppata dal giovane artista (non bisogna dimenticare che Morandi ha giusto trent’anni), il piano e il fondo appena separati da una linea sottile e da un
alleggerimento del tono cromatico, e – soprattutto – quei boccioli di rosa arroccati, stretti
l’uno all’altro a costruire una piramide, si riallacciano, quasi a riannodare un filo interrotto, ai Fiori del 1917-1918, creature organiche percorse da fremiti di naturalità.
Sono dello stesso 1920-1921 anche alcuni dipinti ‘diversi’6 che, nell’apparente spostamento di linea rispetto alla Natura morta con il tavolo tondo o ai Fiori, lasciano intravedere
la complessità dell’indagine morandiana, il suo non procedere per sviluppi prevedibili
per svariare piuttosto su registri alternati e compresenti. Sono Nature morte di toni fondi, quasi cupi nell’affollarsi degli elementi in uno spazio contratto e drammatico. Se la
Natura morta del Museo Morandi funge da punto di contatto fra la plasticità dei primi e
l’intensità dei secondi, il processo si fa più accentuato in quella ‘notturna’ ancora del mu-
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L’emergere di un paesaggio interiore (1920-1943)
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Natura morta, 1929 - (V. n. 152)
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seo bolognese e nella Natura morta scura già di raccolta privata milanese, in cui gli oggetti
colti in controluce si arroccano in fondi d’ombra sul ripiano visto frontalmente, da cui
paiono staccarsi in aggetto quasi ad assediare lo sguardo.
Francesco Arcangeli ha letto in tali opere una sorta di anticipazione rispetto alla Scuola
Romana, riconoscendovi un modello a cui le prove vibranti di Scipione e, soprattutto,
di Mafai si sono riferite per cogliervi un’inedita intensità d’espressione (valga, fra i tanti
possibili, il riferimento ai Fiori 1924 di raccolta modenese, così scarni e pulsanti7). L’indicazione è preziosa, in primo luogo, per indagare i rapporti che uniscono gli artisti più
giovani al maestro bolognese, e soprattutto per riflettere sull’atteggiamento impregiudicato e stupefacente con cui Morandi si accosta alla ‘sua’ porzione di realtà.
Ogni oggetto rivela il suo volto prismatico, mai definito una volta per tutte: ora appare
nella solarità e nella morbidezza dei suoi contorni diurni, ora lascia affiorare aspetti nascosti, lunari, quasi che la luce, girandovi attorno, sappia far apparire il volto nascosto delle
cose, quella ricchezza interiore che le rende vive e vibranti. Viene alla mente la poetica
pirandelliana dell’ «uno, nessuno, centomila», quell’esigenza profonda di scavo per non
fermarsi alle apparenze e sondare le pieghe più nascoste della realtà. È tutta una cultura,
di ampiezza europea, che sta muovendo in questa direzione e Morandi ne fa parte, consapevolmente, utilizzando i suoi strumenti d’artista per portare alla luce la molteplicità
sfaccettata dell’esistenza.
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Natura morta, 1929 - (V. n.148)
Quanto è lontana da tutto ciò la poetica del ‘ritorno all’ordine’ che forte in questi anni
corre l’Europa, e quanto è più vicino il suo atteggiamento alle coeve, ferite esperienze di
Pirandello, di Lawrence, di Proust! Se per quest’ultimo il compito del poeta era quello di
«liberare l’essenza delle sensazioni, componendole, per sottrarle alla contingenza del Tempo, in una metafora», quanto si attagliano a Morandi queste sue altre parole: «dipende
da noi rompere l’incanto che tiene prigioniere le cose, portarle fino a noi e impedire che
ricadano per sempre nel nulla»! Ma il giovane artista fa tutto ciò senza clamori, chiuso
nella sua Bologna provinciale e riservata, illuminandosi dinnanzi ad un mazzo di Fiori
appena colti e già allontanati in un atmosfera soffusa di memoria o di fronte al sentore
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L’emergere di un paesaggio interiore (1920-1943)
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Natura morta, 1930 - (V. n. 158)
primaverile di una casa tra il verde, quel lirico Paesaggio del 19218 che rivela una purezza
d’immagine e un afflato poetico di impronta leopardiana.
In realtà Morandi va a poco a poco perfezionando il proprio registro espressivo, di fronte
a una realtà che, dopo i voli metafisici, si rivela ai suoi occhi stupefatti ancor più ricca e
inaspettata del sogno. Non ha più bisogno di astrarre l’immagine in una dimensione sovranaturale, perché gli è sufficiente e più stimolante affondare nella realtà di ogni giorno per
cogliervi e lasciar affiorare come in uno specchio la complessità della sua interezza. È come
un musicista che, di fronte all’ampiezza della tastiera, prova tutti i toni per rintracciare in
ognuno l’unità, l’essenza del suono puro, il contributo che ogni variazione può apportare
alla sostanza dell’immagine. In una sorta di contrappunto continuo si arricchisce l’armonia dell’insieme e si affina il potere d’introspezione dell’artista che sa di avere imboccato
una strada non facile, non rettilinea, attraversata da sentieri incrociati, scandita da soste e
riprese; una strada, però, il cui punto d’arrivo non può che essere l’unicità del reale.
Anche quello che in Morandi è stato definito il momento di maggior tangenza con il
naturalismo9, può essere riconsiderato in questa chiave.
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Natura morta, 1932 - (V. n. 170) - Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna
È oggi sufficientemente nota la vicenda che avvicina l’artista agli intellettuali che, sulle
pagine de “Il Selvaggio” e de “L’Italiano”, propugnano il verbo ‘strapaesano’ e predicano
la necessità del ritorno a una pittura legata alla tradizione e alle buone e semplici cose di
ogni giorno10.
Per qualche anno Morandi viene considerato uno di loro e si vede pubblicare articoli e
immagini sulle due riviste di Firenze e Bologna. L’accostamento non è forzato ed è testimoniato anche dall’insistere dell’artista nella pratica incisoria che, fra il 1927 e il 1931,
offre molte delle sue prove più struggenti (si veda ad esempio la Grande natura morta con
la lampada a destra del 192811, per riflettere su come la danza silenziosa degli oggetti di
più dimessa quotidianità possa assurgere a composta metafora dell’umano).
Ma, anche in questi anni, Morandi sfugge a qualsiasi sistematizzazione troppo definita e
si stacca dal verbo della «pittura fatta in casa, come il pane con l’olio»12, con opere sottili
e dense di rimandi, sempre frementi di pittura e – potremmo dire – di presenze ‘altre’,
all’interno di una singolare pulizia d’immagine che le rende sostanzialmente diverse.
Basta osservare la Natura morta con cestino del 1927 di collezione romana e la seconda di
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L’emergere di un paesaggio interiore (1920-1943)
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Natura morta, 1937 - (V. n. 221)
analogo impianto del 1929, come quella con le casseruole di rame dell’anno precedente13,
per rendersi conto che in ogni caso non vi è nulla di acquietato e si coglie sempre un
brivido in più: i ‘lumetti’ di tradizione accademica della prima natura morta, pur così
liquidi e trasparenti, a dare il gusto di una vibrazione interna; nella seconda, la boccetta
sulla destra, brano di pittura pura come l’ordito del fondo e le nervature del drappo che
scende dal ripiano; la conchiglia segreta, concavità inesplorata, nella terza natura morta,
che pare piuttostoun brano en plein air con il fondo mosso d’aria, il geranio che stormisce
e le casseruole alla Chardin sintetizzate in forme plastiche che nulla più mantengono di
naturalistico.
Morandi è ormai alle soglie di quella che è stata definita la sua «discesa agli inferi»14, i suoi
anni cioè di più intenso sconvolgimento espressivo e formale, anche se va detto subito
che mai vien meno la sorvegliata architettura dell’immagine e quel tanto di misura che
trattiene la forma dal franare in gorghi senza ritorno.
Se negli anni precedenti, a prove di assoluta limpidezza come il Paesaggio di Chiesanuova
del 1925 o la Natura morta del 1926, ora della Raccolta Alberto della Ragione a Firenze, si
sono alternate opere ricche di pathos quali le due Nature morte del 1924 – quella macerata
del Civico Museo d’Arte Contemporanea di Milano e quella col drappo giallo e la sagoma dell’orologio della Fondazione Longhi15 –, a partire dal 1929 è in atto quell’«attacco
dissolvente all’oggetto» di cui parla Cesare Brandi nel suo saggio del 1939-194216, sottolineando come «la precisa, ricostruita interezza dei volumi cede allora alla forza germinante,
all’estro plastico del colore diventato denso, rotto, ora vibratile e molle come un epitelio».
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Natura morta, 1938 - (V. n. 230)
Prima le ombre appaiono come alter-ego degli oggetti, loro proiezioni dotate di vita autonoma che emergono dal fondo ad affermare la propria sostanza inafferrabile e sensibile (si
veda, in particolare, la Natura morta 1929 di Brera17); poi sono gli oggetti stessi a divenire
«corporee metamorfosi di ombre», a farsi «pallidi, sezionati, incorporei come ombre»18,
a prender parvenza di larva, ora trasparente e alabastrina, ora bruciante e sulfurea come
nella Natura morta scura di raccolta privata romana, in cui – oltre ogni sensazione di peso
e di materia – resta solo l’involucro affilato della realtà19.
Si può concordare con Ragghianti quando rileva il «senso di vitalità veramente demoniaca
che sottende la sua pittura… certe sue indomabili trazioni verso il reale ravvicinato (nel
1930, nel 1934, nel 1939), verso la vita nel momento del suo sorgere e vigoreggiare nell’anima e nella sensibilità»20.
Ma ancor più mi preme sottolineare il senso di operazione alchemica assunto in questi
anni, tra il 1929-1930 e il 1935-1936, dal far pittura di Morandi, il buttar tutto nel crogiuolo della creazione artistica, tanto da far depositare sul fondo il superfluo, le scorie, per
estrarre l’albedo, l’essenza delle cose, la loro decantata purezza.
Nel momento dell’ ‘opera al nero’ tutto pare ribollire, se non proprio dissolversi, in magma trapunto di luce, mentre tentacoli acuminati di materia sferzano l’aria e squilli di
colori accendono lo spazio concluso dell’opera. Morandi si sta mettendo alla prova, per
giungere al centro del proprio essere e trovarne il nucleo, quel quid più resistente e luminoso del diamante che solo può sostenere l’impegno di tutta una vita, imprimendo forza
a ogni atto, a ogni immagine che se ne faccia specchio.
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L’emergere di un paesaggio interiore (1920-1943)
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Natura morta, 1938-1939 - (V. n.1348) - Colonia, Ludwig Museum
Nel 1937 il terremoto si acquieta. L’artista, consapevole di ciò che ha trovato all’interno
di se stesso, si rende conto di poter ormai controllare la sua arte in ogni minima sfumatura. Certo in ciò gli è di grande aiuto l’amicizia con Roberto Longhi, la limpidezza e
l’armonia del suo magistero che è innanzitutto amore per l’arte; si tratta, in altre parole,
di un incontro giusto al momento giusto, fra un intellettuale giunto alla piena maturità
e un artista che ha trovato la sua strada e la vuole percorrere, d’ora in avanti, con la salda
consapevolezza delle proprie possibilità.
La ricerca di Morandi non si interrompe, anzi: questi sono gli anni, fra il 1938 e il 1943,
in cui nascono alcune fra le sue opere più splendide, creature di una vitalità positiva che
afferma con decisione il proprio diritto ad esprimersi.
Le tele dipinte tra la fine del 1938 e l’inizio del 193921, quella incredibile serie di nature
morte risplendenti di rossi e turchini, compatte di oggetti affollati, orgogliosi, ardenti, si
offrono tutte insieme allo sguardo attonito del visitatore della terza Quadriennale romana, all’inizio del 1939, come un dono inaspettato pure per chi già conosce bene l’artista, e
provocano dibattiti e polemiche che non si attenuano se non circa dopo due anni, con il
pieno riconoscimento della sua unicità nel panorama dell’arte non solo italiana22.
Nei primi anni Quaranta, passata anche la ‘folgorazione’ della Quadriennale, la pittura
morandiana va sempre più configurandosi come paesaggio interiore, persistenza di valori,
sentimento del tempo come durata, frutto di minime variazioni che portano a mutamenti
sostanziali.
L’artista assurge a una nuova classicità: nei Paesaggi il senso della struttura si essenzializza,
portando sovente in superficie l’ossatura della composizione e iniziando quel gioco sottile
di indagine sugli spazi interstiziali che tanto interesserà l’artista nel suo periodo più tardo:
si veda, fra gli altri, il Paesaggio 1940 del Civico Museo d’Arte Contemporanea di Milano,
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Natura morta, 1941 - (V. n. 298)
con quelle campiture geometriche bianche in primo piano, a definire spazi puri, per nulla
naturalistici23. Nelle Nature morte, l’aria ritorna a circolare più libera, plasma di luce calda
gli oggetti, suggerendo punti di fuga dall’interno del quadro verso lo spazio circostante,
imprecisato quanto presente (ne sono esempio la Natura morta 1941 Jucker, con quegli
oggetti che paiono guardare qualche cosa al di là, o la Natura morta Magnani del 1942, in
cui il fondo entra di forza nel primo piano, ritagliando porzioni inaspettate di spazio24).
Nei Fiori le variazioni interne al tema sono ancor più accentuate, pur nel tocco affettuoso
dell’artista che li abita come frammenti di vita gelosamente custodita; muta spesso l’angolo di visuale, mentre l’obiettivo si allarga o si stringe sul vaso o sulle singole corolle: la
seta della rosa muschiata si sostituisce alla fragranza dei fiori freschi; a oli che hanno la
fragilità dell’acquerello si accostano immagini ancora tese e lancinate come i Fiori 1942
di collezione bolognese25, che tanto valgono a restituirci il clima di una stagione che vede
apparire, quasi all’unisono, i Fiori secchi di Mafai.
Morandi ha trovato se stesso, ma il mondo attorno a lui non concede nessuna certezza e
neppure pause di serenità. Sono gli anni della guerra e sembra che tutto si dissolva nella
tragedia collettiva. Mentre gli aerei passano nel cielo di Grizzana e il fronte si ritira, lasciandosi alle spalle una scia di dolore e di fuoco, l’artista affida la sua dolente riflessione
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L’emergere di un paesaggio interiore (1920-1943)
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Natura morta, 1941 - (V. n. 290) - Campione d’Italia, Collezione Silvano Lodi
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Natura morta, 1941 - (V. n. 320)
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Fiori, 1942 - (V. n. 356)
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L’emergere di un paesaggio interiore (1920-1943)
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Natura morta (Conchiglie), 1943 - (P. 2000, n. 1943/4)
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a piccole Nature morte di conchiglie, ossi di seppia abbandonati su un litorale estraneo
all’uomo, e a Paesaggi di luce bianca, ove le macchie d’alberi appaiono come calcinate
dalla polvere e dal sole, paesaggi vuoti di uomini e di natura e come attoniti di fronte a
una vita di cui non si comprende più il senso. Immagini di profondissima quiete, «aria di
vetro» nel silenzio del giorno, sono questi paesaggi che si offrono come uno dei risultati
più alti dell’arte morandiana.
Forse la poesia di Eugenio Montale, quando è più ‘dipinta’, può esserne un commento:
«Tacevano gli spari, nel grembo solitario/ non dava suono che il Leno roco./ Sbocciava un
razzo sullo stelo, fioco/ lacrimava nell’aria». E ancora: «Non rifugiarti nell’ombra/ di quel
folto di verzura… è ora di lasciare il canneto/ stento che pare s’addorma/ e di guardare le
forme/ della vita che si sgretola… i nostri animi arsi/ in cui l’illusione brucia/ un fuoco
pieno di cenere/ si perdono nel sereno/ di una certezza: la luce».
Le prove che ora attendono Morandi richiederanno concentrazione claustrale e conoscenza sferica del sistema di relazione che sottende le tante immagini prismatiche dell’Uno,
ma sempre resterà alla base di ogni invenzione la serenità meridiana che, a prezzo del
distacco nato da una sensibilità scorticata, Morandi ha saputo conquistarsi in questi anni
di avventura.
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(da L’emergere di un paesaggio interiore. Trasalimenti e approdi dell’immagine morandiana
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Natura morta (Conchiglie), 1943 - (V. n. 444)
tra il 1920 e il 1943, introduzione critica ai cataloghi del Progetto Morandi Europa. Sette
mostre in sette musei, Tampere - San Pietroburgo - Mosca - Locarno - Londra - Tübingen
- Düsseldorf, ottobre 1988-marzo 1990).
Note
Cfr. C. Brandi, Poi la pittura scompare, in “La Fiera Letteraria”, Roma, 24 ottobre 1968 (ripubblicato in C. Brandi, cit., 1990, p. 91-94).
2
Cfr. R. Longhi, Momenti della pittura bolognese, in “L’Archiginnasio”, XXX, n. 1-3, Bologna
1935.
3
Cfr. P. Bargellini (a cura di), Artisti italiani: Giorgio Morandi, in “Il Frontespizio”, Firenze, settembre 1937.
4
G. Poggeschi (1905-1972), pittore bolognese, è tra i fondatori della rivista “L’Orto”.
5
Cfr. Catalogo Vitali, n. 51. E, per la tela del Museum Ludwig di Colonia, del 1921, n.65; per
quella del Museo dell’Ermitage, del 1925, n. 107; per i Fiori 1920, n. 56.
6
Ibidem, n. 57 e 59 per i dipinti del Museo Morandi e n. 52 per la Natura morta scura ancora del
1920.
7
Ibidem, n. 92.
8
Ibidem, n. 66.
9
Cfr. L. Vitali, cit., 1957-1964, p. 16: «scrupolo meramente oggettivo»; F. Arcangeli, cit., 1964, p.
221: «sentore d’Ottocento»; F. Solmi, Morandi, Bologna, Grafis, 1978, p. 78: «possibilità di caduta
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Un piccolo capolavoro ritrovato
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naturalistica». Come rivelano gli appunti inediti dell’artista, egli rifiuta in ogni modo tali definizioni critiche (cfr. Appendice 1, p. 232).
10
Cfr. il mio saggio, «Quelle sabbie portate a vibrare…». La trasformazione dell’immagine morandiana
tra il 1925 ed il 1939, nel catalogo della mostra Morandi e il suo tempo, cit., 1985, p. 54-68.
11
Cfr. L. Vitali, cit.. 1957-1964, n. 46.
12
L. Longanesi, Giorgio Morandi, in “L’Italiano”, Bologna, 31 dicembre 1928.
13
Cfr. Catalogo Vitali, n. 116-140-131.
14
Cfr. F. Arcangeli, cit., 1964, p. 233: «e poi, più oltre, probabilmente dall’autunno in poi [del
1929] un tacito sprofondare della sua pittura entro un limbo che è quasi un dominio infero o sublunare, dove le cose e gli aspetti del visibile […] sembran perdere i loro nomi».
15
Cfr. Catalogo Vitali, n. 110-114-100-101.
16
Cfr. C. Brandi, cit., 1942-1952, p. 21. Il saggio Cammino di Morandi compare in prima stesura
su “Le Arti”, Roma, febbraio-marzo 1939.
17
Cfr. Catalogo Vitali, n. 143.
18
Cfr. C. Brandi, cit., 1942-1952, p. 21 e 23.
19
Cfr. Catalogo Vitali, n. 148.
20
C. L. Ragghianti, Giorgio Morandi, in “Critica d’Arte”, Firenze, gennaio 1954.
21
Cfr. Catalogo Vitali, n. 226; 229-231; 246.
22
Cfr. il mio saggio Morandi e il dibattito artistico negli anni Trenta, in Quaderni Morandiani 1.
Primo incontro internazionale di studi su Giorgio Morandi. Morandi e il suo tempo, Mazzotta, Milano,
1985, p.114-126.
23
Cfr. Catalogo Vitali, n. 273.
24
Ibidem, n. 298 e 384.
25
Ibidem, n. 356.
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el febbraio 19961 vidi per la prima volta una composizione di rose in vaso, opera morandiana di straordinaria qualità che non ho più dimenticato. A fine anno
– ancora colpita da questo dipinto tanto intenso, gomitolo arruffato di forza e fragilità,
immagine soffusa di tenerezza e rabbrividita di echi – chiesi a tre poeti amici di Morandi
di rivolgergli un pensiero attraverso queste sue rose.
Ne nacque un libretto che il Museo Morandi distribuì per Natale2. Un piccolo libro, discreto e alieno da ogni ostentazione, privo di vanità ma carico di emozione.
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L’immagine dell’assenza.
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I paesaggi degli anni di guerra
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È l’omaggio a Morandi e un dono per tutti offerto da Mario Luzi, Franco Loi e Jean-Michel Folon: come non ricordare un verso purissimo di Mario Luzi, quell’immagine delle
«rose luminose di carne e di vetro» o, di Franco Loi, il sussurro «l’aria si ferma, quasi per
ascoltare» o ancora, di Jean-Michel Folon, la conclusione: «Morandi/ est aussi proche/ de
nous/ que l’éternité»?
Chiesi in seguito ai proprietari di poter esporre la tela come deposito temporaneo al
museo e, al momento del suo arrivo, scrissi per lei qualche parola di ragione e sentimento3: «Questi Fiori dipinti da Morandi nel 1943, pur nella loro apparente fragilità, sono
testimonianza fra le più convincenti di un momento altissimo, quella stagione irripetibile,
quello stato di grazia che hanno prodotto le Conchiglie dello stesso inverno 1942-1943 e
gli assorti Paesaggi dell’estate successiva, a Grizzana.
Se negli scorci appenninici sono il vuoto, l’assenza, il silenzio a distendersi su tutto per
lenire le ferite dell’uomo, qui si attua piuttosto il massimo di concentrazione, di densità,
di compattezza, quasi che quanto di umano può ancora sopravvivere si sia raccolto in
quelle corolle strette l’una all’altra e riscaldate dall’abbraccio della luce. Condensazione e
rarefazione; tra questi due poli si sviluppa l’esperienza morandiana del visibile: a fronte
delle distese campiture di luce bianca e di silenzio verde dei paesaggi, qui tutto è colore,
apprensione, brivido.
Le rose di seta si affacciano dall’orlo del vaso, sprigionano un loro segreto profumo e
paiono duplicarsi, con un pizzico di vivacità in più, nella ghirlanda di rose che decora il
vaso in ceramica.
L’immagine è risolta con tocchi di pennello essenziali, rapidissimi, commossi. La sensazione che se ne trae è quella di una trina leggera fiorita attorno ad un nucleo d’ombra, di
una spuma d’acqua limpida scaturita dal cuore profondo della natura».
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Il piccolo dipinto venne infatti presentato al Comitato per il Catalogo Morandi, di cui sono
presidente, il 5 febbraio 1996, per poi essere catalogato nell’appendice al Catalogo Generale da me
curata per il Museo Morandi nel 2000 (M. Pasquali, cit., 2000, p. 29, n. 1943/2).
2
Si tratta di Tre poeti per Morandi, Bologna-Udine, Museo Morandi-Campanotto Editore, 1996.
3
Dal dépliant Stagioni, 1999 (ripubblicato in Museo Morandi. Catalogo generale, terza edizione
riveduta e ampliata a cura di Lorenza Selleri, Milano, Silvana, 2004, p. 136).
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Tutti sono come al buio, ma basterà che si accenda un fiammifero
perché le nostre mani, quelle di tutti i veri italiani, si incontrino; le
mani, che nel buio e nel silenzio di questo regime di non più austera,
ormai tirannica disciplina, si stanno cercando per incontrarsi.
Alberto Graziani, lettera alla moglie Tina, 30 aprile 1940 1
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a tempo desideravo affrontare il nodo critico dei paesaggi degli anni di guerra di
Morandi, convinta come sono che essi rappresentino uno dei vertici più alti di tutta
la sua arte, nel mettere in ’figura’ una regione impervia del pensiero e del sentimento, nel
tradurre in immagine il pathos cristallizzato di un’ora e di una stagione tra le più struggenti dell’intero percorso morandiano; in una parola: il punctum di una esperienza umana
e culturale che lì doveva necessariamente giungere e che da lì sarebbe ripartita con una
coscienza ancor più acuminata della fatica di vivere e con l’assunto ad imperativo etico
del proprio destino d’artista.
L’occasione per sostenere tale sfida è giunta quest’anno, allorché gli amministratori pubblici di Grizzana mi hanno chiesto un progetto per ricordare ancora una volta, non retoricamente e proprio nel trentesimo anniversario della morte di Morandi, il suo amore
per le creste colme d’aria e il ‘sole difficile’ di questa terra che ha sempre il carattere di un
confine, di una linea d’orizzonte oltre la quale si spalanca la luce. Ho iniziato a lavorare,
credendo semplicemente di occuparmi di una mostra, e mi sono ritrovata al centro di
un mondo complesso, fervido e accorato, nobile di virtù e passioni civili, un mondo di
cui Morandi è figura essenziale e che trova nella sua opera una tra le immagini più alte,
toccanti e intangibili insieme.
Non credo alle coincidenze e non è un caso se la mostra dei suoi paesaggi del periodo
bellico (anche se ciò non è stato in un primo tempo voluto) vede la luce proprio a cinquant’anni da quella stagione di fuoco e sangue, da quel dies irae che tra l’estate e l’autunno del 1944 ha travolto gli inermi e i miti di cuore, gli innocenti; come Morandi, come i
suoi amici, come gli uomini e le donne che gli sono intorno.
L’artista è stato parte viva di quel mondo, vivendo e soffrendo ogni giorno insieme agli
altri, da quella sua proverbiale, quasi scontrosa posizione appartata, da quella sua ‘lateralità’ che però non gli impedisce di patire nel silenzio e di comprendere – prendere insieme,
abbracciare – la gioia e il dolore che lo circondano.
Il lavoro ci è cresciuto tra le mani, è lievitato come la pasta per il pane. A poco a poco,
attorno a Morandi, attorno a noi, si sono affollati gli amici di un tempo, sono tornati i
giovani intellettuali arsi dal fuoco della vita che a lui guardano come ad una luce in cima
alla collina, sopra le brume opache della pianura; sono tornati i compagni di strada più
veri e gli interlocutori, apparentemente casuali, di un momento; sono tornati un mondo,
una gente, un luogo che la guerra ha spazzato via, o meglio, ha tentato di spazzare via con
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la follia e la violenza e l’orrore della stupidità, ma che nelle immagini dell’arte, nelle parole
della poesia, nel calore dell’amicizia riprendono a pulsare, a vivere, a muoversi, ancora una
volta, oggi come cinquant’anni fa, per chi ha voglia e forza di accorgersene e di accoglierli
in sé, come linfa vitale per questo non facile presente.
Morandi funge da tramite, fa da ponte tra noi e loro, ‘sta’ in mezzo agli strazi del corpo
ed ai turbini della mente come un vecchio albero che ha radici troppo diramate e fronde
troppo aeree per essere abbattuto. «Attraverso quella valle, piena d’assenza degli uomini»
– è un verso abbacinante del suo amico poeta Mario Luzi2 – egli ci riporta la dimensione
del dolore e della morte, che però, sempre, oltre quel crinale ritagliato all’orizzonte, intuisce la gioia della luce.
Alcune riflessioni, per cominciare. Allo scoppio della guerra e quasi per tre anni la vita di
Morandi, della sua famiglia, dei suoi amici pare scorrere senza particolari traumi, certo un
po’ più buia e modesta, come resa asfittica dalle maggiori difficoltà quotidiane ma regolare, di una quieta normalità in cui si spengono i lampi di una tempesta che sembra ancora
lontana: l’affetto protettivo delle donne di casa, la frequentazione degli amici più cari,
l’insegnamento all’accademia e, soprattutto, il lavoro pittorico con importanti risultati
sia nella natura morta che nel paesaggio: scrive Brandi nel 19423, dopo la stagione estiva,
di «vagheggiati paesi», di «orditure tanto diverse e inattese», ma anche di «pacatezza delle
immagini»; e il giovanissimo Arcangeli, nell’ambito della sua prima presentazione per
una collettiva d’artisti contemporanei aperta nel dicembre dello stesso anno da Giovanni
Ciangottini nella sua nuova galleria in via Zamboni 36, parla di Morandi e ne traccia
un primo profilo critico («… il versarsi di un sole antico sopra vegetazioni rinate e già
appassite nella mente»4).
La coscienza dell’irreparabilità della guerra è già ben presente all’artista che va confrontando la sua precedente esperienza personale, le memorie di un primo conflitto non meno
distruttivo, con le riflessioni struggenti che gli giungono dal cuore aperto di Alberto Graziani, forse l’unico tra i giovanissimi intellettuali bolognesi vicini a lui e a Roberto Longhi
ad avere già vissuto, a questa data e sulla propria pelle, la totale insensatezza e gratuità
della guerra, da lui vista già nell’agosto 1939 come una «specie di mostruoso suicidio»5. È
certamente da riflessioni di tale natura che nascono in Morandi gesti come quello descritto dalla sorella Maria Teresa: il piantare in mezzo all’orto di casa un piccolo ulivo toscano,
portatogli da Lamberto Vitali, come segno minimo di pace, come augurio a mezza voce
di «un poco di sereno… a questa povera Italia»6.
L’atmosfera attorno a Morandi va rapidamente mutando ed a lui si stringono quei giovani
che, educati nelle promesse del regime fascista, ne vanno scoprendo le falsità e gli inganni.
Ma perché chi si allontana dalle paludi dell’ideologia fascista, dalla sua «ormai tirannica
disciplina», guarda ad un artista che non si è mai mischiato alla politica, che non ha mai
dato segni espliciti di volersi opporre al potere costituito né di volerlo in alcun modo
contestare? Che cosa c’è in Morandi di tanto forte da farne un punto di riferimento per
coloro che iniziano a sperare e ad operare per un futuro di libertà? Ecco, proprio questo: il suo essere profondamente, naturalmente libero, contro ogni retorica, ogni eccesso,
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esasperazione, superficialità; in altre parole, contro ogni violenza del pensiero e contro il
degrado morale che è nelle premesse stesse del credo fascista e che lo divora dal suo stesso
interno.
Per questo, quando nell’estate 1942 nasce a Bologna il Partito d’Azione – il gruppo di
intellettuali provenienti dal movimento di “Giustizia e Libertà” che si forma intorno a
Ferruccio Parri e Ugo La Malfa, a Milano, e ad Aldo Capitini, Guido Calogero, Piero
Calamandrei, Enzo Enriques Agnoletti e Carlo Ludovico Ragghianti a Firenze –, i suoi
membri bolognesi sono amici di Morandi o, quanto meno, fanno parte del suo stesso
ambiente culturale, quello non esplosivo ma vivo e fertile di idee che ha caratterizzato la
città tra gli anni Trenta e gli anni Quaranta. I nomi sono quelli di Giuseppe Raimondi
(amico fin da quell’altra terribile guerra…), di Cesare Gnudi, dello stesso Ragghianti, di
Gaetano e Francesco Arcangeli; e poi Antonio Rinaldi, Giorgio Bassani, Gian Carlo Cavalli, Attilio Bertolucci, Sergio e Vittorio Telmon, Fiorenzo Forti, Carlo Doglio, Edoardo
Volterra, Mario Finzi.
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L’immagine dell’assenza. I paesaggi degli anni di guerra (1940-1944)
Il precipitare anche a Bologna della situazione politica porta all’arresto, a fine maggio
1943, di quasi tutti gli esponenti del Partito d’Azione, comprese alcune grandi personalità non bolognesi come quella di Mario Delle Piane, in seguito docente di Diritto
all’Università di Siena. Morandi è tra loro, viene arrestato insieme a loro, anche se – come
ricorda Antonio Rinaldi in una sua memoria del 19667 – la sua unica colpa è quella di
essere amico di Ragghianti e «un poco anche del nostro gruppo di letterati bolognesi».
Non sono molti per lui i giorni di carcere, una settimana o poco meno, ma quanto deve
pesare sul suo animo, più che la detenzione, l’essere tenuto completamente all’oscuro sui
motivi dell’arresto, il non avere notizie degli amici, l’amarezza del nonsenso di tutto ciò,
poiché «quando un paese è al vaglio tremendo di una guerra si aprono tutti i conti, la
Storia li salderà automaticamente», come ha scritto Alberto Graziani nel luglio 19408 (che
capacità profetica la sua, quasi che il non poter vivere la propria vita gli dia la capacità di
meglio comprendere la vita di tutti!).
Morandi subisce l’arresto e sopporta i giorni di detenzione con la dignità semplice, il
distacco cortese e la pacata superiorità che gli son propri in qualsiasi circostanza, ma,
appena liberato, sfolla con la famiglia a Grizzana per allontanarsi dal rumore e dai gesti
scomposti di una dittatura condannata che annaspa alla cieca prima di affondare. Scrive
l’artista all’amico Brandi il 1 giugno 19439, appena uscito di galera: «Spero alla sua venuta
di essere anche in città. […]. Cerchi, se le è possibile, di affrettare la sua venuta qui», ma
poi si lascia convincere e raggiunge il piccolo paese dell’Appennino ove lo attendono due
stanze tutte per lui, all’ultimo piano di quella Casa Veggetti a fianco del Campiaro che
ospita la famiglia Morandi ormai da tante estati e che quest’anno si è come fatta più grande per accogliere tutte le loro cose e per permettere all’artista di lavorare in tranquillità.
Forse, nel giugno 1943, Morandi pensa di restare a Grizzana soltanto per i mesi estivi,
come ogni anno, e di poter riprendere l’insegnamento e la vita in città, come ogni anno,
in settembre. Ma la caduta del fascismo, il 25 luglio, e l’armistizio, l’8 settembre, ed il pericolo sempre più forte di bombardamenti e ritorsioni lo convincono a non abbandonare
la calma sicura – per quanto ancora? – del borgo appenninico per le incertezze del vivere
entro le mura bolognesi.
Penso che per capire Grizzana, la sua campagna, i suoi calanchi, creste, frane e crinali dirupati, vegetazione quasi acerba, case di pietra, intervalli di un cielo azzurrissimo,
aria cruda e pulita, profumi sottili come un filo d’erba seccato al sole d’agosto, acque
lontane, già fuggite a valle; penso che per comprender tutto questo, bisogna necessariamente conoscerlo. Non lo si può descrivere e non è sufficiente una visita affrettata che,
soprattutto oggi, non coglierebbe di quel mondo che l’aspetto dimesso, comunque feriale,
quasi sonnolento. Ma che cosa era la terra di Grizzana, abbracciata dai monti magici di
Montovolo e Monte Termine, arroccata sul filo del crinale tra le acque del Reno e quelle
del Setta, acque vitali per il paese e la sua gente e pur così lontane laggiù nelle valli parallele che congiungono l’Emilia e la Toscana? Che cosa era fino al settembre del 1944 la
terra di Grizzana come quella di Monte Sole? Come si poteva pensare che proprio lì, tra
questa gente antica e che così poco chiedeva agli altri – forse, solo, di vivere in pace – si
sarebbero scatenate una furia di morte, una voglia di distruzione tali, che ancor oggi, a
cinquant’anni di distanza, tutta la montagna tra Marzabotto, Monzuno e Grizzana appare
vuota di uomini e di voci; vuota di case, di stalle, di chiese, di quei segni del quotidiano
che rendono umano il mondo? Bisogna andare a Monte Sole, per cominciare a capire;
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bisogna respirare quel vuoto tra le ginestre e i quercioli, quel sole a picco sul silenzio,
quelle poche pietre di una chiesa che non c’è più e quel cimitero luminoso, dal cancello
fermo e arrugginito come la croce di ferro che è rimasta al centro, piegata come l’altare e
come i vivi che lì hanno lasciato la vita. In queste stesse pagine, Francesco Berti Arnoaldi10 delinea con tocco leggero e magistrale il profilo di questa stagione, fra le più terribili
della nostra storia. Ci dice dei fuochi dei cascinali bruciati, visibili come vampe nella
notte dall’opposto versante di Montorio; ci dice dell’odore di morte che ancora aleggia la
primavera successiva, quella del ritorno dei vivi, sullo spesso silenzio della Quercia o di
Ca’ di Marsili. Anzi, in verità non dice, non indugia nei particolari, non racconta episodi
salvo quello – allucinante, col senno di poi – dei futuri suoceri che si vedono capitare
in casa, come ospite obbligato, un «maggiore senza un braccio»11. Eppure il quadro che
emerge dalle sue parole è cupo, fitto d’ombre senza riscatto, piagato dalla presenza stessa
del male, appestato dai miasmi di un rito idolatrico. Perché, come scrive don Giuseppe
Dossetti nella sua irrinunciabile introduzione a Le querce di Monte Sole, lo struggente
libro di Monsignor Luciano Gherardi, «tutte le stragi del settembre-ottobre 1944 hanno
una loro connotazione, e quasi tutte una connotazione che evidenzia, in un particolare
proprio, il rituale del sacrificio […], il delitto castale»12.
