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ARIMINUM Storia, arte e cultura della Provincia di Rimini Periodico bimestrale fondato dal Rotary Club Rimini Anno XIX - N. 5 - Settembre/Ottobre 2012 1921. Le onoranze al Milite Ignoto Roberto Rossi: Il trombone di Viserbella “L’isola e le rose” di Walter Veltroni Borgo Marina Il Porto antico e medievale EDITORIALE SOMMARIO IN COPERTINA “Ombre sul Porto di Rimini” di Gianluca Casoni TRA CRONACA E STORIA Anni Venti/4 novembre 1921: le onoranze al “Milite ignoto” pag. 6-8 Novecento riccionese 1929. La Cucina economica pag. 11 PAGINE DI VITA Corrado Ghini Il calvario della prigionia pag. 12-14 DENTRO LA STORIA Alle origini del traffico cittadino pag. 16-17 VISERBA La cronaca in pillole pag. 18-19 STORIA DELL’ARCHITETTURA Borgo Marina pag. 20-23 ARTE Le piccole Madonne della Ghiara pag. 24-25 “L’adorazione dei Magi”, di Giorgio Vasari pag. 26 FOTOGRAFIA Riccardo Varini pag. 31 MOSTRE Enzo Maneglia a Fighille pag. 32-33 Luciano Filippi a Villa Verucchio pag. 34-35 Fuori onda VELTRONI E LE ROSE … Ho letto “L’isola e le rose” di Walter Veltroni e mi è piaciuto. Un bel romanzo. Brioso e vero. Vero anche nelle parti di pura fantasia. Non pensavo mai che un “esterno” riuscisse a penetrare così bene nel genius loci di questa città e cogliere quel sentimento di orgogliosa leggerezza che si annida nell’animo del riminese, sempre pronto a rincorrere i propri sogni con quella sana incoscienza che lo spinge a credere di cambiare il mondo stando seduto al bar. Non pensavo mai, insomma, che un “forestiero”, per quanto scrittore talentuoso, fosse in grado di intingere l’ispirazione negli effetti sorprendenti del nostro Garbino. Ma non sono qui a parlare del libro – il compito, su queste colonne, spetta a Nando Piccari –, bensì dell’autore. E lo faccio tornando con la mente a lunedì 16 gennaio, quando mi trovai a tu per tu con Walter Veltroni al Grand Hotel. Dei politici ho un’opinione pessima; l’ho scritta chiaramente nel precedente “Fuori onda”, e Veltroni è un politico. Quel pomeriggio, tuttavia, non aveva indosso quel genere di casacca. Nella grande hall del fascinoso albergo, sprofondati su due comodissime poltrone, abbiamo fatto una passeggiata nel tempo per più di un’ora come due vecchi amici; una chiacchierata a ritroso su Rimini, centro di gravità dei suoi pensieri, dagli anni del secondo dopoguerra a quelli della Bella époque. Lo avevo al mio fianco con carta e penna, come uno studentello voglioso di arricchire la propria preparazione. Mi pressava di domande; collezionava aneddoti, date, umori, stranezze, tuffandosi tra le onde di quel sogno di libertà che è nel dna di questo borgo gratificato dal sole e dalla nebbia. Ed io che tenevo le briglie di quel colloquio esaudendo richieste e colmando dubbi, mi stupivo di volta in volta della sua brama di ricerca e di approfondimento. Beh, quella disponibilità all’ascolto, addolcita di gentilezza e garbata semplicità, mi ha lasciato un piacevolissimo ricordo. Di quella conversazione al Grand Hotel avrei voluto serbare il silenzio; se lo infrango, rendendo note queste impressioni, è perché Walter Veltroni, ringraziandomi pubblicamente sul libro, ha voluto divulgare il nostro incontro. E di questo gliene sono grato. MUSICA Roberto Rossi Trombonista jazz” pag. 34-35 ALBUM A spasso per la città I fornai pag. 41 M. M. … A PESCA DI LETTORI La cartolina di Giuma LIBRI “L’Isola e le rose” pag. 42-43 “John Lindsay Opie” pag. 44-45 “Partigiane” pag. 46-47 DIALETTALE Compagnie e personaggi della ribalta riminese. Valeria Parri pag. 48 NUMISMATICA La medaglia del Rotary Club Rimini Riviera pag. 51 ARIMINUM Le bagnanti di Maneglia pag. 52 ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 | 5 TRA CRONACA E STORIA Anni Venti / 4 novembre 1921 Le solenni onoranze Al “Milite Ignoto” Il Tricolore torna a sventolare in città e fin dalle prime ore del mattino una folla enorme invade il corso d’Augusto e le due piazze di Alessandro Catrani Volantino del Comitato riminese per le Onoranze al Soldato Ignoto del 28 ottobre 1921 V enerdì 4 novembre 1921, San Borromeo, «tempo discreto, ma nebbioso» (1): la nostra città vive alcune ore di insolita commozione per le programmate solenni onoranze alla salma del Milite Ignoto la quale, nelle stesse ore, sta giungendo a Roma per essere tumulata nell’Altare della Patria. Fin dalle prime ore del mattino Rimini assume un aspetto speciale: quello dei grandi avvenimenti. Ovunque sventola il tricolore. Dalle finestre delle vie principali pendono i più caratteristici e variopinti addobbi inneggianti alla Patria. La cerimonia d’apertura è prevista in Duomo per le 9,30. Il Tempio è gremito di gente, di ufficiali del Regio Esercito, di autorità e di rappresentanze. Il colpo d’occhio è magnifico. Al centro rifulge il Catafalco artisticamente addobbato con ai lati bandiere e corone: vegliano su di esso, tutt’intor- DAL SETTIMANALE CATTOLICO “L’AUSA” «DOVE SONO I SOCIALISTI?» 6 | ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 no in cerchio, le truppe del 27° Reggimento Fanteria, un plotone dei Regi Carabinieri in alta uniforme, un plotone di Guardie Regie, un altro della Guardia di Finanza ed i Giovani Esploratori (sia quelli di terra che di mare). Alle 10 circa ha inizio la funzione religiosa. La messa è celebrata da S.E. il Vescovo Scozzoli assistito dal Capitolo e dal Collegio dei Parroci. Una valente schola cantorum, egregiamente diretta da don Angelo Renzi, col concorso della società corale “Amintore Galli” e di aggregati forestieri, fra i quali il tenore Rossi di Bologna ed il baritono Grotti di Urbino, esegue, con accompagnamento di organo ed archi, la Messa da Requiem di Perosi. Alle 10,30 uno squillo di tromba annunzia l’Elevazione. Si forma un silenzio assoluto, rotto appena dai rintocchi della campana e «dal sincronico e caratteristico rumore delle armi manovrate per il Present’arm. La commozione è intensa e generale: è l’attimo della Consacrazione, del raccoglimento, della preghiera ardente» (2). Terminata la funzione religiosa, un gruppo di ragazze, sotto S «Commemorando il “soldato sconosciuto”, la Patria ha commemorato un autentico figlio del popolo… l’egida del maestro Savioli, intona la toccante “Canzone del Piave”, mentre la fiumana di gente, uscendo dal Tempio, si compone in corteo per recarsi a piedi al Cimitero. È un corteo di proporzioni gigantesche, lungo almeno due chilometri (numerosissime le corone di fiori). L’ordine del corteo è, annota il cronista del settimanale cattolico “L’Ausa”, il seguente: «precedeva una lunga rappresentanza dell’Associazione Madri e Vedove dei Caduti in Guerra; seguivano: gli Orfani di guerra ricoverati nell’Istituto Salesiano, gli Orfani di guerra del Ricreatorio Asilo, il gonfalone del Comune portato e scortato da due donzelli comunali, Associazione Combattenti e Mutilati, Giovani Esploratori, Fascio Riminese di Combattimento, operaie crive il cronista de “L’Ausa” il 5 novembre 1921: «Dove sono i socialisti? Boh?!… Se i socialisti non parteciparono alle solenni manifestazioni di ieri, bisogna dire che a Rimini di socialisti non ce ne siano più o che siano ben molto pochi, perché noi abbiamo riportato l’impressione che tutta Rimini, come un sol uomo, abbia vibrata nella stessa commozione, nello stesso atto di fede e di pietà. Il contegno dell’Amministrazione Comunale socialista fu poi semplicemente assurdo, ridicolo, illogico, incoerente, per non dir di peggio. Il Comune lanciava un manifesto (nel riquadro, n.d.r.) dichiarando di non poter partecipare alle onoranze del Milite Ignoto, riservandosi di ammanirgli una manifestazione popolare 4 novembre 1921. Il corteo in corso d’Augusto verso il ponte di Tiberio e, sotto, all’imbocco della piazza Cavour. della manifattura tabacchi aderenti al sindacato cristiano, Opera Biasini Belisardi, ufficiali ed autorità, Istituto Tecnico Valturio, Scuole Elementari Tonini, Tiro a Segno, Regia Scuola Tecnica, Regia Scuola Arti e Mestieri, Regio Ginnasio, Collegio San Luigi, associazioni liberali, Croce Verde, Società Sportiva Libertas, Circolo della Filodrammatica, Regie Scuole Magistrali, Regia Scuola di Tirocinio, rappresentanza del Capitolo e del Collegio Parrocchiale, banda del Circolo Giovanile Cattolico dal Maestro Cavalier Parmeggiani con rappresentanza del Circolo, Unione Nazionale dei Reduci di Guerra, Partito Popolare Italiano, Società Cattolica di Mutuo Soccorso, Circolo Salesiano, Circolo Don Bosco, Istituto Fanciulle Abbandonate» (3). … di quel popolo che nel silenzio seppe sopportare enormi disagi, incalcolabili sacrifici per la salvezza del Paese» Attraversando le vie principali della città (via Serpieri, corso d’Augusto), in composto ordine e al suono della banda del Circolo Giovanile Cattolico e della musica del 27° Reggimento, il corteo interminabile raggiunge a piedi il civico cimitero. Lì, fra le croci e le tombe, la sfilata si snoda silenziosamente e i partecipanti vanno a deporre fiori e corone sul monumento ai caduti riminesi eretto a cura dei fanti del 27° Reggimento. Chiosa il cronista de “L’Ausa”: «Le onoranze al Milite Ignoto costituirono a Rimini, come del resto anche altrove, una manifestazione squisitamente popolare, democratica. Questa, secondo noi, fu la loro principale caratteristica, la loro impronta, la loro fisionomia. E non poteva essere altrimenti. Perché commemorando il soldato sconosciuto, la Patria ha commemorato un autentico figlio del popolo, una crea- per il giorno 13 corr. (più popolare, più democratica, più proletaria di quella di ieri non sarà possibile!) e poi, con sublime incoerenza, mandava al Corteo il suo Gonfalone portato da due valletti comunali… Chi ci capisce qualcosa è bravo! È il caso di dire ai signori Amministratori del Comune che si decidano una buona volta: o per la Patria o contro la Patria! O si voleva da loro onorare la memoria del soldato sconosciuto e allora non vi era occasione migliore per far ciò di quella che ieri presentava il grandioso Corteo di popolo, in cui uomini di tutti i partiti erano presenti. O non si voleva partecipare alla glorificazione tura di popolo, di quel popolo che nel silenzio dei veri eroi, seppe sopportare enormi disagi, incalcolabili sacrifici per la salvezza del Paese» (4). Note 1) Cfr. Diario del generale Ferrucci, sub 4 novembre 1921, Archivio dell’Autore. 2) “L’Ausa” del 5 novembre 1921. 3) “L’Ausa”, cit. 4) “L’Ausa”, cit. del Milite Ignoto e, in questo caso, era perfettamente inutile pubblicare dei manifesti commemorativi e mandare al Corteo il Gonfalone del Comune. Perché così facendo, i socialisti di Rimini hanno dimostrato ancora una volta che essi antepongono il sentimento della disciplina del Partito al sentimento dell’amor Patrio. Tale bassezza di sentimento fa semplicemente schifo!». (Per ulteriori approfondimenti sulla querelle si veda la risposta polemica apparsa sul settimanale socialista “Germinal” nel numero del 12 novembre 1921) ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 | 7 TRA CRONACA E STORIA IL MANIFESTO DEI SOCIALISTI Un invito a non partecipare alle onoranze M unicipio di Rimini. Cittadini. Da ogni parte d’Italia, dai più umili borghi alle cospicue città, per ogni casa, per ogni via, per l’ampia solitudine dei campi, oggi si ripercuotono mille echi di tristi ricordi, di strazi infiniti, di sacrifizi inauditi, e nella pallida luce di questo melanconico inizio di Novembre s’inchina riverente l’omaggio di tutto un popolo, alla memoria di quanti nell’immane tragedia della guerra fecero olocausto della loro vita per l’adempimento di un supremo dovere. I nostri cuori di uomini e di socialisti non possono rimanere indifferenti in questo coro di universale compianto e non sentirsi profondamente commossi al ricordo di tante vittime che hanno incontrato una morte gloriosa ma oscura, e giacciono senza nemmeno il conforto di una lacrima e di un fiore sulla loro tomba. Quest’Amministrazione Comunale ha votato per la circostanza un fondo in favore delle vedove e degli orfani di guerra; ma ha deciso di non partecipare alla dimostrazione ufficiale di oggi, per non confondersi con coloro che dalla unanime vibrazione di cordoglio traggono ancora motivo di rinnovati osanna al terribile massacro di cui piangiamo le vittime: vittime ignote che sdegnano l’incomposta coreografia degli sbandieramenti e delle fanfare, per placarsi soltanto nell’austero silenzio espressione del loro vero dolore. La Giunta ha stabilito inoltre di indire per il giorno 13 corr. un corteo, senza carattere di parte, ma schiettamente popolare, il quale in un tacito solenne raccoglimento si rechi al Cimitero per rendere il dovuto omaggio ai caduti e cospargere di fiori le loro tombe e la loro memoria. Tra quei tumuli sorga dalla grandiosità del dolore, la visione ammonitrice della mostruosità del male che non abbiamo saputo evitare, e ciascuno di noi, ritraendosi da quel rito di morte, giuri a se stesso che nessun sacrificio gli sarà grave, nessuno sforzo impossibile pur d’impedire che altri lutti, altre stragi, altre devastazioni trattengano più oltre l’ascesa dell’Umanità verso i suoi nuovi destini di pace, di amore, di fratellanza universale. Rimini 4 novembre 1921. La Giunta Municipale: A. Clari, Sindaco, B. Pedrizzi, A. Porcellini, M. Macina, G. Bordoni, C. Giannoni, V. Belli, U. Lugli, B. Montefameglio». NEL RICORDO DI ETTORE TOSI BRANDI L’ultimo caduto della grande guerra T empo fa, mentre stava coraggiosamente combattendo contro un nemico invincibile, proprio come quei soldati che spesso ricordava, per incoraggiarlo gli dissi che tanto lui era un duro e da duro doveva reagire. Mi disse: “Sapessi quanto mi costa farlo!”