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ARIMINUM
Storia, arte e cultura della Provincia di Rimini
Periodico bimestrale fondato dal Rotary Club Rimini
Anno XIX - N. 5 - Settembre/Ottobre 2012
1921. Le onoranze al Milite Ignoto
Roberto Rossi: Il trombone di Viserbella
“L’isola e le rose” di Walter Veltroni
Borgo Marina
Il Porto antico e medievale
EDITORIALE
SOMMARIO
IN COPERTINA
“Ombre sul Porto di Rimini”
di Gianluca Casoni
TRA CRONACA E STORIA
Anni Venti/4 novembre 1921:
le onoranze al “Milite ignoto”
pag. 6-8
Novecento riccionese
1929. La Cucina economica
pag. 11
PAGINE DI VITA
Corrado Ghini
Il calvario della prigionia
pag. 12-14
DENTRO LA STORIA
Alle origini del traffico cittadino
pag. 16-17
VISERBA
La cronaca in pillole
pag. 18-19
STORIA DELL’ARCHITETTURA
Borgo Marina
pag. 20-23
ARTE
Le piccole Madonne della Ghiara
pag. 24-25
“L’adorazione dei Magi”,
di Giorgio Vasari
pag. 26
FOTOGRAFIA
Riccardo Varini
pag. 31
MOSTRE
Enzo Maneglia a Fighille
pag. 32-33
Luciano Filippi a Villa Verucchio
pag. 34-35
Fuori onda
VELTRONI E LE ROSE …
Ho letto “L’isola e le rose” di Walter Veltroni e mi è piaciuto.
Un bel romanzo. Brioso e vero. Vero anche nelle parti di pura fantasia. Non pensavo mai che un “esterno” riuscisse a penetrare così
bene nel genius loci di questa città e cogliere quel sentimento di
orgogliosa leggerezza che si annida nell’animo del riminese, sempre pronto a rincorrere i propri sogni con quella sana incoscienza che lo spinge a credere di cambiare il mondo stando seduto al
bar. Non pensavo mai, insomma, che un “forestiero”, per quanto
scrittore talentuoso, fosse in grado di intingere l’ispirazione negli
effetti sorprendenti del nostro Garbino. Ma non sono qui a parlare del libro – il compito, su queste colonne, spetta a Nando Piccari
–, bensì dell’autore. E lo faccio tornando con la mente a lunedì
16 gennaio, quando mi trovai a tu per tu con Walter Veltroni al
Grand Hotel.
Dei politici ho un’opinione pessima; l’ho scritta chiaramente nel
precedente “Fuori onda”, e Veltroni è un politico. Quel pomeriggio, tuttavia, non aveva indosso quel genere di casacca. Nella
grande hall del fascinoso albergo, sprofondati su due comodissime poltrone, abbiamo fatto una passeggiata nel tempo per più
di un’ora come due vecchi amici; una chiacchierata a ritroso su
Rimini, centro di gravità dei suoi pensieri, dagli anni del secondo
dopoguerra a quelli della Bella époque. Lo avevo al mio fianco
con carta e penna, come uno studentello voglioso di arricchire
la propria preparazione. Mi pressava di domande; collezionava
aneddoti, date, umori, stranezze, tuffandosi tra le onde di quel
sogno di libertà che è nel dna di questo borgo gratificato dal sole
e dalla nebbia. Ed io che tenevo le briglie di quel colloquio esaudendo richieste e colmando dubbi, mi stupivo di volta in volta
della sua brama di ricerca e di approfondimento.
Beh, quella disponibilità all’ascolto, addolcita di gentilezza e
garbata semplicità, mi ha lasciato un piacevolissimo ricordo.
Di quella conversazione al Grand Hotel avrei voluto serbare il
silenzio; se lo infrango, rendendo note queste impressioni, è perché Walter Veltroni, ringraziandomi pubblicamente sul libro, ha
voluto divulgare il nostro incontro. E di questo gliene sono grato.
MUSICA
Roberto Rossi
Trombonista jazz”
pag. 34-35
ALBUM
A spasso per la città
I fornai
pag. 41
M. M.
… A PESCA DI LETTORI
La cartolina di Giuma
LIBRI
“L’Isola e le rose”
pag. 42-43
“John Lindsay Opie”
pag. 44-45
“Partigiane”
pag. 46-47
DIALETTALE
Compagnie e personaggi
della ribalta riminese.
Valeria Parri
pag. 48
NUMISMATICA
La medaglia del Rotary Club
Rimini Riviera
pag. 51
ARIMINUM
Le bagnanti di Maneglia
pag. 52
ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 | 5
TRA CRONACA E STORIA
Anni Venti / 4 novembre 1921
Le solenni onoranze
Al “Milite Ignoto”
Il Tricolore torna a sventolare in città e fin dalle prime ore del mattino
una folla enorme invade il corso d’Augusto e le due piazze
di Alessandro Catrani
Volantino
del Comitato riminese
per le Onoranze
al Soldato Ignoto
del 28 ottobre 1921
V
enerdì 4 novembre 1921,
San Borromeo, «tempo
discreto, ma nebbioso» (1): la
nostra città vive alcune ore di
insolita commozione per le
programmate solenni onoranze alla salma del Milite Ignoto
la quale, nelle
stesse ore, sta
giungendo a Roma
per essere tumulata nell’Altare della
Patria.
Fin dalle prime
ore del mattino
Rimini assume un
aspetto speciale:
quello dei grandi avvenimenti.
Ovunque sventola
il tricolore. Dalle
finestre delle vie
principali pendono
i più caratteristici
e variopinti addobbi inneggianti alla
Patria. La cerimonia d’apertura è
prevista in Duomo
per le 9,30.
Il Tempio è gremito di gente,
di ufficiali del Regio Esercito,
di autorità e di rappresentanze. Il colpo d’occhio è magnifico. Al centro rifulge il Catafalco artisticamente addobbato
con ai lati bandiere e corone:
vegliano su di esso, tutt’intor-
DAL SETTIMANALE
CATTOLICO “L’AUSA”
«DOVE SONO
I SOCIALISTI?»
6 | ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012
no in cerchio, le truppe del
27° Reggimento Fanteria, un
plotone dei Regi Carabinieri
in alta uniforme, un plotone
di Guardie Regie, un altro
della Guardia di Finanza ed i
Giovani Esploratori (sia quelli
di terra che di mare).
Alle 10 circa ha inizio la
funzione religiosa. La messa
è celebrata da S.E. il Vescovo
Scozzoli assistito dal Capitolo e dal Collegio dei Parroci.
Una valente schola cantorum,
egregiamente diretta da don
Angelo Renzi, col concorso
della società corale “Amintore Galli” e di aggregati
forestieri, fra i quali il tenore
Rossi di Bologna ed il baritono
Grotti di Urbino, esegue, con
accompagnamento di organo
ed archi, la Messa da Requiem
di Perosi.
Alle 10,30 uno squillo di
tromba annunzia l’Elevazione.
Si forma un silenzio assoluto,
rotto appena dai rintocchi
della campana e «dal sincronico e caratteristico rumore
delle armi manovrate per il
Present’arm. La commozione
è intensa e generale: è l’attimo
della Consacrazione, del raccoglimento, della preghiera
ardente» (2).
Terminata la funzione religiosa, un gruppo di ragazze, sotto
S
«Commemorando
il “soldato
sconosciuto”,
la Patria ha
commemorato un
autentico figlio
del popolo…
l’egida del maestro Savioli, intona la toccante “Canzone del
Piave”, mentre la fiumana di
gente, uscendo dal Tempio, si
compone in corteo per recarsi
a piedi al Cimitero.
È un corteo di proporzioni gigantesche, lungo almeno due
chilometri (numerosissime le
corone di fiori).
L’ordine del corteo è, annota
il cronista del settimanale
cattolico “L’Ausa”, il seguente:
«precedeva una lunga rappresentanza dell’Associazione
Madri e Vedove dei Caduti in
Guerra; seguivano: gli Orfani
di guerra ricoverati nell’Istituto Salesiano, gli Orfani di
guerra del Ricreatorio Asilo, il
gonfalone del Comune portato
e scortato da due donzelli
comunali, Associazione Combattenti e Mutilati, Giovani
Esploratori, Fascio Riminese
di Combattimento, operaie
crive il cronista de “L’Ausa” il 5 novembre 1921: «Dove sono i
socialisti? Boh?!… Se i socialisti non parteciparono alle solenni
manifestazioni di ieri, bisogna dire che a Rimini di socialisti non
ce ne siano più o che siano ben molto pochi, perché noi abbiamo
riportato l’impressione che tutta Rimini, come un sol uomo, abbia
vibrata nella stessa commozione, nello stesso atto di fede e di pietà. Il contegno dell’Amministrazione Comunale socialista fu poi
semplicemente assurdo, ridicolo, illogico, incoerente, per non dir
di peggio. Il Comune lanciava un manifesto (nel riquadro, n.d.r.)
dichiarando di non poter partecipare alle onoranze del Milite
Ignoto, riservandosi di ammanirgli una manifestazione popolare
4 novembre 1921.
Il corteo in corso
d’Augusto verso
il ponte di Tiberio e,
sotto, all’imbocco
della piazza Cavour.
della manifattura tabacchi
aderenti al sindacato cristiano,
Opera Biasini Belisardi, ufficiali ed autorità, Istituto Tecnico Valturio, Scuole Elementari
Tonini, Tiro a Segno, Regia
Scuola Tecnica, Regia Scuola
Arti e Mestieri, Regio Ginnasio, Collegio San Luigi, associazioni liberali, Croce Verde,
Società Sportiva Libertas,
Circolo della Filodrammatica,
Regie Scuole Magistrali, Regia
Scuola di Tirocinio, rappresentanza del Capitolo e del
Collegio Parrocchiale, banda
del Circolo Giovanile Cattolico
dal Maestro Cavalier Parmeggiani con rappresentanza del
Circolo, Unione Nazionale
dei Reduci di Guerra, Partito Popolare Italiano, Società
Cattolica di Mutuo Soccorso,
Circolo Salesiano, Circolo
Don Bosco, Istituto Fanciulle
Abbandonate» (3).
… di quel popolo
che nel silenzio
seppe sopportare
enormi disagi,
incalcolabili
sacrifici per la
salvezza del Paese»
Attraversando le vie principali della città (via Serpieri,
corso d’Augusto), in composto
ordine e al suono della banda
del Circolo Giovanile Cattolico
e della musica del 27° Reggimento, il corteo interminabile
raggiunge a piedi il civico
cimitero.
Lì, fra le croci e le tombe, la
sfilata si snoda silenziosamente e i partecipanti vanno
a deporre fiori e corone sul
monumento ai caduti riminesi
eretto a cura dei fanti del 27°
Reggimento. Chiosa il cronista
de “L’Ausa”: «Le onoranze al
Milite Ignoto costituirono a Rimini,
come del resto
anche altrove, una
manifestazione
squisitamente
popolare, democratica. Questa,
secondo noi, fu
la loro principale
caratteristica, la
loro impronta, la
loro fisionomia. E
non poteva essere
altrimenti. Perché
commemorando
il soldato sconosciuto, la Patria ha
commemorato un
autentico figlio del
popolo, una crea-
per il giorno 13 corr. (più popolare, più democratica, più
proletaria di quella di ieri non sarà possibile!) e poi, con
sublime incoerenza, mandava al Corteo il suo Gonfalone
portato da due valletti comunali… Chi ci capisce qualcosa è bravo! È il caso di dire ai signori Amministratori del
Comune che si decidano una buona volta: o per la Patria
o contro la Patria! O si voleva da loro onorare la memoria
del soldato sconosciuto e allora non vi era occasione migliore per far ciò di quella che ieri presentava il grandioso Corteo di popolo, in cui uomini di tutti i partiti erano
presenti. O non si voleva partecipare alla glorificazione
tura di popolo, di quel popolo
che nel silenzio dei veri eroi,
seppe sopportare enormi disagi, incalcolabili sacrifici per la
salvezza del Paese» (4).
Note
1) Cfr. Diario
del generale
Ferrucci, sub 4
novembre 1921,
Archivio dell’Autore.
2) “L’Ausa”
del 5 novembre 1921.
3) “L’Ausa”, cit.
4) “L’Ausa”, cit.
del Milite Ignoto e, in questo caso, era perfettamente inutile pubblicare dei manifesti commemorativi e mandare
al Corteo il Gonfalone del Comune. Perché così facendo,
i socialisti di Rimini hanno dimostrato ancora una volta
che essi antepongono il sentimento della disciplina del
Partito al sentimento dell’amor Patrio. Tale bassezza di
sentimento fa semplicemente schifo!». (Per ulteriori approfondimenti sulla querelle si veda la risposta polemica
apparsa sul settimanale socialista “Germinal” nel numero del 12 novembre 1921)
ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 | 7
TRA CRONACA E STORIA
IL MANIFESTO DEI SOCIALISTI
Un invito a non partecipare
alle onoranze
M
unicipio di Rimini.
Cittadini. Da ogni parte
d’Italia, dai più umili borghi
alle cospicue città, per ogni
casa, per ogni via, per l’ampia
solitudine dei campi, oggi si
ripercuotono mille echi di tristi ricordi, di strazi infiniti, di
sacrifizi inauditi, e nella pallida luce di questo melanconico
inizio di Novembre s’inchina
riverente l’omaggio di tutto un
popolo, alla memoria di quanti
nell’immane tragedia della
guerra fecero olocausto della
loro vita per l’adempimento di
un supremo dovere.
I nostri cuori di uomini e di
socialisti non possono rimanere indifferenti in questo
coro di universale compianto
e non sentirsi profondamente
commossi al ricordo di tante
vittime che hanno incontrato
una morte gloriosa ma oscura,
e giacciono senza nemmeno
il conforto di una lacrima e di
un fiore sulla loro tomba.
Quest’Amministrazione
Comunale ha votato per la
circostanza un fondo in favore
delle vedove e degli orfani di
guerra; ma ha deciso di non
partecipare alla dimostrazione ufficiale di oggi, per non
confondersi con coloro che
dalla unanime vibrazione di
cordoglio traggono ancora
motivo di rinnovati osanna
al terribile massacro di cui
piangiamo le vittime: vittime
ignote che sdegnano l’incomposta coreografia degli sbandieramenti e delle fanfare, per
placarsi soltanto nell’austero
silenzio espressione del loro
vero dolore.
La Giunta ha stabilito inoltre
di indire per il giorno 13 corr.
un corteo, senza carattere
di parte, ma schiettamente
popolare, il quale in un tacito
solenne raccoglimento si rechi
al Cimitero per rendere il
dovuto omaggio ai caduti e cospargere di fiori le loro tombe
e la loro memoria.
Tra quei tumuli sorga dalla grandiosità del dolore, la
visione ammonitrice della
mostruosità del male che non
abbiamo saputo evitare, e
ciascuno di noi, ritraendosi da
quel rito di morte, giuri a se
stesso che nessun sacrificio
gli sarà grave, nessuno sforzo
impossibile pur d’impedire
che altri lutti, altre stragi, altre
devastazioni trattengano più
oltre l’ascesa dell’Umanità
verso i suoi nuovi destini di
pace, di amore, di fratellanza
universale. Rimini 4 novembre
1921.
La Giunta Municipale:
A. Clari, Sindaco, B. Pedrizzi,
A. Porcellini, M. Macina,
G. Bordoni, C. Giannoni,
V. Belli, U. Lugli,
B. Montefameglio».
NEL RICORDO DI ETTORE TOSI BRANDI
L’ultimo caduto
della grande guerra
T
empo fa, mentre stava
coraggiosamente combattendo contro un nemico
invincibile, proprio come quei
soldati che spesso ricordava,
per incoraggiarlo gli dissi che
tanto lui era un duro e da duro
doveva reagire. Mi disse: “Sapessi quanto mi costa farlo!”.
Questo era Ettore: Una scorza
da burbero, ma in realtà un
uomo fondamentalmente
buono di cuore e di animo,
che però non voleva che altri
scoprissero il lato “tenero”
del suo carattere. Ma nono-
8 | ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012
stante quella sorta di barriera
difensiva che s’era costruito
intorno, lo stimavamo e gli
volevamo bene.
Ettore era un Italiano che
amava l’Italia e si era sempre
adoperato, nelle mostre e nelle manifestazioni storiche, ad
esaltare il valore del soldato
italiano. E noi di ARIES, che lo
abbiamo avuto accanto come
un fratello, lo abbiamo voluto
onorare come un Caduto della
Grande Guerra, una pagina di
storia che tanto lo appassionava e lo coinvolgeva.
A me viene a mancare una
colonna portante, un insostituibile supporto.
Ciao Ettore ti ricorderemo
sempre con stima ed affetto.
Il tuo amico GAIO
Ettore Tosi Brandi, morto il 14
settembre 2012 (nato nel 1943),
era sabotatore parà del IX Col
Moschin e decano della rievocazione storica 1a e 2a guerra
mondiale italiana e dei suoi
materiali.
TRA CRONACA E STORIA
Novecento Riccionese / 1929. La “Cucina Economica”.
La fascia
della miseria
«Nell’“elenco dei poveri”, vale a dire di coloro che ricevono il sussidio
pubblico e l’assistenza gratuita, 245 famiglie per un totale di 750 persone»
N
ei primi mesi del 1929
è operativa su tutto il
comune di Riccione la “Cucina
economica”. Promossa dalla
Congregazione di carità e
dal Fascio questa istituzione,
dal 15 gennaio al 10 marzo,
distribuisce ai poveri e alla
«categoria dei braccianti,
costretti alla disoccupazione a
causa della terribile stagione
invernale», 25.363 pasti caldi:
22.400 elargiti direttamente
sul posto (400 al giorno), mentre gli altri 2.963 a 22 famiglie
dimoranti in campagna.