Morandi – ritorniamo ancora a lui, perché lui ora rappresenta il filo-guida che ci può
ricondurre all’aperto, fuori dal labirinto tragico in cui si intrecciano il ritmo della vita e la
stasi della morte – evita i giorni del massacro perché non resta con la famiglia a Grizzana
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che fino agli inizi di settembre, tanto che anche egli, come tutti, avrà conoscenza piena
dell’accaduto soltanto la primavera seguente. Ma ciò che ha visto e ha patito nei quattordici lunghi mesi dello sfollamento è sufficiente, ampiamente sufficiente a segnarlo nel
profondo. Proprio ai primi di settembre (come del resto è confermato da Alfredo Baruffi,
segretario dell’Accademia delle Belle Arti, in un appunto dell’8 settembre 1944, data in
cui l’artista è già a Bologna13) la famiglia Morandi decide di ritornare in città a causa del
pericolo dei combattimenti nelle campagne attorno a Grizzana, dei rastrellamenti e delle
rappresaglie sui civili. Prima partono Dina e Giorgio, poiché il pericolo maggiore è per gli
uomini, mentre restano a Casa Veggetti per riordinare e radunare i bagagli l’Annetta, la
mamma e Maria Teresa. «Dopo qualche giorno – ricorda questa – con l’ultimo viaggio del
camioncino di Palmieri, ritornammo in città. La mamma era seduta a fianco dell’autista;
io e mia sorella eravamo dietro, sopra il carico delle cose e ci tenevamo strette alle funi.
La gente ci guardava passare e ci faceva cenni, ci indicava il cielo, come a dirci di stare in
guardia contro gli aerei e le loro mitragliatrici. Più volte dovemmo scendere dal camion
per nasconderci in mezzo al verde. Arrivate al Reno vicino a Vergato, dove il ponte era
stato bombardato, siamo scese con il camion nel greto del fiume e così abbiamo attraversato».
Parole semplici, prive di enfasi, che ci riportano con vivezza assoluta a quei giorni, a quella
gente che con un gesto cercava di aiutare chi si trovava a passare per strade tanto pericolose: forse tutti conoscevano le donne di casa Morandi, o forse – e più probabilmente – no,
vista la loro riservatezza. Certo è che la solidarietà – questa parola oggi quasi dimenticata
– in quei giorni è ragione di vita, strumento per vivere; e forse fra quelle persone che hanno aiutato i Morandi a lasciare le pendici di Grizzana, ve ne sono di quelle che neppure
un mese dopo sono morte nel delirio idolatrico delle SS naziste.
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Ma, prima del tempo di Grizzana e poi, nella lontananza, attraverso le lettere marchiate
dal timbro arrogante della censura o da imperativi di vittoria che sempre più suonano irridenti, quali sono i compagni di strada dell’artista, chi egli considera interlocutore valido
nel suo rapporto così esclusivo con la vita? È certamente vero, come osservava di recente
Luca Cesari a proposito di Gaetano Arcangeli – ecco, un primo nome da tenere a mente
–, che sono anche di Morandi quegli «sguardi chiari e impassibili propri solo ai caratteri
solitari»14.
Ma attorno a lui, di profondamente umano, c’è molto: c’è l’affetto sicuro della famiglia,
roccia salda che mai verrà meno; c’è il rispetto venato di soggezione di che abitualmente
lo incontra per le mille piccole necessità del quotidiano; c’è il rapporto distaccato ma
costante con gli allievi e con i colleghi dell’Accademia; c’è la sensibilità comune con i
poeti dell’ermetismo, lo scambiare con loro immagini e parole; c’è il plauso dei migliori
artisti del futuro, quelli che nel 1939 polemizzano contro l’assegnazione del premio della
Quadriennale a Saetti ed affermano l’unicità di Morandi come primo artista d’Italia (e
sono Toti Scialoja ed i fratelli Basaldella, a Roma, e quelli di “Corrente” a Milano, Birolli,
Morlotti, Sassu, Guttuso…); c’è la venerazione dei giovani più attenti che vanno formandosi nell’ambiente universitario, soprattutto nella Facoltà di Lettere, attorno a maestri
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del calibro di Roberto Longhi; c’è la frequentazione, quasi quotidiana per tre anni e mai
completamente interrotta anche in seguito, con quest’ultimo, il guardare quadri insieme,
l’individuare nuove personalità, il rintracciare caratteri comuni in pitture disparatissime e
pressoché sconosciute, l’entusiasmarsi di cervello e cuore per una conoscenza in più.
Non si può certo dir solitaria una vita così! Anzi, per mantener salda la preminenza data
all’opera, l’artista deve difendersi continuamente da chi vuole troppo, da chi vuole invaderlo, da chi non è all’altezza del suo rigore etico e della sua vis poetica.
Tra quelle più vicine a lui, alcune personalità in particolare vanno ricordate, dandone
altre, importantissime, quasi per scontate: Giuseppe Raimondi, l’amico di sempre, colui
con il quale Morandi divide ironia e gusto della notizia; Francesco Arcangeli, il giovane
studioso fragile e geniale, tanto legato all’artista e da lui sostenuto a distanza; Cesare
Brandi, lo storico e teorico dell’arte che forse più di ogni altro ha saputo leggere l’opera
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L’immagine dell’assenza. I paesaggi degli anni di guerra (1940-1944)
morandiana; Giulio Carlo Argan, che a Morandi appare legato da una tensione intellettuale non inferiore a quella di Brandi o di Longhi, se pur molto discontinua.
Tra i poeti, e solo per restare a Bologna (altrimenti, come dimenticare Eugenio Montale,
e Mario Luzi, e Piero Bigongiari?), gli sono vicini Gaetano Arcangeli ed Antonio Rinaldi.
Il primo è forse colui che, spontaneamente, quasi per trasmissione diretta, apre al fratello
tredicenne Francesco lo spazio dell’arte, e così questi lo rammenterà tanti anni più tardi,
proprio in apertura della sua sofferta, bellissima monografia per Morandi15: «Ricordo la
lunghissima, implacabile estate del 1928, le passeggiate e le soste, in solitudine, ai Giardini della mia città, con mio fratello Gaetano: parlavamo poco fra noi, ma certo, poeta, con
le sue nascoste attenzioni, con la sua attitudine ad avvertire cose che per solito non si avvertono, fu il primo maestro della mia sensibilità; forse senza nemmeno volerlo. Standogli
accanto, credo, maturarono in me le disposizioni che mi fecero amare, senza indugio,
come se mi fossero state dentro da sempre, le prime riproduzioni di Morandi».
Antonio Rinaldi è più giovane, si forma a Lettere e Filosofia, ove si laurea nel 1937,
prende ad insegnare al Liceo Galvani, si avvicina ai promotori di “Giustizia e Libertà”
e ne diviene uno dei sostenitori, molto vicino a Ragghianti. È del 1938 un suo piccolo
volume di poesie, La valletta16. E come non pensare a Morandi, al quale l’autore dedica
una copia per il Natale 1941, per questi versi ancora acerbi, di matrice forse più impressionista, sensoriale, ma certo a lui ispirati: «Valle, se in te riguardo/ solo i miei passi
attenti,/ risento l’inoltrarsi/ dei miei lenti/ pensieri/ nelle tue ore fisse, svolte/ da un giro
calmo di colori»?
Vi sono altri intellettuali che già hanno scelto la strada dell’arte e che quindi guardano a
Morandi con particolare intensità, ma che negli anni della fine del fascismo e della guerra
partigiana dedicano tutte le loro energie alla liberazione del paese ed al suo riscatto in una
nuova democrazia. Mi riferisco a Carlo Ludovico Ragghianti e a Cesare Gnudi, che poi,
per tutta la vita, resteranno accanto a Morandi e che in questi anni, figure di spicco del movimento di “Giustizia e Libertà” e del Partito d’Azione, lo tengono al corrente di tutto, pur
rispettando la sua dichiarata ‘non ingerenza’. È un poco a causa loro se l’artista si ritrova in
carcere per qualche giorno, ma in nessun momento egli li riterrà responsabili della cecità
del fascismo morente (ma è, in realtà, così cieco il regime, o anche Morandi è, di fatto, un
oppositore, e fra i più pericolosi?) e, appena finita la guerra, insieme a loro e a Gian Carlo
Cavalli firmerà il regalo di nozze per Mario Delle Piane, del pari arrestato nel maggio del
1943 come elemento sovversivo e tradotto nelle carceri di San Giovanni in Monte. Il dono,
per l’amico ritornato in Toscana e per la sua sposa, sarà un dipinto tra i più intimi dell’artista, una matassa di rose di seta offerta sull’orlo di uno stelo bianco di porcellana17.
Tra gli allievi di Roberto Longhi già innamorati di Morandi tra il 1934 ed il 1937 vanno
ricordati Antonio Boschetto, Gian Carlo Cavalli e Giorgio Bassani. Questo, prima di
giungere ad altre personalità straordinarie ugualmente affascinate dal binomio LonghiMorandi, qual è quella di Pier Paolo Pasolini che arriva all’aula di storia dell’arte intorno
al 1939-’40 e che, prima di dedicarsi alla tesi su Giovanni Pascoli con Carlo Calcaterra,
inizia una tesi d’arte contemporanea; a settembre 1943 sono già pronti i primi tre capitoli
dedicati a Carrà, de Pisis e Morandi, ma lo scritto va malauguratamente perduto nella
concitazione di una fuga in bicicletta dalla caserma cui Pasolini è assegnato, proprio l’8
settembre.
Una parola su Giorgio Bassani: laureatosi nel 1937, egli si reca spessissimo a Bologna nel
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1938-’39 per ragioni di primo insegnamento, e certamente l’anno seguente conosce già
Morandi visto che gli dedica un suo volume sotto lo pseudonimo di Giacomo Marchi18.
L’amicizia con Morandi è per Alberto Graziani, come per Arcangeli, l’«avvenimento centrale della prima giovinezza nel 1936»19. Ma anche in questo caso non si tratta di una
strada a senso unico perché, se è vero che all’artista il giovane si rivolge come maestro per
le sue acqueforti e i suoi disegni, è altrettanto vero che fin dall’inizio Graziani guarda alle
opere di Morandi con l’occhio critico del conoscitore e ne offre interpretazioni del tutto
personali. Dopo un accenno all’artista che compare nella prima lettera a Momi Arcangeli
dell’estate 1935, già in quella immediatamente successiva egli coglie un aspetto essenziale
della sua arte, laddove annota: «Non so anche se sia falso dare tanta importanza al soggetto e mi sembra che la pittura moderna sia già matura per dimostrare come ogni cosa sia
perfetta e divina e che soltanto non la si sia mai osservata. Certo a guardare le acqueforti
di Morandi, un mazzolino di fiori, delle bottiglie polverose, sembra che l’artista possa dire:
“Nessuno ha guardato un mazzetto di fiori con la sua ombra contro un libro o il muro. Io
l’ho guardato”»20. Nelle lettere alla fidanzata, ai fratelli Arcangeli, a Roberto Longhi i riferimenti a Morandi sono frequenti, ma preferisco ricordare le riflessioni conclusive del suo
saggio del 1939 dedicato a Wiligelmo, quello stesso saggio che inizia con parole – forse
ingenue ma profondamente vere – che bene potrebbero attagliarsi anche all’artista tanto
amato («I grandissimi artisti sono sempre soli; il loro stile è candido e inimitabile»)21. Così
come inizia, il testo termina con Morandi, proponendo un parallelo tutto di sensibilità
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L’immagine dell’assenza. I paesaggi degli anni di guerra (1940-1944)
visiva tra lui e il maestro del romanico padano e anticipando in tal modo la tesi critica
che Francesco Arcangeli trasformerà in mostra nel 1970 con Natura ed espressione nell’arte
bolognese e emiliana. Da Wiligelmo a Morandi.22 Scrive infatti Graziani: «…E a sinistra
della figura del giocoliere non appare la corolla grassa e pesante, tanto da ribaciare la terra
e la propria foglia arcando lo stelo sottilissimo, consunto nella tenera luce, di un semplice
fiore di campo? Credo che sia questa la scoperta più toccante, Giorgio Morandi!»
E questi nutre per il giovane un sentimento che penso possa definirsi di affetto, quell’affetto che per Morandi può nascere soltanto da una considerazione grandissima. Lo testimonia anche la sorella Maria Teresa, nel suo eloquio piano e misurato, quando ricorda
come l’artista lasciasse capire di avere molta simpatia per il giovane allievo. E desta in me
vera emozione ritrovare tra le carte di Morandi, proprio nei giorni in cui scrivo questa
lunga memoria sugli anni centrali della sua vita di uomo e artista, i dattiloscritti originali
dei testi da Arcangeli dedicati a Graziani, la commemorazione del dicembre 1952 e un
inedito racconto, Vicenda, scritto «alla memoria di Alberto». Il giro si chiude, gli amici si
ritrovano, ancora una volta, all’ombra del grande maestro.
E che dire, per concludere questa carrellata sulla particolarissima ‘solitudine’ di Morandi,
di quella visita che negli anni di guerra gli fa Giuseppe Dossetti, allora giovane laureato
in giurisprudenza e allievo prediletto di Arturo Carlo Jemolo, entrato nel 1943 nella
Resistenza come coordinatore politico per parte cattolica, nel paese natale di Cavriago?
Dossetti chiede a Morandi di partecipare in qualche modo all’attività della Resistenza;
Morandi, fedele alla propria scelta di non intervento, rifiuta; ma il contatto è stabilito e la
stima si rafforza fra i due intellettuali, a diverso titolo protagonisti assoluti della coscienza
d’Italia.
Morandi, nato nel 1890, passa attraverso due guerre mondiali, la prima tutta di trincea,
fango e invincibile scoramento, la seconda colma di angoscia per la sorte dei civili inermi.
Non è chiamato a combattere neppure nel 1915-’18 – e vedremo il perché – e la ‘sua’
guerra è insieme resistenza passiva agli eventi, apparente rassegnazione e profonda rivolta
interiore che (prendo ancora a prestito la parola poetica di Mario Luzi) «punta in alto, al
di là delle apparenze», mentre pensa e accorda «le sfere dell’orologio della mente sul moto
dei pianeti per un presente eterno che non è il nostro, che non è né qui né ora», ma che
«lavora anche per noi, per amor nostro»23.
Nell’artista vi è un totale, chiarissimo rifiuto della guerra. Egli è tanto uomo di pace da
neppure accettare l’esistenza del male e da soffrire fisicamente per la criminale insensatezza di altri uomini. Nel 1915 è chiamato alle armi in seguito alla mobilitazione generale
ed è assegnato al 2° Reggimento Granatieri, ma dopo soli sette mesi, nel luglio dello
stesso anno, viene «mandato in licenza straordinaria per convalescenza di sei mesi». Non
fa a tempo a rientrare in caserma, nel gennaio 1916, che ancora una volta è riformato e
definitivamente congedato per «deperimento organico e debolezza di costituzione». Lo
scarno linguaggio del foglio matricolare è chiarissimo e ci dice di un giovane che proprio
non ce la fa a sopportare la vita militare e lo strazio quotidiano dell’attesa (e ritornano in
mente le ‘depressioni’ vere e profonde, di cui soffrono anche de Chirico e Carrà, tanto da
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esser ricoverati, l’anno successivo, a Villa del Seminario, perduta nella luce metafisica della
campagna ferrarese). Anche per Morandi l’anno peggiore è il 1917, perché non è sufficiente il poter restare a casa per non vedere, per non immaginare ciò che sta accadendo a
altri giovani come lui; è ammalato, deperisce sempre più, non riesce neppure a dipingere,
tanto che di quest’anno nero si conoscono, con certezza, soltanto due opere, un dipinto
di Fiori – cattivi, pungenti come spade, senza profumo – e un Paesaggio estivo, di linee
arrotolate su se stesse quasi come i cieli di Van Gogh. È ancora Maria Teresa, la sorella più
giovane e allora undicenne, che ci restituisce la fisionomia di Morandi, stampatasi nella
sua memoria con la forza di un ritratto tragico: «ricordo la sua alta figura magrissima,
quasi scheletrica, con il volto scavato; non riusciva più né a mangiare né a dormire».
Fino al 1943 invece, ed anche se la guerra è iniziata da tempo, pare che l’ormai maturo
artista riesca a convivere con tutto ciò che essa comporta per chi è rimasto a casa; il rifiuto
manifesto, la negazione tangibile esplodono durante i mesi di sfollamento, allorché il conflitto si fa più pesante e il magma ribollente pare sommergere tutto. Anche in questo caso,
è la malattia fisica il segnale evidente dell’angoscia esistenziale di Morandi: a fine anno e
per la prima metà del 1944 è tutto un incrociarsi di lettere e di certificati medici con la
direzione dell’Accademia di Belle Arti per testimoniare che non gli è possibile riprendere
l’insegnamento. La diagnosi del dottor Tonelli a Grizzana, come poi quella del professor
Dagnini a Bologna, nel settembre 1944, riguarda sempre i disturbi reumatici che affliggono l’artista, ma insieme lascia intendere un malessere diffuso e costante. Certo, non deve
essere molto agevole l’avanti e indietro Bologna-Grizzana nei mesi dopo l’8 settembre,
ma, fino ad ottobre, Morandi riesce ad assolvere ai suoi doveri scolastici anche a costo di
restare sotto le bombe del 25 settembre. Poi la malattia avanza e chiede spazio, poiché
l’artista vive una insanabile contraddizione fra il richiamo del dovere e il desiderio di nor-
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L’immagine dell’assenza. I paesaggi degli anni di guerra (1940-1944)
malità, da un lato, e l’impossibilità a convivere con situazioni tutte al limite, dall’altro.
Una giornata-chiave della stagione di dolore vissuta a Grizzana è certamente quella del
22 luglio 1944, allorché per una rappresaglia seguita alla distruzione di un automezzo
tedesco vengono fatti sfilare per tutto il paese e fucilati sette civili presi a caso, tutti uomini
– o meglio, ragazzi – tra i trentaquattro e i quindici anni. Morandi, che sa ciò che sta accadendo e ne prevede la fatale, assurda conclusione, non attende neppure che il doloroso
corteo, intravisto da lontano, passi dinnanzi al Campiaro e a Casa Veggetti, ma si chiude
in casa, «restando tutto il pomeriggio e la sera disteso sul divano in camera da pranzo, in
silenzio, con il braccio alzato a coprirsi gli occhi». E come non pensare alla conoscenza,
mediata ma reale, con il giovanissimo sacerdote don Ubaldo Marchioni, allievo di prima
elementare della sorella Annetta a Vimignano nel 1923, e che il 17 maggio del 1944 è
nominato parroco di San Martino a Caprara? Quando Morandi, senza dubbio mesi dopo,
saprà del suo sacrificio ai piedi dell’altare della chiesa di Casaglia, mitragliato con il calice
dell’eucarestia in mano, che cosa potrà pensare, come potrà ricordare quel «figlio del
postino» che Annetta, legatissima a quella porzione di montagna bolognese, ama definire
«un angelo»?
Un filo rosso lega fatalmente le due guerre nella vita dell’artista e ancora una volta il
legame è un’opera: nel 1926-’27 egli dipinge come ex-voto deciso durante il primo conflitto mondiale una immagine di Madonna a mezzo busto, che rispetta compiutamente
nell’iconografia il dettato della tradizione sacra: la veste rossa, simbolo della maternità,
e il velo blu che scende ai lati del viso, figura della verginità (chissà se, come in Guido
Reni, appariva nella sua Madonna anche un lembo di panno bianco, a rappresentare profeticamente il Sudario? Ma Maria Teresa Morandi ricorda che loro sorelle hanno potuto
vedere il piccolo dipinto soltanto una volta e per poco tempo). L’ex-voto viene offerto al
santuario di San Michele Arcangelo a Monte Armato, cima appenninica tra Bologna e
Firenze, ma come tanto, come troppo, anch’esso è spazzato via dall’avanzare del fronte,
a desolata riprova del fatto che la guerra, superata, esorcizzata una prima volta, ritorna
ineluttabilmente una seconda volta con il suo carico di male.
E allora, nel confronto fra i due momenti della vita di Morandi, sorge spontanea una
riflessione: se la questione è di natura ontologica e riguarda l’identità stessa del bene e del
male, una risposta possibile può solo riferirsi al problema dell’essere. Morandi in entrambi
i casi reagisce, riesce a reagire e, dopo la piena del dolore ed il lasciarsi andare ad uno stato
di buia sofferenza interiore, ne esce dando vita nell’opera d’arte a dimensioni espressive al
vertice: nel 1918, a ridosso dei mesi neri dell’anno precedente, nascono le composizioni
metafisiche, intatte e intangibili, frutto di una necessità interiore che riversa nell’immagine quel bisogno di purezza, quell’ansia di assoluto che la realtà non può soddisfare; nel
1943-’44 la risposta è ancor più immediata, è in tempo reale rispetto agli eventi ed a volte,
persino, li anticipa. Di nuovo la sofferenza si fa alimento per la sua arte e si rigenera in
pittura: i Paesaggi che ne escono sono immagine di una diversa dimensione possibile per
l’essere, per la sostanza dell’uomo, sono la risposta di Morandi al groviglio ontologico di
bene e male, pre-vedendo un mondo diverso, un’altra dimensione in cui il reale assuma
l’ «impenetrabilità di un corpo celeste»24.
Non stupisca quindi questo accostamento fra le composizioni del 1918 e i tagli di paesaggio del 1943-’44: il disagio esistenziale da cui entrambi nascono è analogo, come analoga
è l’energia psicologica e intellettuale che sa trasformare l’angoscia in arte, portando a
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trasfigurazione persino serena le immagini di dolore che l’artista si porta negli occhi (per
Morandi mi sembra fuorviante parlare di ‘depressione’ come stato creativo; la sua non è
depressione, ma forza morale, dignità del pensiero e del sentimento anche nel dolore).
Chi non legge abbastanza a fondo, vede nelle superfici vuote e limpide di questi paesaggi
solo la serenità, senza coglierne il fuoco interiore che la giustifica e l’alimenta.
«Mortalmente serena» scrive invece Arcangeli25, ed io per qualche tempo non ho compreso la forza di quell’avverbio che mi pareva un po’ sopra le righe; ma oggi, dopo aver
ripercorso quei tempi durissimi nelle parole dei testimoni e nei luoghi, così vicini a noi,
della storia, ho compreso quello che la sensibilità scorticata di Arcangeli e la sua conoscenza diretta dei fatti e delle persone gli ha fatto tanto profondamente intendere, in una
spontanea, partecipe adesione al dato saldo di sentimento che sottende ogni immagine.
Chi è più vicino a Morandi sa di questa sua pienezza di senso, di questa sua – è ancora
Mario Luzi – «solenne, irta esistenza» e in tal senso vanno intese le parole di Arcangeli e
di Longhi. Scrive il primo nel 195026: «Fu proprio quando i nuovi mostri si adunarono
nel cartellone ammonitore di Guernica, quando già la superficie europea aveva sobbalzato
alle guerre d’Abissinia e Spagna, fu proprio dopo la fase più penata e dolorosa della sua
pittura, che Morandi oppose un rifiuto a partecipare e si ritirò nel suo angolo di contemplatore solitario, di sereno pessimista. Morandi ha rifiutato l’ultima guerra, inumana fin
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L’immagine dell’assenza. I paesaggi degli anni di guerra (1940-1944)
dai suoi prodromi, ha ricostruito per sé (e anche per gli altri che l’ascoltino, s’intende)
una pace alta e segregata. Da allora, da quegli anni 1937-’38, contentarsi di un poco entro
cui l’anima possa tranquillamente esplorare il tutto è stato il suo limite, forse, ma anche
la sua grandezza. È l’atteggiamento che ha finito per dargli il suo posto nel secolo». E
conclude Longhi, nel suo commosso Exit Morandi del 196427: «Voglio dire che la statura
di Morandi potrà, dovrà crescere ancora, dopo che quell’ultimo cinquantennio sarà stato
equamente ridimensionato, ridotto ai suoi limiti e, dove occorra, persino estromesso dal
concerto di una storia che possa dirsi civile e cioè in grado di intendere ciò che di umano
sempre si esprime nell’atto dell’artista».
La solitudine e l’opera
L’estate del 1943, almeno per quanto riguarda il lavoro, sembra rispettare i ritmi abituali
all’artista, quegli stessi degli anni precedenti: lunghe giornate trascorse all’aperto a studiare l’alternarsi del giallo secco delle stoppie e il verde mutevole delle fasce di vegetazione;
qualche visita e qualche lettera di amici come lui dispersi fuori città dalla guerra; non molte tele, una ventina, ma tutte di altissima qualità. Ma, via via che il conflitto si inasprisce,
il conforto delle abitudini, l’«ordine limpido dei gesti» devono lasciare il campo a una
precarietà totale in cui ogni giornata è vissuta come una conquista e la dignità si misura
istante per istante. L’artista non può più uscire a dipingere, perché è troppo pericoloso
ed anche il semplice tragitto di circa un chilometro fino al paese può trasformarsi in una
trappola sotto i mitragliamenti degli aerei alleati. E, d’altronde, non si può pensare neppure alle nature morte, perché Morandi non ha portato con sé i suoi modelli, anche se in
una lettera fa cenno alla sua intenzione di dedicarsi ad esse, sperando che, all’interno delle
sue stanze, gli sia possibile dipingere. E non è tempo per disegni, sempre strettamente
legati alle tele (se ne conoscono soltanto alcuni, ancora dell’estate del 1943) e tanto meno
per acqueforti, per le quali manca non solo la strumentazione tecnica ma soprattutto il
clima necessario alla concentrazione del pensiero che deve guidar saldo la mano e la punta da incisione. Ma allora, che cosa fa Morandi per tutti quei lunghi mesi dal settembre
1943 all’agosto del 1944? È quasi un anno privo di atti concreti, di cose; è un tempo di
meditazione che vale quanto diniego di quella ‘cultura dell’azione’ che il regime fascista ha
imposto come primato sulle categorie del pensiero e che la degenerazione nazista ha trasformato in ‘mistica del sacrificio’ (purtroppo degli altri). Nelle due stanze a lui riservate
all’ultimo piano di Casa Veggetti, con le finestre aperte sulle case del paese e sull’orizzonte
dei monti tutt’intorno, Morandi resta solo con se stesso e pensa, rinchiudendosi nel suo
orizzonte mentale per immaginare il mondo come lui lo vuole. Non si tratta di fantasticherie, ma di un continuo processo di eliminazione del superfluo, dell’inesistente per
tendere a sfiorare il cuore del reale.
Ora la solitudine è vera, non è condizione scelta per proteggere l’integrità della persona,
ma è costrizione di vita e di prospettive e si manifesta come un fitto velo di bruma che
annulla i contorni, sfuma le voci e dilata a dismisura le distanze. Per fortuna resta la famiglia, la certezza degli affetti, ma di pari passo aumenta la preoccupazione, il sentimento di
un presente instabile e di un futuro sconosciuto. Gli amici sono lontani ed ogni lettera,
ogni brandello di comunicazione diviene oro; forse per la prima volta l’artista chiede con
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Paesaggio 1944 - (V. n. 481) - Trieste, Museo Revoltella
qualche insistenza a Raimondi, a Arcangeli, a Beliossi di andarlo a trovare (altri amici,
non meno pensati, si sanno al di là di quella linea del fronte che appare invalicabile, ma
non vi sono notizie certe: sono Longhi, Gnudi, Ragghianti; ed il giovane Graziani è già
morto, a Firenze, in un letto di ospedale). Morandi, nelle sue lettere, si spinge fino ad offrirsi loro come guida per la distanza, tutta da percorrere a piedi e sotto il pericolo di colpi
di mitraglia e delle bombe, dalle stazioni di Pian di Setta o di Vergato fino su, per le strade
bianche, alla relativa quiete di quelle due stanze in cima alle scale. Ma entrambi i nodi
ferroviari vengono bombardati – sono troppo importanti per il controllo del territorio e
delle comunicazioni fra Bologna e Firenze – ed anche la possibilità delle visite sfuma; per
tutto il 1944, dal gelido inverno che ancora a fine marzo sembra non volersene andare alle
arsure dell’estate bruciata dai fuochi di guerra, Morandi resta solo.
L’opera che nasce da uno stato così totale di interiorizzazione, di concentrazione sul Sé, è
straordinaria e si pone ai vertici dell’arte del secolo, alla pari di certe immagini sognate di
Klee (quel Luogo colpito del 1922…), di certi intrecci di pathos di Pollock o di certi paesaggi umani, divorati dalla vita, di Giacometti. Mi si passino questi paralleli, che non sono
certo di linguaggio e forse neppure di sensibilità quanto di ‘intensità’, di rappresentatività
dell’immagine assurta a exemplum, a modello etico della condizione umana.
Ma, al pari delle sue nature morte, i paesaggi di Morandi non sono simboli perchè non
rimandano ad altro che a se stessi; sono piuttosto archetipi, cioè modelli primi, che significano per sé: così l’incastrarsi a cuneo delle partiture geometriche della Strada bianca, il
triangolo azzurro di cielo contrapposto a quello chiaro della strada, dà immediatamente
la sensazione di un fiotto di luce che si getta incontro all’osservatore, quasi con gioia,
offrendosi al suo abbraccio. Ma il dipinto è del 194128, quando ancora il mondo pare
avere un senso, e quanto è diverso, lontano anni luce, il suo chiarore disteso dal biancore
lattiginoso del Paesaggio di neve 1944! Qui non solo manca la presenza umana (sarebbe interessante, una volta tanto, verificare nei fatti l’ipotesi secondo la quale Morandi è l’unico
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L’immagine dell’assenza. I paesaggi degli anni di guerra (1940-1944)
artista a non inserire mai nei suoi paesaggi la figura dell’uomo o, comunque, una forma
animata, in movimento) ma la natura si svuota di ogni fisicità, fino a quasi toccare l’astrazione di un ‘adagio’ musicale ricco di intervalli lunghi e di note gravi. Non c’è sentore di
primavera in questa neve livida di marzo, il cielo è grigio e gonfio come il suolo, appena
un tono più fondo delle pendici innevate, mentre le costole di terra nuda portano allo
scoperto lo scheletro del monte, la sua fisionomia originaria. Per la purezza delle linee e
la semplicità della scrittura, il Paesaggio del Museo Revoltella può essere accostato a quel
primo capolavoro assoluto del Morandi giovane che è il Paesaggio Vitali del 191129, rispetto al quale è speculare come taglio della composizione ed andamento prospettico; ma ora
ogni luce è scomparsa o, forse, è coperta e non riesce a farsi largo tra le ondate di buio di
quel continuo crepuscolo che è il presente quotidiano del 1944.
Nel 1940-’42 l’immagine appare ancora vibrante di qualche movimento – un viottolo che
si inerpica a virgola, i pioppi magri che stormiscono a un filo di vento, la luce che si apre
un varco tra le fronde degli alberi31 –; nel 1943 tutto è fermo, come concentrato nelle
geometrie assorte di case e di porzioni di campi, immobili sotto al sole o acquattate nelle
nicchie senza cielo, formate dalle pendici montane. Scompare ogni chiaroscuro pittorico
e le ombre, quando sono date, vengono risolte in minime porzioni di spazio, a volte più
solide, più concrete delle forme vuote della realtà.
Resta però un filo di apprensione sentimentale in tutto questo, quasi un velo di commozione in quei filari stenti di alberi, in quegli orizzonti sfumati nell’azzurro, in quel rabdomantico tendersi delle forcelle verdi fra le stoppie arse dal sole di agosto. Longhi, Arcangeli avrebbero visto in ciò l’anima lombarda – o padana – di Morandi, il suo castigatissimo
umor naturale che si sposa con la pierfrancescana visione di una natura limpida e quasi
ieratica. E l’elemento che unifica il tutto è il senso della durata, il ricercar nel fenomeno il
noumeno e offrirgli immagine non effimera.
Nasce così il paesaggio dell’anima. La «distesa» estate cardarelliana che è stata fin a ora
anche quella di Morandi («stagione dei densi climi/ dei grandi mattini/ dell’albe senza rumore/ – ci si risveglia come in un acquario –/ dei giorni identici, astrali,/ stagione la meno
dolente/d’oscuramenti e di crisi,/ felicità degli spazi,/ nessuna promessa terrena/ può dare
pace al mio cuore/ quanto la certezza del sole/ che dal tuo cuore trabocca…»31) pare contrarsi in quel rettangolo bianco, centrale, che agisce con forza centripeta e tutto assorbe,
luci radenti, spessori di materia, dispersi respiri di vita32. La quiete diviene vuoto; la vita
solitaria, silenzio del mondo, mentre si spengono anche gli echi più lontani e neppure
le cicale friniscono sotto quel cielo senza perdono. La vita è sospesa, tutto tace e ascolta,
aspettando qualcosa, qualcuno che giunga da quel cielo immobile. Ne è trascrizione sulla
pagina la parola di Gaetano Arcangeli, nel suo Fiore del silenzio dell’immediato dopoguerra: «i silenzi più fondi/ li ascolti fra un passaggio/ e l’altro di aerei/ (e la luce del giorno/
non era più che una vibrazione/ dello spasimo muto delle sorti)». Ma come forza d’urto,
come risposta poetica, appare più intensa la sintesi d’immagine raggiunta da Morandi.
Perché l’attesa che è in lui e nel suo mondo non è inerte: è un interrogarsi della coscienza,
un respiro che ritorna dal profondo per ritrovare l’unità del reale nell’angosciante frantumarsi del quotidiano (e infatti, in Morandi, la forma non si frantuma mai…).
In ogni fotogramma di quella pellicola continua che sono i suoi paesaggi del 1943-’4433,
la sensazione più forte è quella dell’assenza, del trovarsi fuori dall’essere, con quel prefisso
‘ab’ che ci restituisce il senso dell’allontanamento dall’ ‘ente’, il senso della sua privazione.
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E l’assenza è metafora antichissima della morte, vista appunto come il non esserci, o
– meglio – come essere altrove. Sì, perché in queste immagini d’aria di vetro non c’è
disperazione, non c’è sprofondamento; non è il nulla a vincere ma una ferrea determinazione interiore volta a ritrovare il senso della vita, a «riumanizzare il mondo», come sognava nell’altra guerra Rainer Maria Rilke e, con lui, tutti coloro che comunque credono
nell’uomo.
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Dopo il difficile rientro in città, ai primi di settembre 1944, Morandi non ritornerà per
l’estate a Grizzana per quattordici lunghi anni, fino al giugno 1959. Ogni anno, a fine
primavera, egli ritrova intatta in sé la voglia di andarci, ma qualche cosa pare sempre impedirglielo e così i mesi più caldi si colorano di rimpianto e di nostalgia per la limpidezza
visiva di quel mondo, mentre la pittura di paesaggio viene completamente abbandonata,
se si eccettuano gli scorci del cortile in città, a lungo osservato dalla finestra del suo studio.
Le ragioni portate per tale defezione – incredibile per chi conosce la fedeltà dell’artista ai
suoi modelli, e Grizzana è un modello per lui – sono sempre di ordine pratico e contingente: la casa dei Veggetti è rimasta danneggiata dopo la partenza dei Morandi («ma non
un granché», ricorda Maria Teresa); nei primi anni del dopoguerra non c’è più niente, né
strade né ponti, ed i trasferimenti sono problematici; i fratelli preferiscono lasciare la madre, ormai molto anziana, soltanto per brevi periodi e muovendosi a due a due; Giorgio
ha bisogno di cure termali e quindi per una estate va a Zocca sull’Appennino modenese
o a Castiglione dei Pepoli, poi a Merano e, più tardi, per altre due stagioni, a Levico, e
dappertutto si annoia e non riesce a lavorare, salvo qualche prezioso foglio all’acquerello.
Tutto ciò è certamente vero ma, dopo il 1950, anno della morte della madre e anno in cui
la prima, più urgente ricostruzione dell’Italia può dirsi completata, perché Morandi non
torna a Grizzana? Non è lecito supporre che, al di là e al di sotto delle ragioni del quotidiano, vi sia una ragione ben più obbligante e profonda per questa forte tentazione del
non ritorno? L’ostacolo, umano ed artistico insieme, sarà superato da Morandi soltanto di
fronte ad un problema ancora più grande, vitale per la sua opera, la quasi impossibilità di
dipingere nello studio di via Fondazza dopo i drastici cambiamenti di luce apportati dalla
costruzione di un alto palazzo alzato di fronte alla sua finestra. Sarà necessaria una spinta
così potente per farlo ritornare a Grizzana. Sì, durante gli anni cinquanta la famiglia Morandi cerca sull’Appennino una casetta da ristrutturare, ma nulla si concretizza fino a che
l’artista decide di costruire la sua semplicissima casa-cubo proprio davanti a quelle Case
del Campiaro che sono state il centro della sua ispirazione sino al fatale 1944, dall’altra
parte della strada rispetto a Casa Veggetti, con gli stessi panorami, gli stessi tagli di luce e
gli stessi passaggi d’aria che mai ha dimenticato.
