Il Santo Chiodo del Duomo di Milano. Storia e interpretazione

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Il Santo Chiodo del Duomo di Milano. Storia e interpretazione
GIANANTONIO BORGONOVO
IL SANTO CHIODO DEL DUOMO DI MILANO
La tradizione riguardante il ritrovamento della Croce di Cristo risale
certamente al IV secolo (dopo Cristo), ma la sua precisa ricostruzione non è
semplice: Eusebio di Cesarea (265-340) conosce i lavori compiuti sotto
Costantino sul Calvario, ma non parla del ritrovamento della croce (cf
EUSEBIUS, De vita Constantini, I, XII-XVII, ed. F. WINKELMANN, Eusebius
Werke, 2a ed., Akademie-Verlag, Berlin 1991 [GCS], 21-25); nessun accenno
alla reliquia della croce troviamo nell’Itinerarium Burdigalense, del 333 d.C.,
mentre ne parlano tutti i pellegrinaggi in Terra Santa, a partire da Egeria (o
Eteria), ovvero dal 380 in poi.
Egeria riferisce che il 14 Settembre, giorno che commemorava la dedicazione del
Santo Sepolcro, coincideva con quello del ritrovamento della Croce: «Le dediche di
queste due sante chiese vengono celebrate con sommo onore, perché la Croce del Signore fu
trovata in quello stesso giorno». Le due chiese alle quali alludeva la pellegrina sono il
Martyrion, struttura basilicale eretta vicino al Golgota, e l’Anastasis (Resurrezione),
una costruzione rotonda che serbava i resti della grotta identificata come il luogo
della sepoltura di Gesù. Con grande partecipazione del clero e del popolo dei
fedeli, la liturgia del 14 Settembre prevedeva l’ostensione della reliquia del legno
della Croce, pratica che, con il trascorrere dei decenni, divenne fulcro di devozione
e oggetto principale della solennità. Nel VI secolo la celebrazione liturgica è già
ricordata con il nome di Exaltatio Crucis, dove il termine Exaltatio è da intendersi
come «elevazione» e, al contempo, «ostensione». Il titolo si riferisce al rito, che
prevedeva l’innalzamento del legno e la sua ostensione ai fedeli, in ricordo
dell’innalzamento di Cristo sulla Croce e dell’ostensione del suo corpo sacrificale.
Ben presto si persero i riferimenti alla dedicazione del Santo Sepolcro: intorno al
520 il pellegrino Teodosio citava la festa del ritrovamento della Croce, senza
accennare alla dedicazione delle chiese del Martyrion e dell’Anastasis.
Si desume quindi ragionevolmente che la tradizione letteraria dell’inventio
crucis abbia avuto inizio tra il 333 e il 380 circa.
1. LA
TRADIZIONE LETTERARIA SULL’INVENTIO CRUCIS E SUI CHIODI DELLA
CROCE
Il primo a parlarne è Cirillo, vescovo di Gerusalemme. Ne parla come di un
fatto avvenuto sotto Costantino, in una lettera scritta nel 351 all’imperatore
Costanzo. Secondo Cirillo, la grazia divina concesse il ritrovamento “a colui che
cercava la pietà”: τῆς θείας χάριτος τῷ καλῶς ζητοῦντι τὴν εὐσέβειαν τῶν
ἀποκεκρυμμένων ἁγίων τόπων παρασχούσης τὴν εὕρεσιν (PG XXXIII, 351, p.
1166: «quando la divina grazia ricompensò la pietà della di lui ricerca con la
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scoperta dei luoghi santi che giacevano nascosti»). Il breve resoconto sembra
però escludere che la scoperta fosse da attribuire a Elena, perché si parla al
maschile di un ignoto convertito, “cercatore della pietà”. Per di più, Cirillo dice
solo che la scoperta avvenne per un caso fortuito, durante i lavori per la
realizzazione della Basilica del Santo Sepolcro e non in seguito a un pianificato
progetto di ricerca. A conferma, Cirillo informa Costanzo di un fenomeno
miracoloso avvenuto all’inizio del suo episcopato: la comparsa nel cielo di
Gerusalemme di una croce luminosissima.
Ciò, ovviamente, non esclude che il ritrovamento fosse avvenuto durante gli
scavi organizzati da Elena. A lei è invece attribuito il ritrovamento della croce e
dei chiodi da Ambrogio nel 395 (De Obitu Thedosii, 40-51), Paolino nel 403? (Ep.
31: Lettera a Sulpicio Severo) e Rufino d’Aquileia nel 402 (Hist. Eccl., XVII
sgg.), oltre alle successive tradizioni che da costoro dipendono. Si noti che tutti
e tre collegano l’inventio Crucis con gli scavi imperiali per la costruzione
dell’Anastasi a Gerusalemme, dopo il Concilio di Nicea (325).
I tre però si dividono su diversi punti.
