Holiday in Colombia – appunti di viaggio di Alessandro

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Holiday in Colombia – appunti di viaggio di Alessandro
Holiday in Colombia – appunti di viaggio di
Alessandro Marconcini
Prologo
You only live once
E chissà, forse è proprio vero.
Cosa? Ma che si vive solo una volta. Inizio queste riflessioni serali pre-partita mentre
scorrono le note di, appunto, You Only Live Once degli Strokes. Forse è un segnale.
Il mood è un po' cambiato, tipo triste dentro ma allegro fuori. In effetti ieri sera ero
brillante come ai bei tempi. So che questo scritto uscirà un disastro, e non si capirà
niente.
Quindi, cerchiamo di mettere ordine.
Perchè sono triste dentro? Perchè il mio viaggio è finito, e lavorare non è quella riserva
di emozioni continua che, al contrario, è un viaggio. E' importante sottolineare che un
viaggio è diverso da una vacanza. Dal viaggio si arriva stremati, molto più stanchi di
quando siamo partiti, dimagriti, come nel mio caso, segnati fuori ma soprattutto dentro.
Continuano a scorrerti negli occhi le facce delle persone che hai conosciuto, e che nella
maggior parte dei casi non rivedrai mai più, continui a ricordare le piccole cose che hai
vissuto e che non hai fotografato (non potevi, anche se tu avessi avuto la macchina
fotografica: come si fa a fotografare la faccia di un ubriaco che sembra volerti aggredire
e invece ti paga da bere per due ore di seguito, e che poi ti chiede un ricordo, tu gli
lasci una banconota da 5 euro perchè è la più piccola che hai e lui si rende conto che nel
suo paese è una discreta somma, allora lui te ne regala una da 2000 pesos colombiani,
meno di un euro, te la firma e ti fa promettere che, come farà lui con quella da 5 euro,
non la spenderai mai nella vita?), ad aprire la posta elettronica sperando di trovare una
mail di qualcuna di quelle persone, magari una donna, che ti riveli che si, era come
pensavi, proprio così, ma era difficile in quel momento.
Ma la vita continua, ed in fondo è un bene. Quello che ti dà allegria è che dopo 10 anni,
hai ritrovato in pieno le possibilità ma soprattutto la voglia di viaggiare; c'era stato un
momento dove sospettavi che non l'avresti più fatto. E non perché non potevi, ma
perchè stavi davvero bene a casa tua. La voglia ritrovata non vuol dire che non stai più
bene qui, al contrario. Nostra patria è il mondo intero, e così sia.
Non solo. L'allegria sono gli amici che sono contenti che tu sia tornato. L'allegria è non
aver voglia di cucinare, uscire da solo a mangiare una pizza, sedersi accanto ad una
tavolata di giovani che parlano di un'amica che ha lasciato un amico, supponendo che le
piaccia un altro, e tu che gli dici "secondo me le piace un'altra", e dopo 5 minuti ti
ritrovi a fumare una sigaretta fuori dal locale con quelle ragazzine che ti dicono che
forse hai ragione tu.
L'allegria, paradossalmente, è continuare il corso per nutrizionisti, ascoltare il racconto
di un dottore che ha salvato 2000 bambini malnutriti nel 1994 in Rwanda e lottare in
silenzio per non scoppiare a piangere in mezzo alla sala gremita di gente.
Lafolle chiedeva in un commento di qualche tempo fa se avevo iniziato l'assunzione della
coca. Ebbene si. All'hostel "Casa di François" cenavamo bevendo acqua di coca, fatta
bollendo acqua con foglie di coca dentro. Non era buonissima, ma mi manca. Forse
perchè la preparava Mariana. Quella che somiglia a Bjork.
Ma direi che adesso è meglio cominciare a raccontare cronologicamente, anche se in
differita, questo tourbillon di emozioni. Vi scriverò il diario di questo mese passato in
Sud America, a puntate, partendo dal 5 gennaio fino al 7 di febbraio. Un po' per volta,
cesellando i ricordi e tessendo la tela della memoria. Pensando al prossimo viaggio.
Perchè si vive solo una volta. Forse.
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5/1/2006 Tutte le strade portano a Roma
Chiudo e-mule sempre con un po' di rammarico: c'è sempre qualche porno da finire di
scaricare.
La borsa è pronta, e mio padre anche, con il suo sorriso da pensionato vispo sempre sulle
labbra. Non so se sia vero, ma credo proprio di stargli simpatico, anche se spesso non
concorda con i miei pensieri. Mi accompagna alla stazione volentieri, e mi dispiace un
po' quando, proprio alla stazione incontro un vecchio compagno di scuola che lavora in
ferrovia, quindi lo lascio per 5 minuti da solo. C'è tempo per qualche altro sorriso, non
mi fa raccomandazioni. Sembra quasi contento per me. Mi dispiace quasi salire sul
treno.
Il viaggio fila liscio come l'olio, la giornata è splendida, andare a Roma in treno con
queste giornate è sempre spettacolare: la maremma ti fa star bene, vorresti scopare il
finestrino. Il solito cambio a Ostiense, il solito arrivo a Tiburtina. Ormai è un classico
degli ultimi anni, con Fabio che mi accoglie proprio lì, in quel piazzale caotico e pieno di
facce per niente affidabili ma affascinanti. Non subito, così ho il tempo di mangiare
qualcosa, visto che non ho pranzato. E' un po' che non ci vediamo, ma non si nota.
Andiamo a casa sua e prendiamo un po' per il culo Chris Cornell per la performance sul
dvd live in Cuba degli Audioslave. Un ex cantante, che almeno ci lasci un buon ricordo.
Verso l'ora di cena arriva Nico, e andiamo fuori a mangiare. E' la solita cena tra uomini,
con l'aggravante che, come detto prima, è un po' che non ci si vede. Parliamo
soprattutto d'altro, forse perchè un minimo di tensione in me c'è. E' innegabile.
E' la mia ripartenza, e non alla Sacchi. L'ultimo timbro sul vecchio passaporto era quello
di Cipro nel 1996, per giunta per motivi di lavoro. Non riuscii neppure a vedere il muro
di Nicosia. Si, ci fu la Spagna due volte, Londra, la Croazia, l'Olanda....ma quando
attraversi l'oceano ha un altro sapore, anche se non senti il salmastro mentre sei in
aereo. E' una specie di azzardo, non so quanti saranno i miei compagni di viaggio, come
sono, se riuscirò a conviverci, che tipo di "profilo" avrà il viaggio. E' anche il suo fascino,
però.
E allora, come dicevano Mogol-Battisti, sia quel che sia. Mi addormento da Fabio con la
voglia di risvegliarmi presto e volare. Letteralmente.
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6/1/2006 Vamos a Argentina
La sveglia è all'alba, e Fabio mi accompagna a Fiumicino, aeroporto che ricordiamo con
simpatia io, lui e Nico, per essere stato teatro di uno dei momenti più esilaranti della
nostra amicizia. La coda al check-in per il volo per Madrid arriva fuori dalla porta, e
questo ha già dell'incredibile. Ci passa davanti Pupi Avati, così, per la cronaca. Riesco a
portare il bagaglio a mano, e questo mi riempie di soddisfazione: meno di 8 kg, un
grande traguardo per un mese fuori di casa. Facciamo colazione, poi Fabio mi saluta, ci
rivediamo esattamente tra un mese.
Volo Iberia, non so se le altre compagnie hanno fatto lo stesso, ma gli spagnoli hanno
abolito i fronzoli sui voli "corti", europei quindi, e se vuoi mangiare te lo paghi. Non è un
problema, il volo è tra le 8 e le 11. La coincidenza a Madrid è agevole, ho tempo di
andare al bagno, fare un giretto, comprare dell'acqua, chiedere la conferma che ci sia la
segnalazione per i pasti vegetariani sul volo per Buenos Aires. Un poliziotto ai controlli
mi chiama caballero. La fibbia della cintura fa suonare il metal detector, e questo sarà
un calvario per ogni controllo prima dei voli.
Si parte per il transoceanico nel primo pomeriggio, leggermente in ritardo. Ci sono un
sacco di bambini piccoli. I pasti, per sicurezza, escludono anche uova e latticini, ma
sono ottimi. Non dormo, del resto è un volo da 12 ore tutto di pomeriggio; mi guardo i
due film, "Goal!", prevedibile e macchiettistico, ma almeno non l'avevo visto, e "Il
mercante di Venezia" a pezzi, visto che già lo conoscevo. Approfitto per sentire Pacino
in originale, e ha proprio la voce da vecchio, ma vecchio attore.
Il volo dura meno del previsto (meno di 13 ore), e nonostante tutto penso poco. Sono
stranamente tranquillo, magari sono stanco, non so. Quel che è vero è che non c'è
niente di memorabile nel volo, nessuna perturbazione, nessuno che si sente male,
nessun cretino di talento, solo qualche pianto di bambino, neppure una hostess da
portarsi a casa.
Non mi va di leggere. Sono fatto così, vado a periodi. Alla fine, arriviamo, quasi in
anticipo.
Passo spedito verso la dogana, il timbro sul passaporto mi fa vibrare. Esco dagli arrivi in
solitario, questo è il privilegio di viaggiare leggeri. Ma si rivela controproducente: non
c'è nessuno ad aspettarmi. Vado nel panico: non ho nessun numero di telefono, e me ne
rendo conto solo adesso. Vago per 10 minuti guardando le persone in attesa in faccia per
tentare di riconoscerci la mia amica Juliana o uno dei suoi fratelli, che però ho visto solo
in una foto di qualche anno prima. Non trovo nessuno. Penso al da farsi, eventualmente.
Non riesco a mettere a fuoco una strategia. Dopo quasi 15 minuti vedo un ragazzo con un
foglio in mano con su scritto ALESSANDRO. E' Gastón, il fratello maggiore di Juli. Arriva
anche lei e la sua amica omonima, Juliana. Il peggio è passato.
Sono emozionato, quindi per i primi momenti poco prolisso. Conosco Juli ormai da 5
anni, ma non ci siamo mai visti di persona. E' una ragazza giovanissima, ma molto
intelligente. Studia Relazioni Internazionali, ed è preparatissima a livello storico e
politico, ma al tempo stesso ha un'enorme voglia di vivere e di conoscere. Adesso che la
vedo ha due occhi celesti vispi e attenti, gioiosi. Sono felice di essere qui. La sua amica
è simpatica, Gastón anche, così, a pelle. Il caldo taglia le gambe, sono quasi le 23,
prendiamo la macchina di Gas e ci dirigiamo verso il centro di Buenos Aires. Rompo il
ghiaccio aiutato dalla comitiva, cominciamo a parlare allegramente come vecchi amici.
Buenos Aires è una città grandissima, enorme. Ha tutte le contraddizioni delle
metropoli: avenidas sfarzose e moderne, enormi rampe di cemento in costruzione,
architetture ottocentesche e preziose, barrios completamente ricostruiti e dati in
gestione alle multinazionali, periferie povere e ragazzi che la notte esaminano i sacchi
della spazzatura per vivere (in strada).
Ha fascino, insomma. Passiamo a prendere il ragazzo di Juliana (l'amica), giriamo
cercando un parcheggio per la macchina, andiamo ad un hostel già conosciuto dai
ragazzi per fissare per la notte, poi andiamo a mangiare qualcosa. Pizza Libre, paghi 5
pesos più 2 per la bevuta e puoi mangiare quante pizze riesci a mangiare. Al cambio
attuale, circa 2 euro.
Con i piedi sotto al tavolino l'atmosfera si fa, come di consueto, ancora più informale, e
mi vengono chieste le prime impressioni, mi vengono dette le loro, mi raccontano del
resto della famiglia che conoscerò a breve, della festa alla quale parteciperemo domani
sera, e poi la politica, i viaggi, le esperienze, i lavori, gli studi, la birra, Maradona,
Caniggia e il gol a Zenga nel '90 (diventerà un tormentone), e chissà quanto altro che
non riesco più a ricordare.
Juliana va a dormire dal suo ragazzo, un rosso davvero simpatico con una faccia quasi da
Rickie Cunningham sudamericano, io, Gas e Juli all'hostel.
Qui mi soffermo: si dorme in camerate, da 4 letti, sono maschili o femminili, se capisco
bene, il bagno è comune tra tutte le camerate, ma ci sono anche stanze doppie. E'
piuttosto pulito e c'è gente apparentemente a posto, tutti molto giovani. Non ci sono
abituato, ma me acostumbro (mi abituo), almeno spero. Sono o no "da bosco e da
riviera", come tento di insegnare in italiano a Juli? Mi addormento a Buenos Aires, e
penso che questa giornata è durata 28 ore. Magie del fuso orario.
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7/1/2006 Il linguaggio universale del calcio
Ci alziamo alla spicciolata e non prestissimo, la colazione è free e compresa nel prezzo
dell'ostello. Andiamo al parcheggio a prendere la macchina e scopriamo che, durante
l'acquazzone di stanotte, è entrata dell'acqua da una guarnizione. Fa niente, in pochi
minuti asciuga, fa un caldo notevole. Gas e Juli mi fanno fare un mezzo giro turistico di
Buenos Aires, Boca, ex quartiere povero, adesso attrazione turistica; passiamo anche
dalla Bombonera, imponente, evocativa, San Telmo, la parte nuova del porto; prima di
partire alla volta di Rosario ci fermiamo a mangiare in un supermercato. Una cosa molto
USA, purtroppo. Con la differenza che la gente non ha fretta. E nemmeno noi,
nonostante dobbiamo fare circa 500 km e, appunto, una sosta a Rosario dalla sorella
maggiore. Cominciano i "problemi" col caffé: non c'è verso di trovare un espresso degno
di questo nome.
Partiamo dunque per Rosario, la città natale del Che. L'autopista è dritta e scorrevole,
la conversazione divertente, il tempo passa meravigliosamente. Gas è un personaggio,
ha un modo di parlare buffo e simpatico. Iniziano a bere mate, lo assaggio, è amaro, non
mi piace. Fa niente.
Pianura, vegetazione bassa ma verde, mucche e cavalli a perdita d'occhio. Come
osservammo una volta con alcuni amici in Spagna, "facile fare le autostrade qui eh?". Qui
però siamo in Argentina, un paese martoriato dalla storia. Dittatura, populismo, e poi la
Banca Mondiale e i 5 presidenti in una settimana, i ricchi che portano i soldi all'estero
poche ore prima della bancarotta con la connivenza dei potenti. Un paese umiliato, che
prova a rialzare la testa. Rischiamo di terminare la benzina, ma ce la facciamo ad
arrivare ad una stazione di servizio; il caldo diventa quasi allucinante. Dopo poco
arriviamo a Rosario, facciamo visita alla sorella grande, Renata, architetto, altrettanto
simpatica, sposata con Juan Pedro, avvocato ciarliero e compagnone, che parla a ruota
libera su qualsiasi argomento, genitori di due splendide gemelline di quasi 3 anni: Juli
stravede per loro. Poi ci portiamo verso il, anzi la Terminal dei bus, dove aspettiamo
l'altro fratello, Rafael, di ritorno da un lavoro. La famiglia ha un agenzia di viaggi, due
bus grandi di proprietà e uno da 12 posti. I ragazzi fanno gli autisti, Juli part-time fa la
guida turistica, il padre coordina. Appena Rafa è disponibile partiamo per Arteaga, il
loro pueblito, stasera c'è una grande festa e non possiamo mancare. Sono altri 120 km
circa, ed è già buio.
Rafa è più giovane di Gas, più taciturno, e somiglia a Tom Hanks.
La strada è piuttosto dritta, ma ci sono un sacco di paesi, semafori, lomos de burro,
rallentatori. Ma arriviamo in tempo. Una ripulita e via verso un parco con piscina, dove
ci sono più di mille persone su un totale di 3000 abitanti. La festa è in onore del club
calcistico Arteaga, che ha vinto il campionato regionale, l'equivalente dei nostri
dilettanti. L'entusiasmo è inverosimile, c'è da bere, da mangiare, da ballare, vecchi,
adulti, giovani, piccini, donne e uomini. Conosco Marcellino e la moglie, i genitori, e
Marcellino mi parla in un italiano curioso ma buono, anche se non ne ho bisogno. La cosa
impressionante è che ci sono un presentatore e una presentatrice, filmati con i gol,
interviste ai protagonisti ma anche ai calciatori dell'Arteaga che hanno vinto il
campionato negli anni passati (tra i quali anche Gas), poi la premiazione con una dedica
per ognuno, massaggiatore e magazziniere compresi. Il presidente e due calciatori si
chiamano Protti di cognome, ed è difficilissimo trovare un cognome che non sia italiano.
Al tavolo si sparge la voce che sono italiano e un sacco di persone si presentano come
italiane, almeno di origine. Battute sul mio vegetarianesimo ma nessuno che scoccia più
di tanto. Bella gente, sincera, gente che lavora duro ma che ha voglia di divertirsi e di
comunicare. Non ci sono tabù per nessun argomento, anche quelli più complicati come
le varie crisi argentine. L'entusiasmo si taglia a fette, ed è davvero impressionante cosa
possa fare il calcio vissuto in questo modo. Ma il mio stupore diventa incredulità quando
vengo a conoscenza che non solo l'Arteaga ha un gruppo di tifosi organizzati, che si
chiamano la catorce (la quattordici), ma che ad Arteaga esiste anche un'altra squadra.
Incredibile, ma vero. E a questo giro verranno presi per il culo continuamente.
Arriva un po' di pioggia a disturbare la festa, che si conclude rapidamente (si fa per
dire). La notte però, è ancora giovane ed è sabato. E allora ci spostiamo davanti
all'unico disco-bar del paese.
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8/1/2006 Un piccolo grande paese
Non riesco a ricordare come si chiama il disco-bar, ma se andate ad Arteaga e chiedete
lo trovate. Sembra che tutti i giovani del paese siano lì, e non dentro, ma fuori. Il
cocktail che va di moda adesso in Argentina, believe it or not, è il Fernet con la CocaCola. Me lo offrono e dichiaro che fa schifo, sembra una medicina. Nessuno se la prende.
Proseguo con la birra.
Si innesca ovviamente una spirale di presentazioni e conoscenze, impossibile ricordarsi
tutti i nomi. Noto un paio di ragazze con i tacchi e sgomito per farmele presentare, ma
mi sforzo invano.
Ad un certo punto sembra quasi che le persone facciano a gara per parlare con me, ma
ad onor del vero sono tutti maschi. Dopo un altro po' siamo seduti ad un tavolo bevendo
l'ennesima birra parlando di calcio, e mi lamento proprio di questo: "¿Pero adonde estàn
las mujeres?".
Improvvisamente alzo gli occhi ed è giorno. E' passata la notte così, in un lampo alcolico,
guardando e desiderando tacchi ma straparlando di calcio. E' stato comunque bellissimo.
La gente se ne va, qualcuno va in discoteca, e sono quasi le 6. Mi prende in consegna
Rafa, il fratello taciturno. Col Falcon facciamo un giro, ed arriviamo in uno di quei posti
che credevi esistessero solo nell'immaginazione degli sceneggiatori tipo Tarantino.
Costruzione bassa, un parcheggio ampio davanti, gente con facce buffe, un bancone
scarno, due baristi svogliati, ragazze poco vestite, tavolini, niente intonaco alle pareti,
fumo, alcol, musica, camere adiacenti. Beviamo un caffé che fa schifo. Andiamo a letto
che sono quasi le 8.
Mi sveglio verso le 15, e dopo un po' si mangia. C'è sempre allegria nell'aria, e tutti
scherzano sul fatto che non mangio carne, oltre a ricordare la notte passata.
Stancamente, con Gas andiamo a la pileta, la piscina, insomma il solito luogo dove la
sera prima si è svolta la festa. E' in pratica il circolo del club calcistico. C'è già un
capannello di amici di Gas, ci sediamo e le Quilmes iniziano a viaggiare, mentre cerco di
star dietro ai racconti dei ragazzi, della sera prima, e poi via via delle loro vite, come si
fa di solito fra maschi, raccontando le proprie malefatte. Si fa sera così, con semplicità,
quando si rientra a casa sta calando il sole, ma di mangiare non se ne parla, è presto. E
allora in terrazza si beve ancora Quilmes e si sgranocchia pizza o patatine, ci sono le due
amiche del cuore di Juli e il tenore dei discorsi cambia un po', ma si ride lo stesso.
Alla fine, si cena, e saranno oltre le 22. Mi arriva la voce che il Livorno ha vinto a
Genova contro la Samp, e magicamente riesco a vedere la Domenica Sportiva su RaiSat.
E' l'apoteosi.
E' stata una bella giornata. Ricca, anche se sembra non abbia guadagnato niente. Uno
alla volta, alla spicciolata, gli abitanti della casa si coricano. Così faccio anch'io.
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9/1/2006 Caffellatte e politica
Mi sveglio piuttosto presto, e desayuno con Juli, parlando di politica internazionale, uno
dei temi che padroneggia molto bene, uno dei motivi per cui ammiro questa ragazzina.
Poi un giro in paese per alcune compere, in tutti i negozi più o meno sanno della mia
presenza, ed è commovente vedere un anziano signore proprietario di una ferramenta
cominciare a parlare in italiano appena mi presento, mentre la signora della macelleria
mi dice che lei non sa l’italiano ma sa che io parlo bene il castigliano.
Dopo pranzo, con tutta la famiglia riunita, più un ragazzo che lavora nell’officina
dell’agenzia di viaggi (ci sono da revisionare i bus), ancora con Gas cerchiamo un caffé e
poi andiamo a rinfrescarci in piscina. Chiacchiere con i suoi amici, dopodichè io, Juli e
Rafa andiamo verso Rosario.
Nel viaggio apprezzo il sarcasmo sottile di Rafa, col quale mi sento sintonizzato già dalla
sera prima, per piccole cose, anche per i silenzi. La strada non è corta, ma passa bene,
quando arriviamo è ancora presto (per i canoni argentini) per la cena, giriamo per la
parte monumentale, e lì scopro che Rosario, oltre ad aver dato i natali al Che, è la cuna
de la bandera argentina. Una specie di piazza d'armi circonda il museo delle bandiere, e
lì vicino il monumento ai caduti delle Falkland/Malvinas mi scuote: sono morti 600
argentini in quella stupidissima guerra, stupida da entrambe le parti, e di questo
conveniamo anche con Rafa e Juli, consci della situazione di allora in Argentina. La zona
è vicina al fiume, ed è dove si organizzano le feste studentesche e le ferias. A ridosso
della zona moderna.
Ceniamo in un fast-food, poi andiamo all'appartamento di Juli, che usa perché studia a
Rosario. E' piccolissimo, e fa un caldo bestiale, quindi le sistemazioni per la notte: io con
un materasso in terra davanti alla cucina, con due ventilatori accesi e le finestre
completamente spalancate, Juli due piani sopra nell'appartamento di una compagna di
studi che al momento non c'è, Rafa deve andare al terminal e poi andrà a dormire
dall'altra sorella.
Domani ci aspetta un primo (per me ennesimo) spostamento in aereo. Inizio a lavare i
primi panni sporchi, con questo caldo sicuro che asciugheranno per domani.
Non mi sento né Chatwin, né Guevara, ma mi sento bene.
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10/1/2006 Un salto in Cile
Si fa colazione al bar proprio sotto il palazzo dell’appartamento di Juli. Mi spiega che è
un po’ come il salotto grande degli studenti che abitano gli appartamentini sovrastanti,
il padrone è loro amico, i frequentatori abituali, gli anziani soprattutto, sono diventati
compagni abitudinari di colazione. Un salto all’internet point lì vicino, in farmacia e
all’edicola, poi raccogliamo i bagagli, prendiamo un coletivo e andiamo dalla sorella, dal
cognato, dalle gemelle. Mangiamo lì, dopodichè Pedro ci porta all’aeroporto di Rosario,
scherzando sul fatto che è piccolissimo ma internazionale; ci salutiamo. Check-in,
attesa, dogana, partenza, volo LAN (ex LanChile, adesso consorzio di diverse compagnie
aeree sudamericane). Scalo a Cordoba (Argentina), arrivo a Santiago del Cile nel
pomeriggio inoltrato. Stesso aeroporto di 12 anni fa, l’ultimo viaggio transoceanico
prima di questo. All’epoca mi sembrava immenso, adesso mi sembra normale. Abbiamo
il trasferimento per l’albergo compreso (la sosta a Santiago non è stata voluta, l’hanno
venduta a Juli quando ha comprato i biglietti per Bogotá, andata e ritorno con questo
stop over, pernottamento incluso senza sovrapprezzo. Dico questo perché
“trasferimento” e “albergo” sono parole che non appartengono al vocabolario di questo
viaggio), ma ci perdiamo la chiamata, quindi cerchiamo un’addetta che, gentilmente, ci
recupera un mini-van e un autista che ci porta al Radisson (quello nuovo, fuori città,
scopriremo poi; ce n’è uno più vecchio quasi in centro). Vedendo i cartelloni giganti dei
candidati alle elezioni (ormai anche le campagne elettorali sono globalizzate),
chiediamo un parere all’autista, mentre percorriamo l’autostrada, e la risposta è
sbalorditivamente candida: il candidato di centro-destra non gli piace, è una specie di
Berlusconi, un ricco possidente di qualsiasi tipo di compagnia, ma non gli piace
nemmeno votare la candidata di centro-sinistra, perché è solo un paravento per far
continuare a governare Lagos, che, nonostante abbia fatto bene, non può essere
rieletto; se voto qualcuno voglio che sia lui o lei, di sua volontà, a governare. Non fa una
grinza.
Il Radisson è un cinque stelle, e Juli appena in camera mi dice qualcosa come “guarda
bene questa stanza e questo albergo perché non ne vedrai più di simili fino alla fine del
viaggio”. Ne approfittiamo poco, però, perché la sveglia sarà all'alba, il mini-van che ci
riporta all’aeroporto passerà a prenderci alle 6,15.
Chiamiamo il mio amico Valery, livornese di scoglio che lavora a Santiago da anni,
addirittura ci si è sposato; passa a prenderci per andare a cena. Non è puntualissimo, e
arriva contromano, ma quando arriva è una festa. Non clamorosa, ma ugualmente
gioiosa. E’ strano due volte: sono qui in viaggio con una ragazza conosciuta via e-mail e,
a non so quanti mila chilometri da casa, usciamo con un amico conosciuto su un sito di
tifosi del Livorno poco più di un anno fa. Le nuove frontiere della tecnologia, almeno in
questo campo, ci hanno reso la vita migliore, ci danno più opportunità. Se ci si pensa, è
sbalorditivo. E la serata è scoppiettante, Valery, dopo averci fatto fare un veloce city
tour senza scendere dalla macchina, la butta da subito in politica, ci spiega la realtà
cilena e poi si allarga alla situazione sudamericana, e noi gli stiamo dietro volentieri.
Juli, che non lo conosceva, si diverte molto e apprezza. Io, che già lo trovavo
irresistibile, mi diverto a sentirlo parlare in castigliano con un inconfondibile accento
livornese. Mangiamo in una specie di ristorante italiano, e non ci possiamo lamentare,
anche perché paga tutto Vale. E’ una serata irreale, o meglio, se qualcuno mi
raccontasse che, di passaggio in Cile, si è incontrato con un amico di Livorno che lavora
lì mi sembrerebbe irreale; invece l’abbiamo vissuta veramente.
Vale ci riaccompagna al Radisson e si congeda con raccomandazioni paterne. A presto
Cileno. E’ stato bello.
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11/1/2006 Peligro
Alcune considerazioni di carattere campanilistico, così, tanto per. Argentini e Cileni non
vanno d’accordo. In Argentina, gli abitanti di Buenos Aires città (non periferia), i
cosiddetti porteños, stanno sui coglioni a tutti gli altri, perché se la tirano. Ma ne
scopriremo altre, viaggiando.
Ci svegliano di soprassalto alle 5,45 dicendoci che il mini-bus è già giù che aspetta. C’è
qualcosa che non quadra. Ci vestiamo in tutta fretta, ci richiamano e ci dicono che è un
falso allarme, l’autista si è sbagliato, ripassa più tardi. Che dire, vaffanculo.
Prendiamo tutto e scendiamo, nella hall ci sono un ragazzo e due ragazze. Facciamo una
rapida colazione. Il bus arriva più tardi delle 6,15. Vaffanculo di nuovo.
I tre salgono con noi, sono argentini, viaggiano anche loro per Bogotá, sono anche loro
mochileros o backpackers, in inglese. Parentesi. Primo, non esiste una parola
equivalente in italiano, per descrivere chi viaggia con uno zaino e dorme negli ostelli.
Perché? Secondo, non è un’illuminazione improvvisa che mi fa capire che sono un
mochilero, lo capirò più avanti. Sia chiaro che sono alle primissime armi.
Si chiamano Ramiro, Gabriela e Gabriela, sono musicisti d’orchestra. Simpatici, di
Cordoba. Aeroporto, formalità, code, la mia cintura continua a far suonare i metal
detector e me la fanno togliere tutte le volte, mi cadono i pantaloni. Si vola per Quito,
senza scendere, poi per Lima. A Lima cambiamo, c’è un ritardo, socializziamo con i tre.
Juliana ha una capacità di socializzazione incredibilmente superiore alla mia, e l’aiuta
anche il fatto di essere di lingua castigliana. Oddio, il castigliano parlato in Argentina è
molto particolare. E sarà motivo di discussione. Ripartiamo per Bogotá, il volo non è del
tutto tranquillo, ma si fa. Juli non ha precisato che sono vegetariano, così con i pasti mi
devo arrangiare scansando qualcosa. Sul volo per Bogotá ci siede accanto un ragazzo
Colombiano, si chiama David, è di Cali, era in vacanza in Argentina con la famiglia, che
è sparpagliata per l’aereo. Ci lascia la mail e il telefono, ci vedremo quando passeremo
da Cali. Ci da delle dritte, come tutti quelli che conosciamo, cerchiamo di tenerne di
conto come sempre. L’arrivo a Bogotá è caotico, arriviamo insieme ad un volo Iberia
dalla Spagna, la fila alla dogana è allucinante e snervante, i fogli di immigrazione sono
da ricompilare, perdiamo i tre cordobegni, fuori è già buio ma sono appena le 18,
cerchiamo una sistemazione tra quelle che si è appuntata Juli. La troviamo, gli altri tre
ne hanno un’altra, ci ritroveremo l’indomani. Usciamo e cerchiamo un taxi senza farci
fregare. Saliamo. Il taxista si fa via via sempre più invadente, sono stanco e non so dove
sono. Ci dice che l’hotel (di basso profilo) che abbiamo scelto è brutto, è in un quartiere
pericoloso, non va bene, ce ne consiglia un altro. Facciamo resistenza. Si ferma davanti
ad un altro hotel. Juli si arrabbia, scende e gli dice che se ci fanno dormire a meno di
quanto ci hanno detto nell’altro va bene, io non so cosa fare. Ripartiamo, il taxista
insiste con le sue pessime considerazioni, e ci lascia lontano dall’hotel. Ci indica però la
strada. E’ buio, pioviggina, scendiamo e un ubriaco ci dice qualcosa, ci segue, ci chiede
soldi. Sono assolutamente disturbato, quasi impaurito. Camminiamo veloci fino all’hotel,
che si chiama Saragoza. Sono cento metri e l’ubriaco ci è sempre alle costole. Entriamo
nell’hotel, una signora materna ci accoglie con suo figlio, simpaticissimo, chiudono la
porta inferriata con l’ubriaco fuori. Ci mostrano la camera. Tv e radio ingabbiate e
chiuse con lucchetto, letti brutti, bagno accanto ad uno dei letti, lo divide dalla stanza
una tenda. Sono triste e impaurito, mi sembra tutto nero e pericoloso. Juli se ne
accorge, e cerca di scuotermi prima con le buone, poi con le cattive. Rimango muto per
15-20 minuti, raccolto in me stesso. Penso di andarmene. Juli esce a cercare un internet
point per scrivere a casa. Io mi chiudo in un mutismo che pare senza uscita, e da solo è
peggio. Juli rientra e, soavemente, mi fa uscire, mi fa fare 5 metri per mangiare
qualcosa. Sono un po’ meno teso, forse la faccia della cameriera, non bella ma gioviale,
però resto sempre come sospeso in un limbo tremolante ed insicuro. Il cibo non mi va
giù. Rientriamo, la signora e il figlio cercano di tranquillizzarmi, ma ormai il mio mood è
compromesso. Juli non sembra scioccata più di tanto. Mi sento un bambino di 5 anni nei
confronti di una mamma di 50. E invece io ho quasi 40 anni e lei poco più di 20. C’è di
che riflettere. Dormiamoci sopra, e vediamo.
Holiday in Colombia 8
12/1/2006 E’ tutta una questione di attitudine
E’ una bella giornata di sole, fa caldo, la gente passeggia in strada, siamo vicinissimi al
centro, la avenida sulla quale si affaccia l’hotel è pedonale, in ristrutturazione, ed è
perfino bella; il sorriso di Juli, quello della signora dell’albergo, la faccia furba e
simpatica del figlio, mi fanno capire che è tutto ok. Arrivo a pensare che senz’altro
l’ubriaco di ieri sera era totalmente inoffensivo, e che devo cambiare il mio modo di
percepire le cose, se voglio godere di questo viaggio.
Ci muoviamo nella mattinata, poche centinaia di metri, entrando nel barrio storico de la
Candelaria, e andiamo all’ostello Platypus, famosissimo tra i mochileros, dove
alloggiano i tre cordobegni, così li incontriamo e domandiamo se c’è posto lì, il Saragoza
non piace molto nemmeno a Juli e non è poi così economico. La cosa stupefacente è che
quando chiediamo indicazioni alla signora del Saragoza, lei capisce perfettamente che
cerchiamo il Platypus per andarcene da lì, lo dice espressamente, ma non fa una piega,
anzi, ci dice esattamente come arrivarci. Al Platypus però non c’è posto, e i tre sono in
una specie di dependance. Li andiamo a trovare, ritorniamo con loro dall’altra parte per
fare colazione insieme. Mentre beviamo caffé e parliamo ricevendo dritte sui altri luoghi
da vedere, e facendo una lista di cose da visitare a Bogotá, conosciamo Andrea, una
argentina che sembra una nord europea, che è al tavolo accanto insieme ad un ragazzo
argentino che sembra Raf. Anche lei, accanita viaggiatrice, ci dà delle dritte sul
proseguimento del nostro viaggio. Ci segnalano un hotel vicinissimo che è anche
economico, l’Aragon; andiamo a domandare se c’è posto, poi ci ritroveremo con Ramiro
e le due Gabriela(s) per andare al museo dell’oro. L’Aragon è lì vicino, c’è posto, una
doppia costa poco, meno del Saragoza, è migliore (la vediamo). Ci sono due bagni ad
ogni piano, quindi non in camera, ma preferiamo di gran lunga questo. Fissiamo la
camera e diamo una caparra. Abbiamo tempo fino alle 14 per portare via i nostri bagagli
dal Saragoza e sistemarci qui; tra l’altro, è vicinissimo. Ci ritroviamo con gli altri e
andiamo al museo dell’oro, anche questo molto vicino, arriviamo in pochi minuti.
Ingresso non caro, organizzato benissimo, reperti precolombiani numerosi ed esposti in
maniera chiara e logica, si estende su due piani, al piano terra ha ristorante e shop,
inservienti gentilissimi, atmosfera rilassata. Ci rimaniamo più di due ore, ne vale
davvero la pena. Usciamo soddisfatti, e ci dirigiamo verso il centro chiacchierando sulle
cose da vedere. Io e Juli però dobbiamo andare a “passare” i bagagli dal Saragoza
all’Aragon, quindi ci salutiamo, eventualmente ci ritroviamo più tardi.
Effettuata l’operazione bagagli, ci inoltriamo nel centro città (non prima di aver
mangiato qualcosa, ancora nel posto dove abbiamo mangiato anche la sera precedente,
quello a 5 metri dall’hotel Saragoza, davvero a buon mercato), fortunatamente
vicinissimo, prima la bella Plaza de Bolívar, poi i vari palazzi governativi (dal di fuori,
s’intende), prendiamo nota del posizionamento di altri musei che paiono interessanti,
poi decidiamo di sfruttare la giornata fino in fondo e ci avviamo verso la teleferica che
porta al santuario de Monserrate, sul monte che sovrasta la città. Camminata semiimpegnativa, in salita, ci si mette pure il tempo a dar fastidio, sembra che minacci
pioggia. Proseguiamo imperterriti, prendiamo la teleferica, ci godiamo la salita, e
quando arriviamo in cima non solo inizia a piovere davvero, ma una discreta nebbia ci
impedisce la vista verso la distesa della città. Peccato.
Torniamo giù, pioviggina, passiamo da un’agenzia turistica per informarci sulle possibili
escursioni nei dintorni, poi io rientro all’hotel mentre Juli torna verso il centro. Per
essere il primo giorno mi sembra di aver camminato abbastanza. Mi rilasso e mi concedo
una doccia tonificante e una siesta rigenerante. Rientrata Juli discutiamo sugli itinerari
da seguire nei giorni a venire, usciamo per mangiare qualcosa, giriamo un po’, andiamo
a berci qualche birra in un piccolo e intimo locale proprio dietro l'angolo, consigliatoci
da Leonardo, ci piace, poi rientriamo all’Aragon. Nella sala tv socializziamo con
Leonardo, portiere di notte (ma anche di giorno a dire la verità), un personaggio dal
basso profilo ma ugualmente simpatico, che mi rimarrà nel cuore, e Peter, uno svizzero
di Berna che sta viaggiando da diversi mesi, che ci racconta che è a Bogotá da un po’
perché ha una storia con una di lì. Rimango basito quando mi dice l’età (di lui): 19 anni.
Più tardi rientra, e si ferma con noi, Tim, un canadese anche lui in giro da un bel po’. Ci
divertiamo con i Simpson in castigliano, poi ci diamo la buonanotte. E’ stato un giorno
migliore di quello precedente, ma mi sono reso conto che non era stato poi così male.