. Questo era Ettore: Una scorza da burbero, ma in realtà un uomo fondamentalmente buono di cuore e di animo, che però non voleva che altri scoprissero il lato “tenero” del suo carattere. Ma nono- 8 | ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 stante quella sorta di barriera difensiva che s’era costruito intorno, lo stimavamo e gli volevamo bene. Ettore era un Italiano che amava l’Italia e si era sempre adoperato, nelle mostre e nelle manifestazioni storiche, ad esaltare il valore del soldato italiano. E noi di ARIES, che lo abbiamo avuto accanto come un fratello, lo abbiamo voluto onorare come un Caduto della Grande Guerra, una pagina di storia che tanto lo appassionava e lo coinvolgeva. A me viene a mancare una colonna portante, un insostituibile supporto. Ciao Ettore ti ricorderemo sempre con stima ed affetto. Il tuo amico GAIO Ettore Tosi Brandi, morto il 14 settembre 2012 (nato nel 1943), era sabotatore parà del IX Col Moschin e decano della rievocazione storica 1a e 2a guerra mondiale italiana e dei suoi materiali. TRA CRONACA E STORIA Novecento Riccionese / 1929. La “Cucina Economica”. La fascia della miseria «Nell’“elenco dei poveri”, vale a dire di coloro che ricevono il sussidio pubblico e l’assistenza gratuita, 245 famiglie per un totale di 750 persone» N ei primi mesi del 1929 è operativa su tutto il comune di Riccione la “Cucina economica”. Promossa dalla Congregazione di carità e dal Fascio questa istituzione, dal 15 gennaio al 10 marzo, distribuisce ai poveri e alla «categoria dei braccianti, costretti alla disoccupazione a causa della terribile stagione invernale», 25.363 pasti caldi: 22.400 elargiti direttamente sul posto (400 al giorno), mentre gli altri 2.963 a 22 famiglie dimoranti in campagna. Queste ultime, «data la distanza e l’imperversare del cattivo tempo non poterono ritirare le minestre», di modo che, al posto dei pasti, beneficiarono di alimenti per un valore equipollente (1). Tra i benemeriti della “Cucina economica” figurano i seguenti riccionesi: Amati Amato (L. 10), Amati Lucio (L. 25), Bagli Attilio (L. 10), Bagli Giovanni (L. 20), Basigli Michele (L. 50), Bedeschi Roberto (L. 20), Bernardini Guglielmo (L. 10), Bianchini Gaetano (L. 50), Bonazzi Alberto (L. 20), Campana Cesare (L. 5), Campanini Erminio (L. 20), Casali Elviro (L. 100), Casali Nicola (L. 20), Ceccarelli Giuseppe (L. 15), Cecchini Giovanni (L. 25), Cesarini Battista (L. 10), Ceschina Gaetano (L. 500), Cicchetti Vittorio (L. 10), Conti Lucio (L. 20), Copioli Giuseppe (L. 20), Corazza Maria (L. 3), Del Bianco Ernesto (L. 10), Del Bianco Romeo (L. 25), Del Bianco Serafino (L. 25), Fabbri Girolamo (L. 40), Fabbri Matteo (L. 5), Fabbri Vittorio (L. 10), Fascioli Mario (L. 20), Franciosi Elio (L. 15), Galavotti Ribelle (L. 100), Geminiani Giuseppe (L. «Tutti i Riccionesi benemeriti della “Cucina economica”» 15), Graziani Alessandrina (L. 25), Graziosi Pier Giacomo (L. 50), Leardini Antonio e figli (L. 10), Maioli Adamo (L. 5), Mancini Adolfo (L. 10), Mancini Lorenzo (L. 100), Mancini Silvio (L. 15), Manzi Martino (L. 25), Marchetti Alessandro (L. 20), Massani Archimede (L. 10), Matteoni Giuseppe (L. 5), Metalli Francesco (L. 10), Mignanelli Giorgetti Guido (L. 10), Montali don Giovanni (L. 50), Mordacchini Annibale (L. 100), Nandi Guido (L. 50), Nicolini Sisto (L. 10), Panigali Nicola (L. 5), Papini Giuseppe (L. 20), Pari Ferdinando (L. 30), Pari Giovanni (L. 20), Pasolini Guglielmo (L. 25), Passerini Arnaldo (L. 40), Petrucci Giuseppe (L. 15), Pullè Felice (L. 50), Raspi Ester (L. 10), Riccioni Federico (L. 50), Rinaldi Giuseppe (L. 15), Rinaldi Luigi (L. 10), Rinaldi Mauro (L. 10), Romagnoli Arturo (L. 10), Romussi Carlo (L. 50), Semprini Paolo (L. 50), Serafini Sanzio (L. 100), Sirocchi Francesco (L. 20), Sorci Lazzaro (L. 20), Tirincanti Armando (L. 15), Tonini Attilio (L. 10), Tontini Pietro (L. 100), Uneddu Gian Francesco (L. 2), Zanni Carlo (L. 100), Zannoni Mariano (L. 25); inoltre: Cassa di Risparmio di Rimini (L. 500), Comitato di cura (L. 500), Cooperativa birocciai (L. 50), Direttorio del fascio (L. 500), Ditta Calza e Manzi (L. 50), Ditta Cesare e Ugo Villa (L. 100), Pensione Maz- zoni (L. 25). A favore della “Cucina economica” offrono generi alimentari: Bar Sport di Cesare Del Bianco: kg. 10 di pasta alimentare; Canducci Giovanni: kg. 1,900 di lardo; Cicchetti Oreste: kg. 20 di fagioli; Clementoni Igino: due fiaschi di olio d’oliva; Fabbri Alfonso: kg. 14 di olio d’oliva; Papini Dario: kg. 50 di fagioli; di Manlio Masini Patrignani Guerrino: kg. 15 di fagioli; Saponi Aldo: kg. 24 di pasta alimentare (2). Per completare l’argomento della indigenza, ancora due parole sull’ “elenco dei poveri”, ovvero il “registro dei derelitti” ai quali è concesso un sussidio pubblico e l’assistenza gratuita. All’inizio del 1929 in questa lista, approvata dal comune di Riccione, figurano 245 famiglie per un totale di 750 persone; nell’anno precedente le famiglie bisognose erano 209 per un totale di 672 persone (3). Il dato accerta l’aumento della fascia della miseria. La stazione ferroviaria di Riccione. Note 1) Cfr. “Il Popolo di Romagna”, 19 marzo 1929. 2) Ibidem. 3) Cfr. “Il Popolo di Romagna”, 16 marzo 1929 e VDP, in data 20 gennaio 1928, in ASCRC. L’articolo, qui riprodotto, è tratto dal mio libro Dall’Internazionale a Giovinezza. Riccione 1919-1929. Gli anni della svolta, uscito nel 2009 per i tipi della Panozzo Editore. ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 | 11 PAGINE DI VITA Corrado Ghini / Il calvario della prigionia Nei lager ho imparato a conoscere gli uomini «Non firmai la lettera di adesione alla Repubblica Sociale Italiana pur sapendo che quell’atto mi avrebbe permesso di tornare in libertà» di Corrado Ghini Attestato di permanenza al campo di Corrado Ghini Particolare della lettera ai genitori di Corrado Ghini dal campo di concentramento N el tempo in cui mi trovavo prigioniero dei tedeschi, i miei genitori si adoperarono in ogni maniera, presso il Comando Tedesco e la Direzione Compartimenta- le delle ferrovie dello Stato a Bologna, per ottenere il mio rientro in Italia, essendo le ferrovie militarizzate. Proprio su loro pressione, sul finire del 1944, mentre ero al campo di Sandbostel, fui chiamato al Comando Tedesco per firmare la formula di adesione al lavoro che mi avrebbe permesso di essere posto subito in libertà. Il documento da sottoscrivere era così formulato: “Aderisco all’idea repubblicana fascista e mi dichiaro pronto a prestare la mia opera di lavoratore, senza riserve nella lotta contro il comune nemico dell’Italia repubblicana fascista del Duce e del Grande Reich Germanico fino alla vittoria”. Non condividendo le premesse della liberazione, rifiutai di firmare e ai miei genitori scrissi 12 | ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 queste testuali parole (ho recuperato la lettera al mio ritorno): «Vi ringrazio molto per il vostro interessamento presso il mio ufficio, ma non ne ho accettato le condizioni. Cercate di comprendermi e state tranquilli». Negli ultimi sei mesi di prigionia, nel campo di Wietzendorf, fummo tormentati dalla tragedia del lavoro obbligatorio. Sempre più frequentemente impresari e contadini venivano a palparci i muscoli: ci guardavano in bocca e, come fossimo degli schiavi, sceglievano i più idonei alle varie faccende. In tal caso i malcapitati passavano alla condizione di civili e portati via a forza. Il fatto di essere ritenuto di scarso rendimento è stato per me la salvezza. Altri momenti angosciosi si verificarono a Sandbostel e a Wietzendorf quando più volte le sentinelle dalla torrette, «I tedeschi ci consideravano dei traditori e come tali eravamo trattati con disprezzo» senza motivi evidenti, mirarono ad ufficiali singoli o a gruppi ferendone ed uccidendone alcuni. La notte dal 6 al 7 aprile 1944, dopo averlo convocato con un inganno, venne vigliaccamente ucciso da una sentinella a Sandbostel il Cap. Thun Von Hohenstein trentino di origine boema, che aveva decisamente rifiutato di optare per la Germania. I tedeschi ci consideravano dei traditori e come tali, eravamo trattati con disprezzo. Essi non tennero mai in considerazione la Convenzione di Ginevra per i prigionieri di guerra e ci declassarono ad “Internati” escludendoci in tal modo da qualsiasi aiuto materiale e morale della Croce Rossa Internazionale ed anche di quella Italiana. Più volte fummo radunati per ascoltare gerarchi fascisti che venivano a proporci di aderire al nuovo esercito della R.S.I. o in alternativa, a collaborare come lavoratori volontari per PAGINE DI VITA La cartolina di Alberto Marvelli Caro Corrado grazie delle notizie e del tuo ricordo per noi e per Lello. Anche noi ti ricordiamo spesso e rimpiangiamo la tua assenza. Carlo non scrive dal 4 novembre, ma dovrebbe star bene. Noi siamo a Vergiano, Villa Ugolini; è Fornasari a S. Mama (Arezzo) essendo la loro casa crollata completamente. Anche a Rimini poche sono rimaste in piedi. Tutti i nostri giovani di A. C. sono sfollati. Saluti dalla mamma e fratelli. Da me un abbraccio. Alberto (Cartolina spedita il 26 febbraio 1944) il Grande Reich. Dopo la liberazione, da elementi raccolti tra il personale germanico già in servizio al campo, risultò con fondatezza, che nella prima decade di aprile era arrivato l’ordine tassativo di Hitler di uccidere gli ufficiali italiani mediante azione di mitragliamento o bombardamento del campo. Le predisposizioni necessarie per l’attuazione erano già in corso ma il piano non venne attuato probabilmente perché gli avvenimenti precipitarono ed i tedeschi si trovarono di fronte alla certezza di dover rispondere di tale infame «In occasione del Natale 1944 nel lager di Wietzendorf realizzammo un magnifico presepe» crimine. In occasione del Natale 1944 nel Lager di Wietzendorf realizzammo un magnifico presepe. I personaggi furono creati con mezzi di fortuna, ad esempio il manto azzurro della Ma- donna venne confezionato con la fascia di un ufficiale. Una volta ritornato in Italia appresi che quest’opera natalizia fu trasportato a Milano, nella basilica di Sant’Ambrogio. Solo il bue con un grande collare ed una grossa campana rimase nel campo per tenere compagnia a quanti lo hanno visto e non sono più tornati. Degli oggetti personali son riuscito a salvare l’orologio da tasca, che mi fu compagno per tutta la prigionia. Durante le perquisizioni poche volte mi fecero togliere le scarpe e quando lo fecero non si accorsero che nella punta di uno scarponcino del N° 43 (io ho sempre portato il 40) era nascosto il mio Zenith. Durante uno spostamento in treno, appena risaliti dopo una sosta, avevo trovato il modo di appisolarmi nel carro con uno scarponcino appoggiato alla stufetta spenta. Di notte la stufa venne accesa senza che me ne accorgessi e svegliandomi mi trovai con la punta della scarpa tutta bruciata. Meno male che il piede non arrivava fino in fondo e l’orologio era nascosto nella punta dell’altra calzatura. Nei vari Lager ho incontrato diversi riminesi. Ricordo con viva simpatia: Leopoldo Bellagamba, Nicola De Nittis, Renato Brioli, Vittorio Voltolini, Guido Giorgi, Pietro Foschi, Edmondo Della Casa, Pietro Para, Manuel De Sarno e tanti altri di cui conservo gli indirizzi che ci scambiammo. A distanza di oltre 65 anni, ripensando alla mia prigionia provo un sentimento di vivissimo, continuo ringraziamento al Signore per il sostegno, i benefici e le tante grazie ricevute. Nei lager tedeschi ho imparato a conoscere gli uomini nelle loro manifestazioni più ignobili e più sublimi ed a considerare le idee ed i valori che riuscivano ad esprimere indipendentemente dal grado, dal titolo di studio e dal ruolo rivestito. Più che le sofferenze, ricordo i frutti che ne sono derivati che hanno fatto crescere in me la disponibilità, la generosità, una più limpida lealtà, il senso dell’onore, dell’onestà e della verità. Oggi che il tempo ha fatto giustizia di tante cose malfatte, mi viene sempre più il fatto di pensare al periodo trascorso in prigionia come a un austero, intenso periodo di esercizi spirituali, dove l’anima si è forgiata al bene non virtuale, ma secondo coscienza dopo una catarsi che, superato il mezzo secolo, non posso che ritenere provvidenziale. ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 | 13 PAGINE DI VITA Corrado Ghini C orrado Ghini, al ritorno dalla prigionia, ha ripreso il suo lavoro presso le Ferrovie dello Stato a Bologna. Si é sposato nel 1948 a Rimini nella Parrocchia di San Giovanni Battista con Giovanna Fabbri, maestra elementare, insegnante presso la Scuola Comunale di Passano di Coriano. Nel 1950 la sua nuova famiglia si é trasferita a Bologna ove abita tuttora. È stato alle dipendenze delle Ferrovie dello Stato sino al 1978. La famiglia di Corrado attualmente é composta, oltre che dalla moglie, da tre figlie con i rispettivi coniugi, 7 nipoti e 6 bisnipoti. «Quando penso al periodo trascorso in prigionia lo avverto come a un austero, intenso periodo di esercizi spirituali» Don Luigi Francesco Pasa D on Luigi Francesco Pasa, instancabile e indimenticabile cappellano salesiano, condivise la sorte degli internati Militari nei lager di Beniaminowo, Sandbostel e Wietzendorf, finì suoi giorni a Rimini, ospite di una parente, il 27 agosto 1977. Dal 1994 i suoi resti mortali sono custoditi nella Cappella Votiva del Cimitero dedicata ai Caduti di tutte le guerre, a fianco della lapide a muro che ricorda i tre martiri riminesi caduti La chiesa di San Girolamo dopo i bombardamenti del 1944. 14 | ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 per la libertà. Il mio «buon compagno di prigionia» (opera di Don Pasa per gli Internati Militari Italiani nei lager del Terzo Reich) era nato ad Agordo di Cadore il 17 marzo 1899, aveva combattuto nella Grande Guerra tra i «ragazzi del ‘99» ed era stato poi legionario con D’Annunzio a Fiume. Il 7 luglio 1929 fu ordinato sacerdote salesiano. Divenne Cappellano Militare nella Regia Aeronautica e in tale ruolo prestò la sua attività all’Aero- porto di Aviano. Nel settembre 1943, in seguito alla violenta reazione dei tedeschi dopo l’annuncio dell’armistizio, per non abbandonare i suoi avieri subì la deportazione nei lager del terzo Reich, dove rimase internato per oltre due anni nei campi di Benjaminowo, Sandbostel e Wietzendorf. Il nome di don Pasa per migliaia e migliaia di internati nei lager fu sinonimo di speranza e di coraggio. DENTRO LA STORIA Le prime norme del traffico cittadino Dal senso unico ai semafori Le regole del 1865 fissano i parcheggi, impongono i divieti e stabiliscono le contravvenzioni di Manlio Masini C on l’arrivo degli anni Sessanta dell’Ottocento, Rimini avverte l’esigenza di regolamentare il traffico della via Principe Umberto (oggi Giovanni XXIII). L’arteria, della ferrovia sono obbligati a «battere», specifica l’ordinanza del sindaco, il corso Umberto, mentre quelli che ritornano in città devono procedere per le vie Clodia e Gambalunga (2). pur essendo grande e rettilinea, nella stagione dei bagni comincia a non reggere più il viavai di persone, veicoli e merci che procede in direzione dello Stabilimento balneare e della Stazione ferroviaria(1). Soprattutto nei giorni di mercato il movimento delle vetture, che fanno la spola dal centro storico ai due luoghi di riferimento, crea notevoli ostacoli alla circolazione e provoca non pochi incidenti: cavalli imbizzarriti che se ne vanno a briglie sciolte per la carreggiata, derrate alimentari che stramazzano a terra, litigi tra vetturali, urla, imprecazioni... . Proprio per queste scene di ordinario quotidiano, nell’estate del 1865 il municipio istituisce su quel tratto di strada il transito a senso unico. Tutte le vetture e i mezzi di trasporto che marciano in direzione del mare e Contemporaneamente all’istituzione del senso unico lungo la via Principe Umberto, il primo in assoluto nella storia di Rimini, si dettano le disposizioni anche per i parcheggi dei mezzi di locomozione che, da tempo, nei giorni Comunicazioni del sindaco di Rimini, Pietro Fagnani, del 16 giugno 1865 sui luoghi di parcheggio dei carri e delle bestie e sulle prime norme che regolamentano il traffico cittadino (Cart. Gen. in ASCR-ASR.). Via Principe Umberto con transito a senso unico, dalla città al mare. 16 | ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 di mercato creano notevoli inconvenienti ai cittadini. Gli esercenti, infatti, in assenza di precise norme, sono soliti abbandonare i carri e le bestie dove capita, per poi andarli a riprendere a mercato concluso. Le nuove regole del ’65 fissano i parcheggi, impongono i divieti e stabiliscono le contravvenzioni. Dal quell’anno nessuno potrà più fare il proprio comodo: qualsiasi veicolo, con o senza animali, dovrà essere lasciato sul piazzale della Rocca (piazza Malatesta) e nei piazzali delle chiese dei Teatini e di Santa Innocenza. I mezzi di trasporto che occuperanno altri spazi saranno multati (3). Nei giorni di mercato la viabilità cittadina è completamente stravolta. La folla che cala a Rimini in quelle canoniche giornate crea un susseguirsi di ingorghi, ostruzioni e infortuni. La strada che risente maggiormente di questa baraonda è il corso d’Augusto e precisamente quel segmento compreso tra le due piazze: un «budello» sempre intasato DENTRO LA STORIA di veicoli, che impediscono il normale cammino dei passanti. Tanto che in alcuni momenti della giornata attraversare quella strettoia diventa un’impresa. Col tempo, inoltre, ai carri, ai barrocci e alle carrozze si aggiungono le biciclette, le motociclette e le automobili. Intorno alla fine degli anni Dieci il disordine su quella strada è talmente indescrivibile che qualcuno avanza l’ipotesi di istituire addirittura un’ “isola pedonale”; in mancanza di questa, c’è chi invoca più rigore nell’applicazione delle norme di circolazione ed in particolare di quelle che impongono l’utilizzo della circonvallazione per carri e carrette di passaggio. Norme, queste, che – a detta dei giornali – nessuno rispetta, perché manca chi, codice alla mano, provveda a stilare contravvenzioni (4). Scrive “Germinal” il 23 agosto 1919: «Il transito di quel tratto del corso d’Augusto che va da piazza Giulio Cesare a piazza Cavour è davvero impossibile sia per l’eccessivo agglomerato di persone, che specialmente nei giorni di mercato ostacolano il passaggio, sia per l’andirivieni continuo di veicoli d’ogni genere». Negli anni Venti su quel caotico tragitto si insediano addirittura i binari del tram elettrico e il mastodontico mezzo di trasporto pubblico, che dalla piazza Cavour raggiungerà l’affollata piazza Giulio Cesare e viceversa, non farà che aumentarne di gran lunga l’intasamento (5). Un po’ di respiro, si avrà a partire dagli anni Trenta, quando il merca- to traslocherà nell’ex caserma di San Francesco. Ma poi, con l’aumento sempre più frenetico del traffico motorizzato, tutto tornerà come prima, se non peggio, e s’imporranno nuove regole. E tra queste, le innovative «segnalazione di viabilità elettrica», cioè i semafori. Il primo rivoluzionario aggeggio a tre luminosità viene installato nell’incrocio di via Tripoli con le vie Flaminia e XX Settembre. È il “Diario Cattolico” del 23 settembre 1933 che ne dà l’annuncio: «dal 3 corr. in avanti (nei crocevia …) la circolazione dei veicoli e dei pedoni è disciplinata da semafori a tre colori: verde, giallo, rosso. Il vede è segnale di via libera; il giallo è segnale di avvertimento e di sgombro; il rosso è segnale di arresto». Il binario del tram in Corso d’Augusto. Il mercato di piazza Giulio Cesare ingolfato di traffico e attraversato dal tram elettrico su rotaie. Note 1) Lo Stabilimento balneare viene inaugurato nel 1843, mentre la linea ferrata Bologna-Ancona è del 1861/62 2) La vigilanza della normativa spetta alle guardie municipali. Si veda il “Regolamento di Polizia Urbana” del 9 settembre 1864 e l’articolo 101 della Legge municipale 23 ottobre 1859. Questa norma è la prima regolamentazione del traffico cittadino. C’è da dire, tuttavia, che alla fine degli anni Trenta dell’Ottocento una «disposizione» indirizzava il traffico esterno o extra urbano, sulla nuova circonvallazione proprio per evitargli la strettoia della strada Maestra (corso d’Augusto). 