1.1 La testimonianza di Ambrogio
Partiamo dall’orazione funebre di Ambrogio proclamata in occasione della
morte dell’imperatore Teodosio. A dire il vero, prima del De Obitu Theodosii
ambrosiano, ovvero prima del 25 febbraio 395, si deve ipotizzare che circolasse
una proto-versione del racconto, archetipo della tradizione storiografica
successiva, che sarebbe stata tramandata da Gelasio di Cesarea (morto nel 395),
nella sua Storia Ecclesiastica, prosecuzione della storia di Eusebio di Cesarea, che
s’interrompeva nel 325. Purtroppo ci è giunta in modo molto frammentario,
benché ricostruibile – almeno in parte – dalla filologia moderna. Sarebbe stato
Gelasio il primo a collegare il ritrovamento della croce con il Concilio di Nicea
(325).
La struttura del De obitu Theodosii:
exordium (parr. 1-2)
expositio (I sezione: parr. 3-16; II sezione: parr. 17-39)
excursus de inventione crucis (parr. 39-51)
peroratio (parr. 52-56).
L’excursus (parr. 39-51), che alcuni critici considerano a torto un’aggiunta fatta
al momento della redazione definitiva dell’opuscolo sulla base della mancanza
di vincoli dinastici tra Costantino e Teodosio, è il più antico resoconto
dell’inventio crucis ed è il primo ad attribuirlo alla madre di Costantino, Elena la
locandiera, concubina di Costanzo Cloro, che la ripudiò nel 289 per sposare
l’aristocratica Teodora, figliastra di Augusto Massimiano.
Dopo l’assassinio nel giro di pochi mesi di Crispo e della moglie Fausta sposati
da quasi venti anni, che gli autori di parte pagana, come Zosimo, attribuiscono
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a Costantino e alla di lui madre, Elena restò l’unica donna influente a corte.
Negli anni 327-328 compì il ben noto pellegrinaggio in Terrasanta: Eusebio di
Cesarea (265-340) ne sottolinea l’aspetto religioso e l’importanza politica, ma
non dice nulla dell’inventio crucis.
Nella versione ambrosiana dell’inventio Crucis, Elena utilizza un chiodo per
forgiare un morso per il cavallo e uno per la corona-diadema. Sebbene sia
possibile trovare anche in Ambrogio un’allusione a morso ed elmo, quando egli
afferma che Elena cercò le sante reliquie della Passione quale sicuro auxilium per
il figlio, «quo inter proelia quoque tutus assisteret et periculum non timeret» (ib., 41).
Ma il riferimento ambrosiano sposta l’attenzione principale dalla protezione
nella guerra alla maestà imperiale e all’abituale esercizio dell’autorità ad essa
legata. In questo modo, i chiodi trovati presso la croce non sono più connessi al
solo Costantino e alla sua dinastia, ma a tutti i suoi successori cristiani.
Si ricordi, en passant, che in questo discorso Ambrogio cita per tre volte Zc
14,20: in die illo erit quod super frenum equi est sanctum Domino «In quel giorno
anche sopra il freno del cavallo starà scritto “sacro ad JHWH”». Una volta è citato
per esteso e due altre volte in modo brachilogico sanctum super frenum; e il
versetto non è più citato da Ambrogio in altre opere. La sua interpretazione è
rifiutata da Girolamo in modo sprezzante (In Zachariam 14,20 [CSEL 76A,
898]): «Audivi a quodam rem sensu quidem pio dictam, sed ridiculam. Clavos
dominicæ crucis, e quibus Constantinus augustus frenos equo suo fecerat, sanctum
domini appellari. Hoc utrumque ita accipiendum sit, lectoris prudentiæ relinquo».
Sul capo la corona, nelle mani la briglia: la corona è fatta con la croce,
affinché la fede risplenda; la briglia è fatta con la croce, perché moderi il
potere. Si noti l’antitesi tra la moderatio, che conserva la primigenia nozione di
temperamentum, giusto equilibrio e caratterizza il buon governo, e la praeceptio,
imposizione che caratterizza il governo tirannico.
L’excursus sulla inventio crucis termina con l’augurio che siano applicabili
all’imperatore romano cristiano le parole del Sal 20,4: «Posuisti in capite eius
coronam de lapide pretioso». L’assimilazione tra l’imperatore cristiano romano e
Cristo è convalidata dalla citazione del salmo, che esalta la protezione concessa
da Dio al virtuoso re Davide, simbolo del re giusto e figura di Cristo (con tutte
le allegorie dell’esegesi patristica!).
Le fonti storiografiche e patristiche della prima metà del V secolo, pur
non essendo sempre tra loro corrispondenti, sono diverse dalla versione di
Ambrogio, poiché inseriscono nel racconto un evento miracoloso, atto a
determinare il riconoscimento della Vera Croce.
Sono sette i testi che tramandano questa versione dei fatti. Essi possono essere
suddivisi in due gruppi:
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1) le storie ecclesiastiche di Rufino (nel 402, Hist. Eccl., XVII sgg.), seguito da
Socrate, Sozomeno, Teodoreto;
2) i racconti inclusi entro forme narrative differenti (orazioni e lettere), elaborati
da esegeti e padri della Chiesa, come Paolino di Nola (nel 403, Epistola 31:
Lettera a Sulpicio Severo), dalla cui lettera dipende poi la Chronica di Sulpicio
Severo (II,33-34).
