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L’ONNIVORO
di Andrea Bedini
Sono pronto a testimoniare i miei crimini,
ma vi prego di non tormentarmi con i loro dettagli:
la mia psiche non sarebbe capace di sopportarli
Andrei Chikatilo
E gli domandò: «Come ti chiami?»
«Mi chiamo Legione, perché siamo in molti»
Marco 5, 9
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Prologo
La sala è ormai piena e il vociferare della gente si attenua fino al
silenzio. Le luci sfumano lentamente e sullo schermo appare un
piccolo chalet di montagna. Tutt’intorno la neve, caduta per giorni e
giorni nelle ultime due settimane. A vederlo così, si ha l’impressione
che il tetto possa crollare da un momento all’altro, sotto il peso della
neve. Il piccolo camino si scorge appena, o meglio, se ne intuisce la
presenza dal rivolo di fumo chiaro che sale verso il cielo plumbeo. I
primi alberi di conifere sono a una cinquantina di metri e si aggregano
fitti in una boscaglia che scende uniforme verso la vallata sottostante.
L’aria è fredda e contrasta con la luce gialla che trapela dalla finestra,
sul lato nord del capanno.
Attraverso il vetro è possibile scorgere due figure. La prima
appartiene a un uomo alto e robusto, ben piantato sulle gambe
massicce che appoggiano sul pavimento di abete chiaro. Indossa una
pesante camicia di flanella, pantaloni di velluto e grossi scarponi da
montagna. É in piedi di fronte al camino, con le braccia protese verso
il fuoco nel tentativo di riacquistare un po’ di calore. Il cranio è tondo,
lucido e incredibilmente piccolo rispetto al resto del corpo. Le guance
sono piene e arrossate e gli occhi ridotti a due sottili fessure. L’uomo
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vorrebbe stendersi sul pagliericcio vicino al tavolo, ma è troppo
infreddolito per muoversi. Le dita dei piedi sono raggelate negli
scarponi e ogni piccolo movimento gli procura un dolore sordo che
dalla pianta si estende fino ai polpacci.
Dan Ranucci. Un uomo semplice, con alcuni punti fermi nella vita:
mangiare, bere, scopare, e ammazzare qualche cervo ogni tanto. Ma
non è mai stato bravo in questo e da alcuni anni ha sostituito il suo
fucile da caccia con uno a canne mozze. Quando centra il bersaglio
metà dell’animale si disperde nell’aria tra schizzi di sangue e brandelli
di carne. A Dan piace il rumore che produce quando preme il grilletto,
lo fa sentire forte, e compensa ciò che non è mai riuscito ad ottenere
dalla vita, conferendogli quel senso di dominio che avrebbe sempre
voluto esercitare sulle persone che incontrava.
Ma Dan non è solo nel capanno.
É con Peter May. Occhi freddi, come l’aria rarefatta all’esterno, e
sangue freddo. Peter May è abituato al freddo, anche se il suo corpo
non ne è fornito di alcuna protezione. É asciutto e teso, un nervo che
s’inerpica per centottanta centimetri verso l’alto senza un filo di
grasso. Il volto sembra scavato nel ghiaccio, con zigomi alti, sporgenti
e il mento lungo, acuto, a chiudere un ovale duro sotto il cappello di
cuoio; i denti sono piccoli e fitti, logorati dal tartaro e dal tabacco
colombiano. É seduto sulla sedia a dondolo nell’angolo opposto al
camino, al riparo dal tepore del fuoco. Ha per le mani il suo vecchio
Winchester, modificato alcuni anni fa per essere più efficace al
momento dell’impatto. Lo maneggia con cura, rimuovendo ogni
traccia di polvere e umidità dagli ingranaggi del cane. Lo considera
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parte di sé, un’estroflessione del suo braccio, della sua vista, della sua
mente; una proiezione della sua crudeltà nel mondo esterno. Peter
May è consapevole del proprio carattere e delle proprie emozioni.
Cinismo allo stato puro, una roccia di granito da cui il tempo e la vita
hanno spazzato via ogni traccia di pietà e senso dell’umorismo.
Dan Ranucci ruota il capo in direzione dell’amico. Vorrebbe
chiedergli qualcosa, rompere il silenzio che ha invaso il capanno e
spezzare quel senso di angoscia che gli sta lacerando il petto. Da un
punto oscuro del suo animo, sepolto sotto quintali d’immondizia,
sente qualcosa che si muove, che tenta di emergere, di scuoterlo, di
richiamarlo alla ragione e ricondurlo sui binari di un’eticità di cui a
stento ricorda le fattezze. Sa di avere sbagliato a lasciarsi coinvolgere,
ma sa anche che basterebbero poche parole per cancellare il senso di
colpa che lo attanaglia.
Il silenzio permane all’interno del rifugio e anche all’esterno è
appena interrotto dal fruscio dei rami sferzati dal vento.
Man mano che l’inquadratura si apre e si allontana dal capanno,
l’oscurità si fa sempre più intensa e nonostante l’occhio non sia più in
grado di distinguere nulla, le cose ci sono e oltre le cose i sentimenti,
le paure, più vive e accese che un rogo d’estate.
L’uomo disteso sotto un sottile strato di neve apre gli occhi e
rimane a fissare le tenebre, col corpo attraversato da brividi di freddo
e terrore. Dopo pochi istanti le pupille si dilatano sino al margine più
esterno dell’iride e l’uomo inizia a distinguere i rami degli alberi che
si biforcano e s’intrecciano a creare un fitto reticolo nodoso. Ha
l’impressione di scorgere nell’oscurità alcune frasi, parole, lettere
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impigliate nei rami, sostantivi e aggettivi che avvolgono i tronchi e
scendono fino alle radici, in profondità, per poi riemergere dal manto
gelato. Con estrema fatica solleva il capo, le braccia, il dorso e,
nonostante il dolore alla schiena, riesce a mettersi in piedi. Ha un
abbigliamento inadeguato per quella stagione: una giacca di camoscio
, una camicia di cotone, un paio di jeans e scarpe da ginnastica.
Julian Smoke cerca di riordinare le idee e recuperare i frammenti di
vita che hanno preceduto il suo risveglio. Il nulla riaffiora e galleggia
nella
sua
mente
come
uno
spettro
sull’acqua,
divertito
dall’incoscienza e dal disordine emotivo del suo ospite. La bocca è
arida e la gola infiammata: a ogni respiro, l’aria penetra nel torace e
dilata i polmoni producendo un rumore acuto, metallico. Barcolla, ma
riesce a compiere alcuni passi appoggiandosi al tronco degli alberi;
con la mano si porta un pugno di neve alla bocca, nel tentativo di
rimuovere quel gusto acre di ammoniaca che gli pervade il palato.
In lontananza, la luce fioca del capanno. Raggiunge l’ingresso, ma
qui è assalito da un terribile presentimento ed esita prima di bussare
alla porta. Poi desiste. Appoggia la mano alla parete di legno e la
lascia scorrere fino allo stipite della finestra. Col cuore che martella
furioso, getta lo sguardo oltre il vetro appannato.
Da qui la sequenza degli eventi è troppo rapida per essere
assimilata, codificata, interpretata. L’uomo sotto il cappello di cuoio si
gira di scatto verso quello in piedi, di fronte al camino: due lampi di
fuoco illuminano la stanza e la detonazione provoca una forte
vibrazione di vetri. Il piccolo cranio di Dan Ranucci esplode nell’aria
e il suo contenuto gelatinoso va a tingere di rosso le pareti e il soffitto
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del rifugio. Il corpo si mantiene in equilibrio ancora qualche istante,
prima di crollare in avanti, tra le braci del focolare.
Julian Smoke indietreggia atterrito e, cadendo all’indietro, esce dal
campo visivo di Peter May che si è voltato di scatto verso la finestra.
Con la mente annebbiata inizia a strisciare nella neve, dirigendosi
verso il buio e raggiungendo rapidamente la boscaglia attorno al
capanno. Si ripara dietro un grosso tronco, con la sensazione di essere
giunto anzitempo alla conclusione della storia.
La porta del rifugio si apre e il cono di luce è presto interrotto dalla
figura dell’uomo col cappello che guarda nella sua direzione.
Senza pensare a nulla, Julian inizia a correre dalla parte opposta,
verso la discesa ripida che scende a valle. Urta contro i tronchi e i
rami bassi degli alberi, ma prosegue la fuga, con la sola speranza di
svegliarsi al più presto da quell’incubo. La suola di gomma fatica a
reggerlo sul fondo innevato e più volte si ritrova a precipitare in
avanti, col terrore di non riuscire più ad alzarsi.
Poi, a cento metri dal capanno, un botto violento contro la lamiera
di un furgone nascosto nel bosco. L’impatto è duro e le braccia non
riescono ad attutire lo schianto del volto. Julian si rialza e senza
voltarsi in dietro, inizia a tastare la carrozzeria fino a trovare la
maniglia della portiera. La apre ed entra. Le chiavi sono inserite nel
pannello dei comandi. Prova a mettere in moto e dopo un paio di
tentativi, il motore si accende. Un boato all’esterno anticipa di poco la
frantumazione del lunotto posteriore. Julian ingrana la prima e pesta
sull’acceleratore mettendo in moto il furgone: i rami davanti al
parabrezza vengono spazzati ai lati del piccolo stradello nel bosco. Un
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secondo sparo, ma Julian è già troppo lontano perché Peter May possa
arrestare la sua fuga. Dopo cento metri, il sentiero sbocca su una
strada asfaltata e Julian sterza bruscamente a sinistra, facendo
pattinare le ruote posteriori.
Alla luce dei fanali la neve sembra azzurra e si allarga dai bordi
della strada verso il bosco scuro. Dopo mezz’ora il cuore non ha
ancora ripreso un ritmo regolare: la paura, l’adrenalina e il freddo
continuano a circolare nel sangue, nel cuore della notte, nel cuore del
nulla. Poi ecco in lontananza un minuscolo punto luminoso che si fa
più intenso col procedere del furgone.
Nel parcheggio della stazione di servizio solo due vetture. Julian
parcheggia nella zona più scura, dietro a un TIR con rimorchio.
Scende e s’incammina verso l’ingresso del locale. All’interno poche
persone: il barista, un ciccione al tavolo, un uomo al bancone vestito
di scuro e, in fondo alla stanza, una donna attempata, dai vestiti
succinti, che ondeggia i fianchi al ritmo di Suspicious minds.
Julian riceve uno sguardo di superficie dal barista, intento a
sciacquare un boccale di birra, e uno più curioso dal camionista al
tavolo.
«Non dovresti essere qui.» gli sibila da dietro l’uomo in abito nero.
Il tempo di girarsi, e un colpo alla nuca gli fa perdere l’equilibrio in
avanti. Si appoggia al bancone, portandosi la mano alla testa, ma un
secondo colpo gli oscura completamente la vista e il contatto con la
realtà.
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1.
«Qualcuno mi sente? Sono qui!»
Le grida sono smorzate dalle pareti spesse dell’anfratto. L’aria del
buco è viziata, umida e c’è odore di urina. Il terreno è fresco, a tratti
bagnato, e dove sono presenti avvallamenti più profondi si trasforma
in fango denso.
Da circa mezz’ora l’oscurità è divelta da un raggio di luce che
penetra da una sottile fessura a una decina di metri dal terreno. Sarah
adesso riesce a mettere a fuoco l’ambiente in cui è contenuta, lo
spazio che, durante la notte, le è parso infestato da insetti e falene
assassine. Adesso può comprendere meglio la sua situazione e quante
probabilità ha di uscirne indenne. I polsi e le caviglie sono stretti a
lunghe catene che originano dalla parete rocciosa. La tana in cui si
trova è larga circa sei metri e si estende in lunghezza per otto,
assottigliandosi all’estremità. Un grosso portone di legno è posto a
circa metà della parete; non sono presenti lucchetti o serrature e
guardando con più attenzione sembra solo accostato. Il primo pensiero
è di raggiungere la porta e guardare oltre, raggiungere il suo rapitore e
tentare di spiegare che si è sbagliato, che non può aver preso la
persona giusta, che la sua famiglia non è ricca e che c’è stato
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sicuramente un malinteso.
E se non fossero i soldi quello che vuole?
Un brivido di orrore la pervade. Ora è immobile, atterrita, tesa.
Piccole gocce di sudore le scivolano lungo la schiena, fredde come
rugiada, affilate come bisturi. I pensieri, il respiro e i battiti cardiaci
non sono più sincronizzati, ma divelti in una danza spasmodica che
porta troppo ossigeno al cervello: la vista si appanna e forti capogiri
l’assalgono, a stento trattiene un primo conato, ma il secondo è più
forte, intenso, improvviso.
«Ti prego.» sussurra, «Non ho fatto niente di male.»
«Lo so.»
Sarah sobbalza all’indietro emettendo un gemito strozzato. La voce
proviene dall’estremità buia dell’anfratto.
«Chi c’è?» sussurra con un filo di voce.
Il buio non risponde. Il silenzio si fa più intenso, avvolgente, quasi
denso; l’aria è irrespirabile, torrida, e per alcuni istanti il respiro di
Sarah si interrompe, mentre il cuore continua a correre forsennato,
lacerandole il petto e la mente.
Con un movimento impercettibile allunga il collo verso la parete
più lontana del buco cercando di mettere a fuoco un punto
nell’oscurità: ha l’impressione di scorgere un tenue bagliore, il
luccichio di un anello o di un orecchino, un piccolo oggetto di metallo
che riflette debolmente il fascio di luce dal soffitto.
«La vorresti?»
Ecco di nuovo quella voce roca, bassa, di chi ha fumato tanto e per
tanto tempo. La reazione di Sarah è meno drammatica, simile a quella
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di chi sente un cane abbaiare oltre un cancello, meno orrenda, più
razionale, la reazione del topo che prende fiato non appena il gatto fa
per andarsene. Dopo un lungo sospiro risponde al suo interlocutore.
«Farò tutto quello che vuoi.»
«Davvero?»
«Te lo giuro! Tutto quello che vuoi, ma adesso liberami.»
«Cosa faresti, per me?»
Silenzio.
«Cosa faresti, Sarah?»
Allora non si è sbagliato, non è stato un errore.
«Cosa faresti, per me, Sarah Barkley?»
«Tutto!» grida con la voce rotta dal pianto.
«Tutto cosa?»
Silenzio.
«Se vuoi posso...toccarti.» sussurra Sarah.
«Bene. E poi?»
Silenzio.
«Sei vergine, Sarah Barkley?»
Buio.
«Ti ho chiesto se sei vergine, Sarah?!»
Una leggera brezza si alza nell’anfratto e accarezza il volto di
Sarah rinfrescandole il collo e le spalle. Ora vede il piccolo oggetto
avvicinarsi e dietro di lui un’ombra alta, dalle spalle larghe,
leggermente inclinata a destra. Il capo è coperto dal cappuccio di una
felpa o di una giacca sportiva. A due metri da lei si ferma, allunga un
braccio verso il suo viso e le mostra l’oggetto metallico.
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«La vorresti?»
Una piccola chiave di ferro le penzola davanti agli occhi.
«Ti prego, lasciami andare» singhiozza nuovamente.
«Non voglio che tu mi tocchi, voglio che tu mi nutra.»
Sarah emette un sospiro di sollievo.
«Davvero?» accenna un sorriso.
L’ombra si china su di lei, le annusa i capelli e con il dorso della
mano le sfiora una guancia. Sarah si scosta inorridita; la mano scende
quindi lungo al collo, le sfiora un seno e risale verso la spalla e il
braccio umido.
«Sai di buono.»
Appoggia le lebbra socchiuse sul collo di Sarah, ne inspira l’odore,
un bouquet di orchidea e biancospino; la punta della lingua scorre
nell’incavo del collo e risale fino al mento. Il sapore di sale e paura gli
trasmette una forte eccitazione: si ferma un istante mentre il corpo di
Sarah è scosso da un fremito continuo. Si allunga fino alla bocca, le
giovani labbra sono serrate, contratte; il respiro di Sarah è frequente,
affannoso, e l’uomo può sentire il calore dell’aria che esce
violentemente dalle narici.
«Sei fortunata, sei così giovane e bella.»
Sarah scosta la testa di lato tenendo gli occhi e le labbra chiuse.
Vorrebbe reagire, urlare, ma è paralizzata. Nella mente scorrono
frammenti di una preghiera che la nonna le recitava da bambina,
prima di addormentarsi. Sono ricordi offuscati e le parole di quella
invocazione non trovano un ordine sensato. Le lacrime si fanno
breccia tra le palpebre e scendono oltre gli zigomi e le guance in
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fiamme.
«Perché...?» riesce a sussurrare.
L’uomo si scosta appena.
«Perché a me?»
«Credi che le tue lacrime sarebbero meno amare se ti dicessi il
perché?»
Con la lingua ne assaggia il gusto intenso. Sarah socchiude gli
occhi, tenendo la testa china verso il basso: le scarpe dell’uomo sono
pesanti, da montagna, con macchie scure sulla tomaia, come schizzi.
Può sentire il profumo del suo rapitore, un aroma naturale, non
alterato da artefatti chimici, una miscela di fragranze forti, selvagge,
che spaziano dalla resina al fango, dalla carne di maiale al fieno
bagnato.
Sente odore di pioggia. Un tuono irrompe nell’anfratto. La luce,
che prima penetrava decisa dal soffitto, ora è più tenue. Un secondo
tuono devasta il silenzio e alcune gocce iniziano a cadere all’interno
del buco.
«Puoi andare.»
Le braccia di Sarah crollano lungo il corpo, inermi, con i polsi
dolenti per le catene che li hanno stretti da oltre dodici ore. Solleva
terrorizzata il capo e prova a scrutare oltre il cappuccio che si trova a
meno di mezzo metro da lei. È un attimo, ma distoglie subito lo
sguardo.
Le labbra si stirano nell’abbozzo di un sorriso. Scivola con la
schiena lungo la parete rocciosa ed esce dall’ombra del suo rapitore,
ruota il corpo di centottanta gradi e, continuando a fissare le spalle
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dell’uomo, indietreggia verso il portone. Lo raggiunge, ne tasta il
legno massiccio, lo apre e inizia a correre lungo il corridoio buio.
Dopo una ventina di metri, la corsa si fa più incerta e Sarah è
costretta a rallentare per evitare di cadere a terra. Senza fermarsi, si
volta indietro: il portone è spalancato, ma nessuno la insegue. Procede
ansimante ancora qualche metro, poi il corridoio si allarga aprendosi
in una stanza da cui partono altri vicoli stretti. Senza pensarci,
imbocca il primo a sinistra, procede alla cieca tastando le pareti di
roccia, inciampa una prima volta. Si rialza, barcolla in avanti con le
gambe tremanti, inciampa di nuovo, procede a carponi fino a una
porta socchiusa. Si rialza e la spalanca con forza, ritrovandosi in un
anfratto identico a quello in cui si è risvegliata, ma nel quale è in
scena la più terribile delle esecuzioni.
Appeso alla parete un uomo sulla cinquantina, con le braccia
incatenate, le gambe inermi e il capo chino sul petto. E’
completamente nudo. La pelle dell’addome è stata rimossa, lasciando
intravedere la muscolatura purpurea e i legamenti più chiari. Il fianco
destro è scavato, asimmetrico, meno regolare rispetto al sinistro.
Sarah è una statua di granito, immobile al centro della camera, con
gli occhi sbarrati, la bocca spalancata e il cuore che continua a
pompare sangue alle tempie ad una velocità eccessiva.
L’odore del sangue è forte, pungente e pervade l’intera stanza. Le
gambe dell’uomo sono magre e ricoperte da grumi scuri; ai piedi, un
secchio di metallo ove è stato raccolto il sangue.
In uno stato di semi-coscienza, Sarah tenta di muovere le gambe in
direzione dell’uomo: il tempo per compiere il primo passo appare
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infinito. Ne compie un secondo lentissimo e si ferma a due metri da
quel corpo seviziato.
Un movimento quasi impercettibile del capo fa riscuotere Sarah
dallo stato di shock. L’uomo solleva leggermente la testa; Sarah di
nuovo immobile, terrorizzata; un altro piccolo movimento che rende
visibile la fronte; in Sarah un primo bagliore, una sensazione d’orrore;
ancora una lieve estensione e quegli occhi chiari che l’hanno osservata
per anni.
«Sarah...» in un soffio.
«Nooo!»
Sarah si getta al collo del padre, lo afferra, si allunga per
raggiungere le catene a cui sono legati i polsi, inciampa nel secchio e
rovescia il sangue a terra.
«Resisti papà, adesso chiamo qualcuno!»
Si volta e scorge l’ombra nell’ombra.
«Cosa hai fatto, maledetto!» si scaglia contro l’uomo che resta
immobile.
Lo scontro è violento e Sarah cerca di colpire il suo volto ancora
celato dall’oscurità; picchia forte, lo strattona, ma anche allungando le
braccia non riesce ad arrivare al capo, data la differenza di altezza.
«Sei un bastardo!» continua a urlare piangendo. «Maledetto,
maledetto!»
Con un salto riesce a colpire il mento dell’uomo che si sbilancia a
destra; con un secondo salto afferra il lembo del cappuccio e lo sfila di
lato. Sarah rimane immobile a fissare quei lineamenti così familiari.
«Sei...tu?!»
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«Non era difficile da capire.»
Il movimento dell’uomo è fulmineo, spalanca la bocca e azzanna il
collo di Sarah lacerandole carotide e trachea. Un tenue vagito
fuoriesce dalla bocca, seguito dal ribollire dell’aria nel sangue; gli
occhi verdi bagnati dal dolore e dall’angoscia di morire, le braccia
flesse contro il petto in un debole tentativo di liberarsi dal suo
assassino. Il morso è feroce e violento; con una rotazione del capo
verso l’alto solleva il corpo di Sarah di alcuni centimetri,
risucchiandone le ultime tracce di vita. Quando il corpo di Sarah
smette di contrarsi, molla la presa facendolo cadere a terra.
Si china sul cadavere, estrae un grosso coltello da caccia e lo passa
lungo i bottoni della camicetta. Li fa saltare ad uno ad uno, poi scende
all’elastico dei pantaloni da jogging, lo taglia di netto e sfila gli slip e
il reggiseno. Si ferma alcuni istanti a contemplare la pelle diafana, i
seni piccoli e tondi, l’ombelico perfetto sul ventre piatto e i peli rossi
del pube. Poi si spoglia e si rannicchia accanto a lei. Sente che
l’eccitazione si sta spegnendo e con essa il vigore delle ultime ore; si
sente svuotato di ogni forza, energia, ma sa che il lavoro non è ancora
finito.
Chiude gli occhi e si lascia trasportare dal profumo di Sarah, alla
villetta dove è cresciuta, nella prima periferia di Denver. La vede
correre sul prato di fronte a casa, cercando di catturare due scoiattoli
che fuggono sul grande acero in giardino. È primavera e non sa di
essere osservata. Dalla strada lui riesce a distinguere molto bene i
lineamenti regolari del viso, la netta somiglianza col padre, la voce dal
timbro vivace. Non avrà più di diciassette anni e sembra felice della
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vita. Ad un tratto lei si ferma e volge lo sguardo nella sua direzione: è
impossibile che l’abbia visto, seduto com’é sui sedili posteriori e con i
vetri oscurati. Eppure lei sorride e solleva il braccio salutandolo con la
mano. Continua a sorridere, ma solo con le labbra: gli occhi appaiono
tristi e oppressi da un dolore lontano, irrisolto. Quello sguardo lo
cattura e dopo un attimo di esitazione decide di abbassare il finestrino
per vederla meglio; lei continua a sorridere e i loro sguardi si
incrociano per un tempo indefinito. Poi una voce dall’interno della
casa.
«Sarah, è pronto!»
Lei si gira e corre fino alla porta senza più voltarsi.
Quando riapre gli occhi, si rende conto di avere dormito per
almeno mezz’ora; quella breve pausa gli ha permesso di recuperare le
forze. Si solleva in ginocchio e inizia a lavorare sul corpo di Sarah.
Mentre incide la cute dell’addome, gli occhi si bagnano e alcune
lacrime cadono sul petto e si perdono nel terreno umido.
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2.
«...Non dovresti essere qui.»
Julian Smoke accenna ad aprire le palpebre. Sente ancora freddo,
sente ancora quel rumore metallico e quel gusto di ammoniaca in
bocca.
«Non so se hai realmente capito la gravità della situazione?»
«Non ti preoccupare, é tutto sotto controllo.»
«Sotto controllo?! Questa mattina Jennifer Wayne della NBC è
riuscita ad entrare in ufficio e mi ha fatto un sacco di domande sulle
indagini, sulla ragazza ritrovata e sulla sua identità. Non so per quanto
potrà reggere ancora il nostro No comment!».
Julian socchiude gli occhi, le due ombre nere accanto al letto si
muovono velocemente, si guardano, si parlano. La più grossa allunga
un braccio e gli sfiora la mano. Julian tenta di allontanarsi, ma resta
immobile: il corpo è pesante e restio a rispondere ad ogni comando.
«Guarda, ha aperto gli occhi!»
Peter May si avvicina al letto.
«Julian, mi senti? Sapevo che non ci avresti abbandonato.»
«È andato di nuovo.» osserva Dan. «Credi che sarà in grado di
ricordare qualcosa?»
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«Non lo so. Metti due agenti alla porta e fammi chiamare non
appena riprende i sensi.»
Julian apre gli occhi. La stanza è in penombra e dalle persiane
filtrano tenui i raggi del sole. Solleva faticosamente il braccio e si
porta la mano alla bocca. Un tubo di plastica gli penetra in gola e,
ogni volta che gli insuffla aria nei polmoni, emette un sibilo acuto.
Ruota il capo e osserva un’infermiera sulla cinquantina, con fianchi e
seni abbondanti, che canticchia Suspicious minds. Sta trafficando con
una flebo e si accorge che è sveglio.
«Bentornato», risponde al suo sguardo.
Julian socchiude le palpebre e corruga la fronte.