Queste ultime, «data la distanza e l’imperversare del cattivo
tempo non poterono ritirare
le minestre», di modo che, al
posto dei pasti, beneficiarono
di alimenti per un valore equipollente (1).
Tra i benemeriti della “Cucina
economica” figurano i seguenti riccionesi: Amati Amato
(L. 10), Amati Lucio (L. 25),
Bagli Attilio (L. 10), Bagli Giovanni (L. 20), Basigli Michele
(L. 50), Bedeschi Roberto
(L. 20), Bernardini Guglielmo
(L. 10), Bianchini Gaetano
(L. 50), Bonazzi Alberto
(L. 20), Campana Cesare (L.
5), Campanini Erminio (L. 20),
Casali Elviro (L. 100), Casali
Nicola (L. 20), Ceccarelli Giuseppe (L. 15), Cecchini Giovanni (L. 25), Cesarini Battista
(L. 10), Ceschina Gaetano
(L. 500), Cicchetti Vittorio (L.
10), Conti Lucio (L. 20), Copioli Giuseppe (L. 20), Corazza
Maria (L. 3), Del Bianco Ernesto (L. 10), Del Bianco Romeo
(L. 25), Del Bianco Serafino
(L. 25), Fabbri Girolamo (L.
40), Fabbri Matteo (L. 5),
Fabbri Vittorio (L. 10), Fascioli
Mario (L. 20), Franciosi Elio
(L. 15), Galavotti Ribelle (L.
100), Geminiani Giuseppe (L.
«Tutti i Riccionesi
benemeriti
della “Cucina
economica”»
15), Graziani Alessandrina (L.
25), Graziosi Pier Giacomo (L.
50), Leardini Antonio e figli
(L. 10), Maioli Adamo (L. 5),
Mancini Adolfo (L. 10), Mancini Lorenzo (L. 100), Mancini
Silvio (L. 15), Manzi Martino
(L. 25), Marchetti Alessandro
(L. 20), Massani Archimede
(L. 10), Matteoni Giuseppe (L.
5), Metalli Francesco (L. 10),
Mignanelli Giorgetti Guido
(L. 10), Montali don Giovanni
(L. 50), Mordacchini Annibale
(L. 100), Nandi Guido (L. 50),
Nicolini Sisto (L. 10), Panigali
Nicola (L. 5), Papini Giuseppe
(L. 20), Pari Ferdinando (L.
30), Pari Giovanni (L. 20),
Pasolini Guglielmo (L. 25),
Passerini Arnaldo (L. 40), Petrucci Giuseppe (L. 15), Pullè
Felice (L. 50), Raspi Ester
(L. 10), Riccioni Federico (L.
50), Rinaldi Giuseppe (L. 15),
Rinaldi Luigi (L. 10), Rinaldi
Mauro (L. 10), Romagnoli
Arturo (L. 10), Romussi Carlo
(L. 50), Semprini Paolo (L. 50),
Serafini Sanzio (L. 100), Sirocchi Francesco (L. 20), Sorci
Lazzaro (L. 20), Tirincanti
Armando (L. 15), Tonini Attilio
(L. 10), Tontini Pietro (L. 100),
Uneddu Gian Francesco (L. 2),
Zanni Carlo (L. 100), Zannoni Mariano (L. 25); inoltre:
Cassa di Risparmio di Rimini
(L. 500), Comitato di cura (L.
500), Cooperativa birocciai
(L. 50), Direttorio del fascio
(L. 500), Ditta Calza e Manzi
(L. 50), Ditta Cesare e Ugo
Villa (L. 100), Pensione Maz-
zoni (L. 25). A favore della
“Cucina economica” offrono
generi alimentari: Bar Sport
di Cesare Del Bianco: kg. 10
di pasta alimentare; Canducci
Giovanni: kg. 1,900 di lardo;
Cicchetti Oreste: kg. 20 di
fagioli; Clementoni Igino: due
fiaschi di olio d’oliva; Fabbri
Alfonso: kg. 14 di olio d’oliva;
Papini Dario: kg. 50 di fagioli;
di Manlio Masini
Patrignani Guerrino: kg. 15 di
fagioli; Saponi Aldo: kg. 24 di
pasta alimentare (2).
Per completare l’argomento della indigenza, ancora
due parole sull’ “elenco dei
poveri”, ovvero il “registro dei
derelitti” ai quali è concesso
un sussidio pubblico e l’assistenza gratuita.
All’inizio del 1929 in questa
lista, approvata dal comune di
Riccione, figurano 245 famiglie per un totale di 750 persone; nell’anno precedente le
famiglie bisognose erano 209
per un totale di 672 persone (3).
Il dato accerta l’aumento della
fascia della miseria.
La stazione ferroviaria
di Riccione.
Note
1) Cfr. “Il Popolo
di Romagna”,
19 marzo 1929.
2) Ibidem.
3) Cfr. “Il Popolo
di Romagna”,
16 marzo 1929 e VDP,
in data 20 gennaio 1928,
in ASCRC.
L’articolo, qui riprodotto,
è tratto dal mio libro
Dall’Internazionale a
Giovinezza. Riccione
1919-1929. Gli anni della
svolta, uscito nel 2009
per i tipi della Panozzo
Editore.
ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 | 11
PAGINE DI VITA
Corrado Ghini / Il calvario della prigionia
Nei lager ho imparato
a conoscere gli uomini
«Non firmai la lettera di adesione alla Repubblica Sociale Italiana
pur sapendo che quell’atto mi avrebbe permesso di tornare in libertà»
di Corrado Ghini
Attestato
di permanenza
al campo
di Corrado Ghini
Particolare della lettera
ai genitori di Corrado
Ghini dal campo di
concentramento
N
el tempo in cui mi
trovavo prigioniero dei
tedeschi, i miei genitori si
adoperarono in ogni maniera,
presso il Comando Tedesco e
la Direzione Compartimenta-
le delle ferrovie dello Stato a
Bologna, per ottenere il mio
rientro in Italia, essendo le
ferrovie militarizzate. Proprio
su loro pressione, sul finire
del 1944, mentre ero al campo
di Sandbostel, fui chiamato al
Comando Tedesco per firmare
la formula di adesione al lavoro che mi avrebbe permesso di
essere posto subito in libertà.
Il documento da sottoscrivere
era così formulato: “Aderisco
all’idea repubblicana fascista
e mi dichiaro pronto a prestare la mia opera di lavoratore,
senza riserve nella lotta contro
il comune nemico dell’Italia
repubblicana fascista del Duce
e del Grande Reich Germanico
fino alla vittoria”.
Non condividendo le premesse
della liberazione, rifiutai di firmare e ai miei genitori scrissi
12 | ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012
queste testuali parole (ho
recuperato la lettera al mio
ritorno): «Vi ringrazio molto
per il vostro interessamento
presso il mio ufficio, ma non
ne ho accettato le condizioni.
Cercate di
comprendermi
e state tranquilli».
Negli ultimi sei
mesi di prigionia, nel campo
di Wietzendorf, fummo
tormentati
dalla tragedia
del lavoro
obbligatorio.
Sempre più
frequentemente impresari e
contadini venivano a palparci i muscoli:
ci guardavano
in bocca e,
come fossimo
degli schiavi, sceglievano i più
idonei alle varie faccende. In
tal caso i malcapitati passavano alla condizione di civili e
portati via a forza.
Il fatto di essere ritenuto di
scarso rendimento è stato per
me la salvezza.
Altri momenti angosciosi si
verificarono a Sandbostel e a
Wietzendorf quando più volte
le sentinelle dalla torrette,
«I tedeschi
ci consideravano
dei traditori e come
tali eravamo trattati con disprezzo»
senza motivi evidenti, mirarono ad ufficiali singoli o a
gruppi ferendone ed uccidendone alcuni.
La notte dal 6 al 7 aprile 1944,
dopo averlo convocato con un
inganno, venne vigliaccamente ucciso da una sentinella a
Sandbostel il Cap. Thun Von
Hohenstein trentino di origine
boema, che aveva decisamente rifiutato di optare per la
Germania.
I tedeschi ci consideravano dei
traditori e come tali, eravamo
trattati con disprezzo. Essi non
tennero mai in considerazione
la Convenzione di Ginevra
per i prigionieri di guerra e
ci declassarono ad “Internati” escludendoci in tal modo
da qualsiasi aiuto materiale
e morale della Croce Rossa
Internazionale ed anche di
quella Italiana.
Più volte fummo radunati per
ascoltare gerarchi fascisti che
venivano a proporci di aderire
al nuovo esercito della R.S.I.
o in alternativa, a collaborare
come lavoratori volontari per
PAGINE DI VITA
La cartolina
di Alberto Marvelli
Caro Corrado grazie delle notizie e del tuo ricordo per noi e
per Lello. Anche noi ti ricordiamo spesso e rimpiangiamo la
tua assenza. Carlo non scrive dal 4 novembre, ma dovrebbe
star bene.
Noi siamo a Vergiano, Villa Ugolini; è Fornasari a S. Mama
(Arezzo) essendo la loro casa crollata completamente. Anche a Rimini poche sono rimaste in piedi. Tutti i nostri giovani di A. C. sono sfollati. Saluti dalla mamma e fratelli.
Da me un abbraccio.
Alberto
(Cartolina spedita il 26 febbraio 1944)
il Grande Reich.
Dopo la liberazione, da elementi raccolti tra il personale
germanico già in servizio al
campo, risultò con fondatezza, che nella prima decade
di aprile era arrivato l’ordine
tassativo di Hitler di uccidere
gli ufficiali italiani mediante
azione di mitragliamento o
bombardamento del campo.
Le predisposizioni necessarie
per l’attuazione erano già in
corso ma il piano non venne
attuato probabilmente perché
gli avvenimenti precipitarono
ed i tedeschi si trovarono di
fronte alla certezza di dover
rispondere di tale infame
«In occasione
del Natale 1944
nel lager
di Wietzendorf
realizzammo
un magnifico
presepe»
crimine.
In occasione del Natale 1944
nel Lager di Wietzendorf realizzammo un magnifico presepe. I personaggi furono creati
con mezzi di fortuna, ad esempio il manto azzurro della Ma-
donna venne confezionato con
la fascia di un ufficiale. Una
volta ritornato in Italia appresi
che quest’opera natalizia fu
trasportato a Milano, nella basilica di Sant’Ambrogio. Solo il
bue con un grande collare ed
una grossa campana rimase
nel campo per tenere compagnia a quanti lo hanno visto e
non sono più tornati.
Degli oggetti personali son
riuscito a salvare l’orologio
da tasca, che mi fu compagno
per tutta la prigionia. Durante
le perquisizioni poche volte
mi fecero togliere le scarpe
e quando lo fecero non si
accorsero che nella punta di
uno scarponcino del N° 43
(io ho sempre portato il 40)
era nascosto il mio Zenith.
Durante uno spostamento in
treno, appena risaliti dopo una
sosta, avevo trovato il modo di
appisolarmi nel carro con uno
scarponcino appoggiato alla
stufetta spenta. Di notte la stufa venne accesa senza che me
ne accorgessi e svegliandomi
mi trovai con la punta della
scarpa tutta bruciata.
Meno male che il piede non
arrivava fino in fondo e l’orologio era nascosto nella punta
dell’altra calzatura.
Nei vari Lager ho incontrato diversi riminesi. Ricordo
con viva simpatia: Leopoldo
Bellagamba, Nicola De Nittis,
Renato Brioli, Vittorio Voltolini, Guido Giorgi, Pietro
Foschi, Edmondo Della Casa,
Pietro Para, Manuel De Sarno
e tanti altri di cui conservo gli
indirizzi che ci scambiammo.
A distanza di oltre 65 anni,
ripensando alla mia prigionia
provo un sentimento di vivissimo, continuo ringraziamento
al Signore per il sostegno,
i benefici e le tante grazie
ricevute.
Nei lager tedeschi ho imparato a conoscere gli uomini
nelle loro manifestazioni più
ignobili e più sublimi ed a
considerare le idee ed i valori
che riuscivano ad esprimere
indipendentemente dal grado,
dal titolo di studio e dal ruolo
rivestito. Più che le sofferenze,
ricordo i frutti che ne sono derivati che hanno fatto crescere
in me la disponibilità, la generosità, una più limpida lealtà,
il senso dell’onore, dell’onestà
e della verità.
Oggi che il tempo ha fatto giustizia di tante cose malfatte,
mi viene sempre più il fatto di
pensare al periodo trascorso
in prigionia come a un austero, intenso periodo di esercizi
spirituali, dove l’anima si è
forgiata al bene non virtuale,
ma secondo coscienza dopo
una catarsi che, superato il
mezzo secolo, non posso che
ritenere provvidenziale.
ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 | 13
PAGINE DI VITA
Corrado Ghini
C
orrado Ghini, al ritorno
dalla prigionia, ha ripreso
il suo lavoro presso le Ferrovie dello Stato a Bologna. Si
é sposato nel 1948 a Rimini
nella Parrocchia di San Giovanni Battista con Giovanna
Fabbri, maestra elementare,
insegnante presso la Scuola Comunale di Passano di
Coriano. Nel 1950 la sua
nuova famiglia si é trasferita
a Bologna ove abita tuttora.
È stato alle dipendenze delle
Ferrovie dello Stato sino al
1978. La famiglia di Corrado
attualmente é composta, oltre
che dalla moglie, da tre figlie
con i rispettivi coniugi,
7 nipoti e 6 bisnipoti.
«Quando penso al
periodo trascorso
in prigionia lo
avverto come a un
austero, intenso
periodo di esercizi
spirituali»
Don Luigi Francesco Pasa
D
on Luigi Francesco Pasa,
instancabile e indimenticabile cappellano salesiano, condivise la sorte degli
internati Militari nei lager di
Beniaminowo, Sandbostel e
Wietzendorf, finì suoi giorni a
Rimini, ospite di una parente,
il 27 agosto 1977. Dal 1994 i
suoi resti mortali sono custoditi nella Cappella Votiva del
Cimitero dedicata ai Caduti di
tutte le guerre, a fianco della
lapide a muro che ricorda i
tre martiri riminesi caduti
La chiesa
di San Girolamo
dopo i bombardamenti
del 1944.
14 | ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012
per la libertà. Il mio «buon
compagno di prigionia» (opera
di Don Pasa per gli Internati
Militari Italiani nei lager del
Terzo Reich) era nato ad Agordo di Cadore il 17 marzo 1899,
aveva combattuto nella Grande Guerra tra i «ragazzi del
‘99» ed era stato poi legionario
con D’Annunzio a Fiume.
Il 7 luglio 1929 fu ordinato
sacerdote salesiano. Divenne
Cappellano Militare nella Regia Aeronautica e in tale ruolo
prestò la sua attività all’Aero-
porto di Aviano.
Nel settembre 1943, in seguito
alla violenta reazione dei tedeschi dopo l’annuncio dell’armistizio, per non abbandonare
i suoi avieri subì la deportazione nei lager del terzo
Reich, dove rimase internato
per oltre due anni nei campi
di Benjaminowo, Sandbostel e
Wietzendorf.
Il nome di don Pasa per
migliaia e migliaia di internati nei lager fu sinonimo di
speranza e di coraggio.
DENTRO LA STORIA
Le prime norme del traffico cittadino
Dal senso unico
ai semafori
Le regole del 1865 fissano i parcheggi, impongono i divieti e stabiliscono
le contravvenzioni
di Manlio Masini
C
on l’arrivo degli anni
Sessanta dell’Ottocento,
Rimini avverte l’esigenza di
regolamentare il traffico della
via Principe Umberto (oggi
Giovanni XXIII). L’arteria,
della ferrovia sono obbligati a
«battere», specifica l’ordinanza
del sindaco, il corso Umberto,
mentre quelli che ritornano in
città devono procedere per le
vie Clodia e Gambalunga (2).
pur essendo grande e rettilinea, nella stagione dei bagni
comincia a non reggere più
il viavai di persone, veicoli e
merci che procede in direzione dello Stabilimento balneare
e della Stazione ferroviaria(1).
Soprattutto nei giorni di
mercato il movimento delle
vetture, che fanno la spola dal
centro storico ai due luoghi
di riferimento, crea notevoli
ostacoli alla circolazione e
provoca non pochi incidenti:
cavalli imbizzarriti che se ne
vanno a briglie sciolte per
la carreggiata, derrate alimentari che stramazzano a
terra, litigi tra vetturali, urla,
imprecazioni... . Proprio per
queste scene di ordinario
quotidiano, nell’estate del
1865 il municipio istituisce su
quel tratto di strada il transito
a senso unico. Tutte le vetture
e i mezzi di trasporto che marciano in direzione del mare e
Contemporaneamente all’istituzione del senso unico lungo
la via Principe Umberto, il
primo in assoluto nella storia
di Rimini, si dettano le disposizioni anche per i parcheggi
dei mezzi di locomozione
che, da tempo, nei giorni
Comunicazioni
del sindaco di Rimini,
Pietro Fagnani,
del 16 giugno 1865
sui luoghi di parcheggio
dei carri e delle bestie
e sulle prime norme
che regolamentano
il traffico cittadino
(Cart. Gen.
in ASCR-ASR.).
Via Principe Umberto
con transito a senso
unico, dalla città
al mare.
16 | ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012
di mercato creano notevoli
inconvenienti ai cittadini. Gli
esercenti, infatti, in assenza
di precise norme, sono soliti
abbandonare i carri e le bestie
dove capita, per poi andarli a
riprendere a mercato concluso. Le nuove regole del ’65
fissano i parcheggi, impongono i divieti e stabiliscono le
contravvenzioni. Dal quell’anno nessuno potrà più fare il
proprio comodo: qualsiasi
veicolo, con o senza animali, dovrà essere lasciato sul
piazzale della Rocca (piazza
Malatesta) e nei piazzali delle
chiese dei Teatini e di Santa
Innocenza. I mezzi di trasporto che occuperanno altri spazi
saranno multati (3).