L’attitudine sta cambiando, lentamente, ma sta cambiando. Del resto, siamo in ballo,
balliamo.
Holiday in Colombia 9
13/1/2006 E pensare che Botero abita a Pontremoli
Sveglia quasi con il sole (diventerà una consuetudine qui in Colombia, le tende non
usano, e se ci sono non trattengono la luce), colazione, poi andiamo in centro a
prendere un coletivo per il terminal dei bus (uno qualsiasi, da notare che ce ne sono due
a Bogotá, ma anche, scopriremo, nelle altre grandi città colombiane), e da lì cerchiamo
un altro bus per Zipaquirá, un pueblito che in teoria dista meno di un'ora da Bogotá, ma
che diventano due abbondanti. La realtà è che quasi tutti i bus si fermano ovunque per
caricare gente, e a richiesta si fermano ovunque per farla scendere. Bisogna abituarsi.
A Zipaquirá, se possibile, fa ancora più caldo che a Bogotá; prima di cominciare a
cercare di capire come possiamo fare per arrivare a questa famigerata cattedrale di
sale, cerchiamo di mangiare qualcosa. Comincio a rendermi conto che anche qui, per
me, vegetariano, sarà un problema. Non riesco a convincere le signore del posto dove ci
fermiamo a farmi un pezzo di pizza senza prosciutto. Mi devo arrangiare con papas
fritas. Prendiamo un taxi e andiamo alla cattedrale, non capendo ancora bene che cosa
sia, ma ci hanno consigliato di andare. Si sale un po', e si arriva all'entrata: cara, più di 5
euro, ma sono compresi la visita guidata alla cattedrale, il museo della salina e il museo
precolombiano. Occasione ghiotta.
Comincia la visita guidata, e cominciamo a capire: stiamo entrando in una montagna
fatta di sale, dove da anni si estrae sale; la parte più vecchia e ormai inutilizzabile per
l'estrazione, con un'abilissima mossa di marketing, è stata utilizzata per ricavarci una
chiesa e una specie di Via Crucis con tanto di stazioni ed enormi croci, utilizzando i
tunnel già esistenti per l'estrazione. In effetti, ci si diverte quasi di più a sentire il
ragazzo che ci guida, che si dà da fare, che a vedere il tutto, anche se è senz'altro un
lavoro grosso. Che cosa ti fa fare la fede…oppure, appunto, il marketing?
Nel gruppo della visita c'è anche qualche ragazza carina, così almeno si guarda altro,
inoltre c'è un italiano; lo scopro quando correggo la guida che dice che il marmo di una
scultura è di Massa-Carrara. Gli faccio notare che Carrara è una cosa, Massa un'altra,
anche se fanno provincia insieme, e che se a uno di Carrara gli dai del massese, e
viceversa, quello s'arrabbia. L'italiano apprezza e dice "si sente che è toscano" alla
moglie. Segue l'altra visita guidata al niente, dove però ci spiegano come si è evoluta
l'estrazione del sale, almeno qui in questa salina. Il museo precolombiano è distante, ma
c'è la discesa. Ci arriviamo dopo un po', e siamo particolarmente allegri, comincia ad
esserci un po' di coesione vera tra me e Juli; dopo aver visto il museo dell'oro a Bogotá
questo è un po' deludente, anche se si rafforza l'idea che le tribù indios fossero davvero
tantissime, e che quindi i conquistadores ne abbiano sterminate a centinaia.
Attraversiamo Zipaquirá, coloniale quanto basta, e torniamo al terminal per prendere il
bus e tornare a Bogotá.
Il verde ti sovrasta, e pensare che siamo lontani dalla selva. Il bus ci scarica all’altro
terminal, il più lontano dal centro, ma noi (Juli) non desistiamo, prendiamo un coletivo
e andiamo all’altro terminal, così facciamo i biglietti per l’indomani: viaggeremo per
Santa Marta, verso nord. Per la prima volta vedo Juli “trattare”: riesce a pagare 70mila
pesos cadauno dei passaggi che le avevano proposto a 100. Maradona della trattativa.
Altro coletivo, torniamo in centro, dritti al museo Botero: molto bello e ben tenuto.
Botero è un artista divertente, ha, come tutti sanno, uno stile personale e
riconoscibilissimo, ma soprattutto ha un’ironia devastante, tutte le sue opere sono
pervase di latinoamerica ed ironia. Me encanta. C’è anche una parte dedicata a vecchi
macchinari, un’altra ancora dedicata ad altri artisti, contemporanei e non; il museo
però sta per chiudere, e io ho i piedi in fiamme. Torniamo verso l’hotel e facciamo un
po’ di spesa in un piccolo supermercato; in fila incontriamo il figlio della signora
dell’hotel Saragoza. Un’altra faccia che rimarrà a vita nella mia memoria.
Ceniamo nella cucina dell’Aragon, mi arrangio con delle pennette a rischio scottura e
della crema di latte; il risultato è apprezzabile. Ci fa visita anche don Manuel (nella
foto), el dueño dell’Aragon, personaggio discreto ma sempre pronto ad elargire consigli
ai viaggiatori. Sono deciso ad andare a letto presto, ma l’irruzione di Peter, lo svizzero,
cambia i piani. Mi convincono ad uscire. E così sia.
Prima proviamo ad entrare in un locale che ci ha consigliato Leonardo, ma costa caro,
ripieghiamo su un bar angusto proprio lì di fronte, ma molto più economico, beviamo
qualche birra, c’è un sacco di gente; con noi c’è anche Mohammed, un francese di
chiare origini algerine, simpatico ma logorroico. Il problema è anche un altro, ripete
sempre gli stessi concetti, si esprime male in castigliano, lingua di scambio in questo
caso. Juli e Peter sono iperattivi, e quindi cerchiamo un locale da ballo. Nessuno di noi
balla escluso Juliana, che trova finalmente un cavaliere locale che la fa sfogare. Nel
momento in cui “il cerchio si stringe” mi usa come paravento e dice che sono il suo
novio. I locali chiudono alle 3, e Juli si inquieta, in Argentina, come già saprete, alle 6 si
va in cerca di discoteche. Fosse per me alle 23 sarei a letto da mezz’ora. Anche per oggi
abbiamo dato, domani ci aspetta un’altra giornata piena più un viaggio che si prospetta
di almeno 12 ore. Entonces, buenas noches y hasta mañana.
Holiday in Colombia 10
14/1/2006 Panico mattutino
Ancora una bella giornata, ancora una sveglia presto, nonostante la sera precedente si
fosse fatto tardi. Juli rimane a letto, io sono di buon umore e vado a comprare qualcosa
per la colazione. I cornetti, in Colombia, sono al formaggio. Non è il massimo, per
mangiarli col caffé. Facciamo colazione nella sala tv, e mettiamo a punto il piano per
oggi. Abbiamo la partenza del bus per Santa Marta alle 20, quindi tutta la giornata a
disposizione. Ad un certo punto, mi viene la voglia di curiosare sui biglietti, e mi
accorgo, dato che li avevo io, e li avevo in tasca poco prima di andare al super a
comprare la colazione, che non li ho più. Mi assale il panico, non tanto per il costo dei
biglietti, quanto per la figura da scemo.
Ripercorro le mie tracce, chiedo al supermercato perfino alla donna delle pulizie; sono
quasi sicuro che mi siano caduti dalla tasca quando ho estratto il cellulare tra le casse e
la postazione dove ho domandato se avessero un caricatore adatto (dimenticavo, in
Colombia non solo la corrente è a 120 invece che 220, ma ci sono anche le prese
completamente differenti, quindi devo comprarmi un caricabatteria nuovo), ma non si
trova niente. Per la strada non vedo niente. Sono affranto.
Torno all'Aragon, e insieme a Juli, Leonardo e Peter, partecipi della piccola tragedia,
elaboriamo una strategia alternativa. Ci viene in soccorso don Manuel. Telefona alla
compagnia con la quale abbiamo fatto i biglietti, domanda, poi attacca e ci spiega.
Dovete andare al terminal, rispiegate tutto e vi fanno una copia dei biglietti
presentando i vostri documenti. In effetti, sono nominativi, non vedo il problema.
L'unico problema sembra lo sbattimento di andare al terminal. Sto un po' meglio.
Andiamo in centro, dove prendiamo un bus urbano per il terminal, arriviamo al terminal
ed inizia la burocrazia. Dallo sportello ci mandano alla polizia del terminal a fare una
denuncia (don Manuel ci ha consigliato di dire che ce li hanno rubati, non che li abbiamo
persi; mi sento una merda quando firmo la dichiarazione). I poliziotti sono gentili e ce la
caviamo in poco tempo. Torniamo allo sportello, ci mandano al piano superiore alla
direzione. Alla direzione esigono una fotocopia del documento. Scendiamo e, pagando,
facciamo una fotocopia dei nostri documenti. Risaliamo e ci ridanno i biglietti. Adesso
sono davvero contento. Mi sento leggero, addirittura. Sorrido, ricomincio a scherzare, è
passata. Torniamo in centro con un altro bus urbano, cerchiamo di mangiare qualcosa di
economico, e alla fine torniamo nel posto a 5 metri dal Saragoza.
Torniamo all'Aragon, prendiamo i bagagli. Salutiamo ringraziandolo don Manuel,
Leonardo e Peter. Andiamo verso il centro e prendiamo un taxi, i coletivos sono stretti e
noi adesso abbiamo zaini e borse. Arriviamo al terminal e depositiamo il tutto in una
cassetta di sicurezza, ovviamente pagando. Ci informiamo sull'ubicazione del parco
Maloka, pare sia interessante. E' proprio davanti al terminal, dobbiamo solo passare due
ponti/passerella poste sopra due arterie stradali molto grandi. Andiamo. L'ingresso è un
po' caro, ma abbiamo un pomeriggio intero da passare. Il parco è futuristico, situato
quasi del tutto sotto la superficie del suolo, c'è un cinema di quelli con lo schermo
sferico, a cupola, c'è una pista di pattinaggio, c'è un muro per fare free-climbing, uno
shop di giochi che stimolano l'intelletto, ma soprattutto un percorso a più temi sulla
storia dell'umanità, Bogotá e il suo progressivo cammino verso l'eco-compatibilità, una
serie di giochini che simulano gli handicap più comuni, altri che misurano l'energia
prodotta dal corpo umano, una serie di dimostrazioni e spiegazioni sul percorso del
petrolio, sulla sua pericolosità e sulla maniera di trattarlo, un'altra sulle variazioni
climatiche, sull'influenza delle masse d'acqua sul clima, e via discorrendo. Da perdercisi.
Eliminiamo il free-climbing e la pista di pattinaggio, e ci buttiamo. I giochini ti prendono
il cervello, e se ti immagini di portarci un bambino ti rendi conto che potresti avere
problemi a venire via; ma c'è anche il lato intellettivo, apprezzo soprattutto quelli che ti
mettono per un attimo sullo stesso piano di un portatore di handicap. Scuola di
tolleranza. Davvero affascinante ed educativo, in effetti siamo tra i pochi turisti lì
dentro, è pieno di colombiani. Scelta azzeccata. Le proiezioni nel cinema sono ad orari
stabiliti, ovviamente, ma i film cambiano; sono documentari. Ne scegliamo uno ma
quando ci presentiamo l'affluenza è tale che rimaniamo fuori. Facciamo due conti e
vediamo che, se riusciamo ad entrare allo spettacolo seguente ce la facciamo.
Continuiamo aggirandoci tra le installazioni, e il tempo passa in fretta. Ci presentiamo in
anticipo per lo spettacolo al cinema, e ci godiamo (è proprio il verbo adatto) un
documentario su due dottoresse ricercatrici speleologhe; l'effetto del mega-schermo
concavo enorme è impressionante, le poltrone comode. Finito lo spettacolo è quasi
tardi; ci avviamo verso il terminal, che fortunatamente è vicino. Pensiamo di mangiare
qualcosa, il viaggio sarà lungo. Troviamo una pizzeria, che è carissima, ma c'è poco
altro. Portiamo la pizza al terminal, ci sediamo in sala d'attesa e ce la mangiamo con
gusto. All'improvviso, si materializza la figura di Peter, lo svizzero. Viene anche lui a
Santa Marta, con lo stesso bus. Festeggiamenti, gli offriamo una fetta di pizza. Mi
compro una bottiglia d'acqua e un pacchetto di sigarette, mi sembra carissimo, poi
faccio i conti e le sigarette costano un euro. Si parte piuttosto in orario, alle 20 circa.
I bus sono abbastanza comodi, ma sempre diversi da un letto, specialmente per uno
abbastanza alto e grosso come me. Ho già notato, in questi pochi giorni, che i letti
colombiani sembrano essere più corti dei nostri (non c'entro tutto, c'è poco da fare), e
con dei materassi che sono la parodia di un materasso. C'è la televisione, dove vengono
proiettati film d'azione, per lo più, molti giapponesi, alcuni americani, oppure viene
messa della musica, e quando non è reggaeton è classica musica sudamericana, buona
da ascoltare 5 minuti e poi ti viene da dare testate forti al finestrino. A differenza di
Juli, non riesco mai a dormire davvero, ma il dormiveglia è sufficiente a rendermi
incapace di intendere e di volere ad ogni fermata effettuata dal bus, incapace di
decidere se ho sete, se ho fame, incapace di scegliere qualcosa.
Questo primo viaggio lungo, in particolare, è ravvivato da due-tre ubriachi che parlano a
ruota libera e ad alta voce. Per un po' ridi, poi ti rompi i coglioni. Ci mettono un bel po'
a spegnersi. La guida degli autisti è aggressiva, nervosa.
Per la mezzanotte abbiamo già percorso un bel po' di strada. Almeno, quando ci
fermiamo per la prima sosta, e mangiamo qualcosa, io Juli e Peter, abbiamo un bel po'
di cose sulle quali ridere, in primis gli ubriachi molesti.
Holiday in Colombia 11
15/1/2006 Si, viaggiare
Il viaggio prosegue spedito, e quando fa giorno si può apprezzare anche il paesaggio. Il
verde sovrasta ogni cosa, piccoli agglomerati di case, ristorantini, bar, lungo la strada,
fiumi, torrenti, ruscelli, mucche, cavalli. Reggaeton a palla, video compresi. I video hip
hop vi sembrano maschilisti? Questi di più. L’unico che conosco è Tiego Calderon, perché
ha collaborato con i Cypress Hill. Soprassediamo. In teoria dovevamo arrivare alle 8 di
mattina, arriviamo oltre le 11. Impareremo che qui è normale. Chiamiamo un hostel,
hanno posto. Prendiamo un taxi e andiamo. E’ il Miramar, uno dei più economici che
troveremo. Si pagano 8000 pesos a notte, in dormitorio, sono qualcosa come 3 euro,
poco più. Il tipo che ci riceve ha la faccia furba, ma è simpatico. Il posto non è il
massimo, ma è pieno di gente. La camerata è da 6 letti, c’è un cesso e una doccia
dentro la camerata, tutto fatto a mattoni scoperti, non intonacati, tanto per darvi un
idea, il cesso ha una porta che parte da 30 cm. da terra e sarà alta 1,20. Tanto per darvi
un’idea. Il dueño (in realtà non so se sia il padrone) quando vede il mio passaporto mi
dice che c’è un altro italiano, e mentre me lo dice arriva. Un ragazzo giovane, faccia
simpatica, barba incolta.
Ciao di dove sei?
Provincia di Livorno
Boiadé, di dove?
Venturina
Boia, io so’ di Rosinniano!
Ma senti lì dé. Vai ci si vede dopo!
Incredibile. E’ tempo di esaurire il luogo comune in dotazione: ma quanto cazzo è
piccolo il mondo? Peter è ancora con noi, ci sistemiamo (è vero, è un altro luogo
comune. Che diavolo vuoi sistemare?). Lasciamo la borsa accanto al letto e usciamo. Il
sole ti potrebbe sciogliere, e pensare che anche qui è inverno. Il lungomare dista 50
metri, lo raggiungiamo e cerchiamo un posto per mangiare. Il primo va bene, super
economico, con un euro si mangia e si beve. Dopo mangiato, Peter non ha voglia di
girare e torna al Miramar, noi andiamo. Ci informiamo un po’, tutti ci dicono di andare
al rodadero. Andiamo. Bus urbano e via. Scopriamo che Santa Marta è divisa a metà da
un monte, il rodadero è dall’altra parte. Dopo essere scesi, camminiamo un paio di
centinaia di metri seguendo un gruppo di locali (3 ragazze e un ragazzo) che ci guidano.
Arriviamo alla spiaggia, e sembra Rimini un po’ peggio. Pieno di gente. Stipato. Andiamo
in battigia, l’acqua non è mica tanto pulita. Non è che sia il massimo. Chiediamo, ci
dicono, ma ce l’avevano già detto altri, di andare a Playa Blanca, un’isoletta lì davanti.
Giriamo per la spiaggia cercando la lancia più economica, ne troviamo una che ci pare
giusta e partiamo. Nemmeno 15 minuti di navigazione, e siamo a Playa Blanca. Un po’
meglio, ma è pieno di gente anche lì. Qualcuno ci ha detto di stare attenti agli zainetti,
quindi vedo Juli che smania per fare il bagno e mi offro per rimanere a dare
un’occhiata, prenderò il sole e basta. Non è che poi mi faccia impazzire questo posto,
ma Juli si diverte da morire. Quasi un paio d’ore, poi ci avviciniamo al posto da dove
partono le lance, ci caricano su una che non è la nostra, tanto fa lo stesso. Al rodadero
camminiamo un po’ per capire se davvero questo posto è tutto così brutto. La risposta è
si. Torniamo verso il Miramar, o almeno la parte di Santa Marta dalla quale veniamo,
altro bus urbano. Giriamo ancora un po’, c’è la spiaggia anche lì, ma siamo, se possibile
su un livello ancora più basso. L’impressione è che in Colombia si siano sforzati per far
diventare questa cittadina un luogo di vacanza, a dispetto della mediocrità del luogo.
Urge una doccia, torniamo al Miramar. Mentre aspetto in fila, ritrovo Francesco (Io: oh
mi devi scusà ma un mi ri’ordo come ti ‘iami! Lui: dé, un te lo ri’ordi no, un ce lo siamo
detti!), parliamo un po’. Lui lavora d’estate, d’inverno viaggia low cost finchè non
finisce i soldi. Ci rendiamo conto che conosco suo fratello maggiore, almeno, mi ricordo
chi è; ha la mia età, giocavamo a basket contro. Lui era il migliore della sua squadra, il
Venturina. E’ davvero piccolo il mondo.
Meno sudato, esco con Juli e Peter. Questo giovane svizzero mi fa morire dalle risate, e
per avere 19 anni non è nemmeno tanto ingenuo. Anche lui è in giro da e per mesi. Mi
viene il sospetto che sono l’unico che lavora. Mi vergogno quasi quando ne parliamo.
Cerchiamo qualcosa da mangiare, ma visti i gusti differenti mangiamo in tre posti
differenti. Loro due per strada, io in una specie di friggitoria, almeno ci sediamo.
Ovviamente il chiodo fisso di Juli è qualcosa per ballare, per il dopo cena, ma c’è poco o
niente. Ci riavviciniamo al Miramar, cercando almeno un bar con musica e cerveza
economica; ce n’è uno sull’angolo, proprio a 20 metri dal Miramar, c’è un po’ di gente
fuori, andiamo. Ci sono un paio di ragazze dietro al banco, e una che avrà 45 anni
portati male che sembra la padrona, è allegrissima e mi sembra che mi prenda
immediatamente in simpatia. Juli ironizza e prevede una notte di passione. Iniziamo i
giri di birra, la tipa ci chiede in continuazione che musica vogliamo ascoltare,
familiarizziamo con la gente ai tavoli (pochi, in realtà). Da qualche giorno c’è una
canzone che ci assilla, è diventata la nostra colonna sonora; prima di partire da Bogotà
mi sono fatto scrivere il titolo e il cantante: Así de facíl di Otto Serge. Detto fatto, un
cd di Otto Serge, gira tutto ma il pezzo non c’è. La tipa sostiene che mi hanno dato
un’indicazione sbagliata, canticchiamo la canzone e lei dice che è un altro quello che
canta.
C’è una ragazza che mi piace, seduta fuori con altra gente. Sembra un po’ Olivia di
Braccio di Ferro, ma è bella. La guardo. Lei sorride. Dopo un po’ a gesti mi fa capire che
le interessa Peter. Come le dirò testualmente dopo, soy un señor, entonces acepto la
derrota. La invito al tavolo. Attacca una pantomima esistenziale, dice che gli occhi di
Peter le ricordano sua madre, che lei è nata ad Atene, ha un nome che non si capisce,
ha tre figli, il padre è in galera e cose così. Le birre girano, come il rum. Si fa avanti
Marta, credetemi, inguardabile, è lì con i due figli e la sorella, la sorella parla fitta con
un israeliano, lei sembra interessata al sottoscritto. Si parla, si beve, Juli dice che va a
dormire, Peter e Olivia se ne vanno a ballare, io rimango lì tra le sorelle, l’israeliano, la
presunta padrona, e gli avventori che si avvicendano anche se il bar si avvia alla
chiusura. Parliamo delle solite cose, la politica, il calcio (i genitori di Valderrama
abitano qualche metro più in là), il Sud America, gli argentini pensano di essere i
migliori, si sentono europei, superiori al resto del Sud America, come vedete la
Colombia dall’Europa, mah, te la dipingono peligrosa ma mi sembra di no, Bush ha rotto
il cazzo, ora gliela fa vedere Chavez, e in Israele come si vive, beh non è che sia proprio
tranquillo però sai com’è, e via così, birra e rum. Un po’ dopo le 2 decido che è tardi, e
saluto tutti. Guarda, davvero, anche oggi non è mica stata una brutta giornata sai?
Holiday in Colombia 12
16/1/2006 Sull'amaca sotto le stelle
La prima domanda appena sveglio è per Juli: perchè sei andata a dormire ieri sera?
Risponde che ci ha visto impegnati (io e Peter) e non voleva disturbare. Le domando se
ha guardato bene quella che era interessata a me e la mando a cagare. La seconda è per
Peter, che è arrivato un'ora circa dopo di me. Com'è andata ieri notte? Risponde che gli
ha chiesto dei soldi e lui non ne ha fatto di niente. Cose che capitano.
Già dal giorno prima avevamo deciso di rimanere un solo giorno a Santa Marta, e di
andare al famoso parco Tayrona. Al Miramar, gratis, ci fanno lasciare i bagagli, li
riprenderemo quando torniamo dal parco. Ottimo. Ci informiamo su come arrivare,
Peter viene con noi. Ci facciamo un chilometro a piedi e arriviamo al punto dove partono
i bus per il Tayrona. Pochi turisti, molti locali. Nel seggiolino davanti a me, una ragazza
stupenda. Avrà 18 anni se li ha. Ha una figlia di almeno 5 anni e un bambino poco più
che neonato. Qui c'è un problema di educazione, misto a una chiesa opprimente. Fatto
sta che lei è davvero di una bellezza incredibile. Viso da india misto addolcito da
qualcosa di europeo, carnagione olivastra, capelli lunghi, lisci e neri. Anche la bambina
è molto bella. Meno di un'ora di viaggio, e scendiamo davanti all'ingresso del parco.
Mangiamo qualcosa prima di entrare, bisogna pagare un biglietto, registrarsi, poi c'è la
possibilità di prendere, per pochi soldi, una jeep che ti risparmia 40 minuti a piedi,
dopodichè bisogna camminare almeno altri 40 minuti per arrivare al mare e al primo
luogo dove campeggiare. Il parco naturale Tayrona è un pezzo di selva a picco sul mare,
comprensivo di monti piuttosto alti e spiagge di sabbia. Si chiama così perchè il popolo
che lo abitava erano, appunto, i Tayrona; furono tra quelli che opposero maggior
resistenza ai conquistadores. All'ingresso si consiglia la vaccinazione contro la febbre
gialla, io ovviamente non ce l'ho. Mentre ci registriamo, arriva Francesco e si unisce al
gruppo. Questi incontri tra mochileros saranno frequentissimi, come vedrete.
Attendiamo qualche altro avventore, in modo da riempire il cassone della jeep, poi
partiamo. Segue la camminata, non molto impegnativa, fino al mare. Siamo
praticamente in mezzo ad una specie di jungla, ci sorpassano spesso dei personaggi che
cavalcano muli, portano provviste, bombole di gas, evidentemente agli insediamenti
dentro il parco. Arriviamo al mare, località Cañaveral, dove beviamo qualcosa, la
camminata inizia ad essere pesante anche perchè è l'ora dove il sole picchia forte, e
domandiamo per il pernottamento. Ci sembra caro, e proseguiamo. Passiamo lungo la
spiaggia, è decisamente bella, anche se il mare è piuttosto mosso, e in breve arriviamo
ad Arrecifes, dove pare affittino amache, che sicuramente saranno economiche. Il posto
è decisamente bello, rigoglioso e pieno di verde, le palme arrivano fino a 20-30 metri
dal mare, e si prestano ad appenderci le amache. Anche la gente che popola,
silenziosamente, il luogo ci sembra a posto, piuttosto cool. Ci avviciniamo ad un punto
dove si suppone possa esserci chi ci dà le informazioni che cerchiamo, c'è un gruppetto
di ragazze che, scopriamo essere in partenza. Ci dicono di pazientare, perchè la fretta
non sta di casa qui, chiedono se abbiamo sigarette e offro ben 3 Malboro: le ragazze
sembrano commosse. Una rossa piccolina si interessa alla mia nazionalità, e quando dico
che sono italiano sembra quasi commuoversi. E' di Bogotá, ha studiato alla scuola
italiana, ha un viso alla Botero, chiacchieriamo un po', ma lei, insieme alle sue amiche,
se ne sta andando. Mi augura buon soggiorno. Come dirò più tardi a Juli in un eccesso di
autostima, poteva essere la donna della mia vita, certe cose le senti, le vedi negli occhi
delle persone. E' anche questo il bello del viaggio. Appena conosciuta, e già se ne va. Se
non soffri, che senso ha?
Arriva il dueño: è brasiliano, e assomiglia a Colin Farrell. E' simpatico, le amache
costano poco, non le ha subito, ma fra un paio d'ore. Lasciamo i bagagli lì e andiamo
prima a mangiare, visto che tra Cañaveral e Arrecifes c'è una specie di ristorante, poi a
farci un bagno. Passiamo la giornata in spiaggia, del resto il sole, come già detto, cala
presto, quando torniamo c'è ancora luce per montare le amache, le sistemiamo a
quadrato. Nessuno ha una torcia, quindi appena tramonta il sole non vediamo più
niente, e tentiamo di accendere un fuoco. Alla fine ci riusciamo. Andiamo a cercare le
docce brancolando nel buio, e succedono cose incredibili: non si capisce qual è la parte
delle donne e quella degli uomini, mi cade una maglia nella tazza, cose così. Nonostante
sia presto, andiamo a mangiare, ovviamente al solito ristorante di prima. La compagnia,
strano a dirlo, ma è così, è affiatata. Francesco è una fucina di aneddoti di viaggio,
Peter ha un ottimo senso dell'umorismo. Dopo cena c'è poco da fare, non c'è
assolutamente niente. Ci sediamo sulla spiaggia e guardiamo il mare, raccontandoci.
Scopro che con Francesco abbiamo gusti musicali comuni. Ci manca una chitarra,
potremmo suonare e cantare Ben Harper, sarebbe il massimo. Dopo quasi un paio d'ore
non ci rimane altro che avviarci verso le amache. Il cielo è impressionante, senza luci
vicine, e quando ci sdraiamo si ha la sensazione netta che sia vicinissimo. Purtroppo,
penso, se mi cade una noce di cocco nel viso, dall'alto della palma che ho sopra, che
sarà alta almeno 15 metri, la faccia mi diventa un tutt'uno con gli occhiali. Mi convinco a
dormire senza occhiali, ma non ho un comodino dove appoggiarli. In qualche maniera
faccio.
Con un colpo di reni mi dò una spinta e comincio ad ondeggiare.
Holiday in Colombia 13
17/1/2006 Rats
Qui non ci sono tende, ci si sveglia col sole e via, si sonnecchia un altro po’ e ci si
dondola. Ho dormito peggio altre volte, in verità. La colazione si fa con quel poco che ci
avanza negli zainetti, qualche wafer comprato sul bus per arrivare. Salutiamo Colin
Farrell e ci incamminiamo per Cabo, meno di un’ora di cammino, sentiero che costeggia
il mare ma è già dentro la jungla, il sole picchia abbastanza anche se è mattina.
Arriviamo senza difficoltà, il posto mi pare meno suggestivo di Arrecifes; c’è un
ristorante, un piccolo bar, una grande tettoia dove da una parte stanno i tavoli del
ristorante e il banco dove fanno le macedonie di frutta (particolare che si rivelerà
importantissimo), dall’altra stanno già pronte le amache, una accanto all’altra, molto
strette. Ormai siamo lì, rimaniamo e affittiamo un’amaca ciascuno. Andiamo in spiaggia
(si dice così, ma è a due metri), e constatiamo che l’impressione che avevamo avuto il
giorno precedente è realtà: l’onda di risacca del mare è fortissima e piuttosto lunga,
non è semplicissimo fare il bagno, bisogna stare attenti. Io Peter e Francesco troviamo il
modo di divertirci: rincorsa dalla battigia e tuffo di schiena contro l’onda in arrivo,
meglio se grande. Ci viene fame, e rifacciamo quei pochi metri che ci separano dal
ristorante. C’è da dire che dentro il parco, in generale, c’è meno gentilezza da parte di
gestori e camerieri. A parte Colin Farrell. Dopo mangiato, camminiamo lungo la costa,
ma le spiagge sono tutte simili. Ci divertiamo ancora un po’ a tuffarci dentro le onde,
camminiamo ancora un po’ ma c’è poco, a parte questa natura debordante, e non
riusciamo a fare buio, quindi torniamo a Cabo, ci mettiamo a un tavolino, beviamo
qualcosa e diamo il via libera alla chiacchiera; Juli familiarizza con una ragazza di
Buenos Aires, un’altra l’avevamo conosciuta ieri ad Arrecifes. Quando si allontana,
comincio a capire, come già detto, che i porteños non stanno molto simpatici agli altri
argentini, dai commenti di Juli. Andiamo a fare la doccia, fredda, qualcuno (io) lava un
po’ di biancheria, qualcuno riposa in amaca. Cerchiamo di tirare più tardi possibile, ma
non c’è niente altro da fare, e quindi ci sediamo e ceniamo. Dopo un buon piatto di
spaghetti, il che mi stupisce, devo sfoderare tutta la mia simpatia e 1000 pesos di
mancia per farmi fare una porzione di papas fritas, e anche chiamando mi vida la
camarera (che, per inciso, dimostra si e no 14 anni) ci vuole mezz’ora. Le papas fritas o
le mangi nel piatto unico, oppure devi pregare per fartele fare da sole. Finita la cena
rimaniamo al tavolo, beviamo cerveza, raccontiamo di noi, c’è una bella alchimia. Le
luci si spengono a poco a poco, chiude il ristorante, chiude il bar. E’ quasi l’ora di
andare in amaca. Guardo il sottotetto e intravedo un topo abbastanza grande che
scorazza sulle travi di legno, qualcuno strilla. Sarà una cosa isolata? Si spengono le luci,
tutti in amaca. Quando le voci si abbassano, ma gli occhi sono ancora aperti, si
cominciano a sentire dei rumori, degli squittii. Si aguzza la vista nel vuoto, aiutati dalla
luna, e si riesce a vedere distintamente che la trave centrale, dove sono legate anche le
amache, è una specie di “passeggiata” di topi da una decina di centimetri. Qualcuno
dorme, ma chi è sveglio e capisce non è molto contento. Non mi sento molto comodo, a
Peter non fa né caldo né freddo, Francesco è piuttosto schifato, Juli anche. La
processione aumenta di intensità, comincio a pensare che sensazione sarebbe sentirsene
cadere uno addosso e mi irrigidisco. Forse era meglio una noce di cocco da 15 metri di
altezza? Occhi sbarrati. Non so come, riesco a prendere sonno. Domattina abbiamo
deciso di andare a Pueblito, c’è da camminare in salita almeno un’ora e mezzo
all’andata e altrettanto al ritorno, poi almeno altre due ore per uscire dal Tayrona,
torniamo a Santa Marta, e vediamo che ora facciamo, poi decidiamo.
Ma durante questo sonno leggerissimo e preoccupato, all’improvviso sento Juli che strilla
e, avendo l’amaca accanto alla mia, mi dà un colpo al fianco. Il giorno dopo riuscirò a
capire che si era svegliata con la sensazione che le fosse caduto un topo nell’amaca. Mi
rompo i coglioni e mi alzo. Non posso dormire con questo stato d’animo, non lì sotto
l’autostrada dei topi. Vado in riva al mare, prendo due sedie dal ristorante e aspetto
l’alba. Tanto prima o poi arriva. Io l'aspetto qui.
Holiday in Colombia 14
18/1/2006 La vida es bella
La sveglia, dunque, non esiste. Non che gli altri, a parte Peter, siano molto riposati. Ad
ogni modo ci prepariamo e partiamo per Pueblito presto. Il cammino è davvero
complicato, in salita, lastricato da pietre, fango e difficoltà varie. Sono in grande
difficoltà rispetto agli altri, sarà l'età, sarà che non sono abituato, sarà che non ho il
fisico, fatto sta che meno male Peter si offre di portarmi lo zainetto e ogni tanto si
ferma ad aspettarmi e a darmi una mano. Dopo quasi due ore siamo in cima, a Pueblito.
Alcuni resti di un insediamento Tayrona, molto verde, e una capanna abitata, pare solo
da bambini. Di fianco alla capanna una specie di microscopico bar che vende beveraggi,
la ragazzina (così sostiene Juli, ma sinceramente non ero stato in grado di assegnare un
sesso) india che si muove lì vicino però non parla. Un silenzio assordante, quando manca
la comunicazione. Comincia la discesa, ed è dura quasi quanto la salita, essendo ripida
le mie caviglie soffrono le pene dell'inferno. Arriviamo di nuovo a Cabo, salutiamo
Francesco che rimane, e senza mangiare continuiamo a camminare verso Arrecifes,
Cañaveral e l'uscita dal parco. Ci vuole quasi un'altra ora, e il sole è quasi allo zenith.
Sosta a Cañaveral, beviamo un frullato in tre e andiamo al bagno, poi ripartiamo. Altri
45 minuti per arrivare al punto dove la jeep fa "servizio", e come all'andata appena c'è il
cassone pieno in 10 minuti siamo all'uscita. Attraversiamo la strada perchè ci ricordiamo
bene che il bar dalla parte del parco è molto più caro del ristorante di fronte, e
cerchiamo di mangiare qualcosa; come sempre io ho qualche problema. Si avvicinano
due poliziotti, hanno voglia di far conversazione. Uno di loro porta Juli a un ristorante lì
vicino dove fanno un ottimo Tamales, ma è una roba piena di carne, quindi passo. Sono
due ragazzi, giovani, giovanissimi, ci chiedono le impressioni sulla Colombia (una cosa
che faranno quasi tutte le persone con le quali parleremo), ci dicono come vedono i
nostri paesi, cose così. Li salutiamo e prendiamo il primo autobus che passa, dice che ci
lascia al terminal di Santa Marta. Tra parentesi, stiamo cominciando a prendere in
considerazione la possibilità di non scendere fino al Perù attraversando l'Ecuador, come
avevamo progettato inizialmente. Ci sembra che in Colombia ci siano parecchie cose da
vedere, troppe città dove arrivare, e distanze piuttosto lunghe. Dobbiamo solo verificare
che il volo di ritorno lo possiamo prendere da Bogotá, come mi pare ci sia scritto sul
biglietto. Se così è, scenderemo fino a sud, e poi torneremo l'ultimo giorno a Bogotá.
Chiusa parentesi. Da un estremo ad un altro, ci ferma la polizia per una perquisizione,
poi si riparte. Al terminal io e Juli facciamo i biglietti per Cartagena, Peter partirà
domani con calma per Barranquilla, vuole andare al carnevale. Solita trattativa, ma il
bus parte tra mezz'ora. Vado con Peter, che rimane, al Miramar a prendere il bagaglio
mio e di Juli, in taxi, Juli rimane qui perchè ha bisogno di usare internet. Ci carica un
taxista dalla faccia magrebina, e mi pare molto simpatico, contratto il prezzo, mi
sembra giusto, andiamo, bisogna fare alla svelta. Di corsa a scendere i bagagli da quella
specie di soffitta dove li avevamo lasciati, l'addio con Peter è breve ma sentito, ci
terremo in contatto e magari ci rivedremo, Berna non è così lontana. Ivan, così si
chiama il taxista, riparte per il terminal e mi siedo davanti, preferisco, meno formale.
Ce la facciamo, tranquilo, e ci lasciamo andare a una chiacchierata che sembra tra
vecchi amici, donne, famiglia, lavoro. Mi racconta di sé, del fatto che lavora duro, che
ha una ex moglie che gli rompe sempre le scatole e che vorrebbe tornassero insieme, di
sua figlia, di sua madre, delle sue origini algerine, del suo parente in Francia che non lo
vuole aiutare ad andare a lavorare lì, poi mi guarda e mi dice pero la vida es bella, ¿no?
Mi chiede dove vivo, cosa faccio. Arriviamo in tempo, gli lascio 1000 pesos in più ma gli
devo spiegare che glieli voglio lasciare, lui all'inizio non capisce, mi chiede il numero di
telefono e mi dice che mi chiamerà. Ivan.
Partiamo per Cartagena de Indias e da stamattina sembrano passati tre giorni, invece è
sempre il 18 gennaio. Ci dovrebbero volere un paio d'ore, ce ne mettiamo quasi quattro.