1.2 La testimonianza di Rufino d’Aquileia
La prima di queste Storie a comparire in ordine cronologico, se si esclude
l’incompleto testo di Gelasio, è quella di Rufino vescovo di Aquileia, databile
intorno al 402. Ne proponiamo un sunto, al quale seguiranno le varianti rispetto
alla versione di Rufino, presenti nelle tre fonti storiografiche successive.
Nella Storia Ecclesiastica di Rufino, Elena, ispirata da visioni divine, affronta
un pellegrinaggio a Gerusalemme alla ricerca della Vera Croce. Ivi giunta, chiede
ai suoi abitanti dove sia la Croce di Cristo, ma questa è difficile da ritrovare,
poiché il luogo della crocifissione è stato dimenticato e al suo posto è stata eretta
una statua di Venere. È un segno del cielo ad indicarle il luogo. L’imperatrice
ordina così di demolire le vestigia pagane e di scavare nel terreno. Scopre tre
croci somiglianti tra loro e il Titulus, ritrovato separatamente dalla Croce di
Cristo, non offre «garanzie sufficienti». Per riconoscere quale delle tre sia la Vera
Croce, Elena attende un segno divino. A Gerusalemme una nobildonna è
gravemente malata e Macario, il vescovo della città, si inginocchia al suo
capezzale e prega Dio di mostrargli quale sia la Croce di Cristo. Allora il vescovo
pone, una ad una, le croci sopra il corpo della donna morente. Al contatto con
la terza, costei guarisce. In seguito, Elena fa costruire una chiesa nel luogo del
ritrovamento della Vera Croce; spedisce a Costatino un frammento della reliquia
e i chiodi, perché li inserisca nell’elmo imperiale e nelle briglie del suo cavallo.
Lascia, infine, il pezzo restante di Croce a Gerusalemme, depositato in un
astuccio d’argento. Ancora in Terra Santa, Elena invita le sante vergini
consacrate a Dio ad un banchetto e le serve umilmente a tavola.
Se, secondo Ambrogio, con i chiodi della croce Elena fece forgiare un morso
e una corona, secondo Rufino, ella diede i chiodi all’imperatore il quale ne trasse
un morso e un elmo. Questa tradizione è riportata nel 409 da Rufino
d’Aquileia (345-411), che muore una quindicina di anni dopo Ambrogio. Egli
è poi seguito da Socrate, Sozomeno e Teodoreto. In Ambrogio come in Rufino
vi è un forte sentimento anti-giudaico, anche nel momento in cui si tratta di
trovare l’esatto luogo del Golgota evangelico. Rufino però non dipende da
Ambrogio, riferisce ampiamente di un miracolo al quale Ambrogio allude
soltanto, per poter riconoscere quale fosse la croce di Cristo tra tutti i resti trovati
sotto il Golgota. Rufino riferisce la sua versione nel contesto di una narrazione
storica e sembra più attendibile di Ambrogio nei riguardi della versione
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originaria: quando dunque Rufino dice che Elena inviò i chiodi della croce
ritrovata a Costantino perché ne facesse un morso per il cavallo di Costantino e un
elmo che lo proteggesse in guerra, possiamo concludere che questi erano i doni della
madre a Costantino nella versione originaria, che va però considerata posteriore
al 351, ovvero alla lettera di Cirillo. La sostituzione dell’elmo con la corona
sarebbe una variante di Ambrogio.
Tuttavia, è difficile che Ambrogio sia il responsabile della variazione di un
dato ormai tradizionale: è invece variatio di una leggenda di recente formazione.
Si può forse spiegare così la duplice tradizione dei doni di Elena a Costantino:
la versione secondo cui uno dei chiodi era stato utilizzato per l’elmo
dell’imperatore sembra nata all’interno della dinastia di Costantino,
probabilmente sotto Costanzo, dopo il 351, e ne riflette l’ideologia: il significato
simbolico dell’elmo, da usare in guerra, come il morso del cavallo, riflette la
mentalità di Costantino, che aveva posto il monogramma della croce sull’elmo
nelle sue monete e nel quale appare connaturata l’idea di alleanza con la divinità.
Nella versione di Ambrogio, invece, con la trasformazione dell’elmo in
corona, il motivo della croce ritrovata non è più collegato con Costantino e la
sua dinastia, ma – al di là ormai dell’apostasia dell’ultimo Costantinide,
Giuliano (361-363) – con tutti i successori cristiani di Costantino. Il racconto
dell’inventio crucis rappresenta, nel pensiero di Ambrogio, la legittimazione
dell’imperatore cristiano e costituisce il vero argomento dell’intero discorso, che
è davvero una sintesi della teologia politica del IV secolo: la redenzione
dell’impero, ottenuta da Elena col dono divino dei chiodi trasformati l’uno in
morso, l’altro in corona. Forte di quei doni, Costantino fidem transmisit ad
posteros reges (ib. 41). Ambrogio sviluppa nei paragrafi successivi il principio che
sta alla base della grande svolta: Sapienter Helena quae crucem in capite regum
locavit ut Christi crux in regibus adoretur «Sapientemente Elena pose la croce sulla
testa dei re, perché la croce di Cristo fosse adorata nei re» (ib. 48).