Nei giorni di mercato la viabilità cittadina è completamente
stravolta. La folla che cala a
Rimini in quelle canoniche
giornate crea un susseguirsi di
ingorghi, ostruzioni e infortuni. La strada che risente
maggiormente di questa
baraonda è il corso d’Augusto
e precisamente quel segmento
compreso tra le due piazze:
un «budello» sempre intasato
DENTRO LA STORIA
di veicoli, che impediscono il
normale cammino dei passanti. Tanto che in alcuni momenti della giornata attraversare quella strettoia diventa
un’impresa.
Col tempo, inoltre, ai carri,
ai barrocci e alle carrozze si
aggiungono le biciclette, le
motociclette e le automobili.
Intorno alla fine degli anni
Dieci il disordine su quella
strada è talmente indescrivibile che qualcuno avanza
l’ipotesi di istituire addirittura
un’ “isola pedonale”; in mancanza di questa, c’è chi invoca
più rigore nell’applicazione
delle norme di circolazione
ed in particolare di quelle che
impongono l’utilizzo della
circonvallazione per carri e
carrette di passaggio. Norme,
queste, che – a detta dei giornali – nessuno rispetta, perché
manca chi, codice alla mano,
provveda a stilare contravvenzioni (4). Scrive “Germinal” il
23 agosto 1919: «Il transito di
quel tratto del corso d’Augusto
che va da piazza Giulio Cesare
a piazza Cavour è davvero
impossibile sia per l’eccessivo
agglomerato di persone, che
specialmente nei giorni di
mercato ostacolano il passaggio, sia per l’andirivieni continuo di veicoli d’ogni genere».
Negli anni Venti su quel caotico tragitto si insediano addirittura i binari del tram elettrico
e il mastodontico mezzo di
trasporto pubblico, che dalla
piazza Cavour raggiungerà
l’affollata piazza Giulio Cesare
e viceversa, non farà che
aumentarne di gran lunga
l’intasamento (5). Un po’ di
respiro, si avrà a partire dagli
anni Trenta, quando il merca-
to traslocherà nell’ex caserma
di San Francesco. Ma poi, con
l’aumento sempre più frenetico del traffico motorizzato, tutto tornerà come prima, se non
peggio, e s’imporranno nuove
regole. E tra queste, le innovative «segnalazione di viabilità
elettrica», cioè i semafori. Il
primo rivoluzionario aggeggio
a tre luminosità viene installato nell’incrocio di via Tripoli
con le vie Flaminia e XX
Settembre. È il “Diario Cattolico” del 23 settembre 1933
che ne dà l’annuncio: «dal 3
corr. in avanti (nei crocevia
…) la circolazione dei veicoli
e dei pedoni è disciplinata da
semafori a tre colori: verde,
giallo, rosso. Il vede è segnale
di via libera; il giallo è segnale
di avvertimento e di sgombro;
il rosso è segnale di arresto».
Il binario del tram
in Corso d’Augusto.
Il mercato di piazza
Giulio Cesare ingolfato
di traffico e attraversato
dal tram elettrico su
rotaie.
Note
1) Lo Stabilimento balneare viene inaugurato
nel 1843, mentre la linea
ferrata Bologna-Ancona
è del 1861/62
2) La vigilanza della
normativa spetta alle
guardie municipali. Si
veda il “Regolamento
di Polizia Urbana” del
9 settembre 1864 e
l’articolo 101 della Legge
municipale 23 ottobre
1859. Questa norma è la
prima regolamentazione
del traffico cittadino. C’è
da dire, tuttavia, che alla
fine degli anni Trenta
dell’Ottocento una «disposizione» indirizzava
il traffico esterno o extra
urbano, sulla nuova
circonvallazione proprio
per evitargli la strettoia
della strada Maestra
(corso d’Augusto).
3) Cfr. Avviso n°
2151 - Regno d’Italia /
Municipio di Rimini - del
sindaco Cav. P. Fagnani
(segretario capo municipale Francesco Turchi)
datato 16 giugno 1865, in
Carteggio Generale 1865
B. 900, presso ASCR-ASR.
4) Cfr. Elia Testa, “Relazione sui vari servizi
dipendenti dall’Ufficio
di Polizia Municipale”,
Tipografia Artigianelli,
Rimini 1908, Allegato
n°64, in ACCR,.
5) Il passaggio del tram
in piazza Giulio Cesare
è motivato dall’esigenza
di “servire” la stazione.
Il mezzo pubblico, dopo
aver attraversato la strettoia del corso d’Augusto
prosegue lungo la via
IV Novembre. I lavori di
sistemazione dei binari
tranviari lungo il corso
iniziano nell’aprile del
1926 e nel giugno di
quell’anno è inaugurata
la linea. Il primo luglio
1939 con l’arrivo della
filovia il capolinea urbano verrà trasportato in
piazza Giulio Cesare (cfr.
Manlio Masini, “Rimini
in tram”, Maggioli, Rimini, 1985).
ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 | 17
VISERBA
Dalla stampa (1893-1915)
La cronaca
in pillole
«Tra le richieste del Comitato: la stazione dei carabinieri, il servizio
medico notturno, la strada litoranea e le stufe negli ambienti scolastici»
a cura di Manlio Masini
1913 / Mariuoli da spiaggia
«Viserba, 16 luglio. La scorsa settimana diversissimi
capanni vennero visitati dai
ladri che asportarono lenzuoli, accappatoi e costumi. Uno
solo dei mariuoli venne tratto
in arresto.
È bene si sappia che non è di
qui. Quanto sarebbe necessaria una stabile stazione di
carabinieri!».
Il Momento, 17 luglio 1913.
1913 / I soliti ignoti
«Furti. - A Viserba nella Villa
Maccaferri di notte ad ora imprecisata ignoti involarono in
un comò L. 4.000 appartenenti
ad una signora forastiera che
trovasi colà ai bagni.
Dei lestofanti si fa attiva
ricerca».
Corriere Riminese,
20 agosto 1913.
1913 / Un crescendo impressionante di furti
«Viserba, 21 sett. Furti. È
impressionante il crescendo
dei furti che si commettono
lungo la spiaggia tra Viserba e
Viserbella. Dopo il furto patito
18 | ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012
dal Sig. Maccaferri abbiamo
avuto altri tre furtarelli. L’altra
notte a Viserba, forzando una
finestra verso il mare, penetrarono nella calzoleria di
Melandri Archimede asportando scarpe e sandali e arrecando un danno di circa 200 lire.
S’intende che i cavalieri di
destrezza possono commettere
a loro bell’agio le loro gesta,
perché la spiaggia di giorno
e di notte è lasciata in un
deplorevole abbandono. Una
stazione di carabinieri è una
necessità urgente. Speriamo
che il Comitato Pro Viserba saprà comprendere tra i bisogni
del paese anche questo, della
presenza della forza pubblica».
Il Momento, 25 settembre
1913.
1913 / Eroi delle tenebre
«Viserba, 8 ottobre. Vandalismo - Domenica notte alcuni
eroi delle tenebre fracassarono parecchie lampadine elettriche di quelle che
illuminano il viale. Questi atti
teppistici si vanno moltiplicando e impressionano. E ancora
non ci si accorda una stazione
di RR. Carabinieri!».
Il Momento, 9 ottobre 1913.
1913 / La notte senza medico
“Viserba, 8 ottobre. Condotta
medica - Il nostro medico è in
permesso regolare ed è stato
sostituito da un altro sanitario
che disimpegna con premura
il suo interinato, ma è doloroso che per esigenze professionali egli non possa pernottare
in paese. Così gli abitanti, in
caso di bisogno si troveranno
senza medico. Non è il caso di
provvedere, signor R. Commissario?».
Il Momento, 9 ottobre 1913.
1914 / Hanno rubato un
cavallo
“Viserba, 2.14. Furto. La notte
scorsa è stato rubato dalle
stalle del vetturale Enrico
Bernardi un cavallo del valore
di circa L. 350. La frequenza
dei furti impressiona questa
popolazione che reclama una
stazione di RR. Carabinieri”.
Il Momento, 1 gennaio 1914.
1914 / I soliti impuniti
“Viserba, 13 gennaio. Furto.
I soliti ignoti, hanno rubato
da un terreno del sig. Gamberini un palo appartenente
alla Società dei telefoni. Come
gli autori dei precedenti furti
sono rimasti sconosciuti, così
rimarranno anche questi
ultimi. Il Comitato Pro Vi-
serba intanto inizia pratiche
direttamente a Roma presso
il Ministero dell’Interno per
ottenere una stazione di RR.
Carabinieri”.
Il Momento, 15 gennaio 1914.
1914 / Una strada per dare
lavoro ai disoccupati
“Viserba, 8 settembre. Per
provvedere alla disoccupazione, giovedì il Sindaco ricevette
il Comitato Pro Viserba al quale fece promessa formale che
per dare lavoro agli operai si
sarebbe provveduto alla completa esecuzione del progetto,
da tempo preparato e approvato, della strada litoranea che
deve unire Viserba a Viserbella, non solo ma anche del
ponte. Così il desiderio degli
abitanti e dei forestieri sarà,
speriamo, un fatto compiuto”.
Il Momento,
13 settembre 1914.
1914 / Scolari che marinano
la scuola
“Viserba. Istruzione pubblica. - Se esiste una legge sulla
istruzione obbligatoria; vi
saranno anche delle pene per
i trasgressori. Perché non si
esercita, da chi ne ha l’obbligo, una maggiore sorveglianza
sui genitori che trascurano di
far frequentare le scuole ai
loro figli? Si vedrebbero per le
strade meno monelli e si registrerebbero meno atti vandalici, perché la scuola istruisce,
educa e ingentilisce l’animo”.
Il Momento, 31 dicembre 1914.
1915 / Sia imparziale,
per l’avvenire!
“Al Capo Stazione. - È vero
che l’Art. 320 della legge sui
lavori pubblici vieta agli estranei alla ferrovia di introdursi,
di circolare e fermarsi nel re-
cinto di essa, ma è anche vero
che tale divieto è generale e
non secondo il capriccio di chi
avrebbe il dovere di far osservare a tutti indistintamente
tale divieto. Ora si domanda al
nostro Sig. Capo Stazione perché solo a qualcuno richiede
il rispetto della legge, mentre alla maggior parte, non
esclusi i bimbi, lascia libero il
passaggio? Lungo il binario è
un continuo transito persino
di biciclette! Sia imparziale,
per l’avvenire”.
Il Momento, 13 febbraio 1915.
1915 / Imparziale sì, ma solo
con quelli che “hanno più
criterio”!
“Il Capostazione di Viserba
ci scrive a proposito della
corrispondenza pubblicata
nell’ultimo numero, avvertendo che gli è spesso impossibile
impedire il transito in luoghi
vietati e che, perciò, redarguisce a preferenza coloro che
‘hanno più criterio’.
Prendiamo atto delle sue
dichiarazioni, notando però
che il sistema da lui adottato
si presta agli equivoci; meglio
sarebbe chiedere alla Direzione Compartimentale – se non
una guardia fissa – un cancello; in ogni caso far procedere
per tutti alle contravvenzioni
del caso”.
Il Momento, 27 febbraio 1915.
1915 / Arrestato un bruto
“Atti di libidine a Viserba: la
chiusura delle scuole. Lunedì
scorso è stato tratto in arresto
e deferito all’autorità giudiziaria V. M. per atti di libidine
consumati su una diecina di
bambine, alunne delle scuole
elementari. Il V. -che è proprietario dello stabile e in esso
ha la sua abitazione- approfit-
tava di tale circostanza per i
suoi scopi immondi.
Il fermento della popolazione
perdurò vivissimo anche dopo
l’arresto, tanto che si credette
opportuno chiudere senz’altro
le scuole. Ci auguriamo che
possano essere quanto prima
riaperte in più... sicura sede”.
Il Momento, 1 maggio 1915.
1915 / In piazza a reclamare
lavoro
“Viserba. Disoccupazione. Martedì una numerosa schiera
di lavoratori disoccupati si
recarono a Rimini in Comune
per reclamare l’inizio di lavori
già approvati, poiché il bisogno della classe operaia è tale
da non ammettere ulteriori
dilazioni. Venne nominata una
commissione... La commissione, ricevuta con molta cortesia
dal Sindaco e dagli Assessori
... si portò poi dal Sotto Prefetto... Avuta assicurazione del
suo interessamento, la Commissione ringraziò e scese in
piazza a riferire agli operai
che con calma dignitosa attendevano l’esito dei due colloqui
avuti. Conosciute le risposte
e le assicurazioni avute, si
sciolsero pacificamente dando
prova di educazione civile”.
Il Momento, 8 maggio 1915.
1915 /
“Viserba. Scuole. - Nelle nostre
scuole, a tutt’oggi, non sono
state accese le stufe per riscaldare gli ambienti che raccolgono i nostri piccoli scolari.
E così i bambini se ne tornano
a casa piagnucolando e intirizziti dal freddo. Richiamiamo
l’attenzione di chi dovrebbe
già aver provveduto a meno
che non si attenda il mese
delle rose.
Il Momento, 23 dicembre 1915.
ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 | 19
STORIA DELL’ARCHITETTURA
I siti sopra e di fianco al Borgo di Marina
Il porto e i sobborghi
tra le mura e il mare
Un patrimonio storico di mura e torri malatestiane e medicee distrutto
per l’attuazione di uno dei primi piani regolatori di Rimini
di Giovanni Rimondini
Agostino di Duccio,
formella del Cancro,
Cappella dei Pianeti,
Tempio Malatestiano.
L’immagine del
porto e delle sue
fortificazioni e del Borgo
di Marina dovrebbe
essere abbastanza
realistica. L’ipotesi
sostenuta nell’articolo
è che questa immagine
riproduca l’antico
porto romano e quello
medievale.
Il porto antico nella
parte destra del fiume
apparso durante gli
scavi della ghiaia.
La banchina primitiva
sporge in basso, con un
probabile masso bucato
per assicurare le barche
con corde. Sopra questa
banchina ve n’è un’altra
antica sempre di pietre
squadrate, segno
forse dell’incipiente
fenomeno di
subsidenza.
(Foto Emilio Salvatori)
N
on pretendo di formulare
verità indiscutibili ma
ipotesi fondate e ragionevoli su due aree urbane dalla
storia assai complessa se non
intricata: l’area portuale tra
il ponte d’Augusto e Tiberio
e porta Galliana, e il fora da
mare tra il Borgo di Marina
e l’anfiteatro. Anche per la
conoscenza di queste aree si
deve attingere alle pubblicazioni di Oreste Delucca che ha
ampliato a dismisura le nostre
fonti di conoscenza (1). Tuttavia è possibile, a mio avviso,
proporre ipotesi alternative
plausibili alle tradizionali
affermazioni storiografiche
sia sull’area portuale del
Marecchia sia sul sito del
presunto secondo porto antico
di Ariminum. Scavi ben diretti
e relazioni di scavo pubblicate
in tempi ragionevoli confermeranno o meno le seguenti
ipotesi che mi sembrano più
promettenti.
Partiamo dalla veduta di Rimini di Agostino di Duccio, la
formella del Cancro, senza la
pretesa che sia una fotografia
del porto di Rimini dei suoi
tempi, potrebbe però rappresentare la scena del porto sia
antico che medievale fino alla
metà del ‘400. Tra la torre
portaia sul ponte e la porta
20 | ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012
Galliana, sono rappresentati:
a) il bordo del fiume – possibile banchina naturale o molo di
attracco delle barche –; b) un
telo di mura merlate ma senza
beccatelli; c) un altro telo di
mura merlate senza beccatelli
più alte.
Malgrado le numerose vicende testimoniate dagli atti
superstiti di una storia più che
millenaria del fiume e del porto, avanzo l’ipotesi che questa
sia la scena reale unica del
porto a cui riferirsi per tutta la
storia dal 268 avanti Cristo – il
porto romano comprendente
anche le banchine di pietra
scoperte sull’altra sponda –
agli anni di Sigismondo Pandolfo (1417 -1468).
Vediamo qui raffigurato tutto
lo spazio del porto antico e di
quello medievale. Si noti che
la prima mura merlata va dal
fianco della porta Galliana
alla metà circa della porta sul
ponte. È dunque il muro che
esiste tuttora e che contiene,
con grossi rappezzi, il canale
del porto nella parte destra.
L’altro muro è scomparso
senza lasciare traccia visibile.
Nel muro superstite, come
hanno rilevato Marcello Cartoceti e Luca Mandolesi, che
hanno condotto parziali scavi
nell’area, si aprono due porte,
una quasi a sesto acuto e una
a tutto sesto, probabilmente
di epoca sigismondea – di una
terza c’è una traccia –; davano
accesso dalla città alle banchine del porto. Dietro queste
porte sono stati ritrovati frammenti di ceramiche dei primi
del ‘500, epoca in cui presumibilmente queste aperture e la
porta Galliana vennero terrapienate. La parte del muro sul
canale che vediamo oggi tra le
porte murate e il ponte risale
al ‘700. Nel bassorilevo, la
porta Galliana ha davanti due
piccole ‘false braghe’ merlate,
oggi scomparse, e le banchine
continuano nell’area portuale
del Borgo di Marina.
Nell’area alla destra della via
del mare (attuale via Giovanni XXIII) usciti dalla Porta di
Marina – la trecentesca porta
di san Giorgio o dei Cavalieri,
che forse prendeva il nome
da un Collegio dei Cavalieri
di San Giorgio che decadde o
non riuscì a decollare nel 1551
(2) –, sulla destra si stendevano gli orti dei Sobborghi di
Marina: li divido in tre parti:
l’addizione di Carlo presso
la chiesa dei Domenicani; le
fortificazioni malatestiane e
cinquecentesche, spacciate
dal Clementini come il molo
e il faro del presunto secondo
porto di Ariminum; il muro
romano del 268 a.C, con due
torri, dall’uscita della fossa
Patara dalle mura antiche
fino all’Anfiteatro. Espongo
dei fatti osservati da studiosi importanti e non recepiti
dagli addetti ai lavori. For-
Sulla banchina romana
o sulle banchine
romane hanno costruito
una banchina
in cemento che rimane
sempre sott’acqua,
una delle mostruosità
del gravissimo e
irrimediabile disastro
che ha compromesso
l’esistenza del ponte
antico.