3) Cfr. Avviso n° 2151 - Regno d’Italia / Municipio di Rimini - del sindaco Cav. P. Fagnani (segretario capo municipale Francesco Turchi) datato 16 giugno 1865, in Carteggio Generale 1865 B. 900, presso ASCR-ASR. 4) Cfr. Elia Testa, “Relazione sui vari servizi dipendenti dall’Ufficio di Polizia Municipale”, Tipografia Artigianelli, Rimini 1908, Allegato n°64, in ACCR,. 5) Il passaggio del tram in piazza Giulio Cesare è motivato dall’esigenza di “servire” la stazione. Il mezzo pubblico, dopo aver attraversato la strettoia del corso d’Augusto prosegue lungo la via IV Novembre. I lavori di sistemazione dei binari tranviari lungo il corso iniziano nell’aprile del 1926 e nel giugno di quell’anno è inaugurata la linea. Il primo luglio 1939 con l’arrivo della filovia il capolinea urbano verrà trasportato in piazza Giulio Cesare (cfr. Manlio Masini, “Rimini in tram”, Maggioli, Rimini, 1985). ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 | 17 VISERBA Dalla stampa (1893-1915) La cronaca in pillole «Tra le richieste del Comitato: la stazione dei carabinieri, il servizio medico notturno, la strada litoranea e le stufe negli ambienti scolastici» a cura di Manlio Masini 1913 / Mariuoli da spiaggia «Viserba, 16 luglio. La scorsa settimana diversissimi capanni vennero visitati dai ladri che asportarono lenzuoli, accappatoi e costumi. Uno solo dei mariuoli venne tratto in arresto. È bene si sappia che non è di qui. Quanto sarebbe necessaria una stabile stazione di carabinieri!». Il Momento, 17 luglio 1913. 1913 / I soliti ignoti «Furti. - A Viserba nella Villa Maccaferri di notte ad ora imprecisata ignoti involarono in un comò L. 4.000 appartenenti ad una signora forastiera che trovasi colà ai bagni. Dei lestofanti si fa attiva ricerca». Corriere Riminese, 20 agosto 1913. 1913 / Un crescendo impressionante di furti «Viserba, 21 sett. Furti. È impressionante il crescendo dei furti che si commettono lungo la spiaggia tra Viserba e Viserbella. Dopo il furto patito 18 | ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 dal Sig. Maccaferri abbiamo avuto altri tre furtarelli. L’altra notte a Viserba, forzando una finestra verso il mare, penetrarono nella calzoleria di Melandri Archimede asportando scarpe e sandali e arrecando un danno di circa 200 lire. S’intende che i cavalieri di destrezza possono commettere a loro bell’agio le loro gesta, perché la spiaggia di giorno e di notte è lasciata in un deplorevole abbandono. Una stazione di carabinieri è una necessità urgente. Speriamo che il Comitato Pro Viserba saprà comprendere tra i bisogni del paese anche questo, della presenza della forza pubblica». Il Momento, 25 settembre 1913. 1913 / Eroi delle tenebre «Viserba, 8 ottobre. Vandalismo - Domenica notte alcuni eroi delle tenebre fracassarono parecchie lampadine elettriche di quelle che illuminano il viale. Questi atti teppistici si vanno moltiplicando e impressionano. E ancora non ci si accorda una stazione di RR. Carabinieri!». Il Momento, 9 ottobre 1913. 1913 / La notte senza medico “Viserba, 8 ottobre. Condotta medica - Il nostro medico è in permesso regolare ed è stato sostituito da un altro sanitario che disimpegna con premura il suo interinato, ma è doloroso che per esigenze professionali egli non possa pernottare in paese. Così gli abitanti, in caso di bisogno si troveranno senza medico. Non è il caso di provvedere, signor R. Commissario?». Il Momento, 9 ottobre 1913. 1914 / Hanno rubato un cavallo “Viserba, 2.14. Furto. La notte scorsa è stato rubato dalle stalle del vetturale Enrico Bernardi un cavallo del valore di circa L. 350. La frequenza dei furti impressiona questa popolazione che reclama una stazione di RR. Carabinieri”. Il Momento, 1 gennaio 1914. 1914 / I soliti impuniti “Viserba, 13 gennaio. Furto. I soliti ignoti, hanno rubato da un terreno del sig. Gamberini un palo appartenente alla Società dei telefoni. Come gli autori dei precedenti furti sono rimasti sconosciuti, così rimarranno anche questi ultimi. Il Comitato Pro Vi- serba intanto inizia pratiche direttamente a Roma presso il Ministero dell’Interno per ottenere una stazione di RR. Carabinieri”. Il Momento, 15 gennaio 1914. 1914 / Una strada per dare lavoro ai disoccupati “Viserba, 8 settembre. Per provvedere alla disoccupazione, giovedì il Sindaco ricevette il Comitato Pro Viserba al quale fece promessa formale che per dare lavoro agli operai si sarebbe provveduto alla completa esecuzione del progetto, da tempo preparato e approvato, della strada litoranea che deve unire Viserba a Viserbella, non solo ma anche del ponte. Così il desiderio degli abitanti e dei forestieri sarà, speriamo, un fatto compiuto”. Il Momento, 13 settembre 1914. 1914 / Scolari che marinano la scuola “Viserba. Istruzione pubblica. - Se esiste una legge sulla istruzione obbligatoria; vi saranno anche delle pene per i trasgressori. Perché non si esercita, da chi ne ha l’obbligo, una maggiore sorveglianza sui genitori che trascurano di far frequentare le scuole ai loro figli? Si vedrebbero per le strade meno monelli e si registrerebbero meno atti vandalici, perché la scuola istruisce, educa e ingentilisce l’animo”. Il Momento, 31 dicembre 1914. 1915 / Sia imparziale, per l’avvenire! “Al Capo Stazione. - È vero che l’Art. 320 della legge sui lavori pubblici vieta agli estranei alla ferrovia di introdursi, di circolare e fermarsi nel re- cinto di essa, ma è anche vero che tale divieto è generale e non secondo il capriccio di chi avrebbe il dovere di far osservare a tutti indistintamente tale divieto. Ora si domanda al nostro Sig. Capo Stazione perché solo a qualcuno richiede il rispetto della legge, mentre alla maggior parte, non esclusi i bimbi, lascia libero il passaggio? Lungo il binario è un continuo transito persino di biciclette! Sia imparziale, per l’avvenire”. Il Momento, 13 febbraio 1915. 1915 / Imparziale sì, ma solo con quelli che “hanno più criterio”! “Il Capostazione di Viserba ci scrive a proposito della corrispondenza pubblicata nell’ultimo numero, avvertendo che gli è spesso impossibile impedire il transito in luoghi vietati e che, perciò, redarguisce a preferenza coloro che ‘hanno più criterio’. Prendiamo atto delle sue dichiarazioni, notando però che il sistema da lui adottato si presta agli equivoci; meglio sarebbe chiedere alla Direzione Compartimentale – se non una guardia fissa – un cancello; in ogni caso far procedere per tutti alle contravvenzioni del caso”. Il Momento, 27 febbraio 1915. 1915 / Arrestato un bruto “Atti di libidine a Viserba: la chiusura delle scuole. Lunedì scorso è stato tratto in arresto e deferito all’autorità giudiziaria V. M. per atti di libidine consumati su una diecina di bambine, alunne delle scuole elementari. Il V. -che è proprietario dello stabile e in esso ha la sua abitazione- approfit- tava di tale circostanza per i suoi scopi immondi. Il fermento della popolazione perdurò vivissimo anche dopo l’arresto, tanto che si credette opportuno chiudere senz’altro le scuole. Ci auguriamo che possano essere quanto prima riaperte in più... sicura sede”. Il Momento, 1 maggio 1915. 1915 / In piazza a reclamare lavoro “Viserba. Disoccupazione. Martedì una numerosa schiera di lavoratori disoccupati si recarono a Rimini in Comune per reclamare l’inizio di lavori già approvati, poiché il bisogno della classe operaia è tale da non ammettere ulteriori dilazioni. Venne nominata una commissione... La commissione, ricevuta con molta cortesia dal Sindaco e dagli Assessori ... si portò poi dal Sotto Prefetto... Avuta assicurazione del suo interessamento, la Commissione ringraziò e scese in piazza a riferire agli operai che con calma dignitosa attendevano l’esito dei due colloqui avuti. Conosciute le risposte e le assicurazioni avute, si sciolsero pacificamente dando prova di educazione civile”. Il Momento, 8 maggio 1915. 1915 / “Viserba. Scuole. - Nelle nostre scuole, a tutt’oggi, non sono state accese le stufe per riscaldare gli ambienti che raccolgono i nostri piccoli scolari. E così i bambini se ne tornano a casa piagnucolando e intirizziti dal freddo. Richiamiamo l’attenzione di chi dovrebbe già aver provveduto a meno che non si attenda il mese delle rose. Il Momento, 23 dicembre 1915. ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 | 19 STORIA DELL’ARCHITETTURA I siti sopra e di fianco al Borgo di Marina Il porto e i sobborghi tra le mura e il mare Un patrimonio storico di mura e torri malatestiane e medicee distrutto per l’attuazione di uno dei primi piani regolatori di Rimini di Giovanni Rimondini Agostino di Duccio, formella del Cancro, Cappella dei Pianeti, Tempio Malatestiano. L’immagine del porto e delle sue fortificazioni e del Borgo di Marina dovrebbe essere abbastanza realistica. L’ipotesi sostenuta nell’articolo è che questa immagine riproduca l’antico porto romano e quello medievale. Il porto antico nella parte destra del fiume apparso durante gli scavi della ghiaia. La banchina primitiva sporge in basso, con un probabile masso bucato per assicurare le barche con corde. Sopra questa banchina ve n’è un’altra antica sempre di pietre squadrate, segno forse dell’incipiente fenomeno di subsidenza. (Foto Emilio Salvatori) N on pretendo di formulare verità indiscutibili ma ipotesi fondate e ragionevoli su due aree urbane dalla storia assai complessa se non intricata: l’area portuale tra il ponte d’Augusto e Tiberio e porta Galliana, e il fora da mare tra il Borgo di Marina e l’anfiteatro. Anche per la conoscenza di queste aree si deve attingere alle pubblicazioni di Oreste Delucca che ha ampliato a dismisura le nostre fonti di conoscenza (1). Tuttavia è possibile, a mio avviso, proporre ipotesi alternative plausibili alle tradizionali affermazioni storiografiche sia sull’area portuale del Marecchia sia sul sito del presunto secondo porto antico di Ariminum. Scavi ben diretti e relazioni di scavo pubblicate in tempi ragionevoli confermeranno o meno le seguenti ipotesi che mi sembrano più promettenti. Partiamo dalla veduta di Rimini di Agostino di Duccio, la formella del Cancro, senza la pretesa che sia una fotografia del porto di Rimini dei suoi tempi, potrebbe però rappresentare la scena del porto sia antico che medievale fino alla metà del ‘400. Tra la torre portaia sul ponte e la porta 20 | ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 Galliana, sono rappresentati: a) il bordo del fiume – possibile banchina naturale o molo di attracco delle barche –; b) un telo di mura merlate ma senza beccatelli; c) un altro telo di mura merlate senza beccatelli più alte. Malgrado le numerose vicende testimoniate dagli atti superstiti di una storia più che millenaria del fiume e del porto, avanzo l’ipotesi che questa sia la scena reale unica del porto a cui riferirsi per tutta la storia dal 268 avanti Cristo – il porto romano comprendente anche le banchine di pietra scoperte sull’altra sponda – agli anni di Sigismondo Pandolfo (1417 -1468). Vediamo qui raffigurato tutto lo spazio del porto antico e di quello medievale. Si noti che la prima mura merlata va dal fianco della porta Galliana alla metà circa della porta sul ponte. È dunque il muro che esiste tuttora e che contiene, con grossi rappezzi, il canale del porto nella parte destra. L’altro muro è scomparso senza lasciare traccia visibile. Nel muro superstite, come hanno rilevato Marcello Cartoceti e Luca Mandolesi, che hanno condotto parziali scavi nell’area, si aprono due porte, una quasi a sesto acuto e una a tutto sesto, probabilmente di epoca sigismondea – di una terza c’è una traccia –; davano accesso dalla città alle banchine del porto. Dietro queste porte sono stati ritrovati frammenti di ceramiche dei primi del ‘500, epoca in cui presumibilmente queste aperture e la porta Galliana vennero terrapienate. La parte del muro sul canale che vediamo oggi tra le porte murate e il ponte risale al ‘700. Nel bassorilevo, la porta Galliana ha davanti due piccole ‘false braghe’ merlate, oggi scomparse, e le banchine continuano nell’area portuale del Borgo di Marina. Nell’area alla destra della via del mare (attuale via Giovanni XXIII) usciti dalla Porta di Marina – la trecentesca porta di san Giorgio o dei Cavalieri, che forse prendeva il nome da un Collegio dei Cavalieri di San Giorgio che decadde o non riuscì a decollare nel 1551 (2) –, sulla destra si stendevano gli orti dei Sobborghi di Marina: li divido in tre parti: l’addizione di Carlo presso la chiesa dei Domenicani; le fortificazioni malatestiane e cinquecentesche, spacciate dal Clementini come il molo e il faro del presunto secondo porto di Ariminum; il muro romano del 268 a.C, con due torri, dall’uscita della fossa Patara dalle mura antiche fino all’Anfiteatro. Espongo dei fatti osservati da studiosi importanti e non recepiti dagli addetti ai lavori. For- Sulla banchina romana o sulle banchine romane hanno costruito una banchina in cemento che rimane sempre sott’acqua, una delle mostruosità del gravissimo e irrimediabile disastro che ha compromesso l’esistenza del ponte antico. (Foto Emilio Salvatori) mulo ipotesi alternative che, ripeto, solo oculate campagne di scavi potranno accertare o falsificare. I Domenicani vennero in città intorno alla metà del ‘200 ed ebbero dal Comune di Rimini la chiesa di San Cataldo vicino al muro cittadino appena costruito, e insieme si assicurarono una posterula o piccola porta in detto muro per andare in un terreno di loro proprietà subito fuori le mura. Com’è noto fu Carlo Malatesta a circondare con una fortificazione quadrangolare il terreno extraurbano dei