Corona-diadema e morso erano stati, già nell’antica Grecia, simboli del
potere; in Ambrogio la trasformazione dei chiodi in corona e in morso fonda un
nuovo rapporto del potere con Dio e con i sudditi. Il motivo del potere come
servizio, caro alla miglior tradizione romana, anche se spesso tradito nella prassi,
riemerge con un significato nuovo: il potere, in quanto tale, coronato e nello
stesso tempo frenato dai simboli della Passione di Cristo, riceve la sua autentica
legittimazione nell’atto stesso in cui accetta di rimanere nei limiti impostigli da
Dio e non diventa arbitrio.
Nelle fonti successive, il racconto si ripete con alcune varianti. Nella Storia
Ecclesiastica di Socrate (439), Elena, alla ricerca della Vera Croce, considera il
luogo della sepoltura di Cristo e non quello della sua crocifissione. La storia di
Socrate contempla l’aggiunta di un elemento originale, ignorato dalle altre fonti:
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Costantino colloca all’interno della sua statua di bronzo, posta sopra l’alta colonna
di porfido a Costantinopoli, il frammento di Croce inviatogli da Elena.
Anche Teodoreto include il ritrovamento della Croce nella sua Storia Ecclesiastica
(439). In esso, vi è una sostanziale differenza nell’intenzionalità che conduce Elena
ad affrontare il viaggio in Terra Santa, non legata alla volontà di trovare le reliquie
della Passione, ma alla necessità di portare a Macario una lettera indirizzatagli da
Costantino. Il testo di Teodoreto sottolinea la superiorità di Elena rispetto al figlio:
l’imperatrice imprime un’educazione cristiana a Costantino e, in punto di morte
lo benedice e lo istruisce con «molti precetti intorno al modo di vivere pio».
Nella Storia Ecclesiastica di Sozomeno (425) si fa riferimento per la prima volta,
anche se non esplicitamente, alla leggenda di Giuda Ciriaco. Sozomeno, infatti,
dichiara che il luogo dov’era sepolta la Croce venne riconosciuto da Elena grazie a
sogni e segni divini e non per mezzo dell’aiuto di un ebreo, erede di uno scritto che
ne rivelava il luogo. La leggenda di Giuda Ciriaco era, evidentemente, già in
circolazione, almeno nella tradizione orale. Secondo l’autore greco, per ordine
dell’imperatore Costatino il luogo della crocifissione e della sepoltura viene
interamente ripulito dalle memorie pagane e fatto scavare fino alla comparsa della
grotta della Resurrezione, nella quale sono scoperte le tre croci, con a fianco il
Titulus. La Storia di Sozomeno riporta due versioni del miracolo della Vera Croce:
la prima coincide con le precedenti di Rufino e di Socrate; la seconda racconta di
un uomo morto, resuscitato al contatto con la Vera Croce e non specifica la
presenza di Macario. La versione è rintracciabile in Paolino di Nola (402) e in
Sulpicio Severo (prima metà del V secolo), oltre che nella già citata leggenda di
Giuda Ciriaco. Il testo cita la profezia di Zaccaria in relazione ai chiodi inviati da
Elena a Costantino, presente anche nel De Obitu Theodosi di Ambrogio, e una
rivelazione sibillina desunta dagli Oracoli Sibillini, che predice la devozione del
legno di Croce: «O legno felicissimo sul quale Dio fu appeso (Oracoli Sibillini, VI, 26)».
1.3 La testimonianza di Paolino di Nola
Accanto alle due diverse versioni – se pure molto simili – sin qui ricordate,
quella di Ambrogio e quella di Rufino, dobbiamo ricordare anche la versione di
Paolino di Nola (354-431), seguita dallo stesso Sulpicio Severo.
All’amico Sulpicio Severo, che chiedeva qualche reliquia per l’ormai prossima
consacrazione della basilica di Primuliacum (oggi Primillac?), Paolino invia, nel
403, una particella di un frammento della croce di Cristo, che Melania gli ha
portato da Gerusalemme. La ripone in un astuccio d’oro e risponde con una
lunga lettera di accompagnamento del dono, in cui descrive all’asceta aquitano
le circostanze del rinvenimento e l’attiva opera di Elena, madre di Costantino.
Il dettagliato racconto dell’inventio sta in un ampio excursus, che si sviluppa in
tre paragrafi dei sei di cui è composta la lettera. Sin dall’inizio è messo in risalto
l’aspetto devozionale, elemento caratterizzante tutto il racconto. La sua versione
differisce in molti punti rispetto alle altre.