(Foto Emilio Salvatori)
mulo ipotesi alternative che,
ripeto, solo oculate campagne
di scavi potranno accertare o
falsificare.
I Domenicani vennero in città
intorno alla metà del ‘200 ed
ebbero dal Comune di Rimini la chiesa di San Cataldo
vicino al muro cittadino
appena costruito, e insieme
si assicurarono una posterula
o piccola porta in detto muro
per andare in un terreno di
loro proprietà subito fuori le
mura. Com’è noto fu Carlo
Malatesta a circondare con
una fortificazione quadrangolare il terreno extraurbano dei
frati e a togliere loro, per così
dire, le chiavi di casa.
Nel maggio del 1770, Jano
Planco col suo odiosamato
discepolo Antonio Battarra,
esplorò tutto il muro cittadino
dalla parte del mare, ancora
in cerca di prove materiali
dell’esistenza del porto antico,
e in una lettera a Cristofano
Amaduzzi del 17 maggio 1770,
trascrisse un’epigrafe “nel
muro tra i due torrioni che
rinchiudono il convento dei
Domenicani”. Eccone il testo:
TEMPORIS. INIURIA. DIRUT
/ AERE. PUB / FERNANDUS.
NERIUS. I.V.D. / FRAN. MARIA,
BLANCHELLUS / ET. BERNARDINUS. PETRONUS / PRAEFECTI. CONSTRUNXERE /
M D C X X [Per ingiuria del
tempo rovinate (mura e torri),
a spese pubbliche, Ferdinando
Neri dottore in diritto pubblico
ed ecclesiastico, Francesco
Maria Bianchelli e Bernardino
Petroni prefetti, fecero costruire nel 1620.] (3).
Mi sono ingegnato in quattro articoli su “Ariminum” a
mostrare nei dettagli la falsità
dell’affermazione di Cesa-
re Clementini dei due porti
antichi di Ariminum, uno sul
Marecchia e uno su un “Seno
di mare” tra il Marecchia
e l’Ausa (4). L’impossibilità
fisica di un simile porto venne
constata dal “proto” veneziano
Tommaso Temanza in uno
scambio di lettere con Jano
Planco (5). Il Planco difese il
Clementini ma non seppe
ribattere alle ragioni fisiche e
idrauliche del Temanza.
Il presunto molo con il presunto faro antichi del Clementini sono invece – e questo è
più di un ipotesi, è un fatto
documentato – il Murus comunis Apse altrimenti detto bertressche da mare per le quali
nel 1382 si preparavano i mantelletti ossia le ventole di legno
tra un merlo e l’altro, messe
in opera in previsione di un
assedio (6). Il muro che partiva
dal muro cittadino dopo la
foce della fossa Patara e finiva
in mare, era stato costruito,
secondo Marco Battaglia, dai
Malatesti nel 1352 per difendere i sobborghi di Marina e
forse anche per dare i confini
ad un’addizione urbana. Lì
comunque, tra il muro e il
mare, finirono imbottigliate le
truppe pontefice nell’assedio
del 1469 contro Roberto Malatesta, che vi erano penetrate
guadando il Marecchia dal
Borgo San Giuliano, tanto che
per liberarsi dovettero fare un
buco nel muro e superare in
mare il Torrazzo, il presunto
faro romano. Nel punto dove
questo muro che si inoltrava
in mare si staccava dalle mura
cittadine venne eretta nei primi decenni del ‘500 una torre
cilindrica detta la Tenagliozza,
sulla quale Jano Planco, in
visita come s’è detto, scrive:
“Ci è ben fatta l’arme del Pon-
Tutto questo ben di Dio storico
di mura e torri malatestiane e
medicee fu distrutto nei primi
del ‘900 per l’attuazione di
uno dei primi piani regolato-
Al centro:
Carta topografica con
la confinazione dell’area
del porto e delle mura
fino all’anfiteatro.
ABCD:
il Borgo di Marina.
1 Banchina del porto
romano.
2 Due porte
quattrocentesche che
davano sulla banchina
del porto medievale.
3 Porta Galliana del XV
secolo.
4 Porta dei Cavalieri o di
San Giorgio o del mare.
5 Bastione di San
Cataldo.
6 Torrione della
Tenagliozza del secolo
XVI.
7 Torraccia,
fortificazione a mare del
secolo XIV.
8 Uscita della Fossa
Patara, o cloaca maxima
di Ariminum.
9 Muro romano del III
secolo a.C. e due torri
romane.
10 Anfiteatro
del I secolo d.C..
ri di Rimini. Lo sbocco della
Fossa Patara, che era la cloaca
maxima di Ariminum con una
nicchia sul fornice, ho fatto
Sotto:
Veduta del porto antico
e medievale e dei
restauri del secolo XVIII,
dal ponte dei Mille.
tefice di Casa Medici, che sarà
o di Leone X o di Clemente
Settimo, giacché a sinistra ci è
l’Arme di Francesco Guicciardini, che fu Presidente sotto
di que’ due Pontefici della
Romagna” (7).
ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 | 21
Particolare della pianta
allegata al Raccolto
istorico di Cesare
Clementini, di Giovanni
Arrigoni del 1617,
con le fortificazioni
di spiaggia malatestiane
e medicee spacciate per
“I Muri dell’antico Porto.
A destra:
Particolare di una
mappa del 1877.
Si riconosce in basso la
chiesa di san Girolamo
(distrutta) e in alto
le mura del bastione
di San Cataldo e la
torre medicea detta la
Tenagliozza dalla forma
a tenaglia, impiantata
sulle mura del XIV
secolo
[Archivio
di Stato di Rimini,
Archivio Comunale,
carteggio b. 1078].
in tempo a vederlo prima che
lo murassero nel cortile degli
autobus vicino a piazzale
Clementini. Le mura e la torre
romane sono state riconosciute e preservate da Giuseppe
Gerola, a Rimini nell’agosto
del 1915 per salvare l’Anfiteatro romano dallo stesso piano
regolatore.
In quell’occasione, condotto
da Vittorio Belli, lui che era
sovrintendente ai monumenti
a Ravenna, scrisse una lettera
al sovrintendente archeologico di Bologna.
Ne ripubblico la parte saliente
perché, stranamente, non è
ancora stata presa in considerazione dagli addetti ai lavori
e in molti non la conoscono:
“Recatomi stamani a Rimini
ho potuto esaminare il muro
di cinta che dall’Anfiteatro
romano, lungo il lato nord
della città, si dirige verso la
stazione.
Per il passato le piante ed altri
impedimenti non permettevano di esaminarlo e ora la mia
attenzione è stata richiamata
colà dal dottor [Vittorio] Belli,
che con molta passione segue
i rinvenimenti archeologici
della sua città. Contrariamente a quanto io credeva,
la cinta originale risale quasi
per intero all’epoca romana
–sia pure della decadenza–.
Nell’evo medio fu soltanto
risarcita in qualche punto e
quasi totalmente stuccata di
nuovo. Lungo il percorso delle
mura si ammirano gli avanzi
di una porta a doppia ghiera di
mattoni molto simile ai lavori
dell’Anfiteatro, e più avanti un
certo arco sotto di cui passa
un corso d’acqua; quivi è pure
ricavata nel muro una nicchia
che si direbbe destinata ad
accogliere una statua”.
La lettera del 14 VIII 1915 si
conserva nella Soprintendenza
ai beni naturali e architettonici di Ravenna. A mio avviso, si
deve correggere dove assegna
il muro ad età tardo antica, si
tratta invece delle mura primitive di Ariminum larghe tre
metri, e non quelle di Aureliano larghe un metro e mezzo;
se si scava si trovano le mura
ad opus incertum di arenaria
come presso l’Arco di Augusto.
L’arco a doppia ghiera non
appartiene ad una porta ma è
l’ingresso tamponato in antico
di una torre.
Note
1) O. Delucca, L’abitazione riminese
nel Quattrocento, I, S. Patacconi,
Rimini 2006, pp. 907-940, 961-979.
2) M. Zanotti, Collezione, III, SC-MS
285, p.79, Biblioteca Gambalunga
Rimini.
3) G. Bianchi (J. Planco), Lettera
a Cristofano Amaduzzi, 17 V 1770,
Accademia dei Filopatridi di Savignano sul Rubicone.
4) Rimondini, Il porto di Rimini in
“Ariminum” XV, 4 2008; id. 5 2008;
id. 6 2008; id. XVI, 1 2009.
5) Nella prefazione della ristampa
anastatica di Tommaso Temanza
Delle antichità di Rimino,
Fondazione Cassa di Risparmio
di Rimini, Rimini 1996.
6) O. Delucca, op.cit., p. 962, n.5.
7) G. Bianchi [J. Planco], Lettera
a Cristofano Amaduzzi, del 12 VII
1770, Accademia dei Filopatridi di
Savignano sul Rubicone.
Particolare di una porta
del porto medievale
murata in antico.
22 | ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012
STORIA DELL’ARCHITETTURA
Porta Galliana
Era il crocevia
della prostituzione
Zona calda delle tentazioni proibite,
piccola Babilonia del sesso
P
orta Galliana: un nome
suggestivo, un’origine
medievale incerta che incuriosisce e sollecita ancora
delle risposte, una storia che
si perde nella notte del tempo.
Ma anche un nome imbarazzante a lungo proferito
sottovoce per non incorrere
in equivoci o per non arrossire. Per secoli questa porta
malatestiana ha identificato
tutta l’area settentrionale del
Rione Clodio adiacente al
porto canale confinante con le
mura di cinta; un agglomerato
urbano sudicio, rigurgitante di
miseria e di ignoranza, ricettacolo di loschi individui.
Nelle vicinanze della Porta
Galliana, estremo lembo di
questa suburra cittadina, era
concentrato il traffico della
prostituzione. Presso l’arco
gotico si davano convegno
meretrici, ruffiani e clienti.
Con il favore delle tenebre avvenivano gli incontri occasionali e da lì, dopo la contrattazione, ci si incamminava verso
i lupanari vicini.
Di bordelli più o meno nascosti nella zona ce n’erano
diversi e per tutte le tasche.
Della loro presenza si trovano
notizie nei testi del Clementini, del Tonini e Delucca.
Esistevano nel Trecento
quando la porta, integra nella
sua architettura permetteva
l’accesso alla città ed anche
dopo la metà del Cinquecento quando, ormai chiusa ed
interrata, rappresentava solo
un riferimento logistico nella
topografia riminese.
Fino al 1860 Porta Galliana era
sinonimo di biechi movimenti
notturni. Da quell’anno le cose
cambiavano. Il 15 febbraio un
decreto firmato dal ministro
Cavour mandava in vigore,
su tutto il territorio del nuovo
regno, il Regolamento sulla
prostituzione. La normativa
autorizzava l’apertura di luoghi adibiti al pubblico meretricio. Nascevano le “case di
tolleranza”, dove il mestiere
più antico del mondo veniva
esercitato in piena regola e
alla luce del sole, anche se
all’interno di ambienti “chiusi”. Gli incontri, i patteggiamenti e il viavai notturno
nei pressi della storica porta
cessavano. Tutto diventava
più semplice e tranquillo:
ogni prestazione aveva il suo
prezzo con tariffe controllate
dalla legge. Del tutto naturale
che i primi “casini” autorizzati
spuntassero nel settore storico
della prostituzione: il Rione
Clodio. La via Clodia diventava la zona calda delle tentazioni proibite, una piccola
Babilonia del sesso. Col tempo
il nome della strada entrava nella fantasia della gente
come emblema del piacere a
tariffa e finiva per sostituire,
nella simbologia popolare,
quello che Porta Galliana, ormai nel dimenticatoio, aveva
rappresentato per secoli.
di Manlio Masini
Particolare della Porta
Galliana, ristrutturata
da Sigismondo Pandolfo
nel XV secolo
dove trovare e prenotare
gratuitamente ariminum
Ariminum è distribuito gratuitamente nelle edicole della Provincia di
Rimini abbinato al quotidiano “La Voce di Romagna”. È spedito ad un
ampio ventaglio di categorie di professionisti ed è consegnato direttamente agli esercizi commerciali di Rimini. Inoltre è reperibile presso
il Museo della Città di Rimini (via Tonini) e la libreria Luisè (corso
d’Augusto, antico Palazzo Ferrari, ora Carli). La rivista può essere
consultata e scaricata in formato pdf gratuitamente sul sito del Rotary
Club Rimini all’indirizzo www.rotaryrimini.org
ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 | 23
ARTE
Tra le vetrine del Museo della Città e del Museo delle Grazie
Le piccole madonne
della ghiara
Una delle più importanti effigi mariane divenuta miracolosa
nel luglio del 1596
di Giulio Zavatta
Lelio Orsi,
Madonna della Ghiara,
Reggio Emilia,
Basilica della Ghiara
Giovanni Bianchi
detto il Bertone,
Madonna della Ghiara,
Reggio Emilia,
Basilica della Ghiara
Q
uando Ludovico Pratissoli, un devoto cittadino
reggiano, commissionò nel
1569 a Lelio Orsi un disegno
raffigurante la Vergine col
Bambino (fig. 1), e in seguito
nel 1573 fece realizzare l’affresco col medesimo soggetto
al pittore Giovanni Bianchi
detto il Bertone (fig. 2), non
poteva immaginare che la sua
immagine sarebbe diventata
una delle più importanti effigi
mariane della storia.
La prima ubicazione, infatti,
era relativamente modesta:
l’affresco era posto sul muro
di cinta dell’orto dei Padri Servi di Maria di Reggio Emilia,
in sostituzione di una Madonna più antica diventata ormai
illeggibile. La devozione verso
questa bella Vergine fu subito
ampia e popolare, tanto che
nel 1595 Giulia Tagliavini ne
richiedeva la custodia; nel
frattempo era stata resecata
dal muro e portata entro una
piccola cappella edificata
con le offerte dei fedeli. Il 29
24 | ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012
aprile 1596 avveniva un primo
miracolo: per intercessione
della Beata Vergine un giovane diciassettenne di nome
Marchino, muto dalla nascita,
riotteneva la parola. L’evento
causò l’accorrere di numerosi
fedeli, e il vescovo di Reggio
Emilia Claudio Rangoni istruì
sollecitamente il processo
canonico. Insolitamente,
papa Clemente VIII approvò il
miracolo in brevissimo tempo,
e così il 29 luglio 1596 la
Madonna della Ghiara divenne immagine miracolosa, con
approvazione dei pellegrinaggi. In seguito, si sarebbero
succeduti numerosi altri fatti
prodigiosi e miracolosi, e nel
corso del Seicento fu costruita
la magnifica basilica reggiana
dedicata a questa Vergine,
nobilitata dai dipinti di alcuni
dei maggiori artisti del XVII
secolo, specialmente emiliani.
Da allora, la diffusione
dell’immagine fu rapida non
solo su scala locale, ed anche
a Rimini si conoscono diverse
attestazioni pittoriche. La più
rilevante è certamente la bella
pala del bolognese Lucio Massari conservata ai Servi, ma
opere raffiguranti la Madonna
della Ghiara, la cui devozione
era estremamente popolare, si
possono riscontrare anche nei
paesi dell’entroterra, come ad
esempio a Monteleone di Roncofreddo, dove nella chiesa
dei santi Cristoforo e Caterina
è conservata una notevole
pala seicentesca con San
Carlo Borromeo che adora la
Madonna della Ghiara.
L’intento di questo breve saggio è quello di focalizzare l’at-
Tre avori intagliati raffiguranti Madonna della
Ghiara (fine XVI-inizio
XVII sec.?), Rimini,
Museo delle Grazie
«Si tratta di intagli
in avorio di piccole
dimensioni, opere
anonime
raffiguranti
la Vergine in gloria
sulle nubi, con in
basso la testina
alata di un angelo
cherubino»
tenzione su quattro piccoli ma
preziosi oggetti, tre dei quali
conservati al museo delle
Grazie, sul colle di Covignano,
ed uno in deposito presso il
museo, quest’ultimo il meglio
conservato e dotato di una bella cornicetta dorata, anch’esso
proveniente dalla collezione
del santuario francescano.
Si tratta di intagli in avorio,
di piccole dimensioni, raffiguranti la Vergine reggiana,
verosimilmente in gloria sulle
nubi, con in basso la testina
alata di un angelo cherubino.
Le tre versioni delle Grazie
(fig. 3) sono in qualche modo
lacunose: due sono acefale,
mancando in entrambe la
testa del Bambino, ed una
è tagliata in basso, essendo
stato asportato il cherubino;
mentre l’opera conservata nel
museo cittadino è come detto
in miglior stato. Non è chiara
la loro provenienza, se cioè
fossero prodotti riminesi, o
più probabilmente emiliani (il
museo delle Grazie raccoglie
infatti numerose opere provenienti dai conventi francescani d’Emilia, e in particolare
un considerevole gruppo di
opere di ambito parmigiano).
Attualmente sono classificate
come opere anonime, e non
ne è nota neppure la funzione:
forse erano piccoli ricordi, o
immaginette che il pellegrino
poteva portare con sé: certamente erano oggetti d’uso,
visto lo stato di consunzione
nel quale ci sono pervenuti.
Per questo, non attirano, come
dovrebbero, l’attenzione di chi
le guarda, per il loro carattere piuttosto devozionale che
artistico, e si trovano – piccole
come sono – un po’ nascoste tra i tanti interessanti e
variegati oggetti
conservati nelle
vetrine del museo francescano
ed in quelle
della pinacoteca
civica. Diversa
sorte tocca invece a una loro
“collega”, di
fattura migliore
ma del tutto
coerente come
ambito ed epoca, conservata
a New York, al
Metropolitan
Museum (inv.