Dietro di noi sul bus un bambino mulatto splendido ha voglia di giocare. La mamma avrà
15 anni. E viaggia con la mamma. Assurdo. Arriviamo che è buio, chiamiamo per una
camera, hotel Marlin, consigliato da Francesco, economico, perfetto, prendiamo un taxi
e andiamo. Durante il tragitto, solita storia del taxista (eppure Ivan era in gamba!), il
quartiere è peligroso, l'hotel no es bueno, e via così. Da una parte ci entra, dall'altra ci
esce. All'hotel Marlin, por favor. Arriviamo e l'impressione non è bellissima, ma la faccia
del ragazzo alla reception mi mette a mio agio; sembra un rapper vestito da receptionist
che ha comprato gli indumenti in un grande magazzino. Gentilissimo, ma grande e
grosso, in una rissa è meglio essere suoi amici. La doppia con bagno è decente, non
pulitissima, ma già a questo punto si è visto di peggio, e poi è super-economica. Unico
neo, sembra di essere a parete con un salsodromo, musica a palla. Juli si esalta subito.
Usciamo in cerca di cibo e per dare un'occhiata. In effetti, il quartiere non ha un
bell'aspetto, soprattutto senza la luce del sole, qualche persona che dorme sugli scalini
dei portoni, locali che sembrano pertugi (ma sono convinto che se entri ti diverti e
nessuno ti rompe il cazzo), sporco per terra, facce truci. Ci facciamo tutta la strada e
nessuno ci considera. Arriviamo a un parco, c'è una specie di festa ma pochissima gente,
tiriamo dritto perchè vediamo la torre con l'orologio, oltre quella c'è la città vecchia, la
parte più suggestiva. Ritiro dei soldi con la carta di credito in un cajero automatico e ho
difficoltà: le operazioni vanno fatte troppo velocemente, e quando devi mettere gli zeri
della cifra che vuoi ritirare vado nel pallone. Devo rifare l'operazione almeno quattro
volte, ma alla fine vinco. Entriamo nella città vecchia, c'è pochissima gente in giro, e
tutti i negozi, di qualsiasi tipo, sono chiusi. Vaghiamo alla ricerca di un boccone, alla
fine troviamo un carretto di hot-dog, e, per pietà, il tipo mi fa una specie di hamburger
solo formaggio: costa caro, ma lo fa come Dio comanda, cipolla, insalata, pomodoro,
salse, ecc.ecc. Un paio di birre, una panchina, due chiacchiere pensando ai personaggi
conosciuti, all'itinerario futuro, a qualche presa in giro reciproca. Non c'è davvero
nessuno in giro, e oggi, anche oggi, è stata una giornata pesante, abbiamo camminato
tanto e mangiato poco. Rifacciamo la strada per il Marlin, ci laviamo, guardiamo un po'
di tele (c'è anche la tele in camera!), la musica si è fermata, fa caldo, accendiamo il
ventilatore a pala, e ci auguriamo la buonanotte.
Holiday in Colombia 15
19/1/2006 City tour
Nonostante il fatto che in Colombia non esistono materassi degni di tale definizione, si
può anche dormire peggio. Partiamo rilassati e curiosi di conoscere la famosa Cartagena
de Indias, non prima di aver fatto conoscenza con la receptionist giornaliera del Marlin,
una ragazza sensuale e procace, che come tutte le colombiane non ha problemi a
mettere in mostra le sue grazie; anche lei molto simpatica, a dispetto di una espressione
di base piuttosto cazzuta. Ci infiliamo dentro la città vecchia, molto bella da vedere,
coloniale e colorata, riusciamo anche a trovare un bar dove la birra è conveniente, così
come la comida, io ne approfitto per mangiare qualcosa mentre Juli dice che non ha
fame (ma in verità sta cercando di fare economia, capirete dopo), e nel frattempo
cerchiamo qualche agenzia turistica che venda un giro della città a buon prezzo. Ne
troviamo due, il prezzo è simile, Juli cerca di contrattare ma qui è dura (stavo per
scrivere cerchiamo, ma in effetti quando c'è da chiedere un prezzo la teoria di Juli è
che, se sentono dal mio accento che sono europeo, i prezzi aumentano; io mi adeguo),
quindi ci adattiamo e ne compriamo uno. Dobbiamo andare fuori dalla città vecchia, il
tour parte da un hotel di quelli veri, quindi iniziamo a cercare la maniera per arrivarci,
ovviamente con un bus urbano.
Arriviamo sul posto con netto anticipo, c'è da aspettare un'ora buona, ci dicono che ci
possiamo accomodare nella hall. Bene, le poltrone sono comode. Juli è curiosa, trova la
piscina, ma non ho voglia di fare il bagno e poi non ho il costume, ma soprattutto si
rende conto che c'è un immenso buffet e che nessuno controlla. Io non ho la faccia per
farlo, ma, come dice lei, lei è argentina: quasi tutti di origini italiane, e da noi hanno
preso il peggio del peggio! Si fa tre giri di buffet, io invece uso solo il bagno; e le
poltrone. Torniamo alle poltrone e ci troviamo due ragazze, ci sediamo lì vicino. Sono
molto carine entrambe, scambiamo qualche battuta e scopriamo che faranno il city tour
con noi. Sono Veronica e Catalina, di Medellín, e sono qui per una breve vacanza.
Parte il tour, l'autista è un nero enorme, la guida è una signora abbastanza simpatica.
Cartagena ha della storia alle spalle, varie battaglie (è situata in un luogo strategico) e
attacchi, dalle quali si è difesa sempre strenuamente, ha una bella fortezza sulla quale,
oggi, sventola orgogliosa una enorme bandiera colombiana. A parte alcune viste verso il
mare, piazze con poco significato, un convento situato sulla maggiore altura, dal quale
si gode di una vista particolarmente suggestiva, o mercatini particolari, il grosso (e
anche la parte più interessante) della visita è quella della fortezza citata sopra.
Particolare da ricordare, dopo circa 10 minuti dalla partenza del tour, ci fermiamo per
raccogliere tre ragazzi, che immediatamente individuo come italiani, e che Juli bolla
immediatamente come impresentables. Ilarità generale quando la guida domanda a tutti
di dire di dove siamo, e io, per non essere confuso, dico la prima cosa che mi viene in
mente, ma per non tradirmi con accenti sbagliati dichiaro “Città del Vaticano”; poco
dopo, in un attimo di confidenza, spiego alla guida il perché, non mi andava di essere
bugiardo fino in fondo. Durante la visita familiarizziamo parecchio con Cata e Vero,
tanto che fissiamo per trovarci per cenare e passare la serata insieme. La visita ci
soddisfa, e troviamo anche il modo per farci lasciare vicino alla città vecchia, visto che
saremmo stati molto più vicini al Marlin. Proseguiamo percorrendo le stradine suggestive
di Cartagena, entrando dentro l’Università (bello il patio interno) e aspettando il
tramonto. Ci sarebbe altrimenti mancata la quotidiana dose di camminata. Rientriamo al
Marlin per una doccia e una birra, approfittiamo della tv per ascoltare il notiziario (l’ora
è tarda per le telenovelas), e quando arriva l’orario prestabilito ci avviamo verso la
torre dell’orologio per incontrare le ragazze. Ci troviamo quasi subito, e se possibile
sono più sorridenti e gioviali del pomeriggio. Insistono perché Juli provi il ceviche (ma
potrete trovarlo scritto anche seviche), una specie di cocktail di frutti di mare con
maionese e altre salse (mi ricordo di averlo mangiato nel ’94 in Cile, non ero ancora
vegetariano; evidentemente ha diversi viraggi in tutto il Sud America, in Cile non
c’erano tutte quelle salse), e il luogo prescelto è un chiosco per strada, dove,
chiacchierando, scopriamo che le ragazze sono sorelle. Né io, né Juli lo avevamo
pensato. Veronica è la più grande, ed è ingegnere civile, Catalina studia all’università.
Esaurita la prova-ceviche, le ragazze mi accompagnano in una pizzeria lì vicino, ma mi
ritrovo a finire la pizza a tempo di record, visto che l’aria condizionata nel locale è a
livelli di cella frigorifera, realmente insopportabile. Andiamo quindi decisamente verso il
bar dove ho mangiato a pranzo, per approfittare della birra a prezzo ragionevole, e qui
si consumano un paio d’ore che probabilmente rimarranno nella mia memoria come una
delle serate più piacevoli, se non della mia vita, sicuramente di questo viaggio. Tutte e
tre le ragazze mi tengono testa con le birre (anche se, ad onor del vero, la birra
colombiana, di qualsiasi marca, è molto leggera), e la conversazione è davvero
piacevole, tutti partecipano, addirittura sovrapponendosi, come fanno spesso le sorelle,
con una musicalità buffa nel loro castigliano. Io e Juli andremo avanti fino alla fine del
viaggio imitando il loro ¡ay nooooooo! Fantastico, soprattutto quando, casualmente, lo
dicevano insieme. Sono, si vede chiaramente, della classe medio-alta, ma non hanno per
niente la puzza sotto il naso, anche se sono di maniere educate e parlano un linguaggio
forbito. Parliamo di politica (a Vero va bene Uribe, il presidente attuale, di centrodestra, a Cata non molto), cercano di spiegarci l’intreccio della guerriglia e di altri
gruppi armati, allarghiamo il campo alla situazione internazionale, finiamo a parlare di
uomini e donne. Scopriamo che in Colombia alcune ragazze definiscono el pollo
l’eventuale ragazzo con il quale escono ma col quale non sono fidanzate. Risate e
apprendimento, politica e pettegolezzi.
Su pressione di Juli, parte la ricerca di un posto per ballare. E’ il contrappasso adeguato,
per un uomo da tavolo come me, dopo una serata così. Ma, sarà per la mia influenza
sugli astri, giriamo ben 4 discoteche, o presunte tali, e il posto più popolato conta sì e
no 10 persone, ed è una festa privata di compleanno, dove per entrare le ragazze
insistono non poco, guadagnandosi alla fine le simpatie della festeggiata. Mi muovo
come un orso, o meglio, come un tronco di legno guidato dalla corrente del fiume, e
penso che se mi vedessero i miei amici storici si farebbero delle grasse risate,
conoscendo la mia epocale avversione per il ballo. Al quarto tentativo, forse impietosite
dalle mie prestazioni come ballerino, le ragazze decidono che per stanotte può bastare.
Ci lasciamo appuntandoci indirizzi e-mail e numeri di telefono, se non dovessimo vederci
il giorno seguente, anche se tutti l’indomani andremo a Medellín, le ragazze perché le
vacanze sono finite, noi perché abbiamo deciso così. Loro partono col bus delle 17,30,
noi dobbiamo decidere. Al limite, ci risentiamo a Medellín per rivederci. Ci salutiamo e
rientriamo al Marlin, dove la faccia del mio amico alla reception mi mette ancora più di
buonumore. E’ stata una gran bella giornata. Anche questa.
Holiday in Colombia 16
http://photos1.blogger.com/blogger/3207/1974/1600/cartagenaflag.1.jpg20/1/2006 ¿Todo es
mentira en este mundo?
Nonostante le ore piccole non ci svegliamo poi così tardi, ormai è consuetudine, e poi in
fondo il tempo va sfruttato a fondo. Il Nescafé che abbiamo comprato a Bogotà è una
buona idea per la colazione, anche se i cornetti continuano, in ogni luogo, ad essere al
formaggio. Ci informiamo sugli orari dei bus per Medellín, per decidere che fare stasera.
La durata del viaggio è (così dicono) di 12 ore, quindi se prendiamo quello che prendono
Cata e Vero (17,30), arriveremmo intorno alle 6 del mattino, e, sinceramente, è un po’
troppo presto per cercare alloggio. Il bus seguente parte alle 20, e contandoci un po’ di
ritardo ci sembra quello giusto, quindi decidiamo per quello. Abbiamo la giornata a
disposizione, e decidiamo di cercare un escursione verso le isole di fronte a Cartagena,
ovviamente un qualcosa che non sia caro. La giornata è stupenda, e fa caldissimo.
Chiediamo informazioni ad una signora per strada, su dove possiamo trovare passaggi per
le isole a buon mercato, e la signora si appassiona spiegandoci che dobbiamo arrivare
fino alla sede ufficiale, che ci indica, di tutte le piccole compagnie che effettuano
questo servizio, e di non fermarci da quelli che ci intercettano per strada. Seguiamo le
sue indicazioni, arriviamo alla struttura, chiediamo, orientandoci sulla visita di Boca
Chica (le “entrate” via mare a Cartagena sono due, Boca Grande e Boca Chica); questa
volta le trattative di Juli fanno arrabbiare il nero col quale discute, e la cosa ci crea un
po’ di disagio. Nonostante tutto, compriamo il pacchetto, che comprende passaggio
andata e ritorno, almuerzo e visita guidata all’isola. Partiamo, ho imparato a riparare
meglio lo zaino dall’esperienza della lancia da Santa Marta a Playa Blanca, mi godo la
vista, costeggiamo altre isole, il mare ha un colore strano, scuro, sembra più un grande
fiume che un mare, e pensare che siamo nel Caribe. Arriviamo all’isola, e un nugolo di
gente attende al molo, bambini soprattutto. Ci prende in consegna un ragazzo che si
chiama Manuel, è la nostra guida, ci mostra la fortezza, parla troppo, ma c’è un fondo di
tristezza nei suoi occhi. Un’altra cosa che fa un po’ tristezza sono i tiburones, sarebbero
gli squali, ma qui sono bambini che stanno fissi in acqua e che ti chiedono di tirare una
moneta in acqua, in modo che loro possano immergersi e recuperarla, per poi tenerla.
L’isola è povera di fascino, le spiagge sono tenute male, le “guide” che ti vengono
assegnate (come Manuel per noi), al massimo per 4 persone, sono addirittura gelose
delle persone delle quali sono “responsabili”. Non si capisce bene se davvero ci sia
questa povertà profonda, o se sia tutto un gioco per incastrare i turisti. E’ quasi
fastidiosa questa gentilezza, e unita all’ovvio ripensare all’arrabbiatura del tipo che ci
ha venduto l’escursione ci mette veramente a disagio. Inoltre, Manuel continua ad
ammorbarci con i suoi discorsi, e ci fa chiaramente capire che si aspetta una mancia a
fine gita. Qui Juli si fa scura, e, visto che la guida era compresa nel prezzo, pretende
una chiarificazione tra Manuel e la signora che pare la responsabile sull’isola, e che si
occupa del nostro pranzo nella cucina di quella specie di ristorante dove mangiamo.
Chiarimento avvenuto, Manuel rimane di cattivo umore, anche se è preoccupato del
nostro. Si offre di guidarci ancora un po’, per altre spiagge dell’isola, ma ci rendiamo
contro che non c’è davvero niente da vedere; a questo punto, gli diciamo chiaramente
che è nostra intenzione rientrare prima del tempo. Ci accompagna dunque al molo, dove
si contratta un rientro su una lancia diversa da quella sulla quale siamo arrivati, visto
che rientrerà prima. Salutiamo Manuel, e non riesco a non dargli comunque una mancia.
La partenza però, non è così immediata, aspettiamo in silenzio e ci scambiamo pareri un
po’ divertiti su questa giornata e in particolare su questa escursione. Juli usa più volte la
parola mentira, e a me viene a mente un pezzo di Manu Chao. Rientriamo, ripassiamo
davanti alla torre dell’orologio per l’ultima volta, e ci avviamo verso il Marlin per ritirare
in nostri bagagli, che abbiamo lasciato alla reception, mentre invece abbiamo lasciato la
camera. Visto che però l’orario ce lo permette, contrattiamo l’uso di un bagno, di una
eventuale camera libera, per lavarci prima di partire, visto che il viaggio si preannuncia
lungo. La ragazza sexy si accorda con Juli, e a turno usiamo il bagno di un’altra camera.
Adesso siamo freschi, anche se tra neppure 5 minuti sarò di nuovo completamente
sudato, e possiamo ripassare le informazioni su come arrivare al terminal. Altro bus
urbano, ci rechiamo lungo una strada dove passa, è lì vicino. Ne passano due, ci
facciamo vedere ma non si fermano. Un passante ci spiega che c’è in giro la polizia
stradale, e se i bus hanno i posti a sedere tutti occupati non si fermano (in altre
occasioni tirano a fare ciccia, invece). Ci spostiamo qualche metro più indietro sulla
stesa strada e finalmente se ne ferma uno. Durante il tragitto mi rendo conto quanto sia
distante il terminal (all’andata, in taxi, forse mi ero distratto). Il sole tramonta, ogni
tanto mi viene da riflettere sul fatto che qui sia inverno, come da noi; siamo sopra
all’equatore, fa caldo ma fa buio alle 18 circa. Al terminal facciamo i biglietti, un’altra
splendida prestazione di Juli, poi mangiamo qualcosa in uno dei tanti posti che
costellano i terminal; le solite trattative per rimediare qualcosa senza prosciutto, con
una signora più che simpatica, un toast al formaggio, che mando giù con una bottiglia di
Postobon. Qui è doveroso aprire una parentesi. Il Postobon è una bevanda tutta
colombiana, inoltre è lo sponsor della squadra di calcio più seguita (il Nacional di
Medellín; per strada, lungo tutta la Colombia, noterete migliaia di maglie a strisce
verticali bianche e verdi, naturalmente con la scritta Postobon. Esiste anche il top, da
donna). Bene, per la prima volta l’assaggio, e decido che sarà anche l’ultima. Sembra
una medicina, e immediatamente mi viene in testa l’accostamento con il Fernet e coca
argentino. Un tinto (caffè corto alla colombiana: una merda, anzi, unammerda), e
qualche sigaretta. Altra parentesi, già la legge sul fumo nei locali italiana si fa sentire.
Domando sempre se si può fumare, e la gente mi risponde sgranando gli occhi di si.
Ancora attesa, passata allegramente scherzando con Juli. Nonostante la mentira di Boca
Chica, siamo allegri, siamo in viaggio, stiamo per andare a Medellín, siamo vogliosi di
vedere, di macinare chilometri, di incontrare gente nuova. L’unica nota stonata è che
siamo già al 20 gennaio, e il tempo sta passando.
Viene l’ora di partire, perquisizione accurata dei bagagli e delle persone, presenti un
poliziotto e una poliziotta, giustamente. Si parte, e scopro con orrore, durante la
proiezione di un dvd, che il bruttissimo spot contro la pirateria informatica, che in Italia
vedo ogni volta che vado al cinema, è una cosa internazionale. Il copione è il solito, Juli
dorme della grossa, io sonnecchio. Prima di mezzanotte però, quasi
contemporaneamente, apriamo gli occhi e, guardando dal finestrino, vediamo una città
che, non so perché, ci sembra familiare. Fermiamo per un’informazione il ragazzo
tuttofare che di solito accompagna i due autisti sulle tratte lunghe, e domandiamo dove
siamo. A Barranquilla. Rapida ricognizione mentale sulla carta della Colombia, qualcosa
non quadra. E perché stiamo passando da qui? Ci viene spiegato che, durante le tratte
notturne, la strada che permette di fare Cartagena-Medellín in 12 ore viene chiusa, per
il discorso della guerriglia, e viene utilizzata quella da Santa Marta. In pratica,
ripercorreremo a ritroso la strada che avevamo fatto fino a Santa Marta, risalendo la
costa, e poi inizieremo ad andare verso sud, fino a Medellín. Morale della favola, un
aggravio di almeno 4 ore sulla durata del viaggio. Cioè: Vero e Cata, col bus delle 17,30,
arriveranno la mattina presto a Medellín, noi invece, partendo alle 20, arriveremo non
prima di mezzogiorno. C’è poco da fare. Ascoltare il lettore mp3, dormicchiare,
guardare la tv, guardare fuori dal finestrino, pensare. E aspettare.
Holiday in Colombia 17
21/1/2006 Medellín città aperta
Penso, anzi ripenso. Ripenso a Peter, che fino alla fine del viaggio (e anche oltre) ci
ricorderemo con amicizia e simpatia. Invidio il fatto che a 19 anni stesse in giro per il
mondo, con la sua faccia da svizzero-tedesco, da uomo-bambino, sempre pronto a
scherzare e ad aiutarti, ma che si incazzava se gli davano del gringo, e a quella volta
all’uscita del Tayrona quando mi disse “Voglio smettere di dire che sono svizzero. Sono
tutti convinti che gli svizzeri abbiano i soldi. Non sono ricco!”, a come mi spiegava che
lui non era proprio di Berna, ma di un piccolo paese lì vicino, un paesino di contadini,
con le mucche al pascolo proprio come in Colombia, dei genitori, divorziati, del
fidanzato della madre, davvero comunista, degli amici di sua madre che si erano
trasferiti in Malesia, e stavano bene, avevano comprato un pezzo di terra e davano
lavoro a parecchia gente del posto. Entusiasmo giovanile, trasporto sentimentale
(sembrava sempre innamorato, e il giorno dopo aveva il cuore spezzato, ma sempre col
sorriso sulle labbra). Parlava quasi sempre sotto voce, nonostante avesse la voce
profonda, ma rideva forte quando si divertiva (spesso), e la alzava solo quando
scherzavamo prendendoci in giro reciprocamente. Al contrario dei tre italiani che
incontrammo a Cartagena, durante il city tour, gli impresentables. Occhiali a fascia,
maglie senza maniche, catenoni e braccialetti, voce alta, non una parola di castigliano,
gli ultimi ad arrivare, sempre, chiassosi e poco interessati ai particolari. Señora, no
todos son así en Italia, se lo juro.
Il viaggio diventerebbe inquietante, se non fossimo di buon umore. Arriviamo a Medellín
che sono quasi le 16. Non voglio fare il conto delle ore che abbiamo passato in bus. Mi
rifiuto. Mi rendo conto che il mio non avere fame, finché sono in viaggio sul bus, ha
radici psicologiche; evidentemente ho sempre paura che viaggiare a stomaco pieno mi
faccia male. Da qui la mia indecisione cronica durante le soste, che mi sembrano sempre
troppo brevi, ma che in effetti durano abbastanza. Il fatto è che mi bloccano anche le
visioni degli autisti che, mettiamo, la mattina alle 8 fanno colazione con una zuppa e un
piatto pieno di carne, uova, riso, fagioli e altro. Extraño cappuccino e pezzo dolce, non
lo posso più negare. Inoltre, altro fattore determinante, i bagni dei bus sono talmente
piccoli che non ci entro. Non è uno scherzo: se provo a mettermi a sedere, non sono in
grado di far rientrare il pisello nella circonferenza della tazza. Questo vuol dire che, se
dovessi fare la pipì, dovrei farla in piedi, ma le scosse lo impediscono. Anche cacare
sarebbe complesso, per cui mi tengo ultra-leggero ed evito di aver bisogno. Fine
dell’intermezzo poco fine.
Arriviamo al terminal nord di Medellín. Qualche giorno dopo scopriremo di essere stati
piuttosto fortunati, questo è praticamente adiacente ad una stazione della metro,
Caribe, quello sud no. Il terminal è probabilmente uno dei più belli che vedremo.
Telefoniamo per fissare un posto per dormire, poi ci informiamo su come arrivare.
Normalmente queste indicazioni complesse le domanda e ascolta la risposta Juli, io
provo ad ascoltare ma non capisco niente, troppo rapide. Ci imbarchiamo nella metro.
E’ molto moderna, a doppio binario, tutta sopraelevata. Somiglierebbe a quelle
spagnole, Madrid e Barcelona, se non fosse, appunto, per il fatto che non è sotterranea.
Indoviniamo la direzione, ma evidentemente ci hanno dato un'indicazione sbagliata, o
abbiamo capito male. Infatti, prima di uscire dalla stazione dove a Juli è stato detto di
scendere, Prado, chiediamo indicazioni su come raggiungere l’hostel dove abbiamo
fissato ad un policia; dopo un giro di telefonate, e un briefing con la donna delle pulizie
(si, perché i ragazzi della polizia sono gentilissimi e disponibilissimi, ma non sanno
niente; evidentemente nessuno è di città, tantomeno di quella città. Inoltre, in ogni
stazione c’è un poliziotto e almeno una donna delle pulizie. Così, tanto per darvi
un’idea), ci indicano l’itinerario preciso. Dobbiamo risalire sulla metro, raggiungere la
stazione di cambio, o di transferencia, la stazione di San Antonio (ne approfitto per fare
il figo e spiegarvi una regola del castigliano che ho imparato in questo viaggio; i nomi dei
santi, quelli maschili, anche se cominciano per vocale, non prendono, come in italiano,
il prefisso sant e l’apostrofo, anche perché in castigliano l’apostrofo non esiste),
prendere la linea che va verso il capolinea San Javier e scendere a Suramericana. Grazie
muchísimas. Durante il tragitto, un signore ci domanda dove andiamo, Juli gli mostra
l’indirizzo, e lui ci dice che invece ci conviene scendere a Estadio (chiaramente, la
stazione vicina allo stadio), perché per arrivare a quell’indirizzo se scendiamo alla
fermata che ci hanno detto, dobbiamo salire, mentre se scendiamo dove dice lui la
strada è in discesa. Ci fidiamo, perché è una prerogativa del viaggio: confíar en la
gente. Incontriamo qualche difficoltà nel rintracciare l’indirizzo: le strade sono
numerate, come nella maggior parte delle città colombiane, si incrociano carreras e
calles, ma sono anche sottonumerate (esempio: carrera 4, 4a, 4b, 4c e così via).
Camminiamo un po’, ma alla fine rintracciamo l’hostel, il Palm Tree. Bello forse è una
parola che non si addice agli hostel, ma in questo caso è quasi appropriata. Cucina, bar,
sala tv, sala pranzo, patio, amache, internet, caffè gratis, birre e bibite a prezzi
convenienti, servizio di lavanderia non troppo costoso, almeno due ragazze che lavorano
lì davvero carine, avventori di tutto il mondo e, per la maggior parte, simpatici.
Camerate da 4 posti, due letti a castello. Per una strana combinazione, io finisco in una
camerata al primo piano, Juli a pianterreno. Ci avevano proposto un letto matrimoniale,
ma ovviamente Juli si oppone, io taccio. Su queste cose non mi faccio problemi: quando
vado a Roma dormo nel letto con Fabio, figuriamoci se mi faccio problemi a dormire con
una donna! Tornando al letto a castello, sono al piano di sopra sia dell’hostel, sia del
letto a castello. Al piano di sotto c’è un tedesco piuttosto taciturno. Usciamo, proprio
davanti c’è un iper-mercato, facciamo un po’ di spesa, io ne approfitto per mangiare
una pizza, adesso ho davvero fame. Juli non ha fame, dice, io ordino una pizza enorme,
non ce la faccio a finirla, Juli ne prende uno spicchio. Questa sarà la mia tattica in
queste occasioni. Noto che la pizza costa cara. Forse è anche giusto. Questo
supermercato è enorme, inoltre ci sono almeno 10 posti per mangiare, altri tipi di
negozi, 2 bancomat. Un’altra cosa che notiamo è che le confezioni sono tutte da
famiglia, enormi, appunto.
Rientriamo al Palm Tree, tentiamo di contattare Catalina per telefono. Le comunicazioni
sono difficili, ma riusciamo a fissare per dopo cena. Familiarizziamo con la popolazione
dell’hostel, ci sono inglesi, australiani, un tedesco che sta con una colombiana mora,
un’altra colombiana bionda che sta con un inglese taciturno, un paio di ragazzi francesi
e una ragazza francese, un tipo che sembra italiano ma non si capisce bene. Poi ci sono
due giapponesi, uno praticamente muto, l’altro che parla anche troppo. Ci laviamo,
mangiamo qualcosa, io ovviamente ho poca fame dopo la grande pizza, siamo pronti ad
uscire, l’appuntamento è per le 22, dobbiamo prendere la metro. Il giapponese parlante
ha detto che viene anche lui, ma è sparito, inoltre anche uno dei francesi, Didier,
sembrava di questa idea, e anche di lui si sono perse le tracce. Si rivede il giapponese,
ma non è pronto: ci dice se possiamo aspettare, perché ha chiamato un suo amico che
sta arrivando. Mando un sms a Cata, dicendole che faremo tardi. In pratica, facciamo
tardi. Il fantomatico amico del giap non arriva, alle 22,15 abbondanti usciamo,
prendiamo la metro, cambiamo a San Antonio e arriviamo a Poblado (sull'altro "ramo"
della metro, rispetto a quello da dove siamo arrivati oggi) quasi alle 23. Seguiamo le
indicazioni che ci ha dato, e la troviamo, nella sua twingo con l’amico Andres. Il
programma è: andiamo a casa sua, lasciamo la macchina e andiamo a piedi verso la zona
rosa, così si definisce la zona dove si trovano i locali notturni, in qualsiasi città
colombiana. Purtroppo, Veronica non è dei nostri: è uscita con il pollo. Il quartiere è
della medio-alta borghesia, scopriremo più tardi che i genitori si sono ritirati in
campagna e hanno lasciato la casa alle ragazze. La madre è antropologa. Andres è
simpatico, sembra uno degli Strokes, e parla a mitraglia, ma gli sto dietro. Andiamo in
una piazza, che, ci dicono, è l’unica dove si può bere alcol all’aperto, e partiamo con le
birre. Ci sono centinaia di persone, tutte allegre, tutte giovani. In un intreccio di saluti,
parliamo delle solite cose, ma è interessante parlarne con gente nuova. Andres mi
spiega che, ovviamente, se qui vuoi della droga, di qualsiasi tipo, non fai altro che
chiedere, e costa pochissimo. Era piuttosto chiaro, ma è giusto sentirlo dire da qualcuno
che vive qui. Ci spostiamo in un altro locale, il Berlin. Beviamo qualcosa, Cata e Andres
salutano gente, il giap insiste per la discoteca. Ci mettiamo in fila davanti a quella che
lui dice essere la migliore, e arriva la notizia della serata: io non posso entrare, ho i
pantaloni corti. Tutto il mondo è paese. Rido sotto i baffi che non ho perché secondo me
fanno carabiniere. Il giap mi suggerisce di andare all’hostel a cambiarmi i pantaloni. E’
l’unico che ci prova. Vado a rimorchio degli altri, verifichiamo altre discoteche, ma in
tutte sono inflessibili, non posso entrare. Andres si allontana con una ragazza. Torniamo
al Berlin, prendiamo un tavolo, ci raggiungono due amici di Cata: Juan David e un altro
Andres. Juan è piuttosto taciturno, Andres per niente, e diventiamo subito molto amici.
Le birre girano vorticosamente, Cata e Juli parlano fitte, così come io e Andres. Calcio,
donne, Andres mi dice che mi devo sforzare di non parlare correttamente castigliano, se
le donne sentono che sono italiano è fatta, e si esibisce in una spettacolare lezione di
castigliano con pronuncia italiana. Esce fuori che tra Cata e Andres c’era del tenero,
quindi cominciano accuse scherzose, racconti piccanti, si introduce Juan che porta altri
esempi di rapporti complicati, ridiamo da matti. Il giap sembra fuori dalla serata, pensa
solo alla discoteca, e dopo un po’ ci lascia. Se non ricordo male, Juli mi ringrazia per i
pantaloni corti, la discoteca dove voleva entrare il giap era tutta musica techno, non
l’avrebbe sopportata. Prendo le parti dell’amico Andres, intercedendo per una
riappacificazione con Cata. Chiaramente pretendo collaborazione segreta da parte di
Andres per raggiungere Veronica. Parliamo un po’ di musica e gli cito gli And You Will
Know Us By The Trail Of Dead, non li conosce, non è in grado di ricordarsi il nome, gli
prometto che se Cata mi farà avere la sua mail gli rimanderò il nome insieme ad altre
segnalazioni. Continuo a pensare che ci si diverta più così che in discoteca. Sono le 3,
sta chiudendo tutto. Torniamo verso la piazza dove si può bere fuori, e ci salutiamo. A
Juli piange un po’ il cuore, ma dobbiamo prendere un taxi. Dal finestrino del taxi, sulla
circonvallazione, vedo las putas. Tutto il mondo è paese.
Nella foto allegata, a sinistra il patio con l’amaca, a destra la camerata dove ho
dormito. Il letto è quello accanto alla finestra.
Holiday in Colombia 18
22/1/2006 Santa Fé de Antioquia, escursione multinazionale
Mi sveglio verso le 9, senza sapere assolutamente cosa ci riserva il programma della
giornata, ma non fa niente. Tra l'altro, oggi è domenica. Scendo per fare un po' di
colazione, la cucina è piena di gente che si prepara la colazione nei modi più strani e
diversi. E' una bella sensazione, a ripensarci, sul momento, quando hai ancora sonno,
non molto. Juli è già sveglia e sta chiaccherando a raffica, e pian piano metto a fuoco
che si sta definendo un possibile programma per la giornata: gita a un paesino "vicino",
che risponde al nome di Santa Fé de Antioquia. La proposta viene da alcuni personaggi
presenti al Palm Tree, citati ieri, soprattutto da Carlo, l'italiano. Onestamente, la prima
impressione che mi ha dato ieri non è stata super; sembrava uno di quegli italiani che si
parlano addosso. Invece, avrò modo di ricredermi e di farmi un'opinione completamente
opposta a quella iniziale, come spesso accade; ma di lui vi parlerò un po' alla volta, così
come un po' alla volta l'ho conosciuto io, ed ho imparato ad apprezzarlo. Per adesso, vi
basti sapere che è senza dubbio il più propositivo. Juli sembra entusiasta, io accetto
senza problemi. Il primo passo è andare al terminal dei bus, e visto che siamo in otto,
prendiamo due taxi. Il conto che fa rapidamente Carlo convince rapidamente Juli:
essendo quattro per taxi spendiamo meno che andando in metro.
A questo punto però, devo almeno presentarvi i componenti della spedizione. Di Carlo vi
ho già parlato brevemente, ma vi do ancora qualche indizio. Ha 46 anni, umbro ma di
base in Belgio, dove vive tutta la sua famiglia, parla un italiano scorretto, buffo alle mie
orecchie, oltre a francese, olandese, inglese (ottimi), castigliano (non perfetto, peggiore
del mio) e chissà che altro. Non dimostra per niente la sua età, ma non per questo lo
vedrete mai in difficoltà, è sempre sicurissimo, ma mai sbruffone e sempre, sempre
allegro. Poi c'è Myriam, francese, trentenne, della zona di Grenoble forse, mora, capelli
lunghi, bel viso, dove però si notano i trent'anni. Simpatica ma puntigliosa, a volte un po'
rompicoglioni. Sulle prime, cioè fino a quando saliamo sul bus, io e Juli siamo convinti
che lei e Carlo fanno coppia. Invece no, si sono conosciuti qui al Palm Tree. Fa lavoretti
part-time, soprattutto come hostess di convention, manifestazioni, cose così. Poi c'è
Didier, il francese biondo, che ieri sera doveva uscire con noi ma poi è sparito (era a
letto a dormire, scopro questa mattina, era stanchissimo). E' di Nizza, non timido ma
leggermente riservato, non parla tantissimo se non interpellato, pare che studi per
diventare professore, non chiedetemi di cosa. Jerome è l'altro francese, del nord, moro,
piccolino, viso da topolino. Entrambi sotto i 30 anni. Poi c'è Johann, tedesco, alto e
snello, faccia scavata, ovviamente biondo, capelli medio-lunghi, sui 40 anni, lavora nella
metalmeccanica, ha girato il mondo anche lavorando, addirittura scopro che ha lavorato
a costruire uno stabilimento della società dove lavoro, in Spagna. Sta insieme all'altra
Miriam, colombiana, un po' più giovane di lui, mulatta, non altissima ma bellissima e
molto attenta ai particolari e al modo di vestire. Lei parla poco, lui se parte non si
ferma più. A me e a Juli già ci conoscete. Si parte.
Arriviamo al terminal, e Juli si incarica di cercare il passaggio e di contrattare, dopo
pochi minuti partiamo. Si vocifera ci vogliano un'ora e mezzo, al massimo due ore, anche
se si sale e la strada è stretta. Johann e Miriam sono accanto, Jerome e Didier pure,
Carlo accanto a Juli, io accanto a Myriam. La prima mezz'ora è di conoscenza, Myriam è
un personaggio interessante, l'ora seguente è quasi esilarante. Myriam inizia a
lamentarsi della guida dell'autista, e dopo una decina di minuti che parla
ininterrottamente la invito a tacere con un gesto classico, nel repertorio di ogni uomo
che si rispetti: il famosissimo "metti la testa a posto", dove si appoggia dolcemente il
palmo della mano destra sulla nuca della donna e poi con un colpo secco si porta la
testolina della ragazza verso il proprio pube. L'ilarità si impossessa della comitiva e di
buona parte del bus. Il viaggio supera le due ore e non si vede l'ombra di Santa Fé. Pare
che ci dovesse essere da passare per un tunnel, ma che sia chiuso, quindi il giro si
allunga. Sonnecchiamo un po'. Poi facciamo amicizia con un bambino che scorazza per il
corridoio, il dialogo è divertente, soprattutto quando inizia a chiederci di dove siamo e
perchè stiamo viaggiando insieme.
Dopo quasi 4 ore arriviamo. Partiamo alla scoperta di questo pueblito. Ripida salita per
entrare in paese, pochi metri ed ecco la piazza principale ornata di bancarelle; ai lati
della piazza, ovviamente coloniale, un sacco di bar, tavoli e sedie a volontà. Beviamo
qualcosa, Carlo sparisce e torna con una ragazza: è Stella, colombiana adottata da
genitori svizzeri, è qui per ritrovare le sue radici, ma non è ancora sicura se vuole
conoscere i suoi genitori biologici. E' mora, capelli ondulati, scura di pelle ma ha le
lentiggini, particolare curioso, non è affatto male, anzi, ma la cosa più bella è che,
quando Carlo me la presenta, dicendole che sono italiano, lei che mi aveva già sentito
parlare un po' mi dice "si sente che sei toscano" e lo dice esattamente come lo avrebbe
detto il poliziotto Huber interpretato da Aldo di Aldo, Giovanni e Giacomo. Ovviamente
glielo faccio notare immediatamente, e lei scoppia in una risata che però ha un fondo
malinconico, un po' come il fondo dei suoi occhi. Dopo qualche titubanza e l'ordine
sparso nella piazza, decidiamo che senza mangiare non si sopravvive, e ci infiliamo in
una pizzeria gestita da due ragazze che probabilmente concorrono per miss cicciona
Colombia. La tavolata, visto l'ordine sparso, si allunga ogni 5 minuti, e alla fine ci siamo
tutti. Ho voglia di pizza, anche perchè sarebbe la cosa più semplice, ne prendo una a
metà con Jerome (ci sono le "taglie", 3 diverse, delle pizze attaccate ad una parete, e ci
sembra che una in due ci possa bastare). Domando cosa c'è nella pizza al queso, e mi
viene risposto che c'è solo formaggio, quindi ok. Quando la portano, c'è si il formaggio,
molto, ma anche il prosciutto crudo a quadratini. In Colombia ci va per default il crudo
sulla pizza. Poco male, lo scanso e se lo mangia Jerome. Gli altri ci danno giù di pollo,
soprattutto fritto, ma anche di bistecchine e patate fritte. Si ride e si mangia.