Infermiera D. Morales, legge sulla divisa. Torna un istante alla
flebo color ruggine e poi inizia a guardarsi intorno; nella stanza sono
presenti altri cinque letti che ospitano pazienti in condizioni simili alle
sue. Solo la signora di fronte sembra essere in leggero vantaggio sugli
altri, seduta sul letto a leggere il giornale.
Cosa diavolo è successo?!
Nessun ricordo è abbastanza nitido da poter essere utilizzato come
testimone affidabile. Ha memoria delle indagini in Texas e degli
omicidi di quello che la squadra aveva definito il Fornaio di Denton. I
sospetti erano ricaduti su Remi Sullivan, un fantasma senza un
passato, un’ombra nella notte. Ma da lì in avanti non ricorda nulla.
L’infermiera Morales gli aggiusta il lenzuolo e prima di
allontanarsi lo saluta strizzandogli l’occhio. La signora del letto di
fronte lo sta osservando: ha il volto gonfio e le braccia enormi, il
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colore della pelle arancione e anche le orbite degli occhi hanno
cambiato colore virando verso il giallo limone.
I raggi del sole non trapelano più dalla finestra e il cielo, oltre il
vetro, appare di un intenso blu cobalto. Julian si sente molto stanco.
Tenta di sollevare il busto, ma non appena si muove, il monitor inizia
a suonare e due infermieri corrono a controllare il tracciato. Uno dei
due gli inietta in vena una sostanza bianca e pochi istanti dopo, tutto si
tinge di piombo.
Quando si risveglia, Peter May è in piedi di fianco al letto. Sorride
mostrando la dentatura fitta e tenendo tra le labbra un sigaro spento.
«Vecchio porco, ce l’hai fatta anche questa volta!»
Julian tenta di rispondere, ma sente la bocca arida. Non ha più
nessun tubo in trachea e riesce a respirare autonomamente.
«Dove...sono?» riesce a chiedere con un filo di voce.
«Sei in terapia intensiva, all’Ospedale Pubblico di Denton. Sei
ricoverato da cinque settimane. Non ricordi nulla?»
Accenna un no con la testa.
«L’hai ammazzato quel figlio di puttana. Il problema é che sei
precipitato con lui da dodici metri e ti sei perforato un polmone.»
Julian si tocca il torace con una mano.
«Il polmone destro. Remi Sullivan è morto sul colpo, tu sei stato
più fortunato. Siete volati giù dal tetto del suo forno. Sai quanti resti
abbiamo trovato nella fornace? Nessuno. Però aveva un archivio dove
sono stati ritrovati nove crani e nove paia di scarpe, tutte
corrispondenti a quelle indossate dalle ragazze il giorno della
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scomparsa.»
Non ricordo nulla!
Julian annuisce debolmente con la testa e accenna a Peter di
proseguire.
«Non c’è molto altro: non sappiamo il movente, né se Sullivan
abbia ucciso altre volte in passato. Conduceva una vita isolata e non
aveva parenti. Abbiamo perquisito la sua casa e non abbiamo trovato
nessun oggetto delle vittime: com’è possibile che non conservasse a
casa qualcosa che gli potesse ricordare quelle ragazze?»
«...il divano?»
«Non c’era nulla, né sotto, né tra i cuscini.»
«...il divano», insiste stremato.
Peter si ferma un istante, poi estrae il telefono dalla giacca e
chiama.
«Manda subito qualcuno a casa di Sullivan a controllare il divano.
Lo devono aprire e controllare all’interno, centimetro per centimetro.
Ora!»
Riattacca e torna a guardare Julian negli occhi.
«Come stai?»
«...ho fatto un sogno strano.»
«Ci credo, sei imbottito di morfina.»
«Ammazzavi Dan.»
Peter abbassa la voce e lo sguardo.
«Julian, sono venuti gli affari interni.»
«Signore, l’orario di visita è finito. Si deve accomodare.»
L’infermiera Morales incrocia lo sguardo di Peter May, lo sguardo
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da killer che riserva all’umanità e dal quale sono esclusi solo pochi
eletti. L’infermiera risponde con un sorriso teso e aggiunge: «Può
restare ancora cinque minuti.»
«Sono venuti, ci hanno interrogato, ma nessuno ha parlato. Non
hanno nulla in mano.»
Julian continua a osservarlo. È sempre stato bravo in questo: ha
quello che nell’ambiente viene chiamato Il dono, ed è in grado di
smascherare qualsiasi bluff o balla che gli propinano. Nel bene e nel
male. È stato grazie a questo suo talento che aveva scoperto la
relazione della moglie.
«Charlotte?»
«Sta bene, è passata a trovarti anche la settimana scorsa.»
Julian inspira profondamente.
«Ora vado, ci vediamo domani.»
Julian torna ad osservare Peter e si rende conto che non è lui che
sta bluffando. È qualcosa che si muove alle sue spalle, sono
movimenti meccanici, poco naturali, occhiate fugaci, furtive, una
combinazione di gesti artificiosi e piccoli particolari tipici di una
personalità meschina. Si allunga sul letto per vedere meglio, ma
l’uomo in abito scuro si è già allontanato.
«Chi è …quell’uomo?»
Peter si volta, ma non vede nessuno.
«Quale uomo?»
«...seguilo», aggiunge sfinito.
«Facciamo che adesso ti riposi e non pensi a niente. Julian, c’è
un’altra cosa che ti devo dire.»
22
Julian torna ad appoggiarsi al letto.
«È scomparsa una ragazza a Denver, due mesi fa, ed è stata
ritrovata ieri nei boschi attorno a Coal Creek. Era in condizioni
pessime, sia per il clima, sia per come l’avevano ridotta. Ci sono molti
punti oscuri e...abbiamo bisogno del tuo aiuto.»
Julian non risponde.
«Va beh, torno a trovarti domani.»
Julian osserva l’amico allontanarsi dalla stanza. Inspira più volte,
avvertendo un dolore acuto al torace, seguito da alcuni colpi di tosse.
Si copre la bocca con un tovagliolo che si sporca di sangue. Tenta di
piegare le gambe, ma restano immobili come due barre di ferro. Dopo
numerosi tentativi, riesce a flettere di pochi millimetri l’alluce destro.
Un primo passo, verso il mondo esterno.
Julian Smoke ha un polmone perforato, è immobile in un letto
d’ospedale da cinque settimane ed è uscito dal coma da meno di
ventiquattro ore. È molto stanco e vorrebbe chiudere gli occhi per altri
trenta giorni, ma sa che la sua convalescenza è terminata oggi, con la
visita di Peter May.
23
3.
«Guarda come si è vestito oggi!» bisbiglia all’amica.
«Dai, Cloe, sei davvero cattiva. Però, hai ragione», sorride Laura.
«Ti ricordi ieri sera, alla festa di Harold? Si è avvicinato a Margaret
e ha provato a chiederle qualcosa. Io ti giuro non ci credevo, non ce
l’ho fatta e sono scoppiata a ridergli in faccia.»
«Che stronza.»
«Stronza io? Ma scusa, ti sembra giusto mettere in imbarazzo
Margaret con quel maglione a scacchi,... oddio non riuscivo a smettere
di ridere.»
«Va bene, anche tu però a lasciargli quel messaggio sulla scrivania:
Alla festa di Harold avrò una camicetta bianca e una gonna rossa,
non mi deludere. Che troia, lo sapevi dal pomeriggio come si sarebbe
vestita.»
«Lo so, ma sarebbe stata una festa noiosissima e volevo ravvivarla
un po’.»
«Beh dai, non ti mancherà un po’ il vecchio Harold, ora che va in
pensione?»
«Il vecchio porco Harold, vorrai dire?»
«Cloe, ma qual’è il tuo problema oggi, cosa hai combinato ieri
24
sera?»
«Non ho combinato proprio nulla. Ho aspettato il mio ragazzo fino
all’una, in guepierre e calze nere, ma quel coglione ha preferito
giocare a poker tutta la notte. Cazzo, ma ti rendi conto? Ho ventisette
anni, passo in palestra otto ore alla settimana, ho un corpo levigato
come il marmo e quel finocchio preferisce stare con i suoi quattro
amici a giocarsi la paghetta della settimana. Ne ho le palle piene, ho
voglia di cambiare e stasera esco a cercarmi un vero uomo. Tu ci sei?»
«Guarda, si sta alzando.»
«Ha la camicia infilata nei mutandoni di lana!»
«E che scarponi, ma dove vive?»
«Oddio, si è girato e viene verso di noi. Non, non venire qui, non
chiederci nulla.»
«Scu...scusate»
«Smettila di sghignazzare» sussurra Laura all’amica.
«Scu..scusate cosa!?» e giù a ridere.
«A...avreste un tem...temperino?»
«Ma che cosa dici, Earl, non siamo a scuola. E poi a cosa ti serve, a
fare la punta alla tua matita?!» Cloe si piega sulle ginocchia con le
lacrime agli occhi.
Earl inspira e chiude gli occhi per qualche secondo. Quando li
riapre, lo sguardo è meno spento. Laura smette di ridere e tira una
gomitata all’amica ancora piegata in avanti. Cloe alza la testa e
incrocia lo sguardo freddo di Earl.
«Cosa c’é, ti sei arrabbiato?» inizia calma alzandosi, «Qui davanti
non ci devi più passare, capito!» grida sbattendo i pugni sulla
25
scrivania.
Earl inspira di nuovo e con la mano si stringe il polso destro
conficcandosi le unghie nella carne.
«Cosa fai ancora qui, smamma!»
«C’è qualche problema, ragazze?» chiede Harold, buttando la testa
oltre il paravento della sua scrivania.
«C’è che Earl si è soffermato un po’ troppo a guardare le gambe di
Laura.»
«E come dargli torto.»
«Sei il solito coglione!»
Earl si gira, raddrizza la schiena e torna alla propria scrivania con
passo lento.
«E dire che non sarebbe neanche brutto, se non fosse...così.»,
bisbiglia Laura guardandolo da dietro.
«Ma per favore! Certo che anche tu sei in astinenza dura, eh? Da
quanto tempo non ti fai una bella scopata?»
«Ma che dici, la mia vita sessuale è molto attiva, anche se non lo
sbandiero ai quattro venti.»
«Vedremo stasera, ci stai a fare un gioco?»
«Sentiamo.»
«Andiamo al Sixty Five e vediamo chi ne rimorchia di più.
Chiamiamo anche Margaret»
«E cosa si vince?»
«Facciamo che non si vince niente, ma che si può perdere tutto.»
«In che senso?»
«Chi perde inviterà a cena Earl Laski, ci stai?»
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«Wow, certo che tu non sei normale. Perfetto, aspetta allora che
prenoto una seduta al Beauty Inn per le sei.»
«Paura di perdere, eh?»
Alle cinque e trenta Earl marca il cartellino d’uscita e s’incammina
verso il corridoio principale della Friederich West Company. Preme il
tasto e dopo pochi secondi le porte dell’ascensore si aprono. Nello
specchio osserva l’immagine di un uomo che non troverà mai posto in
questo mondo. I capelli castani e arruffati cadono sulle tempie e sulle
spalle a ciocche irregolari. I piccoli occhi celesti si muovono
nervosamente dietro la montatura nera degli occhiali. La pelle del viso
è pallida, ma di un colore violaceo sulle guance; la mascella è
squadrata e ricoperta da pochi millimetri di barba ispida. La camicia a
piccoli quadretti verdi e nocciola non contribuisce a migliorare
l’aspetto di Earl che ora è all’interno dell’ascensore. Preme lo zero
continuando a fissare la sua immagine allo specchio. Si passa una
mano tra i capelli, piega la testa di lato e inarca un sopracciglio:
vorrebbe essere diverso, normale, riuscire a parlare senza incepparsi
ogni volta, sorridere a una ragazza senza avvertire un forte senso di
nausea, uscire con i colleghi d’ufficio qualche volta, a bersi una birra
e a parlare di sport. Ma in cuor suo sa benissimo che non potrà mai
cambiare la sua natura: il burattino è difettoso dalla nascita e non c’é
modo di ripararlo. Ci hanno provato tante volte senza ottenere alcun
risultato.
Ricorda ancora quando i suoi genitori l’avevano accompagnato, a
sette anni, dal neuropsichiatra infantile. Erano preoccupati perché lo
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vedevano sempre triste, apatico. Ma quello che li aveva letteralmente
sconvolti era stato trovarlo nel letto abbracciato a un gatto morto.
L’indomani, avevano preso un appuntamento dal migliore specialista
della città e alle quattro in punto si era ritrovato in uno studio del
centro, di fronte ad un’elegante donna di colore.
«Ciao Earl, io sono la dottoressa Leclerc, ma tu puoi chiamarmi
Francisca.»
Gli aveva allungato la mano esile e scura che lui aveva scrutato con
interesse, senza tuttavia ricambiare il saluto.
«Quanti anni hai?» gli aveva chiesto sorridendo e stringendo
appena gli occhi.
«Earl non parla molto volentieri con gli estranei.» era intervenuto il
suo papà.
«Mi piacerebbe rimanere qualche minuto da sola con lui, se non vi
dispiace.»
I genitori avevano accettato volentieri accomodandosi nella sala
d’aspetto.
«Mi hanno detto che sei un bambino molto bravo, è vero?»
aggiunse Francisca, non appena rimasti soli.
Lui continuava a guardarla giocherellando con le dita.
«Ho qualcosa che potrebbe piacerti, lo vuoi vedere?»
Annuì leggermente.
Francisca si alzò e si avvicinò alla libreria, prese un unicorno di
legno bianco e glielo appoggiò davanti.
«Ti piace?»
Annuì di nuovo, allungando le mani verso il giocattolo. Lo prese e
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se lo portò vicino alla bocca, lo annusò e infine lo assaggiò con la
lingua. Francisca osservò la scena impassibile, poi si avvicinò a Earl e
gli appoggiò una mano sulla spalla.
«È bello vero? Si chiama Duffy.»
Mentre ancora parlava iniziò a stringergli il muscolo del collo,
dapprima delicatamente, poi sempre con maggiore forza. Earl
continuò ad annusare il cavallo, con gli occhi socchiusi, senza più
considerare ciò che gli accadeva attorno.
Quando i suoi genitori rientrarono, si fermarono a parlare con la
dottoressa in una stanza adiacente allo studio. Nei mesi successivi,
incontrò la dottoressa Leclerc numerose volte e ci fu un periodo in cui
gli sembrò di sentirsi meglio. Ma fu per un periodo breve.
Le porte dell’ascensore si aprono ed Earl s’incammina verso il
parcheggio. Il viaggio verso casa è breve, nonostante i lavori sulla
Andrews. E’ una giornata afosa, ma all’orizzonte si intravedono
nuvole scure che si avvicinano a valle.
«Pioverà ancora.» bisbiglia.
Parcheggia il pick-up davanti al garage e scende lentamente. Prima
di entrare in casa butta lo sguardo verso il cielo e annusa l’aria.
«Sarà una notte speciale. Ti prometto che non ti farò male.»
Entra in casa per una decina di minuti, poi esce con una grossa
sacca di tela e una giacca sportiva impermeabile. Monta sul pick-up e
si dirige a ovest, sulla settantesima, in direzione del Coal Creek
Canyon.
Dopo circa un’ora abbandona la strada principale e imbocca un
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sentiero sterrato che sale verso l’alto per due chilometri. Parcheggia
vicino all’imbocco di una galleria abbandonata, prende il borsone ed
entra facendosi luce con una torcia elettrica. Estrae dalla tasca
dell’impermeabile un sandwich al formaggio, lo addenta senza piacere
e prosegue verso le viscere della montagna. Giunto in un cunicolo più
stretto, illumina la porta di legno che gli sbarra la strada; si cala il
cappuccio sul capo, gira la chiave di ferro ed entra nella stanza.
La ragazza distesa a terra sta ancora dormendo; ha i polsi legati
dietro la schiena e le gambe serrate alle caviglie. La bocca è coperta
dal nastro adesivo; la camicetta bianca è strappata, la gonna rossa
infangata. Si ferma un istante a guardarla, poi si china e con forbici da
giardino le taglia gli indumenti. Apre la sacca di tela e ne estrae un
abito da sera turchese impreziosito da paillette. Distende la ragazza
sopra un lenzuolo, la slega e la veste facendo attenzione a non
rovinare l’abito; prima di infilarle i sandali con i tacchi, le bacia il
dorso del piede.
«Grazie di aver accettato il mio invito, Margaret.» le sussurra con
voce morbida.
Margaret accenna un movimento del capo, ma è ancora troppo
stordita dal cloroformio. Earl le si avvicina e le sfiora le labbra con le
dita: la bocca è carnosa e scura, la pelle olivastra, il taglio degli occhi
orientale.
Dopo un lungo sospiro, si alza e si cambia gli abiti, indossando una
camicia bianca e lo smoking che ha portato da casa. Apparecchia un
piccolo tavolo da campeggio, si siede sulla sedia e si accende una
sigaretta.
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«Ti piace il posto che ho scelto?»
Margaret si muove di nuovo e questa volta mugugna qualcosa, un
lamento.
«Si, dimmi cara, hai appetito?»
«Dove...dove sono?» chiede tenendosi la testa con la mano.
«Siamo da Silvio, non ricordi?»
Earl è meravigliato di com’è sciolto e spigliato questa volta. Non
ha ancora balbettato ed è difronte a una delle ragazze più belle che
abbia mai incontrato. Aveva ragione lui, non c’era più bisogno di tutte
quelle medicine: aveva fatto bene a sospenderle all’inizio dell’anno.
31
4.
Sono dieci giorni che nessuno della sua squadra si fa vedere in
ospedale. La situazione a Denver dev’essere particolarmente tesa. Dan
Ranucci entra nella stanza con passo pesante, la testa inclinata e le
sopracciglia inarcate.
«Ciao Julian, come va?»
Si sofferma a guardare l’amico, poi risponde.
«Sei ingrassato in modo spaventoso, Dan. Non ti eri messo a
dieta?»
Dan si guarda intorno e si tocca la pancia.
«Sono ancora a dieta, ma credo di avere il metabolismo lento.»
«Cazzo Dan, riprendi a fumare, inizia a drogarti, o fai qualsiasi
cosa per dimagrire, sennò tra qualche mese ci sarai tu in un letto
d’ospedale!»
«Abbiamo controllato la casa di Sullivan. Due cuscini del divano
erano imbottiti con i capelli delle vittime.»
«Avete già controllato se c’è corrispondenza con le ragazze?»
«In realtà si, ed effettivamente non c’è una corrispondenza
assoluta. Sono stati ritrovati i capelli raccolti in ciocche, e sembrano
appartenere a dieci persone diverse.»
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«Stai dicendo che manca una ragazza all’appello? Non c’erano
nove crani nell’archivio?»
«Più che una ragazza, mancherebbe una donna: nove ciocche sono
di colore rosso, mentre una è di capelli grigi, avvizziti.»
«Questo effettivamente stona un po’. Per quanto ne sappiamo Remi
Sullivan era solo al mondo, ma occorre eseguire il test del DNA per
escludere che si tratti di una parente. Inoltre, a parte il forno, Sullivan
non aveva altre proprietà: dobbiamo ribaltare quella casa e trovare i
resti della decima vittima, probabilmente la più significativa. Sfondate
i muri e scavate in giardino: il caso non è ancora chiuso.»
«Credo che dovremo attendere l’autorizzazione del giudice, ma
sarà questione di un paio d’ore. Chiamo Peter.»
«Dan,» Julian si raddrizza sul letto guardandolo dritto negli occhi,
«Peter mi ha detto che sono venuti quelli degli affari interni.»
«Non ne sapevo nulla!», risponde allarmato. «E cosa hanno detto?
Io ho sparato perché Charles Trentassi aveva estratto la pistola. Stava
per sparare in testa a quel ragazzino, te lo giuro!» La voce inizia a
tremare. «Cazzo, si è riparato dietro di lui, si è difeso col suo corpo!»
«Questo me l’hai già detto prima che andassi in coma. Però, voglio
sapere chi vi ha detto che Trentassi aveva rapito il bambino. Vi siete
precipitati a casa sua in piena notte senza un mandato e avete fatto
fuori un bambino, cazzo. Non suona benissimo, vero?»
«Sì, suona di merda. Ma Peter mi ha detto di aver ricevuto una
telefonata anonima e io gli ho creduto. È uno stronzo ed è un vero
bastardo, ma lo conosco da vent’anni e sa fare il suo mestiere.»
«Ok, Dan. E mi spieghi cosa è successo dopo?»
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«Dopo che il bambino è stato ucciso e che la pallottola ha colpito la
spalla di Trentassi, Peter ha perso la testa: si è avvicinato a Charles e
ha iniziato a colpirlo a mani nude. Il fatto è che lui continuava a
ridere, e a dire che l’avremmo pagata cara quella cazzata. E più
picchiava, più quel mostro rideva. Alla fine l’ha portato al piano di
sopra, lo ha appeso a testa in giù e l’ha fatto precipitare di sotto. Io ho
provato a fermarlo, ma ero sconvolto per il bambino.»
Julian prende fiato e sta per aggiungere qualcosa, poi si blocca. In
realtà sa benissimo che avrebbe fatto lo stesso.
«E che mi dici di Denver?»
«Certo che il nostro è proprio un bel paese. Sarah Barkley è stata
ritrovata a Coal Creek sotto un cumulo di rami secchi. La gola
squarciata da un morso umano e l’addome scuoiato, in avanzato stato
di putrefazione. Non contento, l’assassino ha pensato di rallegrare il
volto della donna cucendole le labbra con uno spago in modo che
potesse continuare a sorridere anche da morta.»
Julian ripercorre velocemente le immagini delle vittime di Sullivan,
tutte tra i venti e trent’anni, tutte sorridenti, nelle foto che aveva
appeso sulla lavagna dello studio.
«Altri particolari?»
«Inizialmente si pensava che potesse essere stato il padre,
scomparso lo stesso giorno con la figlia. La moglie ha sempre negato
tale possibilità, dicendo che il padre e la figlia avevano un rapporto
stupendo. In realtà, sul PC del signor Barkley abbiamo trovato
numerosi contatti in chat con giovani ragazze. I sospetti sono stati
fugati dal ritrovamento del suo cadavere, poco lontano dal luogo dove
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è stata ritrovata Sarah. Anche il padre aveva subito delle sevizie: era
stato scuoiato nella regione addominale ed erano presenti delle
lacerazioni che perforavano la parete a destra, sotto l’arcata costale.
Oggi il patologo dovrebbe inviarci l’esame tossicologico e la causa di
morte per entrambi.»
«Che lavoro faceva il signor Barkley?»
«Lavorava per una ditta tessile. Era responsabile delle vendite.»
«Quindi sempre in viaggio. Dan, domani mi fanno uscire dalla
terapia intensiva e mi trasferiscono in reparto. Potresti portarmi il
fascicolo di Sullivan?»
«Va bene, se ci sono novità te le faccio sapere. Non dire nulla a
Peter riguardo alla storia di Trentassi.»
Julian finge di ascoltare ancora, ma con la mente si è già trasferito
nella contea di Denver, ai piedi delle montagne rocciose. Sta
osservando le vie che portano a Coal Creek, passando per i canyon
meridionali. Annusa l’aria calda, che si rinfresca salendo di quota,
avverte l’odore di resina e di pino, l’eco della valle e il silenzio dei
boschi. Poi torna in città e scorge la casa dell’assassino, una villetta
bianca, regolare, anonima, col prato ben curato per non dare
nell’occhio. Entra in casa e osserva le foto alla parete.
Ti piace la gente che sorride o ti attraggono le persone tristi e
pensi che il tuo compito sia di rallegrarle?
Un movimento di fronte lo riporta alla realtà. Suona il campanello
e dopo un minuto arriva l’infermiera Morales.
«Dove stanno portando la signora?»
«In sala operatoria.»
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«Può dirmi come si chiama, signorina Morales.»
«Ho cinquantacinque anni e due divorzi alle spalle, comunque
grazie. Non posso dirle niente, mi dispiace.»
«Sa chi sono, vero?»
«Certo, è l’agente speciale Julian Smoke. Ma le regole sono
regole.»
«Mi dica solo chi è venuto a trovarla qualche giorno fa.»
«Ogni tanto viene un parroco di Denton. Non credo che abbia
parenti, forse un lontano nipote.»
«Don Elia?!»
«Si, lo conosce?»
«Ci ho parlato una volta, due mesi fa.»
Julian si mette a sedere con le gambe giù dal letto. Si massaggia le
spalle, si stira le braccia e il collo.
Don Elia?!
Ricorda di averlo interrogato durante le indagini perché la sua
parrocchia distava solo un centinaio di metri dalla casa di Remi
Sullivan. Don Elia gli aveva detto di non conoscerlo e di non averlo
mai visto in chiesa. Tutte le volte che era passato a casa di Sullivan
per le benedizioni, non lo aveva mai trovato o se c’era non gli aveva
aperto. Don Elia gli era sembrata una persona normale, un po’ fredda
per essere un giovane prete, ma nulla di particolare.
Quindi, è lui l’uomo dell’altro giorno!
Prova a focalizzare meglio la figura che si muoveva di fianco al
letto della signora, ma non riesce a ricordare molto. Il giorno in cui si
è svegliato dal coma aveva in corpo dosi di morfina molto elevate e
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tutto gli era apparso confuso; la realtà si mescolava alla fantasia, ai
sogni delle settimane precedenti e ora Julian ha il dubbio se aver visto
o meno quell’uomo. La buona notizia è che si sente meglio e sta
riacquistando le forze; ha molto appetito e respirare non è più una
tortura. I medici sono soddisfatti e hanno preventivato la sua
dimissione in settimana.
Si distende sul letto e allunga un braccio per afferrare il
Washington Post. In prima pagina un articolo sulla tenue ripresa
economica. Volta pagina e un biglietto sfila tra i fogli del giornale e
cade sul letto. Lo raccoglie e nota che si tratta di una carta da gioco:
l’asso di fiori.
La classe operaia.