1976.422.5; gift
of Alfred and
Victoria Harris, 1976, fig.
4). Negli Stati
Uniti l’oggetto
è considerato –
correttamente
– seicentesco
(“probably 17th
century”) ed è
esposto nella sezione di
scultura e delle
arti decorative
italiane dell’epoca del Barocco (Gallery 550
- Italian Baroque Sculpture
and Decorative Arts). Rispetto
all’enfasi con cui è esposta la
parente statunitense, le tre sorelle di Rimini si mostrano con
una modestia, è il caso di dire,
tutta francescana. Il piccolo
e sorprendente museo delle
Grazie, tuttavia, può vantare
alcuni oggetti che – per la loro
rappresentatività e per il loro
pregio artistico – nulla hanno
da invidiare, come in questo caso, ad analoghe opere
conservate nei più importanti
istituti museali del mondo.
Madonna della Ghiara,
avorio intagliato,
sec. XVII, New York,
Metropolitan Museum
ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 | 25
ARTE
“L’adorazione dei Magi”
Il capolavoro
di Giorgio Vasari
L’opera giace dimenticata nell’abside della Chiesa di S. Fortunato
sul Colle di Covignano
di Rinaldo Ripa
“L’adorazione
dei Magi”
di Giorgio Vasari;
a destra,
nella sua cornice.
L
’avvicinarsi delle festività
natalizie e dell’Epifania ha
risvegliato nella mia memoria il ricordo del magnifico
quadro de “L’adorazione dei
Magi”, di Giorgio Vasari, che
giace, nella generale dimenticanza, nell’abside della Chiesa
di S. Fortunato, antica Abbazia
di S. Maria di Scolca, sede dei
monaci olivetani, sul Colle di
Covignano.
Entrando nella Chiesa, lo
si intravvede appena dietro
l’altare, con tabernacolo ed
alti candelieri: questa posizione nascosta e per di più nella
penombra, per la scarsa luce
naturale (ma ora dotata di
impianto di illuminazione at-
26 | ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012
tivabile), è stata la fortuna del
quadro perché lo ha protetto
da trasferimenti di sede e da
requisizioni da parte dei potenti che si sono succeduti dal
1547, data di esecuzione della
pala, quando il Vasari giunse
a Rimini.
Il Vasari venne a Rimini
nell’ agosto del 1547, invitato dall’abate Gian Matteo
Faetani, con la promessa di
correzione e trascrizione in
“buona forma” della sua opera
letteraria più famosa “Vite dei
più eccellenti architetti, pittori
et scultori italiani, da Cimabue
infino ai tempi nostri”: per
ricambiare “questa comodità”
dipinse la tavola della “Adorazione dei Magi” che, ridotta
in condizioni precarie, venne
restaurata nel 1996 dalla Prof.
ssa Adele Pompili di Bologna,
sotto la sorveglianza del Prof.
Andrea Emiliani, sovraintendente ai Beni artistici e
culturali della Regione.
Il dipinto è da considerare veramente il capolavoro del Vasari ed un efficace manifesto
del “manierismo” italiano, per
la raffinatezza dei colori e per
l’inesausta ricerca di eleganze
formali e decorative, per la disinvoltura e la precisione con
cui è stato condotto in tutte le
sue parti. La scena è caratterizzata da una atmosfera esotica e magica in cui si agitano
in modo pittoresco uomini ed
animali che compongono una
visione “cosmopolita”, formata
da un universo vario ed ideale
che trova la sua ragione di
unità nello splendido gruppo
centrale della Madonna con
il Bambino, attorniato dai Tre
Magi dal ricco abbigliamento
e recanti i loro doni. Sotto, in
primo piano, uno schiavo con
un pappagallo e una scimmia
«Il dipinto,
efficace manifesto
del “manierismo”
italiano,
fu restaurato
nel 1996»
(autoritratto del pittore?).
Il restauro della Pala del
Vasari venne promosso dal
Rotary Club di Rimini di cui,
all’epoca, ero presidente. L’iniziativa culturale fu possibile
grazie alla partecipazione e
alla collaborazione dell’allora Vescovo della diocesi di
Rimini, Mariano De Nicolò, e
al finanziamento della Fondazione CARIM. L’inaugurazione
e la presentazione dell’opera
ristrutturata avvenne il 30
maggio 1996 alle ore 21 e fu
seguita da tre serate in cui
storici, scrittori, archivisti e
cultori d’arte portarono la loro
testimonianza ad un pubblico
attento e numeroso.
FOTOGRAFIA
Riccardo Varini / Da mare a mare
Rimini
da tramandare
Una visione poetica che si esalta
nel silenzio contemplativo della realtà
N
el borgo di San Giovanni, nel nuovo spazio
dell’agenzia NFC situata nella
galleria Gorza nell’omonimo
palazzo, si è tenuta dal 28
al 30 settembre una piccola
ma raffinata esposizione del
fotografo reggiano Riccardo
Varini intitolata Da mare a
mare, prorogata poi, a grande
richiesta, anche nella settimana successiva.
La mostra è stata accompagnata da un buon successo
di pubblico e di critica, ed ha
suscitato interesse nei visitatori. Prima di questa occasione,
infatti, Varini non aveva mai
avuto modo di esporre le sue
opere a Rimini, benché nella
città adriatica avesse scattato
numerose immagini fin dagli
inizi della sua carriera, vale a
dire da oltre trent’anni.
Varini, nato nel 1957 a Reggio Emilia, è spesso definito
“allievo” del grande fotografo
e concittadino Luigi Ghirri,
autore di alcune delle più
straordinarie immagini della
riviera del dopoguerra. Ed in
effetti, a partire dal 1984, anno
dell’incontro tra Varini e Ghirri, il più giovane fotografo non
ha mai negato l’importanza e
la centralità della poetica di
Ghirri nella sua stessa opera.
Tuttavia, come ha già rilevato
Arturo Carlo Quintavalle, ben
presto Varini si è avviato su
una propria strada, portando
agli estremi alcuni aspetti della
ricerca di Ghirri, fondendoli
con il pittoricismo di alcuni
pittori emiliani – in particolar
modo Gino Gandini, allievo di
Morandi e già amico di Varini
–, guardando alle fotografie
dei “chiaristi” come Cavalli,
realizzando un paziente e continuo lavoro di “sottrazione”
e “pulitura” delle immagini.
Specialmente nella serie dei
“Bianchi”, Varini raggiunge
così la piena espressione della
sua arte, fatta di semplicità,
silenzio quasi contemplativo,
arrivando a una visione al
contempo pittorica e poetica,
segnando un percorso di ricerca del tutto personale. Queste
bellissime immagini lo hanno
consacrato nel panorama della
fotografia italiana contemporanea. Arturo Carlo Quintavalle
ha infatti invitato il fotografo
emiliano ad archiviare le sue
immagini allo CSAC dell’Università di Parma (Centro Studi
e Archivio della Comunicazione), che raccoglie le immagini
della contemporaneità ritenute
significative e da tramandare.
Non solo: nell’ultima edizione
del MIA di Milano, una delle
più importanti rassegne fotografiche in Italia, la prestigiosa
testata francese Le Monde ha
scelto proprio un’immagine
di Varini per rappresentare la
rassegna.
Nel raffinato catalogo realizzato da Amedeo Bartolini per
conto di NFC Edizioni, abbiamo cercato di contestualizzare
l’opera di Varini all’interno del
filone dei cosiddetti “narratori
padani”, ai quali, crediamo, il
fotografo reggiano appartenga
a pieno diritto. Le vaste distese
della pianura (considerata,
come suggerisce il titolo,
anch’essa un mare), le strade
che perdono la propria via di
fuga nella nebbia si inquadrano perfettamente nel filone
narrativo padano sapiente-
mente tratteggiato da Belpoliti
e Celati, ed evocato talvolta
anche nelle pagine di Pier Vittorio Tondelli, che da un punto
di partenza prossimo a quello
di Varini ha percorso più volte
la via Emilia verso il mare. L’esposizione, tuttavia, prevedeva
anche fotografie che, ponendosi all’inizio della carriera di
Varini, mostrano
una ricerca ancora
embrionale, e una
Rimini degli anni
Ottanta che è al
contempo uguale e diversa da
allora. La mostra
si apriva infatti
con un trittico di
immagini intercalate intorno
al 1984-85, dove
ancora comparivano colori forti
come il rosso e
immagini “piene”,
benché ingentilite
dalle inquadrature
pulite e dall’esposizione in chiaro
di Varini.
L’occasione della
mostra di Varini
ha infine consentito anche
un incontro tra il fotografo e
la poetessa riminese Sabrina
Foschini, che in occasione del
finissage ha letto alcuni pensieri poetici già editi nelle sue
raccolte Terramare (2011) e Il
paragone col mare (2002).
L’accostamento dei versi di
Sabrina Foschini e delle immagini di Riccardo Varini, che
si è fortunatamente sedimentato nel catalogo, si è rivelato
davvero consono e suggestivo,
raggiungendo spesso, seppur
per vie differenti e con sensibilità diverse, un comune
approdo poetico.
di Giulio Zavatta
e Alessandra Bigi Iotti
Dall’alto:
Rimini, 1985.
Cervia, 2011.
Bassa padana, 1992
(fotografia scelta
da “Le Monde”
nel recente MIA
di Milano).
ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 | 31
MOSTRE
L’umorismo di Enzo Maneglia al Piccolomuseo di Fighille
GIRAVOLTE
DEL PENSIERO
Un invito al sorriso e a volare con le ali della fantasia
di Franco Ruinetti
Alla doccia.
In alto a destra:
La locandina della
mostra di Fighelle.
Sotto:
Giulio Andreotti
e Bettino Craxi.
E
nzo Maneglia è uno dei
militanti illustri nel campo
dell’umorismo. Nel corso dei
decenni è risultato vincitore dei concorsi del settore
frequentati dai migliori e che
si risolvono nella festa e danza
delle idee. In questa categoria
si distingue per l’eleganza e
la proprietà del segno, che è
pungente, ma sempre benevolo. Ogni sua opera rispecchia
l’originalità e lo scatto di una
mente, che spesso si sofferma sul particolare, per cui i
motivi secondari e in genere
trascurati assurgono al ruolo
di protagonisti.
Il segno di Maneglia si muove
con naturalezza, ripete le
immagini della realtà e della
fantasia forgiandole con la
singolarità del talento. Diviene
un linguaggio efficace perché
si carica di suggestioni, mette
in luce significati e aspetti
inediti, che sorprendono. I
soggetti sembrano definiti con
un filo che si dipana sottile
da un gomitolo nero. Sono, in
genere, personaggi che, pur
incompiuti o sbozzati, si percepiscono in ogni particolare.
Compaiono nella vastità surreale del bianco. Sono sciolti
dalle regole comuni, recano
il sorriso, fanno pensare. Non
hanno necessariamente bisogno della nuvoletta parlante,
nè di altri inserti alfabetici,
come la didascalia. Anche il
titolo è spesso assente. …
Certi disegni portano la mente
in carrozzella, regalano il piacere di una canzone serena.
Ma non è detto che propongano sempre motivi allegri. Non
sono certamente comici “I
Cassonettari”, le persone buttate via o autoesclusesi dalla
società del benessere. Ma fanno compagnia, suscitano un
moto di benevolenza, che si
accende anche tramite le bat-
tute di spirito, le quali, in certi
casi, si rendono indispensabili.
Queste sono scenette di una
creatività feconda e dicono
che la contentezza di vivere si
può trovare tra gli emarginati
più che tra la “bella gente”.
Sono spassosi, protagonisti di
disegni e dipinti, i pupazzetti
con le scatole di cartone.
Quegli scatoloni sono gli
avanzi della nostra civiltà dei
consumi. Li troviamo ammucchiati fuori dai negozi Il solito
personaggio di Maneglia ne
fa una catasta malferma sul
carretto. Il vento li spinge in
aria. Volano e passano come
il tempo. Diventano aquiloni senza fili, idee che vanno
perdute.
Per Maneglia tutte le strade
portano all’arte. Le strade, in
questo contesto, sono i medium, come l’acquarello,
le chine, la matita. Per numerosi dipinti si avvale dell’olio,
mezzo per eccellenza della
tradizione. Allora smette i
panni dell’umorista e dipinge
con preferenza scorci della
vecchia Rimini, quartiere San
Giuliano, prossimo al mare,
32 ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012
SCENETTE DELLA QUOTIDIANITÀ
E
nzo Maneglia è un artista colto e sensibile, dotato di un humour raffinato,
discreto, in alcuni casi persino amaro e surreale. I suoi disegni sono scenette
della quotidianità, che con amabile tenerezza sfiorano le debolezze e i luoghi
comuni del nostro tempo. E se da una parte richiamano il sorriso, dall’altra inducono alla introspezione costringendo il lettore a guardarsi dentro. Ho in mente
certe fuggevoli espressioni dei suoi “tipi da spiaggia”; l’aria sognante delle sue
innocenti bambine; i passatempi del bagnasciuga e le rituali “chiacchiere d’ombrellone”; la puzza sotto il naso di sedicenti intellettuali, spocchiosi e stralunati;
i frettolosi turisti del “mordi e fuggi”, che non hanno mai tempo per soffermarsi
a gustare i propri stati d’animo, essenziali per assaporare fino in fondo le piccole
gioie della vacanza. E poi i suoi scatoloni di cartone, ingombranti, appiccicosi,
inutili ... Metafora di una società “usa e getta”, che produce, consuma e fagocita
se stessa. Le sue “creature” sono portatrici di una filosofia spicciola, fanciullesca, distaccata dalle passioni: fanno parte di una umanità ingenua, un po’ bislacca, ma pulita e gentile, non ancora intossicata dagli sms e dai siti Internet.
(Manlio Masini)
con le case basse dei pescatori, che hanno le facciate dai
colori diversi fiaccati dalle
piogge e dal tempo. È come
se dipingesse la solitudine ed
il silenzio, che si raccolgono e
covano in quelle strade nelle
prime ore dei pomeriggi estivi.
L’ispirazione ha la scintilla
facile. Un foglio di polistirolo
diventa il volto di Fellini che
ha l’espressione da amico di
sempre. È sul punto di dire
cose originali con la sua bonaria naturalezza. È esposto
in permanenza nella casa riminese che del grande regista
custodisce i ricordi.
C’è Bearzot, anche lui di polistirolo. L’artista l’ha donato
al PiccoloMuseo di Fighille.
Accanto alla testa c’è un pallone. È grande come il mappamondo, perché con lui l’Italia
è campione del mondo.
Ancora. Il sottile filo di ferro
diventa un sogno. Compare una bella giovane nuda,
formosa quanto basta per non
desiderare di svegliarsi.
La vita estetica, pensava Kierkegaard, è l’aspirazione ad
una vita diversa. Per renderla
più serena Maneglia invita al
sorriso e a volare con le ali
della fantasia.
In alto:
Maneglia al lavoro.
A sinistra:
Bearzot e Obama.
ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 | 33
MOSTRE
Le opere di Luciano Filippi alla “Popolare” di Villa Verucchio
… e gli occhi salgono
oltre il quadro
Un linguaggio materico che supera il reale e una tavolozza
che levita nella poesia
di Franco Ruinetti
Vele.
In alto a destra:
Composizione.
Sotto a destra:
Il Grand Hotel.
D
all’8 al 30 settembre Luciano Filippi ha esposto
le proprie opere nelle sale
della Cooperativa La Popolare
di Villa Verucchio.
Ogni volta che ci si ferma
davanti ai dipinti dell’artista riminese è come fosse la
prima volta. Rivelano motivi
nuovi, hanno colori spesso
impossibili, carichi di bellezza
avvolgente. La tecnica può apparire spregiudicata, comunque i risultati sono convincenti. Il linguaggio è figurativo,
ma fino ad un certo punto e a
modo suo. Il pittore usa l’olio,
l’acrilico, pennello, spatola,
però anche altro, come polvere di marmo, resine collanti,
catrame, gesso, calce.
Di tutta la produzione, vasta
e articolata, l’artista, nella
personale di Villa Verucchio,
ha presentato i paesaggi, le
cattedrali e le vele, temi che
lo impegnano da tempo, per i
quali soprattutto merita stima
e successo.
I paesaggi. Filippi è il cantore
della Romagna. Cerca nell’entroterra i panorami della
solitudine. Si vedono folate
34 | ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012
di verde trascorrere sulla
ribalta del dipinto quando esso
racconta le giornate dell’autunno. L’intonazione generale
reca la luce, l’anima della
stagione. Talvolta all’orizzonte
si percepiscono delle case a
cavallo di una collina. Sono
incerte nella lontananza, forse
si riferiscono ad un paese della memoria che affiora nelle
radure della nostalgia. Sulla
riva del quadro c’è un tumulto di colori. La boscaglia ha
rami e tronchi marroni scuri
che balzano sulle tonalità del
verde, poi compaiono strappate d’azzurro, trasparenze
del giallo, quindi tanti colori si
fondono, esalano in un alitare
appena percettibile. Tra terra
e cielo non c’è soluzione di
continuità. Le note cromatiche
che modellano con chiarezza
figurativa le fronde, le modulazioni del terreno, i calanchi,
ritornano come echi labili su
in alto. Sembra che la natura
si purifichi, la materia diviene
cielo e l’attenzione trascende,
va oltre il reale.