Quando arriva il conto, rimango di sasso: spendiamo una sciocchezza. Il pensiero di ieri,
che forse è giusto che la pizza costi molto, era sbagliato. Sento impellente il bisogno del
bagno, e i francesi mi augurano buona fortuna. Quando esco, dichiaro che è uno dei
bagni migliori che ho visto qui: ormai ho visto di tutto. Estoy acostumbrado.
Dopo aver soddisfatto l'impeto nutrizionale, e quello fisologico, scendiamo al rio.
Discesa ripida tra case improbabili, povere ma allegre, da una sento uscire le note dei
Sigur Ròs. O forse ho una allucinazione uditiva dovuta all'eccesso di musica latinoamericana. Bambini per strada, gente comune, salutiamo tutti e tutti ci risalutano.
Chiediamo indicazioni per il rio, ci guidano. Arriviamo, e c'è un sacco di gente a bagno,
ragazzi che sguazzano, famiglie intere. Molti di noi si buttano, si bagnano, giocano,
qualcuno prende il sole, che picchia forte. Mosche e zanzare la fanno da padrone, e
anche qualche vespa. Ho le gambe piene di pinzi, mi riprenderò solo al mio ritorno in
Italia. Io mi bagno solo i piedi, l'acqua è marrone e non mi fa impazzire. Jerome si fa il
bagno con i pantaloni lunghi, Carlo in mutande, mutande che, alla fine, risulteranno
piene di fango. Non si perde d'animo, e quando si riveste si mette i pantaloncini senza
niente sotto e butta le mutande nel fiume. I ragazzi del paese scendono la corrente a
cavallo di camere d'aria da camion. Lentamente, torniamo verso il "centro". Carlo vede
dentro un recinto dei peperoncini strani, vede il padrone e chiede se ne può prendere un
paio, permesso accordato. Che faccia che ha. Parla con tutti. Lo invidio un po'. Mi
ricorda mio padre quando è davvero in forma.
Ci sediamo al tavolo di un bar, qualcuno scorrazza per il paese. Beviamo birra e parliamo
fitto, io, Carlo e Johann. Il tedesco mi dice che quando tornerà in Germania, tra qualche
giorno, non sa se l'auto gli ripartirà: sono due mesi che è ferma all'aperto, e in Europa
non fa quel caldo afoso. Poi ci dice che vuole lavorare al massimo altri 10 anni, poi
insieme a Miriam vorrebbe comprare qualcosa qui in Colombia, magari sul mare. La vita
costa poco, e il clima è ottimale. Qualcuno ordina guanabana con latte: è un qualcosa di
paradisiaco. Cala il sole, beviamo qualche altra birra, gli altri vanno e vengono tra il
tavolo e il mercatino della piazza, le viuzze, le chiese. Ci muoviamo verso il punto
d'arrivo del bus, per chiedere gli orari, ma soprattutto se c'è posto. E' domenica, e
questa è una meta anche per i colombiani, una specie di "gita fuori porta" da Medellín.
Troviamo posto per miracolo, l'ultimo bus è alle 20, ci sono 5 posti, ci vendono quelli e 3
in piedi o a sedere nel corridoio, ma non sono ancora le 19. Torniamo verso la piazza,
ancora ordine sparso. Facciamo due conti, e realizziamo che arriveremo a Medellín
molto tardi, ci va già bene se quando arriveremo all'hostel ci lasceranno usare la cucina
(il limite sono le 22), il supermercato di fronte oggi chiude alle 20, quindi io e Carlo
decidiamo cosa fare per cena e facciamo un po' di spesa per tutti: spaghetti, giù al Palm
Tree c'è un po' di rattatouille avanzata da ieri sera a Myriam e Carlo, useremo quella
come salsa, un po' d'insalata per Myriam che insiste. Vado a vedere un paio di chiese con
Miriam, Juli e Jerome. Verso le 19.45 torniamo verso quella sorta di capolinea; quando
siamo lì, ci informano che il bus tiene un poco de retraso. Non quantificabile.
Bivacchiamo sugli scalini del capolinea insieme a gente locale, c'è chi sonnecchia per
terra. Sento un languorino, faccio tesoro di quello che mi aveva detto nel pomeriggio
Johann, il guanabana è ottimo quando hai un po' di fame: c'è un posto proprio lì davanti
che lo vende. Mi seguono in diversi, sto pensando di chiedere la percentuale sulla
pubblicità che gli ho fatto. Non ho il cellulare, l'ho lasciato sotto carica grazie ad un
adattatore che mi ha prestato Johann, dopo che ho scoperto che quello che ho comprato
a Bogotá funziona male. Non posso accenderlo per leggere gli sms che mi comunicano il
risultato della partita del Livorno di oggi. Sono curioso. I telefoni per strada, ce ne sono
due anche qui davanti, sono solo per telefonate nazionali. Soffrirò fino a Medellin.
Passate le 20.30, la tipa che ci ha venduto i biglietti ci comunica che il bus arriverà tra
poco, e che ci saranno tutti e otto i posti a sedere. Passa ancora un po' di tempo e il bus
arriva davvero, si parte. Siamo stanchi, quasi tutti dormono. L'autista va come una
scheggia, e mi ricordo solo ora che Montoya è colombiano. Dopo un'ora e mezzo siamo al
terminal di Medellin: Carlo mi dice che il famoso tunnel era aperto adesso, ecco perchè
abbiamo fatto presto. Come all'andata, due taxi e via verso il Palm Tree.
Sono quasi le 23, ma nessuno ci dice niente, siamo troppi. Rapida occhiata al cellulare,
il Livorno ha pareggiato in casa col Treviso, terzo pareggio consecutivo. Almeno
muoviamo la classifica. E siamo sempre quinti, che stagione! Cominciamo a cucinare, ci
laviamo a turno, io e Carlo ai fornelli, oltre al gruppo della spedizione vorrebbero
mangiare anche Holly, l'inglese, e il giap chiaccherone. Ci stanno dentro. Scopro che
Carlo è qui perchè sta cercando suo fratello, scomparso un anno fa, stava facendo tutta
l'America in bicicletta, e l'ultima lettera che ha scritto a casa l'ha spedita da Medellín.
Che storia. Dopo una mezz'ora dal nostro rientro, siamo a tavola: ci sono spaghetti alle
verdure e insalata, più un bel piattone colmo di frutta strana fornita da Jerome, e
presentata da professionista. Sembriamo una di quelle famiglie contadine numerose,
riunite attorno alla tavola imbandita. Le birre costano poco qui al Palm Tree, come vi
avevo già detto, e da quante ne vanno via sono calde, il frigo non ce la fa a contenerle,
e bisogna ricordarsi di mettercene un po', man mano che le consumiamo. Si fa tardi
allegramente, parlando di viaggi, passati e futuri, progetti e speranze. Un cazzo di G8
che ama i poveri e non vuole la guerra. Nessuna zona rossa da difendere. Nessun
pregiudizio. Nessuna frontiera.
Com'era....nostra patria è il mondo intero. Buonanotte mondo.
Holiday in Colombia 19
23/1/2006 Medellín
Sveglia quando capita, ma sempre intorno alle 9, bagno e colazione, solite cose. Oggi ci
dedichiamo interamente a Medellín, quindi rapidi e in marcia. Prendiamo la metro a
Suramericana, che nonostante quello che ci disse il signore il primo giorno qui, è molto
più vicina all'hostel. Cambiamo ovviamente a San Antonio, andiamo verso nord e a
Acevedo cambiamo e saliamo sul metrocable, con lo stesso biglietto, senza uscire. E' una
teleferica cittadina, con cabine che possono contenere fino a 6/8 persone, spartane ma
comode e pulite. Le stazioni che si incontrano portano i nomi dei barrios che scorrono
sotto di noi: Andalucia, Popular, Santo Domingo Savio. Ripensandoci adesso, per questo
santo la regola non vale? Chissà. Sono i quartieri più popolari ed evidentemente più
poveri, ma si vedono un sacco di lavori di ammodernamento in corso. Mentre arriviamo a
Santo Domingo, in cima, Juli fa una riflessione a voce alta: democracia sería elección
popular, pero la gente que vive aquí ¿qué tiene que elegir? Non è un problema solo di
Medellín, ma di tutti i poveri della terra: che cosa possono scegliere? Con quale criterio?
Chiunque passi e prometta qualcosa, gli daranno il voto. L'educazione sta alla base della
democrazia. Beh, a pensarci bene, succede così anche quando non si è poveri, che ci si
faccia abbagliare dalle promesse...ma questa è un'altra storia. Ci fermiamo senza uscire
dalla stazione, c'è poco da vedere se non lo stupendo panorama della vallata e della
distesa della città intera. La metro è pulitissima e sorvegliatissima, e per risalire nelle
cabine per la discesa ci fanno scendere una rampa di scale e montarne un'altra,
nonostante potessimo riprendere una qualsiasi delle cabine anche dalla parte dove
siamo scesi. Fa niente. Sui tetti, qualche scritta inneggiante a qualche sindaco del
passato, forse. Chissà com'è crescere qui.
Siamo di nuovo alla stazione di Acevedo, aspettiamo il treno per tornare in direzione
sud. Ben due donne delle pulizie stanno lavando una colonna portante della costruzione.
Scendiamo a Parque Berrio, praticamente in centro. Usciamo dalla stazione, che si trova
praticamente attaccata al Palacio de la Cultura, e rimaniamo colpiti da un dipinto che si
estende lungo tutta la parte inferiore della stazione; ci avvicina un poliziotto che si
offre di raccontarci alcune cenni storici del dipinto in questione (è lì per quello, non
crediate); attacca una solfa imparata a memoria, ma lo ascoltiamo volentieri. E' un
affresco del maestro Pedro Nel Gómez, e rappresenta la storia della Colombia piuttosto
orgogliosamente. Finita la cosa, gli chiediamo un'indicazione e, come al solito, non ci sa
dare immediatamente una risposta, ci chiede di aspettarlo e si infila nella vicina
stazione di polizia. Mentre lo aspettiamo divertiti, sentiamo uno scroscio d'acqua: uno
dei poliziotti di guardia sulla porta della stazione ha preso un secchio pieno d'acqua e ha
fatto fare il bagno a un ubriaco. Torna il nostro poliziotto e ci dà delle indicazioni
confuse. Ci facciamo un giro fino al Parque Bolivar, che altro non è se non una piazza
con un po' di verde, piena di gente, entriamo in una chiesa piuttosto brutta, poi
cerchiamo un'agenzia di cambio, Juli deve cambiare dei dollari. Chiediamo indicazioni
più volte, perfino in un punto di informazione turistica, ci indicano un palazzo.
Chiediamo al portiere, e ci dice di seguirlo. Percorriamo il corridoio fino all'ascensore, e
dietro l'angolo lo stesso portiere espone il tasso di cambio a Juli. Insospettita, Juli
cambia meno di quello che aveva previsto. Non ci succede niente, ma ci pare molto
strano. Continuiamo a camminare per strade e piazze piene di gente, giriamo intorno al
già citato Palacio de la Cultura e ci ritroviamo in una bella piazza chiamata Plaza de las
esculturas, piena di bronzi di Botero, sparsi qua e là. L'effetto è suggestivo, queste
sculture rotondeggianti, nel classico stile dell'artista colombiano, si combinano in
qualche modo col caldo e con i vecchietti seduti sulle panchine, con le persone che
camminano in ogni direzione. Juli è ispirata, scatta qualche foto, poi ci avvicinano 4
bambini appena usciti da scuola, 3 maschietti e una femminuccia, ci facciamo una foto
con loro, ci domandano curiosi da dove veniamo, e, ovviamente, l'Italia ispira,
soprattutto nei maschi, un aaahh di ammirazione. Realizziamo di avere fame, e ci
mangiamo un cornetto (al formaggio, of course) io, e una specie di polpetta di carne
Juli, accompagnata da un bicchiere di coca cola per una cifra ridicola, dentro un locale
che sembra un incrocio tra una bettola, un locale tipico americano e una mensa da
ospedale, senza servizio al tavolo ma con una cassiera davvero poco disponibile. Sempre
rimanendo sulla stessa piazza, ci infiliamo dentro il Museo de Antioquia, imponente già
dall'esterno. Si sviluppa su tre piani, e anche qui Botero è stato determinante. Un'ala
completamente (e giustamente, aggiungerei) dedicata a lui, forse anche migliore della
collezione vista a Bogotá, una sala dedicata al figlio morto piccolo (Pedrito), alcune sale
con opere di altri artisti da lui donate a più riprese al museo, e poi sala pre-ispanica,
sala coloniale e repubblicana, sala Manuel Uribe Angel (personaggio fondamentale nella
storia di Medellín), ritratti del secolo diciannovesimo, sala fotografia, sala artisti
nazionali (alcuni davvero interessanti), sale dedicate a Francisco Antonio Cano e ai suoi
allievi, sala sculture, sala artisti della regione di Antioquia in ordine cronologico, alcune
sale dedicate a Pedro Nel Gomez, presente anche con altri grandi affreschi nella tromba
delle scale, e un'ala dedicata all'arte contemporanea molto interessante. Una visita
soddisfacente, che mi fa venire fame sul serio. Un'occhiata allo shop del museo, e dopo
una visita al bagno (i bagni dei musei sono sempre di gran lusso, ed è bene approfittarne
quando si viaggia da mochileros) insisto per sederci ad un tavolo del ristorante del
museo, anche se, come potrete immaginare, non è così economico. Juli si chiama fuori,
e io finalmente ordino esaltatissimo delle lasagne vegetariane, che giganteggiano sul
menù, oltre ad una porzione di patate fritte, che ci stanno sempre bene. Mi sento già
molto meglio, quando la cameriera mi dice, incurante dell'espressione del mio viso che
improvvisamente cambia come cambiava a suo tempo un Big Jim due volti mediante una
leggera pressione sulla testa, che le lasagne veg sono terminate. Mi arrendo alla fame, e
confermo la porzione di patate e la coca cola, che arrivano dopo un lasso di tempo
improponibile per qualsiasi ristorante normale. Studiamo l'itinerario per quando
lasceremo la città, cioè domani, e decidiamo le mete per il resto del pomeriggio. Beh,
almeno le patate sono buone, e la coca cola mi disseta.
Ripartiamo, riprendiamo la metro a Parque de Berrio in direzione sud, e scendiamo,
dopo esserci informati, a Exposiciones, direzione Pueblito Paisa sul Cerro Nutibara. Pare
ci sia una ricostruzione di un vecchio paesino antioqueño e un mirador, un posto con una
vista sulla città molto suggestivo. La salita è di quelle che potrebbero stroncare anche
gente allenata, però è nel bel mezzo di un bel parco abbastanza ombreggiato. Ci vuole
tutta la tenacia che sto scoprendo dentro di me, in una parte che fino a pochi giorni fa
era accuratamente nascosta chissà dove. Il pueblito è carino, la vista interessante,
quando siamo in cima l'atmosfera è soddisfacente e soddisfatta, tra me e la mia
compagna di viaggio. Ci riposiamo, soprattutto perchè so bene che la discesa, per le mie
povere e disastrate caviglie, è quasi peggio della salita. Quando arriviamo nei pressi
della stazione metro dove siamo scesi, Juli propone di tornare a piedi verso l'hostel, fin
dove resisterò. Seguiamo passo passo il percorso della metro, e alle brutte la
riprendiamo, se non dovessi farcela più. La giornata è bella, la città non sembra
pericolosa, camminando si vede meglio e si passa in mezzo alla gente. Accetto di buon
grado, ormai mi sento davvero un viaggiatore pronto a grandi sacrifici. E, detta così, fa
davvero ridere. Sulle rive del Rio Medellín ci sono ornamenti, luci, enormi pupazzi di
carta su intelaiature di metallo, il Natale qui è sentito e la città si veste a festa. Juli
smania per andare a vedere i pupazzoni da vicino, io che ho visto i carri di Viareggio non
sono così entusiasta, e poi mi rendo conto, molto meglio di Juli, che attraversare queste
due strade enormi che ci dividono dalla riva del fiume sarà un'impresa da non
sottovalutare. Infatti è così: il flusso del traffico è devastante, e ci vuole coraggio, corsa
e una buona dose di fortuna per riuscire. Impieghiamo una decina di minuti abbondanti,
e quando arriviamo ai pupazzoni mi rendo conto che avevo davvero ragione, i carri di
Viareggio sono un milione di volte più belli, ma non insisto più di tanto sull'argomento,
non vorrei risultare l'europeo sbruffone. Per tornare sul cammino che ci eravamo
prefissati dobbiamo attraversare di nuovo le due arterie, e le risate per non piangere si
sprecano. Però generano allegria. Camminiamo nel mezzo a flussi di persone che si
intensificano man mano che ci avviamo verso il centro città. Sostiamo su una panchina
mangiando un grappolo d'uva comprato da Juli, riposando i miei piedi stanchi e il mio
cuerpito de mierda, che tanto sta soffrendo. Affrontiamo argomenti piccanti, stimolati
da alcuni fondoschiena femminili decisamente degni di nota, il grado di confidenza tra
compagni d'avventura si innalza andando in là col viaggio.
Riprendiamo il cammino, e pieghiamo verso ovest (verso l'hostel) un po' prima della
stazione di San Antonio, passiamo davanti alla Estación Medellín, al moderno centro
administrativo La Alpujara, attraversiamo Plaza de Cisneros, una piazza modernissima
con piccoli obelischi di cemento con luci in testa, che ricordano un po' degli alberi
spogli, per arrivare alla altrettanto moderna, e quasi futuristica biblioteca tematica
EPM, che però risulta chiusa. Peccato, sembrava interessante. Riprendiamo il percorso
della metro attraversando un quartiere, anzi due, Guayaquil e Corazón de Jesus, che
non sembrano proprio tra i migliori, ma è un'apparenza, c'è gente in giro e non succede
niente, anche se il sole sta tramontando. Arriviamo però ad un punto dove è impossibile
proseguire a piedi seguendo la metro: una avenida enorme, ma soprattutto di nuovo il
Rio Medellín, difficile da attraversare senza un ponte. E' necessaria una deviazione, e
con l'aiuto di una mappa turistica, e del mio ottimo (non sto scherzando, qui prendo in
mano la situazione, forse per la prima volta) senso dell'orientamento, decidiamo per un
giro largo che ci porta al puente avenida Colombia che ci fa entrare nel quartiere
Suramericana, che, scopriamo passandoci davanti, prende il nome dalla enorme sede di
una società assicurativa. Il quartiere è quello dell'hostel, e, passato il ponte troviamo
indicazioni per il supermercato davanti al Palm Tree. Non ci resta che seguire le
indicazioni. Pochi minuti e arriviamo. Nonostante passiamo davanti al supermercato, non
entriamo, visto che manca ancora un po' alla chiusura, e decidiamo di passare prima
all'hostel per sentire se gli altri hanno intenzione di mangiare insieme a noi, in modo da
fare la spesa cumulativa. Incontriamo Carlo, decidiamo noi per tutti e torniamo a fare la
spesa, altra pasta, e qualcosa per il giorno dopo.
Rientriamo, mi lavo e come la sera prima riproponiamo la coppia di cuochi italiani.
Grande successo, al punto che Holly, l'inglese con la maglia del Barcelona mi vuole
assumere come cuoco personale. Si aggiungono anche i due australiani surfisti, che
nonostante dei panini enormi mangiati poco prima non disdegnano la pasta, e una
spagnola non bellissima ma molto espansiva. Dopo cena, siamo in tanti al tavolo, e
scattano i giochini con le domande piccanti. Stupisco tutti con la mia fantasia sessuale,
li straccio. Nessuno pensa ad una donna con l'apparecchio per i denti come a una
fantasia sessuale orale. Sono avanti, troppo avanti.
Le birre volano, e si fa tardi. Vado a dormire, ma finché al piano di sotto c'è ancora
gente che rumoreggia non prendo sonno, i materassi continuano a non essere tali, così,
anche se sono molto provato fisicamente, le ore di sonno risultano pochine. Il tedesco
che dorme sotto di me ha i tappi per le orecchie, e dorme alla grande. Non importa.
Domani si viaggia di nuovo.
Holiday in Colombia 20
24/1/2006 On The Road Again
Mi sveglio presto, prima delle 9, nonostante non ci sia questo sole abbagliante. Mi
preparo ad un ulteriore scarpinata di mezza giornata, e mi accorgo che la curiosità di
viaggiare ancora è forte. Abbiamo deciso che la nostra nuova metà sarà un posto
chiamato Salento, e la cosa mi fa sorridere non poco. Non sono mai stato in Salento in
Italia, e sto per andare a Salento in Colombia. Faccio colazione mentre Juli si sveglia, e
nella saletta da pranzo leggo un giornale colombiano. Trovo un'unica notizia italiana:
uno sciopero. Anche questa è civiltà. C'è il proprietario dell'hostel, un argentino
sovrappeso e chiacchierone, che sta trattando con qualcuno al telefono per il tedesco
che dorme sotto di me, che vuol comprare una moto. Ecco il tedesco, mi saluta e mi
chiede come mai vado sempre a letto tardi e mi sveglio sempre presto, cioè, vado
sempre a letto dopo di lui e mi sveglio sempre prima di lui. Non sapendo cosa
rispondergli, gli dico che a casa sono abituato a svegliarmi alle 6,30. Non che non sia
vero, è che non credo che questa sia la ragione. In effetti, non la conosco neppure io, la
ragione. Quando Juli è pronta, usciamo. Andiamo verso il centro della città, passando
dalla parte opposta a quella che abbiamo percorso ieri pomeriggio per tornare all'hostel.
Il cielo è cupo e minaccia pioggia. Camminiamo e chiacchieriamo, ci scambiamo pareri
sulle persone che abbiamo conosciuto in viaggio. Passiamo davanti ad un edificio che
sembra una fabbrica, ma è molto pulito. Scopriamo che sono le aziende municipali, ma
non riusciamo a capire bene che cosa succede lì dentro. Attraversiamo quello che sulla
mappa si chiama parque de los pies descalzos, che in realtà è solo un giardinetto, e
arriviamo ad un edificio moderno che assomiglia alla biblioteca che abbiamo visto
dall'esterno ieri, e invece è il museo interattivo, sponsorizzato dalle aziende municipali.
E' in ristrutturazione e ampliamento, e l'ingresso è inibito al pubblico. Passiamo oltre, e
ci dirigiamo verso la biblioteca. Per entrare, è peggio che all'aeroporto. Dobbiamo
lasciare gli zainetti al guardaroba, passare da un metal-detector, e alla fine siamo
dentro. Partiamo dal basso, ci sono esposti dei crani di uomini preistorici, c'è un
percorso tematico sull'evoluzione umana ben fatto. Al piano superiore, la biblioteca vera
e propria. E' bellissima, la struttura è ultra-moderna a livello architettonico, si sviluppa
su più piani, ci sono computer, internet gratis, giornali, due sale conferenze e/o
audiovisivi, salette di studio singole. Unico neo, è tematica, quindi ci sono solo testi
tecnici, su chimica, fisica, matematica, roba così. Anche questa è una donazione delle
aziende municipali. Incontriamo Stella, la colombiana/svizzera, col suo sorriso triste. Mi
riprometto di chiedere a Carlo il suo indirizzo e-mail. Io e Juli siamo affascinati dalla
biblioteca, e terminiamo la visita dicendoci reciprocamente che, se ce ne fosse una così
nelle nostre rispettive città, ne andremmo orgogliosi. Cerchiamo un negozio che faccia
fotocopie, per fotocopiare le pagine che ci interessano della Lonely Planet di Carlo.
Prima di questo viaggio, avevo sentito nominare questa guida, qui scopro che è la bibbia
dei viaggiatori con lo zaino. Torniamo verso l'hostel, compriamo quel che ci manca per
mangiare qualcosa, e mentre pranziamo ci accordiamo con Carlo: viaggerà con noi verso
Salento. Dopo mangiato, saldiamo il conto dell'hostel, io, oltre ai pernottamenti, ho da
pagare una lavatrice e una ventina di birre; nonostante questo, spendo una sciocchezza.
Arriva il momento dei saluti, e mi rendo contro che un po' mi dispiace lasciare questa
piccola comunità. Ci si scambiano gli indirizzi e-mail, ci si bacia, ci si abbraccia. Ce ne
andiamo. Prendiamo un taxi, e andiamo al terminal sud, questa volta. Un po' più
piccolo, un po' più pulito di quello nord, questa è l'impressione che mi fa. Solita
consultazione degli sportelli che viaggiano per la destinazione che ci interessa, però
stavolta solo dopo aver cercato di capire come dobbiamo combinare le tratte. In effetti,
sembra che questo Salento non sia così conosciuto. Ci informano che dobbiamo
comprare un passaggio per Armenia, così si chiama la città, e da lì ci sono bus piccoli
che vanno a Salento. Non esistono diretti. A questo punto compriamo tra biglietti per
Armenia, compito di Juli, mentre io e Carlo sorridiamo ascoltandola contrattare. Ci resta
una mezz'ora prima della partenza del bus, e proviamo quindi a telefonare all'hostel che
tutti ci hanno consigliato: il Plantation House. Dapprima il numero sembra scorretto.
Domandiamo ad una signora che fa le pulizie, e ci dice che dobbiamo digitare un
prefisso. Non lo sappiamo, e la signora ci accompagna ad un punto telefonico, dove ci
danno il prefisso e ci fanno telefonare. Juli sorride, mentre ci racconta la telefonata: i
proprietari non c'erano, le ha risposto un tipo che dormiva lì, e le ha detto che ci
dovrebbe essere posto ma non era sicuro. Andiamo all'uscita dalla quale prenderemo il
bus, e aspettiamo l'orario, si parte alle 15,30. Ci dicono che il viaggio dura 4 ore.
Ovviamente, ne mettiamo in conto almeno 6. Puntualissimi, si parte, il bus è di quelli
medi, con una ventina di posti a sedere, c'è poca gente sopra. Lasciamo Medellín, e un
po' mi dispiace. La città aveva un suo fascino, e mi dispiace non aver rivisto Veronica, e
mi dispiace lasciare il Palm Tree. Mi rendo conto che il bello di questi posti non è solo
quello di costare poco, c'è anche un fattore che ti ci fa sentire a casa, anche se stai
scomodo. E' davvero difficile da spiegare. Però, con noi c'è Carlo, e più il tempo passa, e
più mi rendo contro della grandezza di questo personaggio. Se ce ne fosse ulteriore
bisogno, me ne da un'ulteriore prova durante questo viaggio. Dopo pochi minuti attacca
bottone con la ragazza che siede dietro di noi, che viaggia da sola. Alla fine del viaggio,
anzi, già a metà, le strappa il numero di telefono e una specie di appuntamento per la
domenica seguente. Che cazzo di personaggio. La strada è piena di curve, e l'autista
viaggia alla grande, essendo giorno, avvantaggiato dal formato del bus, scopro che gli
autisti dei camion che incontriamo sul cammino, fanno cenno all'autista del bus quando
sorpassare, anche se siamo in curva. In effetti avevo notato, nei tragitti percorsi prima,
un eccesso di sorpassi in curva, e mi sembravano piuttosto pericolosi. Ci fermiamo dopo
qualche ora in un piccolo centro, e mangiamo frutta, ce la scambiamo io, Juli, Carlo e
Sandra, la ragazza conosciuta sul bus. Decidiamo di comprare una bottiglia di rum, per
la sera, da bere con coca cola, che compreremo poi. Si riparte, e pian piano si fa buio,
ma non si arriva. Sandra scende in un posto che si chiama Chinchiná, noi invece
continuiamo ben oltre le 4 ore. Non riesco a dormire come al solito, e guardo il
paesaggio dal finestrino, quando non chiacchiero con Carlo, perchè Juli dorme
tranquillamente. Carlo ha una casa a Gubbio, di famiglia, ne sta costruendo una in
Belgio tutta da solo; ha lavorato in miniera, e ultimamente come barman, ma mai lavori
fissi. Lavoretto, poi viaggio. E' stato ovunque. Australia, Asia, Sud America. Non è
sposato, non ha figli. Forse. E' davvero un personaggio da monografia. Oltrepassiamo
Pereira, e mi rendo conto che è bella grande. Viaggiamo ancora. Arriviamo ad Armenia
che sono quasi le 22. Il terminal, piuttosto piccolo, è pieno di gente, qualcuno piange
per qualche partenza. Ci informiamo per Salento. A quest'ora non c'è niente, l'ultimo bus
parte alle 20. C'è da rifare il piano. Nessun problema: guardiamo la Lonely Planet,
telefoniamo agli alloggi più economici e domandiamo se c'è posto. Tutti d'accordo.
Prenotiamo una tripla all'Hotel Imperial. Prendiamo un taxi e andiamo. Si vede che
siamo in una città più piccola: il taxista non ci dice niente. L'hotel è a posto, ci
registriamo velocemente, lasciamo i bagagli in camera e scendiamo per mangiare
qualcosa. Pochi posti aperti, fortunatamente uno lì vicino. Qualche ubriaco in giro per i
marciapiedi. Contratto un piatto di quelli classici (fagioli, riso, uova, insalata) senza
carne, mentre il cameriere mi dice che mi costa lo stesso prezzo. Faccio cenno di si con
la testa mente dentro di me penso "e che problema c'è?". Alla tele, calcio, di italiano si
vede l'Inter, ci gioca Cordoba che è colombiano. Atmosfera rilassata, dopo una giornata
piena con le gambe sotto al tavolino si sta bene. Paghiamo e torniamo verso l'hotel,
Carlo si ferma a dare degli spiccioli ad un ubriaco, mi dice che non si sa mai, li vuole
guardare tutti in faccia, tante volte uno di loro fosse suo fratello. Ci ridiamo su. In giro
non c'è niente, quindi saliamo, ci beviamo una birra nella hall, mentre alla tele c'è
un'intervista a un cardinale colombiano. Qui la chiesa è presente. Non hanno idea di cosa
sia in Italia. Decidiamo di non aprire la bottiglia di rum, la riserviamo a Salento. Siamo
stanchi, ma per assurdo la più stanca sembra Juli, quindi se ne va a letto, io e Carlo ci
facciamo un'altra birra. Mentre ridiamo di niente, una ragazzina vestita poco chiede alla
receptionist se può usare il bagno. Accordato. La guardo, la guardiamo. Carlo mi chiede
se ci ho fatto un pensierino, io sorrido, lui mi dice che al massimo ci vogliono 10mila
pesos. Non fatico a crederlo. Esce dal bagno e se ne va, Carlo mi chiede se la deve
fermare, gli rispondo che è meglio se andiamo a letto. Finiamo la birra e diamo la
buonanotte. Prima di coricarmi, scosto le tende e guardo in strada. La ragazzina di
prima sta contrattando con uno dentro una macchina.
Spengo la luce. Penso al monte Ararat, al genocidio da parte dei turchi, al regista Atom
Egoyan, ai System of a Down. Sto per addormentarmi ad Armenia, del resto. Buonanotte
Aznavour, domani Salento.
Holiday in Colombia 21
25/1/2006 Una giornata indimenticabile
Ci sveglia il caldo, anche se le tende sono tirate. In strada c'è movimento, non siamo
lontani dal centro. A turno ci facciamo una doccia, e sistemiamo i bagagli pronti per
partire. L'albergo si può lasciare entro 14, ma liberiamo la camera e lasciamo in custodia
i bagagli, così usciamo. Un po' di colazione, poi telefonate, una al Plantation House per
prenotare tre posti letto, l'altra al terminal dei bus per gli orari dei passaggi per Salento:
i posti letto ci sono, i bus ci sono ogni mezz'ora fino alle 20. Ci possiamo rilassare, fare
un giro per Armenia, prendercela comoda. La città non è un granché, ma non bisogna
dimenticare che appena 7 anni fa fu colpita da un terremoto piuttosto forte. Andiamo
verso il centro, dove c'è la piazza Bolivar (è in preparazione un'esibizione di un picchetto
militare) e un centro commerciale. Nel centro commerciale, Juli finalmente trova una
cassa di cambio, che però si rivela complicatissima: la tengono dentro almeno 10 minuti
per cambiare un po' di dollari USA in pesos colombiani. Mentre aspettiamo, parlo di mio
nipote a Carlo. In effetti, è una delle cose che mi mancano davvero, e covo la paura che
non mi riconosca quando torno. Scendiamo di nuovo in strada e continuiamo il grande
giro di Armenia, rigorosamente a piedi. Osservando le donne in strada, eleggo Armenia
la capitale della tetta, Juli approva ed insieme a Carlo si fanno delle grasse risate. La
chiesa più grande ha una particolarità: in basso, sotto la costruzione, c'è un
supermercato. In Colombia si vede anche questo. Fa caldo, il sole spacca, poi
improvvisamente passa una nuvola e scarica un po' d'acqua con una pioggerella fine.
Almeno ci rinfresca un po'. Non c'è davvero niente di particolare qui, ma ci divertiamo
camminando. E' anche ovvio, in due ce la possiamo passare bene, ma in tre ci sono più
opzioni divertenti, e poi Carlo è una fucina di aneddoti, come già detto ha girato il
mondo in lungo e in largo. Rientriamo poco prima di mezzogiorno, prendiamo i bagagli e
salutiamo, prendiamo un taxi e arriviamo al terminal, parlando di calcio col taxista.
Facciamo i biglietti e saliamo sul bus, piccolino, la distanza è poca, e ci sediamo
aspettando l'autista. Chissà come sarà questo Salento. Le premesse sono contraddittorie:
la maggior parte, anche dei colombiani, non lo conosce; ma i pochi che lo conoscono ne
dicono un gran bene. Ormai manca poco. Partiamo col bus quasi vuoto, ma ormai lo
sappiamo come funziona, si riempirà strada facendo. Così è. La giornata volge al bello,
la strada è quasi panoramica, si sale, il solito verde intenso di qua e di là, il bus che si
riempie, una coppia giovane con una bambina in tenuta scolastica sono costretti a far
sedere la bambina sui gradini davanti alla porta di uscita. Poco più di un'ora, forse
neppure, e scendiamo alla penultima fermata prima del capolinea (che, scopriremo poi,
è situato nella piazza principale, e anche l'unica, di Salento), davanti alla caserma dei
bomberos (i pompieri). Non facciamo in tempo ad aprire bocca per domandare dov'è il
Plantation House che, evidentemente per come siamo vestiti, o per l'attitudine, alcuni
passanti ci indicano la strada. Sono 200, forse 300 metri, e ci siamo. Prima vorrei
descrivervi Salento, ma mi rendo conto che è difficile. La parola che mi viene in mente è
"rarefatto". Il paese è tutto fatto da case a pian terreno, al massimo a un piano, ed è
appoggiato su una serie di colli abbastanza dolci. Il tutto in un fazzoletto. Il Plantation
House è immerso nel verde, ci si arriva mediante queste poche centinaia di metri di
strada sterrata, e dall'altro lato comincia una piccola vallata, un posto ottimo,
scopriremo poi, per osservare il tramonto. La costruzione principale è fatta ad L, è tutta
in legno, i colori sono il verde e il rosa, la costeggia una balaustra; percorrendo la L a
partire dalla porticina di entrata si incontra una camera doppia, un paio di camere
singole, un paio di dormitori molto ristretti, con due letti a castello, poi un salottino con
poltrone di giunco, una vecchia radio, un mobile con giochi di società, due scaffali con
libri in castigliano e in inglese, infine la cucina, con due grandi finestre. Dietro la
cucina, un bagno. Ci accoglie Chris, una giovane signore colombiana dalla voce
squillante ma delicata, e ci propone o il dormitorio con i letti a castello, o un'altra
costruzione in legno che si trova dietro quella principale. Ce la mostra, si attraversano
appena dieci metri di giardino e vi si arriva. Completamente in legno marrone scuro,
pochi mobili, un posto letto appena si entra sulla sinistra, poi una scala che va a una
piccola mansarda (c'è un posto letto anche lì, ma lo scoprirò poi), un po' più avanti
sempre a sinistra un altro letto, poi si scendono due scalini e ci sono un'altra stanza e
altri due letti. Juli prende il più largo, Carlo l'altro. Io mi fermo al letto tra la scala e gli
scalini della loro stanza. Invece, sulla destra dell'entrata, un frigorifero staccato, e più
avanti, un bagno grande ma super spartano. Il tutto piuttosto pulito, devo dire. Ci
accampiamo, torniamo in basso, fuori dalla cucina la balaustra si allarga e diventa una
veranda, sgabelli alti che formano una specie di salotto, e le due grandi finestre della
cucina creano la sensazione che ci sia una stanza enorme, con le pareti fatte di grandi
foglie di caffé, e di un po' di cielo. Chris ci offre caffè o limonata, e scopriremo che è un
classico. Ci illustra le possibili escursioni che possiamo fare nei dintorni, sembrano tutte
impegnative ma interessanti, suggestive. Ci dà anche una mappa del paese, per
orientarci e per capire dove possiamo fare la spesa o usare internet. Prima di andare in
città, facciamo conoscenza con uno degli ospiti del Plantation: si chiama Alessandro, è
di Bergamo ma vive da un po' di anni in Inghilterra, e ha dei dreadlocks lunghissimi. Mi
racconta il perchè si trova lì, una storia allucinante: lui stava per partire per l'India, la
sua ragazza era in Ecuador, è salita su un taxi, il taxista ha fatto salire due complici che
hanno tentato di immobilizzarla, lei è riuscita a buttarsi dal taxi in corsa. Ha passato un
po' di tempo all'ospedale, le hanno rubato tutti i bagagli, ma è viva. Ovviamente lui ha
cambiato i suoi piani ed è volato in Ecuador. Quando lei si è rimessa, hanno deciso di
farsi un giro, e adesso sono qui. Pazzesco. Ci vediamo dopo, usciamo e andiamo a fare
un po' di spesa. Spaghetti, verdure, formaggio, pane, coca cola per il cuba libre
(abbiamo sempre la bottiglia di rum intonsa), arriviamo fino alla piazza principale,
diamo un'occhiata al paese, poca gente e tutta tranquilla, saliscendi tutto sommato
dolci. Torniamo al Plantation per prepararci qualcosa da mangiare, e facciamo
conoscenza con altri ospiti, c'è un ragazzo svizzero, di Berna come Peter, del quale non
capisco il nome, ha una bella faccia con un po' di barba incolta e i capelli castani corti
(Juli se lo ricorderà fino alla fine del viaggio, era davvero bello), poi Gary, statunitense,
alto e rossiccio di capelli, ci sono due israeliani, che però non viaggiano in coppia, si
sono trovati lì casualmente, lei si chiama Tamara, è bionda e piuttosto robusta, ha la
lisca, la voce grossa e una tosse devastante, che però non la convince a smettere di
fumare, lui si chiama Tamil, è snello e biondo con i capelli lunghi e mi ricorda un po' il
cantante dei Nickelback. Poi arriva il compagno di Chris, quindi il co-proprietario
dell'hostel, Tim, un inglese chiassoso, panciuto, occhialuto, riccioluto, spiritoso e
cordiale. Porta con sè una delle figlie di Chris, Sabrina di 6 anni, che subito si coalizza,
come in un rigurgito femminista, con Juli e contro tutti i maschi, ingaggiando una
battaglia a colpi di bicchieri d'acqua contro soprattutto il tipo svizzero. Insieme a Tim
c'è anche un altro inglese, che avevamo già visto all'Aragon a Bogotá. E' talmente su un
altro pianeta che glielo devo dire io che ci siamo già visti e parlati. Arriva un'altra faccia
conosciuta: Holly, l'inglese di Sheffield con la maglia del Barcelona, ma che lavora in
Bolivia, che avevamo conosciuto al Palm Tree di Medellín, e che aveva apprezzato le
nostre pastasciutte. E' festa, e lui pregusta già altre cene all'italiana. Non si fida del mio
inglese, e mi parla in un castigliano velocissimo, ovviamente con un fortissimo accento
inglese. Si fa buio, e apriamo il rum e la coca cola, si inizia a bere. Si intravede anche
un'australiana, si chiama Beth e Carlo la conosce già, e per finire, mi sembrava di averla
vista da lontano mentre eravamo in paese, ci dicono che c'è Andrea, l'argentina che
conoscemmo facendo colazione al Platypus a Bogotá, quella che era col sosia di Raf; lei
però non dorme qui, sta a casa di un tedesco che vive a Salento. Mi raccomando, non vi
meravigliate. Siamo al quindicesimo giorno di viaggio in Colombia, e le rotte sono
quelle: è normale incrociarsi e incontrarsi nuovamente.