Il cerchio si chiude: nei Paesaggi degli anni Sessanta ritornano, come distillate nel profondo di un procedimento alchemico di purificazione, le immagini scarnificate degli anni di
guerra, ritorna quel mondo che l’artista ha visto distruggere, quei luoghi di pace profanati
dalla violenza della guerra e che solo ora, a distanza di tanti anni, egli riesce di nuovo a
accettare. Molto di allora è perduto o diverso, ma l’anima del luogo con la sua forza di vita
ha vinto il male e l’anima dell’artista può tornare a specchiarvisi, superando smarrimento
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L’immagine dell’assenza. I paesaggi degli anni di guerra (1940-1944)
e impotenza per riaffermare il valore assoluto dell’arte come risposta umana alla smarrita
coscienza dell’essere.
(dal catalogo della mostra L’immagine dell’assenza. I paesaggi di Morandi negli anni di
guerra. 1940-1944, Grizzana Morandi, Sala Municipale Mostre, luglio-ottobre; Firenze,
Palazzo Medici Riccardi, ottobre-dicembre 1994. Milano, Charta, 1994, p. 11-27).
Note
Cfr. T. Longhi Graziani (a cura di), Proporzioni. Scritti e Lettere di Alberto Graziani. II. Le Lettere
(1934-1943), Bologna, Nuova Alfa, 1993, p. 180.
2
Cfr. M. Luzi, Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, Milano, Garzanti, 1994, p. 48.
3
Cfr. C. Brandi, Paesi di Morandi, in “Almanacco di Beltempo”, Roma, 1942 (ripubblicato in C.
Brandi, cit. 1990, p. 55-56).
4
Cfr. F. Arcangeli, presentazione della mostra collettiva, Bologna, Galleria Ciangottini, dicembre
1942.
5
Cfr. Alberto Graziani, lettera a Roberto Longhi del 5 agosto 1939, in T. Longhi Graziani, cit.,
1993, p. 174.
6
La citazione completa, che figura come post-scriptum nella lettera inviata da Giorgio Morandi a
Cesare Brandi da Grizzana il 4 agosto 1943, è: «Per parlare d’altro: speriamo che finalmente torni
un po’ di sereno per questa povera Italia che ne avrebbe bisogno». La lettera è pubblicata in C.
Brandi, cit., 1990, p. 203.
7
Cfr. A. Rinaldi, L’arresto di Morandi, in L. Bergonzini, La resistenza a Bologna. Testimonianze e
documenti, vol. I, Bologna, Istituto per la Storia di Bologna, 1967, p. 288-295.
8
Lettera inviata da Alberto Graziani a Roberto Longhi il 7 luglio 1940, in T. Longhi Graziani, cit.,
1993, p. 186. Lo stesso Graziani, intellettuale lucido come pochi altri, di lì a qualche giorno – il 13
luglio – scrive alla fidanzata Tina: «Sta tranquilla riguardo alla censura: se non metti dott. tutto va
bene. Ho ricevuto aperte solo quelle con dott. […]. Questa paura degli intellettuali è grave, direi
criminosa. Se la Patria teme di contare su di noi, dovrà sempre ricorrere agli improvvisati e agli
arrivisti?» (ibidem, p.186).
9
Lettera inviata da Giorgio Morandi a Cesare Brandi il 1 giugno 1943, pubblicata in C. Brandi,
cit., 1990, p. 201 e nota n. 1, p. 201-202.
10
Cfr. F. Berti Arnoaldi Veli, I conti di Morandi con la guerra, in M. Pasquali, cit., 1994, p. 31-34.
11
Si tratta, evidentemente, di Walter Reder, comandante della 16a Panzer Grenadier Division delle
SS naziste.
12
Cfr. G. Dossetti, Introduzione, in L. Gherardi, Le querce di Monte Sole, Bologna, Il Mulino, 1987,
p. XX.
13
La cartella con i documenti di Morandi insegnante all’Accademia di Belle Arti di Bologna (19301956) è conservata in originale presso l’istituto stesso e in copia nell’archivio del Museo Morandi e
in quello del Centro Studi Giorgio Morandi di Bologna.
14
Cfr. L. Cesari, Gaetano Arcangeli e il vento, in G. Arcangeli, Dal Vivere, Milano, Scheiwiller, 1994,
p. 13.
15
Cfr. F. Arcangeli, Premessa, in cit., 1964, p. 7.
16
Cfr. A. Rinaldi, La valletta, Bologna, 1938. Il volumetto originale è conservato presso la biblioteca del Museo Morandi, tra i libri dell’artista pervenuti grazie alla grande donazione a favore
della città di Bologna e per la costituzione del museo stesso, voluta nel 1991 dalla sorella minore
dell’artista, Maria Teresa.
17
Cfr. M. Pasquali (a cura di), cit., 2000, p. 27, n. 1942-1943. Cfr. inoltre il saggio Una cristallina
purezza: i fiori di Morandi, qui pubblicato, a p. 133 e sua nota 12.
18
Si tratta del volumetto Una città di pianura, 1940. Insieme ad Alberto Graziani, Francesco Arcangeli, Antonio Boschetto, Attilio Bertolucci ed Antonio Rinaldi, anche il giovane Bassani fa parte
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– come per altro Pier Paolo Pasolini – dello scelto gruppo di studenti che a partire dal 1936-’37
segue le lezioni e le esercitazioni di Roberto Longhi all’Università bolognese.
Come la citata raccolta di poesie di Antonio Rinaldi, anche questo volumetto è conservato nella
biblioteca del Museo Morandi e proviene dal fondo documentario dell’artista.
19
Cfr. A. Emiliani, Il respiro vivo dell’intelligenza e del cuore, in T. Longhi Graziani, cit., 1993, p.
83.
20
Alberto Graziani, lettera dell’agosto 1935, inviata da Auronzo a Francesco Arcangeli, in T. Longhi
Graziani, cit., 1993, p. 155, e A. Emiliani, ivi, p. 76.
21
Cfr. A. Graziani, Su Wiligelmo (1939), in T. Longhi Graziani, cit., I. Gli Scritti (1938-1942),
1993, p. 81 e p. 83-84 per la frase conclusiva.
22
Cfr. F. Arcangeli, Natura ed espressione nell’arte bolognese ed emiliana. Da Wiligelmo a Morandi,
Bologna, Palazzo dell’Archiginnasio, settembre-ottobre 1970, Bologna, Alfa, 1970.
23
Cfr. M. Luzi, Presso Bisenzio, in L’alta, la cupa fiamma. Poesie 1935-1985, Milano, Rizzoli, 1990,
p. 74-75, v. 57; 46-49; 63.
24
Cfr. C. Brandi, cit., 1942-1952, p. 13.
25
Cfr. F. Arcangeli, cit., 1964, p. 302: «Morandi, sui monti, era il nostro orizzonte; e lavorò, lassù, e
consegnò alla tela qualche grande immagine di solitudine estrema e mortalmente serena».
26
Cfr. F. Arcangeli, Dodici opere di Giorgio Morandi, Milano, Edizioni del Milione, 1950.
27
Cfr. R. Longhi, Exit Morandi, in “Paragone”, n. 175, Firenze, luglio 1964 (ripubblicato in Da
Cimabue a Morandi, cit., 1973, p. 1102).
28
Cfr. Catalogo Vitali, n. 339-341 e n. 481, per il successivo Paesaggio di neve 1944.
29
Ibidem, n. 2.
30
Ibidem, n. 401; 388-390; 396. E, per i Paesaggi del 1943, n. 452-472.
31
Vincenzo Cardarelli, Estiva, in Poesie, Milano, Mondadori, 1942-1987, p. 64.
32
Cfr. Catalogo Vitali, n. 472.
33
Tra i pochissimi Paesaggi del 1944 (nel Catalogo Vitali ne figurano soltanto tre), cfr. il n. 483,
conservato alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma.
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a maturità giunge per Morandi a più di cinquant’anni, recuperata la pace e, con questa, la voglia di aprire le finestre e ridisegnare un mondo vivo di luce e di colore. L’artista non ama l’eccesso, non asseconda alcun atteggiamento enfatico, si esprime sempre
in toni sommessi e quindi anche il suo riassaporar la vita si manifesta per accenti minimi,
tutti da scoprire: un tocco di color rosa pesca squillante tra i passaggi del grigio o una
pallina prismatica che par sfuggire al rigore dell’insieme per rotolare lungo il piano del
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Fiori, 1946 - (V. n. 501)
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Natura morta, 1948 ca. - (V. n. 602) - Campione d’Italia, Collezione Silvano Lodi
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Natura morta, 1948 - (V. n. 646)
Natura morta, 1950 - (V. n. 746) - Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna
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Natura morta, 1952 - (V. n. 827)
tavolo su cui egli prepara i suoi modelli per una nuova composizione. Tra le Nature morte
degli anni Cinquanta mi pare un capolavoro quella a tre elementi del 1951, con la teiera,
il bottiglione bianco e il sonaglietto bicolore1. Ciò che subito colpisce è la sua purezza,
la sua limpidezza di forma e di colore. E poi ci si accorge che alla saldissima architettura
formale, alla disciplina tutta logica e rigore della composizione, fa da contrappeso un
senso quasi fantastico del dialogo-incontro fra i tre oggetti, come se questi si trovassero
in uno stato un po’ problematico di equilibrio e però perfettamente a proprio agio su
una specie di tappeto volante, di piano sospeso che li isola (o forse li salva?) dalle sabbie
mobili del fondo. Nel campo percettivo, delimitato dalle coordinate cartesiane (Morandi
lavora in una griglia spaziale che si avvicina moltissimo a quella, esplicita, di Mondrian),
il taglio in diagonale del ripiano conferisce all’immagine questo sapore di precarietà controllata, di possibilità di mutamento, di attesa di ciò che può ancora accadere.
Nel senso latente di sospensione sta uno dei segreti dell’arte morandiana: l’immagine è
sempre e comunque sotto il controllo della mente, il nesso analogico, matematico tra le
forme non viene meno e pur un brivido di emozione, di potenzialità inespresse pervade
l’immagine e la fa vibrare. E questa fusione di rigore e sentimento crea la poesia.
Oltre al tempo come durata e come medium del sentimento della natura, oltre allo spazio
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Il perfezionamento di un percorso: il campo percettivo, la variante, la densità (1946-1964)
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Natura morta, 1953 - (V. n. 868)
come campo del possibile, come luogo analogico del farsi dell’immagine, un terzo elemento contraddistingue l’arte matura di Morandi: il concetto di variante, la ripetizione
differente di una stessa composizione di base, di volta in volta ritoccata per minimi mutamenti di luce, di taglio prospettico, di impostazione formale fino a creare, ogni volta,
un’opera affatto diversa dalle tele sorelle.
Vi è una serie di Nature morte del 1955-’56, nelle quali la stessa situazione di oggetti
porta a risultati paralleli ed insieme differenti, ognuno segnato da una propria, specifica
identità2. Spesso mi piace leggere Morandi attraverso il «pensiero poetante» di Heidegger, uomo della stessa epoca tormentata e, come il nostro artista, amante del silenzio e
del riserbo dopo una prima, avventata presa di posizione. Sento valido per Morandi il
concetto heideggeriano di «autenticità» come possibilità fondamentale dell’esistenza e
quello di «ripetizione» come esser-stato autentico, il tramando esplicito delle possibilità
dell’esistenza passata, contro l’esser-stato inautentico dell’oblio; come ri-presa, ri-scelta,
deliberata e autentica delle possibilità che sono state3.
Questa lettura si adatta compiutamente alla variante morandiana, ma anche il pensie-
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ro di uno tra i principali interpreti italiani dell’esistenzialismo può esser di aiuto nello
scandaglio di questo aspetto della sua arte. Mi riferisco a Enzo Paci che nel suo Tempo
e relazione del 1954 così si esprime a proposito del Significato dell’irreversibile: «“Non si
può tornare indietro”: il significato di questa proposizione, che esprime nel modo più
semplice ciò che intendiamo per irreversibilità, sembra presentarsi immediatamente alla
nostra intuizione. L’immagine più probabile ad essa collegata è forse la certezza che ciò
che abbiamo vissuto non sarà più possibile riviverlo, per quanto, a questa certezza, si
accompagni un oscuro desiderio, spesso inconscio, il desiderio di tornare indietro, il
desiderio della ripetizione, la ricerca del tempo perduto, la sua riconquista. Già le più
comuni nostre esperienze personali ci avvertono che si forma e si intesse in noi un complesso rapporto tra l’esigenza di ripetizione e l’impossibilità di tornare indietro, rapporto
che sembra nascondersi in simboli spesso indecifrabili, e si fonde, infine, con l’andare
avanti, con il procedere oltre, con l’andare al di là di noi stessi. La vita sembra un tessuto
che si fa, che emerge oltre se stesso, un tessuto dai fili innumerevoli che si legano in
trame persistenti ed insieme fuggevoli. Le figure, le trame della vita si logorano eppur si
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Natura morta, 1957 - (V. n. 1060)
ricollegano, quasi rigenerandosi da se stesse; si riformano, consumandosi sempre di nuovo,
in una serie di forme ripetute e rinnovate, aperte oltre sé medesime, verso l’al di là di sé, verso
il futuro»4.
Ho sottolineato apposta l’ultima frase, in quanto mi sembra assai suggestivo e stimolante
interpretare la variante morandiana come un desiderio di futuro e di apertura verso ciò
che sta intorno, ciò che sta oltre.
Non diversamente si può vedere l’esigenza espressiva, così forte in Morandi, di eliminare
i contorni, di aprire l’oggetto allo spazio che lo circonda e lo comprende. Anche se alcuni esempi si possono individuare già negli anni di formazione5, ciò è particolarmente
avvertibile in dipinti degli ultimi anni quali le Nature morte quasi a forma di croce del
1963-1964, ove la polvere funge da semitono cromatico, da zona di passaggio fra una
forma e l’altra, fra il dentro e il fuori, fra l’interiorità e l’Altro da Sé6.
In altre opere, al contrario, gli oggetti si compattano al centro dello spazio e paiono
volersi chiudere in difesa di fronte ai pericoli di una realtà magmatica, in perenne trasformazione, che pare volerli travolgere. Ed è il caso della commovente Natura morta con le
bottigliette blu scuro e bianche del 1958 o della più imponente Natura morta del 1963,
già appartenute alla Raccolta Morat, in cui le forme si nascondono l’una dietro l’altra fin
quasi a fondersi in figure impreviste, di nuova, inventata geometria.
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I due atteggiamenti coesistono nell’ultimo Morandi e corrispondono a momenti diversi,
spesso opposti, del suo sentire la realtà, ora avvertendo il peso della solitudine che sempre più grava su di lui, ora rinnovando intatto il desiderio di un nuovo incontro con il
mondo, all’esterno dello studio.
E voglio finire con un piccolo Fiore del 1964, un nodo di emozione pura, oltre la disciplina mentale, le scelte di poetica e la sapienza compositiva7. L’immagine si è ridotta al
suo nucleo essenziale, la pittura vibra in onde concentriche di colore, la forma è aperta
ed insieme tutta concentrata su quel palpito continuo, inarrestabile che testimonia il
persistere dell’amore per la vita contro il tormento della solitudine e la minaccia incalzante della morte.
L’opera potrebbe sembrare intessuta di silenzio e invece parla, anzi canta con la sua voce
sommessa, intonata sul registro grave di un adagio, vibrante di echi lontani, flebili ma
persistenti.
Il nulla è sconfitto e il vuoto «non è una mancanza ma un portare allo scoperto»8, un invito all’apertura: la visione si moltiplica, negli interstizi tra le forme occhieggiano nuove
porzioni di spazio, frammenti di ‘ciò che sta dietro’ le apparenze, frammenti che acquistano una densità ben superiore a quella dei corpi solidi e affermano il primato del non
espresso come luogo dell’emozione estetica.
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Il perfezionamento di un percorso: il campo percettivo, la variante, la densità (1946-1964)
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(da Otto riflessioni sull’arte di Giorgio Morandi, in catalogo della mostra Morandi, a cura
di Juan Manuel Bonet, Thomás Llorens e Marilena Pasquali, Madrid, Museo ThyssenBornemisza, giugno-settembre 1999 – Valencia, IVAM Centre Julio Gonzalez, settembre-dicembre 1999, p. 28-31).
Note
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Cfr. Catalogo Vitali, n. 767.
Ibidem, n. 972 del 1955 e n. 1005-1013 del 1956.
3
Cfr. M. Heidegger, Essere e Tempo, a cura di P. Chiodi, Milano, Longanesi, 1976.
4
Cfr. Enzo Paci, Tempo e relazione, Torino, Einaudi, 1954, p. 92.
5
Già nella Natura morta a tortiglioni del 1916 (Catalogo Vitali, n. 28), ove compare per la prima
volta il bottiglione bianco scannellato, i contorni degli oggetti si sfumano sotto l’impatto di un
colpo di vento improvviso che scompiglia le forme e le porta al limite della metamorfosi. Poi, a
partire dagli anni intorno al 1930 e soprattutto nel secondo dopoguerra, gli esempi di osmosi fra
figura e sfondo si faranno via via più frequenti.
6
Cfr. Catalogo Vitali, n. 1307 e 1340; 1086 e 1313.
7
Ibidem, n. 1339.
8
Martin Heidegger, L’arte e lo spazio, Genova, Il Melangolo, 1998, p. 37.
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Natura morta, 1963 - (V. n. 1316)
L’ultima estate a Grizzana
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’ultima estate a Grizzana, quella lunga, intramontabile stagione che da maggio a novembre vede l’artista lavorare in entusiasmo e solitudine nell’aria secca e nella luce
cristallina dei crinali e degli orizzonti appenninici. Di lì nascono dipinti quasi arruffati di
pittura smagrita al limite e di forme essenzializzate al limite del dicibile; quasi irriconoscibili, sia l’una che le altre, nel dispiegarsi di un flusso visivo che a onde successive porta
in superficie alcune fra le tante possibili manifestazioni del reale. Se poi, nei paesaggi, la
natura mantiene ancora una sua qualche presenza in quel fiotto di verde trasparente che
si riversa sul primo piano, sono unicamente un’altissima misura interiore, una sofferta
accettazione della vita e della morte, un vibrar dell’anima a nutrire le abbacinanti nature
morte di quell’estate e dell’ultimo inverno, e i radi, struggenti mazzetti di fiori di quella
ultima primavera, quasi inattesa, che riporta un’ombra di luce sul volto emaciato dell’artista, bianco e trasparente ormai come la sua pittura.
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Fiori, 1958 - (V. n. 1076)
Fiori, 1964 - (V. n. 1339)
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(da Le ultime estati a Grizzana (1960-1963), in catalogo della mostra Giorgio Morandi.
Oggetti e stati d’animo, Brescia, Palazzo Martinengo, dicembre 1996 - febbraio 1997.
Milano, Skira, 1996, p. 121).
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L’ultima estate a Grizzana (1963)
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Paesaggio, 1962 - (V. n.1289)
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Paesaggio, 1962 - (V. n. 1290) - Bologna, Museo Morandi
Paesaggio, 1963 - (V. n. 1332) - Bologna, Museo Morandi
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L’ultima estate a Grizzana (1963)
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Fiori, 1962 - (V. n. 1258)
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Natura morta, 1963 - (V. n. 1323) - Bologna, Museo Morandi
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L’ultima estate a Grizzana (1963)
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Natura morta, 1963 - (V. n. 1307)
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Natura morta, 1963 - (V. n. 1340)
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A pagina seguente: Giorgio Morandi
fotografato da Lamberto Vitali il 29 agosto 1955.
A pagina 120: Giorgio Morandi e Giovanni Romagnoli
nel maggio del 1939
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ZI temi, il metodo, la poesia
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Oggetti e stati d’animo
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necessario concentrare l’attenzione su due elementi fondamentali della poetica morandiana, colti nel loro rapporto di strettissima reciprocità: gli oggetti, da un lato, e gli stati d’animo che vi si riflettono e danno loro vita, dall’altro. Nessun oggetto ha per Morandi
altro valore che quello formale e sentimentale (in che altro modo si può dare immagine
al sentimento, se non trovandogli una forma?); non si danno in lui rimandi simbolici, né
rimpianti nostalgici del tempo che fu; non si registra mai un’esigenza di bellezza esteriore,
di valore o di preziosità dell’oggetto, e la teiera in porcellana del servizio di Napoleone
conta per lui come il brunito tegame di rame senza manico o il vaso rotto di opaca terraglia. Tutti e tre questi modelli hanno un carattere comune, la singolarità, l’unicità della
loro forma, e soltanto questo interessa, affascina Morandi: la teiera è corpo cilindrico quasi
perfetto (solo il braccio estroflesso del beccuccio ne inquina la compiuta armonia, e anche
questo è necessario all’immagine, per salvaguardarne la facoltà di vibrazione, di respiro); il
tegame segnato dal tempo è amato proprio per quella cavità oscura, creata dalla perdita del
manico, ove l’ombra si acquatta, pronta a dilagare nell’immagine e trattenuta soltanto dalla densità plastica della materia; il vaso rotto appare come un insieme di onde imperfette
che si rincorrono senza quiete attorno all’imboccatura sbeccata, e Morandi ama tutto ciò
che interrompe e moltiplica la forma, che inventa nuovi ritmi al movimento, che impone
direzioni impreviste al raggio luminoso (i prismi, la bottiglia bianca a tortiglioni, le pallinesonaglietti con la loro rotondità bicolore e i loro spicchi cadenzati).
Egli riflette spesso su quello che ama definire il «sentimento della natura» o, meglio, i
«sentimenti generati nell’animo umano, dell’artista, dal mondo visibile». Tali sentimenti,
che «hanno diritto di chiamarsi umani» molto più degli affanni, delle passioni e degli
impicci del quotidiano, possono essere espressi unicamente attraverso un «mondo di forme, luci e colori, di una complessità e vastità infinite, inesprimibili con la parola». A
queste riflessioni dell’artista, trovate qualche anno fa in una sua lettera del 19571, fanno
specchio le sue opere, tutte immagini di quella lunga, ininterrotta pellicola che è la sua
vita d’artista, fotogrammi fragili e luminosi in cui si assiste alla trasfigurazione della realtà
oggettuale in realtà emozionale, in stato d’animo interiore, in sentimento.
Per Morandi il reale si esprime su tre livelli: il primo è quello del dato di natura, oggettivo per quanto può esserlo la realtà al di fuori di noi (ma egli stesso suggerisce: «mi vado
sempre più convincendo che la realtà è ciò che noi vediamo») e rappresentato nello spazio
delimitato e protetto dello studio dai suoi ‘modelli’, oggetti d’uso, frammenti del quoti-
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Oggetti e stati d’animo
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Natura morta, 1947 - (V. n. 567)
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diano sui quali l’artista interviene materialmente per piegarli alla sua visione; e li dipinge,
li riempie di acqua colorata, li incolla, li vela di polvere, li priva di ciò che gli appare
superfluo o che ne appanna la personalità.
Il secondo livello è quello del ‘mettere in posa i modelli’, di creare una composizione data
in uno spazio dato, così da isolare una porzione di realtà predeterminata dall’artista stesso,
per analizzarla come su un vetrino da laboratorio e vedere come avviene l’incontro tra la
materia opaca e la luce, come questa la fa vibrare e le conferisce vita e colore. Come in un
laboratorio, i disturbi sensoriali devono essere ridotti al minimo per rispettare la necessaria concentrazione: né vie di fuga per la vista, né rumori per l’udito, e gli altri sensi messi
a tacere quasi come impicci troppo terreni.
Da questa lenta, appassionata osservazione di fenomeni sempre nuovi (la luce muta secondo l’ora e i desideri del cielo, e introduce il sapore del tempo…; lo spazio inventa
dimensioni diverse, stirandosi e contraendosi secondo le analogie, i rapporti che i modelli
richiedono, e divenendo esso stesso forma nelle porzioni di vuoto che vanno creandosi fra
le forme piene; la polvere accenna un passo di danza fra le cose e porta con sé quel minimo sentore di degrado, di mutamento che, solo, l’artista può accettare nella sua ricerca di
durata); da tutto ciò nasce nell’artista la meraviglia per un mondo comunque inesplorato
e nasce la terza realtà, quella dell’opera, ove il processo di trasfigurazione si compie e la
metamorfosi del reale attinge la poesia.
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Natura morta, 1952 - (P. 2000, 1952/7)
Il punto di partenza per ogni conquista resta in ogni caso ciò che per Morandi rappresenta
la forma oggettiva del reale: il modello d’atelier; e questo è talmente importante per lui
da guadagnarsi amore e rispetto. Non si creda che questi due termini vengano usati alla
leggera, perché di questo veramente si tratta.
Scrive in un testo inedito del 19462 Mario Bacchelli, amico pittore degli anni di accademia e fratello del più noto Riccardo: «Se gli oggetti da ritrarre costituiscono per Morandi
soltanto un pretesto e un mezzo per esprimere sue emozioni intime – per guardare entro
sé, non al di fuori – egli non li ha mai tuttavia considerati con indifferenza. Anzi, quasi
morboso può apparire quel suo attaccamento a certi angoli di paese e a certi oggetti familiari, la cui forza e il cui colore particolarmente parlano alla sua sensibilità di pittore. […]
Chi non può vedere nelle pitture altro che un mezzo descrittivo e illustrativo, ha voluto
interpretare le sue scelte come dettate dall’amore delle vecchie cose umili, da un senso di
umanità contrita e nostalgica. Nulla di tutto questo; Morandi sceglie i suoi oggetti e li
promuove a soggetti della sua pittura, obbedendo a una legge che per lui è inderogabile, e
che ha un tale carattere di necessità da divenir quasi inconscia: la legge della sua pura emozione pittorica. Ma questa lo avvicina e lo avvince talmente agli oggetti stessi, da renderlo
quasi loro schiavo: e quando un tono o una forma parlano al suo animo, egli non se ne
può staccare. Fino da allora, sopra a un tavolo ai piedi del suo letto, quegli oggetti erano
accuratamente, religiosamente disposti in ordinate composizioni, a formare muti dialoghi
L’immagine di Grizzana
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di linee e di volumi in un giuoco reciproco di cui lui solo conosceva le regole. Nessuno
poteva toccarli, il minimo spostamento rompeva l’armonia; e la polvere stessa, che a poco
a poco li ricopriva nella loro immobilità, costituiva elemento essenziale di tono».
La lunga citazione vale come testimonianza in presa diretta di una scelta emotiva e di
un metodo operativo che saranno rispettati dall’artista per tutta una vita ma che vanno
precisandosi già negli anni di formazione quando, giovane ventenne, egli si stacca dall’insegnamento dei professori d’accademia per cercare se stesso e la propria arte. Le strade, gli
strumenti sono due: lo studio dei grandi maestri rinascimentali e della nuova arte francese
(passato e presente che non hanno paura di incontrarsi di fronte al problema unico e assoluto dell’immagine) e l’analisi, tutta intima e solitaria, della sua innata predisposizione
alla forma.
Molti anni più tardi, ormai giunto quasi al termine della sua vita, Morandi stesso confesserà ad Arnaldo Beccaria: «Io, di solito, ho molto rispetto per gli oggetti che ho usato
più di una volta»3 e ugualmente riconoscerà, nel 1961, di fronte a una precisa domanda
di Edith Schloss, di non aver mai «inventato oggetti» e di aver «sempre visto ogni cosa,
prima»4.
Ciò che unifica tutto, il punto di incontro fra i diversi livelli del reale, fra ciò che sta fuori
e ciò che dall’interno preme per trovare una sua forma sensibile, è lo sguardo, termine
squisitamente bifronte a rappresentare sia la capacità visiva che il campo disponibile alla
vista. Eletto come facoltà principe fra i cinque sensi, per Morandi lo sguardo è il primo
ponte con il mondo, l’unico cui egli riconosce liceità e bellezza, la soglia di contatto fra
se stesso e ciò che lo circonda, la chiave di ogni avventura dell’emozione e del pensiero.
E l’opera ne è il frutto, meno fisica e più pura possibile, come la luce che penetra nello
spazio inaccessibile della creazione e che l’occhio dell’artista filtra e riversa sulle forme
della realtà.
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I luoghi e i giorni
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(dal catalogo della mostra Giorgio Morandi. Oggetti e stati d’animo, Brescia, Palazzo Martinengo, dicembre 1996 - febbraio 1997. Milano, Skira, 1996, p. 16-18).
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Note
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Lettera di Giorgio Morandi a Ferruccio Battolini del 1957, conservata presso l’archivio del Centro
Studi Giorgio Morandi di Bologna.
2
Dattiloscritto inedito di Mario Bacchelli, Giorgio Morandi pittore bolognese, non datato ma allegato ad una lettera, inviata all’artista da Firenze il 28 giugno 1946. Entrambi i documenti sono ora
conservati nell’archivio del Centro Studi Giorgio Morandi di Bologna, insieme ad una precedente
lettera del 22 febbraio, in cui Mario Bacchelli annuncia a Morandi che Hayatt Mayor, bibliotecario
del Metropolitan Museum di New York e direttore del periodico “Magazine of Art” gli ha chiesto
una «specie di breve e amichevole presentazione di te e della tua pittura» (cfr. anche a p. 19 e nota
1 a p. 25).
3
Cfr. A. Beccaria, Visita a Morandi, in “La Nuova Antologia”, Roma, febbraio 1964; ripubblicato
in “La Botte e il Violino”, n. 2, Roma, settembre 1964.
4
Cfr. E. Schloss, Conversation with Morandi, in “International Herald Tribune”, New York, 12-13
maggio 1973.
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Quando vede per la prima volta Grizzana Giorgio Morandi ha 23 anni, ha appena finito
l’Accademia fra contrasti con i professori più attaccati alla tradizione, legge riviste di
punta come “La Voce” di Soffici, Prezzolini e Papini o “L’Art Décoratif ” con gli articoli
su Seurat e Cézanne, visita le Biennali di Venezia, conosce la grande arte italiana del passato a Bologna e a Firenze, è amico di Osvaldo Licini e di Balilla Pratella e frequenta le
serate teatrali dei futuristi. È dunque un giovane ansioso di cogliere quanto di meglio può
offrirgli la cultura italiana dei primi anni del Novecento, per farne propri gli aspetti più
innovativi e meno provinciali, aperti al dialogo con le avanguardie europee e toccati dagli
ultimi, infuocati bagliori di un mondo che sta rapidamente tramontando.
La famiglia Morandi è unita, unitissima e si presenta come un nucleo compatto, quasi
che la prematura scomparsa del padre nel 1910 abbia ancor più rinsaldato i vincoli di
affetto e di mutua assistenza che uniscono la madre Maria, il primogenito Giorgio e le tre
sorelle: Anna, ora diciottenne, Dina di tredici anni e la piccola Maria Teresa, una bimba
di sette anni.
Il giovane artista saluta gli amici dell’Accademia – Licini, che ritorna a casa nelle Marche,
alla sua sperduta Monte Vidon Corrado, ove scriverà nel fuoco d’agosto le pagine roventi
dei Racconti di Bruto; Mario e Severo Pozzati, che restano a Bologna a lavorare in vista dei
nuovi impegni dell’anno successivo – e accompagna la madre e le sorelle nella quiete serena, nell’atmosfera sospesa di una borgata appenninica in equilibrio su un crinale ventoso
e aggrappata alle sue pendici di verde magro e luminoso.
Il contrasto fra le discussioni e le speranze concitate della vita cittadina ed il silenzio
della campagna – animato dalle voci ancora sconosciute della natura – potrebbe apparire
troppo forte e forse, per il giovane, stordente. Ed invece l’impatto è positivo: l’equilibrio
è subito raggiunto, il canto dell’estate affascina l’artista e durante le quotidiane peregrinazioni, vere e proprie ‘esplorazioni’ in una terra tutta da scoprire, nascono alcune tra le prove più convincenti di questi suoi anni di formazione, quella serie di paesaggi di impronta
cézanniana e di fidente apertura alla lezione del primo cubismo, in cui Morandi inizia a
saggiare se stesso per individuare modo e carattere della propria immagine.
Ma perché proprio Grizzana? Vi è un motivo ‘culturale’, una precisa consapevolezza nella
scelta di questo angolo di mondo o tutto è piuttosto frutto di un caso fortunato?
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L’immagine di Grizzana
Inizialmente si tratta di un incontro fortuito e l’occasione è data, tornando alla ‘causa
prima’, da una caduta della sorella Anna a scuola, durante l’ora di ginnastica. La ragazza si
fa male ad un ginocchio e deve restare a lungo a casa; la madre chiama per darle lezioni di
matematica una giovane universitaria che sta per laurearsi in ingegneria; Ines Bortolotti,
l’insegnante, conosce la famiglia Veggetti e consiglia alla sua allieva una convalescenza-villeggiatura di qualche settimana presso la casa degli amici a Grizzana.
Ecco chiarite in poche parole le domestiche motivazioni di una scelta casuale – forse,
fatale? – che per l’artista si trasforma rapidamente in innamoramento tenace e necessità
di un ritorno, punto d’approdo dell’estate ed unica condizione possibile per trasfigurare
in immagine il suo dialogo interiore con la natura. Se si eccettuano gli anni di Roffeno,
solo a Grizzana Morandi dipinge paesaggi e – soprattutto – sa farli propri in un processo
sempre più approfondito di osmosi e di indentificazione.
Ma torniamo a quella prima estate del 1913, alla famiglia Morandi che raggiunge in
treno Vergato e trova alla stazione il ‘biroccino’ dei Veggetti condotto dal loro contadino
Moruzzi.
Al passo lento del somaro che tira il carretto, si oltrepassa il Reno e ci si inerpica per
la strada bianca, polverosa, che a tornanti e curve porta su, verso il sommo del crinale,
laddove si dominano con lo sguardo le due vallate e ci si sente vicini attraverso quinte di
monti digradanti alle cime più alte e lontane. Il biroccio passa la curva del cimitero, lascia
a destra tre case diritte, una in fila all’altra, chiuse; e si ferma davanti a Casa Veggetti, una
costruzione ancor più alta e solida, come allietata da pioppi sottili e pieni d’aria dei colli
e da schiere di finestre che guardano da una certa, rispettosa distanza il paese. Al di là
della strada sono – più in alto – le case di Castello, il bosco dei Faieti e – più lontano – le
Lame, Campoluzzo, il Mulinello, le case della Fame e della Sete. All’orizzonte, il profilo
della prima quinta montana e, sfumati nell’azzurro della lontananza, i picchi del Corno
alle Scale e del Cimone.
Semplificato in termini essenziali, questo è il microcosmo che il giovane Morandi si trova
a vivere a Grizzana, mondo amplissimo di luce e spazio che subito si pone come allargamento spontaneo, necessario della camera-studio di via Fondazza, sua proiezione sub
specie naturae, diverso quanto può esserlo la luminosità distesa del sole a picco sul verde
dei campi dalla polvere di luce che filtra attraverso le persiane accostate della finestra sul
cortile di città, e pure ad essa complementare ed indispensabile.
Muteranno i tempi e le situazioni, ma Grizzana per Morandi sarà sempre una parte amica
di mondo, un rifugio di serenità e di appagante contemplazione interiore. Non potrà
recarvisi ogni anno, ma anche quando dovrà restare a Bologna o sarà costretto ad accontentarsi di brevi periodi di riposo in altri luoghi, Grizzana rappresenterà per lui ‘il luogo’
dell’estate, l’approdo ove fuggire la fatica di vivere.
Vale comunque la pena, per correggere inesattezze spesso riportate anche in ambiti di
corretta indagine critica, stilare una sorta di calendario delle villeggiature morandiane
a Grizzana così da sottolineare la sua fedeltà al piccolo centro appenninico ma anche le
difficoltà che si frappongono al tanto desiderato ritorno di ogni anno. In altre parole si
può pensare che, ben lungi dal presentarsi come una piacevole abitudine un po’ scontata,
i mesi di Grizzana si rivelino ogni volta come una conquista concreta.