L’asso di fiori è sempre stata la sua carta preferita, sin da quando
era bambino. Non ricorda di aver mai perso una mano con l’asso di
fiori; se aveva qualche dubbio di non poter vincere passava, ma se
giocava vinceva sempre. Nel poker classico i fiori rappresentavano la
classe operaia e questo a Julian è sempre piaciuto. S’immaginava
operai disperati giocarsi l’intero stipendio contro i datori di lavoro
nelle bische clandestine, andare in all-in con sette e due di fiori e far
passare donna e jack di quadri al pre-flop (i quadri rappresentavano
anticamente i mercanti).
Osserva la carta sollevandola con un tovagliolo di carta, come se
fosse la prova della scena di un crimine. La avvicina e ne scruta la
superficie in controluce: la facciata è regolare e senza imperfezioni,
mentre il dorso rileva un disegno particolare che cambia col
movimento della mano.
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È una carta truccata.
Nell’angolo superiore sinistro due lettere, SJ. Agli angoli inferiori
due numeri, 33 e 13020.
Julian chiama l’infermiere e gli chiede se conosce chi consegna i
giornali in ospedale.
«Nessuno consegna i giornali in terapia intensiva. Quello»,
indicando il Washington Post, «dev’essere della signora del letto
quattro che è appena stata trasferita.»
«E com’è finito sul mio comodino?»
«Non saprei. Mi scusi ma devo andare.»
Qualcuno vuole invitarmi a giocare.
Si guarda intorno: tutti i pazienti sono attaccati a un ventilatore e in
coma farmacologico. Osserva i due infermieri che parlano al bancone
centrale e l’infermiera Morales che sta pulendo la tracheostomia del
signore al letto uno.
Brutta storia.
Abbassa lo schienale del letto e chiude gli occhi.
Chissà cosa sta facendo Charlotte in questo momento.
Annusa l’aria e prova a ricordare il suo profumo dolce che lo
avvolgeva tutte le volte che tornava a casa. Al termine di un’indagine,
dopo aver assistito alle peggiori crudeltà del genere umano, sapeva
che c’era un posto in cui gli orrori del suo lavoro sbiadivano e
perdevano il loro potere distruttivo. Si smarriva nei sui occhi celesti e
intravedeva un bagliore di speranza per il mondo, per il loro
matrimonio, per la loro vita. Ma erano bastati sei anni di quell’inferno,
di quell’unione vissuta a distanza, lui a inseguire le tracce dell’ultimo
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predatore seriale e lei ad aspettarlo a casa in preda a incubi feroci, per
distruggere un legame di quindici anni.
Lui aveva notato i primi segnali della loro crisi dalla freddezza con
cui lei aveva iniziato a rispondere al telefono, dalle sue chiamate
sempre più rade, dall’imbarazzo che non riusciva a celare quando lui
tornava a casa. Più volte le aveva chiesto se c’erano problemi, se
stava cambiando qualcosa nel loro amore, se poteva ancora fidarsi di
lei. Charlotte abbassava lo sguardo e, dopo pochi istanti, tornava a
guardarlo con gli occhi umidi, senza parlare. Lo stringeva a sé, lo
prendeva per mano e lo accompagnava in camera. Le candele erano
sempre accese e la notte facevano l’amore, ma sempre più spesso
aveva l’impressione di essere solo nella loro stanza e nella loro vita.
Avrebbe voluto fare qualcosa per evitare quella deriva, ma tutte le
volte che vedeva i volti delle donne e dei bambini scomparsi, non
poteva fare a meno di pensare alla loro paura, alla disperazione dei
loro familiari e sentiva che l’unico lavoro che poteva fare in questa
vita era dare la caccia a quelle belve.
Una sera aveva chiamato Charlotte da Chicago e lei aveva risposto
con una voce così radiosa e piena di gioia che l’aveva sconvolto. Un
pensiero tanto terribile, quanto concreto lo aveva assalito e l’indomani
le aveva fatto recapitare a casa un mazzo di rose rosse senza biglietto.
Era il giocatore di poker che andava a vedere la mano del suo
avversario senza nemmeno una coppia. Aveva deciso di mettere tutto
nel piatto, di giocarsi tutto in quella mano, sapendo già di come
sarebbe andata a finire. Se non l’avesse richiamato, avrebbe avuto la
conferma della sua relazione. Attese invano per tre giorni, senza
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sentire Charlotte. Il suo amante aveva sicuramente fatto suo quel gesto
romantico, svelando il loro rapporto. Il quarto giorno tornò a casa
verso le otto di sera e trovò Charlotte in bagno, mentre finiva di
truccarsi, con abito nero e tacchi alti. Julian non riuscì a dire nulla,
abbozzò un sorriso sincero e proseguì verso la camera da letto.
Charlotte gli corse dietro, cercando di parlargli, di arrabbiarsi, di
scusarsi, ma Julian era ormai lontano. Prese una borsa dall’armadio e
la riempì con alcuni indumenti, mentre Charlotte cominciò a piangere
e a colpirlo sulla schiena. Julian si voltò verso di lei.
«Sono felice per te, davvero», riuscì a dirle con voce ferma.
Charlotte si mise a sedere sul letto, con le mani davanti agli occhi.
Julian tirò fuori dalla giacca un biglietto e lo appoggiò sul letto di
fianco alla moglie.
«Questo doveva arrivare con le rose, ma forse è stato meglio così.»
Lei alzò gli occhi devastatati dal mascara e lo seguì mentre usciva
dalla stanza. Esitò alcuni secondi, poi prese il biglietto e lo lesse con
la vista appannata dalle lacrime.
Cara Charlotte,
se potessi diventare come tu mi vuoi lo farei all’istante. Ma ciò che
più desidero è che tu sia felice, in qualsiasi modo, anche a costo di
perderti. Julian
Julian sospira, poi apre gli occhi e incrocia quelli di Peter May, in
piedi in fondo al letto.
«Abbiamo avuto dei problemi con la casa di Sullivan. La
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perquisizione di ieri non è stata autorizzata dal procuratore della
contea. Ho chiamato l’avvocato di Sullivan per raggiungere un
compromesso, ma dovremo attendere comunque qualche giorno. Mi
dispiace.»
«Non importa, tanto Remi Sullivan non può più scappare.»
5.
«Benvenuti sul volo AA5674, Denton-Denver. La durata prevista
del volo é di un’ora e quindici minuti.»
Alice Duvall non riesce a smettere di armeggiare con la cintura di
sicurezza e di guardare fuori dal finestrino.
La signora di fianco le appoggia una mano sul braccio.
«Stai tranquilla, andrà tutto bene?»
41
«Mi scusi...Ma ogni volta è la stessa storia, non riesco ad
abituarmi.»
«Ognuno ha le sue paure, io per esempio ho paura dei cani
randagi.»
Alice sorride. Il rumore dei motori sale progressivamente mentre il
velivolo inizia ad accelerare. Si appoggia allo schienale, socchiude gli
occhi e inspira profondamente.
«C’è una storia. Si dice che chi ha paura di volare ha paura di
amare, ma forse non sono le parole che vorresti sentire in questo
momento.»
L’aereo si stacca dal suolo e Alice avverte una fitta allo stomaco,
forse accentuata dalle parole della signora. Al primo vuoto d’aria non
resiste e afferra il sacchetto di carta dove rimette la colazione del
mattino.
«Adesso passa, vedrai. Io soffro di mal di mare e una volta ho
rimesso per sei ore, ma il mal di mare è molto peggio.»
Alice è sopraffatta da un secondo conato. Vorrebbe essere in un
luogo diverso, o almeno in un posto a sedere differente. La fronte è
imperlata di sudore, alcune ciocche di capelli sono bagnate e
schiacciate sulle tempie.
L’aereo prende quota e si raddrizza, si spegne l’allarme delle
cinture di sicurezza e alcuni passeggeri si alzano per sgranchirsi le
gambe.
«Come stai?»
«Meglio, grazie.»
A mente fredda Alice ripensa alle parole della signora. In effetti è il
42
suo problema maggiore, lasciarsi andare nelle relazioni. Anche questa
volta è stata lei a prendere la decisione di separarsi per qualche tempo.
In realtà sa benissimo che le probabilità di tornare con lui sono
minime, e non perché abbia qualcosa che non vada. Il problema è lei,
lo è sempre stato.
«A cosa pensi, cara?»
«A quello che mi ha detto prima. Credo che in parte abbia
ragione.»
«Ti riferisce alla paura di volare? E’ una cosa che mi sono
inventata lì per lì, per distrarti.»
Alice la guarda imbarazzata, poi abbassa gli occhi mentre le gote si
tingono di rosso.
«Non ci sono regole, ciascuno ama a modo suo. Il problema,
semmai, è scegliere la persona giusta.»
«Si vede che scelgo sempre quella sbagliata.»
«Mia cara, la maggior parte delle persone segue degli schemi
mentali predefiniti e tende a ripeterli in situazioni analoghe. E’ come
se tu pretendessi di parlare a un eschimese nella tua lingua e ti
lamentassi perché non ti capisce. Devi imparare il linguaggio della
persona che ami, o sceglierne una che usi il tuo linguaggio.»
«È interessante, non me l’aveva mai detto nessuno. Cosa fa nella
vita.»
«Leggo le carte. Ma ora sono in pensione.»
«Le chiromanti vanno in pensione?»
«Alcune lo fanno, o sono obbligate a farlo.»
Alice sorride di nuovo, ma i suoi occhi non riescono a mascherare
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il pregiudizio che ha nei confronti dei tarocchi. Anche la signora
sorride, poi estrae un foglietto di carta dalla borsetta e lo porge alla
ragazza.
«L’ho scritto questa mattina, prima di uscire di casa.»
Alice lo prende incuriosita, lo apre e ne legge il nome scritto
elegantemente.
Alice Duval.
Spalanca la bocca incredula, poi si gira verso la signora ridendo.
«In realtà Duvall si scrive con due elle.»
«Lo so, ma tu sei bella anche con una sola.»
«La ringrazio.»
Alice è raggiante. Era da mesi che non si sentiva così euforica e per
di più a tremila metri di altezza.
«Mi dica, e come mai è andata in pensione? Mi sembra una brava
persona, in grado di aiutare la gente.»
«È vero, per anni ho aiutato molte persone. Ma ora sono stanca e
ho voglia di ritirarmi» risponde con tono serio.
Alice continua a guardarla come se stesse osservando un animale
delle fiabe.
«Ma è incredibile...io non ci ho mai creduto. E guardi, sono una
persona molto razionale.»
La signora le accenna un sorriso, poi si volta verso il finestrino.
Alice si ricompone e si rende conto di aver perso il controllo.
«Mi scusi se l’ho importunata.» aggiunge con tono dimesso.
«Non è per te. Stavo aiutando un ragazzo che aveva problemi a
scuola e i suoi genitori erano convinti che non avesse disturbi
44
psicologici e mi avevano chiesto di parlargli. Dopo alcune sedute li
avevo avvisati di un certo malessere e che loro figlio poteva avere
bisogno di uno specialista. Loro hanno continuato a portarlo da me,
perché avevano notato dei miglioramenti. Ventinove giorni fa si è
tolto la vita gettandosi da un viadotto.»
Alice è senza parole. Alza la mano per toccare quella della signora,
poi si arresta; gli occhi della donna sono umidi e persi in un dolore
profondo. La ragazza prende un fazzoletto di carta e lo allunga alla
signora.
«Grazie, cara. Stai attenta a Denver, è l’unico consiglio che posso
darti», prosegue con il volto verso il cielo scuro.
Alice ha un sussulto, poi ritira la mano e si gira dalla parte opposta,
facendo finta di non avere sentito. Si aggiusta la gonna di organza e
chiama l’hostess.
«Potrei avere un bicchiere di vino?»
«Glielo porto subito.»
Dopo cinque minuti la signorina della American Airlines torna con
un bicchiere di Chardonnay e delle arachidi.
«La ringrazio.»
Beve un sorso di vino ghiacciato e si sofferma sull’anello che porta
al dito.
Questa pausa mi farà bene.
«Scusa, posso chiederti una cosa?»
Alice si gira verso il ragazzo che siede oltre il corridoio centrale,
sulla stessa fila di sedili. Ha la pelle abbronzata, gli occhi chiari, molto
elegante in un gessato nocciola e camicia bianca. Ad Alice non sono
45
mai piaciuti i biondi, ma decide di dargli una chance.
«Come dici?»
«Ciao, mi chiamo Sean. Potrei sapere che profumo hai?»
«Te la vuoi giocare così, Sean? Va bene, è Eau de pamplemousse
rose.»
Sean cerca di mantenere il sorriso integro e gli occhi sicuri, ma sa
di camminare su un filo di lana. L’emozione non l’aiuta e aggiunge
vagamente, «È molto buono. Ci devono aver messo degli agrumi
dentro.»
«Sì, il pompelmo rosa fa ancora parte della famiglia degli agrumi»,
risponde tornando a guardare il sedile davanti a sé. Anche Sean si
rimette in posizione e poi si volta verso il fratello che continua a
sghignazzare.
«Vaffanculo Tom, quella è un dieci, non come le fighette che ti
rimorchi tu al pub.»
«Sarà anche un dieci, ma ti ha rifilato un bel due!» continuando a
ridere.
«Non urlare che mi fai fare la figura dello sfigato!»
«L’hai già fatta. Ma dai, pamplemousse rose è abbastanza facile da
capire, perché le hai detto quella stronzata sugli agrumi?»
«Non lo so, ma quando mi ha guardato negli occhi mi sono sentito
male. Hai visto come sono scuri? Non avevo mai incontrato una rossa
con due occhi così neri.»
«Sì, ho visto, ma mettici una pietra sopra.»
«Scordatelo, prima di arrivare ci riprovo.»
Tom sorride, ma sa che quando Sean prende una decisione è
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irremovibile. Il fratello intanto torna a fissare il bracciale di platino
che decora la caviglia di Alice.
«Succede spesso?»
La signora si è calmata e ora sorride ad Alice, serena.
«In realtà no, è molto raro che qualcuno mi rivolga la parola.»
«Strano...comunque dovresti dargli una seconda possibilità, ha
avuto coraggio a parlarti davanti a tutti.»
«Lei crede?»
«Penso che tu sia molto severa, soprattutto con te stessa. Lasciati
andare e goditi la vita.»
«La ringrazio di nuovo. Si, è davvero brava a parlare con le
persone.»
Nonostante i vuoti d’aria, l’atterraggio va molto meglio tanto che
Alice quasi non se ne accorge, intenta a parlare con la signora di
fianco. Quando l’aereo si ferma e le cappelliere si aprono, Sean aiuta
Alice a prendere il bagaglio a mano. Lei lo guarda seria, poi si apre
nell’accenno di un sorriso.
«Se vuoi assaggiare il migliore aperitivo al pompelmo della città,
chiamami un giorno.» Nella mano tesa, il biglietto che la signora le
aveva dato dopo il decollo.
Alice Duval.
Sean è in estasi. «E dove ti trovo?», riesce ad aggiungere incredulo.
«Questo lo devi scoprire da te» risponde sventolandogli il cellulare
davanti al viso. Poi si arresta, lo inquadra e gli scatta una foto. Sean
abbozza un sorriso imbarazzato e, infine, la guarda allontanarsi verso
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l’uscita.
«Cazzo! Potevo provarci io.» sussurra il fratello sbalordito.
Tom e Sean escono dall’aeroporto e si dirigono verso il parcheggio
sotterraneo. A un tratto Sean si blocca, si volta indietro e inizia a
correre.
«Torno subito» grida al fratello, «tu intanto prendi la macchina!»
Tom lo segue con lo sguardo.
«Ma dove vai?»
Dopo venti minuti, Sean si ripresenta nel parcheggio con in mano
un sacchetto della profumeria, ma, non vedendo il fratello,
s’incammina verso il parcheggio interrato. La macchina è dove
l’avevano lasciata, la settimana precedente.
Cosa sta facendo Tom?
Si avvicina per vedere meglio, per capire cosa stia controllando
sotto l’auto.
«Perde olio?»
Tom non risponde. Sean lo tocca con la punta del piede
«Cazzo fai?»
Fa per chinarsi sul fratello, quando una scarica di cinquantamila
volt lo colpisce al collo e lo trapassa con violenza fino a terra. Per
alcuni secondi il corpo di Sean è martoriato da spasmi muscolari e
dolori atroci, infine il taser viene spento e Sean crolla in stato di
shock. Viene afferrato per le caviglie e trascinato verso il furgone
parcheggiato di fianco all’auto. L’uomo carica, prima Sean, poi il
fratello e li deposita nel retro del furgone.
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Quando Sean si risveglia, ha la certezza di essere già morto. La
sensazione di freddo che avverte è così intensa che non è più in grado
di percepire il suo corpo e il respiro così superficiale d’avere
l’impressione di non introdurre più ossigeno. Attingendo a un’esigua
riserva di forze, flette il capo sul petto e osserva ciò che ricopre il suo
corpo: è in una vasca colma di ghiaccio, con le mani appoggiate sul
bordo, di un pallore cadaverico. Anche la testa è libera, ma non riesce
a ruotarla. La stanza è grigia, senza decori, illuminata da un neon alla
parete di fronte. Sotto la luce riesce a intravedere lo stipite di una
porta, forse di metallo, dal riflesso arancione. Tenta di ampliare il
campo visivo muovendo gli occhi di lato, ma l’aria ghiacciata e la luce
gli procurano un dolore pungente. Chiude ripetutamente le palpebre e
le lacrime faticano a staccarsi dalle ciglia: si solidificano
precocemente, formando gocce di rugiada salata. Anche la pelle del
volto è pallida e ricoperta da uno strato di brina; le labbra sono solcate
da piccole fessure che diventano più profonde agli angoli laterali. La
lingua è secca e s’incolla al palato non appena tenta di buttar fuori un
nome.
Tom.
Sean prova a sollevare la mano, ma i muscoli restano immobili, in
una rigidità post-morte. Il battito cardiaco è lento e malinconico, come
le campane a un funerale.
La porta si apre stridendo sul pavimento e un’ombra alta entra nella
stanza.
Chi sei? vorrebbe chiedere.
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L’uomo si sposta di lato, s’inginocchia sul pavimento e si abbassa
il cappuccio.
«Anche tu vorresti sapere il perché, come tuo fratello?», gli
sussurra all’orecchio. «Che dire? Giorno sbagliato, volo sbagliato,
profumo sbagliato?»
Non è il primo morso a togliere la vita a Sean e nemmeno il
secondo, all’altezza dell’orecchio. La cute anestetizzata dal freddo
attenua in parte il dolore, ma non può nulla contro la rottura del setto
nasale. Il sangue inizia a riversarsi posteriormente, lungo il rinofaringe
e Sean evita che invada le vie aeree serrando la glottide. Ingurgita
sangue per una decina di minuti, poi l’emorragia diventa più copiosa:
l’aria entra in trachea, seguita da una montata di sangue che invade i
bronchi ed infine i polmoni. L’ossigeno non è più trasportato al
cervello che inizia a soffrire. L’ultima cosa alla quale pensa sono gli
occhi neri di Alice, a come l’avevano guardato prima di scendere
dall’aereo. Poi una crisi epilettica solleva il corpo sino al bordo
facendo straripare i cubetti di ghiaccio all’esterno. La crisi dura a
lungo, con la lingua stretta tra i denti, schiuma bianca e i bulbi oculari
riversi dietro le palpebre semichiuse. Poi tutto finisce e il corpo di
Sean scivola lentamente sotto lo strato ghiacciato, con gli occhi ancora
aperti e lo sguardo perso in un mare nero.
L’uomo si alza e si dirige nella seconda stanza: il corpo di Tom
pende dal soffitto a testa in giù. La cute dell’addome è stata rimossa e
il sangue stravasato ha tinto di rosso il torace e le braccia. Anche il
volto è scuro, con gli occhi spalancati e avvolti da una ragnatela di
capillari finissimi.
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«Allora, mi sai rispondere o no?»
Tom lo guarda terrorizzato.
«Cosa hai fatto a Sean?» sussurra con la bocca amara che sa di
ferro e bile.
Lui si avvicina, spinge il busto di Tom dal lato opposto e allarga le
gambe mettendosi in posizione. Il corpo esegue un’ampia oscillazione
e, non appena torna verso di lui, inizia a prenderlo a pugni.
«Non sai cosa deve avere un Uomo di valore?»
Danza sulle gambe muovendosi attorno a quell’improvvisato sacco
da boxe, sferra pugni veloci e precisi; insiste col destro e il sinistro in
sequenza, destro-sinistro, destro-sinistro, poi una serie di ganci da
sinistra e infine il diretto spietato. Il pugno che rompe lo sterno è
violento e l’arresto cardiaco istantaneo.
L’uomo si ferma, esausto, con i capelli sudati e il volto imbrattato
di sangue. Nei pugni, il sangue di Tom si mescola col suo, la vita di
Tom entra nelle sue vene, nel suo corpo. Si porta una mano alla bocca
e ne assapora il gusto dolce e amaro.
«L’Uomo di valore, innanzitutto, deve avere dei valori.»
6.
51
«Finalmente!» esclama Cloe aprendo la portiera della Mustang.
«Ma quanto ci hai messo?»
«Dai, non iniziare. E Margaret?» chiede Laura entrando nell’auto
decappottabile.
«È tutto il pomeriggio che provo a chiamarla. Il telefono suona, ma
non risponde.»
«Passiamo a prenderla comunque?»
«Fino a Destiny Road? Te lo scordi, facciamo che verrà un’altra
volta.»
Laura s’incanta a osservare l’amica, i capelli color miele raccolti in
un elegante chignon, il collo lungo ed esile, la scollatura pronunciata
del vestito bianco, la carnagione dorata dalla recente esposizione ai
raggi della lampada UVA. Sorride e si sofferma sulle labbra rosso
scarlatto e sullo smalto dello stesso colore.
«Non è che hai un po’ esagerato? Sei uno schianto, Cloe. Se ti
vedesse il tuo ragazzo, gli verrebbe un colpo.»
«Grazie, ma per favore stasera non me ne parlare. Anche tu sei
bellissima, è nuovo?», indicando il top di seta bordeaux sui jeans
attillati.
«Sì, mi è costato una fortuna. Allora andiamo? Ho una gran voglia
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di bere.»
Cloe ingrana la prima e parte facendo pattinare le ruote posteriori
sull’asfalto. Laura afferra la maniglia della portiera per attutire il
colpo contro il sedile di pelle.
«Andiamo!» grida nell’aria fresca della sera.
Dopo circa mezz’ora, sono in coda all’esterno del Sixty Five. Il
buttafuori all’ingresso le intravede tra la gente in fila e fa un cenno
con la mano per farle passare. Si avvicinano e Cloe passa una mano
sul petto del ragazzo.
«Grazie, Martin.»
«Siete bellissime, ragazze.»
Laura e Cloe sfilano giù per gli scalini del club con l’eleganza di
due fotomodelle. Il locale è strapieno e invaso dalle note di basso di
una house music vecchia scuola. Le due amiche si dirigono verso il
bar tenendosi per mano e scivolando tra la folla accalcata. Con fatica
raggiungono il bancone e ordinano un Daiquiri e un Inferno. Bevono
il primo cocktail e ne ordinano un altro, eccitate dalla musica dei Run
DMC. Vicino a loro due ragazzi bevono vodka e discutono
animatamente. Sono entrambi alti poco più di un metro e ottanta, il
biondo vestito elegantemente in gessato, quello moro in modo casual,
con jeans e felpa. Laura fa un cenno a Cloe in direzione dei due
ragazzi. L’amica si sporge sul bancone per vedere meglio poi,
tornando a Laura, le grida nell’orecchio.
«Io mi prendo quello moro!»
Tom sta spiegando a Sean perché ha sbagliato ad acquistare certi
titoli hi-tech nel pomeriggio, garantendogli il crollo del prezzo entro
53
pochi giorni. Sean è distratto e continua a fissare il bicchiere di vodka
semivuoto che ha tra le mani. Poi il riflesso di uno sguardo,
l’immagine di un volto armonioso appena distorto dall’acciaio del
bancone. Si volta nella direzione di Laura che indugia alcuni secondi
prima di abbassare gli occhi con un sorriso. Sean si avvicina alle due
amiche.
«Ciao, cosa bevete ragazze?»
Laura continua a tenere gli occhi abbassati e a giocare con una
ciocca di capelli. Cloe si avvicina a Sean e gli domanda: «Come te la
cavi con i particolari?»
Lui spalanca gli occhi, non sicuro di aver compreso bene la
domanda.
«I preliminari?»
«No, cretino, con i particolari?» gli risponde alzando la voce.
Tom guarda il fratello ridendo e butta giù l’intero bicchiere di
vodka in un sorso. Sean sorride, si sistema più comodamente sullo
sgabello e prosegue.
«Sono un mago con i particolari, non mi sfugge nulla.»
«Fantastico, allora dimmi: azzurri o verdi?»
Sul volto di Sean compare nuovamente un’espressione dubbiosa,
ma dopo un attimo di esitazione si butta.
«Gli occhi della tua amica? Sono verdi.»
«Sbagliato!» grida Cloe sopra le note dei Fun Young Cannibale.
Poi si gira verso Tom e gli lancia un’occhiata di sfida.
«Marrone chiaro» risponde distratto, mentre cerca di attirare
l’attenzione della barista per un altro giro di vodka.
54
«Wow, tu si che hai occhio!» aggiunge meravigliata, senza staccare
lo sguardo dalla bocca appena imperfetta di Tom.
«Ma come hai fatto?!» gli chiede il fratello.
Tom gli strizza l’occhio con l’aria di chi sa il fatto suo, poi, rivolto
alle ragazze, «Cosa bevete? Io mi chiamo Tom e lui è mio fratello
Sean.»
«Ciao, io sono Cloe e lei è Laura» risponde con voce calda e
allargando le labbra in un sorriso radioso.
Sean osserva sbigottito il loro gioco di sguardi, poi deglutisce e si
rivolge a Laura.