Il grosso della comitiva decide di andare in paese per mangiare, Juli, Carlo ed io
abbiamo pranzato molto tardi, per cui preferiamo rimanere in veranda e sorseggiare
cuba libre artigianale. Dopo un po' però decidiamo almeno di fare un giro, e magari di
mangiare qualcosa anche noi; Salento non è una metropoli, e non ci è difficile trovare la
comitiva. Ci sono tutti, lo svizzero senza nome, Tamil, Tamara, Beth, Gary, Holly,
Alessandro e la sua ragazza, che è orientale (scoprirò che è malese), ci sediamo anche
noi, mi faccio consigliare da Alessandro, vegetariano anche lui, e mi faccio portare un
patacón con queso (i patacones sono banane battute spianate e fritte, questa è molto
sottile e croccante, e con formaggio a scaglie sopra), gli altri vanno giù di carne. Si beve
birra, si parla e si ride. Sono accanto a Tamara, e, sinceramente interessato
all'argomento, le chiedo del cinema e le dico che conosco piuttosto bene qualche regista
israeliano. Dapprima si stupisce un po', quasi incredula, poi quando le cito il più famoso
Amos Gitai, e il meno famoso Eytan Fox si lascia prendere nella discussione. Le cito
qualche film per me molto valido, proveniente da vicini paese arabi, e lei si lascia
convincere, mi promette che li cercherà per vederli. La comitiva è affiatata, e si decide
di rientrare al Plantation e di continuare la serata lì, da bere e da fumare ce n'è.
Attraversiamo la piazza, e quando stiamo quasi per uscirne per imboccare il rettilineo
che porta alla caserma dei pompieri, mi accorgo di aver quasi finito le sigarette, per cui
avverto che mi fermo a comprarle. Entro in un piccolissimo bar, vedo delle sigarette.
Chiedo un paquete de Malboro rojo, e mentre pago mi rendo conto che il più ubriaco dei
ragazzi e ragazze che erano dentro al piccolo bar quando sono entrato, mi sta fissando
in maniera strana. Penso tra me "adesso succede qualcosa". Il tipo è rosso in viso, con gli
occhi di chi ha bevuto un bel po', e porta un cappellino da baseball calato quasi fino agli
occhi. Mi domanda di dove sono, rispondo italiano. Pausa. Mi chiede cosa bevo, rispondo
birra. Lui si rivolge alla ragazza del bar e le ordina due poker, una marca colombiana.
Offre lui. Si inizia a bere, mi presenta gli altri. Iniziano le domande sulle differenze che
ci sono tra i nostri paesi, su come vedo la Colombia, su come mi sembra la gente. Alcuni
compagni di comitiva entrano nel bar quasi preoccupati, e mi chiedono cosa succede.
Spiego che mi stanno offrendo da bere. Mi dicono che loro vanno all'hostel, anche se
timidamente invito tutti a restare, invito declinato. Ok, li raggiungo più tardi, tanto la
strada è semplice. Fabian, questo il nome del mio amico, perchè ormai siamo amici, mi
dice che mi accompagnerà lui, quando deciderò di andare. Gli dico che non è il caso, ci
saranno 500 metri e la strada ho capito che non è affatto difficile, non vuol sentire
ragioni. Le risate, le birre, i discorsi intrecciati si fanno impastati dall'alcol, ma
continuano ad essere significativi. Mi fanno i complimenti per il castigliano, poi Fabian
mi chiede se ho una moneta, qualcosa che valga poco, per fargli vedere come sono gli
euro. Non è chiarissimo a tutti questo concetto che praticamente tutta Europa abbia la
stessa moneta. Non ho monete con me, quindi apro il portafogli e, oltre a banconote da
50, ne ho una da 5. Gliela do e gli dico che la tenga per ricordo. I suoi amici si guardano,
lo guardano, e gli fanno capire che, col cambio, sono un sacco di soldi. Lui tira fuori una
banconota da 2000 pesos, si fa dare una penna dalla barista, ci scrive il suo nome, me la
dà, e mi fa giurare di non spenderla mai, come lui farà con quella da 5 euro. So che a
raccontarla ora, così, fa ridere, ma, credetemi, in quel momento è commovente. Mi
viene in mente che la ormai famosa canzone-tormentone del viaggio è ancora un
mistero. Il nome dal cantante e il titolo della canzone, che mi sono stati dati a Bogotá,
sono stati smentiti a Santa Marta. Chiedo aiuto ai ragazzi, canticchio la canzone, il titolo
dovrebbe essere Así de facíl, e la barista prende un cd, lo mette a tutto volume, è
quella. Il titolo è giusto, ma nessuno sa come si chiami il cantante; però il ritmo è un
Vallenato. E' già un passo avanti. Andiamo avanti a ridere, scherzare, raccontarci,
chiedere, bere, per non so quanto. So solo che ad un certo momento, la barista deve
chiudere. Ci salutiamo, ma Fabian tiene fede alla sua parola, mi accompagna fino al
Plantation. E qui siamo alla parodia: i 500 metri diventano un chilometro. Ormai
parliamo trascinando la voce e la lingua come i piedi, e procediamo a zig zag. Fabian mi
fa vedere la sua casa da fuori. Quando arriviamo alla caserma dei pompieri ci sediamo
sul marciapiede con l'ultima birra in mano. Mi chiede se ho passato una bella serata, e
sinceramente gli rispondo di si, ma non solo, sicuramente non me la dimenticherò mai.
Lui ci pensa un po' e dice che sarà così anche per lui, e poi abbiamo le banconote. Mi
saluta e mi augura la buonanotte.
Arrivo al Plantation, e sono tutti lì che mandano avanti la serata, mi inserisco ma mi
rendo conto di essere più fuori di tutti. Forse per continuare il discorso sulle banconote,
non so come, entro in una discussione accesa con Juli, e, pensando di risultare
divertente, le dico che con le banconote argentine (me ne sono rimaste un bel po' in
tasca, e non ci sono modi di cambiarle) ci posso accendere le sigarette. Juli si arrabbia
di brutto, e se ne va a letto. Mi arrabbio molto con me stesso, ho rovinato una serata
esaltante. Un po' alla volta vanno a letto quasi tutti, rimaniamo io, Holly, Tamara e
Tamil. La lingua di scambio diventa l'inglese, e a parte Holly gli altri due si danno da
fare per farmi capire quello che si sta dicendo. Sono interessato a capire come si vive in
Israele l'obbligo della leva, e dell'esercito. Tamara dice che ne avrebbe volentieri fatto a
meno, ma non è stato poi così male quell'anno, Tamil mi dice che lui c'è stato quattro
anni e mezzo, e che per lui è stata un'esperienza importante, che ti forma il carattere,
ti fortifica e ti mette alla prova, ti insegna a rapportarti con gli altri e cose del genere.
Non sono così convinto, ma me lo spiega con una soavità che comunque, mi fa piacere
ascoltare. Poi mi spiegano che odiano gli israeliani che viaggiano in gruppo, per questo
loro viaggiano da soli, mi spiegano che soggiornano solo negli hostel israeliani gestiti da
israeliani, e che pretendono, in malo modo, di pagare poco. In questo non sono molto
patrioti, disprezzano questo tipo di comportamento, e ammettono che in questi casi i
luoghi comuni sugli ebrei sono giusti. E' una discussione stanca, da 4 di mattina, alcolica
e fumosa, ma sempre interessante. Si finisce sul filosofico spicciolo, sulla necessità di
vivere in pace e di poter viaggiare senza paure di nessun tipo. Ci auguriamo
reciprocamente la buonanotte, Tam e Tam vanno ai letti a castello, Holly sale con me,
ha preso il letto vicino al mio. Mi addormento come un sasso, senza nemmeno il tempo
di ripensare a questa giornata che sicuramente rimarrà scolpita nel marmo della mia
memoria. Non che non ne abbia mai vissute, ma quando ti succedono hai quella
sensazione di pienezza che non hai tutti i giorni. Quella sensazione che senza parole, ti
spiega il perchè la vita vale la pena di essere vissuta.
Holiday in Colombia 22
26/1/2006 Long Road
Alle 6 circa mi sveglia un rumore: c'è una tipa che avevo intravisto il giorno prima,
dorme in mansarda, se così si può chiamare, e nonostante i suoi sforzi per fare piano,
scendendo la scala fa rumore. Mi pare decisamente di avere il sonno molto più leggero
che a casa. Mi riposo un altro paio d'ore, non è che la sera prima abbia fatto il bravo.
Vado al bagno nell'altra costruzione, per disturbare meno possibile quelli che dormono
"di sopra", nell'hostel c'è già movimento. Questo posto è bellissimo. Il programma di oggi
prevede una scarpinata che si preannuncia impegnativa, fino al parco naturale di
Cocora; dicono sia molto bello. Spero che Juli non sia ancora arrabbiata. Quando si
svegliano un po' tutti, alla prima occasione favorevole le domando se si è arrabbiata sul
serio, e quando capisco che lo è ancora le domando scusa, non ne avevo la minima
intenzione, stavo scherzando, figuriamoci se mi ritengo superiore a qualcuno solo perchè
ho la fortuna di vivere in un paese che economicamente soffre meno del Sud America.
Scuse accettate, e nonostante Juli sappia fare buon viso a cattivo gioco, so che ci vorrà
qualche ora. Colazione, programma, vaglio dei partecipanti. Io, Juli, Carlo e Gary from
New Orleans, USA. Abbiamo la mappa, gli zainetti, l'acqua e tutte le informazioni che ci
servono. Partiamo a piedi, sono circa le 9, la giornata sembra promettere anche troppo
sole. Usciamo dal paese per la strada sterrata che va a Cocora, ci sono dei lavori, gente
che piccona, mica cazzi. Alla terza curva, col piccone in mano, uno dei ragazzi
conosciuti la notte prima. Ci abbracciamo come fratelli. Penso che se mi trasferissi qui
potrei diventare sindaco, e sarà la battuta-tormentone dei prossimi due giorni. Lo saluto
e spero di rivederlo, noi proseguiamo, lui riprende il piccone. La strada è agevole,
sterrata ma transitabile, un po' di salita e un po' di discesa. Il sole sale decisamente, e
sembra volercele dare di santa ragione. Dopo un paio d'ore di cammino conosco già
meglio Gary, è ingegnere e lavora per una compagnia petrolifera, elaborando dati. E'
giovane, e probabilmente molto bravo, lavora a mesi e poi si concede piacevoli viaggi,
spesso partendo anche dai posti dove è costretto ad andare a lavorare, anche molto
lontani dagli USA. Entriamo nel parco naturale, dove una guardia forestale ci dà pochi
suggerimenti e non ci fa nessuna storia, e stranamente non ci fa pagare nemmeno uno
straccio di biglietto. Sono circa le 10,30, e decidiamo di farci una ulteriore colazione
rinforzante, un classico desayuno: riso, uova, patacones, fagioli. Da bere, compreso nel
prezzo c'è il chocolate, ma ho paura che per il mio intestino sarebbe troppo, e opto per
una coca cola, sapendo che ciò comporta un aggravio della spesa (grossolanamente, il
desayuno viene circa un euro, la coca cola sui 35 centesimi). Il posto ha delle splendide
sedie foderate di pelle di mucca. Forse è meno kitsch Mr. Crocodile Dundee.
Riprendiamo il cammino, con Juli che ama il momento dove può scandire la sua parola
d'ordine del viaggio: ¿Vamos? Naturalmente sono quello che più di tutti è a corto di
ossigeno, ma tengo duro. Riesco perfino a parlare un po' di musica stuzzicato da Gary, al
quale non è sfuggita la mia t-shirt dei Pearl Jam. Finiamo a parlare degli Audioslave,
passando dai Soundgarden, e gli racconto la scioccante visione del nuovo dvd del live in
Cuba, visto prima di partire da Fabietto a Roma, una specie di inglorioso canto del cigno
per Chris Cornell. Il cammino è lungo, e, come in una specie di accordo, si procede a
coppie, che si intercambiano per non annoiarci. Io cerco di stare sempre nella coppia di
testa, sapendo di essere quello che può rimanere indietro. Invidio molto Carlo, che ha 6
anni più di me ma non appare mai fisicamente in difficoltà. Per strada, paesaggi bucolici
rilassanti e affascinanti, cavalli, mucche, tori, il fiume che scorre a fondo valle, un
insieme che ricorda la Svizzera, ai due lati due catene montuose piuttosto alte; la
giornata splendida dà valore al tutto. Arriviamo a Cocora verso le 13, rimango indietro
per 5 minuti perchè sento salire impellente il richiamo della foresta. Caco
sontuosamente dietro un abete, o almeno così pare. Riesco a passare indenne attraverso
un recinto di filo spinato. Ci fermiamo, c'è un ristorantino spartano e un piccolissimo bar
adiacente, stessa gestione. La ragazzina dietro al banco è uno spettacolo al pari della
natura incontaminata e prepotente che costeggia il cammino fin qui percorso. Mora,
capelli ondulati, viso d'angelo e vocina leggera. Rimarrei a guardarla all'infinito, ma il
gruppo mi chiama, quindi frustro le mie potenzialità da contemplatore e mi adeguo.
Decidiamo di percorrere un anello di alcuni chilometri dentro il parco, che si
preannuncia molto più impegnativo del percorso di avvicinamento; il tempo è contato,
dobbiamo essere di nuovo a Cocora per le 17, ora in cui parte l'ultima jeep che riporta a
Salento, pena la scarpinata di ritorno. Partiamo senza indugio, anche se ci riserviamo
alcune opzioni a seconda del tempo che impiegheremo a percorrere i sentieri segnati
dalla mappa. Iniziamo lievemente a fondo valle, costeggiando fattorie, ma il cammino si
fa già più impegnativo, visto che il fondo del sentiero è pieno di fango; fortunatamente,
i ruscelli, affluenti del fiume di fondo valle, attraversano il sentiero permettendoci il
rifornimento d'acqua. Dopo un po', la gola formata dalle due montagne si fa più stretta,
la vegetazione si fa più fitta, e iniziamo a salire. Cominciano i ponti sospesi sul fiume, la
vegetazione diventa quasi jungla. Inizio ad essere in difficoltà, difficoltà che si esaspera
quando, facendo il conto del tempo che ci rimane, decidiamo ad un bivio di andare
verso la località la montaña, con un percorso di circa 800 metri tutti in ripida salita, che
però ci permetterà di arrivare ad un ulteriore camminamento tutto in discesa che chiude
l'anello con Cocora, invece di allontanarci ulteriormente. Condivido il ragionamento, ma
la salita è davvero un calvario. Gary si offre di portarmi lo zainetto, mi vede in grande
difficoltà, Carlo mi controlla più volte il polso, ho i battiti realmente accelerati. Sono
ancora la zavorra del gruppo, ma ce la metto tutta, memore delle storie che ho fatto
durante la salita per Pueblito dentro il parco Tayrona. Jungla di montagna, rumore
distinto di alberi ad alto fusto che si piegano sotto il loro stesso peso, e stanno per
cedere. Calore che diminuisce per effetto dell'altitudine che aumenta. Stringo i denti,
guardo gli altri che salgono decisamente più disinvolti di me. Pian piano, guadagno la
cima anch'io, arriviamo a la montaña, c'è una costruzione bassa, due ragazze (carine)
che giocano a carte in veranda, un uomo che ci dà il permesso di abbeverarci ad un
rubinetto lì vicino. Inizia la discesa, e la strada ritorna praticabile anche alle auto. Il più
è fatto, e mi sento autore di una piccola ma significativa impresa, io, uomo sedentario
per definizione. La discesa è suggestiva, la vallata si apre sotto di noi, Gary scatta foto
in continuazione. Solito alternarsi delle coppie in cammino, e durante un momento nel
quale procedo a fianco di Juli, lei si apre sulla litigata della sera prima. Si scusa, in un
certo qual modo, di aver reagito così rabbiosamente, ma sull'orgoglio nazionale è
particolarmente sensibile. Sento che ha razionalizzato l'accaduto, e le ripeto che non
volevo in nessun modo ferirla, od offendere l'Argentina tutta. Sento che il grado di
intimità tra di noi aumenta, non nega che ha reagito così perchè si sente in un certo
qual modo vicina a me, se lo scherzo fosse provenuto da altri non lo avrebbe "accusato"
così. E' curioso il nostro rapporto; ci conosciamo da quasi 5 anni, via e-mail, ma ci siamo
visti in carne ed ossa solo 20 giorni fa per la prima volta, e le sensazioni sono cose
difficili da gestire. Forse è presto per fare bilanci, ma ci tengo che conservi un buon
ricordo di me, come compagno di viaggio.
La discesa diventa dolce, soleggiata ma ventilata, e arriviamo a Cocora
abbondantemente prima delle 17. C'è tutto il tempo per ammirare di nuovo la ragazza
del bar. Gary mangia al tavolo del ristorante, io e Carlo progettiamo già la cena di
stasera. Appena arriva la jeep, saliamo sopra, senza avere idea di cosa diventerà. Dopo
15/20 minuti si parte, e le persone a bordo sono almeno 20. Nei posti accanto all'autista
c'è anche la ragazza del bar, dietro su quelle specie di sedili siamo 4 per parte, un paio
di bambini in mezzo, almeno 4 persone aggrappate dietro fuori dal cassone, se non di
più, 3 almeno sistemati in qualche modo sul telone di copertura. Allucinante. Non riesco
a muovere le gambe in nessuna maniera, tra noi e le persone che sono sedute dalla
parte opposta ci sono sacchi, panieri, contenitori. Dopo 20 minuti non mi sento più le
gambe, e mi ritrovo a pensare che forse sarebbe stato meno faticoso tornare a piedi.
Alleggeriamo la tensione scherzando con Carlo e con una bambina che è lì vicina.
Sembra muta all'inizio, poi si scioglie, e in maniera frammentaria capiamo che sta
andando in paese per prendere un bus per Cali, viaggia con la zia, la mamma non c'è e il
babbo chissà dov'è finito. Storie di ordinaria confusione e disperazione, alle quali si
reagisce con somma dignità. Finalmente, arriviamo in paese, e vivo la discesa dalla jeep
come un orgasmo multiplo. Camminiamo verso il supermercato per fare spesa, e, poco
alla volta, sento di nuovo le gambe. In viaggio, a volte, è un bel problema essere di
taglia grande. Rientriamo al Plantation, laviamo un po' di cose, conosciamo una coppia
colombiana, amica di Chris e Tim, che lavorano come educatori ecologici in giro per le
scuole nell'ambito di un progetto statale, e mentre osserviamo il tramonto ascoltiamo un
ulteriore punto di vista sulla situazione colombiana. Ci laviamo, e poi ci mettiamo a
cucinare, come sempre le porzioni mie e di Carlo permettono di far mangiare altre due
persone oltre a noi tre, nello specifico Gary e Holly.
Dopo aver mangiato andiamo in piazza in cerca di una rumba che non c'è, quindi
rientriamo all'hostel. Beviamo fino a non poterne più, mentre i pensieri ci si confondono
nella bocca oltre che nella testa. Penso che la sera prima ho fatto bene a scusarmi con
Alessandro, il bergamasco, perchè finché non ho capito che la malese era la sua ragazza,
la guardavo insistentemente, anche se scusarsi perchè hai guardato una ragazza non si
usa comunemente. Penso che stamattina ho fatto bene a scusarmi con Juli per la sera
prima. Penso che qui al Plantation, non c'è nemmeno una persona che mi sta antipatica.
Penso che dovrei smettere di bere così tanto, perchè ogni tanto quando sono ubriaco
faccio una cazzata. Poi penso che c'è chi, anche non essendo ubriaco, fa cazzate
peggiori. Penso che in certi momenti, forse è meglio non pensare.
Mi tranquillizzo, e dormo felice.
Holiday in Colombia 23
27/1/2006 Salento mi tierra
Ormai è una maledizione: mi sveglio prestissimo. E ci si mettono anche altri fattori
"esterni" ma non troppo. Questa mattina, scopro che al posto della ragazza senza nome
e nazionalità, in "mansarda" dormiva la ragazza che fa le pulizie al Plantation;
naturalmente si sveglia presto, sbatte da qualche parte e sveglia anche me! Saranno le
6. Mi riposo un altro po', poi mi preparo ed esco a camminare per Salento. Compro
qualcosa per la colazione, mia e degli altri, accendo il cellulare e controllo le notizie
che mi arrivano dagli amici in Italia. Freddo e neve. Come dice Juli, que nunca te pase.
Entro in una pastelería e chiedo del pane alla ragazza che si trova lì, ma mi fa capire
che non è la proprietaria, se posso aspettare solo un attimo che il ragazzo sta tornando,
con una simpatia e una gentilezza che, se mi fossi svegliato male, mi avrebbe cambiato
la giornata. Invece sto benissimo, e non fa altro che rendermela migliore. Filosofia del
sorriso. Per oggi era prevista una camminata un po' meno impegnativa di quella di ieri,
ma ancora non è sicuro. Qualcosa faremo, mentre domani ce ne andremo verso Cali. Il
bello è anche questo: non c'è mai niente di certo. Ora, al momento rifletto poco su
questa situazione, lo farò quando tornerò a casa. C'è stato un tempo nel quale ero
disordinato, e non programmavo mai niente. L'età, il lavoro, gli interessi fuori dal
lavoro, le passioni, mi hanno cambiato in alcune cose, soprattutto nella gestione del mio
tempo. Sono diventato pignolo, programmatore, piuttosto ordinato. A volte inizio la
settimana e, per fare cose che mi piacciono, ho già programmato tutti i pomeriggi e le
serate della settimana. Qua, quasi sempre, non so neppure dove sarò il giorno seguente,
o il pomeriggio rispetto alla mattina. Mi sono messo completamente nelle mani di Juli,
che ha accettato di buon grado questa incombenza. E devo dire che, proprio per come
sono diventato nella vita di tutti i giorni, è una sensazione piacevole, quasi liberatoria.
Torno al Plantation, si stanno svegliando un po' tutti, si fa colazione, si scherza. Si
programma la giornata: l'intenzione era andare a visitare una finca di caffé, consigliataci
da Tim e Chris, ma Alessandro, il bergamasco, ci ha consigliato di non partire se prima
Tim non telefona ai gestori, per avvertirli che ci aspettino all'ingresso, altrimenti non
troveremo nessuno. Questa è proprio la nostra intenzione. Si intravede Gary, con il
quale dobbiamo scambiarci l'indirizzo e-mail, in modo da poterci mettere d'accordo per
le foto che ha scattato ieri durante l'escursione a Cocora, non abbiamo capito se viene
con noi anche oggi. Proviamo a coinvolgere Holly l'inglese con la maglia del Barça, ma
non ne vuole sapere. Aspettiamo Tim che non arriva, e allora accompagno Holly che
vuole andare in paese a fare colazione. Passiamo davanti alla scuola elementare, dove
tutti i bambini ci salutano chiassosamente chiamandoci gringos, arriviamo in piazza, ci
sediamo in un bar dove una cameriera barbuta serve una colazione con uova e riso a
Holly e a me una bottiglia d'acqua. Il tifoso dello Sheffield Wednesday mi racconta che
non è vero quello che ha raccontato a tutti, che in Bolivia lavora come guida per
escursioni in mountain bike, bensì che è proprietario di un pub in perfetto english style
in centro a La Paz; la guida in mountain bike l'ha fatta fino a qualche anno prima,
mentre da quasi due anni è riuscito ad aprire questo pub e le cose vanno bene, lavora
duro, si ubriaca tutte le sere ma tiene testa a chiunque da una parte e dall'altra del
bancone, ha trovato personale del quale si fida, e cose così. Si confida.
Torniamo all'hostel, Tim arriva, telefona, ci spiega la strada, ci disegna una specie di
mappa. Mi prendo la responsabilità di fare io da guida, oggi, quindi massimo impegno. Si
unisce al gruppo Beth, la veterinaria australiana, oltre i trent'anni, piacevole, non
bellissima, sorriso dolce e onesto, non parla molto e non alza mai la voce. Per il resto,
formazione classica di questi ultimi giorni: io, Carlo e Juli. Si parte, mentre la giornata
volge al variabile. Stiamo uscendo da Salento, costeggiamo il cimitero e io e Juli ci
accorgiamo di aver perso gli altri due. O meglio, li abbiamo visti sulla soglia dell'ultima
casa che abbiamo oltrepassato, dopodichè sono spariti, ci sembra siano entrati.
Visitiamo il minuscolo cimitero, poi torniamo verso la casa in questione, dove, ci
accorgiamo, c'è un cartello con scritto se vende. Dopo qualche titubanza, sentiamo le
loro voci ed entriamo nel cortiletto, dirigendoci verso il retro, da dove sembrano
provenire le voci. Troviamo Carlo e Beth sotto una veranda povera, una specie di garage,
con l'anziana signora proprietaria che gli sta mostrando il tutto. Ci accoglie col sorriso e
comincia a rivolgersi anche a noi, ci mostra la casa e ci spiega perchè vende. La casa
non ha il tetto, praticamente: ci sono solo delle lastre di truciolato, ed è minuscola. La
signora è adorabile, e in alcuni momenti nei quali parla della sua famiglia mi pare di
avvertire una sottile incrinatura nella sua voce. Ci vuole il tatto di Juli, per dire alla
signora che abbiamo una specie di appuntamento alla finca di caffé, e che dobbiamo
andare. Salutiamo vagamente commossi, e discutiamo sul potenziale acquisto.
Oltrepassiamo di nuovo il cimitero, poi lo pseudo campo di calcio, ci inoltriamo in
campagna, la strada è sterrata ma battuta, piuttosto agevole. C'è gente che lavora, ci
sono alcuni militari. Dopo una curva, una pattuglia intera, il più alto in grado, anche lui
giovanissimo come gli altri, ci ferma molto cordialmente e ci spara un pistolotto su
alcuni ricercati per rapimento, ci consegna un volantino con le foto dei ricercati e le
loro rispettive taglie, gli facciamo alcune domande incuriositi e interessati, lui si lancia
in un elogio sperticato del presidente in carica, Uribe, rammenta le elezioni prossime,
Juli allora gli domanda se è sicuro che siano elezioni presidenziali, lui risponde anche,
alla fine salutiamo lui e la truppa, gli auguriamo buon lavoro e loro a noi buona
passeggiata. Alla prima curva Juli mi dice leggermente alterata: "estoy segura que no
son presidenciales", come a dire, questi militari...
Continuiamo a camminare di buona lena, non fa caldissimo, il cielo è parzialmente
coperto, la strada semplice. Arriviamo a passare davanti ad una scuola che dovrebbe
essere immediatamente prima della finca dopo circa un'ora di cammino, davanti al
cancello seguente c'è un tipo bassino dalla faccia sorridente che non si capisce se ci
aspetti o no. In effetti, ci sta aspettando, e magari già da un po'. Rapidi saluti, e ci fa
cenno di seguirlo. Passiamo per un percorso non lunghissimo, attraverso la piantagione
rigogliosa di grandi piante di caffé, mentre il tipo ci inizia a spiegare alcune
caratteristiche della pianta e della coltivazione. Arriviamo alla piccola fabbrica, una
casa piuttosto grande, un piccolo fabbricato che comprende un silo, una piccola serra
per l'essiccazione naturale. Ci spiega tutto, non è complicato, sottolinea il fatto che
produrre caffé completamente in maniera biologica è dura, e sono stati costretti a
modificare leggermente il processo per rimanere competitivi, ma solo nei periodi
dell'anno nei quali non riuscirebbero ad essiccare naturalmente l'intera quantità di
materia prima. Ci offrono quattro generose tazze di caffé, intorno alla casa ci sono un
sacco di cani e di bambini, il prezzo della visita è irrisorio. Il tipo mi porta sul retro della
casa, e da una specie di terrazza naturale mi mostra la vista sulla valle sottostante, che
è qualcosa di pacificante (non so se sia giusta la parola, ma credo renda l'idea). Ci spiega
la strada da fare, le ragazze usano il bagno, ripartiamo e sbagliamo immediatamente
strada, il tipo ci richiama a gran voce, facciamo retromarcia e ci incanaliamo nella
giusta direzione. Discesa semi-ripida con un viottolo piuttosto breve fino ad un ponte
sospeso sul fiume che bagna il fondovalle, attraversato il quale ci immettiamo su
un'altra strada sterrata e piena di grosse pietre, che ci riporterà sulla strada che
abbiamo fatto per salire da Armenia fino a Salento. Camminiamo per una mezz'oretta,
arriviamo alla strada asfaltata, facciamo un paio di centinaia di metri e ci fermiamo al
secondo posto utile a mangiare. Cucina in pietre sotto una copertura di legno, panche e
tavoli fatte di legno grezzo, gestione ultra-familiare, un bambino e una bambina che
giocano a palla tra la specie di bar adiacente e l'asfalto lì accanto. Il solito piatto con le
solite cose, mi arrischio a prendere la bevanda che è compresa nel prezzo unico, che è
una specie di latte di mais, imbevibile forse più per l'effetto che fa vedere i pezzi di
mais che affiorano nella brodaglia bianca che per il suo reale sapore. Non mangiamo
assolutamente male, ce la prendiamo comoda ma non troppo, paghiamo, salutiamo e
ripartiamo. Decidiamo, vista l'ora, che possiamo farcela anche a piedi, invece di
prendere il bus. Si sale per almeno 5 chilometri, se non di più, ma è asfalto e non è
ripidissima. Ormai camminare è l'attività principe del viaggio, e ti fa sentire in simbiosi
con il luogo che stiamo visitando. Si sale, si suda, si ride, si parla, si scherza, si
racconta. Pian piano arriviamo di nuovo a Salento, e siamo anche un po' orgogliosi di
aver fatto tutto a piedi. Però io sono stanco, quindi, visto che è presto, appena
arriviamo al Plantation, mi lavo e mi metto a letto a riposare. Me lo merito.
Quando mi alzo, dopo un paio d'ore, non trovo gli altri, e faccio un giro in paese
cercandoli, magari stanno facendo spesa. Non trovo nessuno, torno e trovo Juli e Carlo,
che hanno fatto un'altra strada e hanno già fatto la spesa, ma senza comprare la pasta e
la birra. La pasta l'avevo promessa a Holly, e la birra l'ho promessa a me stesso, e poi
questa cosa che hanno fatto la spesa senza di me non va bene, quindi faccio il sostenuto
ed esco di nuovo per fare spesa da solo. Torno, vedo cosa sta cucinando Carlo e come
posso combinare le cose. C'è anche la piccola Sabrina, provo a farle sbucciare le patate
ma dura quanto durerebbe sott'acqua. Pannocchie di mais lessate, verdura bollita,
insalata mista e spaghetti aglio e olio per due, ma alla fine ne mangia un po' anche
Sabrina, che dice che le sto diventando simpatico. Ci rendiamo conto che Gary se n'è
andato, e non ci siamo scambiati gli indirizzi e-mail, per cui niente copie delle foto.
Peccato. Holly si beve metà delle mie birre, si dà fondo al rum e coca, ci si prepara per
uscire. Carlo non se la sente, e alla fine usciamo io Holly e Juli. Diretti alla piazza. Ci
sediamo fuori da uno dei due piccolissimi locali dove c'è un po' di musica e un po' di
gente, e ricominciamo a bere birra. La gente si scalda, comincia a ballare. Vedo il mio
amico Fabian, lo chiamo, stasera è molto sobrio, ci salutiamo, parliamo un po', ma lui è
stanco e se ne va a letto. Adocchio un tavolo con almeno due ragazze che stuzzicano le
mie fantasie. Juli mi trascina in un paio di balli, mi faccio onore. Non si sa mai, magari
mi notano. Torniamo al tavolo, e all'improvviso arrivano i due amici di Fabian, uno è
quello che lavora come stradino, l'altro è quello che l'altra sera era con la giovane e
simpatica moglie, ma stasera è da solo. Mi portano di peso al banco e mi fanno bere una
birra, poi comprano una bottiglia di aguardiente, una specie di anice molto alcolico. Si
scusano con i miei due compagni, e mi portano a fare un giro in macchina. Reggaeton a
palla, sgommate e aguardiente, per nemmeno 500 metri fino alla sommità del paese,
pisciata in compagnia, poi di nuovo in piazza. Mi lasciano libero per 5 minuti, poi mi
rivengono a prendere, va avanti così per 3-4 volte, e chiaramente il tasso alcolico si
innalza di volta in volta, e i discorsi si fanno sempre più rarefatti, ma divertenti. Quando
gli amici scompaiono, torno al tavolo da Holly e Juli. Continuo a buttare l'occhio sul
tavolo con le ragazze, ma devo andare anche al bagno, così vi spiego come sono fatti i
vespasiani qui: ci si entra appena, c'è un muretto alto 40 centimetri in basso, e poi la
parete di fronte dove scorre l'acqua, il tutto piastrellato. Fantastico. Sembra di stare in
un sarcofago, solo che puoi pisciare.
Juli si preoccupa di quale ragazza mi piaccia. Ce ne sono due carine, una è magra
magra, come piacciono a me, ma di viso non è bellissima, l'altra è un po' troppo in carne
per i miei gusti, ma ha un bel viso, un bel seno, e mi ricorda un'attrice porno che mi
piace, e una ragazza del mio paese che non me l'ha data, per cui preferisco lei. Juli
parte e le va a dire che mi piacerebbe ballare con lei. Fa tutto da sola, io non chiedo
niente. Si balla, lei si chiama Carolina. Per ballare sono piuttosto negato, ma la cosa è
eccitante, lei è burrosa e profuma di donna. Le chiedo scusa per quanto sono imbranato,
lei probabilmente impietosita mi dice che invece ballo bene. Dura poco, ma è meglio
così, che chi mi conosce sa che porto sempre i pantaloni larghi e mica è un bene.
Ritorno al tavolo e si continua a bere e a ridere. Alle due chiudono, e la gente si avvia
verso casa, noi verso le panchine nel centro della piazza. Juli continua a cercare un
aggancio con le ragazze, evidentemente delusa dalla fauna maschile, almeno fa un
piacere a me. Chiacchieriamo un po' con le due, c'è un po' di movimento di ragazzini
locali. Holly e Juli si avviano all'hostel, io sono eccitato e leggermente ubriaco, e faccio
un po' di pressione a Carolina. Lei dice che deve andare, ed in effetti c'è suo fratello che
la chiama in continuazione, ma visto che non si muove e rimane lì a 10 centimetri da me
insisto. Ho sonno, dice lei. Anch'io, dico io, ma se ti guardo mi passa tutto. Niente. Beh,
io domani me ne vado. Vediamoci domattina, dice lei. Alle 10, facciamo colazione
insieme. Va bene, a domattina.
I 500 metri che mi separano dal Plantation House li faccio tutti a mezzo metro sollevato
da terra. A volte, basta poco per compiacere un uomo.