Dopo un biennio di villeggiature grizzanesi – nel 1913 e nel 1914 –, la guerra e la malattia
costringono il giovane e la sua famiglia a restare in città, eccetto l’estate del 1916 quando
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Paesaggio, 1913 - (V. n. 7) - Bologna, Museo Morandi
Morandi può recarsi per qualche tempo a Tolè di Vergato (in linea d’aria la distanza da
Grizzana è minima, ma non vi si respira la stessa limpidezza di aria libera che rimbalza di
crinale in crinale). Seguiranno per l’artista brevi periodi di riposo, se non semplici gite di
un giorno, presso la villa del Conte Pepoli a Ozzano e presso la Cipressina, la casa della
famiglia Bacchelli fuori Porta Saragozza. Nel 1924 saranno le sorelle Dina e Maria Teresa
a soggiornare a Grizzana, presso quello che poi è diventato l’Albergo Italia vicino alla
chiesa, e soltanto nel 1927 la famiglia al completo vi farà ritorno da giugno a settembre.
Ormai anche le sorelle lavorano tutte e l’estate diviene il momento della riunificazione,
degli affetti familiari ritrovati dopo i mesi invernali passati a insegnare chi a Bologna, chi
in provincia, chi addirittura – ed è il caso della Dina e di Maria Teresa – in Tunisia e in
Egitto.
Se nel 1927 e 1928 la famiglia è ancora alloggiata vicino alla parrocchiale di San Michele
Arcangelo, dal 1929 al 1933 i Morandi prendono in affitto l’ultimo piano di Casa Veggetti presso il Campiaro: si tratta per l’artista di cinque, lunghe estati assai feconde che
vedono la nascita di numerosi dipinti di paesaggio – inizialmente sfiorati dalla poetica di
quel naturalismo ‘strapaesano’ da cui andranno via via distaccandosi – e soprattutto di
alcune fra le sue più splendide lastre all’acquaforte, circa una trentina di opere grafiche
che si dispiegano con la forza di quella «severa elegia luminosa» che Roberto Longhi vede
come nucleo pulsante di tutta l’arte morandiana1.
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La strada bianca, 1933, acquaforte - (V. Inc. n. 104)
Poi, senza una ragione particolare – forse una diversa indicazione di amici, forse un motivo contingente –, giungono le cinque estati trascorse a Roffeno sull’altro versante della
valle del Reno, sotto il pan di zucchero del Monte Veggese, sagoma semisferica che sulla
tela la mano traccia come un’unica linea, frutto di un gesto disteso, e le forme più severe
del Monte della Castellana. I paesaggi di questi anni tra il 1934 ed il 1938 registrano il
mutamento di atmosfera e si fanno più morbidi e pastosi, folti di verde bagnato d’acqua
e percorsi da stradine che si perdono nel bosco2.
Ricorda la sorella Maria Teresa che nei primi tempi di Roffeno Morandi non lavora, perché deve studiare i luoghi e farseli propri per entrare in un mondo diverso da quello di
Grizzana, forse più accogliente ma certamente meno severo ed essenziale.
Con il 1939 egli è di nuovo al Campiaro e per segnare il felice ritorno realizza sia su tela
che all’acquaforte l’immagine-simbolo della Strada bianca, segmento di spazio pulito che
si incontra con il cielo alla presenza vigile delle case cieche che fuggono verso l’orizzonte,
come la strada e come gli alberi stenti, velati dalla polvere dell’estate.
Ed è a Grizzana che l’artista si rifugia quando, nella tarda primavera del 1943, la situazione a Bologna si fa insostenibile per le difficoltà quotidiane, per le pressioni dissennate
del regime fascista che sta affondando. I quattordici mesi di sfollamento sono certamente
momenti difficili che Morandi supera cercando di non trascurare del tutto l’insegnamento in Accademia (ci sono i suoi telegrammi, le prove dei suoi rientri per lezioni, incontri e
esami, i suoi certificati medici per il riacutizzarsi dei disturbi reumatici) e, al tempo stesso,
di non lasciare troppo sole in campagna la madre ormai anziana e le sorelle.
Eppure, proprio nella generale, quotidiana ansietà del vivere, mentre il fronte si fa sempre
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Paesaggio, 1942 - (V. n. 403)
più vicino e la campagna sempre meno sicura, dalle sue mani escono alcuni tra i suoi
capolavori più toccanti, quei paesaggi di luce e di silenzio meridiani in cui pare che tutto
resti sospeso in attesa di una increduta, impossibile salvezza. La tensione dell’immagine è
altissima, l’equilibrio non viene meno mantenendo un diapason elevato che non concede
riposo, tutto è perfetto e fragile come un cristallo percorso dallo scintillìo della luce. Forse
solo vent’anni più tardi, ancora a Grizzana, Morandi ritroverà una concentrazione così
totale e toccherà vertici di poesia così rarefatti con le nature morte e i paesaggi delle sue
ultime, preziose stagioni. Vi è infatti un lungo intervallo durante il quale Morandi non va
a Grizzana. Così, nel 1946 sarà a Merano per un breve riposo (ce ne restano due acquerelli con i profili lontani delle Dolomiti); nel 1947 è a Zocca modenese con Maria Teresa;
nel 1956 e 1957 è a Levico, in Valsugana, ove riprende con determinazione e continuità
la pratica dell’acquerello3; e solo nel 1958, insieme alla sorella Dina, ritorna a Grizzana,
all’ultimo piano della Pensione Italia.
Durante questa ‘assenza’ di quattordici anni, Morandi non cessa affatto di dipingere e anzi
gli anni Cinquanta sono segnati dalla modulazione insistita del suo registro espressivo che
si fa pittoricamente sempre più puro.
Ma ciò avviene solo attraverso le nature morte dipinte in via Fondazza e qualche visio-
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na il filo tagliente della sua visione e la lucidità del suo pensiero poetico. La sua giornata è
fatta di una puntata mattutina in paese con la sorella Dina, di poche pacate conversazioni,
da passeggiate nei boschi a cercar funghi, di qualche visita di amici ed estimatori – Brandi,
Arcangeli, Gnudi, Tavoni, Leymarie, i coniugi Balboni, Dino Prandi – e, soprattutto, di
molto lavoro e tanta concentrazione. Racconta Elio Bertoncelli, in quegli anni sindaco
del paese, che Morandi, da solo, faceva lunghe camminate e «stava lì, contemplava, stava
via anche parecchio». Aggiunge Maria Teresa Moruzzi, figlia di quel lavorante dei Veggetti
che nel 1913 l’aveva portato con il biroccio da Vergato a Grizzana: «Stava per ore con un
cannocchiale alla finestra… poi alla sera, tutte le sere, dalla curva a scrutare il tramonto
del sole perché Morandi ha sempre detto che in nessun altro posto c’era un tramonto
così… e noi lo vedevamo per ore fermo a scrutare l’orizzonte».
E piace ricordarlo così, con l’espressione gentile e un po’ assente, la mente sempre rivolta a
altro, al ‘suo’ mondo; sorridente e un po’ goffo nel giardino fra le rose, i gerani e i gigli. La
vicenda quotidiana dell’uomo è tutta qui, non si presta ad alcun ‘abbellimento’ retorico
e richiede semplicità e stringatezza di espressione; l’immagine di bellezza dell’artista apre
orizzonti talmente vasti da lasciar col fiato sospeso e da pretendere sensibilità mai distratta
e profondo impegno di ricerca.
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Paesaggio, 1962 - (V. n. 1287) - Bologna, Museo Morandi
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ne del cortile di città attraverso quella finestra che rappresenta per lui la ‘soglia’ verso il
mondo circostante4. Di paesaggi non ne dipinge perché non può andare a Grizzana, e
manifesto è il suo rimpianto per la forzata lontananza (scrive a Cesare Brandi nel luglio
1946: «Io lavoro alle solite nature morte, perché anche quest’anno dovrò passare l’estate a
Bologna. Di andare a Grizzana per ora non è possibile pensarci…» 5).
Solo nel 1958-1959, quando in città vengono abbattute alcune case che valgono come
quinta scenografica al cortile e quando è costruito un alto muro che gli ‘rovina’ l’inquadratura dalla finestra, Morandi decide di farsi costruire una villetta a Grizzana, proprio di
fronte alle Case del Campiaro, e la vuole semplice, geometrica, bianca, con tante finestre
che si aprono sui consueti scorci di paesaggio, amati per la loro immobile familiarità come
gli oggetti silenziosi dello studio di via Fondazza. Qui Morandi trascorre molta parte dei
suoi ultimi anni e non soltanto i mesi più caldi, affinando in quest’aria asciutta e cristalli-
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Dalla natura all’immagine
L’approccio morandiano alla pittura segue strade molteplici: a Grizzana, l’artista guarda la
natura, cerca di entrarvi e servirsene per riportarne l’immagine sulla tela.
Durante i primi anni e nella maturità egli prende cavalletto e valigia dei colori per andare
direttamente per campi e boschi a fissare la curva di un profilo montuoso o gli spioventi
diagonali dei tetti fra il verde, il vuoto di una finestra a mezzaluna o le impronte del grano
e delle forre colme d’ombra.
Sono interi pomeriggi d’estate che passano nel frinire delle cicale esaltato dal silenzio degli
uomini; al suo ritorno, Morandi non racconta ciò che ha fatto, dice soltanto: «Oggi sono
stato alla Torre… alla Canonica… al Poggio».
Col passare degli anni (ricorda la sorella Maria Teresa: «Quando arrivarono i tedeschi, a
far paesaggi non uscì più…») e soprattutto, col sopraggiungere della vecchiaia, Morandi
preferisce restare nel suo studio aperto da tre finestre sulla valle – una camera bianca di
calce, senza nulla, perfetto luogo del pensiero – e guardare la natura, attraverso quel binocolo che isola e avvicina l’oggetto della sua attenzione o tramite strumenti ottici assai più
semplici ma altrettanto efficaci: un ritaglio quadrato in un cartoncino, il coperchio di una
scatola di fiammiferi svedesi usato trasversalmente a mo’ di occhialino6. Par quasi di avere
di fronte un regista cinematografico che prende le misure per la prossima inquadratura. E
simile è il metodo morandiano: individuare, tagliare una parte di realtà e in essa sintetizzare il tutto, assumendola a simbolo di ciò che è, dell’incontro fra l’oggetto e il soggetto,
fra il fuori e il dentro, fra l’esistere e l’essere.
Chissà, forse Morandi pensa come Eraclito che «la natura ama nascondersi»7 – la natura
trascendente, interiore – e che, quindi, oltre all’esperienza sensibile ed alla sua necessità
fenomenica sia ancora più necessaria la «conoscenza dei singoli oggetti in se stessi, nella
loro realtà intrinseca ed individuale, che si coglie attraverso i dati sensibili, ma per l’in-
Una cristallina purezza:
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i fiori di Morandi
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tervento di una facoltà interiore, che stabilisce un’affinità con le cose, avvicinandole ed al
tempo stesso lasciandole sussistere nella loro pluralità essenziale»8.
Parole profonde, lungamente meditate, di uno dei nostri maggiori filosofi, Giorgio Colli,
a proposito del pensiero eracliteo. Eppure, osservando un dipinto di Morandi e senza
volerne stravolgere il senso, sono riflessioni che tornano alla mente perché paiono lo specchio di quella «realtà interiore attiva» che avvicina l’artista ai costruttori di senso.
Vi è come un passaggio, una metamorfosi tra il dato reale e la seconda realtà della visione
così che i ‘luoghi’ si fanno ‘figure’ della mente, in un processo di trasposizione dovuto
all’interpretazione dell’artista, al suo mettere nelle cose quel tanto di sé – ed è davvero
tanto – che sa renderle uniche.
(dal catalogo della mostra Giorgio Morandi. L’immagine di Grizzana, Grizzana Morandi,
Sala municipale mostre, luglio-settembre 1990. Bologna, Grafis, 1990, p. 13-21).
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But flowers distill’d though
they with winter meet,
Leese but their show,
their substance still lives sweet.
William Shakespeare 1
redo che nelle composizioni di fiori di Giorgio Morandi si manifesti appieno, se
pur per accenti minimi e sommessi, tutta la forza poetica della sua arte. A un primo
sguardo, i grovigli di corolle e di petali che si affacciano al mondo dall’orlo di un vaso
muto, come ritagliato nella materia vibrante del fondo; gli impasti di colore e di luce in
cui la polvere gioca un ruolo tutto particolare, di vox media tra i diversi piani e le diverse
sfumature tonali; l’atmosfera rarefatta ma pervasa da vibrazioni, densa di un’aria ferma in
cui appena accenna a muoversi uno stelo o, piuttosto, l’ombra colorata in cui si stempera il
peso fisico delle cose; a un primo sguardo, tutto ciò può apparire meno strutturato, meno
significativo delle nature morte di oggetti, così tese e compatte, persino severe – o, forse,
classiche – nella loro compostezza geometrica, ortogonale, architettonica.
E poi di solito i Fiori di Morandi sono piccoli e possono apparir quasi sperduti, come
ritirati in se stessi sulla superficie anonima di un pannello da mostra, tra i rumori di un
luogo affollato. Queste sono opere da meditazione e il colloquio che si può intrecciare
con loro deve avvenire nel silenzio, in quello stato di concentrazione che è indispensabile
per leggere – magari ad alta voce, ma con la propria voce, sola – i versi di un sonetto di
Shakespeare o una riflessione di Proust2.
Riferimenti e concetti molto alti, dunque, per Morandi che sta, isolato e austero, tra i
protagonisti dell’arte del ventesimo secolo proprio per la sua facoltà di dire con mezzi
apparentemente minimi tutta la ricchezza dell’animo umano, pur nella condizione di inquietudine e di dubbio irrisolto che è propria dell’uomo contemporaneo. Concentrazione, meditazione, forse ancor meglio: contemplazione. Sì, perché ‘contemplare’ contiene
in sé l’idea di un luogo chiuso, delimitato, perfetto, all’interno del quale si può attrarre
nel proprio orizzonte la sostanza delle cose, andando al di là dell’apparenza. È un venire
a contatto con ciò che sta oltre l’immagine ma che dell’immagine, sua unica sostanza
percepibile, non può fare a meno.
Questo ha cercato di fare Morandi per tutta la vita, sedendo a lungo davanti ai suoi
modelli – oggetti, paesaggi o fiori che siano – per carpirne quella voce segreta che, dopo
un lungo, paziente e caparbio lavoro di osservazione e di ascolto, egli tenta con immenso
rispetto di far echeggiare nella sua opera. E, forse, nei Fiori questa musica del profondo si
avverte con maggiore intensità proprio in virtù della loro fragilità inerme, del loro porsi
come immagine dell’estrema caducità del tutto, in quei petali di seta che, di lì a un attimo, senza difesa, sfioriranno.
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Note
Cfr. R. Longhi, Morandi al “Fiore”, Firenze, Galleria Il Fiore, aprile 1945 (ripubblicato in Da
Cimabue a Morandi, cit., 1973, p. 1098). Per le incisioni di questi anni, tra il 1929 e il 1933, cfr.
L. Vitali, cit., 1957-1964, n. 53-106: si tratta di ben 53 lastre incise su un totale di 131 prove ivi
registrate, cioè più di un terzo dell’intera opera incisa di Morandi!
2
Cfr. Catalogo Vitali, n. 181-187, per il 1934; n. 211-213, per il 1936; 223-224, per il 1937;
233-238, per il 1938.
3
Cfr. M. Pasquali, cit., 1991, n. 1946/6 e 7 per gli acquerelli di Merano; n. 1957/12-22, per i fogli
realizzati a Levico.
4
Per i Cortili di via Fondazza della metà degli anni Cinquanta, cfr. Catalogo Vitali, dai n. 925-933
del 1954 ai n. 1015-1019 del 1956. Nel Catalogo Vitali figurano anche due Cortili del 1957 (n.
1069 e 1070), altri due del 1958, ora al Museo Morandi (n. 1115-1116) e due ultimi dipinti del
1959 (n. 1167 e 1168); il 1960 registra un’unica tela con il Cortile (n. 1207). Cfr anche, per gli
acquerelli di uguale soggetto, M. Pasquali, cit., 1991, n. 1956/9-12.
5
Lettera inviata da Giorgio Morandi a Cesare Brandi, da Bologna il 16 luglio 1946. Insieme all’intero carteggio Brandi-Morandi, questa lettera è pubblicata in C. Brandi, cit., 1990, p. 213.
6
Questi piccoli ‘strumenti del mestiere’, conservati con cura gelosa dalle sorelle di Morandi sopra
un ripiano basso nello studio di Grizzana, per volontà testamentaria di Maria Teresa sono passati nel
1994 al Comune di Grizzana Morandi insieme alla casa stessa e a tutto ciò che in essa è contenuto.
Il Comune poco tempo dopo ha aperto al pubblico la casa, salvaguardando in particolare l’integrità
dello studio. Oltre al cartoncino con il buco quadrato ed al coperchio della scatola di fiammiferi
svedesi, vi si conserva anche un secondo cartoncino formato cartolina, nel cui centro l’artista ha
ritagliato un foro rotondo.
7
Eraclito, frammento 14 [A 92], in G. Colli, La sapienza greca. Vol. III. Eraclito, Milano, Adelphi,
1980, p. 91-92.
8
Cfr. G. Colli, La natura ama nascondersi (1948), Milano, Adelphi, 1988, p. 199.
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Ma non è sempre stato così. Le prime composizioni di fiori di Morandi rispondono a una
logica diversa, sono «esercizi di stile» di un giovane pittore più che romances sans paroles,
vanitas ripiegate su se stesse, cuori frementi di parole non dette. E allora può essere interessante ripercorrere rapidamente il cammino percorso dall’artista, da quelle prime prove
orgogliose di gioventù ma già toccate da molti fremiti, alle ultime, piccole tele degli anni
Sessanta, materia vivente messa a nudo, pulsazione ritmica che sta per cessare.
Il primo Fiore risale al 1913 e si rivela prova consapevole di una ricerca d’avanguardia che
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pone questo Morandi ventitreenne nella scia del cubismo, per la compresenza di punti
di vista diversi che vi si può facilmente riconoscere, e fors’anche del futurismo, per quei
rametti che si allargano come vettori di movimento in tutte le direzioni3. Ma già il vaso
rovente di cardi e papaveri dell’anno successivo ci lascia stupefatti per la carica perfino
espressionista del gesto cromatico e ci parla di un giovane pittore che sta ancora mettendosi alla prova e affinando le proprie armi. L’impressione che se ne trae è che, anche se poi
ha scelto un’altra strada, quella a lui più congeniale, egli sarebbe ugualmente diventato un
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Una cristallina purezza: i fiori di Morandi
grande artista – o, almeno, un grande pittore – anche se avesse scelto un linguaggio più
materico, più umorale, più gestuale.
Proprio nella stagione metafisica, o subito prima del suo inizio, si collocano due Fiori
quasi incredibili per asprezza e crudeltà, a riprova del fatto che per Morandi l’opera non è
altro che lo specchio delle pulsioni a volte anche negative che egli avverte al proprio interno. Qui le sue sensazioni si fanno foglie acuminate, steli come artigli che graffiano l’aria,
corolle ormai sfatte che lasciano cadere al suolo come relitti – o come lacrime – i petali
ancora stillanti umori; divengono piante carnivore, pronte a ghermire l’incauto che allunga una mano per una carezza (ma a chi verrebbe voglia di toccare questi fiori che sembran
fatti di filo spinato?). La postura del vaso è orgogliosa, centrale e dominante, per porre in
risalto quell’insieme di fiori scomodi, conferendo loro persino un senso di aggetto, quasi
a offrirli spudoratamente, come sfida, all’osservatore. E pure di lì a poco, dopo circa due
anni, fiorirà splendente un mazzo di boccioli di rosa nel vaso bianco4, così integri e compatti, per nulla toccati dal quotidiano: è mutato il clima psicologico del giovane artista e
i fiori ne gioiscono con lui, sprigionando per la prima volta quel profumo di pulizia dei
sentimenti, di penata conquista di una serenità interiore che poi, sempre più frequente e
cristallino, ritroveremo nelle sue composizioni.
Da questo 1920 il percorso proseguirà fra ostacoli e conquiste, dalla aurorale meraviglia
dei Fiori 1924 del Museo Morandi alla radiosa pienezza della serie di rose nel vaso del
1950; dai primi gomitoli di corolle, chiuse a riccio, del 1943 allo smagrire di materia e
cromie del 1957-58; dalle figure ‘artigliate’ che ancora, a tratti, cercano di graffiare e ferire
(è il caso dei sorprendenti Fiori 1961, di collezione privata milanese5) agli struggenti mazzolini di rose di seta, ormai poco più che una manciata di polvere colorata, delle ultime
primavere.
A volte in queste opere si affaccia la voglia di materia, il desiderio di una pienezza pittorica
nutrita di carne e sangue, con una pennellata ricca e potente in cui si rivela quello che
Georges Floersheim ha definito a ragione l’«appassionato temperamento» di Morandi6.
Esempio convincente sono le Rose della Pinacoteca comunale di Faenza, dipinte nel 1943:
in una dimensione chiusa e priva di orizzonte, le corolle carnicine occupano tutto lo spazio, lo divorano per nutrirsi della luce nascosta in quell’ombra del fondo, e si sporgono
in avanti quasi come un grido, una mano tesa, una bocca spalancata in cerca d’aria. C’è
molta pittura in questo dipinto, ma anche bisogno di luce, di armonia, di libertà, come
nelle Conchiglie dello stesso inverno 1942-43, relitti sconsolati di un tempo cupo, crudele,
incomprensibile per chi – come l’artista – vive di retta coscienza e di bellezza segreta.
Cesare Brandi, a mio avviso il più profondo e fedele interprete dell’opera morandiana,
ci dice alcune cose importanti: innanzitutto racconta dell’amore che l’artista nutre per
le piante, coltivate con cura paziente e sollecita nei vasi sul davanzale e nel cortile della
casa di città così come nel giardino dell’ultima casa a Grizzana. E ci dice che, proprio per
l’amore e il rispetto che Morandi nutriva per le sue piante, egli recideva sempre le rose
«poco sotto il gambo, in modo da mutilare meno che fosse possibile il roseto»7. Poi disponeva i boccioli nel vaso, proprio sull’orlo, fitti come in un bouquet da sposa, creando
«visioni nitide come l’alba», creature di purezza cristallina, perle racchiuse in una bolla
d’aria trasparente.
Si veda, ad esempio, il mazzolino di rose dai toni tenui e appena lambiti da un colore
impalpabile come cipria, rose avvolte in un abbraccio di verde fondo che si affacciano
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dall’orlo frastagliato di un vaso bianchissimo, concentrato di luce mattutina sul fondo
chiaro della tela. È un’opera del 1952 che quasi si ha timore di toccare, tanto è forte la
sensazione di poter infrangere con un solo gesto l’incanto di una visione così immateriale,
perfetta e pur colma di vibrante umanità8.
Come Montale, come Luzi, un altro poeta ci parla dei Fiori di Morandi ed è Giovanni
Testori, lucido testimone di quella profonda, sempre presente sofferenza dell’anima che in
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forme e modi certamente meno assillanti è nucleo e ragione anche dell’arte morandiana.
In un componimento pubblicato nel 1985 da Jean-Michel Folon9 (un altro nome giusto
per Morandi, ma non deve apparir strano che gli spiriti affini si cerchino e si trovino in
gesti, immagini e parole che rimbalzano dall’uno all’altro come a conferma e conforto reciproci), Testori scrive: «la timida bellezza che non ha confronto/…di questi dedicati fiori/ alla vita e alla morte»10. Sì, fiori dedicati come un’offerta alla vita e alla morte, insieme,
nella consapevolezza poetica ed esistenziale che la seconda è parte necessaria alla prima
la quale a sua volta, priva della sua fatale soluzione, perderebbe ogni valore e pienezza, in
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una parola: il senso. Nella sua vita tutta protesa verso la ricerca e la contemplazione di ciò
che sta dietro le cose, Morandi sente appieno il fascino della compresenza di vita e morte
e cerca di darle un volto sereno nelle sue piccole tele di fiori, che possono essere lette come
custodi della soglia, come immagini dell’attesa – cioè di una sospensione di movimento
e perfino di respiro che è presentimento dell’assenza – oppure come confessioni a cuore
aperto di un desiderio inappagato e inappagabile di durata di fronte al sentimento della
caducità del tutto.
Un’ultima riflessione, che mi nasce di fronte ai dipinti degli anni Cinquanta e Sessanta
e in particolare davanti a un piccolo mazzo del 1957, fiori freschi (ma chissà se poi lo
sono davvero?), fiori aperti e fidenti in una tersa mescolanza di bianco, giallo e arancio11.
L’opera, riscoperta da non molti anni, è tra le più belle di Morandi e riunisce in sé le sue
doti migliori: calore e nitidezza, armonia di luce e spazio, tocco leggero e profondità di
sentimento.
Questi sono i fiori del suo giardino segreto, quello in cui nessuno può entrare, sono i boccioli che egli raccoglie e dipinge per sé e per pochi amici. E allora si comprende come a
queste opere egli riservi un ruolo del tutto particolare, di riflessione costante sulla propria
emotività, sul proprio sentire affetti e sentimenti per trasformarli in immagine di poesia.
Si sa che Morandi non ama vendere le tele di fiori e le conserva per sé, per la propria
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Una cristallina purezza: i fiori di Morandi
famiglia, e per gli amici a cui vuole fare un dono. Nascono da questo atteggiamento sia i
regali di nozze per l’amico Mario delle Piane e per le spose di Roberto Longhi e di Piero
Bigongiari12, sia l’omaggio a una giovane e bellissima Jacqueline Sassard che nella primavera del 1964, pochi giorni prima che la malattia gli impedisca per sempre di lavorare, lo
incontra su richiesta di Valerio Zurlini per fare da interprete a John Rewald. È proprio
lo studioso americano a raccontarci l’episodio in una sua memoria di qualche anno più
tardi: «…egli ci mostrò, girandoli lentamente, una intera pila di disegni a matita, per la
maggior parte tratti dagli oggetti reali che ci circondavano, oltre a pochi studi di alberi e
case realizzati durante l’estate. Rifiutò di vendermene qualcuno ma me ne lasciò prendere
uno. La scelta fu difficile. Alla fine decisi per una piccola natura morta a squisite masse
grigie in contrasto con luminose forme bianche. […] Poi egli si mise a cercare ancora fino
a che non trovò un amabile studio di fiori in vaso che donò alla giovane attrice»13.
Quello che con accenti misuratissimi Rewald definisce a «lovely study of flowers in a vase»
è in realtà uno sconcertante e raro disegno del 1962, al limite dell’astrazione, con le forme
solo per un filo appese al loro oggetto di riferimento e tanta forza di sentimento che preme per manifestarsi, al punto da gonfiare e persino distorcere l’ormai familiare modello
delle rose di seta affacciate al bordo del vaso.
Quelle di fiori sono dunque le opere di Morandi più legate alla sua sfera emotiva, quelle
in cui – pur nella consueta stringatezza di mezzi ed equilibrio d’espressione – egli si lascia
andare di più, sollevando un poco il velo della sua ossessiva riservatezza per dirci della malinconia struggente che gli è compagna quotidiana, soprattutto negli ultimi anni di vita.
Se si eccettua l’affettuosa – e per lui indispensabile – presenza delle sorelle e la costante
vicinanza epistolare di Gino Ghiringhelli, l’ormai anziano artista è praticamente solo. E
si chiude sempre più in se stesso. D’altronde il mondo è cambiato ed egli non frequenta
più gli amici pittori come Soffici (Rosai, Longanesi e de Pisis sono già scomparsi); lontani
sono Maccari, i fratelli Bacchelli, Roberto Longhi, Cesare Brandi (solo qualche cartolina,
una lettera ogni tanto); a Bologna la rottura con Giuseppe Raimondi e quella, più vicina
e lacerante, con Francesco Arcangeli hanno intristito le sue giornate, facendo il silenzio attorno a lui. La sua arte conquista dimensioni sempre più assolute, a prezzo di un continuo
sforzo di disciplina e di rinuncia, ma a volte, dall’orlo di quei vasi ora simili ad ampolle
rituali, si alza la voce di un animo esulcerato e si sprigiona una emozione incontenibile
che, per esprimersi in accenti minimi, non per questo si scopre meno esasperata.
Questa di Morandi è una dolce violenza che regala bellezza e chiede comprensione, in
un reciproco atto di intelligenza e di rispetto, fino a dar vita, opera per opera, fiore dopo
fiore, a quello che può esser definito solo come uno struggente dialogo con se stesso, un
diario geloso, un giornale di bordo su cui con la grafia dell’ombra e della luce Morandi
registra i suoi trasalimenti più segreti, la voce della sua solitudine.
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(dal catalogo della mostra Giorgio Morandi. I Fiori, Nuoro, MAN, maggio-luglio 2001.
Milano, Skira, 2001, p. 15-21).
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Cfr. W. Shakespeare, Sonetti, Einaudi, Torino, 1965, p. 12-13, Sonetto n. 5: «Ma i fiori distillati,/
anche se viene l’inverno/ perdon solo la parvenza: / l’essenza vive dolce in eterno». La contrapposizione concettuale e poetica tra «parvenza» ed «essenza» vale per tutta l’opera di Morandi, ma pensando ai suoi Fiori mi piace soprattutto l’accostamento fra le parole «still lives» e l’aggettivo «sweet».
Che altro sono infatti questi Fiori se non ‘dolci vite silenti’?
2
È Roberto Longhi a citare Proust nel suo breve quanto acuto testo scritto per la Galleria Il Fiore di
Firenze in occasione di una piccola mostra di Morandi che si apre proprio il 21 aprile 1945, quando
ancora lo studioso non sa nulla dell’amico bolognese, al di là dell’ultimo fronte che in quello stesso
giorno finalmente verrà travolto. Ricorda Longhi una riflessione proustiana, tratta da Le temps
retrouvé (II, 30) e perfetta per il carattere e la mentalità morandiana: «La réalité à exprimer résidait,
je le comprenais maintenant, non dans l’apparence du sujet, mais dans le degré de pénétration de
cette impression à une profondeur où cette apparence importait peu, comme le symbolisaient ce
bruit de cuiller sur une assiette, cette raideur empeseé de la serviette qui m’avaient été plus précieux
pour mon renouvellement spirituel que tant de conversations humanitaires, patriotiques, internationalistes» (cfr. R. Longhi, Morandi al «Fiore», in Da Cimabue a Morandi, cit., 1973, p. 1097).
3
Cfr. Catalogo Vitali, n. 5.
4
Cfr. Fiori, 1920 (ibidem. n. 56), già nella raccolta di Lamberto Vitali e ora passati per sua volontà
testamentaria alla Pinacoteca Nazionale di Brera.
5
Ibidem, n. 1215.
6
Cfr. G. Floersheim, Morandi, in Ist die Malerei zu Ende?, Zurigo, Atlantis, 1959, p. 14.
7
Cfr. C. Brandi, I Morandi di Magnani, 1965, in Morandi lungo il cammino, Rizzoli, Milano, 1970,
p. 86-87.
8
Cfr. Catalogo Vitali, n. 801.
9
Cfr. J.-M. Folon, Fiori di Giorgio Morandi, Ginevra – Milano, Alice – Biti, 1985, p. 61.
10
Cfr. G. Testori, Per Morandi, 1981, ivi, p. 11.
11
Cfr. Fiori, s.d. (1957), dipinto non presente nel catalogo Vitali del 1977-1983 e pubblicato in M.
Pasquali, cit., 2000, p. 73, n. 1957/2.
12
Cfr. Fiori, s.d. (1942-1943), in M. Pasquali, cit., 2000, p. 27, 1942-1943; per i Fiori Longhi e
Bigongiari, entrambi del 1950, cfr. Catalogo Vitali, n. 719 e 718.
13
Cfr. J. Rewald, Visit with Morandi, in “Taurus”, n. 4, Albert Loeb & Krugier Gallery, New York,
maggio 1967. Il disegno cui ci si riferisce è quello catalogato da Efrem Tavoni e Marilena Pasquali
con il numero 1962/1 in cit., 1994, p. 206.
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Fiori vengono a volte considerati, ancor oggi, come prove minori della sua pittura. Le
ragioni non sono certo di natura artistica o critica e risiedono nella scarsa conoscenza
che se ne ha, legata al luogo comune di Morandi come pittore di oggetti e bottiglie. Anche
i paesaggi – tra i più tersi frammenti della sua visione del «sentimento delle cose» – hanno
faticato ad essere compresi dal grande pubblico che ancora esita di fronte alle piccole tele
così scarne, così essenziali di fiori secchi e rose muschiate.
Ma basta pensare che il soggetto è per Morandi soltanto un pretesto, necessario, ineliminabile ma pur sempre un pretesto alla pittura, per comprendere che per lui ogni aspetto
della realtà naturale vale in quanto forma suscitatrice della seconda nuova realtà dell’opera, sia che si tratti del dialogo fra due oggetti, di uno scorcio di colline, di un gomitolo di
corolle aperte alla luce.
Ogni cosa nella sua arte si riduce all’essenza, agli elementi costitutivi e ne canta la purezza
e lo stupore, come di fronte ad una verità di cui si intuisce – senza smarrirvisi – la profondità. Secondo il pensiero del Tao, la conoscenza è l’origine di ogni mistero. Morandi non
ha avuto timore di questa sfida, l’ha sostenuta con mente salda e l’ha oggettivata in tutta
la sua opera, facendone un veicolo di profonda maturazione interiore.
La sua «natura incline alla contemplazione» – come egli stesso la definisce nella intervista del 19571 – scava nel libro della natura per portarne in luce quella parte preziosa,
intangibile che abitualmente appare velata dalle scorie del quotidiano. Anche – e, forse,
soprattutto – nei Fiori si assiste a tale ‘riduzione’ del soggetto che toglie il superfluo per
lasciare affiorare la sostanza, e il fenomeno appare, se possibile, ancor più straordinario
perché si è in presenza del tema che, nella buona pittura di tradizione figurativa di grande
parte del ventesimo secolo è sinonimo di ‘maniera’, di genere per eccellenza del decorativo, del piacevole, del sensoriale, dell’effimero. Frasi come «festa dei colori», «piacere degli
occhi», «frammenti di natura» sono abituali per descrivere le composizioni di fiori dipinti
da artisti anche interessanti in quanto interpreti della sensuosità postimpressionista. Ma
Morandi è davvero un’altra cosa.
Egli opera esattamente al contrario e considera un mazzo di fiori come modello ideale per
realizzare i suoi brani più scarni ed essenziali, bandendone quel superficiale naturalismo
che pare quasi trappola inevitabile, caratteristica ineliminabile del ‘genere’.
Spingendosi quasi al paradosso per meglio chiarire l’ipotesi, si potrebbe affermare che è
più facile sentire una vibrazione, un’agitazione sensoriale nelle sue Nature morte (penso
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soprattutto a quella «vitalità veramente demoniaca» che sottende – stando alle parole di
Carlo Ludovico Ragghianti2 – «certe sue indomabili trazioni verso il reale ravvicinato»
degli anni Trenta), piuttosto che nei suoi Fiori appena «soffiati nell’aria», come ebbe a dire
Maria Venturi di fronte ad un mazzo di Rose del 19243. All’artista non interessa cogliere
nel fiore la fragilità organica e l’apparente differenza che identifica ogni singolo soggetto;
anzi, tutto ciò lo disturba come dato effimero e quindi, dimostrando la stessa indisponibilità che già manifesta nei confronti della figura umana, egli rinuncia progressivamente
al fiore fresco, appena colto, per privilegiare la nitidezza, l’immobilità dei fiori secchi o di
seta, vere e proprie ‘figure’ mentali, forme intatte del conoscere, categoria filosofica sotto
cui si può cogliere ed interpretare la realtà.
Il fiore fresco ‘non sta fermo’ e subisce tutti i guasti del divenire, abdicando a quella funzione di specchio del Sé che per Morandi è indispensabile: un modello sempre uguale a se
stesso vale come superficie che riflette dell’autore ogni minima variazione di sensibilità, di
intenzione; se il soggetto tende a modificarsi, anche se per passaggi quasi impercettibili,
non potrà certo garantire la fedeltà del testimone muto ed introdurrà varianti indipendenti dalla volontà dell’artista. Vi è un esempio, proprio in tema di fiori, che può essere
assai illuminante: nel 1942, a distanza di pochi giorni, Morandi dipinge sei volte lo stesso
mazzo di zinnie4. Nel primo dipinto le corolle appaiono fresche e colme, i colori sono più
intensi e la pasta pittorica si ispessisce a suggerire la morbidezza dei petali. Il tempo non
s’arresta e nelle nuove tele l’artista, fedele al suo modello, sembra registrarne l’avanzare
tanto che le zinnie appaiono già indebolite, quasi contratte. Ma Morandi non intende
rappresentarne la caducità, per cogliervi piuttosto l’ «aspetto eterno delle cose»; quindi,
con un raffinato espediente pittorico, elimina il vaso – ben presente nella prima tela – e
trasforma il mazzetto compatto delle corolle in una perfetta forma sferica, immune dalle
cadute dell’esistenza.