«Non ci credo che siano marroni. Posso controllare?»
Lei alza il volto sbattendo le palpebre, imbarazzata.
Ha ragione!
«Come mai siete vestiti così diversamente?» chiede Cloe. «Tu Sean
sembri uscito da un processo, e tu da un video di Eminem.»
«È vero», ride Tom sbattendo la mano sulla spalla di Sean «sembri
uscito da un processo di mafia.».
Le ragazze ridono, mentre Sean storce il naso e scimmiotta la voce
del fratello.
«Sembri uscito da un processo di mafia. Che ridere!»
«A me piace il tuo vestito.», aggiunge Laura con la voce troppo
bassa perché Cloe possa sentire.
«Davvero? Ehi, questa canzone mi fa impazzire, ti va di ballare?»
Senza aspettare la risposta, Sean l’afferra per la mano e la trascina
in pista.
«Allora, cosa fai nella vita, il rapper?»
55
Cloe si avvicina e si siede sullo sgabello dove era seduto Sean.
Tom attende qualche istante prima di rispondere, piega la testa di lato
e stringe appena le palpebre, come per vedere cosa si nasconde dietro
ai suoi occhi.
«Vuoi sapere un segreto?»
Cloe sorride eccitata.
«Si dai, che bello!»
Tom si china verso il suo orecchio, poi all’ultimo momento cambia
direzione e appoggia le labbra sulle sue. Lei non si muove, socchiude
gli occhi e inspira il suo odore che sa di limone e aria di mare.
Dischiudendo
leggermente
la
bocca,
Cloe
può
percepire
l’imperfezione del labbro superiore, un avvallamento centrale che
potrebbe essere l’esito di una vecchia cicatrice. Poi apre gli occhi e lui
si discosta appena, rimanendo a pochi centimetri dal suo viso.
«E il tuo segreto?»
Lui continua a guardarla, poi si avvicina alle sue labbra, le sfiora,
inspira di nuovo il suo profumo e infine sussurra.
«Ho gli organi invertiti.»
Cloe scoppia a ridere allontanandosi di qualche centimetro.
«Scusa, ma mi devo preoccupare?»
«Oh sì, soprattutto nelle sere di luna piena.», ride anche lui.
Cloe gli afferra i margini del cappuccio e lo tira a sé.
«Vieni qua, invertito».
Apre la bocca e gli morde il labbro superiore, poi gli passa la
lingua tra i denti e sul palato. Si alza dallo sgabello senza staccarsi
dalle labbra di Tom e si fa largo tra le sue gambe. Gli scorre le mani
56
lungo la schiena, solleva la felpa e inizia ad accarezzargli la pelle
calda e morbida.
«Ehi ragazzi, se volete di sopra c’é il priveé» interviene il barista
da oltre il bancone.
Tom non accenna minimamente a interrompere il suo colloquio
ravvicinato: le sue mani sfilano sui fianchi di Cloe e raggiungono i
glutei tesi, sotto il vestito di raso. Li afferra e li stringe con forza,
mentre Cloe si stacca dalla bocca emettendo un gemito di piacere.
«Oh, oh, ragazzi, non esageriamo!» urla il barista afferrando Tom
per la spalla.
«Scusa Trevor, ma qual’è il tuo problema?»
«Dai, andate di sopra, qui al bancone è un casino, mi bloccate la
gente che deve ordinare.»
«Tu che ne dici, vuoi salire?», rivolto a Cloe.
«Scusa, ma tu hai il pass per il priveé?»
«Dai vieni!»
«Aspetta che lo dico a Laura.»
«Lasciali perdere, vieni con me.»
Cloe prova a scorgere la figura dell’amica nella pista, ma non
riesce a distinguere nulla per colpo delle luci stroboscopiche.
«Vieni con me», le sussurra di nuovo all’orecchio.
Un brivido di eccitazione le scorre lungo la schiena e le
inturgidisce i capezzoli. Si volta di scatto.
«Andiamo!» col fuoco negli occhi.
L’uomo col cappuccio sale le scale seguendo l’ondeggiare dei
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fianchi sotto il vestito di raso. È un movimento sinuoso che gli ricorda
l’ondeggiare delle barche nel porto di Marsiglia. Un movimento che lo
scaraventa indietro nel tempo, lontano, all’età di undici anni, quando
doveva fare i salti mortali per arrivare a sera, con la certezza che,
anche quella sera, la dose di frustate sarebbe aumentata.
Il movimento dei glutei continua fino alla cima delle scale, poi si fa
meno accentuato, ma prosegue fino alla zona più buia del locale. I
glutei sprofondano in un divano di velluto, mentre il ragazzo che li ha
tastati per tutto il tragitto si mette a cavalcioni sulle cosce tese di lei. Il
vestito bianco sparisce dietro le spalle del ragazzo che ora si getta sul
suo collo mordendolo delicatamente.
La fame sale. È qualcosa di ancestrale, ma difficilmente
comprensibile per chi non l’ha mai provata. La chimica di
quell’appetito affonda le radici nella notte dei tempi, è alla base
dell’istinto primordiale che muove ogni cosa in natura, ma che la
società umana e civile hanno cercato di addolcire, smussare, attenuare,
fino a relegarla in un meandro nascosto dell’anima, che si fa sentire
solo in alcune circostanze. Ma lui ne conserva una traccia più viva. E
questa traccia lo ha accompagnato nella vita, tirandolo, strattonandolo,
portandolo su strade battute da pochi. Fino al punto di non ritorno, il
punto in cui non riesci più a resistere a quella chimica e decidi di darle
soddisfazione. L’esplosione neuro-ormonale che ne consegue è
devastante e illuminante allo stesso tempo: l’essere che diventa
desiderio e il desiderio che trascende l’essere. E dopo resta solo la
dipendenza.
L’uomo si avvicina a tal punto che può sentire i gemiti della
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ragazza e il profumo di chi le sta sopra. Si ferma alle sue spalle a
fissare un punto sul collo, poi estrae la mano nella classica forma a
pistola, lecca l’indice e lo appoggia sul collo di Tom. Lui non si
accorge di nulla, intento com’é ad esplorare ogni angolo del corpo di
Cloe. L’uomo apre le dita della mano e le passa tra i capelli del
ragazzo; Tom inarca la schiena, flette il capo all’indietro con gli occhi
socchiusi e con le mani si slaccia i bottoni dei jeans. La mano
dell’uomo raggiunge la fronte, poi indietreggia graffiandogli
dolcemente il cuoio capelluto fino alla nuca. Infine si stacca dai due
che continuano a toccarsi nell’oscurità, si ferma ancora un istante a
osservarli, poi si volta e scende le scale.
«Anche tu qui, stasera?»
L’uomo col cappuccio alza appena gli occhi, ma non si ferma e
prosegue mescolandosi tra la folla.
«Ma tu guarda che stronzo!»
«Lo conosci?» gli chiede Laura tenendolo per mano mentre
salgono le scale.
Sean non risponde, ma segue con lo sguardo il cappuccio scuro che
sovrasta la maggior parte delle teste che gli passano accanto.
«Andiamo, dai! Voglio sapere dove sono finiti Cloe e tuo fratello.»
«Scusami, ma devo parlare con una persona.»
«No Sean, non mi lasciare qui!», lo supplica mentre si stacca da lei
e torna nella sala centrale della discoteca. Cammina velocemente, ma
la sua marcia è ostacolata dalla folla in delirio per la musica dei Clash.
Intravede l’uomo che passa a fianco della toilette e guadagna l’uscita.
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Alla luce dell’atrio la sua statura sembra meno imponente e le spalle
meno ricurve. Ora è fermo davanti al guardaroba e sta parlando con la
signorina dietro al bancone.
«Ehi, dove scappi?» gli intima afferrandolo per un braccio.
Sean si volta sorpreso di quella stretta e osserva il ragazzo dai folti
ricci castani che lo osserva sorridendo da dietro gli occhiali.
«Oh, sei tu Michael. Senti, adesso non posso fermarmi.»
Si volta a cercare nuovamente l’uomo nell’atrio: sta indossando
una giacca di nylon mentre s’incammina verso l’uscita.
«Dai Sean, vieni a bere una cosa, sono mesi che non ci vediamo.»
«Davvero, non posso.» Si libera dell’amico e corre verso l’uscita.
Varcata la soglia si gira a destra e lo vede incamminarsi sul
marciapiede fumando una sigaretta.
«Ehi, non puoi uscire senza il pass!» Martin gli si piazza di fronte
bloccandogli il passaggio.
«Tieni cinquanta dollari, è un’emergenza,» risponde guardando
oltre le sue spalle per timore di perdere di vista l’uomo col cappuccio.
Poi fa per superarlo di lato, ma viene afferrato da un secondo
buttafuori.
«Hai sentito cosa ha detto? Passa alla cassa!»
Sean li guarda interdetto, poi si rassegna.
«Va bene, va bene, ho capito. E lasciami la giacca, cazzo!»
Fa per rientrare, poi si gira di scatto e si getta alla sinistra di Martin
superandolo di un soffio. Il buttafuori allunga un braccio per
acciuffarlo, ma colpisce involontariamente il secondo gorilla che
inciampa giù per i gradini. Sean continua a correre, raggiunto solo
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dalle minacce verbali del buttafuori che si è fermato a raccogliere il
collega. Svoltato l’angolo, vede l’uomo col cappuccio sotto la luce di
un lampione. Lo raggiunge e si arresta a un paio di metri da lui.
«Perché non ti sei fermato?»
L’uomo non risponde e continua a fumare. Ad ogni boccata la
brace della sigaretta gli illumina gli angoli spigolosi del volto,
lasciando in ombra gli occhi incavati.
«Hai sentito di Denton? Julian Smoke è uscito dal coma e oggi
pomeriggio un agente mi ha chiamato perché vuole che scenda giù per
vedere cosa hanno trovato nella casa di Sullivan.»
L’uomo continua a osservarlo in silenzio e a Sean pare di
intravedere un leggero sorriso sulle labbra.
«Tu lo conoscevi bene, non è vero?»
«Lo conoscevo.»
«C’è qualcosa che potresti dirmi per aiutare gli inquirenti nelle
indagini?»
«Certo, ma non sarebbe corretto nei confronti dei tuoi soci: ricevi
un salario piuttosto cospicuo, o sbaglio?»
«Stronzo,» bisbiglia a denti stretti.
«Cos’hai detto?!»
L’uomo si avvicina di un passo, sovrastandolo con lo sguardo, il
capo, le spalle e tutto il corpo. Sean tiene il volto abbassato e non può
fare a meno di sentire l’alito dell’uomo che sa di alcol e fumo.
«Dove diavolo sei finito Sean?»
«Raggiungimi fuori.»
61
«Guarda che Laura sta davvero incazzata!»
«Non importa, vieni fuori che andiamo.»
Tom riattacca il cellulare.
«Ragazze, non ho parole. Vi chiedo scusa per il comportamento di
mio fratello. Mi dispiace davvero, ma adesso devo andare.»
Cloe e Laura lo guardano senza rispondere. Tom fa per girarsi
quando si sente afferrare per il braccio.
«Questo è il mio numero.»
Cloe gli allunga un biglietto da visita della Friederich West
Company. Tom esita un istante, poi prende il biglietto e le sorride.
«Allora ti chiamo la prossima settimana, quando torno da Denton.»
7.
62
«Abbiamo trovato un altro corpo.»
Julian è seduto con i piedi giù dal letto e continua a guardare le
gambe esili. Si massaggia i muscoli atrofizzati poi, appoggiandosi alla
sponda del letto, si solleva in piedi.
«È la decima donna. È stata trovata nel giardino di Sullivan, sepolta
sotto dei tulipani.»
«Quindi questa è La vittima, la donna alla quale tutte le altre
assomigliavano, almeno in gioventù, e per la quale tutte le altre sono
morte, prima di lei. E il test del DNA?»
«Non c’è corrispondenza tra il DNA di Sullivan e nessuna delle
vittime. C’è però una novità: anche questa donna aveva l’addome
scuoiato, come i due corpi ritrovati a Denver.»
Julian rimane immobile per qualche istante, poi prosegue a piccoli
passi fino alla porta della camera, ruota su sé stesso e alza le mani a
mezz’aria per mantenere l’equilibrio.
«Questo significa, caro Peter, che il caso Sullivan non è ancora
chiuso.»
«Direi proprio di no.»
«Come avete fatto a convincere il procuratore a perquisire
nuovamente la casa?»
63
«L’avvocato di Sullivan non ha posto nessun divieto. E’ venuto a
Denton tre giorni fa e ha dato il permesso.»
«È venuto a Denton da dove?»
«Non saprei, è di fuori.»
«Si sa già chi è la donna e a quando risale la morte?»
«Non sappiamo chi sia. Dopo un’analisi preliminare, il coroner ha
ipotizzato che il decesso dovrebbe essere avvenuto circa due mesi fa.
È il corpo di una donna anziana, sulla settantina.»
Julian si dirige verso l’armadietto da cui estrae un paio di jeans e
una polo. Si toglie il camicione della clinica e inizia a vestirsi con
movimenti molto lenti.
«Cosa diavolo stai facendo?» gli chiede Peter esterrefatto.
«E’ ora di tornare al lavoro. Cosa mi dici dei Barkley?»
Peter May gli allunga una cartellina blu su cui è stampato il logo
della FPD, un’aquila di mare che afferra un serpente con gli artigli. La
FPD, la Federal Predator Division, era stata istituita dall’FBI nel
2001, dopo l’aumento dei predatori seriali in tutti gli stati del paese.
L’Unità era costituita da quattro agenti e un informatico. Il più
anziano era proprio Peter May, ex militare dal carattere scontroso e la
totale mancanza di diplomazia. Questi tratti gli avevano impedito di
avanzare in carriera, rimanendo a lavorare sul campo, in strada, a
toccare con mano i corpi freddi delle vittime e il sangue rappreso agli
angoli delle ferite. Grazie alla sua esperienza e anzianità era riuscito a
salvare il compagno Dan Ranucci, del quale l’FBI avrebbe voluto
disfarsi in più di un’occasione per negligenza e scarso intuito. Nel
2006 era giunto nell’Unità l’agente speciale Julian Smoke, distintosi
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in diverse indagini a New York City e a Chicago. In breve tempo era
divenuto il leader carismatico del gruppo, con promozione a
responsabile dell’Unità nel 2008. Gli ultimi in forza erano la
dottoressa Darla Hemingway, specializzata in psichiatria forense e
Norman Jackson, esperto informatico laureato a Harvard.
«La morte di Sarah Barkley è avvenuta per soffocamento: la
trachea e la vena giugulare interna sono state recise da un morso, ma il
decesso è avvenuto per mancanza di ossigeno. Il padre di Sarah è
deceduto per emorragia: l’addome è stato scuoiato quando era ancora
in vita ed ha perso sangue fino al collasso cardiaco. Anche Sarah è
stata scuoiata, ma dopo la morte. Su entrambi i corpi, il medico legale
ha riscontrato la presenza di una perforazione sul fianco destro. A
livello del margine inferiore del fegato era presente una lesione
circolare di cinque millimetri, da cui partiva un canale verso l’interno.
Al termine del cunicolo è stato ritrovato un calcolo di circa un
centimetro di diametro. È molto probabile che questo cunicolo sia
stato creato da uno strumento appuntito, come un cacciavite o un
punteruolo.»
«Cosa voleva fare, toglierlo o inserirlo?»
«Non saprei.» risponde Peter, mentre estrae il portasigarette di
metallo dalla giacca sportiva di nylon.
«Ci sono impronte?»
«Sapevo che me lo avresti chiesto.» Si guarda intorno per essere
sicuro che non ci sia nessuno del personale medico e si accende la
sigaretta di marjuana. «È stata ritrovata un’impronta sul collo di
Sarah.»
65
«Stai scherzando?!»
«No.»
Peter May chiude gli occhi. La prima boccata di fumo gli riempie i
polmoni di un aroma caldo e dolce, un sapore di terre lontane che gli
ricorda le lunghe notti in trincea. Trattiene il fiato per qualche istante e
il fumo gli passa in circolo raggiungendo rapidamente le terminazioni
nervose: la testa gira appena e le mani sono invase da un leggero
formicolio. Quando riapre gli occhi, l’immagine di Julian Smoke è
vagamente distorta, annebbiata. Attende ancora qualche istante, poi
espira il fumo dalle narici, flette il collo all’indietro e si passa una
mano sulla nuca rasata.
«È l’impronta di un bambino.»
8.
66
Alice Duvall è svegliata dal suono del cellulare appoggiato sul
comodino. Allunga il braccio nell’oscurità e a tentoni raggiunge il
telefono che viene spento con un gesto automatico. Dopo due minuti
torna a squillare.
«Pronto?»
«Alice Duvall?»
«Si, chi parla?»
«Sono la dottoressa Darla Hemingway dell’FBI. Avrei necessità di
incontrarla per farle alcune domande.»
Alice si solleva a sedere e accende la luce.
«Scusi, ma che ore sono?»
«Sono le cinque. Può dirmi dove si trova che le mando una
macchina a prenderla?»
«Sono al Bristol Hotel, sulla settantaduesima. Ma cosa è
successo?»
«Preferirei parlarle a quattrocchi. Si prepari e si faccia trovare nella
hall dell’albergo tra venti minuti.»
Alice rimane con l’orecchio incollato al telefono ancora qualche
secondo, poi si alza e si veste rapidamente. Le pareti chiare del bagno
e la luce al neon rendono la pelle del viso ancora più pallida, quasi
diafana. Si pettina in fretta e scende nella hall senza trucco. Ad
aspettarla, un agente in divisa, dalla carnagione olivastra.
«Buongiorno signorina Duvall, sono l’agente Santiago. Se vuole
67
seguirmi, la dottoressa Hemingway la sta aspettando in centrale.»
Alice gli stringe debolmente la mano e con passo incerto lo segue
fino alla macchina parcheggiata davanti all’ingresso. Dopo circa
mezz’ora giungono alla centrale di polizia di Denver.
«Buongiorno Alice, sono la dottoressa Darla Hemingway.»
«Buongiorno, cosa è successo?»
«Lei conosceva l’avvocato Stolnhouse?»
«No.»
La dottoressa Hemingway estrae una foto dalla cartellina azzurra
appoggiata sul tavolo e gliela mostra.
«Questo è Sean!» esclama prendendo la foto in mano.
«Esatto, è l’avvocato Sean Stolnhouse. Abbiamo trovato un
biglietto con il suo nome nella giacca dell’avvocato. Quando vi siete
conosciuti?»
«Gli è successo qualcosa?»
Darla chiude la cartellina e si toglie gli occhiali.
«Abbiamo trovato il suo corpo questa notte. E’ stato ucciso e
temiamo anche per la vita di suo fratello Tom.»
«Oh mio Dio!» esclama portandosi le mani alla bocca.
Darla si alza in piedi e gira attorno alla scrivania fino a
raggiungere Alice.
«Vuoi un bicchiere d’acqua?»
«No grazie. Ci siamo conosciuti in aereo due giorni fa. Abbiamo
scambiato due chiacchiere, niente di più. Mio Dio, era così giovane!»
«Sul volo AA5674, Denton-Denver?»
«Sì.»
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«Di cosa avete parlato?»
Alice continua a fissare la foto davanti a sé.
«Di
cosa
avete
parlato,
Alice?»
le
chiede
nuovamente
appoggiandole una mano sulla spalla.
«Di nulla…E’ stato così gentile. Avrebbe dovuto chiamarmi nei
prossimi giorni.»
«Tu non gli hai dato il numero, vero?»
«No, gli ho dato solo il mio nome.»
«Ricordi qualcosa di particolare, qualche persona che vi ha sentiti
parlare, che vi ha seguiti una volta scesi dall’aereo?»
«No, non ricordo nulla.»
«Eravate vicini?»
«No, io ero seduta vicina ad una signora anziana e Sean era vicino
a suo fratello, oltre il corridoio.»
«Quanto ti fermi a Denver?»
«Due settimane.»
«Va bene. Se ti viene in mente qualcosa chiamami a questo
numero. Per maggiore sicurezza ti farò sorvegliare da una pattuglia
finché resti a Denver. Prima di ripartire, chiamami però.»
«Va bene.»
Alice si alza ed esce dalla grande sala grigia. Sulla soglia si ferma e
si gira verso Darla.
«Mi scusi, posso sapere com’è morto?»
«No, mi dispiace.»
Alice la osserva con gli occhi gonfi e arrossati, poi si volta ed esce
dalla stanza. Camminando verso l’atrio della Centrale di Polizia
69
incrocia un uomo alto che indossa un cappello da cow-boy e uno più
basso che avanza a fatica sorretto da due stampelle. Lo sguardo sotto
il cappello di cuoio la fa rabbrividire; distoglie gli occhi che
incontrano quelli neri dell’uomo claudicante.
«Buongiorno signorina» le sorride Julian.
«Buongiorno» sussurra lei di rimando.
Darla è sulla soglia della stanza con le mani sui fianchi.
«Julian Smoke, my favorite lover!» esclama andandogli incontro.
«Ciao Darla, come stai?»
«Julian, stai una favola! Quindi, il segreto per buttare giù dieci chili
in un mese è farsi buttare giù da un palazzo! Ci farò un pensierino.»
Si avvicina e lo abbraccia appoggiando le labbra sulle sue.
«Che profumo di classe, Darla. Hai cambiato fidanzato?»
«Horacio Suarez, maestro di tango argentino», risponde mimando
la danza sudamericana.
«Uomo fortunato.»
«Puoi dirlo forte, Julian. Ciao Peter, come stai?»
Peter May le accenna un saluto portandosi la mano alla tesa del
cappello .
«I delitti di Denver sono in qualche modo collegati al caso
Sullivan. Questa notte ne abbiamo avuto la conferma: il corpo
ritrovato è di Sean Stolnhouse, dello studio legale che difendeva Remi
Sullivan.»
Peter si avvicina al tavolo e prende in mano la foto di Sean.
«L’ho incontrato la settimana scorsa a Denton. È sceso in merito
alla perquisizione della casa di Sullivan: è stato molto collaborante.»
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«Darla, al telefono hai detto che era rientrato a Denver con il
fratello. L’avete trovato?»
«No. Il corpo di Sean è stato ritrovato al bordo della statale
quattordici, da una prostituta che batteva in quella zona.»
«E com’era?»
«Era messo peggio dei Barkley. Il volto era sfigurato da numerosi
morsi: se non fosse stato per i documenti non l’avremmo mai
riconosciuto. L’addome era scuoiato, come le altre vittime, ma il
torace e le gambe erano gonfie e presentavano delle ustioni da
congelamento. Secondo il coroner potrebbe essere morto per
annegamento.»
«Va bene.» interviene Julian, «Ormai sono le sei e trenta. Direi che
possiamo preparare del caffè e iniziare la riunione. Abbiamo
abbastanza elementi per valutare eventuali connessioni tra i due casi.»
Dan Ranucci entra nella stanza accompagnato da Norman Jackson,
il tecnico informatico della FPD.
«Ecco, ora ci siamo tutti», aggiunge Darla avvicinandosi alla
macchinetta del caffè.
Julian accenna un saluto a Dan e a Norman, cammina fino
all’angolo opposto della stanza, poi si gira e resta immobile finché
nella stanza non scende un silenzio innaturale.
«Chi era Remi Sullivan?».
Il silenzio è solido e pesante.
«Nessuno lo sa. Non è così, Darla?»
«Esatto.»
«Era un uomo di quarantacinque anni senza un passato e senza una
71
vita nella società civile: non aveva un conto in banca, né carte di
credito. Nessun documento di nascita, di battesimo, diploma o un
qualsiasi documento che ci possa fornire qualche informazione su
dove abbia passato la sua infanzia e la sua gioventù. Non sappiamo se
lavorasse e come facesse a mantenersi. Nessun precedente penale, e le
sue impronte non risultano archiviate in nessun database nazionale e
internazionale. In altre parole, Remi Sullivan era un fantasma con una
passione sfrenata per le ragazze dai capelli rossi: in quattro anni ne ha
assassinate nove. Non sappiamo se le abbia violentate prima di
ucciderle, ma è presumibile pensare di si. I corpi sono stati bruciati in
un forno di sua proprietà, a Denton, mentre i capelli sono stati
conservati all’interno del suo divano. E Remi Sullivan sarebbe ancora
vivo se qualcuno non mi avesse spedito queste.»
Julian getta sul tavolo nove fotografie scattate con una Polaroid. Su
ciascuna è impressa l’immagine di una ragazza con i polsi e le
caviglie legate, sdraiata su un grosso tavolo di metallo. Sullo sfondo,
un imponente forno industriale acceso. Tutte le fotografie sono state
scattate da una piccola finestra dell’edificio che conteneva il forno.
Sul retro delle fotografie, un nome e una data.
«Queste fotografie sono state spedite a casa di Charlotte tre mesi
fa. Mia moglie fortunatamente non ha aperto la busta perché ha notato
una piccola macchia sul retro della busta, una macchia che le è
sembrato sangue. Sulle foto non c’erano impronte e il sangue sulla
busta è risultato essere di gruppo AB Rh negativo. Il test del DNA non
ha mostrato nessuna correlazione con le vittime delle foto, ma è
risultato appartenere alla decima vittima: la donna anziana ritrovata
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nel giardino. Ora, questo significa che Sullivan tre mesi fa era già in
contatto con questa donna e ha avuto modo di raccogliere il suo
sangue. Secondo il coroner, la morte dell’anziana risale a due mesi fa.
Quindi, possiamo desumere che è stata nelle sue mani per almeno un
mese, in vita. Cosa ci abbia fatto non è ancora possibile saperlo, ma è
quasi certo è che non l’abbia violentata.»
«Questo è già un sollievo» butta d’un fiato Norman.
«Julian, quello che non mi è chiaro è perché un uomo senza
macchia e senza precedenti dovesse avere un avvocato.»