Holiday in Colombia 24
28/1/2006 Going Back To Cali
Prologo e spiegazione: alcuni dei titoli dei resoconti giornalieri sono canzoni abbastanza
famose di band piuttosto conosciute dagli amanti di musica rock. Questo di oggi, però,
lo è decisamente meno, quindi vi devo una spiegazione. Vi avverto: sarò prolisso, e vi
parlerò di me.
Da buon metallaro, nell'ormai lontanissimo 1988, ogni due settimane mi facevo circa 200
chilometri in auto per andare a spendere una cifra esorbitante in dischi (si parla di
vinile) in un negozio specializzato vicino a Firenze; lo facevo di sabato, visto che
durante la settimana lavoravo e facevo il pendolare. Un giorno trovai una "chicca": la
colonna sonora di un film passato sotto silenzio in Italia. Sto parlando di "Less Than
Zero", Meno di zero. Tra l'altro, questo disco ha decisamente segnato la mia cultura. Lo
comprai, poi cercai il film, mi piacque, seppi che era tratto da un libro di un certo Bret
Easton Ellis, comprai il libro e ne rimasi folgorato. Era un debutto, e mi innamorai di
questo scrittore, seguendolo poi passo passo per tutte le sue ulteriori tappe letterarie.
Posso affermare con forza, anche se ci sarà chi non concorda, che Ellis ha segnato poi la
letteratura contemporanea, con il suo capolavoro "American Psycho", uno dei libri più
importanti degli ultimi 20 anni. Vedete? A volte la vita è fatta da piccoli episodi, ma
importantissimi.
Bene, cercavo la colonna sonora perchè c'era un inedito di una grande band metal, gli
Slayer, che rifacevano In-A-Gadda-Da-Vida, un vecchio pezzo degli Iron Butterfly.
Fortunatamente, c'erano anche altri pezzi validi, rock e hip hop, tra i quali un simpatico
pezzo di LL Cool J, dal titolo, appunto, Going Back To Cali. Imparai dov'era Cali.
Questi sono i pensieri che cerco di farmi girare per la testa appena mi sveglio, verso le
8, almeno un'ora prima di quanto previsto anche dalla sveglia del cellulare.
L'appuntamento fissato la notte prima è per le 10, quindi mi alzo, mi sbarbo, mi rado la
testa, mi faccio una doccia, controllo se i panni sono asciutti, preparo la borsa per la
partenza, cerco di non far vedere che sono tesissimo. Juli, Carlo e Holly si svegliano e
cominciano a scherzare e a prendermi in giro riguardo il mio sottile nervosismo.
Qualcuno mi presta un preservativo.
Alle 9.50 inforco gli occhiali da sole e il lettore mp3 ed esco, cercando di camminare più
lentamente possibile. Scelgo la strada più corta, e due minuti alle 10 sono sull'angolo
della piazza deciso la sera prima. Mi siedo sul marciapiede rivolto verso il sole, che è già
gradevole, e cerco di rilassarmi. Mi sento un bambino. Ascolto la musica del lettore, mi
guardo intorno. Passano 5 minuti, 10, 15. Al diciottesimo mi alzo e me ne vado. Ho un
motivo in più per scherzare sulla sfiga.
Rientro, restituisco il preservativo, scherzo amareggiato con tutti i presenti, un ragazzo
colombiano arrivato con la sua ragazza la sera prima mi dice che ho aspettato poco,
mentre la sua ragazza, quella che fa le pulizie (che mi ha svegliato anche stamattina) e
Juli mi dicono che ho aspettato anche troppo. E' bello quando le persone si sentono
coinvolte nel tuo dramma. Ci facciamo dare da Chris gli orari dei bus per scendere ad
Armenia, e decidiamo di partire, a questo punto non c'è più niente e nessuno da
aspettare. Salutiamo tutti, come sempre con un po' di commozione. Tim, Chris, Holly,
Sabrina, sua sorella più grande, la coppia colombiana, una coppia di ragazze arrivate ieri
sera (una sudafricana decisamente carina e un'olandese decisamente non troppo,
chiaramente coppia lesbica), la tipa delle pulizie. La fermata è a duecento metri, Carlo
ci accompagna. Juli glielo dice, io lo penso e basta: sentiremo decisamente la tua
mancanza Carlito. Ci scambiamo gli indirizzi e-mail, gli facciamo gli auguri per la sua
ricerca, ci ripromettiamo di vederci in estate in Umbria, quando tornerà, dopo che sarà
passato dal Belgio. Rimane in piedi un progetto campato per aria in una di queste serate
passate a Salento, di aprire un hostel in Argentina, precisamente a Salta. Juli è
incaricata di verificare il costo e la fattibilità, io e Carlo ci offriamo di pagare un mutuo.
Chissà. Chissà se ci rivedremo Carlito. ¡Chau!
Bella giornata, scendiamo per Armenia in 40 minuti. Ci siamo fatti una serie di sandwich
con pane in cassetta, formaggio e maionese, contro i morsi della fame. Al terminal
cerchiamo il passaggio per Cali, e penso a LL Cool J che ci stava tornando. Il viaggio si
preannuncia piuttosto breve, il bus è di medie dimensioni. Sul bus familiarizziamo con
un altro mochilero, si chiama Mike ed è di Leeds, in Inghilterra. E' in giro da un anno e
mezzo circa, era un sales manager, non ce la faceva più, ha staccato, mollato tutto, e
sta girando il Sud America. Ci conferma che la Colombia è un gran posto, mentre il
Venezuela non proprio. Ce lo diceva anche Francesco in effetti. Ci scambiamo dritte
sugli hostel, parliamo di calcio, una delle cose che gli mancano di più; non che in Sud
America non ce ne sia, ma adesso gli manca quello inglese ed europeo. E' un compagno
di viaggio piacevole. Dopo circa 3 ore arriviamo, e dividiamo un taxi per l'hostel Iguana,
dove lui ha una specie di prenotazione. Il taxista è tranquillo, ma non sa dov'è l'hostel di
preciso. Alla fine lo troviamo. Per noi non c'è posto, e Mike non prende il letto che gli
avevano lasciato perchè è in dormitorio, e lui dice di aver bisogno di una singola perchè
sono notti che non dorme. Viene con noi in cerca del Calidad House, lì vicino. Lo
troviamo più facilmente di quanto pensassimo, c'è posto in dormitorio, li prendiamo,
mentre Mike prosegue la ricerca. Ci salutiamo.
Lasciamo i bagagli e usciamo subito, il pomeriggio è ancora giovane, e la nostra
intenzione è di non rimanere molto a Cali, quindi approfittiamo per vederla subito.
Atmosfera ridanciana mentre ci inoltriamo per la città, ci fermiamo in un parco a vedere
un cantante improponibile, attraversiamo un ponte su una delle strade principali,
osserviamo le chiese, un gruppo di Hare Krishna che balla, una manifestazione del
partito di governo che ricorda un po' Forza Italia, con le persone che arrivano scendendo
dai taxi con le bandierine in mano, le jeep della polizia, ci prendiamo una macedonia di
frutta dai venditori col carrettino, prelevo contante con la carta di credito dopo il
quarto tentativo, decidendo che i bancomat colombiani sono troppo ansiogeni e
complicati, pensiamo al da farsi por la noche. Più tardi chiameremo David, il ragazzo di
Cali conosciuto sul volo di arrivo in Colombia, Juli l'ha sentito via e-mail, e sembrava
disponibile per farci compagnia. Parliamo dell'impressione che ci ha fatto l'hostel dove
alloggiamo: no tiene onda. In effetti, ci faccio più caso adesso, dopo un po' di giorni, e
specialmente dopo la proposta semi-seria di aprirne uno in Argentina: l'appeal di un
hostel dipende da molti fattori, ma i gestori sono determinanti, forse più della reale
bellezza della struttura, della pulizia, dell'ubicazione, della gente che ci alloggia.
Ritorniamo lentamente sui nostri passi, verso il Calidad house. L'impressione che mi fa
Cali non è delle migliori: niente di eccezionale, una grande città come tante altre.
Beviamo qualcosa prima di arrivare all'hostel, e ci fermiamo sull'angolo prima di entrare,
così mi fumo una sigaretta in pace. I discorsi si fanno un poco più seri: si parla di
rapporti di coppia. Juli mi racconta l'esperienza che più si è avvicinata a una cosa del
genere, io le dico il mio pensiero. Nonostante gli anni di differenza, sembriamo entrambi
piuttosto disillusi davanti alle opportunità di amori profondi e duraturi. Tutto sommato,
è un momento intimo. Credo che le persone, quando arrivano a parlare di questo, si
promettano reciproca stima.
Rientriamo per una meritata doccia, facciamo conoscenza con Steven, inglese,
compagno di camera. Sta girando in bicicletta, e mi racconta le sue impressioni sui paesi
che ha attraversato finora. La politica estera statunitense ci sta trasformando, agli occhi
della gente, tutti in gringos da disprezzare. Dentro di me gli auguro di non finire come il
fratello di Carlito.
Dopo la doccia, mi accorgo che Juli si è appicicata a Tom, un tedesco talmente bello da
sembrare o gay o innaturale. Viaggia con Carolina (un nome che riapre delle ferite
fresche!), io suppongo siano una coppia, Juli, da donna, si augura di no. Si sprecheranno
battute da caserma sull'argomento. Mentre Juli va a lavarsi, invece, ho modo di
apprezzare la conversazione di Tom, gentilissimo e low-profile, si complimenta con me
per il mio castigliano, argomentiamo, fumandoci sigarette, su tutto un po', Carolina,
timidissima, rimane in disparte. Anche loro sono in camera con noi. Quando torna Juli
dalla doccia, propone loro di uscire con noi. Titubanti, tentennano, e dopo 5 minuti noi
li salutiamo e usciamo. Non c'è tempo per tentennare. Prima di prenderci impegni,
decidiamo di berci una birra, possibilmente economica. La via adiacente all'hostel è la
via della rumba di Cali, quella dove sono tutte le discoteche, e sarà dura. Proprio fuori
da una di queste, un cartello offre la birra a 1500 pesos, ci sediamo. Il servizio è
ricercato, però non c'è nessuno a sedere. Mi insospettisco, ma magari, mi dico, è presto.
Il mistero è presto svelato: c'è da pagare il servizio obbligatoriamente. Ormai ci siamo,
beviamo e scherziamo, siamo di ottimo umore. Dopo, e per la prima volta da quando
siamo in Colombia, usufruiamo di un servizio particolarissimo, che sinceramente non so
se esista da altre parti, ma che si rivela economico e che è presente in ogni dove: il
minuto di cellulare. In pratica, dovunque, c'è gente che gira per strada, o negozi che
vendono altro, che ti "affittano" il cellulare, tu fai la tua o le tue chiamate, e poi gli
corrispondi il dovuto. C'è perfino gente in giro con le magliette con su scritto: llamadas
a celular. Chiamiamo David, e gli diciamo che noi siamo a mangiare nella avenida sexta,
quando può passi di lì e ci raccolga. Quindi adesso non ci resta che mangiare, anzi, come
sempre Juli non mangia perchè dice che non ha fame. Come spesso mi capita, forse
perchè inconsciamente sento di andare sul sicuro (anche se poi non è vero), ho voglia di
pizza, e proprio a due passi c'è una pizzeria italiana. La padrona è una signora
gentilissima, che mi mette subito al corrente del fatto che sua figlia ha sposato
un'italiano. Fanno anche le lasagne, prendo una pizza, non è affatto male, scherzo con
Juli e le racconto cosa ne farei della cameriera, viso e trucco da trans, nonostante l'età
giovanissima. Ho appena finito ed ecco David, pago, saluto e ringrazio la signora,
saliamo sulla jeep del nostro amico. Convenevoli, saluti, racconti brevi su come stiamo e
cosa abbiamo fatto in questo periodo. Ci mostra una parte di città, ci domanda cosa
vogliamo fare. Andiamo a berci un'altra birra in un locale piuttosto ricercato, dove c'è
musica e, volendo, si può ballare. Juli e David si fanno un paio di balli, io mi guardo in
giro. Ce ne andiamo, e David ci propone di raggiungere un gruppo di suoi amici, fuori
città, seratona alcolica di chiacchere. Per noi va bene. Prima, David ci porta in un punto
piuttosto alto, ferma la macchina e ci fa scendere. Si vede tutta l'immensa, è la parola
giusta, distesa di Cali con i suoi quartieri poveri e periferici. Lo spettacolo notturno è
impressionante: luci fino all'orizzonte. Scendiamo di nuovo verso il centro, poi facciamo
per uscire dalla città, passando davanti alle discoteche più famose e frequentate, si
nota immediatamente dalla fila che c'è. Il posto dove uno dei suoi amici ha la casa è una
specie di residence, ed è evidente che siamo di fronte ad una estrazione sociale medioalta: posizione invidiabile, fuori città, guardie all'ingresso, case piuttosto eleganti. Gli
amici sono quattro, e non riuscirò mai a ricordarmi i loro nomi. Certo, non riuscirò a
dimenticarmi della serata. Ci accolgono calorosamente, ci sentiamo subito a casa. C'è
musica in sottofondo, ci sono patatine e cose così da sgranocchiare, ci sono due grandi
bottiglie di aguardiente; ma soprattutto, ci sono questi quattro ex compagni di scuola di
David che sono eccezionalmente affiatati, e presi uno per uno sono delle macchiette
divertentissime, nonostante nessuno sia stupido, anzi. Mi ci vuole un certo impegno, ma
mi concentro e cerco di star dietro ai discorsi, di inserirmi, di dire la mia, di capire.
Inoltre, mi dedico all'aguardiente così tanto da sembrare un colombiano. Il risultato è
duplice. Primo, riusciamo a coprire un ventaglio enorme di argomenti, dalla politica a
Juan Pablo Montoya, dalla guerriglia a Shakira, dalle prossime elezioni alla necessità di
una istruzione per tutti, dal calcio colombiano a quello italiano. Secondo, riesco a
passare la seconda parte della serata al bagno, vomitando tutto quello che ho ingerito,
liquido e solido. Troppa confidenza con l'aguardiente. Si passa al rum, ne bevo appena
un po' per rifarmi la bocca, ma ormai ho preso il camion in pieno e mi è passato sopra.
Salutiamo i ragazzi e ce ne torniamo verso l'hostel, David ci accompagna gentilissimo
come sempre. Di passaggio, ci mostra dove abita: un palazzo piuttosto bello, un
quartiere niente male. Appena all'hostel, saluto e ringrazio David, e mi scuso per il
contrattempo, salgo le scale e mi fiondo a letto, dormo come un sasso. Finalmente una
borrachera come si deve, cazzo! I'm going back to Cali, forse anche se non c'ero mai
stato, si ricorderanno di me!
Holiday in Colombia 25
29/1/2006 Popayan e la pastilla contra la resaca
Mi sveglio tardi, e mi sembra di stare bene. Scendo dal letto e d’improvviso ho come
l’impressione che gli Stomp o i Tambours du Bronx tutti insieme stiano usando la mia
testa come percussione aggiuntiva. Per giunta, accendo il cellulare e mi arriva la notizia
che il Livorno ha perso 3 a 0 all’Olimpico contro la Roma; siamo in crisi. Io e il Livorno.
Chiedo aiuto a Juli; già in Argentina, da lei, dai suoi amici e dai suoi fratelli, avevo
sentito parlare di alcuni prodotti per la resaca, il termine castigliano per definire il dopo
sbornia. E so che Juli ne ha con sè. Ne faccio uso: si chiama Alikal, e mi riprometto di
sincerarmi se esiste in Italia. Ci eravamo già convinti, ma decidiamo di andarcene da
Cali e di viaggiare immediatamente per Popayan. Inutile girarci intorno, oggi è il 29
gennaio, e il 4 febbraio abbiamo il volo di ritorno da Bogotà a Buenos Aires. Dobbiamo
stringere i tempi e vedere il più possibile. Ci prepariamo velocemente, saldiamo il conto
dell’hostel, usciamo, fermiamo un taxi e ci facciamo portare al terminal degli autobus.
Ci sono diverse opzioni per Popayan, alla fine Juli contrattando duramente strappa un
ottimo prezzo per viaggiare su un mini bus da sette posti. Si parte a mezzogiorno e
dovremo farcela ad essere a Popayan prima del tramonto. Abbiamo il tempo per cercare
un internet point dentro il terminal e scaricare la posta. Ci ripresentiamo al bus con
qualche minuto di anticipo, anche se non ce ne sarebbe stato bisogno, alla fine
partiremo con quasi mezz’ora di ritardo, si attende che i posti si esauriscano. Inganno
l’attesa fissando, da sotto le lenti scure, la ragazza di un tipo che sta per salire sul
nostro bus. Lui porta la maglia del Milan, lei porta il top del Naciónal di Medellín
biancoverde, e se fosse dieci centimetri più alta potrebbe fare tranquillamente la
modella. Sono entrambi mulatti, così come la bambina, sui quattro anni. L’autista
sembra uscito da un western di Sergio Leone, ma è vestito in divisa da autista (pantaloni
neri e camicia bianca) e guida aggressivo (non è un’eccezione, ma forse l’avrete capito).
Ci mettiamo un po’ ad uscire dalla città, c’è anche da fare rifornimento. Dopo, la strada
scorre piuttosto bene, è una delle migliori, piuttosto larga, senza moltissime salite. Ce
la caviamo in poche ore, quasi non ci siamo più abituati a viaggi corti. Il terminal di
Popayan è proporzionato alla cittadina, piuttosto piccola, telefoniamo all’hostel che ci
ispira, prenotiamo due posti letto, poi tentiamo di farci dire dove siamo usando la
mappa della guida, ma ci rendiamo conto che o non ce lo vogliono dire, o nessuno lo sa
(propendiamo più per quest'ultima ipotesi). Un po’ scocciati, prendiamo un taxi, e il
percorso che facciamo per arrivare all’hostel ci sembra davvero breve. Tra l’altro,
ricontrollando la mappa, noto che il terminal si vede benissimo, così come l’ubicazione
dell’hostel dove siamo alloggiati, e si vede anche a occhio che il percorso è breve.
Buono a sapersi per quando ripartiremo. Ci sistemiamo, l’hostel è economico, ma anche
questo no tiene onda, inoltre per usare la cucina devi pagare un extra. Usciamo
immediatamente, le tre del pomeriggio passate da poco, ne approfittiamo, siamo già
quasi convinti di andarcene domani da qui (e siamo appena arrivati), a meno che non
troviamo qualche agenzia che propone escursioni interessanti nei dintorni.
Sarà perché è domenica, sarà che siamo al sud, sarà che la città è piccola, fatto sta che
giriamo a vuoto per almeno un’ora senza trovare un posto dove si possa mangiare, e fate
conto che siamo praticamente digiuni da ieri. Io anche di più, visto la fine che ha fatto il
contenuto del mio stomaco ieri notte. Gira che ti rigira, troviamo qualcosa, e ci sembra
fantastico. Alla tele una rete colombiana manda in onda un programma tipo TRL di mtv,
ma ancora peggio, riconosco il palazzo di Bogotá dove ha sede questa rete. A pancia
piena abbiamo tutto il tempo di completare il giro completo di Popayan, ovviamente
completamente coloniale. Qualche palazzo degno di uno sguardo, il bianco che la fa da
padrone (scoprirò poi che viene chiamata anche la ciudad blanca, non per niente), il
“monumento” più importante si trova però alle porte della cittadina, e a dire la verità
sono due, una coppia di ponti costruiti in momenti diversi; il più vecchio è chiamato
puente del humilladero, perché era talmente ripido che chi lo attraversava non poteva
evitare di abbassare la testa. Quello grande, costruito su 12 arcate, fu progettato da un
ingegnere italiano, un frate francescano nato come Giovanni Beretti vicino a Novara, poi
diventato Serafín Beretti. Oggettivamente, a chi è nato e cresciuto in Italia, non è che
queste cose facciano venire la pelle d’oca, ma bisogna accettare che la storia del Sud
America è ripartita praticamente da zero a partire dal 1492. E un po’ è anche colpa
nostra. Continuiamo il giro di Popayan, anche se ho l’impressione di ripassare in posti già
visti, e incontriamo un inglese già visto durante uno spostamento in bus, poi di sfuggita
al Palm Tree a Medellín. Scambiamo un saluto, e scopriamo che è nel nostro stesso
hostel. Appena ci lascia, concordiamo sul fatto che ha qualcosa che non va. Difficile da
descrivere, ma osservandolo giù sul bus ne avevo avuto l’impressione. Tra le altre cose,
balbetta, ma questo non significherebbe granché. Però ti dà l’idea di essere un tipo
talmente dimesso, che potrebbe essere un serial killer. Tramonta il sole, rientriamo
all’hostel per una doccia e un po’ di riposo. Ho il letto accanto all'inglese, e mi accorgo
che fa anche dei versi stranissimi quando tenta di dormire. Alle otto passate, devo
svegliare Juli che si era addormentata come un sasso. Usciamo per mangiare un po',
sperando di trovare qualcosa aperto. Troviamo una pizzeria, e, come potrete supporre,
è vuota. Però, dopo 5 minuti che stiamo dentro, entrano due signore. Magari
aspettavano che ci fosse qualcuno. Non abbiamo molta fame (oggi abbiamo pranzato
tardi), quindi ci mangiamo una pizza (grande) in due, solo che, nonostante ci sia scritto
sul menù, non hanno birra. Strano. Ci accontentiamo di una coca cola e una sprite.
Terminiamo chiacchierando allegramente, si cominciano a tirare le somme del viaggio in
definitiva, usciamo in cerca di una birra. Impresa titanica, e oggettivamente impossibile.
In giro, pochissima gente. Tutto chiuso, completamente. Dopo aver fatto come i
metronotte, girando a vuoto per un po’, e aver verificato che la sola musica che si sente
in giro era quella proveniente dalla casa di uno che provava uno strumento, e che non
c’è verso di bere non solo una birra, ma nemmeno una coca cola, ci sediamo su una
panchina nella piazza principale, e mentre mi fumo l’ultima sigaretta, pianifichiamo
velocemente il programma del giorno seguente, poi riprendiamo i nostri discorsi sui
massimi sistemi. Visto che andremo a letto presto, ci sveglieremo presto, raccoglieremo
i nostri pochi bagagli, andremo al terminal a piedi, prenderemo l’autobus più
conveniente e ce ne andremo a San Agustín. Perfetto. Qui, ormai, non c’è nient’altro da
vedere. Però ci siamo stati.
Penso a questa mattina, e a come stavo ieri sera. Mi sembrano passati anni luce, e
invece non sono passate neppure 24 ore.
Holiday in Colombia 26
30/1/2006 Stairway to heaven?
Come previsto, ci svegliamo presto, ci prepariamo e, a piedi, ci dirigiamo verso il
terminal. Il sole picchia già forte, meno male che ho i pantaloni corti. Nonostante i
bagagli tutti in spalla, ce la caviamo egregiamente, siamo allegri, come sempre quando
c’è da viaggiare per una meta sconosciuta, curiosi e carichi. Giriamo un paio di sportelli
di compagnie di trasporti, e come sempre, lo so che sembra incredibile, Juli strappa un
prezzo di almeno 3000 pesos più basso di quello sparato inizialmente. C’è però una cosa
che non è chiarissima: il bus ci lascerà al cruce por San Agustín, all’incrocio, e non al
paese, perché la destinazione è Pitalito. Da lì dovremo prendere una jeep, che ci costa
poco, ci assicurano che passano ogni 15 minuti. Speriamo bene. Quanto tempo di
viaggio? 3 ore, massimo 4. Non ci crediamo per niente al mondo. Si parte alle 9.30.
Quando vediamo il bus, capiamo il prezzo basso, ma non ci possiamo esimere dal farci
fare una foto davanti al bus. E’ una cosa da turisti, è vero, e non da viaggiatori, ma il
bus è talmente vecchio, traballante, di quelli che non ti ispirano fiducia, che sentiamo
che, in qualche modo, ci divertiremo. Si parte, posti vuoti, e sul bus tutta gente locale,
facce indie, pochissimi bianchi. La strada che percorreremo è sconsigliatissima da tutte
le guide, Lonely Planet compresa. Vi si legge che spesso la guerriglia fermerebbe gli
autobus. Io e Juli ci scherziamo sopra, so per certo che lei non ha nessun timore, e
credetemi, forse per la prima volta nella mia vita, in una situazione del genere, non ne
ho neppure io. L’aiutante dell’autista è un ometto che secondo me ogni fotografo cool
vorrebbe fotografare per una foto artistica. Todo un personaje direbbero in Argentina.
Dopo pochi minuti inizia la salita e finisce l’asfalto. Dalla scatola del cambio esce un
fumo incredibile, e finalmente capisco perché nei posti a sedere più vicini alla
postazione di guida hanno tutti qualcosa davanti alla bocca, chi un fazzoletto, chi si alza
il maglione. Non riesco ad essere preoccupato, e la cosa mi diverte da matti. Sosta
tecnica, e l’ometto, insieme all’autista, ripara il guasto, il fumo non esce più.
Fantastico. Avrete capito che il bus è in assoluto il peggiore che abbiamo preso in
Colombia; di quelli col muso allungato, old style, seggiolini decrepiti, impossibili da
reclinare, sfoderati, che scricchiolano, finestrini che non si chiudono, cose così. Man
mano che procediamo, si sale sempre di più, e la strada diventa una distesa di sassi che
spuntano da ogni dove, la velocità sarà al massimo di 40 all’ora. E poi, una sensazione
indefinibile: il cielo si sta avvicinando, letteralmente. Stiamo salendo parecchio, il
tempo peggiora ed inizia una pioggerellina impalpabile ma persistente, non che sia una
cosa particolarmente preoccupante, qui il tempo cambia ogni cinque minuti, e la
temperatura si fa man mano più fredda. Mi metto la felpa, che durante i viaggi in bus mi
porto sempre dietro, ma adesso i pantaloni corti non sono più una goduria come questa
mattina a Popayan sotto il sole mattutino. Guardando dal finestrino ci rendiamo conto
della pericolosità della strada, passaggi in curve strettissime sopra strapiombi altissimi.
Si continua a salire, e i salti sulle poltroncine aumentano in maniera vertiginosa, fino a
diventare una costante. Poco prima della metà del percorso, durante un momento nel
quale la nebbia, o le nuvole, si diradano, guardiamo dal finestrino e rimaniamo basiti: da
una parte e dall’altra, due vallate profonde e bellissime. Ho il fiato che mi si strozza in
gola dalla bellezza, mi assale una sorta di sindrome di Stendhal. Dopo tre ore abbondanti
di viaggio, un rapido appello dell’aiutante dell’autista, del quale mi sfugge la
traduzione, precede una fermata. Juli mi spiega che ha chiesto se i passeggeri si
volevano fermare qui o più tardi per mangiare, e quasi tutti hanno risposto di fermarsi
subito. Scendo e chiedo all’ometto se posso prendere una cosa dal bagaglio, che è
sistemato nel vano portabagagli. ¡Claro señor! È la risposta. Prendo i pantaloni lunghi, e
vado in bagno a cambiarmi: fa davvero freddo e sta continuando a piovigginare, quasi
nevischio. Ci sediamo e mangiamo quel che c’è, le ragazzine che servono ai tavoli hanno
le trecce da india ma i pantaloni a vita bassa. Non vorrei dire una cazzata, ma siamo
molto alti. Controllerò poi su una carta, ma le montagne qui intorno superano i 4000
metri. Siamo allegri, e nonostante il viaggio che è tutto fuorché comodo, siamo contenti
di esserci nel mezzo. Salendo, il bus si è prima riempito, di gente del luogo che
sembrava arrivare da qualche lavoro, sporca e sorridente, poi svuotato di nuovo. In
pratica, siamo rimasti quelli che eravamo al terminal. Il pranzo è il solito piatto di riso,
fagioli, patate lesse e patacones, meglio di niente. Si riparte, e lungo la strada case
isolate, piene di bambini, e un sacco di militari. I salti sul seggiolino ci accompagnano,
sembra di stare a sedere su un martello pneumatico. Juli prova a dormire sul seggiolino
in fondo, quello lungo, ma cade sul pavimento insieme al “cuscino”. Si rimette a sedere,
e mentre le dico che questo viaggio per me è come un massaggio alla prostata
prolungato, lei non la smette più di ridere e di tenersi le mani sul seno, perché le scosse
glielo muovono fino a farle male. Si continua così per almeno altre due ore abbondanti,
e ridere è l’unica risorsa concreta. Man mano che si scende, si rivede il sole, la
temperatura aumenta, il paesaggio rimane splendido. Do un’occhiata alla cartina che mi
ha regalato Carlito prima di separarci a Salento, piuttosto dettagliata, e, come mi era
sembrato prima, la strada che abbiamo fatto non è segnata. Arriviamo ad attraversare
un paesino, dove scendono alcune persone, e dalle insegne dei negozi riesco a capire
che siamo a Isnos. Controllo la carta: siamo molto vicini. Infatti, dopo poco, l’aiutante,
che prima avevo pregato di avvertirci quando saremmo arrivati al cruce, ci mette in
preallarme. Scendono anche due ragazzi che sedevano proprio davanti a noi, più una
ragazza. Chiediamo quanto manca, e se qualcuno di loro aveva già fatto quel viaggio,
uno ci dice di si, visto che lui è di qui, e che è sempre così. Manca poco. Passa una jeep,
saliamo nel cassone coperto, e in meno di un quarto d’ora siamo a San Agustín. Sono le
16,30.
Per prima cosa, nonostante una specie di assalto da parte di gente che vuol venderci
posti per dormire, escursioni e cose così, ci fermiamo davanti all’unica agenzia di
trasporti (ci siamo informati dal ragazzo del luogo) e domandiamo se esiste un passaggio
diretto per Bogotà, quanto costa, gli orari, quanto impiega ad arrivare. Tutti i giorni,
uno al mattino, l’altro alle 18,30 del pomeriggio. Non costa molto, tempo stimato 9 ore.
Con nove ore arriveremmo alle 3,30 del mattino, mettiamoci uno scarto anche grande,
abbiamo l’aereo alle 18 del pomeriggio, ci stiamo dentro. Compriamo due biglietti per il
giorno 2 febbraio, e Juli non contratta quasi per niente. Abbiamo pensato che, pieni, ci
rimangono solo due giorni, e le guide dicono che questo posto è pieno di luoghi
interessanti nei dintorni. Sarà la nostra ultima tappa, deciso. Domandiamo un’ultima
cortesia alla signora dell’agenzia di trasporti, come arrivare all’hostel La casa de
François. Ci spiega la strada, ci dice che dobbiamo salire un po’. Non capiamo granché
bene la spiegazione, tanto è vero che dobbiamo chiedere altre due volte. Iniziamo a
salire, e con i bagagli, dopo quel viaggio, inizio a lamentarmi. Mi domando se dobbiamo
proprio andare a questo hotel, e chiaramente, la domanda è per Juli, che si altera
leggermente, è quello che pare più economico e ce l’hanno consigliato. Incrociamo una
ragazza a cavallo, scende in paese, insieme a lei sul cavallo una bambina. La ragazza è
carina, non sembra colombiana, ci sorride, sembra un cartone animato giapponese.
Secondo me è François. La salita esce dal paese, si inoltra in aperta campagna per
alcune centinaia di metri, continuo la mia guerra psicologica riflettendo ad alta voce su
come sarà fare questa strada ogni volta, e magari di notte. Ci perdiamo ad un bivio,
dove scompaiono le indicazioni, ma fortunatamente c’è una casa dopo pochi metri,
chiediamo ai bambini nel cortile e ci dicono che dobbiamo tornare poco indietro e
prendere per l’altra strada. Arriviamo dopo 50 metri ancora in salita. Il posto è bello,
ma è vuoto. Un giardino grande, un recinto per i cavalli, una enorme pila per lavare, una
veranda in legno, colori accesi, ornamenti strani e particolarissimi. Sotto la veranda, a
sedere ad un tavolino basso dove al posto delle sedie ci sono dei tronchi d’albero
tagliati, Andrea, la ragazza argentina, Platypus a Bogotá, poi Plantation a Salento.
Comincio a sospettare che in Colombia siamo al massimo gli stessi 20 viaggiatori e
percorriamo le stesse rotte. Offre immediatamente un mate a Juli, ci dice che la
ragazza è scesa in paese a cavallo con la figlia. Bingo! Facciamo a lei le domande di rito,
e Andrea si comporta come Tamil al Plantation: si ci sono posti letto liberi, oltre a lei
c’è solo una coppia di francesi che se ne vanno oggi, e i prezzi si aggirano intorno ai
10mila pesos, ma lei che è in tenda ne paga 5mila. A Juli si illuminano gli occhi, ma non
ha la tenda. Aspettiamo la gestrice, così chiariamo meglio. Le ragazze conversano
vorticosamente come vecchie amiche, io intervengo ogni tanto; e pensare che io Andrea
l’ho riconosciuta subito, anche a Salento, mentre Juli no, non è fisionomista come me;
ma del resto io sono campione del mondo, in fisionomia. La chiacchierata va avanti un
bel po’, ed è anche interessante. Come faccio sempre, ascolto, e, da buon studioso di
castigliano, faccio tesoro delle sostanziali differenze tra quello che parlano gli argentini
e quello dei colombiani. Andrea, pur essendo originaria di Buenos Aires, non mi pare
abbia il tipico accento di lì; domando quando usano termini a me sconosciuti, per
impararne sempre di nuovi. Andrea studiava medicina, stava già facendo il tirocinio in
un ospedale, viveva da sola, ma ad un certo punto non ce la faceva più, ha venduto casa
e mobili ed è partita; fin quando avrà soldi starà in giro, poi tornerà in patria e vedrà
cosa fare. E’ bionda con occhi chiari, fisico atletico, fuma di continuo, sorride sempre.
Quando la notai a Bogotá ero convinto fosse nordeuropea, e glielo dissi anche. E’
spigliata e diretta, divertente e di compagnia. Ogni tanto mi guardo intorno, e insieme
alle ragazze conveniamo che il posto è davvero paradisiaco. Si sente solo il rumore degli
animali. Rifletto sul fatto che, se fosse stato per me, avremmo rinunciato a metà salita
e avremmo cercato un alloggio più vicino al paese. Avrei sbagliato, ha fatto bene Juli a
non sentire ragioni. Devo imparare a soffrire, ancora di più.
Dopo almeno un’ora, forse due, rientra Mariana, la ragazza che gestisce l’hostel, con sua
figlia Sara, di 6 anni. Quando mi sorride, trovo un altro motivo per dar ragione alla
tenacia di Juli, al suo insistere per salire fin quassù. Mariana è castana, capelli lunghi
riccioluti, alta, parla con una voce soffice e vellutata, veste hippy, è sbadata, di viso
somiglia a Bjork versione cartone animato giapponese, è molto, molto bella, ed ha un
sorriso che ti stende. La figlia Sara è un capolavoro della natura. Beh, ci credo. Ci
accoglie come se ci aspettasse da sempre, e mi rendo conto che la mia sensazione era
giusta: era la ragazza che abbiamo incrociato salendo, quella che scendeva a cavallo
sorridendo. Non crederesti mai che è colombiana, forse per i lineamenti del viso; ma,
come dimostra la mia iniziale “catalogazione” di Andrea, il Sud America è una fucina di
sorprese su questo tema. Parliamo rapidamente di soldi: 10mila pesos per la camera,
5mila se si dorme in tenda. Juli vorrebbe dormire in tenda, ma non ce l’ha. Mariana dice
che forse ne ha una e gliela affitterebbe a una sciocchezza, ma Andrea si offre di
ospitare Juli nella sua tenda, anche se è piccola Juli dovrebbe entrarci. Perfetto, io
prendo una camera e ci sistemo la mia roba. E’ sinceramente bella, il letto è grande, di
bambù, non il massimo ma sicuramente uno dei migliori materassi che ho trovato in
Colombia, la stanza è nello stesso stile dell’hostel, colori misti e vivi, mattoni a vista,
mobili di bambù, luce ma anche una candela, abbastanza pulita. Altre avvertenze e
particolarità della Casa di François: l’acqua calda c’è dalle 18 alle 23, la doccia con
l’acqua calda è situata accanto alla veranda esterna alla cucina, salendo tre scalini, sul
viottolo che va allo spiazzo dove le ragazze hanno la tenda e al recinto dei cavalli.
Andando dalla parte opposta si va ai bungalow. La mia camera è praticamente accanto
alla cucina, ma vi si accede dalla parte opposta; all’esterno della camera una tettoia
che dà sulla vallata sottostante, dove sta anche San Agustín. Nel mezzo della veranda
principale c’è un’altra camera. Al limite della veranda, c’è la grande pila per lavare,
che già vi ho descritto, e accanto alla pila c’è una cabina dove c’è una doccia fredda,
accanto ancora il bagno; porte ridotte, se sto in piedi vedo fuori. Non c’è riservatezza,
ma non c’è neppure pudore in giro. Per finire la descrizione, vi dirò che sopra la cucina
e la grande veranda, c’è una casa, dove vivono Mariana e Sara; le scale per arrivarci
sono sul fondo della cucina.