Si potrebbe in sostanza dire che l’artista non si cura del fenomeno ed è interessato soltanto
alla realtà del noumeno, ricercandola attraverso una particolare operazione di memoria che muove dalle sensazioni e dalle impressioni visive per giungere a quelle ricchezza
emotiva e lucidità di pensiero necessarie per com-prendere ed abbracciare se stessi nella
realtà.
Cesare Brandi condivide questa ardua operazione mentale che si serve della memoria
come di un grimaldello per aprire la porta più segreta dell’essere e sottolinea nella sua opera «quell’avanzare dal fondo dello spazio come un ricordo dal fondo del tempo». Spazio e
tempo si fondono e si contraggono nella dimensione del punto e in ciò si concentra tutta
la vitalità, l’intensità, il significato del vivere.
Non è certamente casuale se i primi maestri a cui Morandi guarda, anche per i suoi Fiori,
sono Rousseau e Cézanne: stregati, totemici, ancestrali quelli del primo; sapienti ed attentamente analizzati come forme quelli del maestro di Aix (si potrebbe pensare, di nuovo,
all’incontro di emozione e rigore…). Ma il giovane Morandi non si sazia e approfondisce
lo studio delle opere d’arte di purezza cristallina che più lo possono aiutare: sono gli ‘alberetti’ di Giovanni Bellini, essenziali e limpidi nella loro verticalità; le piante in vaso di
Antonello da Messina, quei fiori sospesi e sparuti, a ventaglio che occhieggiano tra i libri
nello studio di San Gerolamo o sulle terrazze dei palazzi veneziani; certi tagli di Vermeer
ed il procedere compositivo di Giorgione, nella cui pittura – come scrive nel 1958 Lionello Venturi5 (non a caso grande estimatore di Morandi), «…si manifesta quello scadere
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dell’importanza del soggetto, a vantaggio dell’espressione artistica, che anticipa tutta l’arte
moderna». Sono infine i Vasi di fiori di Chardin, frammenti di poesia fra i più limpidi, ai
quali mi piace riferire una definizione brandiana delle opere di Morandi, da lui viste come
«improvvise finestre sull’anima».
Ma ancora non basta, perché, oltre a studiare la morfologia e l’atmosfera dei maestri del
passato, Morandi si guarda intorno per vedere quali diverse soluzioni siano adottate da
altri protagonisti della nuova arte, se pur assai dissimili da lui come Matisse – bidimensionalità, semplificazione, ritmo fluido nel colmo del colore – o più prossimi al suo sentire,
quali Braque – forme dimesse e quasi ostili, corrose dalla fatica di vivere –, Paul Klee
– racconti fra desiderio e memoria, acquari vegetali, serre sottomarine in cui i fiori paiono
meduse perlacee – ed Alberto Giacometti – zampette di ragno che nella loro apparente
fragilità incidono la pelle del mondo più che cicatrici profonde.
Il comune denominatore di tali ricerche sta nell’essenzializzazione della forma, nel tentativo di andare alla radice del visibile. E Morandi appartiene a pieno titolo alla categoria di
tali novatori del pensiero visivo, anche perché i suoi Fiori rivoluzionano tutto un genere,
anzi, lo annullano e lo cancellano, nel ritrovare la purezza di una nuova origine.
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(dal catalogo della mostra Morandi. I fiori, Siena, Palazzo Pubblico, novembre 1990 - gennaio 1991. Milano, Electa, 1990, p. 15-17).
Note
Cfr. G. Morandi, intervista registrata il 25 aprile 1957 per l’emittente radiofonica statunitense in
lingua italiana “The Voice of America”, pubblicata in Lamberto Vitali, cit., 1983, vol. II. Appendice.
2
Cfr. C. L. Ragghianti, Giorgio Morandi, in “Critica d’Arte”, n. 1, Firenze, gennaio 1954, p. 51-65;
ripubblicato in L. Vitali, cit., 1964, p. 62 e in C. L. Ragghianti, cit., 1982, p. 200.
3
Cfr. Catalogo Vitali, n. 91. Il dipinto, forse il prototipo di tutte le composizioni mature di Fiori di
Morandi, apparteneva alle sorelle dell’artista ed è parte della donazione che nel 1991 la sorella più
giovane, Maria Teresa, ha destinato alla città di Bologna per far nascere il Museo Morandi.
4
Ibidem, n. 347-352.
5
Cfr., L. Venturi, Giorgione, in Enciclopedia Universale dell’Arte, VI, Venezia-Roma, Fondazione
Cini - Istituto Treccani per l’Enciclopedia Italiana, 1956, p. 211.
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Alla pagina seguente: lo studio di Giorgio Morandi
in via Fondazza, a Bologna
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Lo studiolo rinascimentale e lo studio dell’artista
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Giorgio Morandi elabora la sua poetica e realizza la sua opera quasi esclusivamente entro
le pareti dello studio: quello di Bologna, soprattutto, e, negli ultimi quattro anni, quello
di Grizzana. Per un artista che consacra tutta la sua vita all’opera, lo spazio ove concentrarsi e lavorare è ben presto fondamentale, vero e proprio ‘luogo della mente e della
memoria’ di stampo rinascimentale, ambito esclusivo di meditazione e di creazione intellettuale che pare reincarnare il modello petrarchesco del De vita solitaria o l’affermazione
di Leon Battista Alberti, secondo il quale «solo i libri e le scritture mie e de’ miei passati
a me piacque allora e poi sempre avere in modo rinchiuse che mai donna non le potesse
non tanto leggere, ma né vedere. Sempre tenni le scritture […] serrate e in suo ordine
allogate nel mio studio quasi come cosa sacrata e religiosa»1. Come per Federico da Montefeltro nel torricino del Palazzo Ducale di Urbino o per Isabella d’Este nella parte antica
di Palazzo Ducale a Mantova, anche lo ‘studiolo’ di Morandi è il luogo più riservato della
casa, quello più lontano dai disturbi e dalle sollecitazioni del quotidiano, sia perché deve
consentire la libera, impregiudicata speculazione dell’intelletto, sia perché contiene le cose
più preziose e personali; si apre sul cortile da cui entra la luce limpida dei colli bolognesi
(già Cicerone consiglia di affacciare sul giardino gli ambienti dedicati allo studio)2 e con
la spartana presenza di una dormeuse funge anche da camera da letto, in modo che che
non vi siano tempi morti nella riflessione e tutto resti all’interno della scatola magica di
un ambiente così connotato dai caratteri del suo inquilino da identificarsi con lui, costituendone una affascinante immagine-ritratto3.
La magia del ripostiglio
La differenza fondamentale fra lo studioso quattrocentesco e l’artista del XX secolo è che
quest’ultimo non conosce distinzione fra il tempo delle cure quotidiane e quello della meditazione, tanto da vivere la dimensione intellettuale come l’unico, possibile, ininterrotto
status esistenziale, il solo che gli è concesso e nel quale si cala, mentre tutto il resto all’intorno ruota come in una ridda senza senso, una danza sfrenata che solo ritrova accenti di
armonia quando viene filtrata dal pensiero e fissata sulla tela.
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Natura morta, s.d. (1954) - (P. 2000, n. 1954/2)
Lo studio è uno spazio che respira e si dilata attorno a Morandi, è la proiezione della sua
mente, è l’unità di misura a cui tutto viene rapportato, è la controprova fisica della ricerca
delle leggi segrete della natura – su basi teorico-matematiche – che l’artista persegue per
tutta la vita, è il luogo dello svelamento ove il logos prende corpo di immagine.
Tutto ciò che lo abita ha un proprio ruolo, poiché nulla è privo di significato nell’universo morandiano e può esser accantonato ma non dimenticato: come egli stesso confida
all’amico Arnaldo Beccaria nel corso di una delle rare interviste degli anni maturi4, «ho
molto rispetto per gli oggetti che ho usato almeno una volta». È per questa ragione che
l’artista conserva tutto – biglietti ferroviari e di mostre, fiammiferi consumati, noci e
frutti dell’ippocastano, sassi a cromie raffinatissime sulla scala dei grigi, santini inattesi e
appunti frettolosi su frammenti di carta ingialliti. Tutto è cosa, è parte del reale, del suo
reale e, come tale, va analizzato e rispettato.
Se nello studio non c’è più posto, se va fatto spazio per nuovi interlocutori, ciò che appartiene al passato deve essere spostato in un luogo limitrofo, facilmente raggiungibile ma
separato per non intralciare i nuovi incontri, quasi una zona d’ombra dove il trascorrer del
tempo sussurra nel silenzio e lascia sedimentare sulle superfici la polvere dei giorni.
Si sapeva che accanto allo studio doveva esserci un ripostiglio, ma nessuno vi era mai
entrato dalla morte di Morandi e a dire il vero non se ne conosceva neppure l’esatta
ubicazione. Poi, un giorno, Maria Teresa Morandi ci confidò il nascondiglio della chiave.
In un pomeriggio di febbraio ormai quasi al crepuscolo5, in via Fondazza, con gesti cauti
e rispettosi, quasi rituali, prendemmo la chiave da sotto un materasso dove era stata per
trent’anni, e aprimmo una piccola porta dissimulata nel muro dietro al torchio da inci-
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sione. Nella luce sempre più scarsa che entrava da un alto finestrino rettangolare e con
l’ausilio del tenue raggio di una lampada tascabile – occhio teatrale che svela le presenze
una dopo l’altra, lasciando tutto il resto in penombra – vedemmo, per la prima volta,
il ripostiglio affollato e ordinato della memoria morandiana; un metro quadrato scarso
in cui attendevano con infinita pazienza le cose più amate dall’artista: i manichini e gli
altri arnesi della Metafisica, gli strumenti musicali della natura morta dipinta per Luigi
Magnani6, la serie dei vasi barocchi, le forme sferiche e sfrangiate delle conchiglie dipinte
tra il 1940 e il 1943, la grande bottiglia bianca scannellata, la testa del burattino di una
vecchia incisione. Intensa emozione davvero quella di aprire una porta chiusa, che nella
trepidazione del momento ci apparve stordente come quella della tomba di Tutankamen,
‘apriti Sesamo’ che spalancò davanti a noi la dimensione segreta di una camera delle meraviglie, il thesaurus di uno dei più grandi artisti del nostro tempo.
E sui ripiani di una nicchia a sinistra si allineavano vasi trasparenti colmi di terre colorate7.
Quanto colore nella retina e nella pittura di Morandi! Azzurro cobalto, giallo cadmio,
rosa di carne matura, blu lapislazzulo, bianco di neve livida, bruno intenso di terra ricca;
uno «sciorinìo di toni puri e lustri, come di pietre bagnate» – per riprendere una felice
definizione di Cesare Brandi8 – che tutti confluiscono, nella riduzione e rarefazione della
forma, a tramutar la materia in luce. È una esperienza che non si dimentica e che per uno
studioso che ha dedicato tutto il suo impegno ad un artista di cui, con stupore, ritrova il battito più segreto, quello stesso che pulsa in ogni sua opera ma che qui si invera in frammenti
di esistenza, rappresenta il coronamento di un sogno inconfessato, il premio ad ogni fatica
ed il compenso per ogni difficoltà.
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Lo studio di Morandi
Lo studio è per l’artista il campo ove vita e opera attingono l’unità. Qui si sviluppa ogni
cosa: la sensazione, la percezione, la meditazione e la creazione; la vita del giorno e quella
della notte; il sogno, il dialogo e la metamorfosi. L’apparente povertà dell’ambiente e degli
oggetti è – riprendendo una profonda intuizione di Rainer Maria Rilke a proposito della
‘povertà’ dell’arte di Cézanne – «un grande splendore dell’anima»9. E lo stesso splendore
riflettono i libri preferiti di Morandi, quelli che egli tiene abitualmente sul comodino a
capo del letto: i Frammenti letterari e filosofici di Leonardo da Vinci; le Poesie di Leopardi;
le liriche di Hölderlin; Gitanjali di Tagore; i lirici greci tradotti da Salvatore Quasimodo;
e, soprattutto, i Pensieri di Blaise Pascal che per l’artista è maestro di comportamento e di
scelte etiche. Come il filosofo francese, egli sente che «nel pensiero sta la grandezza dell’uomo [...] Lavoriamo quindi, a ben pensare: ecco il principio della morale». E ancora, di
Pascal, una riflessione che pare tagliata a puntino per Morandi: «Quando mi sono messo,
talvolta, a considerare le varie agitazioni degli uomini e i pericoli e le pene cui si espongono […], e donde nascono tante liti, passioni, imprese audaci e spesso sconsiderate, ecc.,
ho scoperto che tutta l’infelicità degli uomini deriva da una sola causa: dal non saper
restarsene tranquilli, in una camera»10.
Ma l’artista non è un filosofo, non può risolvere ogni cosa in speculazione pura e quindi
vive tutte le esperienze e le avventure a lui possibili nello sforzo di trasformazione di una
realtà pre-scelta, nella sua ri-creazione nell’opera. Realizza in tal modo quella «figura interiore» che Albrecht Dürer stima essere il segno distintivo del «divino artista» e che egli
verifica con atteggiamento del tutto galileiano nell’esperienza della realtà.
Lo studio è «stanza della memoria», nel senso che Frances Yates ha riportato a noi attraverso le sue ricerche in The Art of Memory sul mondo classico e rinascimentale11: anche per
Morandi l’ordine è fondamentale per la fissazione di un ricordo. Nella sua mente la figura
si forma sulla base di impressioni visive assai forti e viene agganciata agli oggetti, ai frammenti di realtà di cui si circonda e con i quali vive. La sua è «memoria delle cose», quella
«facoltà di intensa memorizzazione visiva» che gli antichi si addestravano ad educare e che
oggi è forse soltanto di alcuni artisti. E la memoria è fondamentale in quanto – e cito ancora Pascal12 – «è necessaria per tutte le operazioni dello spirito» e perché – come scrive la
Yates, che ricorda a supporto della sua tesi il fondamentale trattato latino Ad Herennium
– è «l’arca delle invenzioni, il Thesaurus Inventionum»13.
Nell’atelier dell’artista tutto è presente nel tempo e nello spazio, tutto è contemporaneo
e soltanto quando le cose non lo interessano più, vengono allontanate per non disturbare ciò che deve restare a portata d’occhio e di mano. E il ripostiglio accanto allo studio
diviene il luogo del passato prossimo dell’immagine morandiana, una sorta di thesaurus
nascosto alla vista ma vicino, ancora recuperabile. Là finiscono gli oggetti troppo amati
e non più utilizzati, quelli importanti per una parte della vita che appare già conclusa,
perfezionata in forme intangibili.
In ultimo, lo studio diviene per l’artista il parametro dell’esistenza, scatola dalle pareti
protettrici quanto insuperabili nella quale si attua quel viaggio all’interno di Sé che è topos
fra i più frequenti nell’arte del nostro secolo, dalle soluzioni della Metafisica – i magazzini
della mente di de Chirico, le ‘cassette’ prospettico-illusionistiche di Morandi – a quelle del
surrealismo, dai collages di Kurt Schwitters ai dreaming boxes di Joseph Cornell.
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Nell’opera di Morandi, lo spazio diviene cubatura della scatola, all’interno della più ampia scatola perimetrale che è il suo studio, hortus conclusus come misura della realtà e
dell’immagine da questa proiettata, de-portata.
Il metodo di Morandi
Va detto in primo luogo che Morandi si avvale come base per le sue composizioni di tre
ripiani di forma, materia e ampiezza differenti, costruiti da lui stesso assemblando pezzi
di mobili diversi: il piano di un tavolo tondo, di cui, dietro uno schermo di cartone, viene
nascosto il piede tornito; un’asse sagomata a trapezio con il lato più stretto verso il fondo,
quasi a ‘mimare’ una fuga prospettica, e alzata sulle gambe di un vecchio tavolino, a sua
volta posto sopra uno sgabello; un terzo tavolo appoggiato al muro presso il cavalletto,
questa volta di altezza normale ma su cui è stato inchiodato un altro, più largo ripiano.
Tutto questo lavorìo vale per definire altezze diverse e in diversa posizione rispetto alla
luce che proviene dalla grande finestra, supporti sempre uguali per situazioni ogni volta
diverse, rispetto ai quali Morandi analizza il soggetto della composizione, scegliendo gli
oggetti fra quelli che più lo affascinano al momento, considerati uno in relazione all’altro
(ancora il concetto gestaltico di campo).
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Lo studio e il metodo
Seduto sul letto o in piedi davanti al cavalletto, con sguardo lento e penetrante – gli occhi
di Morandi, saggi e dolenti, pieni di tutta la vita vissuta come quelli dei vecchi nei ritratti
di Rembrandt… – egli indaga a lungo le proporzioni matematiche ovvero le analogie fra
le forme adottate, i rapporti cromatici che si determinano, la tensione dell’insieme e il
dialogo, l’azione teatrale che si sviluppano in forza dei personaggi fatti salire alla ribalta.
Il rispetto della realtà è totale, nel senso che Morandi non altera mai nell’immagine le
proporzioni e le relazioni spaziali fra gli oggetti, rispetta l’incidere del raggio luminoso
che entra dalla finestra e rispetta i colori dei singoli vasi, o bottiglie, teiere, scatole, vecchie sagome d’orologio, fiori secchi, fruttiere, oggetti ‘inventati’ da lui stesso accorpando
frammenti diversi.
Tale è la sua fedeltà alla geometria e al canone della proporzione, da fargli usar semplici
strumenti ottici, artigianali quanto esatti, per tenere insieme nella scatola prospettica le
sue costruzioni di oggetti e non lasciar che alcun elemento si squilibri ed esca dal campo
visivo: per far questo egli si serve di superfici quadrettate di celluloide semitrasparente
(una a sezioni quadrate di tre centimetri di lato; un’altra a reticolato più fitto con spazi
di un centimetro di lato; una terza, rettangolare, a fasce sovrapposte di ampiezza uniforme), attraverso le quali osserva e controlla la composizione e il suo ritmo, mentre anche
il piano di appoggio – la tabula aritmetica – è squadrato per mezzo di segni a matita che
incidono il bordo ogni dieci centimetri. Ritorna in mente il pensiero poetico di Emily
Dickinson, altra grande isolata della cultura occidentale, per la quale «l’incantesimo migliore è la Geometria/ agli occhi del mago/ – I suoi gesti quotidiani grandi imprese –/ agli
occhi del mondo»14.
Il sortilegio da stregone di Morandi sta nel fatto che egli sceglie prima, costruisce a priori
la sua realtà, magari dipingendo con cromie opache l’esterno delle opalines o riempiendo
le bottiglie con tinta sciolta in acqua che, seccandosi, deposita un velo di colore anche
squillante sulla superficie interna dei vetri, o dipingendo di bianco calce il fondo di un
tegame rotondo di rame, così da ridurre al minimo se non eliminare completamente la
brillantezza della materia. Della stessa bottiglia, nello studio e nel ripostiglio si trovano
più esemplari di diverse altezze (perfino, in un caso, Morandi giunge a incollare con determinazione paziente un collo rotto di bottiglia, in quell’oggetto non può essere sostituito,
a meno di dover rinunciare a tutta la catena di oggetti-forma ad esso indissolubilmente
legati). La serialità degli esemplari ritorna anche nelle conchiglie, usate per un breve volger di anni ma così affascinanti per l’artista e per noi nella loro fisicità corrugata, tanto
lontana dall’abituale parsimonia di sensi che è propria a Morandi; e ritorna anche nei gomitoli arruffati delle rose settecentesche di seta, mescolate ai fiori secchi, appollaiate come
nidi sul bordo dei vasi o addormentate in una scatola da scarpe che, sollevato il coperchio,
pare ancora diffondere una eco lontana di profumo.
L’illusione ottica, l’effetto gestaltico di ‘micro’ e di ‘macro’, di forme che entrano l’una
nell’altra e paiono comunicare in uno scambio continuo di materia e luce, sono ottenuti
ingrandendo o rimpicciolendo il campo che contiene gli oggetti (una grande, unica conchiglia in una piccola tela appare grandissima); spostando il punto di visione della prospettiva classica frontale a quella rinnovata dall’alto in basso, dal sotto in su, in diagonale;
mutando, come nelle cattedrali di Monet, la qualità della luce secondo l’ora del giorno o il
suo angolo di incidenza sui piani: la luce proviene in ogni caso dall’unica finestra a sinistra
del cavalletto, ma, a seconda del ripiano su cui Morandi compone l’insieme di oggetti,
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può risultare trasversale, frontale, o persino quasi posteriore in affascinanti tentativi di
controluce in un interno.
Tutto ciò nel pieno rispetto dell’esperienza dell’oggetto: come osserva Jean Genet, a proposito del modo di dipingere di Giacometti, «prima di tutto egli disegna con esattezza la
stufa e la canna fumaria dietro di me. Egli sa solo che deve essere esatto, fedele alla realtà
degli oggetti e dice: “Si deve fare esattamente quello che c’è davanti… poi bisogna pure
farci un quadro”»15. Pare proprio di ritrovare la ricerca di solidità, di caparbia esistenza
delle cose che è di Cézanne e che gli fa osservare ancora nel 1904: «Io procedo assai lentamente, poiché la natura mi si rivela assai complessa, e i progressi da fare sono incessanti.
È necessario guardare bene il proprio modello e sentirlo come giusto; e ancora esprimersi
con distinzione e forza. Il gusto è il miglior giudice. Ed è cosa rara. L’arte non si indirizza
che a un numero assolutamente ristretto di individui»16. Ma ritorniamo a Morandi (e,
d’altronde, non abbiamo mai smesso di parlare di lui): una volta decisa la composizione,
e questo può richieder diversi giorni di riflessione e di esperimenti, di cui resta traccia nel
rincorrersi dei segni di matita sul piano ove ha posato gli oggetti, Morandi realizza uno
o più disegni che si connotano come opere, non bozzetti o schizzi ma realizzazioni compiute di un’idea progettuale, e in ultimo dipinge, aggiungendo il fascino del colore e della
materia alla forma limpida individuata con il tratto di matita.
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Lo studio e il metodo
Il mito di Perseo, la realtà e la poesia
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(da Lo studio di Giorgio Morandi e Gianni Berengo Gardin, Bologna, Museo Morandi,
ottobre 1993. Milano, Charta, 1993, p. 7-15. Trascrizione parziale de The Studio Life,
conferenza tenuta alla Tate Gallery di Londra nel febbraio 1992).
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Cfr. Leon Battista Alberti, I libri della famiglia, in Opere Volgari, a cura di C. Grayson, I, Bari,
Laterza, 1960, p. 120.
2
Cfr. Cicerone, Ad familiares. IX, 4: «Si hortum in bybliotheca habes, deerit nihil».
3
Per un’approfondita analisi del concetto e del significato simbolico dello studiolo rinascimentale,
cfr. W. Liebenwein, Studiolo, Ferrara, Panini, 1992 (con un saggio di Claudia Cieri Via), da cui
sono tratte le precedenti citazioni.
4
Cfr. A. Beccaria, cit., 1964.
5
Si tratta del febbraio 1993, otto mesi prima dell’apertura del Museo Morandi, ove tutto il materiale verrà trasferito su precisa indicazione di Maria Teresa Morandi. La scoperta dello stanzino viene
fatta insieme a Carlo Zucchini, rappresentante e uomo di fiducia delle sorelle Morandi.
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Cfr. Catalogo Vitali, n. 313 del 1941, e – per la Natura morta con la testa di burattino, 1927 – cfr.
L.Vitali, cit., 1957-1964, n. 38.
7
Sono le terre che Morandi usa per dipingere ancora negli anni Trenta. Dai primi anni Quaranta egli preferirà invece utilizzare materiali già confezionati (anche di questi si conservano oggi al
Museo Morandi numerosi esemplari, ugualmente tratti dallo studio dell’artista). Vi è una lettera
inviata da Morandi a Brandi il 16 giugno 1940, in cui egli chiede all’amico «un campione di quelle
resine sintetiche di cui mi parlò a Bologna». In un’altra lettera del 14 settembre 1941, così scrive
l’artista: «La ringrazio tanto delle boccette di vernice. Mi saprà poi dire quanto le devo. Per ora non
me ne occorre altra perché me ne hanno procurato della Wibert. Riguardo ai colori di Lefranc [Si
tratta del noto colorificio francese, con prodotti assai apprezzati anche in Italia. N.d.A.] non mi
occorrerebbe che del giallo di cromo scuro. Ma solo se si tratta di colori fini non da decorazione.
Come pure mi occorrerebbe, ma sarà difficilissimo, del Vert de Crome [sic!] sempre di Lefranc. Nel
caso non trovasse questo colore, è bene fare attenzione che sotto l’indicazione del colore vi è segnata
la composizione chimica e cioè, oxide de crome. Le dico questo perché sotto lo stesso nome viene
smerciato un altro prodotto che non ha nulla a che fare con ciò che mi occorre». Ecco un saggio
della ben nota, esigente attenzione morandiana per tutto ciò che concorre a realizzare l’opera, pennelli, colori, solventi, tele e carte, telai e persino cornici. Per le due lettere, cfr. C. Brandi, cit., 1990,
p.180 e 187.
8
Ibidem, p. 36.
9
Cfr. R.M. Rilke, Lettere su Cézanne, Milano, Electa, 1984, p. 39.
10
Cfr. B. Pascal, Pensieri, Torino, Einaudi, 1962, p. 162 e 151.
11
Cfr. F. Yates, The Art of Memory, Londra, Pimlico, 1992.
12
Cfr. B. Pascal, cit., 1962, p. 109
13
Cfr. Frances Yates, cit., 1992.
14
Cfr. E. Dickinson, Silenzi, Milano, Feltrinelli, 1990, p. 153.
15
Cfr. J. Jenet, L’atelier d’Alberto Giacometti, Décines, Éditions de l’Arbalète, 1958-1963.
16
Cfr. P. Cézanne, Correspondences, Parigi, Bernard Grasset, 1978, p. 301.
17
Cfr. anche C. Brandi, Appunti per un ritratto di Morandi, in “Palatina”, Parma, gennaio-marzo
1960 (ripubblicato in C. Brandi, cit., 1990, p. 66). Lo studioso così sintetizza, da par suo, il processo creativo morandiano: «La traccia dell’oggetto che rimane nell’immagine di Morandi, è meno che
l’ordito rispetto alla trama di una stoffa. E il fatto di accogliere, quasi supinamente, la conformazione dell’oggetto, che sia il paesaggio o la natura morta, non è che l’accettazione della prima fase del
processo creativo, quella in cui l’oggetto si enuclea dal contesto usuale della realtà quotidiana, e si
costituisce nella coscienza. Da questo momento alla realizzazione dell’immagine, c’è il travaglio dell’artista, c’è l’artista a tu per tu con se stesso, e qui allora, si brucia chi si brucia, resiste chi resiste».
18
Cfr. E. Montale, Ossi di seppia, in L’opera in versi, Torino, Einaudi, 1980, p. 48.
19
Cfr. V. Cardarelli, cit., 1987, p. 54.
6
Nel passaggio dall’uno all’altro dei tre livelli del reale, dal dato naturale al frutto della percezione e della riflessione, fino al risultato finale costituito dalla comunque inedita realtà
dell’opera, è un continuo ritornare, ripensare, riprendere le stesse forme per cogliere le
minime sfumature che non sono degli oggetti osservati, fermi, immobili, sempre gli stessi;
ma di lui che li guarda e che si avvale della realtà come di uno specchio in cui controllare
ogni proprio mutamento17.
La realtà è specchio del Sé e gli oggetti dello studio, apparentemente poveri e casuali,
ma già parte della creazione artistica in quanto scelti e trasformati dall’artista («il grande
splendore dell’anima» di Rilke), sono specchio di una realtà altrimenti troppo forte, pericolosa e nemica. Si affaccia alla mente il mito di Perseo, il cui scudo riflette il volto di
Medusa, senza che l’eroe resti pietrificato dalla sua vista diretta e permettendogli in tal
modo di affrontarla e farla propria. Analogamente l’immagine dell’arte, spostata, riflessa,
trasferita, è per l’uomo un possibile approccio al reale. Nella metafora – che è trasferimento – il reale non fa più paura, tanto che attraverso l’immagine l’uomo può intervenire e
agire, imprimendo alla realtà il sigillo della propria personalità.
Gli oggetti per l’artista si rivelano come stati d’animo, così come per il poeta le parole: «Sul
muro grafito/ che adombra i sedili rari/ l’arco del cielo/ appare finito. […] In un riposo
/ freddo, le forme, opache, sono sparse»18. Questo è Eugenio Montale, il poeta italiano
forse più vicino a Morandi e del quale questo componimento pare proprio la trascrizione
lirica dello studio dell’artista, della sua atmosfera, così come, peraltro, vale a rappresentarli
il verso di un altro lirico a Morandi vicino per età e per sensibilità, Vincenzo Cardarelli:
«Amo i tempi fermi/ e le superfici chiare»19. Non sembrino strane le tante citazioni di
poeti a proposito di Morandi, poeta egli stesso attraverso l’immagine e forse – perché no?
– attraverso l’unicità della sua vita, il suo essere uomo solo, curiosissimo di altri uomini
ed altre opere, indagatore instancabile tra le pareti di una sua turris speculationis di ciò che
i sensi e la mente possono trarre dal profondo del visibile.
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Il mutare di intensità luminosa
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Ambiva a un discorso che fosse voce della
molteplicità (e simultaneità) del vivente.
Proponimenti e desideri così totali
finiscono per esprimersi in piccolo, per accenni.
Mario Luzi 1
n un’indagine sulle trasformazioni interne all’opera nell’arte di Giorgio Morandi, alla
registrazione delle diverse sfaccettature di senso – e di sentimento – che l’immagine vi
può assumere, non può mancare qualche riflessione specifica sulla luce morandiana, su
come l’artista sappia non solo modularla quanto piuttosto guidarla e condensarla – starei
quasi per dire ‘tirarla fuori’ dal reale – fino a farne l’elemento portante, il nutrimento, la
sostanza della sua immagine.
«Severa elegia luminosa»: così Roberto Longhi legge l’opera dell’amico artista nel suo breve
quanto acutissimo scritto del 19452, sottolineando sia il suo carattere rigoroso e contrario a
qualsiasi scorciatoia verso il superfluo, sia quel tanto di melanconico, di ripiegato su se stesso, di intimamente poetico che rende unica la sua immagine. E tutto appare nel segno della
luce, perché sia la severità che l’apprensione elegiaca si manifestano soltanto attraverso e nella luce (questa infatti non è un mezzo, uno strumento, ma uno stato, un modo di essere).
Già nel 1942, nell’impostare sull’opera morandiana la sua estetica del «colore di posizione»3, Cesare Brandi sottolinea da par suo come la luce sia in Morandi segreto «fluido
interno al colore» e, per converso, quanto questo sia «saturo di luce», tanto da determinare
nella sua opera una «evocazione luminosa intensissima».
E anche in seguito i più attenti interpreti dell’artista bolognese rimarcano comunque e
sempre l’assoluta necessità della tessitura luminosa nella sua opera: nel 1946 Cesare Gnudi
dedica all’artista uno studio approfondito che intende controbattere interpretazioni di caratura meramente contenutistica (siamo negli anni delle più aspre polemiche tra astrazione
e realismo intesi in chiave di battaglia politica), conferendo però alla lettura formale un
tono più umano, più lirico. Parlando degli oggetti morandiani, anch’egli giunge al ruolo
fondamentale della luce: «La vita delle cose segue con un moto lento e continuo l’eterna e
varia vicenda della luce. […] Non è una luce immobile ma una luce che si attarda durevole
e fluida sulle cose, le penetra di sé, le trasforma, le fa diventare materia della sua sostanza
eterna»4.
Anche Francesco Arcangeli punta molto della sua interpretazione sulla natura della luce
morandiana, diversificandola da quella «mediterranea» di Piero della Francesca in rapporto
a quella «riduzione della gamma cromatica» che a suo parere caratterizza l’«antisolarità»
della pittura tonale di Morandi, una pittura che riflette la sua «squisita coscienza umana,
tipica di una temperie di media Europa», altrettanto lontana dalla «sublime follia nordica, quanto dall’eroica solenne concezione mediterranea»5. E Franco Solmi intende la luce
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Il mutare di intensità luminosa e di vibrazione emotiva nell’arte morandiana
come dato essenziale al farsi della sua immagine, laddove scrive che «la luce rende immateriale l’angolo lento di Appennino, non corrode più l’oggetto ma lo possiede interamente»,
analizzando la diversità fra la luce delle opere degli anni Trenta e quella dei Paesaggi del
1943-19446. Vale poi la pena citare anche uno studioso sensibile come Georges Floersheim, il quale mette l’accento sulla componente emotiva implicitamente avvertibile nella
pittura di Morandi, vale a dire sul fatto che in essa «la reazione fra luce e superficie dipinta
si rivela come sorgente intensa di emozione»7, per giungere alle parole di Emilio Tadini, il
quale in uno stimolante saggio del 1990 suggerisce che «la luce di Morandi è una luce che
si fa nel farsi delle cose, è una luce intima alle cose. […] La luce sembra darsi come respiro
profondo delle cose»8.
Nella diversità di accenti, la sottolineatura è costante e può valere come filo d’Arianna
per entrare nell’«irta complessità» dell’arte morandiana (la definizione è ancora di Franco
Solmi) e per seguirne il percorso fino alla limpida rarefazione delle ultime opere, frutto di
un instancabile lavoro di limatura dell’immagine e di una sofferta conquista di stringatezza
poetica che, infine, lasciano affiorare dal fondo vibrante di echi e di richiami soltanto la
forma pura che «esala in chiarità»9.
Le regole prime del suo basilare rapporto con la luce possono riassumersi in poche, quasi
schematiche, osservazioni: se si è d’accordo nell’affermare che nella sua opera la luce non
è mai raggio orientato, teatrale, e non giunge dall’esterno, ma è emanazione dal profondo
fino a rivelarsi come la sostanza stessa della sua pittura, allora si può riconoscere come questo processo dinamico di irradiazione che rende vivi cose e luoghi dipinti muova dal bianco
e, attraverso una trama fittissima di rapporti luministici che giocano tutto sul contrasto fra
luce e ombra, vada a costruire per analogie e differenze i singoli toni e la più complessiva
scala cromatica. L’artista giungerà – e, per questo, bisogna ancora aspettare molti anni
– al nero, cioè alla negazione stessa della luce, ma lo tratterà comunque come complice e
fratello del bianco.
In realtà, anche se a partire dai tardi anni Cinquanta, Morandi ‘scopre’ prima il viola scuro
e poi il nero, quasi come presagi della fine ormai vicina, per lui il buio totale non esiste
e l’ombra anche più fitta si rivela intessuta di luce o, almeno, ricca di qualche superstite
scintilla luminosa. Come egli stesso annota in una sua lettera del 1962 a Lamberto Vitali,
«di tutto resta una bottiglia bianca…»10, e in effetti anche nelle ultimissime opere ciò che
più colpisce e tocca nel profondo è la sensazione di purezza e di necessità che emana da
ogni segno, da ogni pennellata, da una scelta cromatica, rarefatta e sublimata fino al diapason tesissimo del bianco puro, luogo e immagine fisica della luce più limpida e alta. Con
il suo occhio acuminato, dalla particolare capacità di apprensione retinica e dalla coltivata
esperienza all’indagine all’interno del ‘visibile’, Morandi scova angoli di luce dappertutto,
la coglie e la sottolinea nella pasta pittorica ricca in riflessi di una tazzina di porcellana e
nelle rugosità scavate di una conchiglia, la lascia affiorare come vibrazione da un fondo in
apparenza omogeneo e la cattura come un guizzo repentino dietro l’ansa di una caraffa o
nell’interstizio vuoto fra due forme piene. Ma è poi veramente vuoto, quello spazio ‘fra’, o
è questa la zona franca in cui il reale per un attimo si rivela?
Anche per questo fra le quattro mura del suo studio (per i cieli fermi e il verde pulito di
Grizzana il discorso è diverso) l’artista ama tutto ciò che interrompe e per ciò stesso moltiplica la luce, la muove, la rifrange, la articola in mille sfumature di chiaroscuro: tutte le
forme prismatiche, sfaccettate, a onde continue – per primo, il suo amatissimo bottiglione
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Il mutare di intensità luminosa e di vibrazione emotiva nell’arte morandiana
bianco a tortiglioni – e poi le fruttiere e i vasi dagli orli ondulati, la bottiglietta di brillantina
dall’andamento sinuoso, a spirale, il sonaglio-pallina tutto a spicchi bicolori; e ancora ogni
cosa che può comportare o suggerire effetti di trasparenza, ciò che può lasciar tra-guardare
ciò che sta dietro e tutto quanto brilla nel complessivo tono neutro della composizione
– un tocco squillante di rosso-aragosta, una porzione intensa di lapis turchino – o ‘butta
fuori’ luce dalla sua stessa forma e materia: e sono le tazzine di porcellana, le conchiglie del
Mar Rosso e certe bottigliette di pasta di vetro.