Le cattedrali. L’artista è
affascinato dalle cattedrali,
in particolare dalle gotiche
francesi del ‘2, ‘300. Periodicamente sente la necessità
di dipingerne una. I colori
sono plumbei, così li definisce
Manlio Masini. Le tele sono
grandi, ma mai abbastanza
perché queste chiese sono più
grandi di loro, manca lo spazio per il cielo e, spesso, per
rappresentare compiutamente
le facciate. Luciano Filippi
non propone pittoricamente
solo questi straordinari monumenti, ma per loro tramite
dà luce e configurazione alle
emozioni, che sono incontenibili. Viste così da vicino le
chiese non stanno in un solo
colpo d’occhi, davanti ad esse
ci sentiamo piccoli, immersi
nell’alone del fascino e nella
bellezza. La tecnica è dell’aggiungere e del cavare, forse
mai usata prima. Il linguaggio
è materico: strati di polvere
di marmo, lembi di catrame e
così via. Poi l’autore raschia,
erode, aggiunge colore.
Le tante aperture, il movimento degli archi a sesto acuto, le
bifore, le decorazioni, fanno
leggera la veduta, che non
chiama ad entrare dentro uno
dei portali fortemente strombati. Invita a volgere la vista
verso il rosone, i pinnacoli, le
guglie, in alto verso lo spirito.
L’interesse per le cattedrali è
certamente originale. Claude
Monet ne dipinse alcune per
studiare la luce nelle diverse
ore del giorno. Sulle facciate
di Filippi prevale l’ombra del
grigio, che per Kandinsky è
silenzio, raccoglimento.
Le vele. Le vele sorgono sul
fasciame delle barche. Sono
slanciate, libere, il quadro
non le contiene, vanno oltre
e gli occhi di chi guarda le
seguono. Ora gialle, poi rosse,
quindi bianche, i colori si addensano, si sciolgono, levitano
nella poesia. Così il concetto
che trascorre nella produzione
pittorica di Filippi, in questa
tematica è ancora più esplicito. Dalla materia soggetta alla
gravità si sprigiona lo spirito,
animato da una forza che è
tesa verso l’Assoluto.
I colori spesso sono sorprendenti. Risultano appropriati
e seducenti anche quando il
mare ha gorghi blu, sfumature
marroni, rimbalzi nel rosso
spento. E questo significa che
il talento ha infiniti alfabeti.
Che parlano dentro.
In alto:
Neve a Verucchio.
A sinistra:
Grande fioritura.
In basso:
la cattedrale.
INTRIGO E STUPORE
P
ur uscendo dal classico linguaggio dell’immagine, la pittura di Luciano Filippi ne mantiene gli ormeggi, distinguendosi ed elevandosi
per l’originalità di un lessico che nella trasfigurazione scopre nuove e
autorevoli trame espressive.
La continua e progressiva ricerca stilistica e cromatica, condotta con
serietà e in piena autonomia, ha permesso all’artista riminese di accordare la propria poetica all’interno di una suggestiva sequenza di sfumature timbriche e materiche, dove le cose perdono la loro fisicità per
intrecciarsi, e nello stesso tempo sciogliersi, in un ineffabile mondo del
mistero.
Atmosfere rarefatte, plumbee, ricche di reminiscenze arcane si alternano a fondali limpidi, solari, giocati sulle vibrazioni del colore, che
sfarina sapientemente in luce e movimento. Operazioni creative dell’intrigo, quelle di Filippi, che emanano energia, trasmettono emozione,
suscitano stupore. E che non lasciano indifferenti.
(Manlio Masini)
ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 | 35
MUSICA
Roberto Rossi/ Trombonista jazz
Il trombone
di Viserbella
Artista dotato di straordinaria musicalità e inventiva e di uno spiccato
senso dell’improvvisazione
di Guido Zangheri
S
trumento a fiato d’ottone,
forse già noto nell’antichità
(le tubae dei romani), nel medioevo il trombone sostenne
probabilmente la parte del tenor e anche nei secoli seguenti fu impiegato a raddoppiare
le voci. Nel ‘500 ha dato origine a una famiglia di strumenti
simili al trombone attuale,
della quale il più importante
è tuttora il trombone tenore
in si bemolle. La singolarità
di questo strumento a canna
cilindrica come la tromba, è
una coulisse telescopica detta
anche tiro da cui la denominazione trombone a coulisse o
trombone a tiro che permette
di abbassare progressivamente il suono fondamentale
allungando la colonna d’aria.
Monteverdi nell’Orfeo, Cesti
nel Pomo d’oro, Schutz nelle
Symphoniae Sacrae, Gabrieli
nelle Canzoni e Sonate furono
i primi ad affidare parti importanti ai tromboni. Furono
seguiti da Haendel nel Saul,
Gluck, Haydn e Mozart. Il
trombone, al pari della trom-
36 | ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012
ba, è fra gli strumenti musicali
che hanno dimostrato con il
passare degli anni le maggiori
capacità evolutive e la sua
trasformazione che ha tanto
arricchito le possibilità dell’orchestra moderna, è dovuta
principalmente alla potente
influenza del jazz. Così quanti
abbracciano l’esperienza
del jazz attraverso la pratica
strumentale del trombone,
si ritrovano in qualche modo
“avvantaggiati” da una tecnica
molto evoluta, in grado di
valorizzare al massimo grado
la loro genialità e di esaltare il
loro virtuosismo.
È questo il caso di Roberto
Rossi, oggi considerato uno
dei massimi trombonisti jazz
a livello internazionale. Personaggio
estroverso, artista
dotato di una istintiva prorompente
musicalità, di una
innata inventiva e
di uno spiccato senso dell’improvvisazione, il riminese di
Viserbella come lui
stesso ama precisare, con il suo
strumento ha girato
il mondo ottenendo
ovunque apprezzamenti lusinghieri.
Eppure è rimasto
quello che era da
giovane, affabile e
cordiale nei modi e
negli atteggiamenti e per nulla
insuperbito dalla fama e dal
successo. Da qualche tempo
ha preso casa a Roncofreddo,
ma appena è libero dai suoi
impegni professionali corre a
Viserbella al bar che frequentava da ragazzo, per ritrovarsi
a fare quattro chiacchiere con
gli amici di sempre. E lì può
«Da vittima
della derisione
dei coetanei
ad applauditissimo
jazzista in giro
per il mondo»
rilassarsi completamente perché il clima è rimasto quello
di una volta, senza formalismi
di maniera. Talvolta, quando
sporadicamente gli capita di
esercitarsi nella casa paterna
e al bar arrivano i suoni del
suo inimitabile trombone viene redarguito dagli amici con
espressioni di ironica insofferenza del tipo: “Ma fammi il
piacere...!”, “Ma non è ancora
ora di smetterla una volta per
tutte?”. E tutto questo è per lui
motivo di spasso e di grande
divertimento.
Roberto Rossi si è avvicinato
precocemente al trombone
all’età di nove anni, frequentando a Viserba un corso di
orientamento musicale tenuto
dal prof. Federico Fabbrizioli
che per primo ne intuì lo straordinario talento. Singolare la
scelta dello strumento operata da Roberto: il trombone
per un bambino non ha certo
il richiamo della chitarra o
del pianoforte. Eppure dopo
averlo ascoltato e provato,
scattò subito per lui il colpo
di fulmine. In breve Roberto
entrò in banda cogliendo le
prime soddisfazioni e soprattutto provando piacere
a suonare con gli altri. Dopo
qualche tempo però, sentendosi vittima della derisione dei
coetanei che vedendolo girare
per strada con la custodia del
trombone che non passava
certo inosservata, lo prendevano in giro, andò in crisi e
sull’onda di uno smarrimento
adolescenziale, prese a malincuore la decisione di ritirarsi.
Ma il richiamo della musica
era troppo forte per Roberto,
che superando ogni riserva,
dopo un paio d’anni s’iscrisse
al liceo musicale “Lettimi”
nella classe di ottoni del prof.
Orio Lucchi, un autentico laboratorio strumentale. Al “Lettimi” Roberto Rossi ebbe modo
di avvicinarsi al jazz attraverso la partecipazione alla Big
band – una autentica novità
anche sul piano didattico e aggregativo – ideata e realizzata
dal prof. Lucchi all’interno
della scuola riminese. L’esperienza si rivelò determinante
per gli orientamenti musicali
di Roberto perché gli fece
conoscere il jazz, appassionandolo profondamente ad un
genere per il quale scoprì la
sua più autentica attitudine.
Conclusi pertanto gli studi accademici con il diploma conseguito presso l’allora Istituto
Pareggiato “Malerbi” di Lugo
nel 1984, Rossi intraprese
inizialmente l’attività professionale in ambito cameristico e sinfonico (Sinfonica di
Sanremo, RAI Radiotelevisione
Italiana, G. Rossini di Pesaro,
Ort Firenze) partecipando contestualmente con successo ad
alcuni concorsi internazionali.
Nel 1986 venne incaricato
dell’insegnamento di tromba
e trombone al Conservatorio
di Musica “S. Giacomanto-
nio” di Cosenza e iniziò nello
stesso anno la sua attività di
musicista jazz con l’orchestra “Hamburger serenade”
diretta da Giovanni Tommaso,
partecipando all’omonima
trasmissione televisiva con la
regìa di Pupi Avati. Da questo
momento in avanti la carriera
di Roberto Rossi non conosce soste, è un susseguirsi di
concerti: non si contano le
collaborazioni con le grandi
star internazionali del jazz,le
partecipazioni ai festival, le
incisioni, gli apprezzamenti, i
riconoscimenti. Diventa difficile potere enucleare in questi
frenetici ventisei anni di attività i più rilevanti successi e
le maggiori soddisfazioni colte
da Rossi in tutte le parti del
mondo. Roberto ha suonato e
ha inciso con notissimi personaggi quali Eros Ramazzotti,
Renato Zero, Lorenzo Jovannotti, Gianni Morandi, George
Michel, Rosanna Casale, Paolo
Conte, Vinicio Capossela, Lucio Dalla, Ivano Fossati, Luciano Pavarotti, Augusto Martelli,
Oliver Lake, David Murray,
Marco Tamburini, Franco
D’Andrea, Piero Odorici, Carlo
Atti, Andrea Pozza, Roberto
Ottaviano, Pietro Tonolo, Billy
Hart, Cameron Brown, Lee
Konitz, Joe Chambers, Georg Russel, Kenny Wheeler,
Giorgio Gaslini, Cedar Walton,
Paolo Pellegatti , Paul Jeffrey,
Eddie Daniels, David Raksin,
Jim hall, Paul Motian, Riccardo Brazzale, Jack Waltrhat,
Roberto Gatto, David Sanborn,
Giovanni Mirabassi, Flavio
Boltro, etc.
Le tappe più significative della
sua straordinaria ascesa passano dal Festival di Roccella
Ionica al Festival di Bergamo,
dal Jazz Contest al Verona Jazz, da Umbria Jazz, ai
Festival di Amiens, Den Haag,
Barcellona, Roma, dal Festival
dell’Amicizia fra i popoli al
Pescara Jazz. Nel 1992 Roberto
Rossi fonda con Pietro Tonolo, Marco Tamburini, Piero
Odorici la Gap Band, partecipando al Festival del Cinema
di Savona. Nel 1993 effettua
due tournée, una in Ungheria
con l’orchestra jazz delle TV
europee “EBU.EUR” e una
seconda, nelle principali città
della Spagna con la Gap Band.
L’anno seguente tiene concerti
con l’orchestra del “Paese degli specchi” con George Russel,
Kenny Wheeler ed entra a far
parte dell’Orchestra dell’AMJ
«Roberto Rossi
ha suonato e ha
inciso con notissimi
personaggi quali
Eros Ramazzotti,
Renato Zero,
Lorenzo Jovanotti,
Gianni Morandi,
Lucio Dalla,
Luciano
Pavarotti…»
ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 | 37
diretta da Giorgio Gaslini.
Successivamente si esibisce
assieme a Carlo Atti e Andrea
Pozza al “Ronnie Scott” di
Londra e inizia a collaborare con Cedar Walton con il
quale assieme a Piero Odorici,
partecipa a diverse rassegne
in Italia. Nel 1996 ha l’onore di
eseguire nell’Atelier Musicale
di Milano in prima nazionale
“Sweet Basil”, composizione
per trombone e big band di
Franco Donatoni. L’anno dopo
suona al Centro
della Cultura di
Stoccolma con
Marco Tamburini. Nel 2000
tiene una tournée negli USA –
New York, North
Carolina – con
Paolo Pellegatti
e Paul Jeffrey.
Nel 2001, dopo
aver partecipato al “Pavarotti
International”,
viene invitato a
Palermo per eseguire con Lee
Konitz gli arrangiamenti del
famoso disco di Miles Davis
“Birth of the cool”. Con la Civica Jazz Band di Milano di cui
è primo trombone, si produce
in occasione della riapertura del teatro Dal Verme con
Eddie Daniels e David Raksin,
compositore reso famoso del
celeberrimo tema “Laura”.
Partecipa inoltre con Marco
38 | ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012
Tamburini ai “Tre giorni di
musica per una vita” per Billy
Higgins.
Nel settembre 2001 viene
chiamato dall’Orchestra Nazionale d’Italia per una tournée in Cina e suona a Pechino,
Dalian, Macao, Taipei. Roberto
ha ancora vivo il ricordo del
viaggio e del profondo senso
di sgomento e di panico avvertito da lui e dai suoi colleghi,
quando l’aereo sorvolava l’Afghanistan, in quanto effettuato
il 12 settembre all’indomani
dell’abbattimento delle torri
gemelle. Ritornato in Italia
tiene, ospite dell’Orchestra di
Musica Contemporanea, un
concerto “Sacred concert” a
Palermo in veste di solista, in
omaggio a Duke Ellington e
successivamente suona con
Jim Hall al Teatro Manzoni di
Milano. Nel 2002 partecipa al
Festival di Vicenza con Paul
Motian e la “Lydian Sound
Orchestra” diretta da Riccardo
Brazzale eseguendo i brani del
noto concerto “Monk at Town
Hall”.
Tiene poi un concerto dedicato a Mingus all’“Iseo Jazz” con
Jack Walrhat. Nel 2003 partecipa al Festival Internazionale
di jazz di Dubai. Nel 2004
suona in quartetto con Pietro
Tonolo a vari festival in Italia
e all’estero, con un repertorio
di musiche di Lennie Tristano. Nel 2005 ritorna a New
York dove suona al “Sweet
basil” per una settimana con
il quintetto di Roberto Gatto.
Partecipa inoltre al festival
“Instanbul Jazz Weekend” in
quartetto con Pietro Tonolo.
Nel 2006 viene chiamato al Teatro Olimpico di Vicenza per
lo spettacolo teatrale con Giorgio Albertazzi ripreso dai RAI
2, su testi di Shakespeare con
musiche di Duke Ellington.
L’anno dopo si produce in vari
festival in Inghilterra e suona
con Kenny Wheeler al Gray
Cat festival. Nel 2008 suona
con Cedar Walton in vari
festival italiani, partecipa ad
“Umbria Jazz” con il gruppo
di David Sanborn e successivamente al festival di Roccella
Ionica con Enzo Iacchetti voce
recitante nel progetto dedicato
a Italo Calvino. Successivamente tiene concerti in Siria
e Libano in trio con Giovanni
Mirabassi e Flavio Boltro.
Lo scorso anno torna a Umbria jazz con Roberto Gatto
e di recente interviene al
festival jazz di Nis in Serbia.
Intanto costituisce “a Rota
libera”, gruppo di stampo
bandistico fortemente dedito
all’improvvisazione, che fonda
il suo repertorio principalmente sulle musiche da film
di Nino Rota.
Attivo anche sul fronte della
didattica, Rossi dopo il citato
incarico a Cosenza, nel ‘94 ha
insegnato alla scuola di jazz
il “Paese degli specchi” nel
bolognese, nel ‘96 presso i
seminari invernali di musica
jazz di Siena e ai civici corsi di
jazz a Milano nell’ Accademia
internazionale “Musica oggi”;
dal 2001 è stato docente presso i Conservatori di Bologna
e di Adria, negli anni 2008 e
2009 insegnante di trombone
jazz e musica d’insieme presso i seminari internazionali
di Siena IN-JAMM. Parallelamente, dall’anno accademico
2007/2008 ha avuto l’incarico
della cattedra di jazz presso
il Conservatorio “Dall’Abaco”
di Verona. In tale contesto nel
2006 ha pubblicato un suo Metodo per trombone jazz edito
da Ricordi.
ALBUM
A spasso per la città
I Cupioli, panificatori
da una generazione
Un mestiere tramandato di padre in figlio
con la collaborazione di mogli e nipoti
Sono i “ruggenti” Anni Trenta
(1930/35). Il nonno Lorenzo
Cupioli, con la famiglia e i
cugini, lavora, ovvero fa il
pane, in un forno in via Isotta.
È un lavoro artigianale che
richiede molto sacrificio ma
dà anche soddisfazione ed è
un lavoro sicuro, e poi, in via
Isotta, in Borgo Sant’Andrea,
ogni primavera, si verifica un
evento da non perdersi: il passaggio della Mille e Miglia (la
Brescia-Roma-Brescia), quella
mitica gara di regolarità per
auto, che per 13 edizioni,
quelle pre-guerra, attraversa
Rimini, al ritorno, verso il traguardo lombardo. Il passaggio
delle auto avviene di notte
e i fornai possono goderselo
durante una pausa del lavoro
senza allontanarsi. Anche il
regista Fellini, nel suo Amarcord, ricorda quell’evento.
Il figlio Arsildo, che vuole
avere la licenza per mettersi
in proprio, pertanto lavora in
un forno di via Bertani, presso
Santa Rita ma poi “arriva” la
guerra. La famiglia Cupioli ha
diversi figli ma Arsildo deve
partire. Però, per sua fortuna,
fa un mestiere che lo aiuta.
Dovrà, comunque, andare in
Russia ma nella Sussistenza e,
questo, gli permetterà, dopo
indicibili traversie, di essere
tra i pochi a ritornare a casa.
Verso la metà degli Anni
Cinquanta Arsildo apre un
suo forno in via Michele Rosa.