frati e a togliere loro, per così dire, le chiavi di casa. Nel maggio del 1770, Jano Planco col suo odiosamato discepolo Antonio Battarra, esplorò tutto il muro cittadino dalla parte del mare, ancora in cerca di prove materiali dell’esistenza del porto antico, e in una lettera a Cristofano Amaduzzi del 17 maggio 1770, trascrisse un’epigrafe “nel muro tra i due torrioni che rinchiudono il convento dei Domenicani”. Eccone il testo: TEMPORIS. INIURIA. DIRUT / AERE. PUB / FERNANDUS. NERIUS. I.V.D. / FRAN. MARIA, BLANCHELLUS / ET. BERNARDINUS. PETRONUS / PRAEFECTI. CONSTRUNXERE / M D C X X [Per ingiuria del tempo rovinate (mura e torri), a spese pubbliche, Ferdinando Neri dottore in diritto pubblico ed ecclesiastico, Francesco Maria Bianchelli e Bernardino Petroni prefetti, fecero costruire nel 1620.] (3). Mi sono ingegnato in quattro articoli su “Ariminum” a mostrare nei dettagli la falsità dell’affermazione di Cesa- re Clementini dei due porti antichi di Ariminum, uno sul Marecchia e uno su un “Seno di mare” tra il Marecchia e l’Ausa (4). L’impossibilità fisica di un simile porto venne constata dal “proto” veneziano Tommaso Temanza in uno scambio di lettere con Jano Planco (5). Il Planco difese il Clementini ma non seppe ribattere alle ragioni fisiche e idrauliche del Temanza. Il presunto molo con il presunto faro antichi del Clementini sono invece – e questo è più di un ipotesi, è un fatto documentato – il Murus comunis Apse altrimenti detto bertressche da mare per le quali nel 1382 si preparavano i mantelletti ossia le ventole di legno tra un merlo e l’altro, messe in opera in previsione di un assedio (6). Il muro che partiva dal muro cittadino dopo la foce della fossa Patara e finiva in mare, era stato costruito, secondo Marco Battaglia, dai Malatesti nel 1352 per difendere i sobborghi di Marina e forse anche per dare i confini ad un’addizione urbana. Lì comunque, tra il muro e il mare, finirono imbottigliate le truppe pontefice nell’assedio del 1469 contro Roberto Malatesta, che vi erano penetrate guadando il Marecchia dal Borgo San Giuliano, tanto che per liberarsi dovettero fare un buco nel muro e superare in mare il Torrazzo, il presunto faro romano. Nel punto dove questo muro che si inoltrava in mare si staccava dalle mura cittadine venne eretta nei primi decenni del ‘500 una torre cilindrica detta la Tenagliozza, sulla quale Jano Planco, in visita come s’è detto, scrive: “Ci è ben fatta l’arme del Pon- Tutto questo ben di Dio storico di mura e torri malatestiane e medicee fu distrutto nei primi del ‘900 per l’attuazione di uno dei primi piani regolato- Al centro: Carta topografica con la confinazione dell’area del porto e delle mura fino all’anfiteatro. ABCD: il Borgo di Marina. 1 Banchina del porto romano. 2 Due porte quattrocentesche che davano sulla banchina del porto medievale. 3 Porta Galliana del XV secolo. 4 Porta dei Cavalieri o di San Giorgio o del mare. 5 Bastione di San Cataldo. 6 Torrione della Tenagliozza del secolo XVI. 7 Torraccia, fortificazione a mare del secolo XIV. 8 Uscita della Fossa Patara, o cloaca maxima di Ariminum. 9 Muro romano del III secolo a.C. e due torri romane. 10 Anfiteatro del I secolo d.C.. ri di Rimini. Lo sbocco della Fossa Patara, che era la cloaca maxima di Ariminum con una nicchia sul fornice, ho fatto Sotto: Veduta del porto antico e medievale e dei restauri del secolo XVIII, dal ponte dei Mille. tefice di Casa Medici, che sarà o di Leone X o di Clemente Settimo, giacché a sinistra ci è l’Arme di Francesco Guicciardini, che fu Presidente sotto di que’ due Pontefici della Romagna” (7). ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 | 21 Particolare della pianta allegata al Raccolto istorico di Cesare Clementini, di Giovanni Arrigoni del 1617, con le fortificazioni di spiaggia malatestiane e medicee spacciate per “I Muri dell’antico Porto. A destra: Particolare di una mappa del 1877. Si riconosce in basso la chiesa di san Girolamo (distrutta) e in alto le mura del bastione di San Cataldo e la torre medicea detta la Tenagliozza dalla forma a tenaglia, impiantata sulle mura del XIV secolo [Archivio di Stato di Rimini, Archivio Comunale, carteggio b. 1078]. in tempo a vederlo prima che lo murassero nel cortile degli autobus vicino a piazzale Clementini. Le mura e la torre romane sono state riconosciute e preservate da Giuseppe Gerola, a Rimini nell’agosto del 1915 per salvare l’Anfiteatro romano dallo stesso piano regolatore. In quell’occasione, condotto da Vittorio Belli, lui che era sovrintendente ai monumenti a Ravenna, scrisse una lettera al sovrintendente archeologico di Bologna. Ne ripubblico la parte saliente perché, stranamente, non è ancora stata presa in considerazione dagli addetti ai lavori e in molti non la conoscono: “Recatomi stamani a Rimini ho potuto esaminare il muro di cinta che dall’Anfiteatro romano, lungo il lato nord della città, si dirige verso la stazione. Per il passato le piante ed altri impedimenti non permettevano di esaminarlo e ora la mia attenzione è stata richiamata colà dal dottor [Vittorio] Belli, che con molta passione segue i rinvenimenti archeologici della sua città. Contrariamente a quanto io credeva, la cinta originale risale quasi per intero all’epoca romana –sia pure della decadenza–. Nell’evo medio fu soltanto risarcita in qualche punto e quasi totalmente stuccata di nuovo. Lungo il percorso delle mura si ammirano gli avanzi di una porta a doppia ghiera di mattoni molto simile ai lavori dell’Anfiteatro, e più avanti un certo arco sotto di cui passa un corso d’acqua; quivi è pure ricavata nel muro una nicchia che si direbbe destinata ad accogliere una statua”. La lettera del 14 VIII 1915 si conserva nella Soprintendenza ai beni naturali e architettonici di Ravenna. A mio avviso, si deve correggere dove assegna il muro ad età tardo antica, si tratta invece delle mura primitive di Ariminum larghe tre metri, e non quelle di Aureliano larghe un metro e mezzo; se si scava si trovano le mura ad opus incertum di arenaria come presso l’Arco di Augusto. L’arco a doppia ghiera non appartiene ad una porta ma è l’ingresso tamponato in antico di una torre. Note 1) O. Delucca, L’abitazione riminese nel Quattrocento, I, S. Patacconi, Rimini 2006, pp. 907-940, 961-979. 2) M. Zanotti, Collezione, III, SC-MS 285, p.79, Biblioteca Gambalunga Rimini. 3) G. Bianchi (J. Planco), Lettera a Cristofano Amaduzzi, 17 V 1770, Accademia dei Filopatridi di Savignano sul Rubicone. 4) Rimondini, Il porto di Rimini in “Ariminum” XV, 4 2008; id. 5 2008; id. 6 2008; id. XVI, 1 2009. 5) Nella prefazione della ristampa anastatica di Tommaso Temanza Delle antichità di Rimino, Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini, Rimini 1996. 6) O. Delucca, op.cit., p. 962, n.5. 7) G. Bianchi [J. Planco], Lettera a Cristofano Amaduzzi, del 12 VII 1770, Accademia dei Filopatridi di Savignano sul Rubicone. Particolare di una porta del porto medievale murata in antico. 22 | ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 STORIA DELL’ARCHITETTURA Porta Galliana Era il crocevia della prostituzione Zona calda delle tentazioni proibite, piccola Babilonia del sesso P orta Galliana: un nome suggestivo, un’origine medievale incerta che incuriosisce e sollecita ancora delle risposte, una storia che si perde nella notte del tempo. Ma anche un nome imbarazzante a lungo proferito sottovoce per non incorrere in equivoci o per non arrossire. Per secoli questa porta malatestiana ha identificato tutta l’area settentrionale del Rione Clodio adiacente al porto canale confinante con le mura di cinta; un agglomerato urbano sudicio, rigurgitante di miseria e di ignoranza, ricettacolo di loschi individui. Nelle vicinanze della Porta Galliana, estremo lembo di questa suburra cittadina, era concentrato il traffico della prostituzione. Presso l’arco gotico si davano convegno meretrici, ruffiani e clienti. Con il favore delle tenebre avvenivano gli incontri occasionali e da lì, dopo la contrattazione, ci si incamminava verso i lupanari vicini. Di bordelli più o meno nascosti nella zona ce n’erano diversi e per tutte le tasche. Della loro presenza si trovano notizie nei testi del Clementini, del Tonini e Delucca. Esistevano nel Trecento quando la porta, integra nella sua architettura permetteva l’accesso alla città ed anche dopo la metà del Cinquecento quando, ormai chiusa ed interrata, rappresentava solo un riferimento logistico nella topografia riminese. Fino al 1860 Porta Galliana era sinonimo di biechi movimenti notturni. Da quell’anno le cose cambiavano. Il 15 febbraio un decreto firmato dal ministro Cavour mandava in vigore, su tutto il territorio del nuovo regno, il Regolamento sulla prostituzione. La normativa autorizzava l’apertura di luoghi adibiti al pubblico meretricio. Nascevano le “case di tolleranza”, dove il mestiere più antico del mondo veniva esercitato in piena regola e alla luce del sole, anche se all’interno di ambienti “chiusi”. Gli incontri, i patteggiamenti e il viavai notturno nei pressi della storica porta cessavano. Tutto diventava più semplice e tranquillo: ogni prestazione aveva il suo prezzo con tariffe controllate dalla legge. Del tutto naturale che i primi “casini” autorizzati spuntassero nel settore storico della prostituzione: il Rione Clodio. La via Clodia diventava la zona calda delle tentazioni proibite, una piccola Babilonia del sesso. Col tempo il nome della strada entrava nella fantasia della gente come emblema del piacere a tariffa e finiva per sostituire, nella simbologia popolare, quello che Porta Galliana, ormai nel dimenticatoio, aveva rappresentato per secoli. di Manlio Masini Particolare della Porta Galliana, ristrutturata da Sigismondo Pandolfo nel XV secolo dove trovare e prenotare gratuitamente ariminum Ariminum è distribuito gratuitamente nelle edicole della Provincia di Rimini abbinato al quotidiano “La Voce di Romagna”. È spedito ad un ampio ventaglio di categorie di professionisti ed è consegnato direttamente agli esercizi commerciali di Rimini. Inoltre è reperibile presso il Museo della Città di Rimini (via Tonini) e la libreria Luisè (corso d’Augusto, antico Palazzo Ferrari, ora Carli). La rivista può essere consultata e scaricata in formato pdf gratuitamente sul sito del Rotary Club Rimini all’indirizzo www.rotaryrimini.org ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 | 23 ARTE Tra le vetrine del Museo della Città e del Museo delle Grazie Le piccole madonne della ghiara Una delle più importanti effigi mariane divenuta miracolosa nel luglio del 1596 di Giulio Zavatta Lelio Orsi, Madonna della Ghiara, Reggio Emilia, Basilica della Ghiara Giovanni Bianchi detto il Bertone, Madonna della Ghiara, Reggio Emilia, Basilica della Ghiara Q uando Ludovico Pratissoli, un devoto cittadino reggiano, commissionò nel 1569 a Lelio Orsi un disegno raffigurante la Vergine col Bambino (fig. 1), e in seguito nel 1573 fece realizzare l’affresco col medesimo soggetto al pittore Giovanni Bianchi detto il Bertone (fig. 2), non poteva immaginare che la sua immagine sarebbe diventata una delle più importanti effigi mariane della storia. La prima ubicazione, infatti, era relativamente modesta: l’affresco era posto sul muro di cinta dell’orto dei Padri Servi di Maria di Reggio Emilia, in sostituzione di una Madonna più antica diventata ormai illeggibile. La devozione verso questa bella Vergine fu subito ampia e popolare, tanto che nel 1595 Giulia Tagliavini ne richiedeva la custodia; nel frattempo era stata resecata dal muro e portata entro una piccola cappella edificata con le offerte dei fedeli. Il 29 24 | ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 aprile 1596 avveniva un primo miracolo: per intercessione della Beata Vergine un giovane diciassettenne di nome Marchino, muto dalla nascita, riotteneva la parola. L’evento causò l’accorrere di numerosi fedeli, e il vescovo di Reggio Emilia Claudio Rangoni istruì sollecitamente il processo canonico. Insolitamente, papa Clemente VIII approvò il miracolo in brevissimo tempo, e così il 29 luglio 1596 la Madonna della Ghiara divenne immagine miracolosa, con approvazione dei pellegrinaggi. In seguito, si sarebbero succeduti numerosi altri fatti prodigiosi e miracolosi, e nel corso del Seicento fu costruita la magnifica basilica reggiana dedicata a questa Vergine, nobilitata dai dipinti di alcuni dei maggiori artisti del XVII secolo, specialmente emiliani. Da allora, la diffusione dell’immagine fu rapida non solo su scala locale, ed anche a Rimini si conoscono diverse attestazioni pittoriche. La più rilevante è certamente la bella pala del bolognese Lucio Massari conservata ai Servi, ma opere raffiguranti la Madonna della Ghiara, la cui devozione era estremamente popolare, si possono riscontrare anche nei paesi dell’entroterra, come ad esempio a Monteleone di Roncofreddo, dove nella chiesa dei santi Cristoforo e Caterina è conservata una notevole pala seicentesca con San Carlo Borromeo che adora la Madonna della Ghiara. L’intento di questo breve saggio è quello di focalizzare l’at- Tre avori intagliati raffiguranti Madonna della Ghiara (fine XVI-inizio XVII sec.?), Rimini, Museo delle Grazie «Si tratta di intagli in avorio di piccole dimensioni, opere anonime raffiguranti la Vergine in gloria sulle nubi, con in basso la testina alata di un angelo cherubino» tenzione su quattro piccoli ma preziosi oggetti, tre dei quali conservati al museo delle Grazie, sul colle di Covignano, ed uno in deposito presso il museo, quest’ultimo il meglio conservato e dotato di una bella cornicetta dorata, anch’esso proveniente dalla collezione del santuario francescano. Si tratta di intagli in avorio, di piccole dimensioni, raffiguranti la Vergine reggiana, verosimilmente in gloria sulle nubi, con in basso la testina alata di un angelo cherubino. Le tre versioni delle Grazie (fig. 3) sono in qualche modo lacunose: due sono acefale, mancando in entrambe la testa del Bambino, ed una è tagliata in basso, essendo stato asportato il cherubino; mentre l’opera conservata nel museo cittadino è come detto in miglior stato. Non è chiara la loro provenienza, se cioè fossero prodotti riminesi, o più probabilmente emiliani (il museo delle Grazie raccoglie infatti numerose opere provenienti dai conventi francescani d’Emilia, e in particolare un considerevole gruppo di opere di ambito parmigiano). Attualmente sono classificate come opere anonime, e non ne è nota neppure la funzione: forse erano piccoli ricordi, o immaginette che il pellegrino poteva portare con sé: certamente erano oggetti d’uso, visto lo stato di consunzione nel quale ci sono pervenuti. Per questo, non attirano, come dovrebbero, l’attenzione di chi le guarda, per il loro carattere piuttosto devozionale che artistico, e si trovano – piccole come sono – un po’ nascoste tra i tanti interessanti e variegati oggetti conservati nelle vetrine del museo francescano ed in quelle della pinacoteca civica. Diversa sorte tocca invece a una loro “collega”, di fattura migliore ma del tutto coerente come ambito ed epoca, conservata a New York, al Metropolitan Museum (inv. 1976.422.5; gift of Alfred and Victoria Harris, 1976, fig. 4). Negli Stati Uniti l’oggetto è considerato – correttamente – seicentesco (“probably 17th century”) ed è esposto nella sezione di scultura e delle arti decorative italiane dell’epoca del Barocco (Gallery 550 - Italian Baroque Sculpture and Decorative Arts). Rispetto all’enfasi con cui è esposta la parente statunitense, le tre sorelle di Rimini si mostrano con una modestia, è il caso di dire, tutta francescana. Il piccolo e sorprendente museo delle Grazie, tuttavia, può vantare alcuni oggetti che – per la loro rappresentatività e per il loro pregio artistico – nulla hanno da invidiare, come in questo caso, ad analoghe opere conservate nei più