La luce di Morandi non appare mai nuova, perché, appena dipinta, sembra già abitata dal
tempo, che le conferisce una patina inconfondibile. Sì, il tono complessivo della pittura
morandiana è quello aurorale di un primo mattino del mondo, intatto e come in attesa che
inizi il tempo degli uomini. Il suo è un tempo primo, avulso dalla storia, dal quotidiano,
dal provvisorio. E questo eden abitato da luci, forme e silenzi intensi come armonie musicali, non appartiene al presente, non conosce la dimensione dell’hic et nunc, vive come
proiezione, come desiderio, come durata.
Con operazione complementare a quella di Monet, Morandi non insegue il fluire continuo
della luce, il suo incessante svariare di ora in ora, di attimo in attimo, ma – come Piero della
Francesca – ‘ferma’ la luce di un istante e la rende eterna, consegnandoci eterne primavere, mattini invernali di trasparenze cristalline, estati assolate che versano il loro oro nella
pasta pittorica e la fanno risplendere. E anche quando, come ogni coscienzioso pittore del
passato, lascia che la sua luce segua il mutar dell’ora e i desideri del cielo, proprio allora,
mentre introduce il sapore del tempo di natura, lo cristallizza, lo purifica e lo riporta a
quella dimensione sospesa di stupore e splendore che è carattere poetico tra i più toccanti
della sua arte.
Ma facciamo un passo indietro. Prima del 1945 le composizioni dell’artista paiono respirare piano, come in sordina, in un’aria chiusa e un po’ soffocata, in cui a un pieno di
intensità emotiva sembra corrispondere un grado basso di felicità espressiva, un paziente
restringersi fra quattro mura, fra pochi affetti e fra poche cose sicure – quasi un acquattarsi
– per sentirsi al sicuro e accontentarsi del pur magro e incerto presente.
Se tale sensazione di domestico ripiegamento – che nei migliori è sobrietà e negli altri
sembra persino modestia di accenti e di mezzi espressivi – accomuna la maggior parte degli
artisti durante gli anni di guerra (quanti interni vuoti di presenze e di luce si trovano nei
dipinti di questo periodo! quante nature morte di stoviglie abbandonate in un angolo di
tavolo, quante stufe senza fuoco e nere di fuliggine, quanti mazzi di cipolle e aringhe solitarie lasciate in un piatto sbeccato!), in Morandi tutto ciò assurge alla dignità di exemplum,
grazie alla sua costante facoltà di trasfigurazione poetica del reale, facoltà che trasforma
anche la cosa più piccola in accento lirico, in romance sans paroles nutrito di raccoglimento
e di silenzio, fatto di accenti in apparenza dimessi quanto in realtà ricchi di pathos e di
presenza umana.
Mentre all’intorno tutto conflagra e pare volersi autodistruggere, il motore è messo al minimo fino a una specie di letargo dei sensi e dei sentimenti. Ma il fuoco è sempre lì, sotto
la cenere di un tempo apparentemente senza speranza, e l’energia vitale continua a fluire,
se pur lenta e come esitante di fronte alle tante difficoltà di un presente incomprensibile
che sembra appartenere alla storia di altri e non alla propria. La luce è quella di un crepuscolo nuvoloso, coperto, ovattato, ove l’orizzonte, che è il fondo dell’immagine, è tutto
una tessitura di grigi su cui le forme dei modelli si staccano quasi a fatica, come se avessero
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Natura morta (Conchiglie), 1943 - (V. n.437) - Campione d’Italia, Collezione Silvano Lodi
poca voglia di uscire dall’indistinto non sapendo che cosa le aspetta là fuori, nel mondo
(certo c’è più luce là da dove provengono – è la mente, è il cuore, è l’anima? – piuttosto
che in un presente così disagiato, in cui paiono affermarsi soltanto la violenza e il dolore).
Il contrasto fra luce e ombra non è forte, perché la sensazione complessiva è quella di una
penombra dilatata, dilagante, che ‘mangia’ la luce e il colore, che li vuole, ne ha bisogno
ma al tempo stesso li assorbe e li trasforma in materia fonda e densa. L’artista non è certo
avaro di pittura, di colore, in questi anni, e versa sulle tele tocchi di rosa, di rosso sangue di
bue e di giallo intenso; ma solo una luce piena è capace di tirar fuori dal grigio tutti questi
toni e di farli, per un attimo, squillare. E, forse, è meglio lasciar queste immagini nella loro
penombra, a sussurrare la loro realtà appartata, apparentemente marginale in quel tempo
così difficile, ma compatta, resistente e soprattutto viva.
Un «sentimento profondamente malinconico, talvolta anche doloroso e drammatico», una
«grave incombente malinconia» avverte Cesare Gnudi nelle nature morte di questa stagione, in quello che ancora lo studioso ama definire un «diario intimo, a carattere di confessione, di lirica frammentarietà»11.
Nei primi anni Quaranta, quando la guerra sembra ancora lontana dalla città e dalla vita di
tutti i giorni – roba da soldati al fronte – tra le opere di Morandi si trovano ancora dipinti
importanti, di forte presenza, perfino alteri, quali la coppia di Nature morte del 1940, come
precoci varianti di uno stesso motivo12 o la composizione dell’anno successivo con il bottiglione bianco e la bottiglietta turchina. Per queste tele vale ancora l’osservazione che André
Chastel propone in un suo articolo del 196913: «Tout ici est en effet “gravitas”, avec un sentiment tout italien de la densité immédiate des formes, qui a des racines immemoriales».
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Paesaggio, 1942 - (V. n. 399) - Bologna, Museo Morandi (deposito Zanichelli Editore S.p.A.)
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Quando il conflitto però si avvicina e prende a riguardare in prima persona la vita di ciascuno, anche le immagini si fanno più contratte, come ripiegate su se stesse, quasi che l’artista
preferisca chiudersi nella sua stanza per guardarsi dentro, per dare un volto al groviglio di
paure, rinunce, desideri, sospiri che ora sembrano non lasciar spazio alla speranza e al senso
del futuro.
Giunge così il momento delle Conchiglie dell’inverno 1942-1943, grumi di materia e di
colore in cui prevalgono i toni di terra, composizioni minime per le quali Francesco Arcangeli ha saputo trovare accenti particolarmente incisivi, laddove scrive di «un centrifugo,
un po’ folle sussulto», un sentimento che si lega «alla violenza organica, e quasi surreale e
squisitamente e rapidamente screziata, delle “Conchiglie”…»14. E, vorrei aggiungere, queste forme così contratte e fonde, animali notturni che respirano piano in fondo alla tana,
sono impastate di luce e paiono snodarsi, artigliarsi, aggrapparsi al reale proprio grazie a
quel cuore di luce che non le ha comunque abbandonate.
Poi, ai primi di luglio del 1943, Morandi va – come ogni anno – a Grizzana ove pensa di
trascorrere con la famiglia solo l’estate e dove invece resterà sfollato fino all’inizio del settembre 1944, per quattordici lunghissimi mesi che, dopo i primi tempi ancora abbastanza
‘normali’ (per lui normalità significa poter uscire a dipingere nei suoi luoghi d’elezione, le
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Natura morta, 1949 - (V. n. 689) - Madrid, Museo Thyssen
vallette di verde chiaro e le pendici limpide e luminose dei crinali montuosi fra Bologna
e Firenze), gli porteranno solo impossibilità di dipingere, riflessione, silenzio, lontananza,
solitudine, profondo malessere personale e dolore mutuato dal dolore degli altri15.
Ma la sua, personalissima, ‘opera al nero’ si è conclusa da tempo. La natura, comunque,
anche di fronte a difficoltà che via via diventeranno insormontabili, gli dona consapevole
rassegnazione e capacità di accettazione delle cose, forse anche qualche serenità.
Nei Paesaggi del 1943 bisogna guardare soprattutto il cielo: questo è un concentrato di
luce, è lo specchio fermo e sempre vario di come la luce interiore di Morandi trovi linfa nella realtà e vi si rifletta per trovare un corpo e un’immagine. A volte è di un azzurro intenso e
omogeneo, intatto come una gemma e neppure sfiorato da un soffio d’aria; a volte prende
sfumature color malva, quasi crepuscolari, e rabbrividisce sotto l’ala del mistero; a volte si
infittisce d’ombre verdi, mentre si insinua fra le chiome degli alberi con onde azzurre che si
sovrappongono in trasparenza e si caricano di liquidi umori naturali mentre portano luce
nel folto delle fronde. Nel cielo il sentimento della luce oscilla fra l’accorata denuncia della
solitudine – tutto tace, i luoghi sono spogli di uomini e di cose, ridotti al nucleo primo,
allo scheletro, all’essenza stessa della loro identità – e l’anelito alla pace, alla liberazione
dalla paura e dalla sofferenza, alla bellezza. Ecco, la bellezza: perché in immagini così scabre
e sospese, questo cerca Morandi e questo trova. Mi ritorna in mente una frase di Rainer
Maria Rilke, a proposito del suo amato paesaggio del Valais, vicino a Losanna16: «Questa
vallata […] dove gli alberi e le cose si trovano distribuiti in un modo così melodioso che si
potrebbe dire che – nella loro reciproca costellazione – essi producano lo spazio. D’altronde questa sensazione sarebbe impossibile senza la collaborazione della più dolce luce che
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ovunque rallenta la rapidità degli avvenimenti intermediari che sono l’arte dell’aria…». La
luce di Morandi non è «dolce» perché è mentale, ferma, totale, ma anch’essa «rallenta la
rapidità degli avvenimenti», anzi li congela in un tempo senza storia (e, poi, che meraviglia
quella «reciproca costellazione» di alberi e di cose che produce lo spazio!).
Soltanto i poeti riescono a dar voce a immagini come queste, anch’esse figlie della poesia,
ed è a un altro grandissimo poeta, tanto amato dall’artista, che ci possiamo rivolgere per
meglio comprendere la luce meridiana di questi commoventi Paesaggi del 1943-1944, una
luce che azzera i contrasti e porta al bianco. Penso a Giacomo Leopardi, alla sua ultima,
struggente «odorata ginestra, contenta dei deserti» e «che il deserto consola»17 e vedo questa
Grizzana di Morandi come un altro deserto, consolato, contento del fiore di bellezza che
egli fa spuntare anche mentre lontano, dietro quelle pendici così silenziose, il cannone non
cessa di rombare e passi sempre più minacciosi si avvicinano.
Poi il Male arretra, l’orrore si consuma e la pace ritorna come un sonare a distesa di campane, un abbraccio collettivo, una danza quasi ubriaca di gioia. L’artista, a modo suo, dalla
posizione appartata ma non laterale che ormai ha definitivamente scelto, partecipa a questo
tempo di rinascita e vive una delle sue stagioni più felici (si può usare questo termine per
Morandi? Credo di sì, se si tiene conto che per lui la felicità risiede in quella quotidiana
tranquillità, «priva di eventi significativi» – e queste sono parole sue – che gli consente di
dipingere in santa pace).
Ma lasciamo la parola alle persone che in quei giorni gli sono più vicine. Cesare Gnudi18,
riferendosi alle opere più recenti di Morandi, nel suo saggio del 1946 osserva che il suo
«carattere di acquietante serenità si fa più spiccato e costante negli ultimi anni. […] Egli
sembra infatti aver raggiunto ora una più classica chiarezza, in cui le ombre e le inquietudini romantiche, che, per quanto composte e sedate, davano talvolta una maggiore forza
di suggestione a certi fantasmi lirici degli anni precedenti, si attenuano e si dissolvono
per dare luogo a una più dispiegata e limpida serenità, a una luce che sfuma in tranquille
penombre. […] Il suo intimo orizzonte da qualche anno volge insistentemente al sereno.
[…] Il centro si è spostato: l’ago continua a oscillare, ma non raggiunge più da una parte
le zone più inquiete e doloranti dell’ispirazione precedente, mentre dall’altra tocca zone di
una più tersa limpidezza, di una più vasta serenità…».
Anche Arcangeli, come Gnudi, centra la sua analisi del Morandi del dopoguerra sulla
luce come asse portante della sua ricerca e della sua immagine, anche quando si tratta di
nature morte di oggetti e di fiori. Lo studioso parla di «un riflesso di cielo chiaro e spento:
un velo di grazia nel mondo antico di Morandi»; e poco più oltre precisa: «Morandi gioca
sui chiari, in questa fase, con un’altezza, una concentrazione, una distaccata ma profonda
poesia da richiamare, per analogia non per discendenza, quel raro, grande pittore di toni
argentati che è Guido Reni»19.
La dilatazione visiva, il senso dello spazio aperto che l’artista ha assimilato nei cieli spalancati di Grizzana, vengono ad arricchire il carattere delle nature morte e dei fiori del
1946-1950, ne alleggeriscono la pasta pittorica, ne sfumano i contorni facendoli quasi
levitare sul fondo della composizione. La luce a volte riempie i colori e dona loro corpo e
nitidezza; a volte sconfigge l’ombra nell’ostensione frontale, orgogliosa, di ogni presenza; a
volte si fa emozione pura in quel vibrar rosa di corolla appena affacciata sull’orlo del vaso
bianchissimo, porzione di luce candida e totale.
La luce come sentimento, si diceva. Ed è lo stesso Morandi, in una sua lettera, a confer-
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marcelo: al critico spezzino Ferruccio Battolini, in risposta a sue riflessioni comparse sul
foglio parigino “Prismes des Arts”, egli scrive nel giugno 1957: «Purtroppo per umanità si
intendono generalmente quegli affetti, quelle passioni, anche nobili, proprie degli interessi
e dei rapporti umani, ma che nulla hanno in comune con quei sentimenti che sono generati nell’animo umano, [nell’animo] dell’artista, dal mondo visibile, cioè dalle forme, dalla
luce, dai colori, dalle linee, dallo spazio. Questi sentimenti, questo mondo formale, di una
complessità e vastità infinite, inesprimibili colla parola, ma unicamente dalle forme, dalla
luce, dai colori, hanno diritto di chiamarsi umani»20.
Ecco l’estetica morandiana, espressa con la chiarezza che solo una reiterata e approfondita
Il tempo come durata
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riflessione può dare. Pochissime parole, ma preziose in un uomo che rifiuta per sé ogni
ribalta, lasciando tutto il palcoscenico alle sue immagini, luce, colore e spazio che si fanno
forma umana del visibile.
(da Il sentimento della luce, in catalogo della mostra Giorgio Morandi, a cura di Nino Castagnoli, Torino, GAM, maggio-settembre 2000, Torino, Allemandi, 2000, p. 67-72).
Cfr. M. Luzi, Sotto specie umana, Milano, Garzanti, 1999, p. 7.
Cfr. R. Longhi, cit., 1945. Cfr. anche Exit Morandi, cit., 1964: qui lo studioso riprende la definizione, con l’aggiunta di tre aggettivi diversi nell’intento di chiarire concetti di per sé contradditori
– severità, elegia – che solo il terzo fuoco del discorso – la luce – sa unificare e far convivere. Scrive
Longhi: «In quella sua lunga, instancabile, solenne elegia luminosa […] egli andò conducendo una
così poetica ricognizione di natura da non trovare pari nel cinquantennio che gli toccò attraversare
con la sua ombra densa di alto, austero viandante». Il termine «severo», sostituito dall’aggettivo «solenne», ritorna come attributo dell’uomo in quell’«austero» che dice di silenzi, di raccoglimento, di
passi solitari per tutto il cammino.
3
Cfr. C. Brandi, cit., 1942-1952, p. 25. Osserva anche lo studioso che la direzione che l’artista sceglie
è quella di «attribuire alla zona cromatica una valenza originaria di luce», così da costruire tale zona
cromatica come «sintesi fondamentale di luce, di spazio e di colore» (ibidem., p. 23).
4
Cfr. C. Gnudi, Morandi, Firenze, Edizioni U, 1946, p. 27-28.
5
Cfr. F. Arcangeli, cit., 1964, p. 167.
6
Cfr. F. Solmi, cit., 1978, p. 84.
7
Cfr. G. Floersheim, cit., 1959, p. 14.
8
Cfr. E. Tadini, Una luce intima alle cose, in Giorgio Morandi. Oggetti e stati d’animo, catalogo della
mostra, Brescia, Palazzo Martinengo, Milano, Electa, 1996, p. 23.
9
Cfr. M. Luzi, cit., 1999, p. 21.
10
Lettera di Morandi a Lamberto Vitali da Grizzana, il 13 novembre 1962.
11
Cfr. C. Gnudi, cit., 1946, p. 32-33.
12
Cfr. Catalogo Vitali, n. 256, 257 e 309.
13
Cfr. A. Chastel, Giorgio Morandi, in “Le Monde”, 2 gennaio 1969: «Tutto qui è infatti gravitas
con un sentimento tutto italiano della densità immediata delle forme che ha radici immemorabili»
(anche il grande storico dell’arte francese privilegia il concetto di « sentimento»).
14
Cfr. F. Arcangeli, cit., 1964, p. 300.
15
Cfr. per i paesaggi degli anni di guerra il mio saggio introduttivo al catalogo della mostra L’immagine dell’assenza, cit., 1994, qui ripubblicato a p. 81.
16
Cfr. R.M. Rilke, lettera del 2 agosto 1921 scritta ad André Gide dal castello di Muzot-sur-Senne,
pubblicata in Quella segreta lentezza. Lettera a André Gide, Pistoia, Edizioni del Vento, 1999, p. 8.
17
Cfr. G. Leopardi, Poesie e prose, I, Milano, Mondadori, 1987, p. 124-125.
18
Cfr. C. Gnudi, cit., 1946, p. 32 e seg.
19
Cfr. F. Arcangeli, cit., 1964, p. 314 - 315.
20
Lettera di Morandi a Ferruccio Battolini, giugno 1957 (cfr. anche p. 121 e nota 1 a p. 124).
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i affascina in Morandi il senso del tempo. Gli studiosi hanno a lungo parlato del
suo spazio, rintracciandone le radici nella ‘rivoluzione’ cézanniana e rivendicandone la purezza di nuovo Rinascimento, ma non altrettanta attenzione è stata riservata
alla seconda, fondamentale dimensione dell’esistere.
Eppure il tempo in Morandi è davvero dimensione primaria, ineludibile: è durata,
innanzitutto, e poi invenzione, scommessa, ardimento. Nella realtà fenomenica egli
cerca la persistenza, il non mutare, l’illusione di un tempo immobile. Il cambiamento,
continuo e inarrestabile, è invece in lui che si rispecchia negli oggetti d’atelier, rendendoli di volta in volta diversi perché è lui, istante per istante, a essere diverso e quindi
a vedere con occhi nuovi ciò che gli sta dinnanzi. La radice stessa della parola ‘tempo’
aiuta a comprendere qualche cosa di più: quell’antico tem che ci riporta alla compiutezza della lingua originaria e che indica il tagliare, lo scandire, il dividere, è alla base
di un altro topos fondamentale della nostra cultura, quel ‘tempio’ che è spazio del sacro
e del divino.
Nasce il sospetto che le due categorie su cui è basata la logica binaria non siano altro che
una dimensione unica, tagliata in porzioni, scandita per poterla affrontare e vivere.
Morandi ha compreso questo, ha sentito che spazio e tempo sono un’unica realtà, assumendo la nozione dell’Uno per organizzare la ‘mobile continuità degli stati’ in cui si
manifesta la vita. Nel tradurre in frammenti complementari la continuità dell’essere, egli
s’avvale della coordinata spazio come dimensione del visibile, campo disponibile per i
fenomeni, e affida alla magia del tempo l’inafferrabile, musicale pienezza dei segni.
In lui, umanamente, il tempo si fa anche memoria e distensione di ogni turbamento,
secondo una limpidezza di visione che s’apparenta alla poesia, dagli idilli leopardiani ai
versi distesi di Montale e Cardarelli.
Come quest’ultimo, anche Morandi potrebbe confessare: «amo i tempi fermi e le superfici chiare»1. Ancora spazio e tempo insieme, accostati nel verso come fusi nella visione.
Spesso la ricerca di Morandi è stata avvicinata a quella dei poeti, non certo per un sospetto di letterarietà nel suo lavoro, che è anzi quanto di più visivo e pittorico si possa
pensare: è notissimo il riserbo dell’artista nei confronti della parola, il suo non volere
rilasciare interviste, né tanto meno mettere per iscritto la sua poetica; piuttosto per
un parallelismo di obiettivi, per un’identità di problematiche affrontate con strumenti
dissimili quanto possono esserlo due fratelli.
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Il tempo come durata
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Oltre il tempo come dimensione dell’essere e quello privato, della memoria e delle
sensazioni, vi è anche il tempo della storia, quello degli eventi umani in cui ognuno è
chiamato a vivere. Troppo spesso è stato detto che Morandi è fuori da tutto ciò, come
se il suo vivere per l’arte valesse come estraniarsi egoistico e cieco dalle vicende del suo
tempo.
Un Morandi che resta indenne e neppure scalfito da due guerre mondiali e dal cambiamento di un intero mondo è il prodotto di una rozzezza interpretativa che può spiegarsi
solo con l’affrettata superficialità di tante espressioni d’oggi. Ma questo artista, difficile
e schivo, definito da coloro che l’hanno realmente conosciuto come un uomo buono, di
grande intelligenza e di alta cultura, è il contrario della fretta e della genericità; si nutre
di riflessioni e di sensibilità a carne viva, difesa da ogni clamore perché troppo recettiva
e pronta a registrare ogni minima variazione d’atmosfera.
Le sue non sono dunque opere avulse dal suo tempo, ma immagini che di questo nostro
mondo sanno sintetizzare l’essenza positiva e profonda, facendone affiorare il meglio o,
quanto meno, l’aspirazione a esso, il desiderio del bello.
Gli oggetti di Morandi: questi minimi frammenti di realtà in cui pare concentrarsi
ogni suo interesse e che invece si rivelano come concisi pretesti all’ideazione e al fare
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Natura morta, 1957- (V. n. 1055) - Bologna. Museo Morandi
artistico. Con acutezza e forza Werner Haftmann ricorda la riflessione di Cesare Pavese
a proposito del ‘miracolo’ per cui un oggetto osservato a lungo, senza posa, a un tratto
si svela incontaminato e sprigiona il suo mistero2. Questa è una chiave preziosa per leggere Morandi e per comprendere la ragione della sua fedeltà alle semplici cose d’atelier,
che egli vede come parti di quel tutto che va esplorando nel microcosmo senza confini
del suo studio.
Quali fantasie gli occupano la mente quando, seduto all’angolo del letto, se ne sta a
lungo in silenzio a contemplare il ‘teatro della realtà’ composto sul tavolo vicino al
cavalletto? Che cosa vede dentro e attraverso le gialle bottiglie persiane, o il giocattolo
in celluloide bicolore, o l’ampolla d’opaline, o la sagoma musicale dell’orologio? Certamente se stesso, misurandovi l’intensità dei propri mutamenti e la coerenza di una
posizione intellettuale che non si lascia confondere da richiami illusori.
Vi ritrova anche intatto il suo senso della meraviglia, la capacità di stupirsi di fronte alla
bellezza dei suoi modelli che possono «restare per ore immobili, senza parlare, come una
cosa necessaria che non ha bisogno di agire per essere», qualche cosa che gli fa dimenticare che il tempo passa (il tempo degli uomini…), perché è sempre al suo posto. Queste
parole sono di Marguerite Yourcenar a proposito del suo Michelangelo ne Il tempo,
grande scultore3, ma credo che bene si attaglino anche a Morandi e al suo rapporto con
gli oggetti pre-scelti come forme, ora semplici e ora complesse, ma comunque ferme
e stabili; forme che non tradiscono. E si comprende meglio anche il rifiuto dell’artista
nei confronti della figura umana e di tutto ciò che può muoversi e cambiare, perché
nelle sue opere soltanto la luce può – anzi, deve – mutare, come trasposizione fisica del
tempo, trascinando di volta in volta in questa sua continua trasformazione tutto ciò
Percezione e allusione nell’arte
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matura di Giorgio Morandi
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che tocca: composizioni d’atelier che, nella luce, trovano la propria anima; cieli vuoti di
nubi e di voli sopra terre vuote di uomini e di animali; fiori senza più linfa nè umori,
fiori come offerte, come doni, corolle di seta e mazzolini seccati in una polvere di miele
che filtra e rende ancora più struggente la magica luce morandiana.
(da Considerazioni a margine di una mostra, in catalogo della mostra Giorgio Morandi.
Mostra del Centenario, cit., 1990, p. 11-12).
Note
Cfr. V. Cardarelli, Saluto di stagione, v. 27, in Poesie, cit., 1942-1987, p. 54.
Cfr. W. Haftmann, Giorgio Morandi. La vita esemplare di un pittore, in catalogo della Mostra del
Centenario, cit., 1990, p. 15. Il brano di Cesare Pavese è tratto da I dialoghi con Leucò (Torino,
Einaudi, 1947-1973, p. 165). Cfr. anche qui a p. 176 e nota 6 a p. 183.
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Cfr. M. Yourcenar, Sistina, in Il tempo grande scultore, Torino, Einaudi, 1985, p. 13.
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a qualche tempo la critica più attenta riconosce un valore particolarmente alto all’opera che Morandi già sessantenne compone negli anni Cinquanta e Sessanta,
una volta fatta propria la lezione dei maestri, rielaborati gli stimoli delle avanguardie e
superata ogni insicurezza esistenziale ed espressiva. Mentre all’estero il coro unanime degli
studiosi vede in questa pittura il vertice di tutta l’arte morandiana, forse soltanto in Italia,
e per una vecchia consuetudine che si tende a non mettere in discussione, vi è ancora chi
può considerare Morandi principalmente, se non unicamente, come comprimario della
stagione metafisica e maestro del Novecento, senza riconoscerne il ruolo irripetibile di
protagonista dell’arte di tutto il ventesimo secolo, di cui esprime l’intensa inquietudine
interiore come l’aspirazione (combattuta, negata, tradita e pur irrinunciabile) alla bellezza
e all’armonia.
Morandi è artista difficile e segreto, di «luminosità sommessa»1, e non è fortunatamente
possibile spiegare la sua poesia, smontarne in concetti e parole il flusso musicale, restituirne il palpito vitale e lo struggimento emotivo. Ogni sua opera va vista, sentita, accettata o
rifiutata in profondità. La parola, quando non sia essa stessa poesia, deve restare in sordina
rispetto all’immagine, così ricca di sensazione, così densa di significato, così immediata
e totale nella sua capacità di sintesi espressiva. Per avvicinarsi al mondo dell’artista e per
cercare di comprenderne i caratteri linguistici si può piuttosto tentare di analizzarne i
meccanismi di costruzione dell’immagine, quello che Ernst Gombrich definisce lo «schema di rappresentazione»2.
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Il metodo
Tre sono le fasi portanti del suo processo creativo. In primo luogo la prefigurazione,
cioè l’assidua e costante attività concettuale che nella mente individua e mette a fuoco
le immagini. Morandi non parte dalla realtà, ma a essa arriva, anzi con essa si confronta,
muovendo da ciò che ha già dentro di sé (non è forse David Hume a osservare che «la
bellezza delle cose esiste nella mente di colui che le contempla»?).
In secondo luogo egli cerca insistentemente il contatto con il visibile – parola amatissima
dall’artista, che in ciò rivela la piena appartenenza alla cultura del suo tempo – e lo cerca
attraverso la percezione, cioè la presa di coscienza dell’esperienza sensibile, un ponte dif-
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Percezione e allusione nell’arte matura di Giorgio Morandi
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Natura morta, 1957 - (V. n. 1026). Nella composizione tutta frontale,
l’immagine appare satura e compatta fino a formare un rettangolo quasi perfetto
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ficile ma sicuro gettato tra l’uomo e il reale affinché il primo possa riconoscere il secondo
e abitarlo. Si tratta per l’artista di un approccio sostanzialmente di tipo gestaltico, cioè
di forma e di rapporti tra le forme, di analogie e di associazioni, di organizzazione e di
orientamento nello spazio.
E poi, dopo aver rinnovato il patto di fedeltà al visibile, dopo essersi avvalso ancora una
volta di quell’appiglio al reale di cui non può e non vuole fare a meno, Morandi giunge
alla restituzione di ciò che ha pensato e visto attraverso l’immagine artistica, una sorta
di ricostruzione cognitivista, fortemente soggettivizzata, di tutti i dati in suo possesso,
sensoriali, percettivi o concettuali che siano.
Tre momenti, dunque, nell’arte morandiana, reciprocamente complementari quanto indispensabili: la prefigurazione, la percezione e la restituzione. Ma vi è qualche cosa di più,
un quid troppo profondo per essere colto appieno e insieme troppo importante per essere
trascurato, anche se le parole si rivelano ampiamente insufficienti alla sua definizione:
dalle intuizioni della mente, attraverso le illusioni dei sensi – organizzate in linguaggio e
interpretate secondo un preciso metodo di rappresentazione – l’artista attinge all’evocazione e alla visione, vera e propria ‘chiamata’ dal dentro al fuori la prima, contemplazione
speculativa la seconda, in termini gestaltici «esplorazione attiva»3 e, secondo la teoria fenomenologica, «rivelazione di essenza».
Sì, perché Morandi, apparentemente schivo e lontano dai rumori del mondo, è invece più
che attento a ciò che nel mondo si pensa e si dice di importante. Se fra le due guerre il suo
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Natura morta, 1955 - (V. n. 1056: abitualmente datata 1957 e già nella collezione di F.P. Ingrao,
la tela è ora conservata al Museo Morandi di Bologna). La composizione in diagonale – che qui
si arricchisce di un ritmo quasi circolare – toglie fisicità agli oggetti, ‘ritagliandone’ alcuni sul tono
scuro dei volumi retrostanti e trasformandoli in parvenze fantasma
referente estetico è l’ermetismo, negli anni della piena maturità egli pare ampliare ancora
il suo orizzonte, svolgendo le sue intuizioni delle stagioni precedenti4 per accostarsi con la
consueta cautela di giudizio al nuovo clima culturale creato dall’affermarsi della fenomenologia e dell’esistenzialismo.
Ciò che egli chiama il «visibile» è il fenomeno, è il manifestarsi della realtà, è la sua apparenza ottica, sensoriale. Ma se questo è dato, se è ciò che noi immediatamente possiamo
cogliere, il problema è allora ricostruire le forme del reale di cui tali apparenze sono il
riflesso, individuarne il codice e avvalersene per dare vita a una nuova, impregiudicata,
persino insperata realtà.
Dopo aver selezionato in base a predisposizioni concettuali e alla forza dell’impatto visivo
una parte del visibile, eleggendola secondo un procedimento di sineddoche a rappresentazione del tutto, Morandi ne approfondisce l’osservazione fino a conoscerla in ogni suo
aspetto; poi cerca di estrapolarne la forma, semplificandola in elementi matematici in
cui il fenomeno pare purificarsi dei suoi elementi empirici per attuare quella che Husserl
definisce la «riduzione eidetica», la rivelazione dell’essenza; infine ricompone il reale in
un’immagine inedita e del tutto autonoma rispetto ai dati di partenza, trasformando la
concettualizzazione e l’osservazione in un unico gesto estetico in cui la persona entra al
completo, con i sensi, la ragione e la fantasia, cioè con la capacità di inventare rappresentazioni complesse diverse dalla realtà oggettiva.
È ancora una volta Roberto Longhi a fornire la chiave per comprendere la poetica morandiana, laddove riflette della «sua riduzione del soggetto che gira al minimo; l’abolizione
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Natura morta, 1953 - (V. n. 849). Le forme trovano posto nella figura d’insieme, costruita
all’interno di una vera e propria gabbia spaziale.
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in ogni caso, del soggetto invadente che parte in quarta e si divora l’opera e l’osservatore.
Oggetti inutili, paesaggi inameni, fiori di stagione, sono pretesti più che sufficienti per
esprimersi ‘in forma’; e non si esprime, si sa bene, che il sentimento»5.
Queste sono parole del 1945, che ovviamente non possono ancora tener conto delle opere
successive, degli straordinari mutamenti interni che Morandi apporterà alla sua immagine
negli anni Cinquanta e Sessanta, ma che li anticipano con quel tanto di facoltà profetica
che la lunga frequentazione dell’artista e l’acuminata sensibilità critica conferiscono allo
studioso. Due sembrano i concetti-chiave fondamentali per accostarsi a Morandi: quella
«riduzione del soggetto che gira al minimo» e l’avvicinare senza paura i termini di forma
e sentimento, dichiarandoli inscindibili e l’un l’altro necessari.
L’artista lavora alla radice dell’immagine, spogliandola di ogni abbellimento, chiudendo
occhi e mente alle lusinghe della decorazione per ascoltare soltanto il cuore nascosto del
reale, quel pulsare di vita che ogni sua particella conserva e che egli sa tradurre in forma,
intesa non come aspetto esteriore delle cose, ma come qualità intrinseca al sentimento
delle cose stesse. Sembra veramente difficile usare certi termini, al giorno d’oggi in auge
soltanto nei loro significati più banali: il sentimento non è sentimentalismo, né debolezza
di fronte alla forza della ragione; è invece la capacità di sentire ciò che sta intorno trasformando i dati sensoriali in emozioni, arricchendo la ragione con la fantasia e donando un
pizzico di pathos, forse di luce, al grigiore della vita quotidiana.
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Natura morta, 1949 - (V. n. 674) - Bologna, Museo Morandi.
Come quello del 1962 sotto riprodotto (V. n. 1281), il dipinto testimonia della
trasgressione spesso operata da Morandi nei confronti della prospettiva lineare: anche
gli oggetti posti a scalare sulla diagonale sono grandi come quelli in primo piano e
sembrano persino crescere man mano che vengono dipinti più in alto
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Natura morta, 1959 - (P. 1991, n.1959/29) - Bologna, Museo Morandi.
Il colore-luce proprio all’artista caratterizza in modo particolare la sua pittura all’acquerello.
I bordi cromatici, che valgono a definire le forme, emettono costanti vibrazioni luminose
Lo sguardo e l’oggetto
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Lo strumento primo di cui Morandi si avvale per giungere a tanto, a quella che può essere
senz’altro definita come una nitida geometria dell’anima – rigore e poesia fusi nell’intensità di un profondo sentimento del reale –, è lo sguardo, il saper vedere, usare l’occhio
come mezzo principe per trapassare l’apparenza e giungere a intravedere l’essenza. Il suo è
uno sguardo affilato, carico di esperienza e non facile all’inganno, ma comunque è sempre
disponibile, scevro di pregiudizi e nuovo davanti allo stesso immutato modello come se
ogni volta fosse la prima.
C’è una frase di Cesare Pavese, tratta dai Dialoghi con Leucò6, che dà voce a questo processo di svelamento nell’approfondimento: «sappiamo che il più sicuro – e il più rapido
– modo di stupirci è di fissare imperterriti sempre lo stesso oggetto. Un bel momento
questo oggetto ci sembrerà – miracoloso – di non averlo visto mai».
Le soluzioni che Morandi sa trarre dalla sua ripetizione consapevole e differente sono
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di vasi su un tavolo, 1931 - (Catalogo Vitali Incisioni, n. 84).
In questa acquaforte si nota una precoce e personale applicazione
della figura di Kanisza, o fenomeno dei «margini quasi percettivi»
tante quante sono le sue opere; basta considerare, ad esempio, come sappia trasformarsi
in personaggi ogni volta diversi quel sapientissimo ‘Houdini’ che è il bottiglione bianco
a tortiglioni già preferito dall’artista per le nature morte del 19167 e poi usato in reiterate
occasioni fino a renderlo protagonista assoluto sul proscenio della composizione, come
nell’intensa Natura morta del 1955, ove campeggia nel suo splendore di luce pura resa
ancor più abbagliante dal contrasto con la densità d’ombra della boccetta scura, che pare
un chierichetto davanti all’altare o un cavaliere inginocchiato davanti al suo signore8.
È noto come ogni artista ‘veda’ meglio e di più di un osservatore comune proprio in virtù
dell’attenzione costante, dell’esercizio e della messa a punto dello strumento-occhio; e lo
sguardo di Morandi si è certamente perfezionato nella pratica e nell’esperienza, ma si può
ipotizzare per lui una particolare capacità di apprensione visiva, una naturale acutezza
retinica di forme e colori, poi affinata nella ricerca visiva sugli oggetti e sugli scorci di
paesaggio, sempre gli stessi, veri e propri ‘modelli’ di un terzo atelier fatto d’aria e di luce,
delimitato solamente dai profili dei crinali appenninici ma disciplinato da regole analoghe
a quelle che valgono dentro lo studio in via Fondazza o nella camera bianca delle ultime
stagioni di Grizzana.