«Ottima osservazione, Dan. Ora ci arrivo. Dopo aver ricevuto le
foto, abbiamo iniziato a indagare partendo dall’unico indizio che
avevamo: l’ufficio postale da cui erano state spedite. Abbiamo cercato
la presenza di forni industriali nelle immediate vicinanze e abbiamo
scoperto che ce n’era uno nella stessa via. Questo forno era intestato a
un ceto Remi Sullivan. Dalle indagini sul suo conto non emergeva
nulla di sospetto, se non, che era tutto troppo perfetto. Nessuna
contravvenzione, nessun documento, nessun lavoro. Il pomeriggio in
cui abbiamo ottenuto il mandato di perquisizione, cinque agenti sono
andati a casa di Sullivan, mentre io e Peter ci siamo recati al forno.
Appena arrivati, abbiamo visto che il forno era in funzione, ma che
l’entrata era sbarrata. Da qui in poi, i miei ricordi sbiadiscono.»
Fa cenno con la mano a Peter.
«Io e Julian siamo saliti sul tetto e abbiamo visto Sullivan vicino al
comignolo che trafficava con una scopa. Non appena ci ha visto ha
iniziato a correre. Julian l’ha inseguito e nel tentativo di fermarlo sono
caduti entrambi dal tetto.»
73
«Uno così ha un passato da nascondere e l’avvocato probabilmente
sapeva di cosa si trattava», aggiunge Darla.
«Esatto. È possibile che Sean Stolnhouse sapesse qualcosa che
coinvolgeva sia Sullivan, sia chi l’ha tradito. Non è da escludere che
possa trattarsi di un cliente dell’ufficio legale per cui lavorava
Stolnhouse, ma lo ritengo poco probabile. Sicuramente qualcuno sta
cercando di indirizzare le indagini in una certa direzione, ma non sarei
tanto convinto che sia quella giusta. Chi mi ha spedito le foto, l’ha
fatto per un motivo ben preciso e non credo per pietà nei confronti di
quelle ragazze.»
Peter May si alza e si avvicina alla macchina del caffè. «Resta da
capire cosa c’entrano i Barkley.»
«I Barkley potrebbero rappresentare il punto di connessione tra
Denver e Denton. Il Sig. Barkley viaggiava molto per lavoro e
potrebbe essere venuto a contatto con Sullivan. Ma ritengo più
probabile che esista un rapporto diretto con il loro assassino, un
legame più intimo. Darla, preferirei che andassi tu a parlare con la
signora Barkley: cerca di scoprire com’erano i rapporti in famiglia e
se c’erano problemi di qualsiasi tipo. Norman, voglio sapere tutti i
trasferimenti del signor Barkley negli ultimi due anni, quante volte è
stato a Denton e le tratte più frequenti dei suoi viaggi. Ricontrolla i
file del suo PC e fammi sapere quali erano i suoi siti preferiti, i
contatti delle e-mail e delle chat. Dan e Peter si occuperanno di
informare la polizia locale e di collaborare con le indagini. Io andrò a
parlare con i colleghi di Stolnhouse, per valutare quali erano i suoi
clienti e se emergono dei sospetti. Quando avremo i risultati del
74
medico legale, Peter?»
«Al più tardi, domani pomeriggio. Sono stati rimossi i calcoli dal
fegato dei Barkley e domani sapremo se c’era qualcosa di analogo nel
fegato di Sean Stolnhouse. Oggi dovremmo ricevere anche il rapporto
autoptico dell’anziana ritrovata in giardino.»
«Cosa pensi dell’impronta sul collo di Sarah?» chiede Darla prima
di bere un sorso di caffè.
«L’impronta del bambino? Non saprei. I Barkley non hanno altri
figli e non sappiamo se Sarah avesse contatti con bambini, se facesse
la baby-sitter o se aiutasse qualcuno nel dopo scuola. Informati dalla
madre. Infine, resta da identificare la donna anziana che credo
rappresenti la chiave del caso Sullivan e un tassello fondamentale per
gli omicidi di Denver.»
Julian si avvicina alla sedia a capotavola e si siede. Inspira
profondamente e si porta una mano alla bocca prima di essere
sopraffatto da un accesso di tosse.
«Sei sicuro di sentirti bene?» gli sussurra Darla alle spalle.
Julian si versa dell’acqua in un bicchiere di plastica e ne beve un
sorso.
«Si, grazie. C’è un’ultima cosa di cui volevo parlarvi.»
Estrae l’asso di fiori e lo appoggia sulla scrivania.
«Qualcuno me l’ha fatto trovare nel Washington Post mentre ero
ricoverato a Denton. Non ne sono sicuro, ma forse so chi è stato.»
«E sarebbe?» interviene Dan impaziente.
«Durante il mio ricovero in Terapia Intensiva ho intravisto don
Elia, il parroco di Denton. Non so perché, ma c’era qualcosa di
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sospetto in lui, nei suoi movimenti e nel suo sguardo. Peter ha
controllato nel suo passato ed è saltato fuori che, fino all’età di
venticinque anni, ha perso metà della fortuna di suo padre giocando a
poker. Poi, sembra che sia stato folgorato sulla via di damasco e si sia
convertito, sia entrato in seminario e si sia fatto prete. Non risultano
crimini violenti o di natura sessuale a suo carico, ma comunque va
tenuto d’occhio. Ho dato disposizione di sorvegliarlo e tra qualche
giorno andrò a fare una chiacchierata con lui.»
Julian fa una breve pausa poi chiede: «Ci sono domande?»
Norman si schiarisce la voce prima di prendere la parola. «Cosa
stava bruciando Sullivan nel forno?»
Julian si volta in direzione di Peter May e gli fa un cenno con la
mano.
«Quando le forze speciali sono entrate nell’edificio del forno, la
stanza era completamente invasa dal fumo. Abbiamo spalancato le
finestre e dopo circa mezz’ora siamo riusciti a recuperare il contenuto
all’interno del forno: un cumulo di cenere sotto la quale abbiamo
trovato i resti di uno straccio, o un pezzo di stoffa celeste, con una
linea rossa lungo un bordo. L’analisi del tessuto ha dimostrato che si
trattava di canapa.»
Peter mostra le foto del reperto.
«Non sono stati trovati resti umani. Abbiamo controllato anche la
canna fumaria e, a circa un metro dal comignolo, vi era un grosso
restringimento con delle incrostazioni. Suppongo che Sullivan stesse
cercando di liberare il condotto con la scopa, prima che arrivassimo.
Abbiamo prelevato dei campioni di quelle incrostazioni e l’analisi
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chimica ha mostrato la presenza abbondante di calcio e colesterolo.»
«Colesterolo?!» interviene Norman, aggiustandosi gli occhiali sul
naso.
«Sì, tessuto adiposo. L’analisi genomica ci ha poi rivelato che si
trattava di grasso umano.»
Peter appoggia sul tavolo una seconda fotografia che mostra
l’incrostazione.
«Ma è enorme!» esclama Darla.
«Si, è enorme. Considera che sono state trovate incrostazioni simili
nei comignoli di Auschwitz e Birkenau.»
«Peter, stai dicendo che in quel forno potrebbero essere state
bruciate centinaia di persone?!»
«Centinaia forse no», intervenne Julian, «ma probabilmente più di
nove. Sappiamo che Sullivan era proprietario del forno da oltre
quindici anni e la domanda che nasce spontanea è Cosa diavolo ci
facesse, se non bruciare le sue vittime?»
Julian prende in mano le foto del camino e prosegue.
«La polizia di Denton ci ha detto che tra il 1995 e il 2006 sono
scomparse circa trenta prostitute della zona. Provate a indovinare di
che colore avevano i capelli ?»
«Né biondi, né mori, immagino» sospira Norman.
«Esatto. Remi Sullivan era in attività da un bel po’ di tempo e solo
negli ultimi anni è passato a prede più difficili.»
Julian Smoke si avvicina alla grande finestra che s’affaccia sulla
città: in lontananza, le cime delle montagne rocciose baciate dai primi
raggi di sole e, dietro, macchie di porpora sporcano l’azzurro terso del
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cielo. Un passero sfiora il vetro e si rialza in volo sbattendo forte le
ali. Si allontana, ma è presto raggiunto da un piccolo falco che ne
interrompe la fuga e la vita.
78
9.
«Ehi guardate, Earl si è pisciato addosso di nuovo!»
Earl abbassa il capo e osserva il cavallo dei calzoncini bagnato. Si
porta una mano all’inguine e poi alle narici: l’odore di urina è forte e
pungente.
«Signorina Marie, Earl si è pisciato addosso!»
Marie si avvicina con passo deciso, tenendo le mani sui fianchi. Si
apre un varco tra il gruppo di bambini che ha accerchiato Earl Laski.
«Allontanatevi subito!» esclama.
Earl apre gli occhi. Tutt’attorno il buio, saturo di un’aria viziata. I
pantaloni dello smoking sono bagnati, ma l’urina è ancora calda e gli
da un certo piacere sentire la stoffa umida a contattato con la pelle
della coscia.
«Bravo Earl, l’hai fatto di nuovo.»
Earl non risponde, si copre le orecchie con le mani e scuote
ripetutamente la testa.
«Sei bravo in quello che fai.»
«Stai zitto, vai via!» grida nell’ombra.
«La stanno già cercando. E tu sai che è solo una questione di
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tempo. La troveranno e te la porteranno via.»
«No, lei no! Questa volta è diverso.»
«Ah si? E allora perché non riesci più a guardarla?»
Earl abbassa le mani e si gira verso sinistra: Margaret Lee è appesa
alla parete di roccia, con i polsi incatenati, l’addome sventrato e il viso
sfigurato da numerosi morsi.
«Non sono stato io», piagnucola con lo sguardo in tralice.
«Devi portarla via da qui.»
«Non sono stato io», insiste.
«Alzati stupido!»
Earl si solleva a fatica e si avvicina alla sacca di tela. Estrae un
grosso sacco di iuta e lo distende ai piedi di Margaret. Si allunga sulle
punte per liberare le mani dalle catene: il corpo crolla sul pavimento
umido con un tonfo sordo.
«…non sono stato io.» sussurra di nuovo.
Darla Hemingway parcheggia il duetto color seppia davanti al
giardino dei Barkley. Si aggiusta i capelli nello specchietto retrovisore
e scende dall’auto portando con sé solo un taccuino nero. Si avvicina
alla porta d’ingresso lungo il sentiero di pietre fluviali, mentre una
brezza leggera solleva i lembi del trench color kaki.
«Chi è?»
Susanna Barkley socchiude la porta e si affaccia sulla veranda. Il
viso è di un pallore innaturale, estremo, senza alcun artificio
cosmetico per nasconderlo. Gli occhi celesti sono piccoli e arrossati,
con le palpebre appesantite in un’espressione di dolore e sconforto.
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«Sono la dottoressa Darla Hemingway.»
Lo sguardo della signora Barkley si sofferma dapprima sul
distintivo dell’FBI, poi su quel volto regolare e abbronzato che non
stonerebbe sulla copertina di una rivista di moda. Si allaccia la
vestaglia di seta e apre la porta.
«Prego, entri pure.»
Darla la segue in soggiorno. Attraversando l’ingresso nota, sulle
pareti, una foto di Sarah nel giorno del diploma e una del padre,
durante una battuta di caccia.
«È un medico legale?» le chiede accomodandosi sul divano.
«No, sono una psichiatra.»
«Crede che sia pazza?» le chiede invitandola a sedersi sulla
poltrona di fronte al divano.
«No. Lavoro nell’unità investigativa che indaga sull’omicidio di
suo marito e di sua figlia.»
La voce di Darla è ferma e il tono lineare. Gli occhi di Susanna si
abbassano e si perdono in un punto indefinito, oltre il tavolino da
caffè.
«So che la polizia le ha già fatto molte domande e ho letto i verbali.
Io sono qui per i dettagli, per cogliere quelle sfumature che
generalmente sfuggono, nelle prime ore delle indagini. Le voglio fare
alcune domande che non riguardano né il giorno della scomparsa, né il
delitto. Sono di carattere più generale. È d’accordo?»
Susanna annuisce, continuando a fissare qualcosa oltre il vetro del
tavolino.
«Bene. Signora Barkley, cosa distingue la vostra famiglia da quella
81
dei vostri vicini?»
«Che la nostra è stata massacrata?» risponde senza ironia.
La dottoressa Hemingway continua a guardarla con l’espressione
più dolce che i suoi occhi verdi possano trasmettere.
«Non saprei», riprende Susanna passandosi una mano sulla fronte.
«Forse che gli Harries hanno due figli maschi e il loro papà è molto
più a casa di quanto non lo fosse Steve?». Prende un fazzoletto di
carta e si asciuga gli occhi e il naso.
«Come mai non avete avuto altri figli, dopo Sarah?»
«Non sono venuti.» Susanna inspira, poi prosegue. «A trentacinque
anni ho subito un intervento di isterectomia per un tumore.»
«Capisco. Adesso sta bene?»
«Si, la malattia si è fermata.»
«E suo marito era spesso via per lavoro?»
«Stava fuori città tutta la settimana e anche un weekend al mese.
Era responsabile delle vendite e viaggiava per tutto il paese.»
«Il lavoro di suo marito era un problema per lei? Litigavate
spesso?»
«All’inizio si, mi sentivo sola. Con il tempo mi sono abituata, poi è
arrivata Sarah. Con il cancro, invece, Steve è diventato più premuroso
e cercava di fare viaggi più brevi.»
«Susanna, mi dispiace, ma dovrei farle un’altra domanda.»
«La risposta è sì», la interrompe brusca Susanna. «Mio marito
aveva una relazione. O meglio, l’ha avuta. Il più classico dei cliché:
una relazione con la segretaria. È stato prima della malattia, quando
Sarah aveva undici anni.»
82
«Avete parlato di divorzio?»
«Certo. Abbiamo avuto anche una breve separazione, ma poi si è
aggiustato tutto: Steve ha scelto noi e io ho preferito la famiglia al mio
orgoglio. E’ stato molto difficile.»
Susanna si alza ed esce dalla stanza. Torna con due bicchieri e una
caraffa d’acqua.
«Avete parenti, fratelli, genitori?»
«Io sono orfana. I miei suoceri sono morti qualche anno fa e Steve
aveva un fratello minore, Zackary.»
«Dove vive?»
«A Denver, ha uno studio dentistico.»
«E vi vedete spesso?»
«No. I rapporti tra Zackary e Steve si sono raffreddati dopo la
morte dei genitori, per l’eredità della casa.»
«Ho bisogno del suo indirizzo.»
Susanna prende un biglietto di carta e scrive l’indirizzo e il numero
di cellulare.
Darla si alza dalla poltrona e si avvicina al camino. Sulla mensola
di legno una foto di famiglia coi Barkley abbracciati e Sarah in primo
piano. È una bella giornata di sole e sullo sfondo la foresta di conifere
s’inerpica sul ripido pendio. Dietro a Steve Barkley, s’intravede
l’insegna di un’autostazione: Coal Creek, Motor Oil. Darla prende in
mano la foto e si volta verso Susanna.
«Qui siete a Coal Creek?»
«Si, la casa dei miei suoceri è lì vicino.»
«Alla fine, a chi è andata la casa?»
83
«A mio cognato; ha pagato una bella somma a Steve e si è tenuto lo
chalet.»
Darla rimette la fotografia al suo posto.
«Va bene signora Barkley, direi che per oggi abbiamo finito. Se
dovessi avere altre domande tornerò a disturbarla.»
Susanna si alza in piedi e accompagna Darla alla porta.
«Lo prenderete?» le chiede senza guardarla negli occhi.
«Faremo tutto il possibile.» Dopo un istante di pausa prosegue.
«Un’ultima domanda Susanna: lei lo ha mai tradito?»
«Adesso esca», risponde con un fremito di rancore nella voce.
Darla percorre nuovamente il sentiero che attraversa il giardino con
gli occhi della signora Barkley puntati sulla schiena. Prima di entrare
in auto si volta verso la veranda dove Susanna è in piedi, con le
braccia sul ventre e un’espressione di rabbia e dolore.
L’uomo percorre la statale settantuno che scende da Coal Creek
verso Denver. Giunto in prossimità del viadotto di Stelton, rallenta e
accende le quattro frecce. Accosta nella piazzola per le soste di
emergenza, proprio nel punto più alto del ponte. Si tira su il cappuccio
e scende dal pick-up, estrae il triangolo dal baule e lo posiziona a un
centinaio di metri dalla vettura. Nel tornare indietro, alza lo sguardo
verso la telecamera che inquadra la piazzola: si porta l’indice e il
medio alle labbra e manda un bacio all’obiettivo.
Sono le quindici e trenta e il traffico sul ponte è scarso. L’uomo
attende che non passi nessuno e abbassa lo sportello posteriore.
Afferra il sacco di iuta che ora è pesante, voluminoso e dalla forma
84
allungata; se lo carica sulle spalle e si avvicina alla ringhiera del
viadotto. Sale sul gradino di cemento per superare la paratia, guarda
un’ultima volta la telecamera e poi lo getta giù dal ponte. Il sacco
precipita per cinquanta metri e sparisce nella fitta boscaglia con un
fragore intenso di rami spezzati.
85
10.
«Ha un appuntamento?»
«Crede che mi serva?» risponde mostrando il distintivo.
La segretaria dello studio legale Adam J. Swan si allunga da dietro
la scrivania per leggere meglio.
«Agente speciale Julian Smoke? Attenda un istante.»
Nella voce si scorge una punta di astio mascherata dalla memoria
di un accento scozzese. Julian si accomoda sul divanetto Le
Courbusier della sala d’aspetto. Sulla parete di fronte, un quadro
contemporaneo che raffigura l’amore improbabile tra una rana e un
toro, firmata da Roda. Su quella laterale, un’opera minimalista su tela
grezza, dallo sfondo celeste e con una linea verticale color magenta.
Julian guarda l’orologio da polso, diciotto e quarantacinque.
Attende ancora cinque minuti, poi si solleva sulle stampelle e torna
dalla segretaria.
«Qual’è l’ufficio di Adam Swan?»
«Deve aspettare, è al telefono.»
Senza attendere oltre, Julian s’incammina verso il lungo corridoio
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che porta agli uffici dei soci.
«Aspetti», gli intima la segretaria da dietro la scrivania, «le ho
detto che deve aspettare!»
Svoltato a destra, Julian si ritrova in un secondo atrio circolare dal
quale si accede a cinque stanze. Sulla prima porta il nome di Sean
Stolnhouse. Si avvicina alla porta centrale ed entra senza bussare.
L’ufficio è enorme, con le pareti in quercia e un’ampia parete di
cristallo che si affaccia sulla città. Adam Swan è di spalle, rivolto
verso la vetrata.
«Stai tranquillo, la cauzione per la libertà vigilata non può superare
il milione.»
Esegue una rotazione di novanta gradi e con l’occhio scorge la
figura di Julian, appena oltre la soglia.
«Scusami, ti posso richiamare?»
Attende ancora qualche secondo al telefono, poi riattacca.
Conclude la rotazione della sedia e appoggia i gomiti sulla scrivania.
«Posso esserle utile?»
Julian rimane molto sorpreso nel vedere che il socio più importante
dello studio non supera i trentacinque anni di età. Fa per avanzare
sulle stampelle quando viene raggiunto dalla segretaria alle sue spalle.
«Avvocato, mi scusi, è entrato senza permesso.»
«Non si preoccupi, Sonia. A cosa devo il piacere della sua visita?
Ha ucciso qualcuno di recente?» domanda allentandosi il nodo della
cravatta.
«Io no, e lei?» replica avvicinandosi.
«Avvocato», interviene Sonia, «questo è l’agente speciale Julian
87
Smoke, della FBI.»
Adam Swan si arresta un istante, poi riprende la parola.
«Mi scusi per la battuta. In cosa posso esserle utile, agente?»
chiede, invitandolo a sedersi.
Julian raggiunge la poltrona, lancia un’ultima occhiata al viso
senza rughe dell’avvocato, ed infine cede alla tentazione.
«Perdoni la domanda, ma quanti anni ha?»
«Quarantasei, ma ne dimostro molti meno. A cosa devo la sua
visita, agente Smoke?»
«Da quanto tempo lavora per lei, Sean Stolnhouse?»
«Da circa due anni, perché?»
«E’ stato ucciso. Il suo corpo è stato trovato stanotte.»
«Oh mio Dio! Nessuno ci ha avvertiti», esclama drizzandosi sulla
schiena. «È una cosa terribile! Com’è successo?!»
Julian non risponde e continua a osservare la reazione
dell’avvocato.
«Mi scusi, ma devo bere qualcosa, sono sconvolto!», prosegue
alzandosi in piedi e portandosi al mobiletto del bar. Versa del whisky
in due bicchieri, beve in un fiato il primo e porge il secondo al Julian
che lo osserva senza muoversi.
«Era solo un ragazzo!» e beve il secondo bicchiere.
«Devo parlare con i suoi genitori, sono dei cari amici.»
«Capisco il momento, ma dovrei farle alcune domande. Sarò
breve.»
«Ma certo, dica pure.» risponde tornando a sedere.
«È lei che ha affidato Sullivan a Sean?»
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«Remi Sullivan? No, è uno dei pochi clienti che Sean seguiva
prima di entrare nello studio.»
«Sa perché Sullivan avesse chiesto un avvocato?»
«Non saprei. A dire il vero non ne avevo mai sentito parlare, prima
che fosse ucciso. Mi aveva accennato che seguiva un cliente a Denton
per una vecchia eredità, da un parente in Europa.»
«Può darmi il file di Sullivan?»
Adam Swan si appoggia allo schienale della poltrona e si porta la
mano al mento.
«Purtroppo è coperto dal segreto professionale.»
Julian sa bene che l’Ordine degli Avvocati impone il segreto
professionale anche dopo il decesso del cliente. Tuttavia, in caso di
morte anche del legale si può attingere ai dati del cliente, se un
parente ne è in possesso. Nel caso di un socio del legale defunto, la
questione diventa molto più complicata.
«Avrei bisogno dell’elenco dei clienti di Sean.»
Adam resta a fissare Julian con il bicchiere in mano, poi abbassa lo
sguardo e butta giù l’ultimo sorso.
«E va bene, Diavolo! Se è per incastrare quel figlio di puttana lo
prenda pure.»
Alza la cornetta e digita il nove.
«Sonia, faccia avere all’agente Smoke l’elenco dei clienti di Sean.»
«La ringrazio» interviene Julian non appena Adam riattacca. Si
alza in piedi e fa per stringergli la mano, quando l’occhio gli cade su
un quadro appeso alla parete di sinistra.
«Non ci credo!», esclama.
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«Si intende di arte, agente?»
«No, ma la mia ex moglie era un’appassionata del periodo
espressionista.»
«Dunque lo ha riconosciuto?»
«Non mi dica che è autentico.»
«Un Soutine originale, acquistato a Parigi tre anni fa. Pensi che è
stato ritrovato in una vecchia cantina abbandonata.»
«Varrà una fortuna.»
«È probabile, ma non importa, non ho intenzione di separarmene.»
Il dipinto raffigura il corpo di un vitello sventrato, con gli arti legati
e serrati a quattro pali di legno.
«Sa perché Soutine dipingeva questi animali?»
«L’interpretazione più diffusa è che questi animali rappresentino i
membri della famiglia del pittore. Soutine aveva uno spiccato istinto
omicida.»
«È vero. Sa che esiste anche un quadro che raffigura un uomo nella
stessa posizione, con il corpo squartato?»
«Sì, è di un collezionista italiano. Avvocato, grazie ancora per
l’elenco. Potrei avere ancora bisogno di lei.»
«Venga pure quando vuole.»
Adam Swan gli stringe la mano dopo avergli aperto la porta. Nel
parcheggio, Julian continua a scorrere l’elenco dei nomi che gli ha
fornito Sonia, ma nessuno gli ricorda un caso o un’indagine
particolare: tutti nomi sterili, senza un passato, senza un eco nelle
cronache nazionali, senza alcun interesse. Sa che dovrà incontrarli
tutti, uno dopo l’altro. Visiterà le loro case, le loro stanze, per cogliere
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quella fotografia o quell’oggetto che li tradirà. Parlerà con loro di
quello che fanno nella vita e di ciò che dà loro piacere, starà ad
osservare la mimica facciale, come inarcano il sopracciglio o come si
flette la voce nel rispondere ad una domanda inaspettata. Osserverà i
loro gesti involontari, le loro mani che toccano parti del corpo lontane,
per la comparsa di un prurito improvviso. Osserverà i loro sguardi
sfuggenti, la danza dei loro occhi in un balletto di falsità e inganni. E
inizierà proprio dall’ultimo della lista: Earl Laski.
91
11.
Darla Hemingway entra nella sala riunioni dove sono già presenti
Julian e Peter May.
«Avete letto il giornale stamattina?»
«Stavamo appunto parlando di questo», risponde Julian.
«Gli hanno dato un nome e a questo seguirà il panico generale.»
«Lo so. Ma la cosa peggiore è che gli hanno dato quello che
voleva: un pubblico e un palcoscenico. D’ora in avanti sarà ancora più
scenografico: ha ottenuto l’attenzione dei media e non vorrà certo
deluderli. D’ora in poi, per tutti sarà L’Onnivoro e si porterà questo
nome fino alla tomba. Oggi, per lui, è il giorno del battesimo.»
«Qualcuno deve avere parlato dall’interno. La stampa non può
sapere che chiamiamo così il predatore che sceglie le vittime senza
preferenza di sesso, razza ed età.»
«Esatto. Occorre stare molto attenti a fornire le informazioni alla
polizia locale. Cerchiamo di essere concordi sui punti chiave
dell’indagine. Da qui in avanti parlerò con le autorità locali
esclusivamente io, li aggiorneremo una volta a settimana. Non
possiamo rischiare di dare troppo vantaggio al nostro uomo con altre
92
fughe di notizie.»
In quel momento, bussa alla porta il sergente O’Malley, della
Polizia Stradale di Denver.
«Scusate, dovete vedere una cosa.»
Entra con un CD in mano. Julian gli fa cenno di avvicinarsi al
computer portatile sul tavolo.