Sul luogo della Passione si trovava una statua di Giove e il motivo che avrebbe
spinto Elena ad intraprendere il pellegrinaggio, una volta ottenuto il permesso
dal figlio Costantino, sta nella volontà di distruggere i templi e gli idoli eretti nei
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luoghi calcati dal Signore e di purificarli attraverso l’erezione di edifici di culto
cristiani. Alcuni elementi sono aggiunti, altri tolti. Ispirata dallo Spirito Santo,
Elena cerca di essere informata sul luogo della crocifissione e lo fa ricercare
domandando non soltanto tra i cristiani, ma anche tra i giudei sapienti: «Allora
la regina fu rassicurata dall’unanime testimonianza di tutti riguardo al luogo della
Crocifissione, e certamente sotto l’impulso di una rivelazione interiore, immediatamente
ordinò che si disponessero le operazioni di scavo proprio in quel luogo ed, apprestata
senza perder tempo una schiera di cittadini e di soldati, in breve portò a termine questo
lavoro di scavo. Contro l’aspettativa di tutti, ma proprio come soltanto la regina aveva
creduto, lo scavo in profondità dischiuse le cavità della terra e svelò il mistero della Croce
nascosta».
Anche il racconto del miracolo della Vera Croce differisce rispetto alle altre
versioni: non è il vescovo Macario, del quale non c’è traccia, ma l’imperatrice
stessa ad ordinare la prova, che avviene attraverso la resurrezione di un cadavere
recentemente morto («recens mortuum») e non la guarigione di una donna malata:
«Il Signore volse lo sguardo alle pie preoccupazioni di coloro che erano in ansia per la
loro fede e, in modo particolare, a colei che era la prima ad essere turbata nella grande
devozione del suo cuore infuse l’ispirazione di questo consiglio, di ordinare cioè che fosse
ricercato e portato colà un uomo morto di recente. […] Al contatto col legno della
salvezza, mentre la morte si dava alla fuga, il cadavere si scosse, il corpo si eresse e
l’uomo morto stette in piedi, tra lo sgomento dei vivi e, liberato, come già Lazzaro, dalle
bende funebri, ritornato in vita, subito si mise a camminare in mezzo ai presenti che
stavano a guardarlo».
Vengono taciuti sia il ritrovamento del Titulus sia il rinvenimento dei chiodi e
il dono fattone a Costantino. La parte finale della lettera descrive il culto rivolto
alla reliquia conservata a Gerusalemme e le sue prodigiose proprietà. La
centralità della reliquia come oggetto contraddistingue la lettera di Paolino di
Nola, il cui scopo era quello di accompagnare la missiva di un pezzetto della
Croce. Il destinatario del dono e della lettera, Sulpicio Severo, nella sua Chronica
attinse certamente la versione del proprio racconto dall’amico Paolino.
Il Nolano sembra far capo a un filone di tradizione diverso da quello che
accomuna Ambrogio e Rufino. Le sue fonti sono probabilmente legate alla
testimonianza di Melania e di derivazione palestinese. La versione di AmbrogioRufino, nel corso del medioevo, si afferma a scapito di quella di Paolino,
destinata all’oblio perché meno funzionale alla polemica antiebraica. Il topos
della “tortura dell’ebreo” diviene canonico a partire dalla Legenda aurea di
Jacopo da Varazze (o Varagine, 1228-1298), un testo redatto nella seconda metà
del XIII secolo da cui dipendono i cicli pittorici dedicati all’inventio crucis dei
secoli successivi.
Il testo di Paolino si conclude con l’augurio che il frammento inviato a
Sulpicio sia «non solum benedictionis monimento, sed et incorruptionis seminario
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futurum» (6,34-35). Esso si inserisce all’interno di una complessa serie di
testimonianze rintracciabili nel corpus paoliniano, che consentono di ricostruire
la sua concezione della croce.
2. DALLA TRADIZIONE LETTERARIA AL PROBLEMA STORICO
Ma allora che ne è del “Santo Chiodo” che veneriamo nel nostro Duomo?
E l’interpretazione che lo ritiene il morso donato da Elena a Costantino come
uno dei chiodi di cui parla Ambrogio?
Più radicalmente: la tradizione letteraria della fine del IV secolo e dell’inizio
del V secolo ha qualcosa a che vedere con questo Santo Chiodo?
Oltre ad aver mostrato la tradizione letteraria del tardo antico e le sue diverse
ramificazioni, dobbiamo prima ricordare altre ipotesi storiografiche tra le più
diffuse per sostenere l’identificazione dei chiodi di cui si parla nel IV-V secolo
con questo Santo Chiodo; in seconda istanza, cercheremo di avanzare la tesi
(sempre ipotetica) più accreditabile.
1) Milano è la capitale scelta da Valentiniano I nel 364, dopo la parentesi di
Giuliano l’Apostata e il breve regno di Gioviano, come potior Augustus.
Con la scelta di Milano quale capitale dell’impero va collegato, a parere di
molti (tra cui Marta Sordi), l’arrivo a Milano dei chiodi della croce:
l’imperatore poteva facilmente ottenere la preziosa reliquia. La tradizione
costantinopolitana poneva fra i riti di fondazione della città da parte di
Costantino l’inserimento di frammenti della croce nella statua posta sulla
corona di porfido nel foro della città, perché ne assicurassero la protezione,
come narra Sozómeno. È dunque probabile che la decisione di utilizzare
due dei chiodi della croce vada strettamente collegata con la decisione di
Valentiniano I di fare di Milano la capitale della sua dinastia e dell’impero
romano-cristiano. Ma è un po’ strano il lungo periodo di eclissamento
della reliquia, almeno sino al XIII o XIV secolo!