Come le Case della Sete, ritagliate lassù, sulle pendici del monte, o le Case del Campiaro, ridotte a cifra essenziale di un codice accessibile a pochi, così gli oggetti di atelier si
scelgono e si raggruppano ogni volta secondo una specifica logica interna alla singola
composizione e appaiono identificati da un altrettanto specifico punto di vista: ora orgo-
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Percezione e allusione nell’arte matura di Giorgio Morandi
gliosamente frontale e senza ombre che possano mitigare la densità satura dell’immagine;
ora ripreso dall’alto, quasi a dar la sensazione di un improvviso calare in picchiata, che
rimpicciolisce ogni cosa; ora come ribaltato in avanti, verso l’osservatore, secondo un
principio sapiente di prospettiva invertita, di lontana ascendenza bizantina e di ben più
prossima lezione cézanniana; ora ampliato in un taglio dal sotto in su, quasi a far fiorire
l’insieme e a farlo lievitare in ogni sua componente; ora svolto lungo la diagonale, secondo
un punto di fuga che scala ritmicamente le presenze e toglie loro fisicità, trasformandole
spesso in parvenze fantasma, ombre di una realtà inafferrabile.
Morandi conosce a fondo la prospettiva lineare, ma non sempre e non necessariamente la
applica, dando consapevolmente vita a immagini contrarie alle sue leggi o, per meglio dire,
da queste disgiunte. Raggruppando la composizione in uno spazio ristretto, non è tenuto
a rispettare la convenzione pittorica della grandezza relativa degli oggetti – più grandi i più
vicini e più piccoli i più lontani – né quella della convergenza apparente di rette parallele
all’orizzonte: le sue forme dipinte stanno nello spazio, trovando riferimento unicamente
l’una nell’altra e mantenendo le proporzioni e i rapporti di grandezza dei modelli originali, anche quando tutte insieme vengono sottoposte a un processo di ingrandimento o di
rimpicciolimento; alla convergenza delle rette egli preferisce il parallelismo delle diagonali
o l’incrociarsi perpendicolare delle coordinate cartesian e, così da costruire una vera e propria gabbia spaziale ove ogni forma trova il suo posto nella figura d’insieme.
Anche gli oggetti posti a scalare sulla diagonale sono grandi come quelli in primo piano, così come lo sono quelli, del tutto mentali, che posano sulla linea dell’orizzonte e
che, piuttosto che arretrare progressivamente verso il fondo dell’immagine, sembrano
incombere sul primo piano e farsi più grandi man mano che sono dipinti più in alto. Va
sottolineata in modo particolare l’importanza di questa seconda linea – l’orizzonte della
composizione – che definisce il piano d’appoggio, fino a creare una zona spaziale a fascia
su cui si stagliano le sagome degli oggetti. A volte, quasi a voler forzare lo spazio piano
in senso tridimensionale, Morandi delinea un orizzonte curvo come quello dei profili di
monti che abbracciano le case dell’Appennino, e in tal modo avvolge le forme e le porta
in avanti fin quasi a farle inchinare davanti all’osservatore.
Non riconoscendo il valore assoluto della prospettiva aerea – per cui quanto più la luce è
concentrata e nitida tanto più gli oggetti sembrano vicini, e quanto più questa è diffusa,
tanto più essi appaiono indistinti e si allontanano – egli rappresenta le Case della Sete, in
realtà lontane sul monte, distinguibili a occhio nudo appena come due macchie più chiare
sul folto della vegetazione, come due quadrati vuoti di materia ma limpidissimi di forma
e luce, ritagliandoli dal contesto e ingrandendoli a immagine mentale e senza referenti
naturalistici, con l’espediente di osservarli e isolarli attraverso le lenti di un cannocchiale
o l’ancor più semplice e immediato foro rotondo o quadrato in un foglio di cartoncino
bianco, usato come l’obiettivo di un fotografo o la macchina da presa di un regista. Tutto
ciò rafforza la certezza che nella pittura di Morandi non vi sia nulla di naturalistico, di
mimetico, di referenziale e che egli ricerchi – anche attraverso la trasgressione prospettica
e lo spaesamento dell’oggetto sempre uguale a se stesso – nuove aperture per il pensiero,
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La prospettiva: rispetto e trasgressione
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Natura morta, 1962 - (Catalogo Vitali, n. 1260). Avvalendosi di un procedimento analogo a quello
della figura gestaltica di Rubin, Morandi porta in evidenza una porzione di fondo fino a delinearla
come nuova, inattesa forma autonoma (è la zona ‘a goccia ribaltata’ creata dall’ansa della brocca)
la scoperta sempre nuova della forza dinamica del reale, riconosciuta nella continua metamorfosi del visibile9.
Egli rispetta al contrario (e anzi predilige) la regola della trasparenza – secondo la quale ciò
che lascia trasparire è davanti a ciò che traspare – e lo fa nei vetri prismatici dei primi anni
come negli acquerelli più incantati e illusori degli anni Sessanta. E fa propri il principio
della sovrapposizione (con le forme che si nascondono l’una dietro l’altra, fin quasi a fondersi in figure impreviste di inedita geometria piana) e il gioco luce-ombra, per conferire
spessore e profondità laddove non aiuta il digradare dei piani e delle grandezze.
Il colore
Se è vero che «il colore è una qualità della nostra sensazione»10, Morandi usa questa qualità
al sommo grado come dote innata e come acquisizione dell’esperienza. È Aldous Huxley
a osservare che «la capacità di ricordare è il fondamento della percezione», prendendo
le distanze dalle teorie gestaltiche come dai più tradizionali approcci fisiologici e neurologici all’atto del vedere11, e il nostro artista è su questa stessa strada, memorizzando i
colori, selezionandoli nella sua mente come sensazioni attive e utilizzandoli come indizi
percettivi di rilevanza primaria. I caratteri del colore sono tre: la luminosità, la tonalità e
la purezza, e nella pittura morandiana ognuno viene attentamente calibrato. Qui tutto è
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Percezione e allusione nell’arte matura di Giorgio Morandi
luce, la pennellata e la pasta cromatica si nutrono di luce, lo spazio respira luce, le forme
si imbevono di luce, persino i bordi cromatici che definiscono gli oggetti vivono di differenti intensità di luce, mentre il chiaroscuro rafforza il volume della figura e ne sottolinea
il distacco dallo sfondo.
Morandi usa soltanto colori armonici e complementari e predilige le tinte fredde, il verde
(quante sono le sfumature del verde morandiano? è possibile contarle e, soprattutto, è
possibile trovare a tutte un nome?), lo sfumare dei grigi-madreperla e dei beige-miele
(qui un’ultima scintilla di calore è rimasta), il lilla e il viola che nella stagione estrema
vanno sfumando in un nero dolente e pur ancora colmo di colore. Qualche volta però
il mormorare sommesso dei grigi, dei bianchi e degli avori è scosso dallo squillare rosasalmone di un barattolo, dall’avanzare dell’azzurro-cielo nei fondali dipinti delle nature
morte, dall’imporsi del giallo paglierino delle bottiglie persiane. Qui Morandi opera per
«contrasto di quantità», evidenziando all’interno di un’area di cromia apparentemente
uniforme una porzione di colore squillante. E tutto prende vita, come sotto l’influsso di
un incantesimo gioioso.
I suoi toni non sono mai saturi, sono intermedi e neutri, sono puliti ma non puri perché
in sé contengono sempre tante altre, diverse, possibilità di colore; possibilità che magari
l’artista non svilupperà, ma che restano all’interno del singolo tono come ricchezza e vibrazione. Il massimo della rarefazione egli lo raggiunge nella pittura all’acquerello, ove è
sufficiente un velo di colore per suggerire la forma e trasformarla in luce.
Morandi si serve del colore anche per sottolineare la profondità delle cose nello spazio
e per restituire la parvenza del reale, preferendo alle leggi artificiali della prospettiva il
fascino tutto sensoriale, e fantastico, del colore. Reinterpretando Cézanne, fonde qualità
formali e qualità cromatiche nei «volumi colorati» (e su questo Cesare Brandi basa la sua
estetica del «colore di posizione»12) trasformando anche l’ombra in volume, in nuova
figura dello spazio; posa porzioni di colore più caldo o più denso su uno sfondo freddo o
neutro, e crea il distacco, la diversità; al contrario, utilizza toni vicini, lo svariare leggero
di luminosità, per sprofondare le forme nel fondo o per farle emergere appena, come se
stessero nascendo proprio ora alla vita, in un processo metamorfico che dall’indistinto
conduce alla pienezza del distinto.
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Figure e principi percettivi
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Di fronte a un’opera d’arte, a un’opera segreta e coinvolgente come quella di Morandi,
si avvertono due tentazioni, l’una all’altra opposta. Da un lato si tenderebbe a pensarla
come Ruggero Pierantoni, laddove commenta che «forse, anche se è seducente, è ‘irragionevole’ cercare una struttura grammaticale delle immagini»13. D’altra parte, però è forte
il desiderio di comprendere qualche cosa di più della sua struttura e dei suoi meccanismi,
anche perché è ben noto che l’illusione ottica, «errore percettivo», proiezione immaginaria
di una realtà complessa e ingannatrice, può essere letta insieme a Richard Gregory come
un «affascinante fenomeno della nostra esperienza, che effettivamente funge da ponte fra
arte e scienza»14.
Senza irrigidirne il significato, può essere dunque interessante considerare quali figure e
principi della psicologia della percezione vengano fatti propri da Morandi come elementi
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Natura morta, 1963 - (V. n. 1322) - Le forme come appoggiate l’una
sull’altra esemplificano il fenomeno percettivo che Kanisza definisce
«complemento amodale»: una figura è parzialmente coperta da un’altra,
ma viene percepita come forma compiuta, poiché la forza percettiva
tende naturalmente a completare l’immagine
interni al farsi dell’opera, fattori dinamici che contribuiscono sapientemente a accrescerne
la magia visiva. E, innanzitutto, va osservato che tali accorgimenti percettivi, pur presenti
sporadicamente anche nelle opere realizzate in precedenza, aumentano e si affinano nei
dipinti degli anni maturi, allorché il rapporto con il visibile diviene via via più complesso
e tende alla totale spoliazione dei dati oggettivi a favore del suggerimento percettivo, dell’allusione, del riecheggiamento.
Tra le figure gestaltiche preferite dall’artista vi sono certamente quella di Rubin15 e quella
di Kanisza16. Notissima è la prima, che mostra alternativamente nel contrasto bianco-nero
i profili di un vaso e quelli di due volti affrontati, proponendo una doppia possibilità
percettiva e l’alternanza dell’immagine. Morandi gioca su tale ambiguità, quasi a voler
dimostrare la fragilità di un’altra osservazione della psicologia della visione, secondo cui
abitualmente «lo spazio fra le figure non ha forma»17, e facendo avanzare la porzione di
sfondo racchiusa fra i profili degli oggetti fino a delineare una nuova, inattesa realtà.
La figura di Kanisza, o fenomeno dei «margini quasi percettivi», consiste nel dare risalto al
quadrato bianco non disegnato mentre viene definito ciò che lo comprende, così che nel
rapporto positivo-negativo assuma rilievo e dignità di forma ciò che non c’è.
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Percezione e allusione nell’arte matura di Giorgio Morandi
Morandi non può che restare affascinato da questa possibilità di andare al di là dell’apparenza per far emergere il non detto, il non visto, e applica in svariate occasioni tale figura,
a partire dalla notissima acquaforte del 1931 con gli oggetti non disegnati su un fondo di
presenze scure e fortemente incise e fino alle nature morte degli anni Cinquanta, ove un
vero e proprio velario scuro abbraccia le forme chiare in primo piano, lasciandole affiorare
come fantasmi luminosi18. E poi, piccoli gioielli di raffinatezza, appaiono gli acquerelli
con i paesaggi di Levico del 1957, ove la sagoma svettante della ciminiera – non sottolineata in alcun altro modo – è come ritagliata nel cielo azzurrino e nel verde liquido della
vegetazione all’intorno. In entrambi i casi il problema centrale è quello del rapporto fra
figura e sfondo, nodo centrale della pittura morandiana, tesa alla messa a fuoco di una
forma tra le forme e al tempo stesso ossessivamente attenta ai rapporti, alle analogie, all’insieme di quel frammento del visibile di volta in volta posto sotto l’occhio indagatore
dell’artista.
È ancora Gaetano Kanisza a riportare esempi di un particolare e interessantissimo fenomeno percettivo, il cosiddetto «completamento amodale» che si verifica quando una figura è parzialmente coperta da un’altra e quindi non appare integralmente delineata, ma,
nonostante ciò, viene percepita dall’osservatore come forma compiuta19. Morandi è maestro nell’allusione a ciò che c’è ma non si vede, e non può certo trascurare un fenomeno
così intrigante, sfruttando nelle sue composizioni di oggetti come nei suoi paesaggi tutta
la forza percettiva che si sviluppa in tali situazioni e che tende al completamento dell’immagine. Le sue infatti sono forme concettualmente ed emotivamente aperte, che lasciano
margini di interpretazione abbastanza ampi, ed è l’osservatore a doverle completare in
base alle sue congetture percettive, di fantasia e di sentimento (intendendo, ancora una
volta, questo termine come un sentire ricco di emozione e psichicamente coinvolto).
E Morandi non si ferma qui, perché suggerisce anche il ribaltamento dell’immagine,
costruendo un sistema di transizione fra due o più figure che si incastrano l’una nell’altra
come facce capovolte della stessa forma. È ancora il colore a determinare il positivo e il
negativo, la figura e lo sfondo, ma a livello formale e poetico le figure si equivalgono e si
completano20.
È infine possibile riconoscere come a fondamento di tutta la sua opera stiano due principi
percettivi di primaria rilevanza: quello di simmetria e quello di chiusura. Il primo ci dice
che viene più facilmente colta come figura la forma che si mostra simmetrica rispetto agli
assi cartesiani del campo percettivo; il secondo si riferisce al fenomeno per cui a livello
gestaltico la forma chiusa viene percepita meglio di ogni altra.
Morandi vive di simmetria e di ordine, e trasgredisce alle loro indicazioni soltanto allorché vuole insinuare un margine di dubbio e di inquietudine, quando vuole far vibrare
al diapason la sua immagine; e spesso rinforza ancor più l’impostazione cartesiana della
superficie creando l’asse orizzontale suppletivo della linea del tavolo-orizzonte, cui non
infrequentemente aggiunge una seconda linea parallela per determinare una zona cromatica e spaziale definita – figura a sua volta dello spazio – all’interno del campo percettivo
d’insieme.
Parimenti, o forse più, l’artista predilige la forma chiusa della composizione, quasi sempre
contenuta in una figura geometrica semplice, mentre lascia aperte le forme dei singoli
oggetti che paiono quasi trasmigrare l’una nell’altra fino a fondersi in inattese nuove
presenze; ma l’insieme è chiuso, è compatto, ma sempre con qualche sussulto, qualche
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accenno di disequilibrio in un elemento posto al margine, in un’ombra che modifica la
geometria piana come suggerimento di dimensioni altre.
L’impatto visivo resta nitido, apparentemente semplice, ridotto all’essenziale, anche quando nelle opere estreme gli oggetti organizzati nell’immagine si aprono alla superficie del
fondo per lasciar fluire al loro interno l’aria e la luce che li sostengono e li rendono vivi,
per rendere praticabile la soglia fra l’anima e il mondo, per dare immagine a quello spazio
ulteriore in cui tutto è luce, forme reali e virtuali si fondono, e i confini evanescenti, gli
interstizi fra le figure, gli affioramenti conducono gradualmente, senza affanno, alla percezione dell’assenza: che non è il vuoto o, peggio, il nulla, ma pura energia vitale.
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(dal catalogo della mostra Morandi ultimo. Nature morte 1950-1964, a cura di Laura Mattioli Rossi, Verona, Galleria dello Scudo, dicembre 1997 - febbraio 1998; Venezia, Peggy
Guggenheim Foundation, aprile-settembre 1998 (catalogo a cura di Laura Mattioli Rossi
e Marilena Pasquali, Milano, Mazzotta, 1997, p. 41-50).
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Cfr. C. Brandi, cit., 1942-1952, p. 8.
La citazione, tratta da E. Gombrich, Arte e illusione, Torino, Einaudi, 1965, è riportata in L. Maffei - A. Fiorentini, Arte e cervello, Bologna, Zanichelli, 1995, p. 8.
3
Cfr. R. Arnheim, Arte e percezione visiva, Milano, Feltrinelli, 1962, p. 55.
4
La Natura morta a tortiglioni del 1916 (cfr. catalogo Vitali, n. 28, qui riprodotta a p. 35), della raccolta Mattioli, ora presso la Peggy Guggenheim Foundation di Venezia, rivela in tempi assai precoci
quell’attenzione dell’artista per le forme fluide e per l’osmosi fra l’oggetto e lo spazio che svilupperà
appieno nella sua stagione più matura. In questo straordinario dipinto giovanile pare quasi che un
colpo di vento scompigli il bordo ondulato della fruttiera e il collo sinuoso della bottiglia bianca,
fino a trasformare la pittura in liquida spuma di mare.
5
Dalla presentazione di Roberto Longhi alla Galleria Il Fiore, cit., 1945 (ripubblicata in R. Longhi,
cit., 1973, p. 1098.)
6
Cfr. C. Pavese, cit., 1973, p. 165 (cfr. anche qui a p. 169 e nota 2 a p. 170).
7
Cfr. Catalogo Vitali, n. 28 e 29.
8
Ibidem, n. 949.
9
R. Arnheim approfondisce questo concetto in Arte e percezione visiva, cit., nel capitolo Il Movimento e, in particolare, a p. 309.
10
Cfr. L. Maffei - A. Fiorentini, cit., 1995, p. 99.
11
Cfr. A. Huxley, L’arte di vedere, Milano, Adelphi, 1989, p. 44.
12
Si rimanda ancora alla monografia di Cesare Brandi nell’edizione del 1952, di cui alla nota 1, p.
46-47.
13
Cfr. R. Pierantoni, L’occhio e l’idea, Torino, Bollati Boringhieri, 1981, p. 160.
14
Cfr. R.L. Gregory, Occhio e cervello – La psicologia del vedere, Milano, Raffaello Cortina, 1991,
p. VIII.
15
Cfr. R. Arnheim, cit., p. 193-195; L. Maffei - A. Fiorentini, cit., p. 6.
16
Cfr. G. Kanisza, Grammatica del vedere, Bologna, Il Mulino, 1980, p. 159.
17
Ibidem, p. 41.
18
Cfr. Catalogo Vitali, n. 848 del 1953.
19
G. Kanisza, cit., p. 309-319.
20
Si veda in proposito la Natura morta del 1952 (Catalogo Vitali, n. 816): le sagome delle bottiglie
allungate sono speculari alle porzioni di spazio che le separano.
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Morandi e Leopardi
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L’animo si dipinge sempre nell’occhio.
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I libri sul comodino
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Grande natura morta scura, 1934, acquaforte - (V. Inc. n. 107)
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Il rapporto fra l’arte di Giorgio Morandi ed il «pensiero poetante» di Giacomo Leopardi è
a mio avviso di primaria importanza, di valore fondante per la poetica morandiana.
Per indagarlo e metterlo a fuoco si possono avanzare numerose osservazioni, ma il punto
di partenza è comunque uno e uno soltanto: la predilezione quasi assoluta del pittore
bolognese per il poeta di Recanati.
È noto come gli autori cari a Morandi, sue vere guide spirituali, siano essenzialmente
due: Pascal e Leopardi. E i ‘livres de chevet’, sempre presenti a capo del letto nella camera-studio di via Fondazza, sono i Canti e le Operette morali vicino ai Pensieri del filosofo
francese.
Ancor oggi è così, nella risistemazione dello studio di Morandi dentro il museo a lui
dedicato. Sopra a tutto, sopra a Pascal, sopra ai Frammenti letterari e filosofici di Leonardo
da Vinci e all’allora notissimo Saper vedere di Matteo Marangoni, stanno i due libriccini
leopardiani, volumetti senza pretese che purtroppo – a differenza dei Pensieri pascaliani
– non presentano alcuna annotazione o sottolineatura2.
Vi è però una sola, non marginale, differenza: mentre il volume delle Poesie (si tratta
dell’edizione tascabile del 1924 curata da Giovanni Mestica per i tipi di G. Barbera, a
Firenze) appare oggi quasi completamente slegato nella prima parte – quella, appunto dei
Canti – a dimostrazione di una frequentazione amorosa e costante3, le Operette Morali,
qui presenti nella ben nota e diffusa edizione dei Classici Salani, non sembrano quasi
sfogliate.
Ciò indurrebbe a pensare che, a fronte di una lettura affatto personale, notturna e segreta,
dei Canti, la riflessione sulle Operette avvenga piuttosto a quattro mani, quasi una discussione ad alta voce, magari sui libri stessi di quel Giuseppe Raimondi che certamente è
tramite privilegiato dell’incontro fra il pittore ed il poeta.
Ma come poteva Morandi non partecipare appieno a quel clima di ritrovato leopardismo
che connota tanta parte della cultura italiana negli anni Venti e Trenta? Più che di pittori,
amico di poeti e letterati come Cardarelli e Raimondi, l’artista respira l’influsso di Leopardi nel ritrovato interesse per il componimento lirico, «pura e semplicissima voce del
cuore» che accomuna primitivi e moderni4.
Certo Morandi non può che condividere la provocatoria osservazione di Vincenzo Car-
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Morandi e Leopardi
darelli, laddove questi, leopardianamente postosi in uno stato di assorta contemplazione,
afferma che «un paesaggio in effetti è più importante del pensiero»5.
E non si può escludere, visto l’ambito delle sue amicizie e la sua acutissima curiosità
intellettuale, che non gli sia giunta voce in tempo reale, già alla fine degli anni Trenta,
del lavoro di Giovanni Amelotti, tra i primi in Italia a proporre una valorizzazione del
pensiero e della filosofia leopardiani5.
Due testimonianze indiscutibili attestano il legame profondo che unisce l’immagine di
Morandi alla parola di Leopardi: la prima voce è ancora quella di Giuseppe Raimondi e
riguarda la sulfurea Natura morta del 1921 conservata al Museo Morandi, per la quale il
riferimento primo è il Coro dei morti dal Dialogo di Federico Ruysch.
La seconda, ancora relativa all’incipit dello stesso Coro6, è di Francesco Arcangeli, il quale
così scrive nelle sue dispense del corso universitario dedicato nel 1970 a Natura ed espressione nell’arte bolognese-emiliana7: «Ma un poema ancor più profondo delle cose abbandonate alla loro materia è la Grande natura morta scura8, incisione del 1934. […] Recensendo il volume delle sue incisioni curato dal Vitali, terminavo il mio scritto citando i primi
versi del Coro dei morti nello studio di Federico Ruysch: “Sola nel mondo eterna, a cui si
volve/ Ogni creata cosa/ In te, morte, si posa/ Nostra ignuda natura; / Lieta no, ma sicura/
dall’ antico dolor. Profonda notte/ Nella confusa mente/ Il pensier grave oscura…”. Bene,
Morandi mi dichiarò che, dopo aver terminata quell’incisione, gli erano venuti alla mente
proprio quei versi; e li recitò, con una sorta di ebbrezza che in lui, uomo serenamente e
profondamente antiretorico anche nel costume colloquiale (portato anzi all’umorismo)
oltreché nell’opera, spiccava tanto più singolarmente. Si sentiva, una volta tanto, che egli
parlava delle cose ultime, del rovescio profondo delle sue scelte di umanista».
Tu pensoso in disparte il tutto miri10
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Leopardi è maestro nel creare immagini, inanellando sensazioni visive ed uditive, assai
spesso alternate o incrociate a chiasmo, in componimenti poetici che si reggono su due
voci verbali cardine quali «mirare» e «udire». Anche le sue figure sono indimenticabili,
metafore dell’amore e dell’assenza, del «piacer figlio d’affanno»11, della memoria che riscatta la morte.
Tra i suoi ritratti quello del Passero solitario è uno dei più struggenti, lontano e solo lassù,
in cima alla torre di Sant’Agostino. È ovvio ravvisare una dimensione autobiografica nel
procedimento analogico fra il passero e lo stesso Leopardi, ma come non riconoscere in
questa figura pensosa e romita anche Giorgio Morandi? Ciò che lo accomuna al poeta è il
senso di estraneità e di distanza che lo separa dalla vita di tutti i giorni, quel quotidiano di
cui entrambi avvertono la freschezza e la fragilità, una particella di tempo da fissare sulla
tela o sulla pagina per non smarrirne almeno l’immagine.
Leopardi si guarda intorno, osserva dal colle o attraverso le persiane socchiuse la sua Recanati che si affaccia come un balcone sulla pianura e il mare e si appoggia alle colline retrostanti; Morandi resta all’interno della sua camera-studio o del suo paesaggio grizzanese,
una cerchia di monti limpidi e sempre uguali come i suoi modelli d’atelier.
Entrambi si affidano come strumento primo del conoscere alla contemplazione, uno stato
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La contemplazione e la quiete
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di concentrazione sul Sé e di apertura sorvegliata sull’altro da Sé che si affida alla immobilità e alla distanza (scrive Mario Luzi, nel suo immaginario Dialogo del poeta Malagugini
e dell’ectoplasma di Giacomo Leopardi12, che la sapienza «ce n’era sì, ce n’era qua e là, specialmente negli antichi, ma non quanta nella semplice e attenta osservazione delle cose e
nella contemplazione assidua dei fenomeni…»).
«Sedendo e mirando», dice dunque il poeta, e così si comporta – come lui, ogni giorno
– il pittore.
Ma vediamo di farci aiutare dalla lucidità interpretativa di Giovanni Macchia, laddove,
a proposito dell’Infinito, scrive13: «il poeta romantico non vola, è fermo, seduto, non ha
nulla da conquistare. È un viaggiatore immobile. Ma è la sua stessa immobilità, il suo
non-vedere, la sua esclusione dagli spazi aperti soltanto al suo pensiero a spingerlo al
viaggio di tutto il proprio essere. […] Nessuna esperienza può dare l’idea dell’infinito.
L’infinito appartiene soltanto al pensiero».
Anche l’artista è un viaggiatore immobile, anzi si può dire che egli elegge questa dimensione a suo status personale, privilegiato, una vera e propria scelta di vita che si trasforma
quasi in leggenda, fino a farlo descrivere – a mio avviso con enfasi eccessiva e fuorviante
– come «il monaco di via Fondazza».
Oltre a ciò, per meglio marcare la necessità della contemplazione nel silenzio, si dà anche
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Morandi e Leopardi
la distanza, una lontananza fisica dalle cose che si tramuta in distacco emotivo, creativo.
E qui ci soccorre lo stesso Leopardi, quando annota nello Zibaldone: «Laddove insomma
l’opinione comune […] considera l’entusiasmo come padre dell’invenzione e concezione,
e la calma come necessaria alla buona esecuzione; io dico che l’entusiasmo nuoce o piuttosto impedisce affatto l’invenzione (la quale deve essere determinata e l’entusiasmo è lontanissimo da qualsiasi sorta di determinazione), e piuttosto giova all’esecuzione, riscaldando
il poeta o l’artefice, avvivando il suo stile, e aiutandolo sommamente nella formazione,
disposizione ec. delle parti, le quali cose tutte facilmente riescon fredde e monotone quando l’autore ha perduto i primi sproni dell’originalità (3. 8.bre 1820)»14.
Non so se Morandi conoscesse questo brano dello Zibaldone, ma certamente il suo metodo di lavoro osserva le stesse procedure: lunga, meticolosa, quasi ossessiva la preparazione
della porzione di realtà da rappresentare, e tutto fatto con estrema determinazione; poi,
una volta stabilita l’inquadratura scenica e collocati i personaggi, la realizzazione pittorica
è velocissima, tesa, persino nevrotica, in un empito di ‘entusiasmo’, quasi una frenesia
d’origine divina (έν θεός), una esplosione d’immagine.
Anche l’artista vive un rapporto di odio-amore nei confronti della sua città, Bologna, che
certo non è la Recanati di inizio Ottocento ma che, ai primi del secolo successivo, si rivela
provinciale e ristretta in modi non troppo dissimili. «Quasi romito e strano» al suo «loco
natio» è Morandi, a cui la solitudine pare non pesare, in virtù di tenaci e teneri affetti
familiari e della compagnia di pochi, selezionatissimi amici. Forse in questo più fortunato
del poeta, il pittore ama la solitudine e il silenzio, quella dimensione di quiete – parola
magica per entrambi, conforto per l’animo esacerbato dagli affanni, soglia della creazione
artistica – che sola gli permette di pensare e di lavorare. E, d’altronde, è assai nota una
frase di Morandi, a più riprese ripetuta come una richiesta senza speranza: «Che mi lasciassero in pace!» (nell’estate del 1947, ad esempio, egli scrive all’amico Cesare Brandi:
«In questo momento sento vivo il bisogno di un po’ di tranquillità per poter pensare alle
cose mie. […] E io desidero solo un poco di raccoglimento indispensabile al mio lavoro
e ai miei nervi»15.
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la chiarezza e la semplicità […]
quei pregi fondamentali d’ogni qualunque scrittura16
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Non mi sembra il caso di forzare il gioco delle somiglianze, ma a questo proposito qualche
altra cosa va detta per poi portare in evidenza anche ciò che distingue l’uno dall’altro i due
protagonisti, così da ribadire in ultima analisi quale sia il debito culturale ed artistico di
Morandi nei confronti di Leopardi e quanto della sua poesia l’artista abbia elaborato per
servirsene come linfa per la sua pittura.
Forse si può azzardare un confronto fra la ‘crisi’ vissuta da Leopardi negli anni che separano la composizione degli Idilli da quella dei grandi Canti pisano-recanatesi, tra il 1821
e il 1828, ed un analogo periodo di dubbio e disagio sofferto da Morandi tra il 1929 ed il
1937. Ma le differenze sono notevoli, in primo luogo per la diversa età dei due artisti – il
poeta è giovanissimo, adulto nella mente ma poco più che ventenne, mentre il pittore ha
raggiunto la maturità dei quarant’anni – e poi, soprattutto, perché, se per il Recanatese
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Parallelismi e differenze
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Paesaggio, 1921 - (V. n. 66) - Bologna, Museo Morandi
si tratta di una fase di ripensamento e di pausa poetica – quella stessa che si concluderà
a Pisa nell’aprile del 1828 con la composizione de Il Risorgimento – per Morandi le difficoltà sono soprattutto d’ordine esistenziale e psicologico, con una privatissima «discesa
agli inferi» che viene puntualmente registrata nella sua pittura, ora lacerata e arsa, quasi
disciolta come «cera molle» ai limiti della perdita della forma. Ma, a ben guardare, anche
per lui intorno al 1930 vengono anni di ‘prosa’, con l’attenzione quasi interamente rivolta
alla pratica incisoria a scapito del colore e della materia pittorica.
Né vanno sottaciute altre differenze certo non di poco conto: lo stato di contemplazione
è per il poeta una meta sempre agognata e solo per brevi istanti raggiunta, è una tensione
a…, laddove l’artista riesce in virtù del suo carattere e delle sue scelte di vita a costruirsi
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Morandi e Leopardi
veramente un bozzolo di quiete, un hortus conclusus in cui esser solo di fronte alle proprie
immagini.
Ma, forse, non gioca un ruolo decisivo anche in questo la diversa età? Noi, del pittore
abbiamo testimonianze dirette soprattutto per gli anni del dopoguerra, quando egli aveva già superato la cinquantina, e poco si sa del giovane Morandi, tutto sommato il più
scopertamente ‘leopardiano’ anche nell’aspetto luciferino, esacerbato di diverse sue opere
fino al 1943. E che cosa sarebbe stato di Leopardi dopo La ginestra? Un uomo di trentotto
anni, così colmo di pensiero e di anima, avrebbe saputo trovare nella piena maturità la sua
«lenta ginestra», la sua «odorata ginestra, contenta dei deserti» e «che il deserto consola»?
La domanda è oziosa, ogni ipotesi è possibile, ma mi piace proporla come elemento di
riflessione (e, d’altronde, non è proprio l’ozio per il poeta una condizione esistenziale
costante?).
Vanno poi sottolineate altre due differenze importanti. Nella poesia leopardiana l’Io è
sempre in primo piano, o direttamente o attraverso trasparenti alter ego in cui Giacomo si
riflette e si racconta; in Morandi, invece, l’Io non si ostende mai, l’uomo sembra assente
dall’immagine proprio quando riempie di sé le cose, sia gli oggetti nello studio che gli
scorci di natura. Se, nella sua opera, l’Uomo non compare, è piuttosto l’elemento umano
– e fortemente autobiografico – a dare forma e respiro vitale ad ogni immagine.
Ancora: il poeta lavora assiduamente sulla memoria, ne fa uno strumento irrinunciabile
della sua «comparazione»; l’artista, pur dotato di straordinaria memoria visiva, preferisce
lavorare comunque ‘sur le motif ’, in presa diretta, davanti all’oggetto della sua riflessione
per immagini. Sono entrambi caratteri lunari: Leopardi assai spesso, si dice, scrive di
notte; Morandi invece dipinge soltanto di giorno, e alle ore notturne riserva la lettura, la
meditazione e, forse, la pratica del disegno, un atto che non ha bisogno di luce solare e di
colore ma solo di puro segno, indicazione concettuale e non sensoriale.
È naturale che in tutto questo giochino un ruolo fondamentale i diversi mezzi espressivi
– la parola; l’immagine – scelti rispettivamente dal poeta e dall’artista, dei quali, prima di
affrontare l’ultimo, complesso nodo di riflessione, mi pare utile ricordare il parallelo, totale rispetto per la struttura dell’opera, per le regole del suo farsi come oggetto artistico.
Entrambi eleggono la pulizia, la misura, l’equilibrio, la limpidezza a mezzi espressivi primari, a necessità – vorrei dire, verità – poetiche irrinunciabili. Ma lasciamo la parola a
Leopardi, certi che anche per Morandi questa sia la strada prescelta: «la chiarezza e la
semplicità […] quei pregi fondamentali d’ogni qualunque scrittura, quelle qualità indispensabili anzi di primissima necessità, senza cui gli altri pregi nulla valgono, […] sono
tutto e per tutto opera dono ed effetto dell’arte. Le qualità dove l’arte dee meno apparire,
che paiono le più naturali, che debbono infatti parere le più spontanee, che paiono le
più facili […] sono appunto le figlie dell’arte sola, quelle che non si conseguono mai se
non collo studio, le più difficili ad acquistarne l’abito, le ultime che si conseguiscano, e
tali che acquistatone l’abito non si può tuttavia mai senza grandissima fatica metterlo in
atto. Ogni minima negligenza dello scrittore nel comporre, toglie al suo scrivere […] la
semplicità e la chiarezza…»17.
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Cortile di Via Fondazza, 1957 - (V. n. 1069)
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Morandi e Leopardi
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La luce, o dell’idea del limite
La luce è come un legame
che passa tra l’uomo e gli oggetti visibili18
Il tema è complesso e merita un’attenzione particolare. Tentiamo di procedere per gradi.
In primo luogo va detto che non si dà luce senza ombra, che lo stesso concetto di luce è
postulabile solo in presenza del suo contrario. Fenomeni speculari in natura, luce e ombra
riflettono anche l’inestricabile intreccio di vita e morte – l’«alma luce» che nutre e ristora
nell’Inno ai Patriarchi e l’«atra morte» che sprofonda con il suo ultimo viaggio il Bruto
minore19.
Dall’incontro-opposizione di questi due termini inscindibili nascono tanto l’immagine,
anzi la possibilità stessa del vedere, quanto i suoi confini, i suoi limiti.
Dice Aristotele nella Metafisica, descrivendo il primo dei quattro significati del concetto
di limite, che questo è l’ultimo punto di una cosa, cioè il primo punto al di là del quale
non c’è alcuna parte della cosa stessa, mentre al di qua c’è ogni parte di essa. Nei Prolegomeni ad ogni futura metafisica, Kant si richiama a tale interpretazione, quando scrive:
«Un limite negli esseri estesi presuppone sempre uno spazio che è al di là di una certa
superficie determinata e la include in sé»20 (e verrebbe voglia di ricordare anche l’àpeiron
presocratico, l’illimitato, l’indeterminato, il principio da cui deriva ogni realtà particolare
ed a cui questa ritorna...).
Quindi il limite richiede come necessario un altro da sé, il suo al di là; ma vale anche il
contrario. Ed ecco Leopardi, in un passo fondamentale dello Zibaldone: «Pare che solamente quello che non esiste, la negazione dell’essere, il niente, possa essere senza limiti,
e che l’infinito venga in sostanza ad essere lo stesso che il nulla. Pare soprattutto che l’individualità dell’esistenza importi naturalmente una qualsivoglia circoscrizione, di modo
che l’infinito non ammetta individualità e questi due termini sieno contraddittori; quindi
non si possa supporre un ente individuo che non abbia limiti»21.