Mi faccio una doccia, e di solito dopo la doccia ci si rilassa, ma in questa situazione non
ce n’è bisogno: siamo tutti estremamente rilassati. Cominciamo a pensare alla cena, ma
è tardi e non abbiamo nessuna voglia di scendere in paese e risalire; facciamo melina
pensando a cosa ci rimane da mangiare, niente, ma in effetti vogliamo impietosire
Andrea e Mariana che stanno già preparando. Finisce che, promettendo di fare noi la
spesa per tutti domani sera, ma soprattutto che cucinerò spaghetti all’indomani
(soprattutto Mariana si dimostra entusiasta all’idea), rimediamo una cena tutta verdura,
con Mariana stessa che si dà da fare. Per sdebitarmi, io cucino un huevo revuelto (un
semplice uovo sbattuto con un po' di latte) per Sara, e ne vado piuttosto fiero. Il menù
della Bjork hippy e colombiana è spettacolare; di primo, se così lo vogliamo chiamare,
c’è una crema di yuca, un frutto tipo zucca che in Italia naturalmente non si trova e non
cresce, che taglia a pezzi grossi con buccia e tutto, e trita nel frullatore, dopo di che lo
riscalda. A riscaldamento avvenuto, dentro vengono poste cipolle bianche solo
leggermente soffritte in padella, ma soprattutto maní (semplici arachidi) tostato in
padella e finemente sbriciolato nel pestello (dalle mie mani sopraffine, appena termino
di cucinare per Sara). Fidatevi, questa crema, sarà perché idea di questa semidea, è e
rimarrà una delle cose più buone e fighe che ho mangiato nella mia vita. Di secondo ci
sono carote e cavolo cotti al vapore più un purè di patate rozzo (patate lessate con
buccia e immediatamente dopo semplicemente schiacciate), ma buono. C’è anche del
pane, cosa particolarmente strana per una comida colombiana, e da bere, last but not
least, c’è acqua di coca, ottenuta bollendo in acqua foglie di coca staccate dall’albero lì
vicino.
Si mangia al tavolo alto e grande sotto la veranda, contrapposto a quello basso con i
pezzi di tronco per seduta, a lume di alcune candele, la notte è gradevole e la
chiacchiera fluida. Dire che stiamo bene, probabilmente, è davvero riduttivo. C’è il
sorriso su ogni bocca stasera. Aiuto Mariana a rigovernare, le faccio domande così come
lei le fa a me, l’hostel non è suo ma ci lavora da qualche anno, tempo fa si è presa un
anno sabbatico ed ha viaggiato verso il Perù con Sara, un’esperienza a metà tra il
mistico e l’incosciente. Mi ammalia, lo ammetterò più tardi a me stesso, col suo sorriso
e la sua voce da bambina adulta. Pare ci sia feeling, e qualche giorno più tardi scoprirò
che non ero il solo a pensarlo. Al tavolo riprendiamo a parlare in quattro, e scendiamo
nei particolari delle dinamiche interne alla Colombia, ai rapporti del popolo umile con la
guerriglia, quando arriva un personaggio unico. Si chiama Jano, è peruviano ma da quasi
20 anni abita qui, è bianco, avrà una cinquantina d’anni, gli mancano parecchi denti, è
stempiato ma ha i capelli lunghi, ha un fisico secco e nervoso e una parlantina
affascinante. Mariana me ne aveva parlato come di un buonissimo amico, che le ha
sempre dato una mano, anche nella gestione dell’hostel. Jano si impossessa della serata
con la semplicità del marijuanero che è, e ci porta dentro la sua filosofia fatta di
marxismo radicale e di anti-materialismo. E’ esaltato dal discorso di Hugo Chavez di
alcuni giorni prima (vedi Intermezzo politico), e ci spiega come sta agendo il presidente
venezuelano, come agisce la guerriglia in Colombia, le dinamiche della piccola San
Agustín e tante, tantissime altre storie. E’ un piacere starlo a sentire, ma forse
dovrebbe lasciar parlare un po’ anche gli altri. Si fa tardi, o almeno così ci pare, e nel
frattempo Mariana è sparita di sopra. Jano chiede scusa e sale anche lui. Siamo stremati
dalla giornata, e me ne rendo contro solo adesso. Ci auguriamo reciprocamente la
buonanotte con grandi sorrisi, dovuti, tra le altre cose, anche al fiume di parole di Jano.
La mia camera è accogliente, è moderna ma al tempo stesso sa di vecchia casa di
famiglia. Prendo il quaderno e la penna, scrivo qualche appunto sulla giornata, per la
prima volta non sono solo due o tre righe. Spengo la luce e accendo la candela, per
vedere l’effetto che fa. Mi piace, ma dopo poco spengo anche quella ed ascolto i rumori
della notte, ma anche gli scricchiolii del pavimento sopra alla mia testa. Mi ritrovo a
fantasticare su cartoni animati giapponesi sotto forma di donna, che entrano dalla porta
della camera e vengono a farmi compagnia nel letto di bambù. Penso vagamente che
sono a migliaia di chilometri da casa, dagli amici e dagli affetti, anni luce dal lavoro.
Penso che forse questo è il paradiso. Chissà.
Holiday in Colombia 27
31/1/2006 El amor no tiene precio
Il letto di bambù non è male, però scricchiola in modo assurdo ad ogni mio minimo
movimento. Alcune cose che avevo dimenticato descrivendo la Casa di François: i due
gattini, piccolissimi e giocherelloni, che quando montano sul tavolo, soprattutto quando
c’è roba da mangiare in cerca di cibo, Jano respinge con una botta dell’indice caricato a
molla col pollice corrispondente, dritta sul naso, si chiamano Lluvia (pioggia) e Viento
(traduzione superflua). Il cane non ricordo come si chiama, ma quando tossisce sembra
umano, così come il cavallo di Mariana. Prima ancora di uscire dalla mia camera, noto
che anche Sara ha la tosse. Per finire il quadro, in mattinata realizzo che Mariana non si
sente bene. In un’altra situazione mi sarei insospettito. Invece Jano è già al lavoro da un
po’, esco con le palpebre ancora incollate insieme e lo vedo trasportare delle fascine. Mi
rendo conto che ha un sorriso un po’ da matto. Le ragazze sono già sveglie, del resto
dormono in tenda e non stanno larghissime. Facciamo colazione con quello che c’è,
davvero poco, questa è una cosa della quale dovremo ricordarci prima di risalire, fare
una buona spesa. Decidiamo cosa fare di questa bella giornata, e la scelta cade sulla
visita al Parque arqueológico de San Agustín. Ci sono circa 5 chilometri di distanza, e
naturalmente ce li facciamo a piedi; tra l’altro, il percorso è quasi tutto asfaltato, in
leggera salita all’andata. La giornata, come detto, è ottima, quindi molto calda, il
gruppetto ormai affiatato, quindi si va, dopo aver chiesto qualche sommaria indicazione.
Camminiamo senza fretta, stiamo ancora lasciando il paese e ci fermiamo per strada, le
ragazze mangiano due fette di dolce, io prendo una bottiglietta d’acqua. A metà circa
del cammino ci ferma un tipo sorridente che ci offre un’escursione per i siti archeologici
più lontani a cavallo. Le ragazze contrattano, ma non trovano l’accordo subito; il tipo
dice a noi di pensarci sopra, Juli dice a lui di pensarci sopra e di abbassare l’offerta, ci
vediamo al ritorno. La salita è abbastanza dolce, e arriviamo dopo poco; facciamo il
biglietto ed entriamo, anche se ci mettiamo un po’ a staccarci di dosso un personaggio
che insiste per farci da guida. Juli è un po’ seccata perché sulle guide le pare non ci
siano abbastanza informazioni su questo parco; a me e a Andrea pare che non ci sia
troppo da spiegare. Il parco è ben tenuto, ci sono percorsi ben definiti, prima di ogni
resto c’è un cartello esplicativo, le tombe, i sarcofaghi, le statue, sono protette e ben
visibili. Il tutto rientra in una zona dichiarata nel 1995 patrimonio dell’umanità
dall’UNESCO. Dentro al parco, i luoghi di interesse archeologico sono denominati Las
Mesitas, quattro spianate dove si trovano diverse tombe, statue e sarcofaghi, la Fuente
de Lavapatas, un complesso roccioso che era in origine parte del letto del fiume che
scorre lì di fianco, dove si trovano una grande quantità di incisioni raffiguranti figure
classiche delle civiltà precolombiane, generalmente figure miste umano-animali
(antropozoomorfe), e el Alto de Lavapatas, un complesso simile ad un altare con diverse
statue, situato su un altipiano dominante la zona. C’è poi el Bosque de las Estatuas, un
percorso situato tra l’ingresso, dove si trova anche un piccolo museo, e il parco, che si
estende nel bosco e che dà modo di ammirare ben 35 statue di quel periodo, alcune
veramente impressionanti. Ci facciamo tutto il giro del parco, con buon passo, ma
soffermandoci nei luoghi con i ritrovamenti; la Fuente è piuttosto impressionante, e si
può apprezzare grazie ad una lunga passerella costruitavi sopra, la salita verso el Alto è
dura, ma c’è tutta una scalinata che ti accompagna nel cammino; in alto, complice la
bellissima giornata, ci si riposa, si gode del panorama, si scherza, ci passa all’improvviso
uno sciame d’api vicinissimo, ma fortunatamente o non si accorgono di noi, o hanno
altro per la testa. Strano vederle “allo stato brado”, e non vicino ad un’apicoltura.
Scendiamo, visti tutti i siti ci facciamo il giro del bosco delle statue, scherzando sulle
strane figure rappresentatevi, poi visitiamo il piccolo museo. Fa veramente caldo. Ci
sono pochissimi turisti, e i pochi sono colombiani. Ci riposiamo un poco all’ombra,
all’uscita del museo, e ci rimettiamo in cammino per il ritorno. Allegria diffusa,
chiacchiere a tutto campo. Ritroviamo il tipo dei cavalli, le posizioni rimangono le
stesse, il tutto in estrema cortesia; ci consiglia un posto dove mangiare, economico e
con porzioni abbondanti, dice di dirgli che ci manda lui, ci spiega come trovarlo,
piuttosto semplice, basta proseguire dritto sulla strada che torna a San Agustín. Per i
cavalli, chiederemo a Mariana e soprattutto a Jano, sicuro che ci troveranno qualcosa a
meno. Allunghiamo il passo, perché sono tipo le tre del pomeriggio e ancora non
abbiamo mangiato niente da stamattina, arriviamo in paese e troviamo immediatamente
il Brahma, il posto consigliatoci (più tardi spulciando la Lonely Planet scoprirò che la
consiglia anche lei), e verifichiamo che è tutto vero. Con 3000 pesos (poco più di un
euro) si mangia e si beve con porzioni davvero generose. Una particolarità, che forse non
ho ancora spiegato bene, è che, se ti va bene la bevuta che propone il posto dove mangi
a prezzo fisso, di solito è un succo o una specie di the, puoi berne anche un paio di
bicchieri e non stanno a farti storie, mentre se prendi una birra o una bibita gassata la
paghi extra. Le ragazze si strafogano (come si dice dalle mie parti, usando un classico
francesismo), visto che la comida ejecutiva è, come detto, abbondante (piatto di fagioli,
riso, carne, insalata, uovo, patate, più una entrada fatta da una zuppa), io mi mangio
sandwich al formaggio (enorme) e patate fritte. Sbaglio a prendere una coca cola,
perché il succo che portano compreso nel prezzo è buonissimo. Il Brahma è vuoto
(magari è l’ora), arredato in maniera molto casalinga, e, particolare che mi colpisce, è
aperto sul lato opposto all’entrata che dà sulla strada. Tramite scale si può accedere al
piano superiore, un balcone interno porta a delle stanze, dove evidentemente vivono i
gestori o proprietari. La sala dove ci sono i tavoli, invece, non ha niente sopra, è una
specie di patio. E’ curioso da vedere, se ci pensate bene, almeno per noi. In giro ci sono
una paio di bambine che sembrano fare i compiti. Dopo aver placato i morsi della fame,
ci rilassiamo sempre con le gambe sotto al tavolo, e la nostra attenzione viene
giocoforza attirata dalla televisione, sintonizzata su Canal Caracol, che il pomeriggio
trasmette solo telenovelas. Quella che stiamo guardando adesso è El amor no tiene
precio, ed è talmente ridicola da renderti dipendente. Ce la vediamo tutta, tentando di
capire il passato, e per quello che non capiamo domandiamo alle bambine, tutte prese.
Ci facciamo delle risate assurde.
Dopo praticamente un paio d’ore usciamo e andiamo nell’unico internet point del paese,
il posto è carino, sembra un caffé, la connessione è lentissima ma il prezzo è irrisorio, e
subito dopo facciamo una ricca spesa, al mercato fisso di San Agustín. Stasera cucino io,
e vorrei fare una carbonara vera, con la pancetta (ovviamente non per me), ma
nonostante rischi di vomitare dentro un paio di macellerie (l’odore della carne fresca di
taglio, me ne accorgo ora, mi dà veramente la nausea), non riusciamo a trovarne. Mi
arrangerò con altro, anche se non sarà la stessa cosa. Volevo fare un figurone,
soprattutto con Mariana. Torniamo quindi lentamente verso l’hostel, affrontiamo la
salita con tranquillità, tanto nessuno ci insegue. Appena arriviamo ci rendiamo conto
che non sono ancora le 18, quindi per la doccia calda c’è da aspettare; e allora ci
sediamo e parliamo, le ragazze cominciano col rito del mate, e poi c’è Jano che come
da copione monopolizza la discussione. Oggi il tema si sposta sulla deriva ecologica, il
surriscaldamento globale, il microclima della valle dove si trova San Agustín. Le ragazze
cominciano a mangiare frutta, i dolci che hanno comprato per la colazione…sono delle
vere fogne! Mi metto a giocare con Sara, che poi mi fa salire e mi mostra la sua
cameretta, mi chiede di leggerle dei libri didattici, mi diverto, lei è dolcissima. Quando
scendo, Jano sta già cucinando per lui, Mariana e Sara, mi spiega che Mariana non sta
molto bene, questo mi dispiace, non posso mettere in mostra la mia arte culinaria. Loro
tre si mettono a tavola, arroz y frijoles (riso e fagioli…non so cos’abbia Mariana, il riso
può andar bene, ma i fagioli?) e a quel punto non mi rimane altro che mettermi al
lavoro, per me, Andrea e Juli. Spaghetti con uova e cipolla, una variazione sul tema
della carbonara senza pancetta. Lo so, niente di complesso, ma mi viene proprio bene, e
ne sono orgoglioso. Le ragazze apprezzano, e la cena scivola lentamente nel dopocena
pieno dei soliti discorsi, ai quali partecipa naturalmente Jano, ma solo fino ad un certo
punto. E’ interessante quando ci spiega la sua teoria sui popoli precolombiani che hanno
abitato questa zona: non ci sono insediamenti per vivere, ma qui ci venivano solo per
morire. E’ un bel posto per morire, c’è energia, dice. Non so se credergli, ma la cosa mi
affascina. Rimaniamo noi tre, e andiamo avanti fino a quando ci sembra tardissimo.
Guardiamo un orologio (l’unica che ce l’ha è Andrea): sono le 22!! Domattina speriamo
che Jano ci trovi dei cavalli a meno di quanto ci proponeva il tipo di oggi, in modo da
fare un giro fino ai siti archeologici più lontani. La fine del viaggio si avvicina, e sento
già che mi mancherà tutto questo, i monologhi di Jano, la Casa di François, il sorriso
beffardo della mia compagna di viaggio che ha imparato quasi alla perfezione il boh
italiano e il giochino, tipicamente toscano, del Puppa!
Abbiamo in tasca il passaggio per Bogotá, quindi ci facciamo i conti in tasca sia per non
rimanere senza soldi, sia per non arrivare alla fine con troppi pesos colombiani. Domani
è già febbraio.
Holiday in Colombia 28
1/2/2006 Un buon posto per morire
Niente cavalli, e in effetti non è che Jano sembri così preoccupato di procurarceli; ma
forse è solo il suo modo di essere, molto ma molto rilassato. Inoltre, nella notte ha
piovuto, quindi tutti gli indumenti che abbiamo lavato ieri sono ancora bagnati.
Colazione ricchissima, le ragazze hanno delle mascelle instancabili, e mi coinvolgono,
nonostante non sia un grande mangiatore da colazione. Uova, pane tostato, frutta, tutte
cose per me inaccettabili in condizioni "normali" come partenza della giornata. Ma ormai
me acostumbro. Questa frase, che ho usato moltissime volte in questo viaggio, mi
accompagnerà fin dentro casa, al ritorno, e oltre. Per giorni ho continuato a bloccarmi
prima di dire "dé ci s'abitua" perchè mi veniva da dire me acostumbro.
Decidiamo, dopo il solito briefing, di fare il giro dei siti archeologici che possiamo
raggiungere camminando, ma Andrea non si unisce a noi, non ne ha voglia. Partiamo
quindi io e Juli; il tempo è instabile ma non ci fa paura niente. La camminata
inizialmente non è durissima, non ci sono discese e salite impraticabili e improponibili,
ma il percorso è per una buona parte pieno di fango. La prima parte la facciamo sotto il
sole, raggiungiamo un primo sito con alcune statue molto simili a quelle viste il giorno
precedente nel parco archeologico, scendiamo una ripida discesa che, ovviamente, si
trasforma in una salita abbastanza dura tornando indietro. Seguiamo le rare indicazioni
verso un altro luogo sacro, camminiamo un altro po'. Chiediamo indicazioni ad una
signora che abita in una casa isolata lungo il cammino, la signora ci dice che siamo vicini
al posto che cerchiamo. Ci supera una coppia di turisti a cavallo, ci salutiamo. Poco più
avanti, un paio di cavalli "parcheggiati" chissà da chi. Troviamo dei cartelli, siamo vicini,
il camminamento inizia a scendere. Sotto di noi si apre una vallata impressionante.
Scendiamo ancora, e in un tratto leggermente pianeggiante scorgiamo i cavalli della
coppia che ci ha superato prima. Inizia una scalinata rudimentale completa di
corrimano, altri cartelli ci comunicano che siamo arrivati al luogo sacro denominato La
Cháquira. Scendiamo la scalinata, che circonda una rupe costellata di massi, sui quali si
notano numerosi graffiti. Mi ricordano quelli di Rano Raraku all'isola di Pasqua. Figure
miste uomo/animale. All'apice basso della rupe, ci fermiamo e rimaniamo alcuni minuti
letteralmente senza parole. Complice il cielo sgombro e il sole a picco, la vallata
sottostante e tutto il panorama attorno è realmente mozzafiato. Si sente davvero,
adesso, l'energia della quale parlava Jano. Si comprende la leggenda che vuole questi
luoghi non abitati dalle civiltà precolombiane, bensì scelti per farcisi seppellire. Un
posto bellissimo per morire e per riposare in pace. Sui fianchi delle due valli, altissime e
strette cascate di acqua incontaminata si fanno strada tra il verde abbarbicato agli stessi
fianchi. Juli uno degli ultimissimi giorni mi dirà "una cosa he aprendido en Colombia:
como es el verdadero color verde"; non credo serva tradurre. In basso, sul fondo della
valle, il Rio Magdalena scorre tranquillo ma imponente, e anche se non è un grande
fiume fa la sua porca figura. Non c'è niente che va veloce. Niente. Si capiscono molte
cose.
Risaliamo ancora intontiti, rivediamo la coppia dei cavalli, sono seduti sulle rocce.
Guardo verso la mia sinistra, sul fianco della montagna dalla quale siamo venuti un
contadino sta lavorando un appezzamento di terra assolutamente obliquo. Dev'essere il
proprietario dei cavalli parcheggiati sul cammino, oltre ai due della coppia. Non
abbiamo acqua con noi, oggi siamo stati frettolosi e poco previdenti, la salita di ritorno
e il sole ci inaridiscono la gola. Ripassiamo davanti alla casa isolata e chiediamo un po'
d'acqua alla signora. Nessun problema, ce la offre. Le chiediamo anche qualche
indicazione per raggiungere il prossimo sito. Ripartiamo, ancora fango, arriviamo
all'altezza di una fattoria, siamo costretti a scavalcare diversi recinti di filo spinato per
evitare dei tratti di strada completamente pieni di fango, quindi per noi impraticabili.
Arriviamo di nuovo alla strada asfaltata, incrociamo un tipo che ci spiega come arrivare
ai siti che vorremmo raggiungere; ci dice che prendendo una scorciatoia passeremo
davanti al suo ristorante. Proseguiamo. Troviamo la deviazione indicataci, si sale, il sole
lentamente viene coperto dalle nuvole. Ci fermiamo a chiacchierare con due persone,
uno sta curando il suo pezzo di terra coltivato, l'altro gli sta comprando della verdura.
Cerchiamo acqua, il compratore ci dice che poco più su ha un posto dove la vende, un
piccolo bar. Sale con noi, ci fa domande, noi pure, sorride. Il suo bar è in legno, è poco
più che una casa con una stanza un po' più grande del solito con una grande veranda
davanti, ha due figlie, beviamo dell'acqua gassata, ha solo quella. Paghiamo, ci rinfresca
la strada che dobbiamo fare, salutiamo tutti e ripartiamo. Si sale e si scende ma
piuttosto dolcemente, scherziamo, passa il tempo e la fatica non è troppa. C'è meno
fango. Troviamo solo un paio di case lungo la strada, che è sterrata. Arriviamo dopo un
bel po' al sito che cercavamo. Ci sono un paio di tettoie che proteggono due agglomerati
di statue, distanti tra loro mezzo chilometro, nel mezzo una specie di rifugio in legno. In
lontananza rivediamo la coppia a cavallo, stanno cucinando, credo, hanno acceso un
fuoco. Mentre stiamo osservando le statue del sito più in alto inizia a piovere. Ci
ripariamo sotto la tettoia di questa specie di rifugio, aspettiamo che spiova. Il cielo
sembra non promettere niente di buono. Juli si assopisce, io vedo che sulla porta di
legno di questa specie di casa disabitata ci sono un sacco di scritte e non resisto: prendo
la penna nella tracolla e scrivo un bel PISAMERDA. Juli mi sgrida un po', ma trattandosi
di quella scritta non infierisce più di tanto. Riprendiamo a camminare, torniamo sui
nostri passi e ogni tanto si rimette a piovere. Arriviamo ad una specie di chiosco dove
dovremmo chiedere le indicazioni per una scorciatoia che ci permetterebbe di
risparmiare tempo e strada. Il chiosco è aperto, c'è da bere, ma non c'è nessuno. C'è
però un cane sul retro. Juli chiama, nessuno risponde, si avventura in un viottolo che si
apre subito dietro il chiosco e il cane si fa ringhiante e la blocca, meno male è legato.
Non so cosa fare, ma è legato e non mi preoccupo più di tanto. Arriva una signora, e ci
indica un altro viottolo. Lo prendiamo ma non siamo molto convinti. Si scende
abbastanza ripidi, fango, erba scivolosa; arriviamo nei pressi di un'altra casa abitata, un
cane abbaia (un altro), la padrona ci urla di non aver paura. Chiediamo il permesso di
entrare nella proprietà, accordato. Una donna, sua figlia grande e un piccolo di pochi
anni, scherziamo un po', ci siamo incrociati più a valle, io mi ricordo e anche loro. Ci
mostrano la strada, scendiamo ancora. Erba alta, fango, vacche al pascolo, grosse merde
da scansare. Pioggerellina fina fina. Si cammina un sacco (e una sporta, dicevano i
vecchi). Arrivo stremato al ricongiungimento con la strada principale, e dobbiamo fare
un salto di alcuni metri, cado, mi innervosisco, inizio a lamentarmi. Juli vuole proseguire
per un altro sito, io tornerei indietro, siamo bagnati, continua a piovigginare, ho i
pantaloni strappati, sono stanco, abbiamo visto abbastanza. Juli si innervosisce e dice di
tornare indietro, io mi pento, lei non vuole sentire più ragioni. Incrociamo una vecchia
signora che ci dice che il posto che cerchiamo è vicino, sorrido amaro. Torniamo
indietro. Mi spiace che Juli si sia innervosita, però tornare indietro non è una brutta
idea, sono stanco. Camminiamo per un po'. Iniziano a passare delle macchine, Juli riesce
dopo alcuni tentativi a fermarne una, un pick up che sul cassone porta già una signora e
un tipo storpio e incapace di parlare, ma che sorride e fa dei gesti. Saliamo e
ringraziamo. Pioviggina ancora. Ci rendiamo conto di aver fatto un sacco di strada,
viaggiamo un po' sul cassone del pick up. Ad un bivio l'infelice chiede di scendere come
sa fare lui, lo aiuto, si avvia zigzagando e sorreggendosi sul suo bastone. Ancora strada,
riconosciamo l'incrocio tra la strada asfaltata e quella sterrata vicino all'hostel e
chiediamo di scendere. Salutiamo e ringraziamo. Ultimi metri. Arriviamo alla Casa di
François, Andrea è lì e anche la signora che fa le pulizie. Ci sembra tardissimo: e invece
sono le tre del pomeriggio. Sono fradicio, ma vista l'ora, decidiamo di scendere in paese
e di pranzare, e magari di fare un po' di spesa. Andiamo a provare l'altro ristorante che
ci dicono a buon mercato, La rana verde. Comida ejecutiva a 3500 pesos, 500 in più che
al Brahma, con un succo delizioso da bere, il posto è una specie di corridoio largo dove
sono i tavoli, che poi si slarga all'altezza della cucina, aperto dalla parte opposta
all'entrata che è sulla strada principale del paese. Televisore in bella posta, la nostra
telenovela preferita che è appena cominciata. Mangiamo a più non posso e ci divertiamo
guardando e commentando, ci sono anche altri commensali e il personale del posto
interessatissimo, ovviamente. Tutti in ansia per le sorti dei protagonisti. Situazione
irreale, ma anche noi ci facciamo prendere. Restiamo un bel po', poi paghiamo,
ringraziamo, salutiamo, usciamo a bighellonare per le strade e facciamo la spesa.
Risaliamo stancamente all'hostel di buon umore. C'è un nuovo ospite, Pachi, francese dei
paesi baschi, simpatico; il copione è il solito, si chiacchiera, si fuma, le ragazze
mangiano frutta e tutto quello che trovano, bevono mate. Facciamo la doccia a turno.
Jano si ferma poco, Mariana si vede appena ed è sempre in pigiama, non sta ancora
bene. Si arriva così all'ora di cena, mi rimetto al lavoro, stasera non metto le uova ma
uso dei pomodori rimasti, un po' d'aglio e un po' di cipolla, la pasta mi scuoce
leggermente, la riuscita è peggiore di quella della sera precedente, ma le ragazze fanno
festa lo stesso, faccio anche qualche crostino sempre al pomodoro. Le chiacchiere vanno
avanti senza fine, Jano ci propone seriamente una passeggiata fino a casa sua per la
mattina seguente, trova lui i cavalli da un conoscente, accettiamo di buon grado pur
sapendo che non è così scontato, mentre Andrea decide di partire di buon mattino per
l'Ecuador. Noi abbiamo il bus per Bogotá alle 18,30, non dovremmo avere problemi. Ci
sono rimasti all'incirca 20mila pesos per uno. Dovremmo farcela, anzi, dobbiamo farcela
per forza, oggi in paese abbiamo dato un'occhiata e cambiare denaro non è un'impresa
facile. E' quasi finita, e l'eccitazione si mischia alla nostalgia. Prima di chiudere la porta
della camera guardo verso la valle nel buio, e ascolto i rumori della notte di San Agustín.
Sono bellissimi.
Holiday in Colombia 29
2/2/2006 Wild Horses
Andrea se ne va presto, come aveva detto. Verso l'Ecuador. Fa un po' impressione
pensare a una persona con la quale hai diviso diversi giorni, scherzando, ridendo,
parlando, che nel giro di nemmeno un mese hai rivisto in tre luoghi diversi, prima da
sconosciuta che interviene in una discussione per darti una dritta, poi condividendoci i
pasti, se ne vada, e realizzare che magari non la rivedrai mai più in tutta la vita. Si, fa
impressione.
Rimaniamo ad aspettare i cavalli, che tardano due ore; ci costano 10mila pesos
ciascuno, e non è male. Il problema vero è un altro, e lo metterò a fuoco solo a fine
giornata: la casa di Jano è a circa 15 chilometri, e io non ho mai montato il cavallo. Beh,
in effetti una volta si, da piccolo, a pelo. Credo che non conti molto, ai fini della
riuscita della cavalcata di oggi.
All'andata, il padrone (uno che conosce Jano, che ci sella i cavalli e ci aiuta a montare
all'inizio), mi affida il cavallo un po' più alto, marrone; a Juli tocca quello più basso,
nero. Jano viene con una cavalla bianca, di proprietà di Mariana, che avendo partorito
da poco si porta dietro un puledro. Funziona così. Jano ci fornisce anche dei rudimentali
frustini fatti di rami d'albero, e mi insegna i fondamentali, tirare le briglie del morso
verso destra per girare a destra, sinistra per girare a sinistra, verso di me per frenare o
fermarsi, frustare il cavallo sui fianchi e spronarlo con i talloni per aumentare
l'andatura. Ma i cavalli non sono macchine, ce ne sono di più dinamici e di più pigri:
quello che è toccato a me è pigrissimo. Rimango continuamente indietro, sono costretto
a frustarlo ripetutamente, e io sono uno che ha poca pazienza. Gli altri due cavalcano
che è un piacere, Jano è un esperto, Juli è argentina e con i cavalli ha feeling, poi suo
fratello Rafa ne ha uno, sa cavalcare. Mi innervosisco quasi subito, quando metto a
fuoco la situazione. La giornata è splendida, il cielo limpido, il cammino bello da
vedere, ma me lo godo poco. E una continua sofferenza mentale rimanere indietro, è
frustrante vedere che il cavallo non risponde ai tuoi comandi. Dopo un paio d'ore
abbondanti, con l'intermezzo di una sosta molto rapida, arriviamo nei pressi della casa di
Jano, e inizia il difficile del percorso: bisogna attraversare dei cancelli di legno, vanno
aperti, per non scendere da cavallo il cavallo stesso deve assecondarti, ti devi passare il
cancello man mano che i cavalieri passano, e se scendi il terreno è impraticabile, pieno
di fango. Una mezza tragedia. Ce la facciamo faticosamente, e arriviamo a casa. La casa
è in un posto splendido, ai piedi di una collinetta, da dove, scopro, Jano e l'amico che
vive lì con lui, un altro marijuanero giovane, capelli lunghi e faccia da buono, prendono
l'acqua direttamente da una sorgente posta in cima, e tramite una tubazione di gomma
la conducono alla casa. Il piano terra è per metà in costruzione, i piani superiori
completamente in costruzione, ci sono solo lo scheletro e le scale; la costruzione va a
strettirsi man mano che sale, le stanze diventano meno, fino in pratica ad un quarto
piano dove c'è, o meglio, ci sarà, spazio per una sola camera. L'idea dei due è quella di
aprire una sorta di clinica anti-stress, convinti che in giro ci sia pieno di gente un po'
tonta che si fa sopraffare dallo stress. Secondo voi hanno torto?
Il luogo è davvero bellissimo, fuori, davanti alla veranda, alcuni mini-laghetti dove si
abbeverano i cavalli, tanti alberi, verde a perdita d'occhio. Però sono già le 13, e
ovviamente io inizio ad essere in paranoia. Ripartiamo dopo aver bevuto un po' d'acqua e
mangiato un po' di pane non proprio freschissimo con una marmellata casareccia e
buonissima. Salutiamo questo personaggio immenso, di certo non sarà facile
dimenticarselo. Tremo già al pensiero di dover rifare il passaggio dei cancelli di legno
solamente in due. L'idea è intanto di scambiarci il cavallo, io prendo quello un po' più
piccolo ma dinamico, Juli il pigrone. Capisco da subito che sarà quasi peggio: se prima
dovevo faticare e sudare le classiche sette camice per farlo camminare, adesso dovrò
sudare per tenerlo a freno: appena lo sfiori col frustino, ma anche senza, questo parte al
galoppo senza tanti complimenti. Il passaggio dei cancelli è tragicomico: cado nel fango
un paio di volte, incazzatissimo. Se ci fosse stata una cinepresa, poteva diventare un
superclassico del cinema comico, so benissimo di essere comico quando mi incazzo, e so
benissimo di essere goffo normalmente. Riusciamo a passare indenni dal punto peggiore,
ma il cammino di ritorno sarà un calvario. Intanto, il cielo si copre e minaccia pioggia,
dopo un po' inizia a piovere, non forte, ma di quella che ti perseguita. Poi, Juli cerca in
tutti i modi di spingere il cavallo pigro, lo fa chiaramente meglio di me, e quello che
adesso monto io, stimolato dall'altro che ogni tanto parte al galoppo, vorrebbe partire a
razzo, ma io mi accorgo di essere già mezzo rotto e di non riuscire a governarlo se va
troppo forte, quindi è tutta un'ennesima lotta per tenerlo al passo, solo ogni tanto lo
lascio al trotto, ma già così mi fa male tutto. Se fare i 15 chilometri dell'andata è stata
una passione, immaginatevi questi di ritorno e mentre piove. Allucinante. Sono sempre
più nervoso e faccio innervosire anche Juli, dandole la colpa di far imbizzarrire il "mio"
cavallo spronando il "suo". Com'è come non è, riusciamo ad arrivare in paese, ci rimane
la ripidissima salita fino all'hostel, il "mio" cavallo parte in tromba e perdo di vista Juli e
l'altro cavallo. Quando arrivo a 100 metri dall'hostel, il cavallo si rifiuta di girare a
sinistra. Dopo infruttuosi tentativi, decido di scendere. Ecco, così cammina. Poco male.
Mi fermo però, fino a che non riesco di nuovo a scorgere Juli. Appena la vedo riparto,
entro nel recinto, lascio il cavallo lì e vado incontro a Juli. Anche il suo ha smesso di
andare, arriva a piedi tenendolo per le briglie, mette il cavallo nel recinto e mi
domanda dov'è il "mio" cavallo. Non mi ero accorto che il recinto era aperto dalla parte
opposta. Esco sulla strada sterrata per cercare di vederlo, dal fondo mi chiama un uomo
che mi urla qualcosa, ha bloccato lui il cavallo. Lo ringrazio e riprendo il cavallo, vorrei
tirargli anche qualche pedata, poi mi ricordo di essere vegetariano per rispetto degli
animali. Riconduco il bastardo dentro il recinto, seguo le istruzioni di Juli, gli tolgo il
morso e lo lego. Chiudo tutte e due le entrate del recinto. E' finito l'incubo, comunico a
Mariana, che ci accoglie domandandoci com'è andata, che è stata una cosa che non farò
mai più, parafrasando D.F. Wallace. Sono circa le 16, quindi non c'è neppure la
possibilità di lavarsi con l'acqua calda, ma in qualche maniera ci dobbiamo lavare. Mi
organizzo, pulisco le scarpe completamente piene di fango, mi lavo con l'acqua fredda,
non fa poi così freddo fuori. Mentre mi lavo "dietro" mi accorgo di avere strane
protuberanze proprio dove finisce la schiena e cominciano le chiappe. Strano. Non mi
rendo ancora conto della gravità della situazione. Mi vesto e preparo la borsa. Mi
accorgo che le protuberanze fanno acqua, ma forse è più giusto dire pus. Sono piaghe,
escoriazioni, o come preferite chiamarle. Recupero del disinfettante, ma in quel posto lì
è difficile farlo stare fermo. Sono costretto a mettere un paio di scottex dentro le
mutande, per evitare di macchiarle, insieme alla maglia che indosso. Facciamo due conti
con l'orario, ci conviene scendere in paese, così abbiamo il tempo di mangiare qualcosa.
L'addio da Mariana e Sara è toccante, nonostante Mariana sorrida con quel suo sorriso, lo
posso dire, meraviglioso.
Mentre scendiamo, Juli molto tranquillamente, ma diretta com'è nel suo stile, mi fa
notare che oggi mi sono lamentato davvero troppo, e mi sono arrabbiato con lei e col
mondo per una cosa che non riusciva a me. In effetti non ha tutti i torti, ma
nell'immediato non mi sembra di averli nemmeno io tutti i torti. Sono quasi le 17,
andiamo alla Rana Verde, che è proprio vicinissima alla fermata del bus, mangiamo
come al solito molto e bene, guardiamo la tele ma non è l'orario della nostra telenovela
preferita, quindi domandiamo alla padrona cos'è successo oggi; lei risponde che oggi
stava dormendo, ma dopo 5 minuti ci racconta tutta la puntata di oggi per filo e per
segno, si è andata ad informare. Fantastici colombiani. Ci rilassiamo. Scambiamo due
parole con un tipo che mangia al tavolo accanto al nostro, un ragazzo che sembra Jano
più giovane, capelli lunghi. Salutiamo tutti ed usciamo, facciamo due passi, e ci
fermiamo presso il piccolo, minuscolo ufficio che fa anche da fermata. L'atmosfera si fa
easy, tornano i sorrisi e gli scherzi, è tempo di bilanci. Ad un certo punto, il bus è già
pronto, non crediamo ai nostri occhi: Tamara, l'israeliana con la tosse assurda
conosciuta a Salento al Plantation. Baci e abbracci, inglese misto a castigliano. Le
consigliamo la Casa di François, ma quando le diciamo che non c'è la tele lei ripiega su
un altro hostel. Israeliani. Dobbiamo salire sull'autobus, ci salutiamo di nuovo, ¡suerte!
Un'altra persona che probabilmente non vedrò mai più.
Passa il capellone che prima mangiava al tavolo accanto a noi.
-¿Viajan?
-Si, para Bogotá
-¡Suerte!
Saliamo, ci sistemiamo sulle poltroncine, il bus non è nuovissimo ma almeno è spazioso.
Il problema è un altro: non riesco ad appoggiare il culo, le ferite mi fanno troppo male,
dovrei stare di fianco ma è complicatissimo. Ci provo, ma ovviamente non riesco a
dormire, e mi fa rabbia Juli che dorme tranquillamente. L'autista guida veloce, è notte.
Poco prima di mezzanotte ci ferma la polizia per una perquisizione. Mancano ancora un
paio d'ore a Bogotá e, per finire in bellezza, mi si rompe lo schienale della poltroncina.
Mi ritrovo piegato a seggiola con la testa appoggiata ai corrimano davanti. Meno male
che avevamo i posti accanto alla scaletta. Non so perchè, riesco a non delirare.
Holiday in Colombia 30
3/2/2006 TransAmerica!