«È stato registrato ieri pomeriggio, da una telecamera di
sorveglianza, sul viadotto di Stelton.»
Inserisce il CD nel portatile e sulla schermata compare
l’inquadratura di una piazzola d’emergenza. Il video è in bianco e
nero, ma la qualità è buona. L’orologio in alto a destra segna le
quattro e quarantatré pomeridiane.
L’uomo che esce dal furgone ha una giacca con cappuccio. Si
allontana dal pick-up e dopo un minuto torna nell’inquadratura. Si
ferma e alza il capo in direzione della telecamera: il volto è coperto da
una maschera di gomma. Avvicina la mano alla bocca e manda un
bacio all’obiettivo. Torna al furgone, estrae un sacco e si avvicina alla
ringhiera del viadotto. Un ultimo sguardo alla telecamera, prima di
gettare il sacco oltre la paratia.
«Ci accompagni immediatamente al viadotto» esclama Peter May
indossando la giacca.
«Ho già mandato una squadra sotto il ponte e un’auto vi sta
aspettando fuori per accompagnarvi.»
«Avete controllato il pick-up?» chiede Julian seguendo il sergente
lungo il corridoio.
«Risulta rubato. La denuncia è stata fatta una quindicina di giorni
93
fa e il proprietario si chiama... » prosegue sfogliando il taccuino, «...
ecco! Si chiama Earl Laski.»
Julian si arresta di colpo.
«Come ha detto?»
«Earl Laski. Ha denunciato il furto due settimane fa.»
«Non può essere», esclama con lo sguardo oltre la vetrata
d’ingresso. Estrae la lista dei clienti di Sean Stolnhouse e controlla.
«Darla, Peter, voi andate al viadotto. Io vado col sergente a casa del
proprietario del furgone.»
«Va bene» risponde Darla guardando Peter con aria interrogativa.
Dopo circa mezz’ora la volante della stradale si ferma davanti a
una villetta bianca in Washington street
Julian osserva la casa oltre il vetro del finestrino.
È proprio come la immaginavo.
Scende dall’auto e s’incammina verso la porta d’ingresso. Dalla
finestra a pian terreno scorge il movimento leggero di una tenda e
accelera il passo. Il sergente O’Malley bussa tre colpi alla porta.
«Polizia di Denver.»
Dalla casa non giunge alcuna risposta.
«È in casa, l’ho visto alla finestra.»
«Aprite, polizia di Denver!», ripete bussando con più energia.
Julian costeggia la parete frontale della casa e getta lo sguardo oltre
la staccionata di legno, sul lato destro del giardino. Nel retro della
villa, nota un ampio spazio con un barbecue ancora fumante. La siepe
è poco curata e gli alberi hanno rami secchi, spogli e disordinati.
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Torna all’ingresso, dove il sergente O’Malley continua a bussare.
«Qui non c’è nessuno.»
«Quanto ci vuole per un mandato?»
«Agente Smoke, Laski ha solo denunciato il furto del suo furgone,
non credo che il giudice dia l’autorizzazione a perquisire la sua casa.»
«Ha ragione. Mi faccia un favore, però: mi controlli cosa sta
bruciando nel barbecue sul retro.»
«Agente, è proprietà privata.»
«Lo so, ma se non ci va lei, scavalco la staccionata con le stampelle
e ci vado io.»
«Va bene, va bene. Mi spetti qui.»
Il sergente scavalca il recinto e arriva fino al barbecue. Si china
sulle braci per vedere meglio, poi si volta verso Julian.
«E’ solo un pezzo di stoffa!»
«Accidenti, lo tiri via dal fuoco!»
O’Malley estrae una penna dal taschino e solleva il lembo di stoffa
fumante. Lo getta a terra e lo calpesta per spegnerlo. Tornato da Julian
gli porge il reperto.
«Doveva proprio calpestarlo? Ora la scientifica saprà dove ha
camminato negli ultimi trenta giorni.»
«Mi scusi.» risponde guardandosi le suole degli anfibi.
Julian sorregge la stoffa con la penna e la depone in un busta di
plastica. Il materiale sembra cotone, spesso pochi millimetri, di colore
rosso.
«Mi faccia avere quel mandato al più presto. Ora andiamo al
viadotto.»
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Dal ponte si possono intravedere le casacche blu degli agenti di
polizia e quelle gialle della scientifica. Al centro della valle il fiume
Carlson, ridotto a poco più che un rigagnolo d’acqua che scende
tortuoso tra le rocce.
Julian si avvicina alla paratia e dall’alto gli sembra di scorgere il
trench di Darla. La ricetrasmittente del sergente O’Malley gracchia un
paio di volte prima di liberare la voce di Peter May.
«Mi passi l’agente Smoke.»
«Sono qui, Peter.», risponde prendendo la cornetta in mano.
«Il sacco conteneva un corpo», replica con timbro metallico. «Il
problema è che lo schianto con i rami ha tagliato la tela e il corpo si è
diviso in due. Stiamo cercando il tronco e la testa. Le gambe sono
quelle di un giovane uomo.»
«Ha un tatuaggio sulla gamba destra?»
«Si, un tribale. Dovrebbe corrispondere a quello di Tom
Stolnhouse, il fratello dell’avvocato.»
«Va bene, chiamami appena trovate la testa.»
Julian estrae dalla tasca il pezzo di stoffa trovato nel giardino di
Laski e il quaderno di appunti dove aveva riportato la descrizione dei
fratelli Stolnhouse. Né Sean, né Tom indossavano indumenti rossi. Su
di un lato del pezzo di stoffa è presente un bordo di pizzo.
«Sergente, le risulta che sia sparita qualche prostituta, negli ultimi
mesi?»
«Non mi sembra. Due giorni fa, però, una ragazza è passata in
centrale dicendo di essere preoccupata perché da qualche giorno
96
un’amica non rispondeva al cellulare. Abbiamo mandato una pattuglia
a casa e sembrava tutto in ordine: la macchina non c’era e la porta era
chiusa senza effrazioni. Probabilmente si è allontanata da Denver per
qualche giorno.»
«Si ricorda se le persiane erano abbassate?»
«Questo è l’unico particolare che stonava: l’agente della stradale
che ha controllato ha detto che erano alzate e non ha avuto
l’impressione di una casa disabitata.»
La ricetrasmittente gracchia di nuovo.
«L’abbiamo trovata.»
«E non si tratta di Tom Stolnhouse, vero?»
«Il torace e la testa sono separati, e non potrebbe essere altrimenti.
Il torace infatti è di un uomo, ma la testa é di una ragazza, una donna
dai tratti orientali. Julian, qui qualcuno ci sta prendendo per il culo.»
«Venite sù al più presto.»
«Sergente, voglio un mandato di arresto per Earl Laski e i dati della
donna scomparsa. Porta questo pezzo di stoffa alla scientifica e fammi
avere un’analisi preliminare entro sera.»
«D’accordo. Potrei farle una domanda?»
«Vuole sapere perché Earl Laski avrebbe dovuto denunciare il furto
del suo pick-up e poi usarlo per trasportare due cadaveri? Ci provi a
pensare.»
«Per crearsi un alibi?»
«È un’ipotesi. O qualcun altro lo sta mettendo in mezzo, proprio
com’è successo con Sullivan.»
Julian getta lo sguardo oltre il ponte, inspira l’aria che sa di polvere
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e smog, poi s’incammina verso la volante. Una fitta gli trapassa il
torace. Si appoggia al cofano dell’auto ed estrae, dalla giacca, una
compressa di ossicodone che ingoia senz’acqua.»
98
12.
All’interno della stanza Earl Laski continua a giocherellare con le
mani sul tavolo, tenendo il corpo leggermente flesso in avanti. La
camicia è bagnata di sudore e fini gocce scendono dalla fronte lungo il
profilo del naso. Le grosse lenti da vista si appannano frequentemente
ed Earl è costretto a pulirle col bordo della camicia.
«Ha detto qualcosa?» chiede Julian entrando nella stanza accanto.
A passi lenti si avvicina al grande vetro a specchio. Darla lo saluta
dandogli un bacio sulla guancia.
«Non ha detto nulla. Non ha chiesto nemmeno del suo avvocato.»
«Forse perché se l’è mangiato» aggiunge Dan con, un sorriso triste.
Julian e Darla lo guardano senza parlare.
«Scusate.»
«Avete spento il condizionatore?»
«Sì. Lo interroghi tu?»
«Forse è meglio che ci vada tu, Darla. Non credo che abbia un
buon rapporto con le donne e penso che tu possa ottenere molte più
informazioni rispetto a ciascuno di noi. Cerca di assecondarlo e
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addolcirlo, poi fatti accompagnare nei suoi luoghi preferiti, dove ama
rifugiarsi quando è solo.»
«Vedo che ti hanno fatto bene le sedute dallo strizzacervelli.»
«È vero, mi sono fatto delle belle dormite sul tuo lettino», replica
sorridendo.
Darla entra nella stanza con una cartellina in mano. Earl la sfiora
con lo sguardo, mantenendo il capo chino.
«Buongiorno, sono la dottoressa Hemingway. Lei invece si
chiama...» finge di leggere il nome su un foglio, «...Earl Laski, è
corretto?»
Earl non risponde e con una mano si tocca la maglietta bagnata,
sotto la camicia.
«Le hanno detto che ha diritto ad un avvocato?»
Nessuna risposta.
«Va bene.»
Darla si slaccia il bottone della camicetta e si china sul tavolo per
incrociare gli occhi di Earl. Lo sguardo di Laski cade un istante sul
seno di Darla, poi torna sul piano in formica della scrivania.
«Di che cosa mi vuoi parlare?» gli sussurra a una ventina di
centimetri dal viso.
Questa volta le parole entrano nella mente di Earl e raggiungono un
punto indefinito del sistema limbico, nascosto da anni d’imbarazzi e
mortificazioni, tentativi di riscatto e delusioni. Solleva appena il capo
con occhi meno spenti.
«Io non ho fatto nulla.» risponde col sopracciglio destro
leggermente inarcato e con la voce di un bambino colpevole.
100
Darla si gira dapprima verso il grande specchio della parete, poi
torna a guardare quell’uomo che sembra uscito da un film dei fratelli
Choen.
«Quindi non sei stato tu?» prosegue con lo stesso tono.
«Io non ho fatto nulla.»
«Non le volevi fare del male?»
«No.» sussurra.
Darla gira attorno al tavolo e si siede al suo fianco.
«Ti piaceva?» gli chiede sfiorandogli la mano.
Al contatto con Darla, Earl ritira il braccio allarmato e gira la testa
dalla parte opposta.
«Non devi avere paura, sono qui per aiutarti.»
Earl chiude gli occhi e si ritrova nello studio della dottoressa
Leclerc.
«Non devi avere paura» le ripete stringendogli il muscolo del collo.
Apre gli occhi e Francisca Leclerc è seduta sulla scrivania davanti a
lui. La sua pelle è così scura che i raggi del sole filtratati dalla finestra
la rendono lucida. Lui è solo un bambino di otto anni, ma sa bene
perché l’hanno accompagnato lì.
«È sempre colpa di Jamad?», gli chiede Francisca.
«Sì»
«È lui che ti dice quello che devi fare?»
«Sì»
«E questa volta cosa ti ha detto?»
Earl si volta a guardare il braccio di Francisca che continua a
stringergli il muscolo del collo.
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«Di soffocare il gatto. Ma io gli volevo bene e gli ho detto di no.
Ma lui ha iniziato a picchiarmi sulla schiena.»
«Fammi vedere.»
Earl solleva la maglietta e mostra i graffi sulle spalle.
«E tu cos’hai fatto?»
«Gli ho chiesto di smetterla, ma non smetteva. Allora ho preso il
gatto e l’ho stretto forte, perché così Jamad non gli faceva male. Poi
s’è addormentato e l’ho portato a letto con me.»
«Come tre anni fa, ti ricordi?»
«No, quello era un gatto che non mi piaceva.»
«Ma qui non stiamo parlando di gatti, vero Earl?»
Earl apre gli occhi e torna a fissare quella donna dagli occhi verdi e
la carnagione chiara, con una voce così calda che gli verrebbe voglia
di farsi raccontare una storia.
«Come hai conosciuto Margaret Lee?»
Ora c’é una lieve flessione nella sua voce.
«Lasciami stare.»
«Dove l’hai conosciuta?»
«Voglio il mio avvocato.» bisbiglia guardando un punto indefinito
oltre le spalle di Darla.
«Non ce l’hai più un avvocato, non ricordi? Gli hai mangiato la
faccia e l’hai scaricato in una piazzola sulla statale.»
Earl non risponde.
«Dove hai conosciuto Margaret Lee?» insiste Darla.
Earl attende qualche secondo, poi risponde.
«A una festa.»
102
Darla devia leggermente lo sguardo in direzione della parete a
specchio, poi torna a fissare Earl.
«Ti ricordi com’era vestita?»
Questa volta la pausa é un po’ più lunga.
«Aveva una gonna rossa.»
Julian si gira verso Norman.
«È il pezzo di stoffa che abbiamo trovato nel barbecue.»
«E dopo la festa dove l’hai portata?»
«L’ho invitata a casa mia.»
«Ma lei non voleva venire, vero?»
Earl non risponde.
«E a casa cosa avete fatto.»
«Ho preparato tutto.»
«Tutto per cosa?»
«Per andare da Silvio.»
«Il ristorante?»
«Si, ma non quello in centro.»
«E Margaret era felice?»
Earl si guarda le unghie sporche di terra. «Non parlava molto.»
«Siete andati a Coal Creek?»
Earl annuisce leggermente con la testa.
«È lì che l’hai uccisa?» sussurra avvicinandosi.
Earl continua a fissare le mani intrecciate.
«Io non ho fatto niente. È stato Jamad.»
«Chi?» chiede Darla drizzandosi sulla schiena.
«Jamad.» ripete con voce calma.
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Darla cammina verso la parete a specchio, fa un ampio giro della
stanza e si pone alle spalle di Earl.
«È un tuo amico?»
Silenzio.
«Da quanto lo conosci?»
«Da quando ero piccolo.»
«È lui che ha buttato i corpi giù dal ponte?»
Earl solleva le spalle.
Darla appoggia sul tavolo la cartellina con le foto dei corpi mutilati
ed esce dalla stanza.
«Chi è questo Jamad?» chiede Darla a Julian, una volta entrata
nella camera a fianco.
«Non saprei. Norman, fai subito una ricerca in tutti i database.»
«Sei stata molto brava.»
«Grazie. Vuoi che torni dentro? Secondo me è sul punto di
crollare.»
«Va bene. Il giudice ha autorizzato la perquisizione della casa.
Cosa ne pensi, può essere lui il nostro uomo?»
«Credo che possa aver sequestrato e ucciso Margaret, ma non mi
spiego tutto il resto. Quello che la stampa chiama l’Onnivoro ha una
personalità completamente diversa. E’ un uomo forte che sa quello
che vuole e sa come ottenerlo. Ha una personalità dominante, decisa,
estremamente narcisista. Earl Laski è tutto l’opposto e al massimo può
svolgere un ruolo da gregario.»
Julian si appoggia alla parete e solleva la testa verso la luce al
neon.
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«Sono d’accordo. Dobbiamo scoprire il legame tra Laski e il nostro
predatore. Sta continuando a prendersi gioco di noi e credo che si stia
divertendo un sacco. Dì a Norman di passare al setaccio la vita di Earl
Laski e di scoprire chi diavolo è questo Jamad.»
13.
105
«Sono denti!», esclama entrando nella stanza senza bussare. Dan
Ranucci ha in mano una busta gialla e nell’altra il referto del medico
legale.
«Grazie Dan, ma non c’erano molti dubbi», risponde Peter senza
distogliere lo sguardo dal video.
«Non le impronte sul collo, Peter. I due calcoli nel fegato dei
Barkley. Sono dei molari.»
Darla gli va incontro per leggere il referto del coroner.
«Dov’è Julian?»
«È partito per Denton. Voleva interrogare don Elia e poi, al rientro,
il fratello del signor Barkley.»
«Il dentista?» chiede Dan con la sorpresa di un bambino che ha
appena avuto un’intuizione.
Julian si ferma davanti all’entrata della chiesa. L’edificio è enorme
e sovrasta, come una madre gelosa, le numerose villette del quartiere
residenziale. Si avvicina al grosso portone di bronzo su cui sono
raffigurati i quattro evangelisti. Al centro, una piccola croce dalla
forma strana, non convenzionale: il braccio superiore e quelli laterali
sono corti e arrotondati, mentre quello inferiore si allarga all’estremità
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e termina con una sezione piana.
L’asso di fiori è la prima cosa che gli viene in mente.
Sei tu che non riesci a smettere di giocare o è il gioco che non ti
lascia cambiare vita?
Julian fa per entrare, ma la porta è bloccata. Gira sul lato destro e
raggiunge l’ingresso della canonica. La porta è socchiusa, ma Julian
suona il campanello senza entrare.
«E’ qui per le confessioni?»
Ad una prima occhiata, Julian ha l’impressione che don Elia sia
molto più stanco ed invecchiato rispetto a qualche mese prima.
«Un momento, ma lei è quell’agente della FBI...?»
«Esatto, vedo che ha buona memoria.»
«Non dimentico mai una faccia.»
«È una dote utile nel poker.»
Don Elia si blocca, poi cerca con lo sguardo il quadrante
dell’orologio al polso.
«Deve andare da qualche parte?»
«Sto aspettando una persona. Aveva bisogno di qualcosa?»
«Volevo farle qualche domanda su Remi Sullivan.»
«Le ho già detto che non lo conoscevo.»
Le mani del parroco non trovano pace, prima in tasca, poi libere sui
fianchi ed infine ad alleviare un prurito insopportabile alla nuca.
Julian lo scruta immobile, senza distogliere lo sguardo dal suo.
Ecco come hai perso tutti quei soldi a poker: non sai bluffare.
«Chi era la donna che assistevi in ospedale?»
Don Elia si sorprende del tono confidenziale con cui adesso gli
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rivolge la parola.
«Quale donna?»
«Ti ho visto in Terapia Intensiva un mese fa.»
«Era mia madre», risponde sollevando lo sguardo a sinistra.
«Balle!» Julian si avvicina di un passo.
«Mi scusi, ma cosa vuole da me?»
«La verità.»
«Devo chiamare il mio avvocato?»
«Di solito questa la prendiamo per un’ammissione di colpa.»
Julian si avvicina ancora e ormai è a pochi centimetri dal volto del
parroco. Piccole gocce di sudore imperlano la sua fronte, la cute è
arrossata e le pupille sono ridotte a due capocchie di spillo.
«E va bene», riprende abbassando lo sguardo. «Si trattava di suor
Magdalena. È stata ospite della nostra comunità per alcuni mesi,
insieme ad una consorella, suor Odette. Appartenevano a un piccolo
ordine del sud della Francia, Le sorelle di Maria Vergine. Suor
Magdalena era gravemente ammalata ed era in attesa di un trapianto di
midollo. Aveva un gruppo sanguigno molto raro e le probabilità di
trovare un donatore erano esigue. Stava perdendo le speranze quando
è stato trovato un donatore compatibile a Denton. È stata fatta venire
qui dalla Francia, è stata ricoverata e ha iniziato ad eseguire tutti i
controlli per il trapianto. Purtroppo la procedura ha richiesto diversi
interventi per stabilizzare le sue condizioni e non è stato possibile
effettuare immediatamente l’intervento. Sono passate alcune settimane
e quando era tutto pronto per il trapianto è successa una cosa
terribile.»
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Julian ascolta il racconto, appoggiato alle grucce di alluminio.
«Il giorno prima dell’intervento, il donatore è morto.»
Julian flette il collo a destra. Da un minuto il braccio è contratto da
uno spasmo di dolore che si estende alla spalla e alla mascella. Si
libera delle stampelle e inizia a massaggiarlo con la mano.
«Com’è morto?» chiede storcendo le labbra.
Don Elia osserva i movimenti di Julian, l’insofferenza delle mani e
il pallore del viso. La congiuntiva è arrossata e una lacrima stravasa
oltre il bordo oculare, scendendo lungo la guancia smagrita.
«Si sente bene?»
«Com’è morto il donatore?» ripete la domanda.
Don Elia estrae un piccolo rosario dalla tasca dei pantaloni.
«È precipitato dal tetto di un edificio.»
Peter May è di fianco al tavolo anatomico, con gli occhi puntati
all’interno della gabbia toracica.
«Sono denti molto vecchi; uno è cariato fino alla radice, l’altro è
scheggiato e ampiamente usurato.»
«Dottore, sa dirmi se sono di un uomo o di una donna?»
Il dottor Koening esegue un’ampia incisione sull’addome di
Margaret Lee.
«Il test del DNA ci dice che appartengono a una donna.»
Fa una breve pausa asciugandosi il sudore dalla fronte con la
manica del camice. «Dallo stato dei denti, direi una donna anziana.»
Peter May sfoglia le immagini del cadavere ritrovato nel giardino
di Remi Sullivan.
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Una donna anziana.
«Mi stai dicendo che il pluriomicida Remi Sullivan era un donatore
di midollo osseo?!»
Julian s’interrompe e a fatica estrae la carta da gioco dalla tasca
della giacca.
«E cosa mi dici di questa?»
Don Elia prende in mano l’asse di fiori.
«Dove l’ha trovata?»
«Me l’hanno fatta recapitare in ospedale. Ne sai qualcosa?»
Don Elia non risponde.
«E’ vero che hai perso un sacco di soldi a poker?»
«Questa non è una carta da gioco. E’ l’Angelo bambino.»
«Cos’è?»
«È l’Angelo bambino. Alla fine dell’ottocento, un frate provenzale,
Henri De Bois, ha fondato una piccola congregazione che aveva lo
scopo di aiutare i bambini di strada. Il simbolo scelto per
rappresentare la comunità è l’Angelo bambino che gli è apparso in
sogno indicandogli il fine della sua missione.»
«Come mai il simbolo è presente sulla porta della tua chiesa?»
«L’ho fatto aggiungere quando sono venuto qui. Anche noi
aiutiamo bambini orfani e ragazze in difficoltà.»
Julian si riprende la carta e la gira mostrando il retro a don Elia.
«E questi numeri, hanno qualche significato?»
Il parroco osserva la carta leggermente inclinata.
«Non mi dicono nulla.»
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«Le due consorelle sono tornate in Francia?»
Don Elia fa una lunga pausa.
«Suor Magdalena è tornata in Francia dieci giorni fa. Purtroppo i
medici le hanno dato poche settimane di vita. Suor Odette, invece, è
scomparsa alcuni giorni dopo il suo arrivo a Denton. Soffriva di una
grave depressione e pensiamo che si sia allontanata perdendosi per le
vie della città. Abbiamo denunciato la scomparsa alla polizia, ma non
ne abbiamo saputo più nulla.»
«Ha una foto di suor Odette?»
«Sì. Venga nel mio ufficio.»
Julian segue don Elia lungo il corridoio illuminato dalle ampie
vetrate colorate. Sulle pareti, le quattordici stazioni della Via crucis. Il
parroco entra nello studio e si avvicina alla scrivania di legno scuro.
«Ecco, è in questa busta.»
Julian si porta alla finestra per osservare meglio la busta bianca su
cui è incollato un francobollo da due euro raffigurante l’Arc de Trionf.
Estrae la fotografia in cui suor Odette è ritratta in una giornata di sole.
Avrà una ventina d’anni, col volto fresco e gli occhi umidi. Sullo
sfondo una siepe scura che contrasta con l’abito azzurro dell’ordine.
Al collo, di nuovo quella croce dalla forma strana. L’Angelo bambino.
«Suor Odette e suor Magdalena appartengono all’ordine di De
Bois?»
«Esatto.»
Don Elia si avvicina a Julian e gli mostra la denuncia di scomparsa
di suor Odette. Julian gli dà un’occhiata veloce, poi torna ad osservare
la busta bianca che conteneva la foto. Il timbro postale è sbiadito, ma
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qualcosa attira la sua attenzione: è qualcosa di familiare, conosciuto,
già visto.
13020. Il codice d’avviamento postale!
«Da dove è stata spedita?»
«Da Marsiglia.»
Julian estrae nuovamente l’asso di fiori e confronta le cifre sul retro
con quelle del timbro postale. In un angolo, 13020. Nell’altro 33.
«Come hai detto che si chiama l’ordine di suor Odette?»
«Le Sorelle di Maria Vergine.»
«Hai l’indirizzo?»
Don Elia controlla l’indirizzo nella rubrica.
«Rue de Maupassant 33.»
Dopo un momento, Julian torna a guardare il parroco di Denton.
«Va bene don Elia, grazie della collaborazione. Se non ti dispiace,
terrei questa foto.»
«Non c’è problema», risponde stringendogli la mano.
Julian s’incammina verso l’uscita poi, sulla soglia, si gira
nuovamente.
«Un’ultima cosa. Che visita doveva fare suor Odette, il giorno della
scomparsa?»
«Soffriva di un forte mal di denti e quel giorno aveva prenotato una
visita odontoiatrica.»
«Sai dirmi il nome del medico che avrebbe dovuto visitarla?»
«No, ha prenotato la visita direttamente in ospedale.»
«Grazie ancora», risponde prima di girarsi e incamminarsi verso il
taxi.
112
Il telefono squilla ripetutamente, mentre l’acqua tiepida scorre sulla
schiena di Darla. Horacio le afferra il bacino e le spinge il busto in
avanti. I movimenti si fanno sempre più rapidi, decisi e i gemiti più
acuti. Lei allarga le gambe, appoggiandosi al vetro del boxe doccia per
non perdere l’equilibrio.
Maledizione, rispondi!
Il taxi percorre velocemente la settima strada in direzione del
centro. L’orologio al polso segna le dieci e trenta.
«Si fermi qui, grazie.»
«Ma il Bristol è a due isolati.»
«Non si preoccupi. Tenga il resto.»