Quindi solo il limite dà il senso dell’individualità, della parte in un tutto infinito e consente di abitare la terra e di non cadere nel nulla.
Abbiamo accostato il concetto di luce-ombra a quello di limite, in quanto nell’operazione
del vedere questi interagiscono a creare la possibilità della ‘visione’: «Da quella parte della
mia teoria del piacere dove si mostra come degli oggetti veduti per metà, o con certi impedimenti ci destino idee indefinite, si spiega perché piaccia la luce del sole o della luna,
veduta in un luogo dove essi non si vedano e non si scopra la sorgente della luce; un luogo
solamente in parte illuminato da essa luce, il riflesso di detta luce […]; il penetrare di detta luce in luoghi dov’ella divenga incerta e impedita, e non bene si distingua, come […] in
quei luoghi dove la luce si confonde ec. ec. colle ombre […] in una valle, sui colli veduti
dalla parte dell’ombra, in modo che ne sieno indorate le cime; […] È piacevolissima e
sentimentalissima la stessa luce veduta nelle città, dove ella è frastagliata dalle ombre, dove
lo scuro contrasta in molti luoghi col chiaro, dove la luce in molte parti degrada appoco appoco. A questo piacere contribuisce la varietà, l’incertezza, il non vedere tutto, e il potersi
perciò spaziare coll’immaginazione, riguardo a ciò che non si vede»22.
Ma l’anno precedente, nel luglio1820, il poeta aveva già osservato: «L’anima immagina
quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando
in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe se la sua vista si estendesse
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Natura morta, 1960 - (V. n. 1188) - Rovereto, MART (deposito Collezione Augusto Giovanardi)
da per tutto, perché il reale escluderebbe l’immaginario. Quindi il piacere ch’io provava
sempre da fanciullo, e anche ora nel vedere il cielo ec. attraverso una finestra, una porta…»23.
Fin qui Leopardi, ma chi conosce l’arte di Giorgio Morandi sa bene che anche per lui il
piacere, la visione stanno nel guardare le cose da un ‘al di qua’, con qualche cosa di frapposto fra il primo piano e il piano dell’orizzonte, stanno nel tra-guardare oltre la siepe, o
un muro rosa, o una prima fila schierata di oggetti che ne lasciano intra-vedere altri alle
spalle, forse più importanti, certo più inquietanti, alle soglie del mistero. Ed anche in lui
la quinta visiva ribadisce e restituisce il senso della individualità contro la pericolosa attrazione del nulla. L’artista costruisce tutto ciò con la luce, dosandola e variandola a crear
le forme, a portarle in primo piano o a lasciarle sprofondare nell’indistinto. Tutto in lui è
luce e quello che Brandi definisce come «colore di posizione» non indica altro che la lucecolore divenuta forma che ‘sta’ nello spazio come forma pura24.
Morandi però non si ferma qui e con la luce dà insieme l’idea del limite e del suo superamento, perché mediante effetti di dilatazione visiva e psicologica (come conosce a fondo i
meccanismi della teoria della percezione!25) dà l’illusione della perdita del limite, «perché
l’anima – è ancora Leopardi a parlare – non vedendo i confini, riceve l’impressione di una
specie di infinità e confonde l’indefinito con l’infinito»26.
Con questo concetto di dilatazione visiva si giunge all’ultimo punto della riflessione. Pare
qui opportuno citare le parole di un altro studioso leopardiano, il quale – sulla via aperta
ormai vent’anni fa da Antonio Prete27 – ha cercato di indagare a fondo il suo «pensiero
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Morandi e Leopardi
poetante». Scrive infatti Alberto Folin nel suo saggio Leopardi e la notte chiara: «L’intera
opera leopardiana è come pervasa da un timore irrequieto e diffidente nei confronti della luce diretta e accecante. […] Percezione visiva e percezione uditiva solo nell’ostacolo
trovano la loro piena soddisfazione perché è grazie al non vedere, al non sentire che prende
corpo l’immagine. […] Ciò che importa notare è che qui Leopardi non si limita a privilegiare – come i romantici – il chiaroscuro secondo la poetica del ‘notturno’ o delle ‘rovine’,
ma sottolinea, accanto all’importanza dell’ostacolo, quella dell’apertura che permette alla
luce di distendersi, di fronte all’occhio, illimitatamente. […] Ostacolo ed apertura costituiscono i due poli di un guardare ‘sublime’, in quanto il soggetto si dissolve man mano
che la fonte di luce si nega all’occhio, oppure dilaga sulle forme distruggendone i confini.
Quello che hanno in comune l’ostacolo e l’apertura è precisamente il dissolvimento del
contorno delle cose»28.
Folin introduce qui un’immagine heideggeriana che mi è molto cara a proposito dell’arte
matura di Morandi, quella della sua ultima, altissima stagione pittorica, e cioè l’immagine
della radura che in qualche modo precede la luce (Lichtung e Licht), la vastità che diviene
apertura, luogo della libertà, della possibilità e del molteplice, ove l’artista e anche chi lo
segue possono avventurarsi per interagire con le forme del reale. È il campo in cui il Sé e
l’Altro da Sé possono incontrarsi.
Osserva Heidegger: «… resta la possibilità di una connessione oggettiva tra Lichtung e
Licht. La luce può appunto cadere nella radura, nel suo aperto e in essa lasciar giocare la
luminosità con l’oscurità. Ma giammai è la luce che crea originariamente la radura; invece
è quella, la luce, che presuppone questa, la radura. La radura (l’aperto) è libera non solo
per la luminosità e l’oscurità, ma anche per l’eco e per il suo spegnersi, per ogni suono e
per il suo svanire: la Lichtung, la radura, è l’Aperto per tutto ciò che è presente e per tutto
ciò che è assente»29.
Alla «campagna vasta e aprica» di Leopardi, al suo sguardo «steso nell’aria aprica»30 risponde il modo tutto morandiano di sfumare il contorno degli oggetti fino a farlo scomparire,
di collegare attraverso semitoni cromatici quasi impalpabili (spesso è proprio il velo di
polvere sulle cose a fungere da tramite, da passaggio cromatico e percettivo) la forma
piena a quella dell’apparente vuoto che la comprende – e se fosse davvero l’indefinito
leopardiano? –. In tal modo egli apre i confini degli oggetti allo spazio che li circonda,
così da lasciar scorrere in ogni direzione la linfa vitale, moltiplicare la visione e mettere in
comunicazione l’io, l’interiorità, con l’anima del reale.
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(relazione introduttiva alla Giornata di Studi Morandi e Leopardi, Bologna, Museo Morandi, 25 marzo 1999. Testo inedito).
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Note
G. Leopardi, Zibaldone, foglio 1576 del 28 agosto 1821. Edizione a cura di Rolando Damiani, vol.
I, Milano, Mondadori, 1997. Nonostante il contesto in cui Leopardi esprime questa riflessione sia
riferito alla fisionomia ed alla corrispondenza fra volto e anima («L’occhio è la parte più espressiva
del volto e della persona»), troppo accattivante è l’accostamento fra tre termini-chiave della poetica
morandiana, perché la frase non venga indicata in esergo a queste riflessioni.
2
L’unico altro volume altrettanto letto e sottolineato da Morandi è la prima edizione de I Canti
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Orfici di Dino Campana, conservata dall’artista in un cassetto a partire dal lontanissimo 1914 e per
tutta la vita (cfr. il mio saggio L’incontro fra Giorgio Morandi e Dino Campana, qui a p. 197).
3
Cfr. L. Magnani, Il mio Morandi, Torino, Einaudi, 1982: «Leopardi eletto da Morandi sin dalla
prima giovinezza quale suo autore, fu il poeta da lui più amato, il compagno di tutte le ore. Ogni
sera soleva leggere e meditare i suoi versi, che dovevano trovare profonda risonanza nel suo animo,
ed ancora oggi il libro dei Canti, unitamente alle Pensées di Pascal, sta posato presso il suo letto,
quasi simbolo di quell’intimo sodalizio».
4
Cfr. M. Fubini-E. Bigi, Giacomo Leopardi. Canti, Torino, Loescher, 1966.
5
Cfr. V. Cardarelli, Il sole a picco, Bologna, Edizioni de l’Italiano, 1929 (ristampa anastatica, Bologna, 1984, con postfazione di S. Calabrese, cui si deve la citazione dell’affermazione di Cardarelli).
6
Cfr. G. Amelotti, Filosofia del Leopardi, Milano, 1939 (citato in A. Folin, Leopardi e la notte chiara,
Venezia, Marsilio, 1993, p. 1).
7
A proposito del Coro dei morti, mi piace citare la definizione che ne dà in nota Rolando Damiani,
curatore insieme a Mario Andrea Rigoni dei due volumi dedicati alle Poesie e prose di Leopardi nei
Meridiani Mondadori (Milano, 1997, vol. II, p. 1324). A proposito del Coro, lo studioso parla
di «lirismo incantatorio e quasi nenia metafisica». Per il dipinto di Morandi, cfr. Catalogo Vitali
n. 59.
8
Francesco Arcangeli, nelle dispense del corso di storia dell’arte dell’Anno Accademico dell’Università di Bologna 1969-1970, dedica al nostro artista il capitolo Umanesimo, materia e morte in
Giorgio Morandi (p. 230-250).
9
Per l’acquaforte di Morandi, Grande natura morta scura del 1934, cfr. Catalogo Vitali Incisioni, n.
107. Cfr. anche F. Arcangeli, L’opera grafica di Giorgio Morandi, in “L’Europeo”, Milano, 10 marzo
1957 (ristampato in Dal romanticismo all’informale, vol. I, Torino, Einaudi, 1977, p. 261-266).
10
G. Leopardi, Il passero solitario, v. 12.
11
G. Leopardi, La quiete dopo la tempesta, v. 32.
12
Cfr. M. Luzi, in “MicroMega”, n. 2/98, Roma, marzo 1998.
13
Cfr. G. Macchia, La paura di Pascal vinta dalla poesia, in “Corriere della Sera”, Milano, 16 dicembre 1980 (poi ristampato con il titolo Leopardi e il viaggiatore immobile, in Saggi italiani, Milano
1983 e in La caduta della luna, Milano, 1995).
14
G. Leopardi, Zibaldone, f. 259, 3 ottobre 1820. Mia è la sottolineatura in corsivo.
15
Giorgio Morandi, lettera a Cesare Brandi del 7 agosto 1947, pubblicata in C. Brandi, cit., 1990,
p. 222-223.
16
G. Leopardi, Zibaldone, f. 3048, 26 luglio 1823, dì di Sant’Anna.
17
Ivi.
18
G. Leopardi, Storia dell’Astronomia, 1813.
19
G. Leopardi, Inno ai Patriarchi, v. 6, e Bruto minore, v. 109-110.
20
Cfr. N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, Torino, UTET, 1971-1990, ad vocem «limite»,
p. 533.
21
G. Leopardi, Zibaldone, f. 4178, 2 maggio 1826.
22
Ibidem, f. 1744, 20 settembre 1821. Mia è la sottolineatura in corsivo.
23
Ibidem, f. 171, luglio 1820.
24
Cfr. C. Brandi, cit., 1990, p. 43-53 (poscritto a Cammino di Morandi, ed. 1952).
25
Cfr. per i rapporti fra Morandi e le teorie della percezione visiva, il mio saggio Percezione e allusione nell’arte matura di Giorgio Morandi, qui a p. 171.
26
G. Leopardi, Zibaldone, f. 472, 4 gennaio 1821.
27
Cfr. A. Prete, Finitudine e Infinito. Su Leopardi, Milano, Feltrinelli, 1998, p. 9.
28
Cfr. A. Folin, cit., 1993, p. 8.
29
Cfr. M. Heidegger, La fine della filosofia e il compito del pensiero, in Tempo e Essere, Napoli, 1980.
30
G. Leopardi, Zibaldone, f. 1745, 20 settembre 1821 e Il passero solitario, v. 39-40.
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L’incontro fra Giorgio Morandi
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Natura morta, 1919 - (V. n. 47)
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I vostri occhi forti di luce
Dino Campana 1
a Bologna di Dino Campana – tutta bagliori e illusioni – è per molti aspetti anche la
Bologna del giovane Morandi, teso all’individuazione di una propria identità pittorica proprio come lo è il poeta, di soli cinque anni più anziano di lui.
Innanzitutto va delimitato l’ambito temporale, il campo dell’incontro fra i due giovani; e
oggi è possibile farlo con ampia approssimazione grazie agli studi di Gabriel Gacho Millet
e ad alcuni preziosi documenti da me ritrovati con vera emozione, nel 1993, tra le carte
di Giorgio Morandi2.
Come ricorda lo studioso3, l’episodio del «piccolo cane» lanciato lontano da un Campana
«forse colto da un accesso mentale» viene riportato da un quotidiano bolognese il 27
dicembre 1912. Ma alla stessa scena fa riferimento Giuseppe Raimondi nel suo primo
articolo su Giorgio Morandi, poi espunto dalla bibliografia dell’artista, comparso il 12
aprile 1923 su “Il Nuovo Paese”4. Soffermandosi su una Natura morta con la fruttiera
del 19195, Raimondi scrive: «Qui degli aranci mettono col loro giallo solare una nota di
colore, vasta, inondante sulla povera tovaglia, [che] si spinge a illuminare la fronte di un
vecchio cassettone, di quelli con la toppa della serratura a cuore! […] Certo, questo è bene
un interno bolognese, pieno di silenzioso riposo estivo, in una di queste logore case della
via Fondazza, di S. Petronio Vecchio, di via del Piombo, nelle quali il poeta Dino Campana ha indugiato a scoprire un poco di oro crepuscolare sulla pietra rossa delle mura, di
vagabondaggio in vagabondaggio, un giorno lontano. Essendosi fiutati, erano quasi amici, Morandi e Campana. È lui che racconta di aver visto la prima volta “Il povero Dino”
alle prese coi birri per avere accoppato un brutto cagnolo da signora».
«La prima volta», dice Raimondi, e quindi il primo, se pur occasionale e distratto incontro
fra i due, che iniziano ora a «fiutarsi», cadrebbe negli ultimi giorni del 1912. Ma questo è
solo l’incipit della «quasi» amicizia che si instaura fra loro, perché il pittore e il poeta si incontrano forse ancora nei primi mesi del 1913, quando Campana pubblica Torre rossa su
“Il Goliardo” di Federico Ravagli, e poi ancora nell’autunno dell’anno successivo, quando
il poeta tenta di vendere i suoi Canti agli habitués del Caffè San Pietro. Morandi ne acquista una copia per 2 lire e 50 centesimi e Campana, con la sua grafia un po’ stralunata,
gliela dedica vergando poche parole nell’occhietto de La notte: «All’eccellente pittore/
Giorgio Morandi/ con cordialità/ Dino Campana».
Penso con Gacho Millet che questa dedica non comporti affatto una reale conoscenza dell’opera morandiana da parte del poeta e che valga soltanto come atto di riconoscimento
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L’incontro fra Giorgio Morandi e Dino Campana
nei confronti di uno spirito fratello (quell’«essendosi fiutati» così acutamente suggerito
da Raimondi…). Certo è che il clima, la temperie dell’incontro sono tra i più fervidi e
fecondi e che non a caso il giovane pittore – intimo del Licini dei ‘futuristi’ Racconti di
Bruto 1913; uscito dall’Accademia di Belle Arti con un anno di ritardo per contrasti con
i professori sul suo ‘far cézanniano’; frequentatore abbastanza assiduo delle serate futuriste e della casa di Balilla Pratella a Lugo – guarda con interesse vero a quel protagonista
della nuova cultura che è il Campana del 1914, portatore di un pensiero poetante che si
riallaccia a Baudelaire e a Nietzsche, ai maudits francesi e a Schuré, al simbolismo e alla
nuova psicoanalisi.
Poi Morandi prenderà strade del tutto differenti, tutte interne al suo studio, al suo mondo, ma qualcosa di quegli anni resterà in lui insieme alla stima piena per il poeta giramondo, come fiamma viva che illumina dall’interno lo splendore apparentemente algido delle
sue immagini e che lo nutre con quelle «gocce di luce sanguigna», con quelle «girandole
di fuoco», con quel «tepore di luce rossa, dentro le chiuse aule dove la luce affonda uguale
dentro gli specchi all’infinito»6.
E non è da sottovalutare l’ambiente in cui l’incontro ha luogo, la cerchia di giovani intellettuali irrequieti che è la stessa per entrambi, fertile terreno di coltura per sogni e
ardimenti, per prime prove, per assaggi di vita. Si è detto di Raimondi, ma non va dimenticato Riccardo Bacchelli – amico di Morandi con il fratello pittore Mario, fin dal
1913 – che nel marzo 1918 dedica all’artista il suo primo articolo monografico7, ricco
di spunti folgoranti (la «giustezza» e «spregiudicatezza» nell’ «accomodarsi» gli oggetti, le
forme «necessarie e sole», la «certezza stilistica») e che, parlando di un suo Paesaggio, cita
Campana.
Vediamo il brano: «Un paesaggio, dipinto al tempo del ritratto presenta gli stessi caratteri del ritratto8. È un folto di verde faticoso, come dice Dino Campana, con due linee
di colline scendenti, con rami sospesi. È fortissimo il senso della natura pomeridiana di
grand’estate ma sottinteso. Il quadro concorre ad un albero centrale ed alla sua architettura». Ecco gli elementi di collegamento: da una lato, Bacchelli si riferisce al Paesaggio verde
dipinto da Morandi a Grizzana nell’estate del 1913, poi passato nell’importante raccolta
milanese di Riccardo e Magda Jucker e ora conservato al Civico Museo di Arte Contemporanea di Milano9; dall’altro, le parole di Campana sono tratte dai versi che aprono il
secondo paragrafo de La Verna. Ritorno, laddove il poeta dice della «casetta di sasso sul faticoso verde»10. E questa, per chi frequenta anche soltanto marginalmente l’immaginario
morandiano, è visione familiare che sembra proprio appartenere al suo mondo, a quelle
pendici asciugate dalla luce che egli abita durante i soggiorni estivi.
Giuseppe Raimondi e Riccardo Bacchelli sono dunque i tramiti fra l’artista e il poeta,
ma non sono gli unici né i primi. Insieme a loro riappaiono altri amici comuni, come
Francesco Meriano – sodale di Raimondi e Morandi ed estimatore entusiasta di Campana
– che incontra il pittore a Bologna nel 1916; come Raffaello Franchi, letterato fiorentino
poi vicino alla “Raccolta” e alla “Ronda”, che in una veloce visita a Bologna ancora nel
1916 conosce Morandi11, proprio negli stessi mesi in cui esalta la «pienezza inespressa» dei
Canti Orfici12. Sono indizi, suggerimenti, spigolature che per frammenti minimi ricreano
davanti ai nostri occhi un mondo ricchissimo.
Ma ritorniamo ancora a Riccardo Bacchelli per sottolineare altri due aspetti non secondari: in primo luogo l’articolo su Morandi è del marzo 1918, prima che gli giunga notizia
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Paesaggio, 1913 - (V. n. 11) - Milano, Civico Museo d’Arte Contemporanea
del definitivo internamento in manicomio di Campana (gli amici bolognesi lo apprenderanno di lì a pochi giorni, ai primi di aprile); Bacchelli avvicina dunque l’amico pittore
a quello che egli a pieno titolo considera come una delle promesse, anzi una delle punte
emergenti della nuova poesia italiana. E non è un paragone da poco quello che propone,
un raffronto che la dice lunga sulla stima che egli nutre nei confronti di entrambi. In
secondo luogo, che dire di uno dei caratteri distintivi che Bacchelli riconosce alla pittura
morandiana, «una primitiva fedeltà ai suoi oggetti e paesi». Questo non vale forse anche
per Campana, con la sua smania di mondo, la sua indole vagabonda fedele comunque
alle radici? Non si può forse rovesciare il confronto e trovare nell’arte del bolognese uno
spunto nuovo per leggere in profondità la parola poetica del romagnolo?
Si è detto che la dedica all’«eccellente pittore» non deve indurre a ipotizzare un rapporto
stretto fra i due «quasi amici».
È più che probabile che Campana non conosca l’opera di Morandi, pur nel suo più che
evidente interesse per l’arte visiva13. Ma certamente Morandi legge con attenzione i Canti
Orfici e impara ad apprezzarli insieme e attraverso Giuseppe Raimondi, che nel citato articolo morandiano del 1923 dimostra di conoscere molto bene i versi campaniani. Scrive
infatti il giovane letterato bolognese: «…in una di queste logore case […] nelle quali il
poeta Dino Campana ha indugiato a scoprire un poco di oro crepuscolare sulla pietra
rossa delle mura», come a riprendere consapevolmente il ritmo cromatico di tanti passi
del poeta, primo fra tutti l’incipit del rapinoso Arabesco – Olimpia: «Oro, farfalla dorata
polverosa perché sono spuntati i fiori del cardo? In un tramonto di torricelle rosse…»14.
Ricevuto il volumetto nella sua prima edizione stampata da F. Ravagli a Marradi (e emoziona vedere come Campana cancelli con un tratto di matita quest’indicazione in coper-
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L’incontro fra Giorgio Morandi e Dino Campana
tina, per correggerla in «Libreria Gonnelli /via Cavour – Firenze», quasi a voler conferire
maggiore dignità e presentabilità alla sua prima, e unica, creatura); ricevuti i Canti Orfici,
dicevo, Morandi se li legge anche da solo e con seria, testarda attenzione – come per tutte
le cose che ritiene importanti –, tanto che in un momento che non è dato riconoscere
evidenzia i brani a lui più congeniali con segni longitudinali tracciati lungo il lato esterno
del foglio. Molte pagine dei Canti vengono in tal modo evidenziate dall’artista con la sua
matita blu da insegnante – a volte compare anche qualche ulteriore indicazione in rosso –,
ma non è certo se tali sottolineature debbano per lui avere anche una funzione pratica.
Due sono le ipotesi che a tutt’oggi si possono avanzare: può sembrare – e questa è la
lettura ‘di basso profilo’ – che le pagine segnate debbano far parte di una selezione da proporre ad altri, magari proprio agli studenti (ancor oggi si fa così per scegliere gli stralci, ad
esempio, per un’antologia critica). E va sottolineato, a questo proposito, che nella copia di
Morandi si trova anche un brano prima da lui evidenziato e poi lasciato perdere, riportato
alla sua condizione iniziale con un frego ad onda che annulla la sottolineatura (sono, per
l’esattezza, il terzo e quarto paragrafo de La giornata di un nevrastenico)15.
Oppure, e con più ardimento, ci si potrebbe domandare se queste non siano le sottolineature molto più partecipi di un Morandi giovane che legge e chiosa il poemetto in tempo
reale, in quel 1914 anche per lui luminoso per entusiasmi e pacati ardimenti, prima
dell’amara caduta delle illusioni provocata dal primo conflitto mondiale. Sarebbe, questo
di allora, un Morandi per noi quasi sconosciuto, un giovane che ‘va a casino’ insieme
all’amico Osvaldo – il «Bruto» dei racconti liciniani dell’anno precedente –, che corteggia
e inganna le signorine di buona famiglia, che vive di notte insieme ad altri giovani come
lui amanti della bellezza e dell’avventura. Un Morandi molto più legato o, come minimo,
molto più interessato alle poetiche nicciane e faustiane che il poeta di Marradi incarna
così compiutamente.
Allo stato attuale degli studi non è possibile scegliere fra le due ipotesi – e, magari, la verità
è ancora un’altra. Quel che è certo è che, se si eccettuano Viaggio a Montevideo e Firenze
(Uffizi), l’artista evidenzia soltanto brani in prosa e, tra questi, le descrizioni di luoghi
e paesaggi, i brani relativi ad opere d’arte, musei e artisti, le pagine che si riferiscono a
Bologna16. Un’unica frase è sottolineata per esteso e puntualizzata da un piccolo asterisco
a margine. Si trova in Faenza, a pagina 92 della prima edizione dei Canti Orfici: «Felicità
di vivere in un paese senza filosofia». Nella sua apparente semplicità, come di aforisma
sussurrato a fior di labbra, questa considerazione degna del Candide la dice lunga sull’indole morandiana aliena da ogni intellettualismo e avvicina ancor più la affilata sensibilità
dell’artista a quella scorticata, insofferente, indomita del poeta che solo nella natura e
nell’arte sa ritrovare se stesso. Ma è poi tanto lontano Morandi?
A ben guardare e pur nella evidente, indiscutibile diversità di intenzioni e di approdi, i punti di contatto artistico fra i due non mancano e conviene spingere un poco più a fondo la riflessione per comprendere meglio che cosa di Dino Campana possa interessare Morandi.
Nell’ottica del pittore, tre mi sembrano gli aspetti, i caratteri della poesia campaniana da
prendere in considerazione.
In primo luogo – e non può che essere così – la ‘visibilità’ della parola poetica di Campana, quel suo saper rendere un luogo, un momento, un incontro in immagine.
Gli esempi sono molteplici, anzi direi continui, nei Canti. Tra i tanti ne scelgo uno che mi
piace definire particolarmente morandiano: è la «piazzetta deserta, casupole schiacciate,
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finestre mute»17 che apre le visioni de La notte e che tanto ricorda nella sua solitudine
vuota di uomini i luoghi altrettanto deserti dell’artista.
Ma si può spaziare ben altrimenti perché il poema dei Canti è ricchissimo di suggestioni
visive, in una sorta di ebbra, cantante sinestesia ove il suono dell’acqua, l’eco lontana di
un passo, la «luce bizzarra al vento»18 si trasformano in colore puro. Basta ricordare l’incipit di Sogno di prigione, peraltro accuratamente sottolineato da Morandi: «Nel viola della
notte odo canzoni bronzee. La cella è bianca, il giaciglio è bianco […] Silenzio: Il viola
della notte: in rabeschi dalle sbarre bianche il blu del sonno»19.
Come può Morandi non restare colpito, abbacinato da questa distesa silenziosa, viola,
bianca, blu, solo percorsa da fremiti bronzei?
Certo, Campana è prevalentemente notturno, crepuscolare, luciferino (quella «forma nera
cornuta immobile» che lo guarda «immobile con occhi d’oro» durante il ritorno dalla Verna, presso Campigno….20), mentre Morandi ama le solarità metafisiche del mezzogiorno,
ma entrambi considerano come età dell’oro, sorgente inesauribile a cui attingere, proprio
quel Rinascimento che l’altrettanto giovane Roberto Longhi invoca e riafferma contro le
provocazioni futuriste: Leonardo, Raffaello, Michelangelo per Campana; Piero, Giovanni
Bellini e lo stesso Leonardo per Morandi, più aulico comunque, sempre più classico,
apollineo nella sua sostanza quanto il poeta è dionisiaco e faustiano.
Secondo carattere che certamente interessa Morandi e lo avvicina a Campana è la dimensione della lontananza in cui si situa ogni sua irruzione nel sogno e nella visione. È
il senso della distanza («il lontano refrigerio di colline verdi»21) che crea la prospettiva, la
profondità sia del racconto che dell’immagine e ne sottolinea l’alterità, il distacco, rispetto
al soggetto, poeta o pittore che sia.
Alla distanza si accompagnano poi, come ancelle fedeli, tanto nell’uno quanto nell’altro,
la sospensione e l’assenza.
Sospensione infatti in Campana: «e del tempo fu sospeso il corso»22; e in Morandi: basta
pensare ai suoi altissimi Paesaggi del 1943, attoniti, fermi, come in attesa della vita che
ritorni. Assenza ancora, in Campana: «noi soli tre vivi nel silenzio meridiano»23, la luce
piena sentita come vuoto, silenzio, privazione; assenza anche in Morandi, quei suoi interni intessuti di luce ed abitati solo dalle tracce dell’uomo e mai dall’uomo.
Infine, il terzo elemento comune ai due «quasi amici», incontratisi solo qualche volta in
gioventù, «fiutatisi» subito e poi allontanatisi l’uno dall’altro, senza mai perdere – questo
vale certamente per Morandi – la stima e l’interesse per l’altro.
Entrambi aspirano alla semplicità, all’unità.
Per Morandi questa tensione sarà la molla che reggerà tutta la sua vita d’artista – che poi
significa la sua vita, tout court.
A Campana la semplicità apparirà sempre come desiderio struggente, persino utopia,
sogno edenico di una sempre più insperata redenzione. La sua invocazione-confessione
in una lettera del 14 dicembre 1917 a Carlo Carrà è toccante: «Ora tutto potesse per un
momento almeno ritornar divinamente semplice e uno»24.
Semplice, cioè «intrecciato, sistemato una volta per tutte» (la radice sem è la stessa di semel
o semper25). Uno, in quanto «originale», «singolo», termine che con uguale significato è
proprio alle aree celtica, baltica, germanica e greca da una comune origine sumerica. A
riprova del fatto che il concetto di ‘unità’ è antichissimo e affratella tutti i popoli come
qualcosa di primo, archetipico, divino26.
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Giorgio Morandi. Saggi e ricerche 1990-2007
202
L’incontro fra Giorgio Morandi e Dino Campana
Anche Morandi ricerca la solidità, la purezza e vent’anni dopo, quasi in controcanto, confesserà all’amico Bargellini de “Il Frontespizio”, quello stesso cui invia le cinque lire per
la tomba di Campana: «“Prima di morire vorrei condurre a fine due quadri. Quello che
importa è toccare il fondo, l’essenza delle cose”»27. Dice «essenza» e si sente che intende
l’essere, quella stessa entità umana e divina verso cui, come Dino Campana e insieme a
lui, non può che tendere con tutto se stesso.
(in I portici della poesia: Dino Campana a Bologna (1912-1914), a cura di Marco Antonio
Bazzocchi e Gabriel Gacho Millet, Bologna, Patron, 2002, p. 87-97).
Note
Cfr. D. Campana, Sul più illustre paesaggio, in Dino Campana. Sperso per il mondo. Autografi sparsi
1906-1918, a cura di G. Gacho Millet, Firenze, Olschki, 2000, p. 101, v. 13.
2
Il testo più significativo è certamente la copia del Canti Orfici che Morandi acquista dal poeta
nell’autunno del 1914, che questi gli dedica e che poi rimane sempre fra le carte più care all’artista,
fino al trasferimento al nuovo Museo Morandi, nell’estate del 1993, insieme a tutti gli arredi dello
studio.
3
Cfr. G. Gacho Millet, “Parole rotte” di Dino Campana a Bologna, in I portici della poesia: Dino
Campana a Bologna, Bologna, Patron, 2002, p. 11.
4
Al momento della sua scomparsa, avvenuta nel 1985, Giuseppe Raimondi lega al costituendo
Museo Morandi tutti i suoi articoli e la sua corrispondenza con l’artista, amico di una vita: i due
prendono infatti a frequentarsi assiduamente agli inizi del 1918, per restare amici intimi fino agli
anni Cinquanta. Fra i documenti dell’album figura anche il suo articolo del 1923 fino a quel momento del tutto sconosciuto.
5
Cfr. Catalogo Vitali, n. 47.
6
Cfr. D. Campana, La notte, in Canti Orfici, Marradi. Tip. F. Ravagli, 1914, p. 14-15; p. 16; p.
25 (anche: Milano, Rizzoli, 1989, p. 90, 92, 101). Si consideri inoltre, come rivela Gacho Millet a
chiusura del suo saggio, che anche Morandi risponde alla sottoscrizione lanciata su “Il Frontespizio”
del luglio 1938 da Piero Bargellini per la tomba di Campana. L’artista invia cinque lire, in memoria
del compagno di gioventù.
7
Cfr. R. Bacchelli, cit., in “Il Tempo”, Roma, 30 marzo 1918.
8
Si tratta del Ritratto con il cappello nero della sorella Dina, allora adolescente tredicenne, del
1912-1913. Cfr. Catalogo Vitali, n. 3.
9
Ibidem, n. 11.
10
Cfr. D. Campana, La Verna. II. Ritorno, v. 13 (Canti Orfici, cit., 1989, p. 127).
11
Cfr. dattiloscritto inedito di Raffaello Franchi, La firma di Morandi, inviato dal letterato all’artista
il 21 marzo 1941 e ora conservato presso il Centro Studi Giorgio Morandi di Bologna: «La prima
volta ch’io vidi Morandi fu nel 1916. Tornavo da Milano, pieno di nostalgia, alla mia Firenze. [...] E
la mia città era la mia unica realtà desiderabile, il mio solo rifugio necessario. Tuttavia volli fermarmi
a Bologna, dove sapevo di avere degli amici: Francesco Meriano, Giuseppe Raimondi, Riccardo
Bacchelli e pochi altri». Non c’è che dire: l’ambiente, le figure sono sempre gli stessi.
12
Cfr. Gabriel Gacho Millet, cit., 2000, p. 24.
13
Innumerevoli sono i passi dei Canti Orfici in cui il poeta si riferisce esplicitamente o implicitamente a artisti e opere, a cominciare da Leonardo e Michelangelo per giungere a suoi contemporanei come Cézanne, i futuristi e il faentino Domenico Baccarini: «Il museo. Ribera e Baccarini
[…] Ragazzine alla marinara, le lisce gambe lattee che passano a scatti strisciando spinte da un vago
prurito bianco». Cfr. Faenza, p. 92-93, in Canti Orfici, cit., 1989, p. 156-157.
E importanti sono i saggi che riservano uno spazio particolare al rapporto tra visione e visionarietà
in Campana, da quelli fondamentali di Eugenio Montale del 1942 (La poesia di Dino Campana)
e di Alessandro Parronchi su “Paragone” (dicembre 1953) al recente studio di Giorgio Zanetti, La
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favola delle immagini, inserito nel più ampio volume Il Novecento come visione, edito dall’Istituto
Gramsci Emilia – Romagna nel 1999. Si deve allo studioso bolognese la sintetica considerazione
secondo cui «per Campana la pittura si intrecciava indissolubilmente all’esperienza della poesia»
(ibidem, p. 135).
14
Arabesco – Olimpia, ora in G. Gacho Millet, cit., 2000, p. 138.
15
Cfr. D. Campana, Canti Orfici, cit., 1914, p. 110-111 (cit., 1989, p. 172-174).
16
Ecco i brani che Morandi evidenzia: La notte: p. 7, 12-16, 18-21; La Verna (Diario): tutto, da
p. 47 a p. 52, e ancora p. 53-54, 60-61, 62-65; Viaggio a Montevideo: p. 75-77; Firenze (Uffizi):
p. 85-86; Faenza: p. 91-93; Sogno di prigione. La giornata di un nevrastenico (Bologna): p. 110-111
e p. 113; Il russo: p. 130-133; L’incontro di Regolo: p. 143-146; Scirocco (Bologna): p. 149-152; Crepuscolo mediterraneo: p. 155-157; Piazza Sarzano: p. 161-163.
Come nelle note seguenti, i numeri di pagina si riferiscono alla prima edizione del 1914, quella in
possesso di Morandi.
17
Cfr. D. Campana, Canti orfici, cit., p. 9. È la «piazzetta» che Faust «giovine e bello» (p. 18) trova
a lato della «torre barbara» nella sua Faenza, «vecchia città, rossa di mura» (p. 7).
18
Ibidem, p. 23.
19
Ibidem, p. 105.
20
Ibidem, p. 64-65.
21
Ibidem, p. 7.
22
Ivi.
23
Ibidem, p. 11.
24
Lettera di Dino Campana a Carlo Carrà da Lastra a Signa, il 14 dicembre 1917, pubblicata in
Dino Campana. Le mie lettere sono fatte per essere bruciate, a cura di Gabriel Gacho Millet, Fiesole
– Milano, 1978, p.132.
25
Cfr. G. Devoto, Avviamento alla etimologia italiana, Milano, Mondadori, 197, p. 386. Ma anche
G. Semerano, Le radici della cultura europea, vol. II, Firenze, Olschki, 1994, p. 566.
26
Ibidem, p. 86.
27
P. Bargellini, Artisti italiani: Giorgio Morandi, in “Il Frontespizio”, Firenze, settembre 1937.
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Le ragioni di un rifiuto
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Giorgio Morandi. Saggi e ricerche 1990-2007
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Il punto di vista di Giorgio Morandi
sul saggio monografico
di Francesco Arcangeli (1960-1963)
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Quest’ultimo capitolo e le appendici che lo seguono, avendo al suo interno
materiale inedito non sono presente nel pdf informativo.
La monografia completa è presente in molte librerie e sul sito
http://shop.giorgiomorandi.it al prezzo di 35€
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Natura morta, 1954 - (V. n. 923) - Cagliari, Musei Civici
(legato testamentario di Francesco Paolo Ingrao; già Collezione Francesco Arcangeli)
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