importanti istituti museali del mondo. Madonna della Ghiara, avorio intagliato, sec. XVII, New York, Metropolitan Museum ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 | 25 ARTE “L’adorazione dei Magi” Il capolavoro di Giorgio Vasari L’opera giace dimenticata nell’abside della Chiesa di S. Fortunato sul Colle di Covignano di Rinaldo Ripa “L’adorazione dei Magi” di Giorgio Vasari; a destra, nella sua cornice. L ’avvicinarsi delle festività natalizie e dell’Epifania ha risvegliato nella mia memoria il ricordo del magnifico quadro de “L’adorazione dei Magi”, di Giorgio Vasari, che giace, nella generale dimenticanza, nell’abside della Chiesa di S. Fortunato, antica Abbazia di S. Maria di Scolca, sede dei monaci olivetani, sul Colle di Covignano. Entrando nella Chiesa, lo si intravvede appena dietro l’altare, con tabernacolo ed alti candelieri: questa posizione nascosta e per di più nella penombra, per la scarsa luce naturale (ma ora dotata di impianto di illuminazione at- 26 | ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 tivabile), è stata la fortuna del quadro perché lo ha protetto da trasferimenti di sede e da requisizioni da parte dei potenti che si sono succeduti dal 1547, data di esecuzione della pala, quando il Vasari giunse a Rimini. Il Vasari venne a Rimini nell’ agosto del 1547, invitato dall’abate Gian Matteo Faetani, con la promessa di correzione e trascrizione in “buona forma” della sua opera letteraria più famosa “Vite dei più eccellenti architetti, pittori et scultori italiani, da Cimabue infino ai tempi nostri”: per ricambiare “questa comodità” dipinse la tavola della “Adorazione dei Magi” che, ridotta in condizioni precarie, venne restaurata nel 1996 dalla Prof. ssa Adele Pompili di Bologna, sotto la sorveglianza del Prof. Andrea Emiliani, sovraintendente ai Beni artistici e culturali della Regione. Il dipinto è da considerare veramente il capolavoro del Vasari ed un efficace manifesto del “manierismo” italiano, per la raffinatezza dei colori e per l’inesausta ricerca di eleganze formali e decorative, per la disinvoltura e la precisione con cui è stato condotto in tutte le sue parti. La scena è caratterizzata da una atmosfera esotica e magica in cui si agitano in modo pittoresco uomini ed animali che compongono una visione “cosmopolita”, formata da un universo vario ed ideale che trova la sua ragione di unità nello splendido gruppo centrale della Madonna con il Bambino, attorniato dai Tre Magi dal ricco abbigliamento e recanti i loro doni. Sotto, in primo piano, uno schiavo con un pappagallo e una scimmia «Il dipinto, efficace manifesto del “manierismo” italiano, fu restaurato nel 1996» (autoritratto del pittore?). Il restauro della Pala del Vasari venne promosso dal Rotary Club di Rimini di cui, all’epoca, ero presidente. L’iniziativa culturale fu possibile grazie alla partecipazione e alla collaborazione dell’allora Vescovo della diocesi di Rimini, Mariano De Nicolò, e al finanziamento della Fondazione CARIM. L’inaugurazione e la presentazione dell’opera ristrutturata avvenne il 30 maggio 1996 alle ore 21 e fu seguita da tre serate in cui storici, scrittori, archivisti e cultori d’arte portarono la loro testimonianza ad un pubblico attento e numeroso. FOTOGRAFIA Riccardo Varini / Da mare a mare Rimini da tramandare Una visione poetica che si esalta nel silenzio contemplativo della realtà N el borgo di San Giovanni, nel nuovo spazio dell’agenzia NFC situata nella galleria Gorza nell’omonimo palazzo, si è tenuta dal 28 al 30 settembre una piccola ma raffinata esposizione del fotografo reggiano Riccardo Varini intitolata Da mare a mare, prorogata poi, a grande richiesta, anche nella settimana successiva. La mostra è stata accompagnata da un buon successo di pubblico e di critica, ed ha suscitato interesse nei visitatori. Prima di questa occasione, infatti, Varini non aveva mai avuto modo di esporre le sue opere a Rimini, benché nella città adriatica avesse scattato numerose immagini fin dagli inizi della sua carriera, vale a dire da oltre trent’anni. Varini, nato nel 1957 a Reggio Emilia, è spesso definito “allievo” del grande fotografo e concittadino Luigi Ghirri, autore di alcune delle più straordinarie immagini della riviera del dopoguerra. Ed in effetti, a partire dal 1984, anno dell’incontro tra Varini e Ghirri, il più giovane fotografo non ha mai negato l’importanza e la centralità della poetica di Ghirri nella sua stessa opera. Tuttavia, come ha già rilevato Arturo Carlo Quintavalle, ben presto Varini si è avviato su una propria strada, portando agli estremi alcuni aspetti della ricerca di Ghirri, fondendoli con il pittoricismo di alcuni pittori emiliani – in particolar modo Gino Gandini, allievo di Morandi e già amico di Varini –, guardando alle fotografie dei “chiaristi” come Cavalli, realizzando un paziente e continuo lavoro di “sottrazione” e “pulitura” delle immagini. Specialmente nella serie dei “Bianchi”, Varini raggiunge così la piena espressione della sua arte, fatta di semplicità, silenzio quasi contemplativo, arrivando a una visione al contempo pittorica e poetica, segnando un percorso di ricerca del tutto personale. Queste bellissime immagini lo hanno consacrato nel panorama della fotografia italiana contemporanea. Arturo Carlo Quintavalle ha infatti invitato il fotografo emiliano ad archiviare le sue immagini allo CSAC dell’Università di Parma (Centro Studi e Archivio della Comunicazione), che raccoglie le immagini della contemporaneità ritenute significative e da tramandare. Non solo: nell’ultima edizione del MIA di Milano, una delle più importanti rassegne fotografiche in Italia, la prestigiosa testata francese Le Monde ha scelto proprio un’immagine di Varini per rappresentare la rassegna. Nel raffinato catalogo realizzato da Amedeo Bartolini per conto di NFC Edizioni, abbiamo cercato di contestualizzare l’opera di Varini all’interno del filone dei cosiddetti “narratori padani”, ai quali, crediamo, il fotografo reggiano appartenga a pieno diritto. Le vaste distese della pianura (considerata, come suggerisce il titolo, anch’essa un mare), le strade che perdono la propria via di fuga nella nebbia si inquadrano perfettamente nel filone narrativo padano sapiente- mente tratteggiato da Belpoliti e Celati, ed evocato talvolta anche nelle pagine di Pier Vittorio Tondelli, che da un punto di partenza prossimo a quello di Varini ha percorso più volte la via Emilia verso il mare. L’esposizione, tuttavia, prevedeva anche fotografie che, ponendosi all’inizio della carriera di Varini, mostrano una ricerca ancora embrionale, e una Rimini degli anni Ottanta che è al contempo uguale e diversa da allora. La mostra si apriva infatti con un trittico di immagini intercalate intorno al 1984-85, dove ancora comparivano colori forti come il rosso e immagini “piene”, benché ingentilite dalle inquadrature pulite e dall’esposizione in chiaro di Varini. L’occasione della mostra di Varini ha infine consentito anche un incontro tra il fotografo e la poetessa riminese Sabrina Foschini, che in occasione del finissage ha letto alcuni pensieri poetici già editi nelle sue raccolte Terramare (2011) e Il paragone col mare (2002). L’accostamento dei versi di Sabrina Foschini e delle immagini di Riccardo Varini, che si è fortunatamente sedimentato nel catalogo, si è rivelato davvero consono e suggestivo, raggiungendo spesso, seppur per vie differenti e con sensibilità diverse, un comune approdo poetico. di Giulio Zavatta e Alessandra Bigi Iotti Dall’alto: Rimini, 1985. Cervia, 2011. Bassa padana, 1992 (fotografia scelta da “Le Monde” nel recente MIA di Milano). ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 | 31 MOSTRE L’umorismo di Enzo Maneglia al Piccolomuseo di Fighille GIRAVOLTE DEL PENSIERO Un invito al sorriso e a volare con le ali della fantasia di Franco Ruinetti Alla doccia. In alto a destra: La locandina della mostra di Fighelle. Sotto: Giulio Andreotti e Bettino Craxi. E nzo Maneglia è uno dei militanti illustri nel campo dell’umorismo. Nel corso dei decenni è risultato vincitore dei concorsi del settore frequentati dai migliori e che si risolvono nella festa e danza delle idee. In questa categoria si distingue per l’eleganza e la proprietà del segno, che è pungente, ma sempre benevolo. Ogni sua opera rispecchia l’originalità e lo scatto di una mente, che spesso si sofferma sul particolare, per cui i motivi secondari e in genere trascurati assurgono al ruolo di protagonisti. Il segno di Maneglia si muove con naturalezza, ripete le immagini della realtà e della fantasia forgiandole con la singolarità del talento. Diviene un linguaggio efficace perché si carica di suggestioni, mette in luce significati e aspetti inediti, che sorprendono. I soggetti sembrano definiti con un filo che si dipana sottile da un gomitolo nero. Sono, in genere, personaggi che, pur incompiuti o sbozzati, si percepiscono in ogni particolare. Compaiono nella vastità surreale del bianco. Sono sciolti dalle regole comuni, recano il sorriso, fanno pensare. Non hanno necessariamente bisogno della nuvoletta parlante, nè di altri inserti alfabetici, come la didascalia. Anche il titolo è spesso assente. … Certi disegni portano la mente in carrozzella, regalano il piacere di una canzone serena. Ma non è detto che propongano sempre motivi allegri. Non sono certamente comici “I Cassonettari”, le persone buttate via o autoesclusesi dalla società del benessere. Ma fanno compagnia, suscitano un moto di benevolenza, che si accende anche tramite le bat- tute di spirito, le quali, in certi casi, si rendono indispensabili. Queste sono scenette di una creatività feconda e dicono che la contentezza di vivere si può trovare tra gli emarginati più che tra la “bella gente”. Sono spassosi, protagonisti di disegni e dipinti, i pupazzetti con le scatole di cartone. Quegli scatoloni sono gli avanzi della nostra civiltà dei consumi. Li troviamo ammucchiati fuori dai negozi Il solito personaggio di Maneglia ne fa una catasta malferma sul carretto. Il vento li spinge in aria. Volano e passano come il tempo. Diventano aquiloni senza fili, idee che vanno perdute. Per Maneglia tutte le strade portano all’arte. Le strade, in questo contesto, sono i medium, come l’acquarello, le chine, la matita. Per numerosi dipinti si avvale dell’olio, mezzo per eccellenza della tradizione. Allora smette i panni dell’umorista e dipinge con preferenza scorci della vecchia Rimini, quartiere San Giuliano, prossimo al mare, 32 ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 SCENETTE DELLA QUOTIDIANITÀ E nzo Maneglia è un artista colto e sensibile, dotato di un humour raffinato, discreto, in alcuni casi persino amaro e surreale. I suoi disegni sono scenette della quotidianità, che con amabile tenerezza sfiorano le debolezze e i luoghi comuni del nostro tempo. E se da una parte richiamano il sorriso, dall’altra inducono alla introspezione costringendo il lettore a guardarsi dentro. Ho in mente certe fuggevoli espressioni dei suoi “tipi da spiaggia”; l’aria sognante delle sue innocenti bambine; i passatempi del bagnasciuga e le rituali “chiacchiere d’ombrellone”; la puzza sotto il naso di sedicenti intellettuali, spocchiosi e stralunati; i frettolosi turisti del “mordi e fuggi”, che non hanno mai tempo per soffermarsi a gustare i propri stati d’animo, essenziali per assaporare fino in fondo le piccole gioie della vacanza. E poi i suoi scatoloni di cartone, ingombranti, appiccicosi, inutili ... Metafora di una società “usa e getta”, che produce, consuma e fagocita se stessa. Le sue “creature” sono portatrici di una filosofia spicciola, fanciullesca, distaccata dalle passioni: fanno parte di una umanità ingenua, un po’ bislacca, ma pulita e gentile, non ancora intossicata dagli sms e dai siti Internet. (Manlio Masini) con le case basse dei pescatori, che hanno le facciate dai colori diversi fiaccati dalle piogge e dal tempo. È come se dipingesse la solitudine ed il silenzio, che si raccolgono e covano in quelle strade nelle prime ore dei pomeriggi estivi. L’ispirazione ha la scintilla facile. Un foglio di polistirolo diventa il volto di Fellini che ha l’espressione da amico di sempre. È sul punto di dire cose originali con la sua bonaria naturalezza. È esposto in permanenza nella casa riminese che del grande regista custodisce i ricordi. C’è Bearzot, anche lui di polistirolo. L’artista l’ha donato al PiccoloMuseo di Fighille. Accanto alla testa c’è un pallone. È grande come il mappamondo, perché con lui l’Italia è campione del mondo. Ancora. Il sottile filo di ferro diventa un sogno. Compare una bella giovane nuda, formosa quanto basta per non desiderare di svegliarsi. La vita estetica, pensava Kierkegaard, è l’aspirazione ad una vita diversa. Per renderla più serena Maneglia invita al sorriso e a volare con le ali della fantasia. In alto: Maneglia al lavoro. A sinistra: Bearzot e Obama. ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 | 33 MOSTRE Le opere di Luciano Filippi alla “Popolare” di Villa Verucchio … e gli occhi salgono oltre il quadro Un linguaggio materico che supera il reale e una tavolozza che levita nella poesia di Franco Ruinetti Vele. In alto a destra: Composizione. Sotto a destra: Il Grand Hotel. D all’8 al 30 settembre Luciano Filippi ha esposto le proprie opere nelle sale della Cooperativa La Popolare di Villa Verucchio. Ogni volta che ci si ferma davanti ai dipinti dell’artista riminese è come fosse la prima volta. Rivelano motivi nuovi, hanno colori spesso impossibili, carichi di bellezza avvolgente. La tecnica può apparire spregiudicata, comunque i risultati sono convincenti. Il linguaggio è figurativo, ma fino ad un certo punto e a modo suo. Il pittore usa l’olio, l’acrilico, pennello, spatola, però anche altro, come polvere di marmo, resine collanti, catrame, gesso, calce. Di tutta la produzione, vasta e articolata, l’artista, nella personale di Villa Verucchio, ha presentato i paesaggi, le cattedrali e le vele, temi che lo impegnano da tempo, per i quali soprattutto merita stima e successo. I paesaggi. Filippi è il cantore della Romagna. Cerca nell’entroterra i panorami della solitudine. Si vedono folate 34 | ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 di verde trascorrere sulla ribalta del dipinto quando esso racconta le giornate dell’autunno. L’intonazione generale reca la luce, l’anima della stagione. Talvolta all’orizzonte si percepiscono delle case a cavallo di una collina. Sono incerte nella lontananza, forse si riferiscono ad un paese della memoria che affiora nelle radure della nostalgia. Sulla riva del quadro c’è un tumulto di colori. La boscaglia ha rami e tronchi marroni scuri che balzano sulle tonalità del verde, poi compaiono strappate d’azzurro, trasparenze del giallo, quindi tanti colori si fondono, esalano in un alitare appena percettibile. Tra terra e cielo non c’è soluzione di continuità. Le note cromatiche che modellano con chiarezza figurativa le fronde, le modulazioni del terreno, i calanchi, ritornano come echi labili su in alto. Sembra che la natura si purifichi, la materia diviene cielo e l’attenzione trascende, va oltre il reale. Le cattedrali. L’artista è affascinato dalle cattedrali, in particolare dalle gotiche francesi del ‘2, ‘300. Periodicamente sente la necessità di dipingerne una. I colori sono plumbei, così li definisce Manlio Masini. Le tele sono grandi, ma mai abbastanza perché queste chiese sono più grandi di loro, manca lo spazio per il cielo e, spesso, per rappresentare compiutamente le facciate. Luciano Filippi non propone pittoricamente solo questi straordinari monumenti, ma per loro tramite dà luce e configurazione alle emozioni, che sono incontenibili. Viste così da vicino le chiese non stanno in un solo colpo d’occhi, davanti ad esse ci sentiamo piccoli, immersi nell’alone