Nel centro di Rimini ci sono
diversi fornai: Capucci in via
Dante: vicino all’ex Acli, un
altro in via Mentana, altri
due in via Garibaldi tra cui
quello di Bianchini, uno in
via Roma quasi all’angolo con
corso Umberto (oggi Giovanni
XXIII). C’è poi quello nella
“piazzetta delle poveracce” e
il forno del Comune, dietro le
vecchie poste. E poi come non
ricordare l’altro forno storico
di Rimini, il Fellini in Corso
d’Augusto, verso il ponte di
Tiberio, poco dopo il cinema
Fulgor. E poi tanti altri ancora
nelle zone meno centrali.
Questi sono gli anni durante
i quali si sviluppa sempre
più il turismo e il lavoro non
manca. Così tutti i fratelli Cupioli lavorano nel panificio di
famiglia. Negli Anni Sessanta
gli impianti vengono potenziati con un forno tedesco,
che funziona con differenti
combustibili. È un forno di
tipo “militare” che può essere
trasportato su camion per
seguire il reparto cucinieri: è
una rarità per l’epoca. Ancora
oggi è attivo regolarmente.
Quando viene meno Arsildo
la direzione del forno passa al
figlio Giorgio che rinnova ed
amplia il locale e nel panificio le generazioni di Cupioli
continuano a succedersi.
Attualmente, da molti anni,
il fratello minore di Giorgio,
ha aperto un suo forno in via
Covignano che ricorda molto
quello di via Michele Rosa in
centro sia per l’arredo che
per i prodotti proposti: pasta
fresca fatta a mano.
La clientela del forno Cupioli
è, da sempre, la più varia e
Giorgio ricorda come, negli
Anni Sessanta, molte donne della zona venivano, per
Pasqua, a far cuocere le loro
ciambelle. Mentre, in estate, invece, erano le padrone
di molte pensioncine che
portavano al forno, per essere
cotte, le teglie ricolme di
lasagne. E poi c’erano i clienti
“d’élite” come Lucio Battisti,
Tonino Guerra, alcuni coristi
della Scala di Milano e alcuni
«Quando
Lucio Battisti
e Tonino Guerra
aspettavano in
fila che uscisse
l’ultima infornata
di spianata»
noti imprenditori riminesi
che aspettavano in fila, tra la
“gente comune”, che uscisse
dal forno l’ultima infornata di
spianata bollente.
I Cupioli sono una famiglia
numerosa, una gran bella famiglia, dove, quasi di regola, il
mestiere viene
tramandato di
padre in figlio
e tutti, mogli e
nipoti, collaborano. In
questo senso
hanno tutti i
requisiti per
essere considerati “storici” nel loro
settore che
oggi è tra l’artigiano e il commerciante. Tuttavia il Comune
non ha voluto riconoscere la
qualifica di “esercizio storico”
e questo è fonte di rammarico
per Giorgio.
Forse sarà perché l’arredo del
negozio non è d’epoca: ma si
sa che un forno deve rispettare delle regole igieniche che
non gli permettono di conservare scaffali o madie antiche.
O forse le agevolazioni e gli
sgravi fiscali di cui potevano
godere con il riconoscimento
di “esercizio storico” erano
troppo impegnativi per il Comune. Chissà.
di Silvana Giugli
Giorgio Cupioli
con la moglie Silvana,
la nipote e il figlio.
ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 | 41
LIBRI
“L’isola e le rose” di Walter Veltroni
Il romanzo
di un sogno
Una stravagante proposta di ribellione ammantata di poesia e dolcezza
di Nando Piccari
S
ul finire dello scorso anno,
Walter Veltroni mi chiese
cosa ricordassi dell’Isola delle
Rose su cui si sarebbe incentrato il suo prossimo romanzo.
Mi domandò inoltre se mi
fosse stato possibile aiutarlo
a procurare del materiale
d’archivio relativo alla Rimini
di quei “secondi anni ‘60” e a
fargli incontrare sia qualcuno dei protagonisti di quella
singolare avventura, sia alcuni
personaggi che per varie
42 | ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012
ragioni ne avessero all’epoca
trattato, sia qualche autore
che avesse scritto della Rimini
del passato, fra cui Manlio
Masini di cui già conosceva
alcune opere.
Chi abbia letto qualche suo libro precedente sa con quanta
cura, ai limiti della pignoleria,
Veltroni ami contestualizzare
i suoi romanzi, “movimentandoli” non solo con riferimenti
a situazioni ed eventi storicamente accaduti, ma addirittura arricchendoli di “piccole
preziosità di contorno”, rievocative della cultura diffusa, del
senso comune, delle abitudini
caratterizzanti l’epoca in cui la
trama si svolge. C’è a questo
proposito un aneddoto che la
dice lunga: il direttore della
Perugina, avendo avuto il
preannuncio di una telefonata
dell’On. Walter Veltroni”, si
era predisposto a sostenere
chissà quale impegnativa
conversazione; s’è invece
sentito chiedere se al tempo
in cui si svolgeva uno dei racconti di “Noi” la sua azienda
producesse effettivamente il
citato “Carrarmato Perugina
al latte”.
Devo dire che il piccolo ausilio
dato a Walter, soprattutto per
le annualità del “Carlino”
consultate alla Gambalunghiana, mi ha fornito l’emozionante occasione di rivisitare
momenti ed eventi con cui
ha interagito un quinquennio
del mio percorso giovanile;
che ripensato in rapporto
alla condizione di gran parte
dell’odierna gioventù, mi
verrebbe da definire “felicemente irrequieto”, al pari di
quello di tanti miei coetanei,
assetati com’eravamo di una
gran voglia di futuro, sia che
sfociasse in uno dei variegati
«… e tutto su
quell’isola sorretta
da tubi e piloni,
che misura appena
quattrocento
metri quadrati e
che in certe notti
regala il fantastico
spettacolo del
fitoplancton, con il
mare che diventa
fosforescente,
quasi salisse dalle
sue profondità
un’entità invisibile
a illuminarlo»
e spesso contrapposti versanti
della politica, o nello sport, o
più semplicemente nel bisogno di costruire e vivere delle
esperienze assieme.
La medesima irrequietezza
da cui sono pervasi i quattro giovani protagonisti del
romanzo, sui quali Veltroni
trasferisce la “pazza idea” di
voler creare l’Isola delle Rose,
che da piattaforma in mezzo
al mare quale inizialmente
doveva limitarsi ad essere,
sfocia poi in uno stravagante
“sogno rivoluzionario”, trasformandosi in autoproclamato Stato indipendente, dotato
di Governo, di propria moneta
e dell’esperanto come lingua
nazionale.
Il raccontarsi dei quattro ragazzi, che in quella suggestiva
avventura investono il meglio
di se stessi, ne evidenzia la
differenza di personalità, concezione culturale e propensione esistenziale, non sottacendo di ciascuno anche i limiti,
le paure e in qualche caso le
nevrosi. Ma il loro comune
denominatore è il sogno: un
sogno che certamente si porta
dentro pure un che di ribellione e di sfida al mondo, ma
cariche di poesia e di dolcezza, riassunte nella dedizione
alla loro creatura: quell’isola
sorretta da tubi e piloni, che
misura appena quattrocento
metri quadrati e che in certe
notti regala il fantastico spettacolo del fitoplancton, con
il mare che diventa fosforescente, quasi salisse dalle sue
profondità un’entità invisibile
a illuminarlo.
Sullo sfondo c’è la Rimini di
quegli anni, di cui Veltroni ci
ripropone molteplici spezzoni veritieri riferiti a vicende
sociali e politiche, così come
alle sue propensioni ludiche
e culturali; insieme a talune
atmosfere fatte di un disordinato miscuglio fra la voglia
di progredire, così avvertibile
nella città di quegli anni, la
consapevolezza del “doversi
dar daffare”, l’idea che il domani sarebbe stato comunque
migliore dell’oggi; e ancora, i
colori e i sapori della festa che
l’estate sapeva regalare, seguiti dalla malinconia provocata
dal suo interrompersi per
l’arrivo dell’autunno.
Il libro regala il non facile
risultato di una felice osmosi fra “l’intelaiatura storica”
dell’avvenimento da cui esso
trae spunto e la sorprendente
verosimiglianza del racconto
di fantasia che vi fa seguito. Al
punto tale che chi ha memoria di quella vicenda, alla fine
deve fare uno sforzo – perfino
malvolentieri e con un po’
di “magone” – per ricordare
che in realtà fu un maturo
ingegnere bolognese, Giorgio
Rosa, a fondare l’Isola delle
Rose.
Se mi è permessa una piccola
digressione personale, devo
dire che a me il libro ha causato anche l’aggiunta di un retroattivo senso di colpa. A quel
tempo infatti, al pari di tanti
studenti riminesi, d’estate
lavoravo “di remo” a Marina
Centro (fra i miei aiutanti...
più o meno volontari, vi era
il Past President Luigi Prioli.
Insieme, quando era stagione,
uscivamo anche in moscone
a piazzare “e paranghel” per
prendere “i bicun”). Naturalmente la stramba avventura
della “Insulo de la rozoj” era
in quei mesi uno degli argomenti obbligati, con il suo
corollario di leggende metropolitane generatrici di ogni
tipo di diffidenza. Siccome io
ero l’unico comunista del giro,
alcuni bagnini più anziani e
molti clienti, convinti che dietro all’operazione Isola delle
Rose si nascondesse la mano
spionistica dell’Unione Sovietica, polemizzavano con me
quasi fossi una quinta colonna
del Politburo: cosa che mi
faceva fortemente arrabbiare
poiché fin dall’inizio della
mia militanza politica ebbi
ripetutamente a manifestare
un’aperts contrarietà all’URSS.
Cosicché quando l’isola fu
fatta bombardare dal Governo
Italiano, quasi tirai un sospiro
di sollievo.
Credo vada infine rilevato che
pur avendo Veltroni la dimestichezza che sappiamo con la
trattazione politica, e nonostante il libro sia permeato di
inequivocabili tracce del clima
prodromico al sessantotto già
in incubazione, “L’Isola e le
rose” non è affatto il classico
romanzo politico. È, appunto,
il romanzo di un sogno. Anzi,
di un sogno svanito ma non
per questo inutile. Perché,
come fa dire l’autore a uno dei
suoi personaggi, «non sono i
sogni non realizzati ma quelli
non fatti a rendere futile e
stupida un’esistenza.»
«“L’Isola e le rose”
è il romanzo di
un sogno svanito
ma non per questo
inutile. Perché, come
fa dire l’autore
a uno dei suoi
personaggi, “non
sono i sogni non
realizzati ma quelli
non fatti a rendere
futile e stupida
un’esistenza”»
Rimini, 22 agosto
2012, Teatro degli Atti.
Presentazione, in
anteprima nazionale,
de “L’isola e le rose”.
Sul palco: Tiziana
Ferraio Walter Veltroni,
Fabio De Luigi, Andrea
Gnassi e Sergio Zavoli.
ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 | 43
LIBRI
“John Lindsay Opie/ Estetica simbolica ed Esperienza del Sacro”
Un maestro sulla
“soglia dei mondi”
Il volume di Alessandro Giovanardi è impreziosito dall’introduzione
di Boris Uspenskij
di Sabrina Foschini
C
’è un mondo a metà tra
la carne e lo spirito, un
mondo delle immagini ma non
del fantastico, perché è fatto
dell’«alta fantasia» dantesca
che non inventa, nel significato che oggi diamo al termine,
ma come nella sua antica etimologia: ritrova. Questo regno
che porta linfa vitale a tutte
le religioni e che conserva in
forma simbolica, gli archetipi
e le figure che illuminano la
strada dei cercatori di Dio,
coniugandosi in vari nomi ma
con la stessa forma è chiamato
appunto «mundus imaginalis».
Si potrebbe definire un luogo
della visione, un anello di congiunzione celeste, che è anche
il tramite entro cui l’arte passa, nel cercare di esprimere
l’invisibile e lo spirituale, ed è
il nucleo di fede nella bellezza, a cui John Lindsay Opie ha
sempre cercato di attingere,
più che le fonti della propria ricerca, l’incitamento a
cercare. Lo studioso, da molti
anni risiedente in Italia, è nato
negli Stati Uniti da un’antica
famiglia scozzese, trasferitasi in Virginia, già nel XVII
secolo con antenati illustri
che hanno radici nella storia
della nazione stessa, quali il
44 | ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012
leggendario generale Lee,
icona della guerra di Secessione. Come ama però ricordare,
è stato concepito a Shangai
durante uno degli spostamenti
del padre, che era ufficiale
di marina. E forse questo suo
attraversamento di vari continenti, già sperimentato nel
liquido amniotico si è concretizzato anche nella trasversalità dei suoi interessi e nella
ricerca di una loro possibile
relazione, un matrimonio di
simboli. Infatti, all’inizio di
una carriera, cominciata sotto
le insegne del ragazzo prodigio, si è dedicato ad indagare
molteplici forme artistiche
legate al culto religioso, nate
in diverse latitudini del cosmo,
per approdare poi e sostare,
nel lago dorato dell’icona, che
nella religione ortodossa non
è semplice rappresentazione
del divino, ma una diretta
emanazione della sua grazia.
Per usare le sue stesse parole:
«sostanziale è il rapporto
tra l’icona e l’arte delle altri
grandi religioni a cominciare
da quelle primitive, in cui
simboli e segni sono sempre
comunque intesi come veicoli
reali della potenza sacrale» ed
è nel solco di questo rapporto
carsico e misterioso che si
possono considerare alcune
sue scoperte. Una di queste
riguarda l’iconografia dei
“monti gemelli”, la montagna
spaccata che s’innalza dal
centro della terra, presente in
molti dipinti bizantini ma anche trecenteschi riminesi, che
sembra attingere la sua origine dai sigilli cilindrici della
Mesopotamia del III millennio
A.C. con la rappresentazione
del Dio sole che sorge tra due
cime, tagliando a metà con un
coltello, il monte sacro. Inoltre
«Un omaggio
d’affezione volto
a ricostruire
in senso critico
la bibliografia
dell’opera
intellettuale
di Lindsay Opie»
i suoi studi sull’arte religiosa
indiana, che lo hanno inizialmente appassionato al collezionismo delle bambole sacre
Tamil, gli hanno permesso di
rilevare una sostanziale affinità tra le teologia dell’India
Shivaita e il Cristianesimo. E
tuttavia come ricorda Giovanardi, in Lindsay Opie «non
vi è mai una sovrapposizione
sincretica di temi “pagani” a
temi cristiani, bensì la trasfigurazione di segno e contenuto dei primi, nel senso dei
secondi».
In tutta la sua lunga carriera
di storico dell’arte, bizantinista, docente universitario e
iconologo, ma anche di critico
della letteratura americana e
studioso della cultura artistica
indiana e cingalese, Lindsay
Opie ha disseminato le sue
idee e la sua conoscenza in
una miriade di semi sparsi in
articoli, riviste, atti di convegni, conferenze e libri difficilmente reperibili e consultabili, che rischiavano di perdere
la loro coesione e confondere
in un velame nebbioso, la
fisionomia del loro autore.
Ora il pericolo è scongiurato
dal ritratto che uno dei suoi
allievi, il riminese Alessandro
Giovanardi ha saputo tracciare di lui, nel libro edito per
i prestigiosi, rigorosi tipi di
Storia e Letteratura di Roma
intitolato “John Lindsay Opie/
Estetica simbolica ed esperienza del sacro” composto come
una biografia del pensiero o
come è detto nel sottotitolo, un
profilo intellettuale. Allievo in
questo caso non in senso letterale, ma nel segno proposto
da Agostino che concepisce il
Maestro non tanto come tramite d’esperienza, ma come
chi è capace di risvegliare
negli altri il proprio maestro
interiore, e così Giovanardi
ha scelto nell’aristocrazia
dei testi di un autore schivo
e dedito alla perfezione, una
guida indiretta e certa. Ma la
stessa vita di Lindsay Opie si è
nutrita di molti maestri palesi
e segreti: gli storici dell’arte
Rensselaer W. Lee, che definì
la teoria umanista della pittura, Bernard Berenson, salvatore del Tempio Malatestiano,
e Roberto Longhi, scopritore
di Caravaggio, l’iconologo
Erwin Panofsky, discepolo di
Aby Warburg. A completare il
lignaggio intellettuale di John
concorrono le affinità elettive col matematico e filosofo
russo Pavel Florenskij, martire
del gulag sovietico, l’identità
di sguardo con lo studioso anglo-singalese Ananda
Coomaraswamy, la complicità
col grande islamista persiano
«Giovanardi,
con tale opera,
stimola gli studiosi
ad introdursi
nell’indagine
del pensiero
di Opie»
Seyyed Hossein Nasr che John
aiutò a fuggire dall’Iran khomeinista, trovandogli asilo politico e accademico negli Stati
Uniti, la lunga amicizia con
Elémire Zolla, vissuta sotto le
costellazioni delle immagini e
dei simboli sacrali.
La scintilla di questa attenzione è nata appunto per l’inconsapevole intercessione della
poetessa Cristina Campo,
compagna di Zolla, che da
lungo tempo Giovanardi studia e chiosa come un canone
insuperabile di scrittura e che
amica di Lindsay Opie, ne
aveva tradotto in Italiano la
lettera aperta indirizzata ad
Aleksandr Solzenicyn, il nobel
di “Arcipelago gulag”, sui rischi di un impoverimento del
culto ortodosso. Alla Chiesa
russa e al rito bizantino-slavo
lo studioso americano si era,
difatti, felicemente convertito anche per influenza del
pensiero scintillante della
poetessa. Da questo incipit
e da alcuni saggi iconografici si è accesa la fiamma di
un interesse e una curiosità
profonda, che con la conoscenza personale di Lindsay
Opie è diventato anche un
omaggio d’affezione volto a
ricostruire in senso critico e
cronologico una bibliografia,
più possibile completa della
sua opera intellettuale, che
possa traghettare altri studiosi
nell’indagine e nella disanima
del suo pensiero.