Julian allunga al tassista una banconota da venti dollari ed esce
dalla macchina appoggiandosi alle stampelle. Dopo pochi metri,
raggiunge un drugstore illuminato a giorno. Perlustra gli scaffali di
tutte e quattro le corsie e, non trovando quello che cerca, si presenta
alla cassa con la boccetta di ossicodone in mano.
«Me ne potrebbe dare un’altra?» chiede al ragazzo del bancone.
Il commesso prende in mano il farmaco, poi torna a Julian con un
mezzo sorriso.
«Sa che può dare dipendenza?»
Julian non risponde, continuando a fissarlo immobile.
«Mi sa che è già dipendente», bisbiglia alzando la cornetta.
«Cos’hai detto, testa di cazzo?!»
«Sicurezza, potete intervenire al 342 della settima...»
La stampella si schianta sul telefono distruggendone il corpo di
113
plastica.
«Ma è impazzito?! Non posso distribuire oppiacei senza una
prescrizione medica!»
«E che problema c’è?», risponde estraendo la ricetta con il timbro
della dottoressa Hemingway.
Il ragazzo solleva il foglio con la mano tremante.
«Ma non poteva dirlo subito?»
«Non me l’hai chiesta, brutto stronzo!»
A mezzanotte e un quarto il cellulare di Julian inizia a vibrare nella
tasca dei jeans.
«Ciao Darla, come va a Denver?»
«Hai letto l’e-mail che ti ho mandato? Abbiamo scoperto cosa
conteneva il fegato delle vittime: non erano calcoli. I Barkley,
Margaret e i fratelli Stolnhouse avevano dei denti infilati nelle vie
biliari. Si tratta di denti abbastanza vecchi e il coroner dice che
appartengono alla stessa persona. Una donna. Sono in corso i test per
valutare la corrispondenza con le altre vittime.»
Julian ascolta sulla poltrona della camera d’albergo.
«Julian, ci sei?»
«Sì, continua pure.»
«Sono stati inseriti dall’esterno, dopo aver scuoiato l’addome. Sono
tutti denti malconci, usurati e cariati. Tuttavia, quello trovato nel
fegato di Margaret Lee presentava i segni di una recente otturazione.»
«Forse so a chi appartengono. Circa due mesi fa è scomparsa una
suora francese a Denton. Don Elia mi ha detto che il giorno della
114
scomparsa ha eseguito una visita odontoiatrica. Ha prenotato una
visita in ospedale e le hanno fissato un appuntamento in un
ambulatorio pubblico, dove esercitano medici volontari. Domani
andrò a controllare chi ha prestato servizio il giorno della scomparsa.»
«Hai detto una suora francese? E cosa centra con gli omicidi?»
«È un po’ complicato da spiegare al telefono. Hai saputo qualcosa
dell’impronta di bambino trovata sul collo di Sarah Barkley?»
«Nulla, mi dispiace.»
«Riepilogando: troviamo padre e figlia seviziati e trucidati su un
picco delle montagne rocciose, in un’area piuttosto isolata, e sul collo
della ragazza sedicenne è presente l’impronta di un bambino. Ora,
viene da chiedersi se era presente un bambino durante l’omicidio, o se
un bambino ha trovato il cadavere di Sarah e l’ha toccato. Nel secondo
caso potrebbe essere avvenuto durante un’escursione, magari con la
scuola o con i genitori. Tuttavia, mi sembra improbabile in quanto,
nessuno ha segnalato il corpo... Un momento, chi ha telefonato alla
polizia per avvisare del ritrovamento di Sarah?»
«Abbiamo già controllato. È stato un certo Malo. La polizia l’ha
interrogato e anche Peter gli fatto visita quando eri ancora in ospedale.
È una persona a posto, nulla da segnalare. Vive a Denver, ma va a
caccia nella zona di Coal Creek durante i week-end. Non mi risulta
che abbia figli.»
«Darla, torna a interrogarlo e fatti spiegare nei minimi dettagli
com’é avvenuto il ritrovamento. Domani rientrerò a Denver e vi
aggiornerò su quello che ho scoperto. Tu intanto prepara le valige: la
prossima settimana si va in Francia.»
115
«Wow, erano anni che volevo visitare la città dell’amour e tu
guarda il caso: mi ci porta il lavoro.»
«In realtà non andremo a Parigi, ma a Marsiglia.»
«Vieni anche tu?! Ma C’est fantastic, mon cheri! Allora a domani.»
14.
116
«Che stupido che sei stato.»
«Lasciami stare, vai via!»
«Ma sei tu che mi hai chiamato, Earl.»
«Vai via! E’ per colpa tua se sono in questo posto.»
«Che stupido!»
Dan Ranucci va incontro a Peter May che esce dalla stazione di
polizia.
«Ha detto qualcosa?»
«No», risponde secco senza guardarlo in faccia. Con la mano destra
controlla la magnum nella fondina sotto la giacca, poi la piccola
revolver alla caviglia.
«Darla mi ha detto che c’è di mezzo una suora.»
Peter continua a camminare verso l’auto parcheggiata in divieto di
sosta, seguito dal collega. Strappa il foglio della contravvenzione e
sale in macchina.
«Hai sentito cosa ho detto?»
«Ho sentito.»
«C’è qualcosa che non va, Peter?»
«Mi hanno sospeso. Gli affari interni.»
117
«Che cosa?! Ma siamo nel bel mezzo di un’indagine e con Julian
che si muove su due stampelle. Ma come ragionano a Quantico?»
«Mi hanno chiamato stamattina e lui era d’accordo.»
«Julian? Stai scherzando?»
«No. Adesso devo andare.»
La Chevy nera parte grattando il pneumatico anteriore contro il
marciapiedi. Dan la segue mentre si allontana e incrocia il duetto di
Darla che giunge dalla direzione opposta. Parcheggia contromano di
fronte a Dan ed esce continuando a fissare la macchina di Peter in
lontananza.
«Tu lo sapevi?»
«Me l’ha detto ieri Julian.»
«Cazzo, sono sempre l’ultimo a essere informato! Ma perché Julian
non si é opposto? Trentassi era un maniaco pedofilo e la società
dovrebbe fare un monumento a Peter per averlo eliminato.»
Darla si volta verso di lui.
«Non è solo per Trentassi.»
«Cosa?»
«È da un po’ che la disciplinare lo teneva sotto controllo. Sono
state intercettate delle telefonate a un ex militare venezuelano, un
certo Vatiero, che la CIA sorvegliava per traffico d’armi. Non so che
cosa si siano detti, ma è stato sufficiente per farlo sospendere. Julian
mi ha detto che a settembre ci sarà un inchiesta e si valuterà il da
farsi.»
«Cazzate, un mare di cazzate. Peter mi aveva parlato di questo
Vatiero: l’ha conosciuto al tempo della guerra in Bosnia ed era il suo
118
contatto durante un’indagine di due anni fa.»
«Senti, ne parliamo stasera con Julian. Devo rivolgere alcune
domande a Laski e poi torno a interrogare l’uomo che ha ritrovato i
corpi dei Barkley. Vieni con me?»
«No, ci vediamo più tardi; dovrebbero esserci novità dalla
Medicina Legale.»
«Buongiorno, dottoressa Hemingway.»
L’incontro è inaspettato.
«Buongiorno avvocato.» Il volto di Darla si distende e accoglie lo
sguardo di Adam con un sorriso. «L’agente Smoke torna questa sera.
Aveva bisogno di qualcosa?»
«Sono venuto a parlare con Earl Laski. Era un cliente dell’avvocato
Stolnhouse, ma il nostro studio preferirebbe non seguire il caso, date
le circostanze. Ci sono novità nelle indagini?»
Darla incrocia le braccia attorno alla cartellina di cuoio e scuote la
testa continuando a fissare gli occhi chiari dell’avvocato Swan.
«Se non lo difendete voi, chi lo farà?»
«Gli verrà assegnato un avvocato d’ufficio. Tra gli studi di Denver
si è sparsa la voce che potrebbe essere stato lui ad uccidere Sean e non
c’è molto entusiasmo nel difenderlo.»
«Condanna massima, allora?»
«Direi che la pena di morte non gliela leverà nessuno.»
«E se non fosse stato lui?»
«Allora... Sarà anche colpa vostra.»
Darla allarga di poco le labbra e si aggiusta una ciocca di capelli
119
dietro l’orecchio destro. Sostiene ancora un’istante lo sguardo
dell’avvocato Swan e poi abbassa gli occhi. Il collo abbronzato, la
camicia azzurra sul petto teso, l’abito scuro in fresco lana e una brezza
d’incenso nell’aria. Socchiude le palpebre, lasciandosi trasportare per
alcuni istanti sulle rive di un’isola tropicale.
«Allora, dottoressa, a che ora la passo a prendere, stasera?» Darla
riapre gli occhi.
«Allora, dottoressa, a che ora torna stasera?»
«L’agente Smoke? Verso le otto; aveva bisogno di parlargli?»
«Sì, mi sono ricordato di una cosa che potrebbe essere importante
per le indagini?»
«Se vuole può riferire a me. L’agente Smoke adesso non è in città,
ma dovrebbe rientrare in serata.»
«Oh, beh, in questo caso lo chiamerò stasera. Mi ha lasciato il suo
numero. Allora buona giornata.»
La mano è fresca e ben curata; Darla avverte un leggero brivido
lungo la schiena al contatto della stretta decisa di Adam.
«Che male c’è nel difenderlo? Se troverà indizi o avrà informazioni
controproducenti per la sua difesa, potrà sempre rinunciare in un
secondo momento.»
«Ero molto legato a Sean e alla sua famiglia.»
«Una ragione in più per conoscere la verità, non crede?»
L’avvocato si porta la mano al petto e poi all’orologio da taschino
in oro massiccio.
«Devo parlarne con gli altri soci dello studio.»
«Molto bene, allora conto di rivederla al rientro dalla Francia.»
120
«In vacanza nel bel mezzo di un’indagine?»
«Mi scusi, ma ora devo andare. Buona giornata.»
Earl Laski è in piedi nella cella di isolamento. Sul tavolo il piatto
con l’hamburger freddo e l’insalata scondita.
«Non hai fame?»
Earl continua a guardare la ragnatela tesa tra la piccola finestra e
l’angolo del soffitto, incantato dall’eleganza con cui si muove il ragno
violino. Solleva la mano sinistra e si porta il pollice alla bocca.
«Ancora quel brutto vizio?»
Si volta alla ricerca dello sguardo rassicurante di Francisca Leclerc,
ma la stanza è vuota. Oltre le sbarre la dottoressa della FBI che aveva
incontrato il giorno dell’arresto; gli sta chiedendo qualcosa, ma la sua
voce è priva di suono. Ha la pelle dorata e una luce amica negli occhi,
gli allunga un sacchetto bianco, ma lui resta immobile e la fissa con il
dito in bocca.
«È rimasto a fissare il muro tutta la notte, dottoressa.»
L’agente di sorveglianza apre la cella e Darla lo ringrazia con un
sorriso.
«Buongiorno Earl, non hai mangiato nulla ieri sera? Ho portato
delle ciambelle, ne vuoi una?» Poi, rivolgendosi all’agente, «Ci può
lasciare soli?»
Earl osserva le immagini che gli passano davanti come se fosse
difronte ad un acquario: le persone nuotano nell’aria, hanno
movimenti rallentati ed emettono frasi mute. Gli occhi arrossati dalla
notte insonne, la barba ispida e la camicia intrisa di sudore.
121
«Forse è giunto il momento di confessare», vorrebbe poter dire. Il
pollice è rosso e bagnato, lo mostra alla dottoressa: ha grandi occhi
verdi, potrebbe guardarli per ore. Gli ricordano la signorina Marie.
«Posso aiutarti. So che non hai fatto tutte quelle cose: chi ha buttato
i corpi giù dal ponte?»
È proprio come la signorina Marie. La voce e le parole sono
accessorie, superflue, un contorno che vorrebbe evitare, proprio come
l’insalata. Occhi negli occhi, gocce che si fondono e diventano un
tutt’uno nella sua mente; gocce di rugiada su un prato verde, lui
disteso a osservare la danza delle nubi nel cielo, le mani aggrappate ai
fili d’erba, il profumo del mattino e un dolore sordo nel petto.
«Ne vuoi una, sono buone?»
Allunga la mano e prende una ciambella. Lo zucchero a velo gli
sporca le dita della mano destra. Il pollice mozzato.
«Quando ti sei tagliato?»
Earl torna a fissare il muro mentre si porta un boccone alla bocca.
«È stato molto tempo fa.»
Darla si siede e appoggia il sacchetto sul tavolino.
«Quando eri ancora piccolo?»
Gli occhi si tingono di ricordi.
«Sì, ero piccolo. È stato per gioco.»
Darla sa che il momento è delicato, un filo sottile la tiene legata a
quell’uomo dal passato infelice. Un gesto avventato o una parola
sbagliata potrebbero spezzare quel legame fragile che si è appena
creato, farle perdere la possibilità di conoscere meglio le ragioni che
hanno spinto Earl a rapire Margaret.
122
«Che giochi ti piaceva fare da bambino?»
«Giocavo sempre da solo.»
«Anche a me piace stare da sola, ogni tanto. Mi dà la possibilità di
pensare e di fare delle scelte.»
«Tu...Tu sei una brava persona.»
Earl si volta e con movimenti lenti si siede di fronte a lei. Gli occhi
più vivi e un sorriso stirato sulle labbra.
«Perché credi che io sia una brava persona?»
«Non lo sei?»
Darla è immobile, con le mani incrociate sul tavolo e la testa
appena flessa di lato.
«Ho fatto scelte giuste e scelte sbagliate. Spero che, alla fine,
quelle giuste avranno maggiore importanza.»
Earl continua a fissarla. Un secondo boccone e lo zucchero che gli
tinge le labbra di bianco.
«Mi hanno fatto delle cose cattive.»
«Mi dispiace molto, Earl. Credo che anche tu sia una persona
buona.»
Sorride e addenta di nuovo la ciambella.
«Se fossi una persona buona, io non sarei qui e Margaret non
sarebbe morta.»
Si pulisce con la manica della camicia.
«Vuoi dirmi cosa è successo?»
«Non ricordo molto. Quando si è svegliata le ho chiesto se voleva
mangiare, ma lei ha iniziato a gridare. Io ero calmo. Mi sono
avvicinato e le ho detto che non doveva avere paura, ma continuava a
123
gridare e mi ha calciato. Poi, mentre mi allontanavo, si è messa a
ridere e mi ha detto quella cosa.»
Earl si lecca le dita della mano e porta lo sguardo al sacchetto sul
tavolo.
«Ne posso avere un’altra?»
Darla gli sorride e gli allunga una seconda ciambella. Earl segue il
movimento del braccio e si sofferma sul bracciale d’argento e al
piccolo unicorno che pende dal polso.
Duffy.
«Che cosa ti ha detto, Earl?»
«Mi ha detto che mia madre mi aveva concepito durante uno
stupro.»
«E questo ti ha fatto arrabbiare?», chiede con tono calmo.
«Non so come l’abbia saputo.»
«È successo davvero?»
«È quello che mi hanno sempre detto, ma io non ci ho mai creduto.
Sono stato portato nella casa dai mattoni gialli perché mia mamma
doveva lavorare. Mi aveva promesso che sarebbe tornata a prendermi,
ma poi ha avuto un incidente.»
«È allora che ti sei arrabbiato con Margaret?»
Earl finisce la ciambella e beve un bicchiere d’acqua.
«Non ricordo nulla. Sì, devo essermi arrabbiato, ma non credo di
averle fatto del male.»
«Chi é Jamad?»
«È il bambino più forte del mondo», esclama in un sorriso radioso.
«Era con te nella grotta?»
124
Earl si alza in piedi e si stira allungando le braccia oltre il capo.
«Lui é sempre con me e sa sempre cosa si deve fare.»
Darla lo segue mentre si avvicina alla piccola finestra nel muro.
«Ti ha aiutato lui a gettare i corpi dal ponte?»
Earl si volta con aria stupita.
«Perché continui a dire i corpi? Jamad mi ha detto di mettere
Margaret nel sacco e di caricarlo nel pick-up. Cosa ne ha fatto dopo
non lo so?»
«Sai che verrai processato per questo e che rischi la pena di
morte?»
Earl si avvicina e si siede sul tavolino.
«Vuoi usare questa nostra conversazione come una confessione?»
aggiunge afferrando il polso della dottoressa. Darla ha un sussulto e si
volta indietro alla ricerca dell’agente di sorveglianza.
«La tua guardia si è allontanata da qualche minuto. Allora, vuoi
incastrarmi e farmi condannare a morte, Darla?»
«Lasciami o inizio a gridare?»
La sicurezza che cerca di trasmettere è tradita da un’impercettibile
flessione nel tono della voce.
«Potrei azzannarti il collo e, prima che il nostro soldatino trovi le
chiavi, potresti incontrare Margaret Lee e le altre ragazze che si sono
prese gioco di me.»
Darla cerca di sostenere il suo sguardo con apparente calma. Prima
regola: non fare vedere che hai paura; la paura lo eccita e se capisce di
avere il dominio ha vinto la partita. Seconda regola: non prenderti
gioco di lui; ecco l’errore di Margaret e delle altre ragazze. Terza
125
regola: prendi la pistola e sparagli un colpo senza esitare; ma devi
avere una pistola e quella di Darla è in consegna all’agente
all’ingresso.
Earl abbassa il capo su di lei e ne annusa il profumo intriso di
adrenalina: sì, la paura delle sue vittime lo eccita. Le sfiora i capelli
con le labbra, stringe maggiormente il polso e infine si allontana
riaprendo gli occhi.
«Lasciala immediatamente!»
Earl solleva lo sguardo e incrocia quella di Dan Ranucci dietro la
canna di una Beretta calibro nove.
«Lasciale il polso o ti freddo in questo istante, brutto stronzo!»
Earl allenta la presa con un sorriso e quindi solleva entrambe le
braccia.
«Credi ancora che io sia una brava persona?»
Darla si solleva in piedi e, con le mani tremanti e gli occhi umidi,
indietreggia verso la porta senza distogliere lo sguardo dal volto
raggiante di Laski.
«Ti sei dimenticata di chiedermi se volevo un avvocato. E’ per
questo che non potrai usare la mia deposizione come confessione.»,
aggiunge sorridendo.
«Su questo ti sbagli, Earl.»
La figura elegante di Adam Swan emerge alle spalle di Ranucci.
«Ho accettato di difenderti dalle accuse di omicidio e ho ascoltato
la tua deposizione. Dal punto di vista legale è tutto regolare. Come tuo
avvocato ti consiglio di non aggiungere altro.»
L’espressione di Earl muta rapidamente: l’euforia di pochi istanti
126
prima lascia il posto alla malinconia che lo ha accompagnato per oltre
quarant’anni. Porta le mani dietro alla nuca e si inginocchia sul
pavimento; Darla estrae le manette dalla cintura e gli serra i polsi.
«Dicevo davvero: penso che tu sia una brava persona, ma con dei
grossi problemi», gli sussurra all’orecchio.
Il sole del mattino e già alto, nel cielo del Texas, e i raggi si
riflettono sulla vetrata a specchio del Poliambulatorio di Denton. Due
infermieri in pausa sigaretta discutono animatamente della partita di
baseball. Julian riceve un’occhiata di superficie dal più grosso dei due
che, infine, lancia il mozzicone oltre la siepe.
«Che giorno ha detto?», chiede osservando il tesserino dell’FBI.
La ragazza alla reception non avrà più di venticinque anni, lunghi
capelli castani, un volto pieno di lentiggini e fini occhiali dalla
montatura dorata. La voce ha l’allegria tipica di chi non ha ancora
ricevuto troppe delusioni dalla vita.
«Il diciotto aprile.»
La notte di Julian è stata piena di incubi e frequenti risvegli.
L’ossicodone sta perdendo il suo effetto e probabilmente il commesso
della farmacia non aveva tutti i torti: si potrà parlare già di
dipendenza? Il dolore al torace l’ha tormentato fino all’alba e, della
boccetta di farmaco, alle sei del mattino ne restava meno della metà.
«Il diciotto aprile avrebbe dovuto esserci il dottor Singh», risponde
sfogliando il registro dell’ambulatorio. «Però non si è sentito bene e
ha telefonato per dirci che avrebbe mandato un sostituto.»
«Mi sa dire il suo nome, per favore?»
127
Julian continua a massaggiarsi il torace nel tentativo di alleviare il
dolore. Prende una pastiglia e se la porta alla bocca.
«Sì, l’ho annotato in quest’altro registro», prosegue aprendo una
piccola agenda. «Ecco qui: il diciotto ha prestato servizio il dottor...»
La signorina si aggiusta gli occhiali sul naso e poi li allontana per
leggere meglio. «...Ma, non è possibile!»
«Che cosa, signorina?»
Solleva lo sguardo dal registro e incrocia quello perplesso di Julian.
«Non mi sta prendendo in giro, vero?», aggiunge con un sorriso
imbarazzato.
«Mi dia quel nome, la prego.»
«Qui c’è scritto che ha prestato servizio il dottor... Julian Smoke.»
«Stai bene?»
«Sì, grazie», risponde dopo aver bevuto un sorso di caffè. Darla
accarezza l’unicorno d’argento che pende dal suo bracciale: é freddo,
senz’anima.
«Non pensavo potesse diventare pericoloso: era così calmo
all’inizio.»
Lui le appoggia la mano sulla spalla senza parlare.
«Adam, sei sicuro che sia tutto legale?»
«In realtà potrei essere radiato dall’ordine, ma non credo che il
giudice crederà alla versione di Earl Laski. Probabilmente chiederà di
essere difeso da un altro avvocato e mi sta bene.»
Darla sorride senza distogliere lo sguardo dal bracciale. Sente i suoi
occhi che la osservano da dietro e un leggero imbarazzo tingerle le
128
gote di porpora.
«Se stai meglio, io andrei».
Adam si porta di fronte a lei e abbozza un sorriso chinandosi sul
tavolino. Finalmente Darla riesce a vedere chiaramente ciò che l’ha
attratta dal primo momento in cui l’ha visto: il velo di tristezza che ne
ricopre lo sguardo è disarmante e ipnotico. Avrebbe voglia di alzarsi e
stringerlo forte a sé; avrebbe voglia di ascoltare la sua storia o
semplicemente
restargli
distesa
accanto,
occhi
negli
occhi,
accarezzando i suoi capelli scuri.
«Sì, sto meglio, grazie ancora.»
Le labbra le sfiorano il dorso della mano e poi si chiudono nel
silenzio di un addio. Allontanandosi verso l’uscita, Adam incrocia lo
sguardo di Dan Ranucci appoggiato al bancone dell’ingresso: non è
uno sguardo di minaccia, ma il tacito avvertimento di non prendersi
gioco di una persona cara.
«Hai bisogno di qualcosa?», le chiede porgendogli il foglio con la
deposizione dell’accaduto.
«No, grazie Dan. Mi hai salvato la vita.» Il sorriso di Darla è uno
dei motivi per cui non ha ancora lasciato l’unità. «Non dovevi andare
dal coroner?»
«Ho preferito aspettarti. Vedi, anch’io ogni tanto ho qualche buona
intuizione.»
Darla gli accarezza la mano e abbassa gli occhi sul tavolo.
«Ho telefonato per sapere le novità: hanno trovato la stessa
impronta di bambino anche sul collo dei fratelli Stolnhouse. Credo che
possa essere considerata la firma del nostro uomo...o bambino.»
129
«Mi hai risparmiato l’interrogatorio al signor Malo. Evidentemente
l’assassino le ha lasciate di proposito: ora, viene da chiedersi, chi
diavolo mostrerebbe a un bambino dei corpi seviziati in quel modo?»
«Magari è suo figlio e lo sta istruendo a proseguire la sua opera.»
«Può essere, anche se mi sembra poco coerente con il tipo di
personalità che abbiamo delineata. Istruire un giovane apprendista
nell’arte di uccidere richiede un legame e un’empatia che non riesco
ad intravedere nel modus operandi dell’Onnivoro. Ho, invece, il
timore che si tratti dell’ennesima burla nei nostri confronti.»
15.
130
L’immagine sullo schermo trema alcuni istanti prima di lasciare il
posto ad uno sfondo nero su cui compare la scritta Fine primo tempo.
Le luci si accendono, ma l’uomo non ha nessuna intenzione di alzarsi.
Intorno poche persone, una donna alla sua destra, qualche posto più in
là, e una coppia alle sue spalle che continua a baciarsi nonostante
l’atmosfera meno intima. Lui ruota il capo e con la coda dell’occhio
osserva il profilo di lei: gli sembra di averla già vista qualche anno
prima, a scuola o in un negozio del centro. Forse l’inizio di un nome,
Samantha, forse la voce sussurrata all’orecchio nel buio di un locale.
Cerca di ricordare, ma l’immagine è troppo sbiadita. Decide di
voltarsi per osservare meglio.
Ti guarda, ma è ancora troppo lontano; appoggia le mani sullo
schienale e si mette in piedi sulla poltrona di velluto. Ora si può
allungare, raggiungere le parole con le mani, farsi largo tra
spazi
delle
parole.
Si
fa
largo
gli
tra
le
righe
per vedere cosa
succede oltre la sua gabbia di carta, per sapere se il male che prova
131
dentro è un mio regalo o lo provi anche tu, ogni tanto.
le
p a r o l e
per
A p r e
g u a r d a r t i.
«Non è colpa mia.»
E’ forse colpa mia?
«Fammi uscire, non ho fatto niente.»
Se ti facessi uscire, dovrei farlo io e le mie mani farebbero molto
più male. Guarda: sta leggendo la tua voce e forse vorrebbe che ti
liberassi. Ma come la penserebbe se avesse le mie mani attorno al
collo. Eh, come la penseresti?
«Sei crudele.»
E tu, lettore, pensi che io sia crudele?
Vedi, non risponde. Continua a leggere e credo che ti lascerà
soffocare tra queste pagine. O peggio, smetterà di leggere e tu resterai
un ricordo vago che si dissiperà nel giro di pochi giorni, il tempo di
prendere in mano un nuovo racconto, una nuova storia di sangue.