del fascino e nella bellezza. La tecnica è dell’aggiungere e del cavare, forse mai usata prima. Il linguaggio è materico: strati di polvere di marmo, lembi di catrame e così via. Poi l’autore raschia, erode, aggiunge colore. Le tante aperture, il movimento degli archi a sesto acuto, le bifore, le decorazioni, fanno leggera la veduta, che non chiama ad entrare dentro uno dei portali fortemente strombati. Invita a volgere la vista verso il rosone, i pinnacoli, le guglie, in alto verso lo spirito. L’interesse per le cattedrali è certamente originale. Claude Monet ne dipinse alcune per studiare la luce nelle diverse ore del giorno. Sulle facciate di Filippi prevale l’ombra del grigio, che per Kandinsky è silenzio, raccoglimento. Le vele. Le vele sorgono sul fasciame delle barche. Sono slanciate, libere, il quadro non le contiene, vanno oltre e gli occhi di chi guarda le seguono. Ora gialle, poi rosse, quindi bianche, i colori si addensano, si sciolgono, levitano nella poesia. Così il concetto che trascorre nella produzione pittorica di Filippi, in questa tematica è ancora più esplicito. Dalla materia soggetta alla gravità si sprigiona lo spirito, animato da una forza che è tesa verso l’Assoluto. I colori spesso sono sorprendenti. Risultano appropriati e seducenti anche quando il mare ha gorghi blu, sfumature marroni, rimbalzi nel rosso spento. E questo significa che il talento ha infiniti alfabeti. Che parlano dentro. In alto: Neve a Verucchio. A sinistra: Grande fioritura. In basso: la cattedrale. INTRIGO E STUPORE P ur uscendo dal classico linguaggio dell’immagine, la pittura di Luciano Filippi ne mantiene gli ormeggi, distinguendosi ed elevandosi per l’originalità di un lessico che nella trasfigurazione scopre nuove e autorevoli trame espressive. La continua e progressiva ricerca stilistica e cromatica, condotta con serietà e in piena autonomia, ha permesso all’artista riminese di accordare la propria poetica all’interno di una suggestiva sequenza di sfumature timbriche e materiche, dove le cose perdono la loro fisicità per intrecciarsi, e nello stesso tempo sciogliersi, in un ineffabile mondo del mistero. Atmosfere rarefatte, plumbee, ricche di reminiscenze arcane si alternano a fondali limpidi, solari, giocati sulle vibrazioni del colore, che sfarina sapientemente in luce e movimento. Operazioni creative dell’intrigo, quelle di Filippi, che emanano energia, trasmettono emozione, suscitano stupore. E che non lasciano indifferenti. (Manlio Masini) ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 | 35 MUSICA Roberto Rossi/ Trombonista jazz Il trombone di Viserbella Artista dotato di straordinaria musicalità e inventiva e di uno spiccato senso dell’improvvisazione di Guido Zangheri S trumento a fiato d’ottone, forse già noto nell’antichità (le tubae dei romani), nel medioevo il trombone sostenne probabilmente la parte del tenor e anche nei secoli seguenti fu impiegato a raddoppiare le voci. Nel ‘500 ha dato origine a una famiglia di strumenti simili al trombone attuale, della quale il più importante è tuttora il trombone tenore in si bemolle. La singolarità di questo strumento a canna cilindrica come la tromba, è una coulisse telescopica detta anche tiro da cui la denominazione trombone a coulisse o trombone a tiro che permette di abbassare progressivamente il suono fondamentale allungando la colonna d’aria. Monteverdi nell’Orfeo, Cesti nel Pomo d’oro, Schutz nelle Symphoniae Sacrae, Gabrieli nelle Canzoni e Sonate furono i primi ad affidare parti importanti ai tromboni. Furono seguiti da Haendel nel Saul, Gluck, Haydn e Mozart. Il trombone, al pari della trom- 36 | ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 ba, è fra gli strumenti musicali che hanno dimostrato con il passare degli anni le maggiori capacità evolutive e la sua trasformazione che ha tanto arricchito le possibilità dell’orchestra moderna, è dovuta principalmente alla potente influenza del jazz. Così quanti abbracciano l’esperienza del jazz attraverso la pratica strumentale del trombone, si ritrovano in qualche modo “avvantaggiati” da una tecnica molto evoluta, in grado di valorizzare al massimo grado la loro genialità e di esaltare il loro virtuosismo. È questo il caso di Roberto Rossi, oggi considerato uno dei massimi trombonisti jazz a livello internazionale. Personaggio estroverso, artista dotato di una istintiva prorompente musicalità, di una innata inventiva e di uno spiccato senso dell’improvvisazione, il riminese di Viserbella come lui stesso ama precisare, con il suo strumento ha girato il mondo ottenendo ovunque apprezzamenti lusinghieri. Eppure è rimasto quello che era da giovane, affabile e cordiale nei modi e negli atteggiamenti e per nulla insuperbito dalla fama e dal successo. Da qualche tempo ha preso casa a Roncofreddo, ma appena è libero dai suoi impegni professionali corre a Viserbella al bar che frequentava da ragazzo, per ritrovarsi a fare quattro chiacchiere con gli amici di sempre. E lì può «Da vittima della derisione dei coetanei ad applauditissimo jazzista in giro per il mondo» rilassarsi completamente perché il clima è rimasto quello di una volta, senza formalismi di maniera. Talvolta, quando sporadicamente gli capita di esercitarsi nella casa paterna e al bar arrivano i suoni del suo inimitabile trombone viene redarguito dagli amici con espressioni di ironica insofferenza del tipo: “Ma fammi il piacere...!”, “Ma non è ancora ora di smetterla una volta per tutte?”. E tutto questo è per lui motivo di spasso e di grande divertimento. Roberto Rossi si è avvicinato precocemente al trombone all’età di nove anni, frequentando a Viserba un corso di orientamento musicale tenuto dal prof. Federico Fabbrizioli che per primo ne intuì lo straordinario talento. Singolare la scelta dello strumento operata da Roberto: il trombone per un bambino non ha certo il richiamo della chitarra o del pianoforte. Eppure dopo averlo ascoltato e provato, scattò subito per lui il colpo di fulmine. In breve Roberto entrò in banda cogliendo le prime soddisfazioni e soprattutto provando piacere a suonare con gli altri. Dopo qualche tempo però, sentendosi vittima della derisione dei coetanei che vedendolo girare per strada con la custodia del trombone che non passava certo inosservata, lo prendevano in giro, andò in crisi e sull’onda di uno smarrimento adolescenziale, prese a malincuore la decisione di ritirarsi. Ma il richiamo della musica era troppo forte per Roberto, che superando ogni riserva, dopo un paio d’anni s’iscrisse al liceo musicale “Lettimi” nella classe di ottoni del prof. Orio Lucchi, un autentico laboratorio strumentale. Al “Lettimi” Roberto Rossi ebbe modo di avvicinarsi al jazz attraverso la partecipazione alla Big band – una autentica novità anche sul piano didattico e aggregativo – ideata e realizzata dal prof. Lucchi all’interno della scuola riminese. L’esperienza si rivelò determinante per gli orientamenti musicali di Roberto perché gli fece conoscere il jazz, appassionandolo profondamente ad un genere per il quale scoprì la sua più autentica attitudine. Conclusi pertanto gli studi accademici con il diploma conseguito presso l’allora Istituto Pareggiato “Malerbi” di Lugo nel 1984, Rossi intraprese inizialmente l’attività professionale in ambito cameristico e sinfonico (Sinfonica di Sanremo, RAI Radiotelevisione Italiana, G. Rossini di Pesaro, Ort Firenze) partecipando contestualmente con successo ad alcuni concorsi internazionali. Nel 1986 venne incaricato dell’insegnamento di tromba e trombone al Conservatorio di Musica “S. Giacomanto- nio” di Cosenza e iniziò nello stesso anno la sua attività di musicista jazz con l’orchestra “Hamburger serenade” diretta da Giovanni Tommaso, partecipando all’omonima trasmissione televisiva con la regìa di Pupi Avati. Da questo momento in avanti la carriera di Roberto Rossi non conosce soste, è un susseguirsi di concerti: non si contano le collaborazioni con le grandi star internazionali del jazz,le partecipazioni ai festival, le incisioni, gli apprezzamenti, i riconoscimenti. Diventa difficile potere enucleare in questi frenetici ventisei anni di attività i più rilevanti successi e le maggiori soddisfazioni colte da Rossi in tutte le parti del mondo. Roberto ha suonato e ha inciso con notissimi personaggi quali Eros Ramazzotti, Renato Zero, Lorenzo Jovannotti, Gianni Morandi, George Michel, Rosanna Casale, Paolo Conte, Vinicio Capossela, Lucio Dalla, Ivano Fossati, Luciano Pavarotti, Augusto Martelli, Oliver Lake, David Murray, Marco Tamburini, Franco D’Andrea, Piero Odorici, Carlo Atti, Andrea Pozza, Roberto Ottaviano, Pietro Tonolo, Billy Hart, Cameron Brown, Lee Konitz, Joe Chambers, Georg Russel, Kenny Wheeler, Giorgio Gaslini, Cedar Walton, Paolo Pellegatti , Paul Jeffrey, Eddie Daniels, David Raksin, Jim hall, Paul Motian, Riccardo Brazzale, Jack Waltrhat, Roberto Gatto, David Sanborn, Giovanni Mirabassi, Flavio Boltro, etc. Le tappe più significative della sua straordinaria ascesa passano dal Festival di Roccella Ionica al Festival di Bergamo, dal Jazz Contest al Verona Jazz, da Umbria Jazz, ai Festival di Amiens, Den Haag, Barcellona, Roma, dal Festival dell’Amicizia fra i popoli al Pescara Jazz. Nel 1992 Roberto Rossi fonda con Pietro Tonolo, Marco Tamburini, Piero Odorici la Gap Band, partecipando al Festival del Cinema di Savona. Nel 1993 effettua due tournée, una in Ungheria con l’orchestra jazz delle TV europee “EBU.EUR” e una seconda, nelle principali città della Spagna con la Gap Band. L’anno seguente tiene concerti con l’orchestra del “Paese degli specchi” con George Russel, Kenny Wheeler ed entra a far parte dell’Orchestra dell’AMJ «Roberto Rossi ha suonato e ha inciso con notissimi personaggi quali Eros Ramazzotti, Renato Zero, Lorenzo Jovanotti, Gianni Morandi, Lucio Dalla, Luciano Pavarotti…» ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 | 37 diretta da Giorgio Gaslini. Successivamente si esibisce assieme a Carlo Atti e Andrea Pozza al “Ronnie Scott” di Londra e inizia a collaborare con Cedar Walton con il quale assieme a Piero Odorici, partecipa a diverse rassegne in Italia. Nel 1996 ha l’onore di eseguire nell’Atelier Musicale di Milano in prima nazionale “Sweet Basil”, composizione per trombone e big band di Franco Donatoni. L’anno dopo suona al Centro della Cultura di Stoccolma con Marco Tamburini. Nel 2000 tiene una tournée negli USA – New York, North Carolina – con Paolo Pellegatti e Paul Jeffrey. Nel 2001, dopo aver partecipato al “Pavarotti International”, viene invitato a Palermo per eseguire con Lee Konitz gli arrangiamenti del famoso disco di Miles Davis “Birth of the cool”. Con la Civica Jazz Band di Milano di cui è primo trombone, si produce in occasione della riapertura del teatro Dal Verme con Eddie Daniels e David Raksin, compositore reso famoso del celeberrimo tema “Laura”. Partecipa inoltre con Marco 38 | ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 Tamburini ai “Tre giorni di musica per una vita” per Billy Higgins. Nel settembre 2001 viene chiamato dall’Orchestra Nazionale d’Italia per una tournée in Cina e suona a Pechino, Dalian, Macao, Taipei. Roberto ha ancora vivo il ricordo del viaggio e del profondo senso di sgomento e di panico avvertito da lui e dai suoi colleghi, quando l’aereo sorvolava l’Afghanistan, in quanto effettuato il 12 settembre all’indomani dell’abbattimento delle torri gemelle. Ritornato in Italia tiene, ospite dell’Orchestra di Musica Contemporanea, un concerto “Sacred concert” a Palermo in veste di solista, in omaggio a Duke Ellington e successivamente suona con Jim Hall al Teatro Manzoni di Milano. Nel 2002 partecipa al Festival di Vicenza con Paul Motian e la “Lydian Sound Orchestra” diretta da Riccardo Brazzale eseguendo i brani del noto concerto “Monk at Town Hall”. Tiene poi un concerto dedicato a Mingus all’“Iseo Jazz” con Jack Walrhat. Nel 2003 partecipa al Festival Internazionale di jazz di Dubai. Nel 2004 suona in quartetto con Pietro Tonolo a vari festival in Italia e all’estero, con un repertorio di musiche di Lennie Tristano. Nel 2005 ritorna a New York dove suona al “Sweet basil” per una settimana con il quintetto di Roberto Gatto. Partecipa inoltre al festival “Instanbul Jazz Weekend” in quartetto con Pietro Tonolo. Nel 2006 viene chiamato al Teatro Olimpico di Vicenza per lo spettacolo teatrale con Giorgio Albertazzi ripreso dai RAI 2, su testi di Shakespeare con musiche di Duke Ellington. L’anno dopo si produce in vari festival in Inghilterra e suona con Kenny Wheeler al Gray Cat festival. Nel 2008 suona con Cedar Walton in vari festival italiani, partecipa ad “Umbria Jazz” con il gruppo di David Sanborn e successivamente al festival di Roccella Ionica con Enzo Iacchetti voce recitante nel progetto dedicato a Italo Calvino. Successivamente tiene concerti in Siria e Libano in trio con Giovanni Mirabassi e Flavio Boltro. Lo scorso anno torna a Umbria jazz con Roberto Gatto e di recente interviene al festival jazz di Nis in Serbia. Intanto costituisce “a Rota libera”, gruppo di stampo bandistico fortemente dedito all’improvvisazione, che fonda il suo repertorio principalmente sulle musiche da film di Nino Rota. Attivo anche sul fronte della didattica, Rossi dopo il citato incarico a Cosenza, nel ‘94 ha insegnato alla scuola di jazz il “Paese degli specchi” nel bolognese, nel ‘96 presso i seminari invernali di musica jazz di Siena e ai civici corsi di jazz a Milano nell’ Accademia internazionale “Musica oggi”; dal 2001 è stato docente presso i Conservatori di Bologna e di Adria, negli anni 2008 e 2009 insegnante di trombone jazz e musica d’insieme presso i seminari internazionali di Siena IN-JAMM. Parallelamente, dall’anno accademico 2007/2008 ha avuto l’incarico della cattedra di jazz presso il Conservatorio “Dall’Abaco” di Verona. In tale contesto nel 2006 ha pubblicato un suo Metodo per trombone jazz edito da Ricordi. ALBUM A spasso per la città I Cupioli, panificatori da una generazione Un mestiere tramandato di padre in figlio con la collaborazione di mogli e nipoti Sono i “ruggenti” Anni Trenta (1930/35). Il nonno Lorenzo Cupioli, con la famiglia e i cugini, lavora, ovvero fa il pane, in un forno in via Isotta. È un lavoro artigianale che richiede molto sacrificio ma dà anche soddisfazione ed è un lavoro sicuro, e poi, in via Isotta, in Borgo Sant’Andrea, ogni primavera, si verifica un evento da non perdersi: il passaggio della Mille e Miglia (la Brescia-Roma-Brescia), quella mitica gara di regolarità per auto, che per 13 edizioni, quelle pre-guerra, attraversa Rimini, al ritorno, verso il traguardo lombardo. Il passaggio delle auto avviene di notte e i fornai possono goderselo durante una pausa del lavoro senza allontanarsi. Anche il regista Fellini, nel suo Amarcord, ricorda quell’evento. Il figlio Arsildo, che vuole avere la licenza per mettersi in proprio, pertanto lavora in un forno di via Bertani, presso Santa Rita ma poi “arriva” la guerra. La famiglia Cupioli ha diversi figli ma Arsildo deve partire. Però, per sua fortuna, fa un mestiere che lo aiuta. Dovrà, comunque, andare in Russia ma nella Sussistenza e, questo, gli permetterà, dopo indicibili traversie, di essere tra i pochi a ritornare a casa. Verso la metà degli Anni Cinquanta Arsildo apre un suo forno in via Michele Rosa. Nel centro di Rimini ci sono diversi fornai: Capucci in via Dante: vicino all’ex Acli, un altro in via Mentana, altri due in via Garibaldi tra cui quello di Bianchini, uno in via Roma quasi all’angolo con corso Umberto (oggi Giovanni XXIII). C’è poi quello nella “piazzetta delle poveracce” e il forno del Comune, dietro le vecchie poste. E poi come non ricordare l’altro forno storico di Rimini, il Fellini in Corso d’Augusto, verso il ponte di Tiberio, poco dopo il cinema Fulgor. E poi tanti altri