L’erudito storico Giuseppe Antonio Sassi (1672-1751), prefetto
dell’Ambrosiana dal 1713 al 1751, formula tre ipotesi per spiegare questo
vuoto e come sia potuto giungere a Milano il Santo Chiodo proprio
durante questo lungo periodo di silenzio:
a) Durante le persecuzioni iconoclaste di Leone III Isaurico (imperatore
a Costantinopoli dal 717 al 741), per metterlo in salvo da sicura
distruzione;
b) Parte del ricco bottino sacro di cui facevano parte anche i corpi dei
Magi, poi venerati a Sant’Eustorgio; Federico Barbarossa le portò da
Milano a Köln, per la nuova cattedrale nel 1164, consegnandole
all’allora arcivescovo Rainald von Dassel; solo in parte (due fibule, una
tibia e una vertebra) furono riconsegnate al beato card. Andrea Carlo
Ferrari il 3 gennaio 1904 dall’arcivescovo di Köln Fischer;
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c) Arnolfo II da Arsago (morto il 25/02/1018), arcivescovo di Milano dal
998 al 1018, le avrebbe portate da Gerusalemme nel 997, dove era stato
inviato come legato di Ottone III (morto nel 1002), insieme ad altre
reliquie.
Tuttavia a mettere in crisi tutte e tre queste ipotesi, imponendo di
posticipare ulteriormente l’arrivo a Milano del Santo Chiodo, è la
mancanza di ogni riferimento ad esso nelle rubriche liturgiche del Beroldo
(prima metà del XII secolo), «custos et cicendelarius» della Chiesa
milanese. Nel suo testo, Ordo et cærimoniæ Ecclesiæ Ambrosianæ
Mediolanensis, apparso poco dopo la morte dell’arcivescovo Olrico (1126),
pur avendo memorie sempre molto precise degli usi liturgici delle
cattedrali milanesi allora attive, Beroldo non fa alcun accenno al Santo
Chiodo e nemmeno a particolari celebrazioni connesse con il suo culto.
Proprio sulla base del suo silenzio, già il beato card. Alfredo Ildefonso
Schuster aveva avanzato l’ipotesi che fa risalire alle Crociate l’arrivo del
Chiodo a Milano. Questa ipotesi era già stata formulata alla fine del
Settecento dallo storico Angelo Fumagalli (Delle antichità longobardicomilanesi, III, Monistero di S. Ambrogio Maggiore, Milano 1793, 203-204),
monaco cistercense e anche abate di S. Ambrogio dal 1786 al 1796. A tale
ipotesi, con qualche ulteriore precisazione, approderò anch’io.
2) La presenza del Santo Chiodo a Milano è sicuramente comprovata da due
documenti del XIV secolo, e precisamente nella basilica Cattedrale di
Santa Tecla (la cattedrale estiva, quella più ampia, che occupava la parte
nord-orientale dell’area attuale di piazza Duomo).
A) Il documento più antico risale al 18 gennaio 1389, è contenuto nel
Registro di Provvigione che raccoglie gli atti amministrativi del Comune
di Milano dall’anno 1389 al 1397, ed è conservato presso l’Archivio
storico civico di Milano. In tale registro, è presente una risposta di
Paolo de Arzonibus, luogotenente del Vicario, e dei XII Deputati di
Provvigione a Gian Galeazzo Visconti (allora Signore e dal 1395 primo
Duca di Milano). Costui aveva stabilito che fossero dichiarati festivi:
a. il 5 di agosto, festa della Madonna della Neve, cui erano dedicati
una confraternita e un altare in Santa Tecla;
b. e il 16 ottobre, festa di San Gallo, titolare di un altare in Santa
Maria Maggiore, la piccola cattedrale invernale, che era
posizionata nell’area orientale del Duomo attuale.
Nell’occasione si suggeriva al Signore di Milano l’opportunità di
stabilire, a carico del Comune, distinte offerte soprattutto per la festa
di Santa Tecla, titolare della basilica “estiva”, meritevole di uno
speciale riguardo, perché – così sta scritto – vi era riposto ab antiquo uno
dei Santi Chiodi con cui fu crocifisso il Salvatore.
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L’affermazione ab antiquo è abbastanza generica e non dice nulla di
preciso circa l’epoca in cui il chiodo fu portato a Milano: si poteva
trattare di una tradizione plurisecolare oppure di un secolo e mezzo
circa. Comunque, la presenza del Santo Chiodo era un titolo che
ingiungeva un particolare riguardo per la considerazione dovuta alla
basilica “estiva” di Santa Tecla.
B) Un altro documento di poco posteriore (4 novembre 1392),
sempre a firma di Gian Galeazzo Visconti ordina che si restauri la
basilica di Santa Tecla perché una nutrita folla di fedeli si recava
sovente in Santa Tecla a venerare il Santo Chiodo. Dallo stesso
documento si evince che il reliquiario in cui era custodito il santo
Chiodo aveva forma di Croce e la preziosa reliquia era collocata sopra
l’altare maggiore su una tribuna di fronte alla quale per devozione si
accendevano molti lumi. (Si sa che nel 1444 il cardinale Enrico Scotto
aveva concesso particolare indulgenza a chi contribuiva
all’illuminazione della reliquia del Santo Chiodo.)