Il volume è impreziosito anche
da una altrettanto affettuosa
introduzione dell’intellettuale
russo Boris Uspenskij, uno dei
più importanti semiologi del
nostro tempo, che ripercorre
nei singoli episodi biografici,
l’amicizia con John Lindsay
Opie, nata da un’intesa sull’in-
terpretazione del pensiero dei
“Vecchi credenti” russi e poi
cementatasi in quella che è diventata una comune passione
dell’anima, estrema devozione
alle culture dimenticate e per
questo ancora vitali e sapienti.
Infine un aneddoto: pare che
nel novembre del 2003, varcando le porte del Tempio di
Sigismondo con Lindsay Opie,
ospite della Fondazione Cassa
di Risparmio Di Rimini, l’erudito riminese Enzo Pruccoli si
ricordò di quel 1928 in cui il
giovanissimo Augusto Campana aveva accompagnato
un ammirato Aby Warburg in
visita al monumento malatestiano. A Pruccoli, discepolo
di Campana, sembrò quasi di
esser chiamato a ripetere il
cerimoniale facendo da guida
a John, discendente dalla
scuola warburghiana. Alessandro Giovanardi che li affiancava e li aveva fatti conoscere,
vide chiudersi l’ideale disegno
di un tappeto: i bassorilievi di Agostino di Duccio, le
tavole riminesi del Trecento,
l’esperienza del culto e della
liturgia, il rapporto fra visibile
e invisibile, palese e manifesto, non saranno più per lui
ciò che erano state prima.
John Lindsay Opie,
grande storico dell’arte.
ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 | 45
LIBRI
“Camicie Nere di Ravenna e Romagna tra oblio e castigo”
Partigiane
tutto il giorno a pedalare
Nel volume di Elios Andreini e Saturno Carnoli la storia
di alcune donne coraggiose
di Ivo Gigli
Adria Neri
G
iampiero Lippi, storico
della Resistenza, ha ricordato nella scorsa primavera
a Rimini, in occasione della
Festa della Donna, tre figure
di giovani donne romagnole
che tanto si sono spese per la
libertà negli anni 1943-1944
quando l’assurda guerra voluta dal fascismo stava volgendo
disastrosamente alla fine: Ida
Paganelli, Adria Neri e Ulitta
Dallamotta.
Ida Paganelli, cervese, infermiera presso l’ospedale
di Rimini negli anni Trenta,
fu testimone e protagonista
umile e silenziosa di importanti avvenimenti della nostra
storia. Nel 1938, ad esempio,
facilitò l’incontro tra la vedova
46 | ARIMINUM | LUGLIO AGOSTO 2012
di Guido Picelli (il difensore
di Parma contro i picchiatori
fascisti, 1922) e alcuni antifascisti che diedero vita, a
Cervia, a un comitato di salute
pubblica anticipando quello
che sarebbe stato il Cln.
Nel 1943, con la comparsa
della repubblica di Salò, ricoverò nella sua villetta alcuni
alti ufficiali inglesi. Il generale
Philip Neame nelle sue memorie ricorda: «Passammo alcune
notti nella villa di una signora
italiana. La chiamavano Ida
dell’ospedale». Ida fu sempre
pronta ad ospitare antifascisti
e, d’accordo col personale
dell’ospedale, distribuiva
medicinali ai partigiani; ma
fu nel luglio del 1944 che per
«Una volta
furono fermate
dai tedeschi, ma
paradossalmente
furono salvate
da un fascista»
un grave errore di consegna
di una lettera del Comitato
di liberazione provinciale
destinata alla Paganelli (a cui
si impartivano ordini, ma fu
data, perché essa era assente,
inconsapevolmente a un fascista) la casa della destinataria
fu perquisita dai Carabinieri i
quali consegnarono la donna
alla Brigata Nera di Ravenna;
fu trattenuta otto giorni e sottoposta a terribili e vergognose sevizie, come tra l’altro, le
bruciature delle sigarette sulle
carni e schegge di legno confiscate sulle unghie. Ma Ida non
aprì bocca. Fu, poi, spedita per
due mesi in carcere ove fu ancora visitata e interrogata dai
fascisti e dal console Guidi.
Arrestarono persino la figlia
che le portava da mangiare.
Uscita dal carcere Ida si diede
alla clandestinità.
Tutto questo è raccontato da
Elios Andreini e Saturno Carnoli nel libro “Camicie nere
di Ravenna e Romagna tra
oblio e castigo” che raccoglie
un condensato di molteplici
processi contro i fascisti. Dopo
la Liberazione la Paganelli
riprese il suo lavoro presso l’ospedale di Rimini e non volle
mai accettare attestati del suo
impegno e del suo coraggio.
Adria Neri – “Marga” il nome
di battaglia – nacque a Cannuzzo nel forese romagnolo.
Trasferita a Cervia, sposata,
aderì alla Resistenza come
staffetta. A Cervia, dopo l’8
settembre 1943, collaborò
con Bulow (Arrigo Boldrini)
nella ricerca di armi. Ospitò
nella sua casa un disertore cecoslovacco, che poi fu
aggregato all’Ottava Brigata
Garibaldi. Quando Giovanni
Fusconi assunse nel maggio
1944 la segreteria del PCI
di Rimini, volle con sé due
staffette cervesi: “Marga” e
“Liliana (Ulitta Dellamotta.
Furono assegnate al settore
politico: partivano per Rimini
in bicicletta e continuavano a
pedalare ogni giorno per recapitare corrispondenza, stampa
e armi a Forlì, a Verucchio, a
Morciano e San marino. La
loro era una vita convulsa e
piena di tensioni, dovevano
cambiare continuamente i
loro recapiti, potevano essere
fermate e arrestate. Tra l’altro,
una volta furono fermate dai
tedeschi, ma paradossalmente
furono salvate da un fascista.
Finita la guerra “Marga” frequentò corsi professionali e fu
assunta dal comune di Rimini
e non cessò mai di vivere
nelle organizzazioni operaie e
partigiane.
Ida Paganelli
«Partivano
per Rimini
in bicicletta
per recapitare
stampa e armi»
Queste donne, “Marga”, Ida e
“Liliana” e le loro compagne,
si opposero a un regime che
non si peritava, pure, di essere
alleato con la più barbara
delle dittature, il nazismo, e
si batterono dimostrando non
solo impegno e coraggio, ma
facendo una chiara scelta di
civiltà.
ARIMINUM | LUGLIO AGOSTO 2012 | 47
DIALETTALE
Compagnie e personaggi della ribalta riminese
Valeria Parri
La “Perpetua inamureda” degli “Jarmidied”
di Adriano Cecchini
Valeria Parri,
moglie di Lurenz,
innamorata
del parroco in
“La butega ad Pitron”.
I
l desiderio di recitare in
dialetto in Valeria Parri
nasce quando la figlia frequenta la scuola elementare.
In quel tempo, in accordo con
gli insegnanti, a carnevale
e per la chiusura dell’anno
scolastico, i genitori preparano una commedia, che oltre
a divertire i figli diletta loro
stessi. Si portano alla ribalta
rappresentazioni intercalate
da allegri e noti detti dialettali, come quelli suggeriti dai
nonni: “Va a pisèr t’la zendra, (va a a fare la pipì nella
cenere) oppure “ T’ci sempre
l’utma com la coda de chen”
(sei sempre l’ultima come la
coda del cane). Inizialmente
48 | ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012
«Una passione che
nasce nell’ambito
scolastico
e prosegue
sui palcoscenici
di città»
il palcoscenico creava grossi
timori tra i quali quello di non
ricordare le parti del copione.
Col passare degli anni tutto diviene facile, tanto che, su invito, il team comincia a recitare
sui palcoscenici di altre sedi
scolastiche. Nel 2003 la Parri
entra a far parte della compagnia dialettale “I Bighelloni”
sotto la guida del commediografo e regista Antonio Palma.
di parlare e deambulare di
La prima commedia che
un’anziana e ciarliera signora.
Valeria fa con il nuovo gruppo
A suo avviso non è difficile
è “La pensione Stella”, una
reperire nuovi testi, perché,
rappresentazione che porta
grazie al territorio romagnolo
alla ribalta storie della Rimini
che si estende dal mare alla
estiva. Dal 2012 entra a far
collina, è possibile cogliere
parte della compagnia “Jarmicontenuti e suggerimenti da
died”, con la quale si sente a
tradurre in copioni, come non
suo agio perché le consente di
resta difficile, almeno nella
sostenere ruoli sempre diversua compagnia, reperire giosi: è la rompiscatole, vicina di
vani che si prestano a calcare
casa, in “La butega ad Pitron”;
le scene, anche se talvolta con
la sarta in “Una dmenga ad
un dialetto fluttuante.
Carnivel”; la perpetua inamuValeria Parri trova che nella
reda in “È parsot de Signor”;
poesia dialettale di Gianfranco
ha il ruolo di mediatrice in “E
Miro Gori, è condensata la
dievli uj fa e po uj cumpagna”; storia del nostro vernacolo.
è la sarta chiacchierona in
“Una dmenga ad Carnivel”;
interpreta la
moglie delusa, la
vecchia nonna…
Il gruppo scenico
Gianfranco Miro Gori
da qualche
tempo è formato
dagli stessi attori
e dallo stesso
regista: una
I mi nòn i panseva
condizione di
e i ciacareva in dialet.
amicizia collaboLa mi ma e i mi ba
rativa che crea
i pensa in dialet, mo sa me
in Valeria tanta
i a sémpra zcours in itaglién.
sicurezza. Ella
E mè, ch’iò studiè è dialet te cafè
pensa di aver
prima a ragiòun in taglien
dato il meglio di
pu a faz la traduzion
se stessa nella
cmè sl’inglòijes e franzòis.
parte della “PerMo u i è una masa’d diferénza:
petua inamuresa queli a chin pansè furistir
da”, aiutata nel
sa quèst, l’è sa, spicem ti mi vécc
ruolo dal modo
E DIALET
NUMISMATICA
La medaglia del Rotary Club Rimini Riviera
I gioielli
di piazza Cavour
L’opera è stata eseguita da Angelo Ranzi, un artista che si esprime
nelle più svariate tecniche della pittura e della incisione
I
l Rotary è una organizzazione di uomini e di donne,
rappresentanti le più svariate
attività economiche e professionali, che lavorano insieme
a livello mondiale per offrire
un servizio umanitario alla società, incoraggiare il rispetto
di elevati principi etici nell’esercizio di ogni professione e
aiutare a costruire un mondo
di amicizia e di pace.
Fra le più importanti attività
voglio in particolare ricordare il “Progetto Polio Plus”,
iniziato oltre 20 anni fa su
idea del club italiano Rotary
Club Treviglio e della Pianura Bergamasca, che oggi sta
collaborando nel completare
la vaccinazione a livello
mondiale di tutti i bambini contro la poliomielite.
Il Rotary International infatti è tra
i partner, insieme
all’Organizzazione Mondiale della
Sanità, all’Unicef
e al “CDC” (Center
for Disease Control
and Prevention), della
Global Polio Eradication
Iniziative, l’eradicazione
globale della Poliomielite.
Il contributo finanziario
del Rotary International
all’iniziativa ha superato
i 700 milioni di dollari
americani (100 milioni
donati solo nel 2008).
Recentemente la
Bill e Melinda Gates
Foundation ha
donato alla Rotary Foundation 100
milioni di dollari
americani a favore di
questo progetto; la Rotary Foundation si è impegnata allo stesso modo a
raddoppiare la donazione nei
prossimi tre anni. Attualmente, secondo i dati di maggio
2012, i rotariani nel mondo
sono 1.230.551, raggruppati in
più di 34.404 Club presenti in
oltre 200 Paesi.
Il primo Rotary Club Italiano
è stato fondato a Milano il 20
dicembre 1923. Dopo l’interruzione del periodo fascista e
della seconda guerra mondia-
le, in Italia è cresciuto rapidamente: sempre nel maggio
2012 contava 42.034 Rotariani
in 802 club.
Nel 1989 il Consiglio di Legislazione ha eliminato nella
Costituzione del RI il requisito
che prevedeva l’affiliazione
limitata ai soli uomini nei
Rotary club.
Le donne sono quindi state
accolte in tutto il mondo e nel
2009 erano già 187.967.
A Rimini ci sono due club,
il Rotary Rimini e il Rotary
Rimini Riviera che nel 2007 ha
fatto coniare il bel medaglione
che qui illustriamo, da consegnare ai relatori e agli ospiti.
La medaglia sul dritto rappresenta uno scorcio della
piazza Cavour di Rimini:
teatro Galli, palazzo del
Capitano, palazzo dell’Arengo, statua di Paolo V;
per caratterizzare la città, si sono voluti evitare
i soliti monumenti, come
arco, ponte e duomo,
che sono già stati molto
sfruttati.
Sul rovescio è raffigurato il
molo che partendo dalla città
si protende sul mare aperto;
si è voluto rappresentare il
molo perché punto d’approdo
di coloro che viaggiano per
mare, da sempre la grande
via di comunicazione e di
contatto fra i popoli.
La medaglia è stata
eseguita da Angelo
Ranzi, un artista che
si esprime nelle più
svariate tecniche della
pittura e della incisione,
nonché nella coniazione
di medaglie e nella realizzazione di opere in bronzo;
vive e lavora a Forlì.
di Arnaldo Pedrazzi
Dritto:
ROTARY CLUB RIMINI
RIVIERA (nel giro)
Simboli e firma Ranzi
(nel campo)
Rovescio:
CON IL ROTARY
INCONTRO AL MONDO
(nel giro)
Simboli e firma Ranzi
(nel campo)
Diametro: mm 60
Peso: g 115 in argento,
g 105 in bronzo
Tiratura: 10 in argento,
150 in bronzo
Stabilmento:
Picchiani & Barlacchi
s.r.l. Firenze
ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012 | 51
ARIMINUM
Dentro l’onda
“ARIMINUM”? UNA CARA ESPERIENZA
Cari amici,
dopo quasi vent’anni da quando le mie fotografie cominciarono
a comparire sulle copertine di “Ariminum” la mia collaborazione
con questa bella rivista è giunta al termine. Il motivo è semplice:
sopravvenute esigenze commerciali e pubblicitarie impongono un
diverso ruolo ed una diversa tipologia dell’immagine di copertina, che comporterà anche la sovraimpressione di varie scritte,
titoli e altro ancora.
A questo punto, la mia scelta è ovvia: il fatto è che le mie fotografie non sono adatte a questa nuova impostazione, essendo
state concepite con tutt’altra ottica, quella che corrisponde al mio
personale modo di sentire e di vedere. Insomma, non potrebbe
funzionare.
Concludendo questa mia esperienza, che mi è e mi resterà cara,
ringrazio di cuore il direttore, l’amico Manlio Masini, che, con
rara cultura, pazienza, simpatia ed intelligenza, ha sempre collaborato con me in tutti questi anni. È stato, ogni volta, un grande
piacere incontrarlo e conversare con lui.
Non da ultimo, un sentito grazie anche a tutti coloro che hanno
apprezzato la mia opera. Con l’occasione, poiché diversi lettori
me lo hanno chiesto, preciso che tutte le mie immagini apparse su
“Ariminum” sono tratte da diapositive (quasi tutte “kodachrome”
la mitica marca, ora non più in produzione, nominata perfino
in una canzone degli altrettanto mitici “simon & garfunkel”). Diverse di quelle foto sono state poi ricavate dal mio libro fotografico “Rimini alla ricerca di un’anima”. Solo l’ultima immagine
comparsa sul numero di luglio/agosto e raffigurante la ruota
panoramica di notte, è una foto digitale. E qui sarebbe certo
interessante trattare l’argomento che appassiona molti: fotocamere a pellicola/fotocamere digitali, ma forse ve ne sarà un’altra
occasione.
Un saluto e un grazie a tutti.
Federico Compatangelo
ARIMINUM
Bimestrale di Storia,
Arte e Cultura
della Provincia di Rimini
Fondato dal Rotary Club Rimini
Anno XIX - N. 5 (110)
Settembre/Ottobre 2012
Direttore
Manlio Masini
Hanno collaborato
Alessandra Bigi Iotti,
Alessandro Catrani,
Adriano Cecchini,
Federico Compatangelo,
Lanfranco Fabbri,
Sabrina Foschini, Corrado Ghini,
Ivo Gigli, Silvana Giugli, Giuma,
Man, Arnaldo Pedrazzi,
Nando Piccari,
Giovanni Rimondini,
Rinaldo Ripa, Franco Ruinetti,
Guido Zangheri, Giulio Zavatta
Redazione
Via Destra del Porto, 61/B
47921 Rimini - Tel. 0541 52374
Editore
Grafiche Garattoni s.r.l.
Amministratore
Giampiero Garattoni
Delegato del Rotary Club Rimini
Alessandro Andreini
Registrazione
Tribunale di Rimini n. 12
del 16/6/1994
Collaborazione
La collaborazione ad Ariminum
è a titolo gratuito
Distribuzione / Diffusione
Questo numero è stato stampato
in 7000 copie ed è distribuito
gratuitamente nelle edicole della
Provincia di Rimini abbinato al
quotidiano “La Voce di Romagna”.
È spedito ad un ampio ventaglio
di categorie di professionisti ed è
consegnato agli esercizi commerciali di Rimini.
Inoltre è reperibile presso
il Museo della Città di Rimini
(Via Tonini) e la Libreria Luisé
(Corso d’Augusto, antico Palazzo
Ferrari, ora Carli).
La rivista è leggibile in formato
Pdf sul sito del Rotary Club Rimini
all’indirizzo
www.rotaryrimini.org
Pubblicità
Piùmedia
Tel. 0541 777526
Stampa e Fotocomposizione
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Via A. Grandi 25
Viserba di Rimini
Tel. 0541 732112
Fax 0541 732259
52 | ARIMINUM | SETTEMBRE OTTOBRE 2012