Forse per l'unica volta in tutto il viaggio, arriviamo praticamente in orario. Il terminal
dei bus di Bogotá, visto di notte, sembra leggermente diverso, ma forse è solo la
stanchezza. Sono da poco passate le 3,30 di notte, o di mattina, quando raccogliamo i
bagagli dal ventre del bus. Avessi la forza di sorridere, lo farei di gusto mentre Juli mi
racconta che il controllore voleva farci pagare la poltroncina con lo schienale rotto; non
ho sentito perchè, essendosi liberata un'altra coppia di poltroncine, mi ero trasferito lì
per cercare un po' di pace in larghezza, accomodandomi di traverso. Girovaghiamo come
zombies per il terminal con le idee poco chiare. C'è anche un po' di fame in giro, oltre ad
un buon numero di persone, per essere quell'ora di notte/mattina. Forse per la prima
volta nella mia vita (spero l'ultima), l'unica cosa che riesco a mangiare, non capendo se
mi manca la cena o la colazione, è una porzione (striminzita a dire il vero) di patate
fritte, alle 4,20. Rimaniamo al tavolo dove mangiamo per un'ora buona, pensando al da
farsi e cercando di recuperare le forze, senza speranza. Mi entra il freddo nelle ossa,
nonostante non sia affatto freddo, e per la prima volta da quasi un mese, tiro fuori dalla
borsa il piumino smanicato: sospetto di avere la febbre. Non so come, arriviamo quasi
alle 7, usiamo internet, io poco a dire la verità, non ce la faccio proprio, ma devo.
Un'amica mi ha mandato un sms dove diceva che anche io, insieme ad altre persone, ero
stato invitato a rispondere ad un questionario da MTV, per partecipare eventualmente
ad un concerto esclusivo di Ben Harper a Milano. Juli risponde alle sue e-mail, scruta se
c'è la possibilità che qualcuno dei suoi ci venga a prendere a Ezeiza, Buenos Aires,
quando arriveremo. Fatto questo, ponderato che non abbiamo forze per fare qualcosa di
impegnativo, e misurato che ci restano circa 8 ore per presentarci in orario
all'aeroporto, decidiamo per la cosa meno impegnativa: compriamo qualcosa da
mangiare qui, sperando che costi meno che, appunto, all'aeroporto, poi andiamo a
bivaccare lì. Non troviamo granché, poi cerchiamo di non prendere fregature col taxi,
andiamo all'ufficio del turismo dove puoi prenotare, ti fanno una ricevuta e sali sul taxi
sapendo già quanto dovrai pagare. Nonostante ciò, il costo, ci rendiamo conto, è
esagerato per la Colombia. Occhi stanchi osservano scorrere il traffico già importante
delle strade della capitale. Giornata instabile, qualche nuvola. Arriviamo e, per prima
cosa, usiamo abbondantemente i bagni, poi facciamo un giro e scegliamo un posto per
bivaccare, non prima di aver dato un'occhiata per i negozi di souvenir. Io cerco qualcosa
per mio nipote, ma non trovo quello che mi interessa, una maglia della sua misura
(piccolissima) della Colombia, Juli cerca qualcosa per sua madre. Ci riproveremo più
tardi. Scegliamo delle poltroncine, non molto comode per la verità, e le colonizziamo.
Meno male ci sono due televisioni lì vicine, perchè come al solito, a differenza di Juli
che dorme alla grande, io non ci riesco, sempre a causa dei dolori al fondoschiena,
lancinanti e fastidiosissimi. Riesco a dormire qualche secondo alla volta, accucciandomi
e prendendomi la testa tra le mani mentre sono seduto. Decido di usare i bagni per
farmi rasarmi testa e viso, un'esperienza nuova in un aeroporto. Mentre mi adopero, mi
cadono gli occhiali e mi si rompe una lente. Merda! Fortunatamente ne ho un paio di
riserva, sia da sole che con lenti trasparenti.
Ore interminabili, alterno le dormite di due secondi ad approfondite osservazioni della
fauna locale e di passaggio. Con molta fatica arriva l'ora del check-in, mai così agognato
come oggi. Arriva così anche la sopresa delle tasse aeroportuali, molto elevate per un
paese sudamericano, qualcosa come l'equivalente di 25 euro. Tutti i nostri sforzi per
arrivare con poca valuta colombiana alla partenza si rivelano inutili, dobbiamo prelevare
ad un bancomat, ed è la solita lotta con le operazioni ultraveloci dei bancomat
colombiani. Passati i controlli quindi, al primo ber spendiamo quello che ci è avanzato di
nuovo, naturalmente in cose da mangiare. Arriva anche l'ora del volo, come all'andata
voliamo LAN, sull'aereo c'è una squadra di calcio. Penso ad una giovanile, sono tutti
molto giovani, invece, visto che accanto a noi si siede uno di loro, scopro che si tratta di
una squadra di prima divisione uruguaiana, erano a Bogotá per un turno di Copa
Libertadores. Il ragazzo vicino a noi lo chiamano Chino, riservato ma simpatico, parla a
voce bassa, è il più tranquillo di tutti. Ci lanciamo in un cruciverba e lui partecipa, per
ammazzare il tempo. Gli dico di venire tutti a giocare a Livorno, si guadagna poco ma ci
si toglie un sacco di soddisfazioni.
Facciamo scalo a Quito, Ecuador, scende qualcuno, sale qualcun altro. Nella nostra fila,
ma sul lato opposto, si accomoda una mora che, nonostante vesta in jeans, senza tacchi,
non molto alta, dà nell'occhio, molti la notano. Iniziamo a scherzare con Juli e il Chino,
la guardo insistentemente e lei risponde agli sguardi. Juli mi dà di gomito, io osservo
bene i particolari.
Dopo un attento studio, mi volto verso di loro e gli comunico che la mora non è
propriamente una donna. Ne sono certo. Attimi di stupore, poi la mia sicurezza mette in
crisi le loro convinzioni in questo caso sommarie. Li invito ad osservare le mani.
A Lima si scende, dobbiamo cambiare volo, la squadra viene con noi fino a Buenos Aires.
Durante una delle code per i controlli a Lima, con Juli che mi spinge, mi ritrovo dietro
alla mora, e attacco discorso, mentre sbircio il suo biglietto aereo col nome, che è
ovviamente da uomo; non ce ne sarebbe stato bisogno di questo particolare, la voce dice
già tutto. Ora, chi mi conosce sa che non c'è morbosità alcuna in queste mie
osservazioni. Dopo un giro negli shop, e un'occhiata al complessino peruviano che
intrattiene i passeggeri nel corridoio principale, arriviamo al gate e ci mettiamo ad
aspettare, ci vorrà un po'. Juli legge, io mi sposto accanto alla mora ed iniziamo una
piacevole chiacchierata che dura fino all'imbarco. E' argentina, di Buenos Aires ma
quando è in patria vive a Rosario, si trova meglio lì. Ha la pelle scura, ambrata, e dei
capelli bellissimi, neri come la pece, lisci; le incorniciano il viso, in effetti con dei
lineamenti un po' forti. Era in Ecuador per un'operazione, adesso si concederà un po' di
vacanza a casa: normalmente lavora a Roma, il lavoro lo tralascia perchè capisce che so
di cosa parla. Come capita spessissimo, è molto femminile, ed è simpatica, non è
scocciata, parla volentieri, evidentemente anche perchè capisce che non sono lì per
prenderla in giro o per sciocca curiosità. Passiamo il tempo parlando amabilmente, le
consiglio qualche posto da vedere in Italia, quando ci tornerà, ad aprile, mi dice lei.
Arriva l'ora di imbarcarsi, ci salutiamo, sull'aereo abbiamo posti distanti.
Si sale sul volo che la mezzanotte peruviana è passata abbondantemente. La terra è una
centrifuga di anime.
Holiday in Colombia 31
4/2/2006 decompressione
Durante il volo riesco a sonnecchiare, quasi a dormire. Nessuna perturbazione rilevante,
nessun film che mi interessi. Arriviamo a Ezeiza, Buenos Aires, in orario, alle 7 della
mattina; piove, ma fa caldo, direi piuttosto caldo. Controlli, altro timbro sul passaporto,
una signora dell'immigrazione mi offre una caramella. Attendiamo i bagagli davanti al
nastro scorrevole, visto che Juli ha il bagaglio più pesante del mio e non lo poteva
portare a mano ho spedito nella stiva anche il mio, per solidarietà. La borsa è
sporchissima, ma ormai siamo agli sgoccioli, resisterà. Usciamo e come sapevamo, non
c'è nessuno ad attenderci. Juli si informa sui costi dei trasporti e fa due conti. Mi spiega
che ci conviene andare a Rosario, anche se domani io dovrò tornare qui: facendo un
cambio di bus non spendiamo poi molto, e dormire qui ci costerebbe comunque, mentre
a Rosario non spendiamo niente, vitto e alloggio gentilmente fornito da Renata e Juan
Pedro (la sorella e il cognato, ricordate?). Mi fido ciecamente, e poi in questo modo le
vado incontro: lei il giorno dopo tornerà ad Arteaga, quindi se andiamo a Rosario almeno
lei è più vicina, a me di spostarmi nuovamente non interessa poi molto, la giornata la
devo far passare. Per uno strano ragionamento, ci conviene prendere due bus: il primo
da Ezeiza a Retiro, se non ho capito male un quartiere di Buenos Aires dove c'è il
terminale bus più importante, il secondo da lì a Rosario. La cosa strana è che
dall'aereoporto a Retiro ci mettiamo circa 30 minuti, da Retiro a Rosario 4 ore, ma il
costo è praticamente lo stesso; il risparmio, rispetto a un bus da Ezeiza a Rosario è di
circa 15 pesos argentini, quasi 4 euro. Tra l'altro, attenzione, il biglietto per Retiro costa
27 pesos, ma, come riportato sul biglietto e verificato sul campo poco dopo, 2 pesos
sono per il trasferimento dal terminal "privato" della compagnia che serve la tratta da
Ezeiza, al terminal "pubblico": in pratica si attraversa un incrocio, grande, ma un
incrocio. Come che sia, andiamo. Riconosco l'autostrada per la capitale, osservo i
quartieri, Juli mi segnala il centro dove si ritira e si allena la selección, poco fuori
l'aereoporto. Il bus è enorme ma sopra siamo in 4 compreso l'autista. Juli mi fa notare la
differenza con la Colombia: là si sarebbe atteso che si riempisse almeno un poco. Non
sono ancora le 9, e c'è già traffico. Che cosa sta diventando la terra? Al terminal
"privato", trasbordo su un bus piccolino che, come detto, ci fa attraversare un incrocio e
ci scarica al grande terminal; nonostante il tragitto praticamente inesistente, l'autista
trova la maniera di rivelarsi simpatico. Continua a piovere, cerchiamo tra i vari uffici un
passaggio conveniente per Rosario, facciamo i biglietti e ci mettiamo ad aspettare.
Centinaia di persone che vanno, vengono, aspettano, salgono, scendono. Arriva il nostro
bus, carichiamo i bagagli, Juli mi dice che al facchino che carica i bagagli è costume
dare la mancia. Il bus è comodissimo, a due piani, e all'ingresso ci viene dato anche uno
spuntino; inoltre, a disposizione dei passeggeri ci sono caffè e thè. Viaggio liscio come
l'olio, puntuale come pochi: 4 ore e siamo a Rosario. Stento a riconoscere il terminal, mi
aiuta Juli. Usciamo in strada e cerchiamo la fermata del bus urbano per andare nel
quartiere dove abitano Renata e Pedro. Un piccolo pezzo da fare a piedi, sono le due del
pomeriggio e siamo affamatissimi. Juli abbraccia le nipotine, le meji, le gemelle,
salutiamo i padroni di casa, iniziamo a raccontare le prime impressioni, dopo alcuni
minuti arriva Marcellino, il padre di Juli, ci mettiamo finalmente a tavola e spolveriamo
tutto quel che c'è, annaffia il tutto una classica Quilmes, ridendo, scherzando,
raccontando, ascoltando quel che è successo. Marcellino deve andarsene poco dopo, ha
un sacco di cose da fare. Lo saluto, lo abbraccio e lo ringrazio. Grande Marcellino.
Ci trasferiamo decisamente in giardino, sta uscendo il sole e fa un caldo terribile. Ho un
sacco di cose da lavare, molte ormai sono alla terza lavatura senza asciugatura
seguente, e rimesse in borsa puzzano in maniera indecente, Renata insiste e mi mette
tutto in lavatrice. Tanto ormai, visto che c'è il sole, tentiamo l'ennesima
lavatura/asciugatura. Le Quilmes vanno via alla grande, Pedro al solito parla di tutto,
ma lo ascolto volentieri, su alcune cose è preparato, su altre no, ma va bene così. Sta
difendendo, tra gli altri (mi parla di 1500 casi), gli interessi della famiglia di un giovane
morto pochi giorni fa sul lavoro. Sgranocchiamo pop-corn, le gemelle sguazzano nella
piccola piscina. Non capisco bene come mi sento, cerco di non pensarci. Ci mettiamo a
fare due tiri a canestro con Pedro, sudiamo come fontane. Mentre giochiamo Pedro mi
racconta che durante l'ultima visita di Bush in Argentina avrebbe chiesto a Kirchner se
poteva naturalizzare Manu Ginobili, l'asso argentino degli Spurs. Non c'è da meravigliarsi
dico io. Le gemelle ci guardano divertite mentre giochiamo: non siamo un bello
spettacolo.
Juli e Renata iniziano un vorticoso giro di telefonate per programmare il mio viaggio per
Ezeiza di domani; la domenica c'è qualche difficoltà. In linea di massima, dovrò fare
quasi esattamente al contrario di oggi, un paio di bus. Dovrei cavarmela.
Sta per tramontare il sole, e la famigliola esce per incontrare alcuni amici per cena e
dopocena, la vestizione delle gemelle è esilarante. Juli è innamorata di loro, ne parlava
molto spesso in viaggio, così come me ne aveva sempre parlato anche nelle e-mail.
Guardo un po' di tele, oggi è sabato e c'è il calcio, qui sono davvero pazzi: ci sono le
immagini fino ai dilettanti. Assurdo. Passione alle stelle. Ceniamo riscaldandoci qualcosa
e prendendo quel che c'è in frigo.
E' sabato, ma stranamente anche Juli non ha molta voglia di uscire. Dopo una
trasmissione di approfondimento politico dove c'è una professoressa di Juli, cerchiamo
un buon film alla tele, chiacchieriamo di bilanci del viaggio, ma sommariamente.
Sarebbe come ammettere che è finita, ormai, e questo fa male. Verso mezzanotte ci
corichiamo. Mi curo le piaghe, e dormo bocconi per evitare sfregamenti. Sto
leggermente meglio, ma c'è sempre un po' di liquido. Le stimmate di questo viaggio. E se
quando torno mi iscrivessi a un maneggio?
Holiday in Colombia 32
5/2/2006 Don’t Cry For Me (Argentina)
Nonostante il letto sia solo un materasso per terra, dormo alla grande, come già detto
esclusivamente bocconi, e mi svegliano che sono le 11 passate. Evidentemente un
materasso vero, o quasi. Bagno, colazione robusta, poi tutti (Io, Juli, Renata, Juan Pedro
e le gemelle) in macchina verso il terminal dei bus di Rosario, che non è così lontano. Io
e Juli scendiamo e salutiamo, lei rivedrà tutti quanti presto, fanno parte della sua
famiglia, io chissà se e quando, eppure quella più dispiaciuta sembra proprio Juli. Mi
spiega, come se ce ne fosse bisogno, che ogni volta che lascia le gemelle è così, è triste.
Sento un misto di sapori, in bocca e dentro la testa, indefinibile. Per prima cosa, ritiro e
pago il biglietto del mio passaggio fino a Retiro, Buenos Aires, già prenotato la sera
prima. Il vettore è buono, mi dice Juli. Poi, ci informiamo sul passaggio di Juli per
Arteaga, giro degli sportelli adibiti, alla fine risulta che dovrà fare un cambio. Quasi
assurdo, per nemmeno 150 chilometri. Distanze che ormai sembrano ridicole. Partirà un
po’ più tardi di me. Compro un po’ d’acqua per il viaggio, sono quasi le 13, il mio bus
parte a quell’ora. Ci avviciniamo al bus, appena individuato, carico il bagaglio, ci
salutiamo un po’ troppo sbrigativamente e salgo, prendo posto al piano superiore. Come
sa chi mi conosce, mi commuovo facilmente. I Ray-Ban grandi nascondono gli occhi
umidi, e Juli, forse capendolo, abbandona la plataforma appena il bus si muove. In
quell’abbraccio che ci scambiamo prima di separarci, ci sono la gioia per esserci
conosciuti di persona dopo circa cinque anni di e-mail, le discussioni di un mese in giro,
anche quelle tese, le richieste di scusa, il mio grazie per avermi insegnato uno stile di
vita e di viaggio fino ad adesso a me sconosciuto, il mio rispetto per una splendida
persona più giovane di me di quasi 20 anni, ma incredibilmente capace e matura,
emancipata, piena di voglia di vivere, politicamente sulla mia stessa lunghezza d’onda,
capace di indignarsi per le mancanze di rispetto di ogni tipo, dalla più grande alla più
piccola; tutto quello che avrei voluto dire alla sua famiglia e che non sono stato capace
di dire con le parole. Una sera le ho chiesto se ero come si aspettava che fossi, o se ero
molto diverso, e se in caso, in quale maniera. Mi ha risposto che ero esattamente come
si aspettava.
Appena sul bus mi arriva un sms da mio padre: abbiamo vinto 2 a 1 contro il Messina.
Vorrei esultare, dirlo a Juli che mi prendeva in giro perché pareggiavamo e perdevamo
da quando eravamo in giro. Mi limito a stringere i pugni, la crisi è passata. Dopo 10
minuti me ne arriva un altro, sempre di mio padre: “2 a 2, mi ero sbagliato”. Quando
arrivo a casa lo strozzo. Il tetto del bus sfrega quasi violentemente contro le fronde
degli alberi che costeggiano i viali di Rosario. La città è grande, fa un milione di
abitanti. Mi accorgo che ho conosciuto pochissimo l’Argentina, guardo gli angoli delle
strade e cerco di imprimerli nella memoria con un po’ di commozione restante. Devo
tornare. Si, devo proprio tornare. Che poi non è esattamente il verbo giusto. Si torna
dove si è già stati, ed io, qui, ci sono stato praticamente solo di passaggio. Penso a casa,
al lavoro che mi aspetta, ma soprattutto, a quando posso prendere le ferie per tornare.
Eh si, devo proprio tornare.
Sono 4 ore di bus comode comode, la giornata è splendida e calda, soleggiata,
l’autostrada dritta, e sul bus danno un film che ho già visto, “Mambo italiano”, una
commedia gay, lo guardo per non diventare troppo triste, sorrido spesso. Entriamo nella
capitale, è domenica e la gente usa perfino gli scampoli verdi dentro gli svincoli delle
rampe autostradali per fare il pic-nic e rilassarsi. Enorme Buenos Aires. Arriviamo al
terminal dalla parte del porto, ripasso mentalmente le istruzioni di Juli, scendo e ritiro
il bagaglio, la tensione mi fa quasi litigare con l’addetto che mi guarda malissimo. Porca
miseria, non ho più nemmeno una moneta per dargli la mancia e farmi perdonare. Mi
scoccia un po’ andarmene con quell’occhiata nella schiena. Tiro dritto, mi ricordo il
percorso inverso per uscire dal terminal, ma con il sole oggi pare tutto diverso. Arrivo
all’uscita e chiedo indicazioni per il terminal privato del vettore Manuel Tienda León, la
prima guardia non lo sa, la seconda non è molto chiara. Mi butto in strada, mi guardo in
giro, cerco qualche punto di riferimento per orientarmi, non riconosco niente e vado a
naso. Attraverso una avenida, poi una specie di parco, domando di nuovo a due signore
che passeggiano, non molto chiare nemmeno loro, ma la direzione sembra giusta.
Proseguo, attraverso un’altra avenida, e dietro ad una stazione di servizio intravedo
quello che cerco. Ce l’ho fatta quasi da solo. Attraverso ancora, sono arrivato. Il
terminal è piccolo ma modernissimo, ieri, all’andata non eravamo entrati. Entro e
chiedo per l’aeroporto, il tipo al banco mi risponde in inglese, lo prego di parlarmi in
castigliano, sono italiano, sorride e quasi si scusa. Sono le 17 passate da poco, il
prossimo bus per Ezeiza è alle 17,30. Si accomodi. Mi accomodo, ma prima esco e fumo
una sigaretta. Poi mi accomodo.
Puntuali, partiamo, poca gente sul bus, l’autista scherza al telefono con un amico e si
organizza la serata. Ripercorro la strada fatta solo ieri, e questa volta riconosco tutto.
Arriviamo ad Ezeiza dopo mezz’ora precisa, scendo ma mentre sto prendendo il bagaglio
l’autista mi chiede con quale compagnia volo. Rispondo, mentre realizzo perché me lo
chiede, e lui mi prega di risalire sul bus, per le partenze internazionali c’è un’altra
fermata a 200 metri. Stupore. Dopo 200 metri scendo, lo ringrazio, mi saluta con un
sorriso e mi dice más cerca, ¿no? ed io annuisco con gratitudine.
Sono le 18, il mio volo parte alle 22,30, sono in anticipo e nemmeno di poco, ma a me
piace così. Sono apprensivo in queste cose, e chi ha viaggiato con me lo sa bene.
Viaggiando da solo, almeno non rompo le scatole a nessuno, anche questo è un bene.
Ovviamente il check-in è lontano nel tempo, quindi mi organizzo. Prima un bel giro
generale fin dove è permesso, per prendere visione. Poi al bagno, con calma. Poi per
negozi in cerca di una maglia della nazionale di calcio argentina per mio nipote: niente
da fare, non c’è la misura, così piccole non le fanno. Peccato. Alla fine, mi viene fame.
Ho voglia di pizza, come sia sia. Mi siedo ad un bancone, mi accoglie una barista carina il
giusto che si chiama Alessandra. Pizza e Coca Cola. La prima mi piace, ne ordino
un’altra. Mi guardo intorno, e immagino di essere l’avventore meno rompicoglioni di
tutto il locale. Secondo me non ci vado molto lontano. Faccio due conti e mi accorgo
che come in tutti gli aeroporti, le cose costano il quadruplo. Prendo anche una bottiglia
d’acqua, la disidratazione in aereo mi dà fastidio, e star sempre a chiedere alle hostess
non mi piace. Altra passeggiata, il check-in è aperto, ma qui, all’inverso di Bogotá, le
tasse aeroportuali vanno pagate prima, quindi vado e pago. Poi torno alla fila del check
e prendo posizione. Una coppia con una lei brutta e odiosa cerca di fare la furba, senza
riuscirci, ci scommetterei che sono italiani. Avrei vinto. Un commento su questa cosa e
attacco discorso con il gruppo che mi sta dietro in fila, tutte donne. Sono due mamme e
una sorella che accompagnano le due figlie che vanno in Spagna. Chiacchieriamo a più
riprese, sono simpatiche e anche carine. Faccio il check-in e, come sempre, chiedo il
corridoio. Se ho bisogno del bagno non voglio disturbare. Prima chiedevo sempre il
finestrino. Si cambia nella vita.
Mi avvio lentamente al gate, una fila bestiale ai passaporti. Se ti avvii prima non c’è
fretta e te la godi. Almeno, così la penso io, soprattutto dopo una antipatica esperienza
in Inghilterra, a proposito di ritardi. Scorro attraverso i negozi duty-free, guardo solo le
commesse fighe e niente altro. Prendo posizione vicino al gate di partenza del mio volo,
mi siedo, seppur non proprio comodamente, ma sto già meglio. E qui comincia il mio
passatempo preferito negli aeroporti: guardo. Guardo le persone, tutte, di tutti i tipi, mi
immagino cose. Non sarà una cosa originale, ma mi piace. Passo il tempo così. Poi, un
gruppo particolarmente rumoroso e vanitoso attira la mia attenzione, sono tre ragazze
piuttosto carine, una signora anziana, un signore grosso in su con l’età, un giovane che
pare il fidanzato della castana con la pelle olivastra, che mi pare di aver già visto ma
non so dove. Le altre due, una bionda e una mora, si danno delle arie esagerate. Tutte e
tra hanno scarpe con zeppe di sughero altissime e si pavoneggiano. Dopo 20 minuti
buoni, quando la castana viene verso di me per buttar via qualcosa nel cestino vicino,
metto a fuoco: è Adriana Lima, la modella brasiliana, quattro paperelle per intenderci.
Non ci posso credere: ha un culone grosso così e la gobba sul naso. Ma pensa te.
Ripassano le due ragazze conosciute in fila, dico loro che ero in pensiero e che ho
fermato il volo per aspettarle. Ridono. Si comincia l’imbarco, con leggero ritardo.
Ripercorro le sensazioni di oltre un mese via da casa. Si parte, lascio anche l’Argentina.
Si parte, e niente sarà più come prima.
Holiday in Colombia 33
6/2/2006 Nuotando nell’aria
Il volo va, senza grandi perturbazioni, anche se la presenza di bambini sembra crescere
esponenzialmente di volo in volo. Ce ne sono un sacco, alcuni piangono di brutto. Penso
a mio nipote, spero che cresca con la voglia di viaggiare e di conoscere. Di saperne di
più. La frase fatta “il viaggio ti apre la mente” gira vorticosamente in testa. Una di
quelle cose che sai, non c’è bisogno che qualcuno te la spieghi, ma quando ci sei in
mezzo ti sembra ancora più vera. Accanto a me, da Buenos Aires a Madrid, una signora
boliviana assolutamente taciturna e un po’ spaventata, si vede che va in Spagna a
cercare un futuro migliore e che è spersa. L’aiuterò a compilare la cedola
d’immigrazione, cercando di risultare si europeo, ma almeno non supponente.
Nella notte, nemmeno troppo lunga, riesco a piangere nel buio guardando “Pride and
Prejudice” in inglese, appena uscito anche in Italia, almeno non rimango così indietro, e
mentre lo guardo mi rendo conto che Keira Knightley è proprio brava, anche se come
donna mi piace di più Rosamund Pike. Apprezzo anche “Elsa and Fred”, commedia
geriatrica ispano-argentina. Il cibo non è affatto male, e confermo l’impressione avuta
all’andata con Iberia: quando prenoti vegetarian meal, per non sbagliare, ti forniscono
cibo vegan (o vegetaLiano), quindi senza neppure uova e latticini; quindi verdura,
legumi, frutta, niente dolci con uova o panna. Ottimo.
Quattro anziani turisti italiani del nord, due coppie, riescono a far confondere l’intero
equipaggio, tutti alla ricerca dei loro tagliandini dei bagagli, non rendendosi conto che
stanno mostrando a tutte le hostess i cedolini dall’andata. Quando faccio da traduttore
tra la hostess più paziente che sta ancora tentando di risolvere la situazione, e lo dico
alla signora che sta montando un caso, la prima risposta (a me), stizzita, è “ma cosa
dice!”, e ci do un taglio, altrimenti mi ci incazzo anche se non c’entro niente. E’ una
questione d’atteggiamento, fare l’italiano all’estero.
Leggo El País, e mi viene un po’ di nostalgia di quando c’ero abbonato. Proprio ieri,
Zapatero ha inaugurato il nuovo terminale mastodontico dell’aeroporto di Barajas,
denominato, un po’ cinematograficamente, T4. Realizzo che ci atterreremo, ecco
perché a Buenos Aires, insieme alle carte d’imbarco ci hanno dato la piantina del
terminal. La studio sommariamente, non sembra complicato. A quel punto, leggo un bel
paginone doppio su Messi, e la sua storia d’amore col Barcelona. Arriviamo in orario.
Ecco il T4.
L’impatto è impressionante: modernissimo, enorme, dall’alto Madrid neppure si vede
(una delle polemiche riportate dal País era, appunto, sul mancato avvio dei
collegamenti, visto che dista qualcosa come 40 chilometri dalla capitale), ma
l’aeroporto si vede eccome. Una metro collega i vari raggruppamenti di gates e i servizi,
ma si vede che è ancora tutto in rodaggio. Ascensori a vetri per raccordare i vari piani.
Passo i controlli, e cammino insieme alla massa imponente di migranti aeroportuali alla
ricerca di un tabellone dove individuare il gate da dove partirà il mio volo per Roma. La
prima impresa. Trovato un tabellone, cerco la metro. Fa subito un po’ impressione: i
vari raggruppamenti distano dai 15 ai 30 minuti. Arriva la metro, si riempie, tarda a
partire. Ma è prestissimo, e stranamente non ho l’ansia che di solito mi assale negli
aeroporti di scambio. Arrivo, e per arrivare al gate mi ci vogliono quasi 10 minuti
camminando. A questo punto, mancano due ore. Inganno il tempo, approfitto dei bagni,
guardo negozi, mi decido a mangiare. Scambio sms con gli amici in Italia. Le maglie
delle squadre spagnole ci sono delle taglie di mio nipote, ma portargli una maglia del
Barça di ritorno dall’Argentina non mi piace, quindi passo oltre. Mi rendo conto che
ormai mi piacciono solo le donne esotiche, in special modo quelle di colore, quando per
mangiare qualcosa giro almeno cinque posti e alla fine mi rivolgo all’unica spagnola nera
che non è neppure bellissima e per giunta sta finendo il turno lavorativo. Guardo lo
scontrino, la società è la Autogrill. Globalizzazione. In effetti ci mancava il Camogli al
bancone.
Arriva l’orario di partenza, faccio l’imbarco insieme a pensieri torbidi su una ragazzina
italiana ma di origine sud americana, pantaloni a vita bassissima e baseball hat rosa. Ci
ritroviamo fermi su una scala che scende fino al piano della pista, aspettando il bus per
l’aereo. Sulla scala, familiarizzo con una coppia giovane di Roma, parlandogli della
Colombia. Il bus non arriva, e quando arriva è tardi, arriviamo sull’aereo, passa l’orario
della partenza e il capitano ci comunica che abbiamo perso lo slot e che ce ne hanno
assegnato un altro tra un’ora. Riaccendo il cellulare e mando un sms a Fabio, che
attende novità a Roma. Alla fine, partiamo con un’ora e mezzo di ritardo, accanto a me
una coppia di Volterra che abita a Firenze, di ritorno dall’Argentina, e io sono cotto, non
riesco a tenere gli occhi aperti. Cala il buio, mentre arriviamo a Roma, sono le otto di
sera passate. Scendo, sono in Italia. Non penso a cose profonde, solo a prendere il treno
e a sentire Fabio. Mi spiega che treno prendere e dove scendere. Esco da Fiumicino
verso la stazione a piedi, mentre faccio il biglietto e richiedo informazioni alla ragazza
della biglietteria mi chiama Emiliano e mi informa sommariamente della situazione
Livorno. Mi racconta dell’unico acquisto che abbiamo fatto nel mercato di gennaio,
Argilli, e di come si è presentato. Prendo il treno, e viaggio brevemente fino a
Tuscolana, dove mi aspettano Fabio e Francesca. E’ una strana sensazione rivederli, è
sempre una gioia, ma stavolta è diverso. Andiamo a cena e mi passa momentaneamente
il sonno, Fabio è sempre il solito e Francy è sempre carina ma alla mano, si ride e si
vede chiaramente che sono spaesato. Affastello pezzi di memoria confusi. Parliamo
anche d’altro.
Dormo da Fabio, e finalmente, in un letto vero, non penso.
Holiday in Colombia 34
7/2/2006 Apri il tuo sguardo - Finalone
Ci svegliamo contenti di essere insieme, anche se per poco, scendiamo per prendere il
giornale e fare colazione al bar davanti casa di Fabio. E' bello sentirsi a casa a Roma.
Prendiamo la macchina e ci tuffiamo nel già caotico traffico della capitale, Fabio va a
lavorare, la stazione di Tiburtina gli rimane praticamente di strada, mi lascia lì, tanto ci
vedremo presto. Un grazie solo pensato, che fra di noi mica usa. Tiburtina-Ostiense
cortissimo, adesso altri 45 minuti di attesa per il regionale che mi porterà fino a casa.
Non c'è un internet point, curioso, in Colombia ogni bus terminal ce ne sono due. Per
ammazzare il tempo rifaccio colazione, questa volta salata, e quasi mi innamoro della
barista, se solo fosse nera.
Scrivo queste righe sul treno, tra un sms e una telefonata degli amici, hanno voglia di
rivedermi e di sentirmi raccontare, ma anche no, solo di riparlare di niente tra di noi,
come ci piace tanto, adesso che ognuno si è scelto il suo ruolo, quasi tutti con mogli,
compagne, figli da crescere, io sono quello senza legami, che magari ogni giorno fa cose
diverse, ma non fa differenza, finiamo sempre a parlare di calcio e di politica, e
nemmeno in maniera molto precisa.
Scrivo queste righe mentre lo schermo del finestrino del treno proietta le immagini di
una fredda ma bellissima giornata invernale italiana, il mare calmo e splendido, la
maremma deliziosa, le curve delle colline dolci che ricordano quelle prepotenti delle
colombiane.
Ci vorrebbe una frase ad effetto per concludere, ed è sempre la cosa più difficile
riuscire a stupire, ad essere concreto ed evocativo, a essere soddisfatto.
Mi viene in mente una scritta occhieggiata sopra un muro di Rosario mentre passavamo
su un bus urbano: EL IMPOSIBLE SIEMPRE LLEGA UN POCO MAS TARDE.
L'impossibile arriva sempre un po' più tardi.
Forse è proprio vero, bisogna solo saper aspettare.
E' finita. Al prossimo pezzo di vita.
Postfazione – Alcuni cenni utili alla comprensione del testo
Intermezzo politico
28/01/2006 CHAVEZ AL FORUM SOCIALE MONDIALE: "COSTRUIRE IL NUOVO
SOCIALISMO"
CARACAS
Il 21/o e' un secolo fondamentale, perche' dovra' dirci se l'umanita' potra' salvarsi o se ci
avvieremo verso una autodistruzione. Lo ha sostenuto ieri sera a Caracas il presidente
Hugo Chavez, per il quale l'unica alternativa e' l'azione di un forte movimento popolare
che costruisca ''un nuovo socialismo''. Rivolgendosi per poco piu' di due ore, un tempo
limitato per le sue abitudini oratorie, a migliaia di partecipanti al 6/o Forum sociale
mondiale (Fsm) riuniti nel Palazzetto dello sport Poliedro, Chavez ha avviato la sua
riflessione rievocando i Libertadores latinoamericano che hanno cercato di costruire una
unita' sudamericana nel 19/o secolo, come Simon Bolivar o Jose' de San Martin. ''Loro ha proseguito - portavano avanti la loro lotta ma sapevano gia' che lavoravano per le
generazioni future''. ''Cosi' e' stato anche - ha aggiunto - quando pensatori come Carlo
Marx hanno lanciato slogan del tipo 'socialismo o morte', ripresi poi da Rosa Luxemburg,
Fidel Castro o Che Guevara''. Il capo dello stato venezuelano si e' detto quindi convinto
che ''negli ultimi cinque anni sono successe molte cose nel sud del mondo ed in
particolare in America latina'' e che ''i termini si sono ribaltati perche' quelli che per anni
hanno avuto l'iniziativa difendendo un modello di ingiustizia dall'alto di teorie
capitaliste, sono ora sulla difensiva''. ''Siete voi del Fsm che lottate per un mondo piu'
giusto - ha detto convinto - che guidate l'offensiva adesso'', ma perche' essa si mantenga
''dobbiamo mettere a punto una strategia di unione di tutte le tendenze'' per ''cambiare
la direzione della storia''. Prendendo quindi parte ad una polemica esistente fra due
anime del Forum - una piu' movimentista ed una piu' di progetto preciso - Chavez ha
ricordato che ''abbiamo poco tempo per salvare la vita del pianeta'' e quindi un ''Forum
che si riunisce cosi', con caratteristiche quasi folcloristiche, puo' anche andare bene, ma
non aiuta per questo progetto di cambiamento''. Infine, insistendo sul fatto che ''il
modello capitalista sta mettendo fine alla vita nel pianeta e che bisogna presto fare
qualche cosa'', il leader venezuelano ha detto che ''da qui stiamo risollevando la bandiera
del socialismo, per avviarci verso i nuovi cammini del 21/o secolo, e per costruire un
solido movimento autenticamente socialista nel pianeta''. ''Un socialismo nuovo, fresco ha aggiunto - che qui in America latina deve avere una forte componente indigena,
senza copiare modelli, cosa che fu uno dei grandi errori del socialismo del secolo XX''. ''Io
cristiano come sono - ha concluso - credo anche che Cristo e le correnti cristiane
autentiche hanno molto da offrire al progetto socialista del 21/o secolo in America
latina''.
PS grazie a Ivano che ha recuperato l'articolo y gracias Jano por hablarme de este
discurso en San Agustín
la canzone tormentone del viaggio in Colombia
Lo so, è lontana anni luce dalla musica che ascoltiamo normalmente e che ci piace
davvero; ma, per sfizio, provate a scaricarla, e provate ad ascoltarla non più di due
volte al giorno. Non potrete più separarvene.
PS e guardate che faccia!!!
Así de Fácil – Otto Serge
Decidió que era así se marchó
A otras tierras buscando olvidar
Una historia de amor sin final
Y canciones aún sin terminar
Yo no quiero siquiera entender
Las razones de su decisión
Sólo sé que el alma del cantor
Está triste y no quiere llorar
Ni creas que te voy a dejar de querer, así de fácil
Ni creas que te voy a olvidar, es imposible
Yo soy el mismo, tú eres la misma
¿Qué es lo que pasa? No me abandones
no seas injusta, sólo Dios sabe
Ni creas que te voy a dejar de querer, así de fácil
Ni creas que te voy a olvidar, es imposible
el amor es regalo de Dios
el amor es entrega total
no me dejes con este dolor
que no quiero dejar de luchar
la distancia no es la solución
es pretexto para no enfrentar
un amor que nació en la verdad
un amor que nunca morirá
Ni creas que te voy a dejar de querer, así de fácil
Ni creas que te voy a olvidar, es imposible
Yo soy el mismo, tú eres la misma
¿Qué es lo que pasa? No me abandones
no seas injusta, sólo Dios sabe
Ni creas que te voy a dejar de querer, así de fácil
Ni creas que te voy a olvidar, es imposible