Ma tra il ritrovamento di sant’Elena e le parole di sant’Ambrogio fino a
queste date intercorrono quasi mille anni di silenzio…
3. QUAL
È LA POSSIBILE ORIGINE DEL
SACRO CHIODO
DEL
DUOMO
DI
MILANO?
Il problema è di determinare con più precisione quell’ab antiquo di cui parla il
Registro di Provvigione del 1389. Una volta spiegato come sia arrivato in Santa
Tecla, le vicende seguenti del Sacro Chiodo sembrano sufficientemente
dipanate.
Infatti, quando fu necessario demolire completamente la vecchia basilica estiva
di S. Tecla ci fu il trasferimento del santo Chiodo, di tutte le suppellettili e le
altre reliquie che vi si trovavano nel nuovo Duomo. Questo avvenne il 20 marzo
1461 per mano dell’Arcivescovo Carlo da Forlì con una processione sontuosa
che vide largo concorso di clero e di popolo.
Ma la nuova – lontanissima – collocazione nella volta dell’abside sopra l’altare
maggiore, dove ancor oggi la reliquia è custodita, provocò un progressivo
affievolimento della devozione verso il santo Chiodo.
Fu san Carlo Borromeo che, mentre infieriva la peste del 1576-77, ne fece
ripristinare il culto… (Ma questo riguarda ormai il discorso che sarà analizzato
dall’intervento di mons. Navoni). Ricordo soltanto che in Duomo esiste anche
un ciclo di 22 grandi tele, fatte eseguire nel secolo XVIII e in parte restaurate (le
10 tele esposte in occasione della festa dell’esaltazione della Croce), con la
presentazione di episodi della storia della Croce e del Santo Chiodo. Un tempo
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si esponevano in cattedrale durante la solennità della inventio crucis che si
celebrava il 3 maggio (sino alla riforma del Vaticano II).
Arrivo finalmente a trattare l’ipotesi che tra tutte preferisco e che reputo la più
ragionevole, almeno in base alla documentazione da noi posseduta.
Il momento migliore in cui collocare l’arrivo della reliquia del Sacro Chiodo
a Milano da Costantinopoli furono gli anni successivi alla quarta crociata e al
Sacco di Costantinopoli del 1204. La città fu presa il 12 aprile 1204: il giorno dopo
ebbe inizio il grande saccheggio che, come tramandano i cronisti, non aveva
avuto simile in tutta la storia dell’umanità. La violenza dei crociati, che non
risparmiarono neppure i bambini, voleva essere la vendetta per il terribile
massacro dei Latini del 1182, quando erano stati eliminati tutti i 60.000 abitanti
latini di Costantinopoli, donne e bambini compresi. I 4.000 superstiti furono
venduti ai turchi come schiavi. Mentre Bonifacio di Monserrat occupava il
palazzo imperiale che, secondo Roberto di Chiari, aveva ben 500 stanze tutte
riccamente addobbate e ben trenta cappelle, gli scatenati crociati entravano nelle
case ed asportavano qualsiasi cosa di valore che avessero trovato, dopo aver
ucciso chiunque si trovasse dentro. Tutte le chiese furono spogliate dei vasi sacri,
delle immagini, dei candelabri e quanto non si poteva asportare veniva
semplicemente distrutto. Anche la basilica di S. Sofia venne completamente
saccheggiata, l’altare fu spezzato, gli arazzi fatti a pezzi. Un cronista dell’epoca,
testimone oculare, tramanda che una prostituta, seduta sul trono del patriarca,
cantava strofe oscene in lingua francese. Mentre i veneziani si concentravano su
quelle cose che avevano un grande valore, i francesi arraffavano tutto quello che
luccicava e si fermavano solo per ammazzare e violentare. Le cantine vennero
depredate e la città era piena di soldataglia avvinazzata che trucidava chiunque
trovasse lungo il cammino. Cittadini venivano torturati perché rivelassero dove
avevano nascosto i loro valori. I conventi furono presi d’assalto, le monache
stuprate. Le donne furono violentate e subito dopo uccise; i bambini giacevano
in pozze di sangue per le strade, nudi, già morti o morenti. L’inferno durò per
tre giorni interi.
Infine i comandanti degli assalitori intervennero, dettero ordine di cessare il
saccheggio (tanto ben poco era rimasto da depredare) ed ordinarono che
qualsiasi bottino doveva essere portato in tre chiese e sorvegliato da fidati crociati
e veneziani. Questo perché il contratto prevedeva la spartizione dei beni
saccheggiati: tre ottavi ai veneziani, tre ottavi ai crociati; il restante quarto era
destinato al futuro imperatore. Fra l’altro i veneziani portarono a casa i quattro
cavalli di bronzo che ornano (attualmente in copia) la Basilica di San Marco,
l’icona della Madonna Nicopeia e molte preziose reliquie che ancora sono
serbate nel tesoro di San Marco. I 4.000 sopravvissuti erano principalmente
donne, che vennero consegnate nude ai Turchi, e bambini poi venduti come
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schiavi. Così ebbe fine la quarta crociata che, istituita con l’intenzione di
combattere i saraceni, aggredì e saccheggiò unicamente paesi cristiani.