ancora nelle zone meno centrali. Questi sono gli anni durante i quali si sviluppa sempre più il turismo e il lavoro non manca. Così tutti i fratelli Cupioli lavorano nel panificio di famiglia. Negli Anni Sessanta gli impianti vengono potenziati con un forno tedesco, che funziona con differenti combustibili. È un forno di tipo “militare” che può essere trasportato su camion per seguire il reparto cucinieri: è una rarità per l’epoca. Ancora oggi è attivo regolarmente. Quando viene meno Arsildo la direzione del forno passa al figlio Giorgio che rinnova ed amplia il locale e nel panificio le generazioni di Cupioli continuano a succedersi. Attualmente, da molti anni, il fratello minore di Giorgio, ha aperto un suo forno in via Covignano che ricorda molto quello di via Michele Rosa in centro sia per l’arredo che per i prodotti proposti: pasta fresca fatta a mano. La clientela del forno Cupioli è, da sempre, la più varia e Giorgio ricorda come, negli Anni Sessanta, molte donne della zona venivano, per Pasqua, a far cuocere le loro ciambelle. Mentre, in estate, invece, erano le padrone di molte pensioncine che portavano al forno, per essere cotte, le teglie ricolme di lasagne. E poi c’erano i clienti “d’élite” come Lucio Battisti, Tonino Guerra, alcuni coristi della Scala di Milano e alcuni «Quando Lucio Battisti e Tonino Guerra aspettavano in fila che uscisse l’ultima infornata di spianata» noti imprenditori riminesi che aspettavano in fila, tra la “gente comune”, che uscisse dal forno l’ultima infornata di spianata bollente. I Cupioli sono una famiglia numerosa, una gran bella famiglia, dove, quasi di regola, il mestiere viene tramandato di padre in figlio e tutti, mogli e nipoti, collaborano. In questo senso hanno tutti i requisiti per essere considerati “storici” nel loro settore che oggi è tra l’artigiano e il commerciante. Tuttavia il Comune non ha voluto riconoscere la qualifica di “esercizio storico” e questo è fonte di rammarico per Giorgio. Forse sarà perché l’arredo del negozio non è d’epoca: ma si sa che un forno deve rispettare delle regole igieniche che non gli permettono di conservare scaffali o madie antiche. O forse le agevolazioni e gli sgravi fiscali di cui potevano godere con il riconoscimento di “esercizio storico” erano troppo impegnativi per il Comune. Chissà. di Silvana Giugli Giorgio Cupioli con la moglie Silvana, la nipote e il figlio. ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 | 41 LIBRI “L’isola e le rose” di Walter Veltroni Il romanzo di un sogno Una stravagante proposta di ribellione ammantata di poesia e dolcezza di Nando Piccari S ul finire dello scorso anno, Walter Veltroni mi chiese cosa ricordassi dell’Isola delle Rose su cui si sarebbe incentrato il suo prossimo romanzo. Mi domandò inoltre se mi fosse stato possibile aiutarlo a procurare del materiale d’archivio relativo alla Rimini di quei “secondi anni ‘60” e a fargli incontrare sia qualcuno dei protagonisti di quella singolare avventura, sia alcuni personaggi che per varie 42 | ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 ragioni ne avessero all’epoca trattato, sia qualche autore che avesse scritto della Rimini del passato, fra cui Manlio Masini di cui già conosceva alcune opere. Chi abbia letto qualche suo libro precedente sa con quanta cura, ai limiti della pignoleria, Veltroni ami contestualizzare i suoi romanzi, “movimentandoli” non solo con riferimenti a situazioni ed eventi storicamente accaduti, ma addirittura arricchendoli di “piccole preziosità di contorno”, rievocative della cultura diffusa, del senso comune, delle abitudini caratterizzanti l’epoca in cui la trama si svolge. C’è a questo proposito un aneddoto che la dice lunga: il direttore della Perugina, avendo avuto il preannuncio di una telefonata dell’On. Walter Veltroni”, si era predisposto a sostenere chissà quale impegnativa conversazione; s’è invece sentito chiedere se al tempo in cui si svolgeva uno dei racconti di “Noi” la sua azienda producesse effettivamente il citato “Carrarmato Perugina al latte”. Devo dire che il piccolo ausilio dato a Walter, soprattutto per le annualità del “Carlino” consultate alla Gambalunghiana, mi ha fornito l’emozionante occasione di rivisitare momenti ed eventi con cui ha interagito un quinquennio del mio percorso giovanile; che ripensato in rapporto alla condizione di gran parte dell’odierna gioventù, mi verrebbe da definire “felicemente irrequieto”, al pari di quello di tanti miei coetanei, assetati com’eravamo di una gran voglia di futuro, sia che sfociasse in uno dei variegati «… e tutto su quell’isola sorretta da tubi e piloni, che misura appena quattrocento metri quadrati e che in certe notti regala il fantastico spettacolo del fitoplancton, con il mare che diventa fosforescente, quasi salisse dalle sue profondità un’entità invisibile a illuminarlo» e spesso contrapposti versanti della politica, o nello sport, o più semplicemente nel bisogno di costruire e vivere delle esperienze assieme. La medesima irrequietezza da cui sono pervasi i quattro giovani protagonisti del romanzo, sui quali Veltroni trasferisce la “pazza idea” di voler creare l’Isola delle Rose, che da piattaforma in mezzo al mare quale inizialmente doveva limitarsi ad essere, sfocia poi in uno stravagante “sogno rivoluzionario”, trasformandosi in autoproclamato Stato indipendente, dotato di Governo, di propria moneta e dell’esperanto come lingua nazionale. Il raccontarsi dei quattro ragazzi, che in quella suggestiva avventura investono il meglio di se stessi, ne evidenzia la differenza di personalità, concezione culturale e propensione esistenziale, non sottacendo di ciascuno anche i limiti, le paure e in qualche caso le nevrosi. Ma il loro comune denominatore è il sogno: un sogno che certamente si porta dentro pure un che di ribellione e di sfida al mondo, ma cariche di poesia e di dolcezza, riassunte nella dedizione alla loro creatura: quell’isola sorretta da tubi e piloni, che misura appena quattrocento metri quadrati e che in certe notti regala il fantastico spettacolo del fitoplancton, con il mare che diventa fosforescente, quasi salisse dalle sue profondità un’entità invisibile a illuminarlo. Sullo sfondo c’è la Rimini di quegli anni, di cui Veltroni ci ripropone molteplici spezzoni veritieri riferiti a vicende sociali e politiche, così come alle sue propensioni ludiche e culturali; insieme a talune atmosfere fatte di un disordinato miscuglio fra la voglia di progredire, così avvertibile nella città di quegli anni, la consapevolezza del “doversi dar daffare”, l’idea che il domani sarebbe stato comunque migliore dell’oggi; e ancora, i colori e i sapori della festa che l’estate sapeva regalare, seguiti dalla malinconia provocata dal suo interrompersi per l’arrivo dell’autunno. Il libro regala il non facile risultato di una felice osmosi fra “l’intelaiatura storica” dell’avvenimento da cui esso trae spunto e la sorprendente verosimiglianza del racconto di fantasia che vi fa seguito. Al punto tale che chi ha memoria di quella vicenda, alla fine deve fare uno sforzo – perfino malvolentieri e con un po’ di “magone” – per ricordare che in realtà fu un maturo ingegnere bolognese, Giorgio Rosa, a fondare l’Isola delle Rose. Se mi è permessa una piccola digressione personale, devo dire che a me il libro ha causato anche l’aggiunta di un retroattivo senso di colpa. A quel tempo infatti, al pari di tanti studenti riminesi, d’estate lavoravo “di remo” a Marina Centro (fra i miei aiutanti... più o meno volontari, vi era il Past President Luigi Prioli. Insieme, quando era stagione, uscivamo anche in moscone a piazzare “e paranghel” per prendere “i bicun”). Naturalmente la stramba avventura della “Insulo de la rozoj” era in quei mesi uno degli argomenti obbligati, con il suo corollario di leggende metropolitane generatrici di ogni tipo di diffidenza. Siccome io ero l’unico comunista del giro, alcuni bagnini più anziani e molti clienti, convinti che dietro all’operazione Isola delle Rose si nascondesse la mano spionistica dell’Unione Sovietica, polemizzavano con me quasi fossi una quinta colonna del Politburo: cosa che mi faceva fortemente arrabbiare poiché fin dall’inizio della mia militanza politica ebbi ripetutamente a manifestare un’aperts contrarietà all’URSS. Cosicché quando l’isola fu fatta bombardare dal Governo Italiano, quasi tirai un sospiro di sollievo. Credo vada infine rilevato che pur avendo Veltroni la dimestichezza che sappiamo con la trattazione politica, e nonostante il libro sia permeato di inequivocabili tracce del clima prodromico al sessantotto già in incubazione, “L’Isola e le rose” non è affatto il classico romanzo politico. È, appunto, il romanzo di un sogno. Anzi, di un sogno svanito ma non per questo inutile. Perché, come fa dire l’autore a uno dei suoi personaggi, «non sono i sogni non realizzati ma quelli non fatti a rendere futile e stupida un’esistenza.» «“L’Isola e le rose” è il romanzo di un sogno svanito ma non per questo inutile. Perché, come fa dire l’autore a uno dei suoi personaggi, “non sono i sogni non realizzati ma quelli non fatti a rendere futile e stupida un’esistenza”» Rimini, 22 agosto 2012, Teatro degli Atti. Presentazione, in anteprima nazionale, de “L’isola e le rose”. Sul palco: Tiziana Ferraio Walter Veltroni, Fabio De Luigi, Andrea Gnassi e Sergio Zavoli. ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 | 43 LIBRI “John Lindsay Opie/ Estetica simbolica ed Esperienza del Sacro” Un maestro sulla “soglia dei mondi” Il volume di Alessandro Giovanardi è impreziosito dall’introduzione di Boris Uspenskij di Sabrina Foschini C ’è un mondo a metà tra la carne e lo spirito, un mondo delle immagini ma non del fantastico, perché è fatto dell’«alta fantasia» dantesca che non inventa, nel significato che oggi diamo al termine, ma come nella sua antica etimologia: ritrova. Questo regno che porta linfa vitale a tutte le religioni e che conserva in forma simbolica, gli archetipi e le figure che illuminano la strada dei cercatori di Dio, coniugandosi in vari nomi ma con la stessa forma è chiamato appunto «mundus imaginalis». Si potrebbe definire un luogo della visione, un anello di congiunzione celeste, che è anche il tramite entro cui l’arte passa, nel cercare di esprimere l’invisibile e lo spirituale, ed è il nucleo di fede nella bellezza, a cui John Lindsay Opie ha sempre cercato di attingere, più che le fonti della propria ricerca, l’incitamento a cercare. Lo studioso, da molti anni risiedente in Italia, è nato negli Stati Uniti da un’antica famiglia scozzese, trasferitasi in Virginia, già nel XVII secolo con antenati illustri che hanno radici nella storia della nazione stessa, quali il 44 | ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 leggendario generale Lee, icona della guerra di Secessione. Come ama però ricordare, è stato concepito a Shangai durante uno degli spostamenti del padre, che era ufficiale di marina. E forse questo suo attraversamento di vari continenti, già sperimentato nel liquido amniotico si è concretizzato anche nella trasversalità dei suoi interessi e nella ricerca di una loro possibile relazione, un matrimonio di simboli. Infatti, all’inizio di una carriera, cominciata sotto le insegne del ragazzo prodigio, si è dedicato ad indagare molteplici forme artistiche legate al culto religioso, nate in diverse latitudini del cosmo, per approdare poi e sostare, nel lago dorato dell’icona, che nella religione ortodossa non è semplice rappresentazione del divino, ma una diretta emanazione della sua grazia. Per usare le sue stesse parole: «sostanziale è il rapporto tra l’icona e l’arte delle altri grandi religioni a cominciare da quelle primitive, in cui simboli e segni sono sempre comunque intesi come veicoli reali della potenza sacrale» ed è nel solco di questo rapporto carsico e misterioso che si possono considerare alcune sue scoperte. Una di queste riguarda l’iconografia dei “monti gemelli”, la montagna spaccata che s’innalza dal centro della terra, presente in molti dipinti bizantini ma anche trecenteschi riminesi, che sembra attingere la sua origine dai sigilli cilindrici della Mesopotamia del III millennio A.C. con la rappresentazione del Dio sole che sorge tra due cime, tagliando a metà con un coltello, il monte sacro. Inoltre «Un omaggio d’affezione volto a ricostruire in senso critico la bibliografia dell’opera intellettuale di Lindsay Opie» i suoi studi sull’arte religiosa indiana, che lo hanno inizialmente appassionato al collezionismo delle bambole sacre Tamil, gli hanno permesso di rilevare una sostanziale affinità tra le teologia dell’India Shivaita e il Cristianesimo. E tuttavia come ricorda Giovanardi, in Lindsay Opie «non vi è mai una sovrapposizione sincretica di temi “pagani” a temi cristiani, bensì la trasfigurazione di segno e contenuto dei primi, nel senso dei secondi». In tutta la sua lunga carriera di storico dell’arte, bizantinista, docente universitario e iconologo, ma anche di critico della letteratura americana e studioso della cultura artistica indiana e cingalese, Lindsay Opie ha disseminato le sue idee e la sua conoscenza in una miriade di semi sparsi in articoli, riviste, atti di convegni, conferenze e libri difficilmente reperibili e consultabili, che rischiavano di perdere la loro coesione e confondere in un velame nebbioso, la fisionomia del loro autore. Ora il pericolo è scongiurato dal ritratto che uno dei suoi allievi, il riminese Alessandro Giovanardi ha saputo tracciare di lui, nel libro edito per i prestigiosi, rigorosi tipi di Storia e Letteratura di Roma intitolato “John Lindsay Opie/ Estetica simbolica ed esperienza del sacro” composto come una biografia del pensiero o come è detto nel sottotitolo, un profilo intellettuale. Allievo in questo caso non in senso letterale, ma nel segno proposto da Agostino che concepisce il Maestro non tanto come tramite d’esperienza, ma come chi è capace di risvegliare negli altri il proprio maestro interiore, e così Giovanardi ha scelto nell’aristocrazia dei testi di un autore schivo e dedito alla perfezione, una guida indiretta e certa. Ma la stessa vita di Lindsay Opie si è nutrita di molti maestri palesi e segreti: gli storici dell’arte Rensselaer W. Lee, che definì la teoria umanista della pittura, Bernard Berenson, salvatore del Tempio Malatestiano, e Roberto Longhi, scopritore di Caravaggio, l’iconologo Erwin Panofsky, discepolo di Aby Warburg. A completare il lignaggio intellettuale di John concorrono le affinità elettive col matematico e filosofo russo Pavel Florenskij, martire del gulag sovietico, l’identità di sguardo con lo studioso anglo-singalese Ananda Coomaraswamy, la complicità col grande islamista persiano «Giovanardi, con tale opera, stimola gli studiosi ad introdursi nell’indagine del pensiero di Opie» Seyyed Hossein Nasr che John aiutò a fuggire dall’Iran khomeinista, trovandogli asilo politico e accademico negli Stati Uniti, la lunga amicizia con Elémire Zolla, vissuta sotto le costellazioni delle immagini e dei simboli sacrali. La scintilla di questa attenzione è nata appunto per l’inconsapevole intercessione della poetessa Cristina Campo, compagna di Zolla, che da lungo tempo Giovanardi studia e chiosa come un canone insuperabile di scrittura e che amica di Lindsay Opie, ne aveva tradotto in Italiano la lettera aperta indirizzata ad Aleksandr Solzenicyn, il nobel di “Arcipelago gulag”, sui rischi di un impoverimento del culto ortodosso. Alla Chiesa russa e al rito bizantino-slavo lo studioso americano si era, difatti, felicemente convertito anche per influenza del pensiero scintillante della poetessa. Da questo incipit e da alcuni saggi iconografici si è accesa la fiamma di un interesse e una curiosità profonda, che con la conoscenza personale di Lindsay Opie è diventato anche un omaggio d’affezione volto a ricostruire in senso critico e cronologico una bibliografia, più possibile completa della sua opera intellettuale, che possa traghettare altri studiosi nell’indagine e nella disanima del suo pensiero. Il volume è impreziosito anche da una altrettanto affettuosa introduzione dell’intellettuale russo Boris Uspenskij, uno dei più importanti semiologi del nostro tempo, che ripercorre nei singoli episodi biografici, l’amicizia con John Lindsay Opie, nata da un’intesa sull’in- terpretazione del pensiero dei “Vecchi credenti” russi e poi cementatasi in quella che è diventata una comune passione dell’anima, estrema devozione alle culture dimenticate e per questo ancora vitali e sapienti. Infine un aneddoto: pare che nel novembre del 2003, varcando le porte del Tempio di Sigismondo con Lindsay Opie, ospite della Fondazione Cassa di Risparmio Di Rimini, l’erudito riminese Enzo Pruccoli si ricordò di quel 1928 in cui il giovanissimo Augusto Campana aveva accompagnato un ammirato Aby Warburg in visita al monumento malatestiano. A Pruccoli, discepolo di Campana, sembrò quasi di esser chiamato a ripetere il cerimoniale facendo da guida a John, discendente dalla scuola warburghiana. Alessandro Giovanardi che li affiancava e li aveva fatti conoscere, vide chiudersi l’ideale disegno di un tappeto: i bassorilievi di Agostino di Duccio, le tavole riminesi del Trecento, l’esperienza del culto e della liturgia, il rapporto fra visibile e invisibile, palese e manifesto, non saranno più per lui ciò che erano state prima. John Lindsay Opie, grande storico dell’arte. ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 | 45 LIBRI “Camicie Nere di Ravenna e Romagna tra oblio e castigo” Partigiane tutto il giorno a pedalare Nel volume di Elios Andreini e Saturno Carnoli la storia di alcune donne coraggiose di Ivo Gigli Adria Neri G iampiero Lippi, storico della Resistenza, ha ricordato nella scorsa primavera a Rimini, in occasione della Festa della Donna, tre figure di giovani donne romagnole che tanto si sono spese per la libertà negli anni 1943-1944 quando l’assurda guerra voluta dal fascismo stava volgendo disastrosamente alla fine: Ida Paganelli, Adria Neri e Ulitta Dallamotta. Ida Paganelli, cervese, infermiera presso l’ospedale di Rimini negli anni Trenta, fu testimone e protagonista umile e silenziosa di importanti avvenimenti della nostra storia. Nel 1938, ad esempio, facilitò l’incontro tra la vedova 46 | ARIMINUM | LUGLIO AGOSTO 2012 di Guido Picelli (il difensore di Parma contro i picchiatori fascisti, 1922) e alcuni antifascisti che diedero vita, a Cervia, a un comitato di salute pubblica anticipando quello che sarebbe stato il Cln. Nel 1943, con la comparsa della repubblica di Salò, ricoverò nella sua villetta alcuni alti ufficiali inglesi. Il generale Philip Neame nelle sue memorie ricorda: «Passammo alcune notti nella villa di una signora italiana. La chiamavano Ida dell’ospedale». Ida fu sempre pronta ad ospitare antifascisti e, d’accordo col personale dell’ospedale, distribuiva medicinali ai partigiani; ma fu nel luglio del 1944 che per «Una volta furono fermate dai tedeschi, ma paradossalmente furono salvate da un fascista» un grave errore di consegna di una lettera del Comitato di liberazione provinciale destinata alla Paganelli (a cui si impartivano ordini, ma fu data, perché essa era assente, inconsapevolmente a un fascista) la casa della destinataria fu perquisita dai Carabinieri i quali consegnarono la donna alla Brigata Nera di Ravenna; fu trattenuta otto giorni e sottoposta a terribili e vergognose sevizie, come tra l’altro, le bruciature delle sigarette sulle carni e schegge di legno confiscate sulle unghie. Ma Ida non aprì bocca. Fu, poi, spedita per due mesi in carcere ove fu ancora visitata e interrogata dai fascisti e dal console Guidi. Arrestarono persino la figlia che le portava da mangiare. Uscita dal carcere Ida si diede alla clandestinità. Tutto questo è raccontato da Elios Andreini e Saturno Carnoli nel libro “Camicie nere di Ravenna e Romagna tra oblio e castigo” che raccoglie un condensato di molteplici processi contro i fascisti. Dopo la Liberazione la Paganelli riprese il suo lavoro presso l’ospedale di Rimini e non volle mai accettare attestati del suo impegno e del suo coraggio. Adria Neri – “Marga” il nome di battaglia – nacque a Cannuzzo nel forese romagnolo. Trasferita a Cervia, sposata, aderì alla Resistenza come staffetta. A Cervia, dopo l’8 settembre 1943, collaborò con Bulow (Arrigo Boldrini) nella ricerca di armi. Ospitò nella sua casa un disertore cecoslovacco, che poi fu aggregato all’Ottava Brigata Garibaldi. Quando Giovanni Fusconi assunse nel maggio 1944 la segreteria del PCI di Rimini, volle con sé due staffette cervesi: “Marga” e “Liliana (Ulitta Dellamotta. Furono assegnate al settore politico: partivano per Rimini in bicicletta e continuavano a pedalare ogni giorno per recapitare corrispondenza, stampa e armi a Forlì, a Verucchio, a Morciano e San marino. La loro era una vita convulsa e piena di tensioni, dovevano cambiare continuamente i loro recapiti, potevano essere fermate e arrestate. Tra l’altro, una volta furono fermate dai tedeschi, ma paradossalmente furono salvate da un fascista. Finita la guerra “Marga” frequentò corsi professionali e fu assunta dal comune di Rimini e non cessò mai di vivere nelle organizzazioni operaie e partigiane. Ida Paganelli «Partivano per Rimini in bicicletta per recapitare stampa e armi» Queste donne, “Marga”, Ida e “Liliana” e le loro compagne, si opposero a un regime che non si peritava, pure, di essere alleato con la più barbara delle dittature, il nazismo, e si batterono dimostrando non solo impegno e coraggio, ma facendo una chiara scelta di civiltà. ARIMINUM | LUGLIO AGOSTO 2012 | 47 DIALETTALE Compagnie e personaggi della ribalta riminese Valeria Parri La “Perpetua inamureda” degli “Jarmidied” di Adriano Cecchini Valeria Parri, moglie di Lurenz, innamorata del parroco in “La butega ad Pitron”. I l desiderio di recitare in dialetto in Valeria Parri nasce quando la figlia frequenta la scuola elementare. In quel tempo, in accordo con gli insegnanti, a carnevale e per la chiusura dell’anno scolastico, i genitori preparano una commedia, che oltre a divertire i figli diletta loro stessi. Si portano alla ribalta rappresentazioni intercalate da allegri e noti detti dialettali, come quelli suggeriti dai nonni: “Va a pisèr t’la zendra, (va a a fare la pipì nella cenere) oppure “ T’ci sempre l’utma com la coda de chen” (sei sempre l’ultima come la coda del cane). Inizialmente 48 | ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 «Una passione che nasce nell’ambito scolastico e prosegue sui palcoscenici di città» il palcoscenico creava grossi timori tra i quali quello di non ricordare le parti del copione. Col passare degli anni tutto diviene facile, tanto che, su invito, il team comincia a recitare sui palcoscenici di altre sedi scolastiche. Nel 2003 la Parri entra a far parte della compagnia dialettale “I Bighelloni” sotto la guida del commediografo e regista Antonio Palma. di parlare e deambulare di La prima commedia che un’anziana e ciarliera signora. Valeria fa con il nuovo gruppo A suo avviso non è difficile è “La pensione Stella”, una reperire nuovi testi, perché, rappresentazione che porta grazie al territorio romagnolo alla ribalta storie della Rimini che si estende dal mare alla estiva. Dal 2012 entra a far collina, è possibile cogliere parte della compagnia “Jarmicontenuti e suggerimenti da died”, con la quale si sente a tradurre in copioni, come non suo agio perché le consente di resta difficile, almeno nella sostenere ruoli sempre diversua compagnia, reperire giosi: è la rompiscatole, vicina di vani che si prestano a calcare casa, in “La butega ad Pitron”; le scene, anche se talvolta con la sarta in “Una dmenga ad un dialetto fluttuante. Carnivel”; la perpetua inamuValeria Parri trova che nella reda in “È parsot de Signor”; poesia dialettale di Gianfranco ha il ruolo di mediatrice in “E Miro Gori, è condensata la dievli uj fa e po uj cumpagna”; storia del nostro vernacolo. è la sarta chiacchierona in “Una dmenga ad Carnivel”; interpreta la moglie delusa, la vecchia nonna… Il gruppo scenico Gianfranco Miro Gori da qualche tempo è formato dagli stessi attori e dallo stesso regista: una I mi nòn i panseva condizione di e i ciacareva in dialet. amicizia collaboLa mi ma e i mi ba rativa che crea i pensa in dialet, mo sa me in Valeria tanta i a sémpra zcours in itaglién. sicurezza. Ella E mè, ch’iò studiè è dialet te cafè pensa di aver prima a ragiòun in taglien dato il meglio di pu a faz la traduzion se stessa nella cmè sl’inglòijes e franzòis. parte della “PerMo u i è una masa’d diferénza: petua inamuresa queli a chin pansè furistir da”, aiutata nel sa quèst, l’è sa, spicem ti mi vécc ruolo dal modo E DIALET NUMISMATICA La medaglia del Rotary Club Rimini Riviera I gioielli di piazza Cavour L’opera è stata eseguita da Angelo Ranzi, un artista che si esprime nelle più svariate tecniche della pittura e della incisione I l Rotary è una organizzazione di uomini e di donne, rappresentanti le più svariate attività economiche e professionali, che lavorano insieme a livello mondiale per offrire un servizio umanitario alla società, incoraggiare il rispetto di elevati principi etici nell’esercizio di ogni professione e aiutare a costruire un mondo di amicizia e di pace. Fra le più importanti attività voglio in particolare ricordare il “Progetto Polio Plus”, iniziato oltre 20 anni fa su idea del club italiano Rotary Club Treviglio e della Pianura Bergamasca, che oggi sta collaborando nel completare la vaccinazione a livello mondiale di tutti i bambini contro la poliomielite. Il Rotary International infatti è tra i partner, insieme all’Organizzazione Mondiale della Sanità, all’Unicef e al “CDC” (Center for Disease Control and Prevention), della Global Polio Eradication Iniziative, l’eradicazione globale della Poliomielite. Il contributo finanziario del Rotary International all’iniziativa ha superato i 700 milioni di dollari americani (100 milioni donati solo nel 2008). Recentemente la Bill e Melinda Gates Foundation ha donato alla Rotary Foundation 100 milioni di dollari americani a favore di questo progetto; la Rotary Foundation si è impegnata allo stesso modo a raddoppiare la donazione nei prossimi tre anni. Attualmente, secondo i dati di maggio 2012, i rotariani nel mondo sono 1.230.551, raggruppati in più di 34.404 Club presenti in oltre 200 Paesi. Il primo Rotary Club Italiano è stato fondato a Milano il 20 dicembre 1923. Dopo l’interruzione del periodo fascista e della seconda guerra mondia- le, in Italia è cresciuto rapidamente: sempre nel maggio 2012 contava 42.034 Rotariani in 802 club. Nel 1989 il Consiglio di Legislazione ha eliminato nella Costituzione del RI il requisito che prevedeva l’affiliazione limitata ai soli uomini nei Rotary club. Le donne sono quindi state accolte in tutto il mondo e nel 2009 erano già 187.967. A Rimini ci sono due club, il Rotary Rimini e il Rotary Rimini Riviera che nel 2007 ha fatto coniare il bel medaglione che qui illustriamo, da consegnare ai relatori e agli ospiti. La medaglia sul dritto rappresenta uno scorcio della piazza Cavour di Rimini: teatro Galli, palazzo del Capitano, palazzo dell’Arengo, statua di Paolo V; per caratterizzare la città, si sono voluti evitare i soliti monumenti, come arco, ponte e duomo, che sono già stati molto sfruttati. Sul rovescio è raffigurato il molo che partendo dalla città si protende sul mare aperto; si è voluto rappresentare il molo perché punto d’approdo di coloro che viaggiano per mare, da sempre la grande via di comunicazione e di contatto fra i popoli. La medaglia è stata eseguita da Angelo Ranzi, un artista che si esprime nelle più svariate tecniche della pittura e della incisione, nonché nella coniazione di medaglie e nella realizzazione di opere in bronzo; vive e lavora a Forlì. di Arnaldo Pedrazzi Dritto: ROTARY CLUB RIMINI RIVIERA (nel giro) Simboli e firma Ranzi (nel campo) Rovescio: CON IL ROTARY INCONTRO AL MONDO (nel giro) Simboli e firma Ranzi (nel campo) Diametro: mm 60 Peso: g 115 in argento, g 105 in bronzo Tiratura: 10 in argento, 150 in bronzo Stabilmento: Picchiani & Barlacchi s.r.l. Firenze ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 | 51 ARIMINUM Dentro l’onda “ARIMINUM”? UNA CARA ESPERIENZA Cari amici, dopo quasi vent’anni da quando le mie fotografie cominciarono a comparire sulle copertine di “Ariminum” la mia collaborazione con questa bella rivista è giunta al termine. Il motivo è semplice: sopravvenute esigenze commerciali e pubblicitarie impongono un diverso ruolo ed una diversa tipologia dell’immagine di copertina, che comporterà anche la sovraimpressione di varie scritte, titoli e altro ancora. A questo punto, la mia scelta è ovvia: il fatto è che le mie fotografie non sono adatte a questa nuova impostazione, essendo state concepite con tutt’altra ottica, quella che corrisponde al mio personale modo di sentire e di vedere. Insomma, non potrebbe funzionare. Concludendo questa mia esperienza, che mi è e mi resterà cara, ringrazio di cuore il direttore, l’amico Manlio Masini, che, con rara cultura, pazienza, simpatia ed intelligenza, ha sempre collaborato con me in tutti questi anni. È stato, ogni volta, un grande piacere incontrarlo e conversare con lui. Non da ultimo, un sentito grazie anche a tutti coloro che hanno apprezzato la mia opera. Con l’occasione, poiché diversi lettori me lo hanno chiesto, preciso che tutte le mie immagini apparse su “Ariminum” sono tratte da diapositive (quasi tutte “kodachrome” la mitica marca, ora non più in produzione, nominata perfino in una canzone degli altrettanto mitici “simon & garfunkel”). Diverse di quelle foto sono state poi ricavate dal mio libro fotografico “Rimini alla ricerca di un’anima”. Solo l’ultima immagine comparsa sul numero di luglio/agosto e raffigurante la ruota panoramica di notte, è una foto digitale. E qui sarebbe certo interessante trattare l’argomento che appassiona molti: fotocamere a pellicola/fotocamere digitali, ma forse ve ne sarà un’altra occasione. Un saluto e un grazie a tutti. Federico Compatangelo ARIMINUM Bimestrale di Storia, Arte e Cultura della Provincia di Rimini Fondato dal Rotary Club Rimini Anno XIX - N. 5 (110) Settembre/Ottobre 2012 Direttore Manlio Masini Hanno collaborato Alessandra Bigi Iotti, Alessandro Catrani, Adriano Cecchini, Federico Compatangelo, Lanfranco Fabbri, Sabrina Foschini, Corrado Ghini, Ivo Gigli, Silvana Giugli, Giuma, Man, Arnaldo Pedrazzi, Nando Piccari, Giovanni Rimondini, Rinaldo Ripa, Franco Ruinetti, Guido Zangheri, Giulio Zavatta Redazione Via Destra del Porto, 61/B 47921 Rimini - Tel. 0541 52374 Editore Grafiche Garattoni s.r.l. Amministratore Giampiero Garattoni Delegato del Rotary Club Rimini Alessandro Andreini Registrazione Tribunale di Rimini n. 12 del 16/6/1994 Collaborazione La collaborazione ad Ariminum è a titolo gratuito Distribuzione / Diffusione Questo numero è stato stampato in 7000 copie ed è distribuito gratuitamente nelle edicole della Provincia di Rimini abbinato al quotidiano “La Voce di Romagna”. È spedito ad un ampio ventaglio di categorie di professionisti ed è consegnato agli esercizi commerciali di Rimini. Inoltre è reperibile presso il Museo della Città di Rimini (Via Tonini) e la Libreria Luisé (Corso d’Augusto, antico Palazzo Ferrari, ora Carli). La rivista è leggibile in formato Pdf sul sito del Rotary Club Rimini all’indirizzo www.rotaryrimini.org Pubblicità Piùmedia Tel. 0541 777526 Stampa e Fotocomposizione Grafiche Garattoni s.r.l. Via A. Grandi 25 Viserba di Rimini Tel. 0541 732112 Fax 0541 732259 52 | ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012