Da quel saccheggio furono portate in Occidente tantissime reliquie di
inestimabile valore, tra cui – con altissima probabilità – anche la Sindone di
Torino e il Sacro Chiodo di Milano.
4. LA FORMA DEL SACRO CHIODO DI MILANO: MA CHE COS’È VERAMENTE?
Il santo Chiodo custodito in Duomo ha fatto parlare molto per la strana forma
e ha indotto gli storici a considerare varie ipotesi sulla sua origine e funzione:
non ci si spiega il perché di quella forma a punteruolo, con il groviglio di ferri
più sottili e nella sommità un anello che lo sostiene. La tradizione che in modo
improprio collega questo Chiodo con il racconto di Ambrogio lo interpreta come
un morso per cavalli, da accostare alla Corona ferrea di Monza, secondo la
tradizione leggendaria dell’intervento di Elena, madre di Costantino.
Chiunque si disponga a osservare l’oggetto da vicino constata che poco
assomiglia a ciò che comunemente intendiamo per chiodo. Si tratta in realtà di
una punta metallica, lunga circa 23-24 centimetri, su una delle cui estremità si
trova non una “testa”, ma un anello in cui è inserito un altro anello più grande.
Insieme a un robusto filo di ferro è unito anche un altro oggetto, un cavallotto,
che presenta due ulteriori anelli alle estremità.
Questo non ha proprio nulla a che vedere con un morso di cavallo…
Una convincente interpretazione, che dà anche valore storico più profonda
alla reliquia custodita in Duomo, è stata espressa dall’ingegner Ernesto Brunati
in due studi di una quindicina di anni fa (E. BRUNATI, Pensando alla crocifissione,
in Collegamento pro Sindone, 1996, May/June, pp. 24-35; ID., Il Santo Chiodo del
Duomo di Milano, in Collegamento pro Sindone, 1999, May/June, pp. 13-34).
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Il chiodo vero e proprio (A) termina da un lato con la punta (C), dall’altro con un anello (B); a questo
anello se ne trova agganciato un altro (D). Insieme al chiodo si conserva un cavallotto (G) con le estremità ad anello (E), e un filo di ferro (H). (Disegni originali di Ernesto Brunati)
Secondo lo studioso l’interpretazione tradizionale (del morso) va
abbandonata, dal momento che proprio quella strana forma può al contrario
spiegare molte delle difficoltà che si presentano circa la pratica della crocifissione
nel mondo romano. Quel chiodo pare effettivamente essere stato utilizzato per
il genere di supplizio che fu inflitto anche a Gesù.
L’apparente stranezza che ci colpisce deriva dal fatto che il nostro
immaginario su questo tema è stato deformato dalle rappresentazioni
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iconografiche tradizionali, fatte da gente che le crocifissioni non le aveva mai
viste praticare (come appare anche dalle classiche ferite nel palmo delle mani, in
contraddizione con le impronte sulla Sindone).
I Romani (come i Persiani e molti altri popoli orientali) mettevano in croce
parecchia gente e risparmiavano anche sui chiodi, non solo con il reimpiego dei
patibula. Il recuperarli era più difficile se picchiati fino in fondo nel legno del
“patibulum”, cioè nella sbarra trasversale che il condannato si portava sulle spalle
fino al luogo dell’esecuzione dove erano già fissi in permanenza i pali verticali
(stipites).
I condannati erano invece trafitti a terra nel metacarpo con il chiodo a forma
di punteruolo e legati ad esso attorcigliando il filo di ferro al cavallotto. Era poi
il chiodo stesso ad essere agganciato al palo trasversale della croce con il suo
anello. Soltanto dopo, eventualmente, si “inchiodavano” anche i piedi del
condannato a un’asticella di legno, perché il peso del corpo appeso non lacerasse
il braccio.
Dunque, quello che vediamo oggi nel chiodo di Milano non è un ferro
rimodellato per ricavarne un “morso” per il cavallo, ma con tutta verosimiglianza
un ferro originale impiegato per appendere i condannati sulla croce.
Ma è proprio il chiodo che ha trafitto il braccio di Gesù?
Tutto quanto si è detto fin qui non risolve il problema dell’autenticità del
santo Chiodo custodito nel Duomo di Milano, ma neanche toglie autorevolezza
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al culto pubblico che la Chiesa ha riservato e riserva a tale reliquia, perché
sappiamo che il culto delle reliquie (e delle sante icone) è sempre un culto «mediato»,
in cui la venerazione non va direttamente alle immagini o alle reliquie esposte per se
stesse, ma esclusivamente a ciò che esse rappresentano e ricordano. In questo caso, il
richiamo – anche da un punto di vista storiografico più preciso – il Santo Chiodo
ci riporta a contemplare la terribile morte in Croce di Gesù di Nazaret, il Figlio
di Dio, veramente morto per l’ingiustizia umana e veramente risorto per la
potenza del Padre, capace di vincere anche la morte.
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