«Non farò quello che mi hai chiesto.»
Certo che lo farai, non hai scelta.
132
«Una possibilità ce l’ho e ce l’ho esattamente ora, nel momento in
cui tu stai scrivendo questa ridicola parentesi. Io ti vedo: sei scalzo,
nella stanza, mentre torturi i tasti del tuo computer. È estate, fa caldo e
vorresti essere altrove, ma stai lì a scrivere queste pagine, non tanto
nella speranza che un giorno qualcuno avrà la voglia di sfogliarle, ma
per saziare un tuo bisogno puerile, forse adolescenziale. Tu non scrivi
per paura della morte o per paura di essere dimenticato: tu scrivi per
parlare con me.»
Oh, certo. Ed è certo che le farai le cose che ho scritto per te!
«Esiste la psicanalisi, ma a te non piace parlare di queste cose con
gli estranei, non é vero? Ti piace avere sempre il controllo.»
Sto cambiando la pellicola, ti conviene rimetterti a sedere.
«Allora lo dico a te, lettore: se chiudi il libro adesso, saprai che io
sono qua dentro, intrappolato tra le virgole d’inchiostro, ma fermo qui,
in piedi su questa poltrona. Potrai ricordarmi così, non come una
brava persona, ma come qualcuno che sta cercando di cambiare.
Chiudi il libro adesso e non commetterò più crimini. Chiudi il libro, e
ti dirò chi sono.»
Pensi che ti permetterò di farlo?
133
«Sai che ho molta più forza di te; se non fosse così, non mi avresti
dato una voce.»
Sorrido.
«Ti diverti? Non sai che ho il potere di rovinare il tuo libro? Allora,
se chiudi adesso ti dirò chi sono. Puoi leggere il mio nome alla ottava
riga, pagina...»
Sorrido di nuovo.
«...»
Parla, dai, confidati con il tuo lettore.
«Pagina duecentodiciannove.»
Cambierò quel nome prima che possa arrivare a quella pagina.
«Leggi il nome e poi chiudi. Le ragioni sono sempre le stesse, le
stesse che hanno spinto lui a scrivere questa storia.»
Sorrido di nuovo. E cambio la pellicola.
«Un’ultima cosa.»
134
Ora siediti!
Le luci ancora accese e lo schermo scuro, Secondo tempo.
16.
135
Zackary Barkley parcheggia la grossa Mercedes-Benz nel vialetto
di casa. Entra dalla porta sul retro, si slaccia la cravatta e la cintura, fa
volare le stringate inglesi sul tappeto e si precipita al piano superiore.
«Sei tornato, finalmente.»
Si avvicina alla webcam del monitor e manda un bacio alla ragazza
mulatta inquadrata nel video.
«Ho fatto il prima possibile», risponde togliendosi la camicia.
«Sei uno sporco maiale, lo sai vero?»
«Si, lo so. Dimmi cosa devo fare per farmi perdonare.»
«Chiudi gli occhi, maiale!»
«Oh si, e adesso cosa succede?» chiede portandosi una mano nei
pantaloni.
«Tieni gli occhi chiusi e non parlare.»
«Non ce la faccio, sono troppo eccitato.»
«Hai ancora le mutandine rosse?»
Zackary apre gli occhi e guarda sotto la cintola.
«Si, le indosso tutti i giorni, da quando me le hai spedite.»
«Che pervertito, non ti vergogni?! Un uomo di successo come te
che indossa biancheria femminile!»
«Lo so, sono malato», sospira chiudendo gli occhi di nuovo.
136
«E hai fatto quella cosa per me?»
Zackary solleva il sacchetto di carta. «È qui dentro.»
«Non ti avevo detto di comprarlo», gli urla dal monitor. «Ti avevo
ordinato di rubarlo!»
«Ma
l’ho
rubato,
Luana.
Guarda,
c’è
ancora
il
coso
antitaccheggio», replica mostrando un completo intimo viola, taglia
extra-extra-large.
«Bene, Zac. Ora vatti a cambiare che voglio vedere come stai.»
Dei colpi alla porta.
«Non vai ad aprire?»
«Ma chi cazzo è che rompe?!»
«Forse è tua moglie», esclama ridendo dal monitor.
«È in Canada, la stronza.»
I colpi continuano senza tregua.
«Smetteranno prima o poi», aggiunge dirigendosi nel bagno della
camera da letto. Esce dopo pochi minuti con indosso il completo
femminile viola.
«Ma stai un favola, amore!», esclama la ragazza da un punto
indefinito del web.
«Ora vai carponi sul letto, ma resta nell’inquadratura.»
Zackary esegue ogni comando come un cagnolino addestrato.
«Adesso ulula!»
«Ahuuuu», sussurra.
«Più forte, brutto cagnaccio!»
«Ma potrebbe sentirmi qualcuno.»
«Ulula, è un ordine!»
137
«Ahuuu!» grida con tutto il fiato che ha in gola.
«Bravo. E ora pisciati addosso!»
«Oh, sì, come facevi a sapere che mi piace farlo.»
Un tonfo dal piano di sotto e poi il rumore di vetri.
«Ma cosa...?! Aspettami qui, torno subito» esclama alzandosi e
indossando una vestaglia. Scende di corsa le scale e si porta in cucina.
Il vetro della porta è rotto e in controluce la figura di un uomo alto, in
piedi sulla soglia.
«E tu chi cazzo sei?!» esclama avvicinandosi con passo deciso. A
un metro si arresta per leggere il tesserino che l’uomo tiene in mano.
«FBI?!»
Poi lo vede: un piccolo puntino rosso sulla mano che lentamente
risale lungo il braccio, poi alla spalla e infine alla ricerca della fronte.
«Nooo!» Zackary si volta e inizia a correre, ma il proiettile da 7,62
millimetri lo raggiunge all’istante, aprendogli una voragine nel cranio.
17.
138
La prima cosa che nota nella sala d’attesa dell’aeroporto è il suo
vestito color pesca. Gli sguardi degli uomini che le passano accanto
sono dolci e sporchi allo stesso tempo, fantasie private e sconce, a
volte il desiderio di un grande amore. Sta leggendo la biografia di Ed
Gein, il macellaio di Plainfield, e non si è accorta che l’uomo si sta
avvicinando. A un paio di metri da lei, si ferma e rimane a fissarla per
alcuni secondi. Il respiro della giovane donna è regolare, sotto la
scollatura pronunciata; un collier d’oro rosa in tono con gli orecchini a
pendente, lo smalto color prugna alle mani e ai piedi, le gambe
accavallate, sandali chiari con tacchi alti. Quando lei solleva il capo,
incrocia il suo sguardo e si apre in un sorriso radioso.
«Julian!» esclama alzandosi in piedi.
«Se fossi Horacio, non ti lascerei uscire di casa.»
L’abbraccia appoggiandosi alla stampella. «Sei sempre più bella,
Darla», aggiunge guardandola dritta negli occhi.
«Grazie, amore. Tu, invece, ai due pupille da tossico e l’aria da
spacciatore. Non è che stai esagerando con le pillole?»
«Sto benissimo, grazie. Comunque hai qualcosa che non mi
139
convince, qualcosa di diverso.» Socchiude gli occhi, inspira
profondamente, poi, di nuovo l’espressione da tossico in fase attiva,
«Ma certo, hai cambiato profumo! Essenza al terebinto?»
«Non so neanche cosa sia il terebinto, Julian. Davvero, sei sicuro di
voler partire per la Francia? Non sarebbe meglio aspettare che tu stia
meglio?»
Le passa il braccio attorno alla vita e s’incamminano verso l’uscita.
«Ma ci pensi, io e te in Francia con Horacio a mangiarsi il fegato
dall’invidia, mentre sorseggiamo un Bordeaux dell’ottantadue a spese
della FBI?»
«Che programma invitante. Ma si può sapere cosa ci andiamo a
fare a Marsiglia?»
«A parlare con una suora che é stata ospite di Don Elia. Doveva
ricevere un trapianto di midollo e prova a dire chi era il donatore?
Remi Sullivan. Ora, non ho studiato medicina, ma ho discusso
innumerevoli casi con medici legali ed esperti di genetica: se hai un
gruppo sanguigno molto raro, quali sono le prime persone che
potrebbero essere compatibili?»
«I tuoi parenti?»
«Brava. La mia ipotesi è che Sullivan avesse qualche legame di
parentela con questa donna: forse era un lontano nipote. Non
sappiamo nulla del passato di Sullivan, non sappiamo dove abbia
passato l’infanzia e penso che questa pista possa rivelare informazioni
importanti anche per i casi di Denver. Inoltre, credo che il corpo
ritrovato nel suo giardino possa appartenere a una seconda suora, della
stessa congregazione religiosa. Dobbiamo fare in fretta perché le resta
140
poco da vivere.»
«E Zackary Barkley?»
«Ho telefonato al suo studio e la segretaria mi ha detto che si è
preso una settimana di ferie, ma senza prenotare viaggi. Nei prossimi
giorni andrò a fargli una visitina e vedremo cosa ha da dirci.»
«Io, invece, ho incontrato Adam Swan e mi ha detto che vorrebbe
parlarti.»
«E di cosa?»
«Ha detto di avere alcune informazioni che potrebbero essere
importanti per l’omicidio dei fratelli Stolnhouse. C’é solo un
problema: questo me l’ha detto prima di accettare di difendere Earl
Laski.»
«Difenderà Laski?!»
«Sì, all’inizio non voleva. Poi, diciamo, che io ho un po’ insistito»,
aggiunge con un filo di voce.
«Darla, di che cosa stiamo parlando?»
«Dai, l’hai visto anche tu. È...è un bel tipo.»
«Scusami Darla, e Horacio, il tango, la noche argentina?»
«Lo so, lo so, è che sono un po’ confusa, ultimamente.»
«Ultimamente?! Non ricordo una relazione più lunga di sei mesi.
Capisco che non facciamo un lavoro semplice, ma santo cielo, un
minimo di sentimento!»
Darla sorride. «Sei proprio invecchiato, Julian. Parli come mio
padre.»
«Pronto? Avvocato Swan?»
141
«Si, chi parla?»
«Sono l’agente Smoke, dell’FBI. Mi ha detto la dottoressa
Hemingway che mi voleva parlare.»
Un attimo di silenzio, in sottofondo le note di una vecchia canzone
jazz.
«Ah, sì. Le avevo detto che l’avrei chiamata stasera. In effetti c’é
una cosa che mi ha detto Sean che mi ha un po’ sorpreso.»
«Di cosa si tratta?»
«Preferirei parlarne a quattrocchi, se non le dispiace. Se è in città
potremmo incontrarci al Red Rose Café, sulla trentaduesima.
Facciamo tra un’ora?»
«Va bene, a dopo.»
Riattacca e incrocia gli sguardi curiosi di Darla e Dan Ranucci. La
sala riunioni è grigia e spoglia, illuminata dalla luce al neon; sul
tavolo alcune scatole di cibo cinese, una Diet Coke e due Heineken.
«Mi vuole incontrare al Red Rose, a due isolati da qui.»
«Non ti ha anticipato nulla?» chiede Darla.
Accenna un no con la testa.
Dan Ranucci si avvicina e gli mostra i dati della donna seppellita
nel giardino di Sullivan.
«I denti ritrovati nei corpi dei Barkley, di Margaret e dei fratelli
Stolnhouse appartengono a lei, una donna sulla sessantina, morta per
asfissia. Nei bronchi era presente del terriccio e si presume che sia
stata seppellita viva.»
«Questo conferma che i casi di Denton e Denver sono collegati.
Proviamo a riassumere gli indizi in nostro possesso:
142
- Sean Stolnhouse conosceva sia Sullivan che Laski e, nonostante
la giovane età, li rappresentava legalmente entrambi. Probabilmente
uno dei due ha conosciuto Sean e lo ha consigliato all’altro come
avvocato. Sullivan e Laski hanno un passato oscuro e le loro storie
s’incrociano molti anni fa.
- I denti di una donna seppellita a Denton, forse una suora francese,
sono stati ritrovati nei corpi di cinque vittime uccise a Denver.
- Un’impronta di bambino è stata riscontrata sul collo di Sarah
Barkley e dei fratelli Stolnhouse. Questo collega le vittime, ma non
Sullivan a Laski.
- Il massacro dei Barkley non è ancora ben chiaro: l’unico punto
da chiarire è il ruolo di Zackary Barkley, dentista di Denver e
proprietario di un capanno a Coal Creek. Ho chiesto a Norman di
indagare sul suo passato, ma non è emerso nulla di rilevante, se non
una passione sfrenata per le hot-line e le chat-porno.
- Margaret Lee è stata sequestrata da Earl Laski e probabilmente
uccisa dallo stesso Laski. Tuttavia, in questo caso, il modus operandi
sembra differente rispetto agli altri omicidi: secondo la deposizione di
Laski, ciò che l’avrebbe fatto infuriare sarebbe stata la derisione e il
rifiuto di Margaret. Non credo davvero che sia successo lo stesso con i
Barkley e i fratelli Stolnhouse.
- Infine, con Sullivan deceduto e Laski in prigione dovremmo
aspettarci un arresto degli omicidi. Ma non credo che ciò avverrà;
penso che sia coinvolto qualcun altro, qualcuno che conosceva bene i
nostri due amici, le loro debolezze e che le ha usate contro di loro e
per prendersi gioco di noi. Ci sta osservando da tempo e segue le
143
nostre mosse: a Denton ha usato il mio nome per entrare
nell’ambulatorio dentistico e prestare assistenza a suor Odette.»
«Pensi che Laski e Sullivan si siano conosciuti in Francia?» chiede
Darla sfogliando la carpetta di cartone contenente le foto della donna
seppellita in giardino.
«È possibile ed è quello che dobbiamo scoprire durante il nostro
viaggio.»
«Perché credi che riduca le sue vittime in questo modo? Perché le
scuoia a livello dell’addome?» chiede Dan giocherellando con la
bottiglia di Heineken vuota.
«Probabilmente», interviene Darla «ha qualche esperienza di caccia
o ha eseguito studi di medicina o veterinaria. L’addome,
nell’inconscio umano, ha un simbolismo molto forte e rimanda al
periodo fetale. Non importa che si tratti di uomo o donna, l’addome è
la culla dove dormiamo serenamente per nove mesi, a stretto contatto
con nostra madre. Per le persone abbandonate in tenera età,
rappresenta l’unico periodo in cui sono state accettate ed accolte dal
genitore. La violazione dell’addome potrebbe rimandare ad un
abbandono o a una gravidanza non desiderata.»
«Se non sbaglio, Laski avrebbe accennato di essere stato concepito
durante uno stupro», la interrompe Dan.
«Esatto. Se fosse vero, sarebbe un motivo più che sufficiente per
indurre una persona con gravi disturbi psichici a violare l’addome
delle sue vittime. Sicuramente Laski è responsabile di molti crimini,
ma non penso che abbia una struttura mentale abbastanza solida da
poter organizzare una caccia così estesa ed articolata. Sono d’accordo
144
con Julian: è coinvolto qualcun altro, con un livello culturale e una
stima di sé molto più elevati.»
Julian solleva la busta bianca che gli ha consegnato Don Elia.
«Suor Odette e Suor Magdalena appartengono ad un ordine che
aiuta bambini di strada e giovani donne in difficoltà.»
«Un fucina si serial killer», aggiunge Darla con un sorriso amaro.
«Me ne dia un’altra.»
Il barista estrae dal frigo una Bud ghiacciata e gliela versa nel
bicchiere. Nonostante il locale sia semivuoto, l’aria è viziata, acida; la
moquette del pavimento e la carta da parati bordeaux conferiscono al
bar un’atmosfera retrò, una via di mezzo tra un vecchio saloon e un
bordello anni trenta. Sono passati oltre quaranta minuti dall’ora
dell’appuntamento, ma di Adam Swan nemmeno l’ombra. Prova
nuovamente al numero di cellulare.
«Lasciate un messaggio dopo il segnale acustico.»
«Sono
l’agente
Smoke.
Immagino
che
abbia
avuto
un
contrattempo; mi chiami quando riesce a liberarsi.»
Appoggia una banconota da dieci dollari sotto la bottiglia e
s’incammina verso l’uscita. Adam Swan entra in quell’istante con
l’aria trafelata.
«Mi scusi per il ritardo!»
«Impegni di lavoro?» chiede Julian tornando verso il bancone.
«Credo che sia meglio sederci là», replica indicando il tavolino in
fondo alla stanza.
Julian si volta incuriosito, poi lo segue fino alla parete scura
145
ricoperta di vecchie fotografie.
«Di cosa voleva parlarmi?» chiede mettendosi a sedere.
«Sean mi ha detto...» S’interrompe quando il barista li raggiunge al
tavolo.
«Cosa vi porto?»
«Una vodka liscia.»
«Io sono a posto», aggiunge Julian senza distogliere lo sguardo
dalla mimica facciale dell’avvocato Swan.
«Stavo dicendo», riprende dopo che il barista si è allontanato, «che
Sean mi ha detto di aver incontrato un uomo, la sera prima della
partenza per Denton.»
Julian nota una leggera contrattura della guancia sinistra, una
tensione che determina una minima deviazione della bocca da quel
lato. Gli è già capitato di incontrare giocatori con quel tipo di tic,
giocatori con un buon punto in mano che non hanno saputo
massimizzare
la
vincita
perché
traditi
dall’entusiasmo
o
dall’eccitazione.
«Era un vecchio amico o un vecchio cliente, non ricordo bene.
Comunque, nessuno che lui seguisse ancora. Mi ha telefonato la
mattina presto per dirmi che gli aveva rivelato cosa avreste trovato nel
giardino di Sullivan.»
S’interrompe, accende una sigaretta e fa segno al barista di
portargli un’altra vodka. Julian continua a osservarlo in silenzio e ad
attingere informazioni, sia dal linguaggio verbale, sia da quello del
corpo. A New York, nel momento in cui stava per rinunciare a un
piatto da seimila dollari con un tris di kappa in mano, Bari Chang
146
aveva tirato fuori il suo portasigarette di pelle e si era acceso una
sigaretta aspirando una quantità di fumo eccessiva. Julian era andato a
vedere il suo rilancio, smascherando il suo bluff.
«Ehi, non si può fumare all’interno!» esclama il barista.
«Mi scusi», risponde spegnendo la sigaretta nel bicchiere. Estrae
l’orologio dal taschino e torna a fissare Julian negli occhi. «Mi
sembrava un’informazione interessante», aggiunge allargando le
braccia.
«È vero che difenderà Earl Laski?»
Inizia a tamburellare le dita sul tavolo.
«All’inizio pensavo che potesse essere poco rispettoso nei
confronti di Sean, di Tom e dei loro famigliari. Poi ho parlato con la
sua collega, la dottoressa Hemingway, e ho capito che difendere Laski
poteva permetterci di arrivare alla verità il prima possibile. Così ho
accettato il caso.»
«E quest’uomo con cui ha parlato Sean», chiede mantenendo lo
sguardo fisso su Adam, «non potrebbe essere stato Earl Laski?»
«Se fosse così non sarei qui a parlarle. Comunque, no, Sean me lo
avrebbe confidato. Mi ha detto che era una persona piuttosto influente
e che non era prudente discuterne al telefono. Avremmo dovuto
incontrarci subito dopo il suo rientro a Denver, ma...» Si sofferma a
guardare il mozzicone di sigaretta galleggiare nel bicchiere di vodka.
«...Non l’ho più rivisto.»
18.
147
«Ciao Julian.»
Il dolore è pressoché istantaneo. La voce che lo raggiunge alle
spalle ha un’inclinazione leggermente diversa da quella che lo ha
accompagnato per oltre quindici anni. Finge di non aver sentito e
continua a sorseggiare il caffè bollente, con lo sguardo perso nel
vuoto. L’illusione di poter relegare il passato in un luogo privo di
emozioni gli ha permesso di andare avanti per un paio d’anni, senza
precipitare nell’alcol e nella disperazione.
Charlotte resta in piedi dietro di lui, in mancanza di gesti o parole
che possano accorciare la distanza che si è creata tra loro.
Poi Julian decide, si asciuga le labbra col tovagliolo e ruota il busto
di novanta gradi.
«Accomodati», la invita indicandole la sedia di fronte a lui.
Charlotte si avvicina a passi lenti, poi si siede senza guardarlo in viso.
Il tempo che segue non trova confini definiti, ma si dilata oltre la
stanza e oltre il quadrante dell’orologio appeso al muro. I loro corpi
restano sospesi in una sorta di condensa priva di ossigeno e faticano a
muoversi, guardarsi, pensarsi. Poi un sussurro.
«Come stai?» gli sembra di udire.
148
Julian continua a fissarla incredulo. Ha l’impressione di avere di
fronte a sé un fantasma ed è tentato di toccarle il braccio per accertarsi
che sia reale.
«Sto bene», risponde prima di un accesso di tosse. «Sono stato in
coma per un po’, ma ora sto bene.»
«Lo so, sono passata a trovarti.»
C’è qualcosa di diverso in Charlotte, qualcosa che, tuttavia, non
riesce a comprendere immediatamente. Il colore del viso è più intenso,
vivace, le guance più floride, l’espressione degli occhi più dolce. Le
braccia scendono sotto il tavolo e le mani poggiano sul ventre come
quando, a scuola, aveva il terrore di essere interrogata.
E all’improvviso qualcosa si accende nella mente di Julian:
l’illuminazione è fulminea, improvvisa e, con la stessa violenza di una
valanga primaverile, spazza via ogni speranza di un possibile recupero
nella loro storia. L’emicrania è feroce e la vista tende a offuscarsi.
«Sei incinta?!» esclama all’improvviso.
Charlotte non risponde, ma il colore del viso si accentua e gli occhi
continuano a danzare tra il piatto e il tovagliolo, senza mai incrociare
lo sguardo di Julian.
Inspira. Il tempo continua a danzare sopra il tavolo apparecchiato
per la colazione, sopra le briciole di pane e le posate sporche di
marmellata. Il profumo del caffè non ha più odore e i petali della rosa
bianca nel piccolo vaso di vetro hanno cominciato a ingiallire e a
perdere di vigore.
«Sono felice per te», aggiunge sfiorandole il braccio.
Un brivido la scuote e finalmente solleva il capo per guadare in
149
faccia il suo interlocutore.
«Avrei voluto che andasse diversamente, tra di noi.» riesce a
pronunciare in un soffio, prima che la voce venga definitivamente
rotta dal pianto.
Julian rimane a fissarla in silenzio. Dopo lo shock iniziale, sente
che qualcosa sta già cambiando e che quel peso che si portava dentro
da mesi, ora si sta sgretolando pian, piano. L’aria è meno satura e
sente le spalle più leggere. Si volta verso la finestra del bar: è una
tersa giornata di fine giugno e, per la prima volta, da quando si sono
lasciati, Julian avverte una gran voglia di vivere. Si alza in piedi,
raggiunge il cestino del ristorante, estrae il barattolo di ossicodone e
ne versa l’intero contenuto. Charlotte lo segue con gli occhi bagnati,
poi si asciuga il naso e tira fuori una busta dalla borsa.
«Ora ti devo salutare, mi stanno aspettando in centrale» l’anticipa
rimanendo in piedi.
«Julian», lo ferma con il braccio. «È arrivata questa e pensavo che
fosse importante.»
Julian esita qualche secondo prima di prenderla in mano. Ha
riconosciuto immediatamente il tipo di carta e il timbro postale di
Marsiglia, identico a quello che gli aveva mostrato don Elia a Denton.
«Quando è arrivata?»
«Lunedì scorso.»
Prima che io andassi a Denton e prima che don Elia me la
mostrasse.
Estrae un sacchetto di plastica dalla giacca e la pone all’interno.
«Grazie.» Poi, tornando a Charlotte, «Spero che vada tutto bene.»
150
Charlotte sorride e gli tocca la mano.
Fuori, Julian si incammina deciso verso la centrale. Riesce a
mantenere la stazione eretta senza difficoltà e anche il torace non gli
fa più male. Raggiunto il primo punto di raccolta dei rifiuti,
abbandona la stampella che l’ha sostenuto nelle ultime settimane, si
sfila la fede nuziale e la lascia cadere nella campana della raccolta del
vetro.
19.
151
Al centotrenta della Cornell avenue tutte le persiane sono
abbassate. Ha bussato per venti minuti senza ottenere risposta; sul
vetro della Merceds-Benz parcheggiata nel vialetto, il permesso
dell’ospedale di Denver; sopra il sedile del passeggero, un sacchetto di
plastica del «1969-Sexy Toys». I vetri posteriori sono oscurati e non
permettono di intravedere all’interno. Poi, il guaire di un cane
proveniente dal piano superiore attira la sua attenzione; decide di
spostarsi sul retro della villetta dove la porta finestra lascia intravedere
l’ampia cucina hi-tech. Si accosta, nuovamente dei versi, forse delle
grida soffocate. Afferra una pietra dal giardino e colpisce con forza la
maniglia; un secondo tentativo manda in frantumi il vetro della parte
superiore. Introduce il braccio nel pertugio affilato e ruota la chiave in
senso antiorario; apre la porta restando sulla soglia. Dopo alcuni
secondi si trova di fronte a un uomo affannato, dalla corporatura
massiccia, fasciato in una vestaglia di seta nera; il cranio pallido,
lucido, bagnato di sudore, il viso gonfio, due fessure grigie all’altezza
degli occhi.
«E tu chi cazzo sei?!» si sente sbraitare contro.
Estrae il tesserino dalla giacca e glielo mostra.
Julian Smoke, legge.
152
«FBI?» chiede con gli occhi stretti nel tentativo di mettere a fuoco
la foto sul distintivo. Poi lo vede, un piccolo puntino rosso sulla mano
che risale lungo il braccio, la spalla e infine alla ricerca della fronte.
Anche Julian lo nota e si volta di scatto per capire dove si sia
posizionato il cecchino: un bagliore sul tetto della casa vicina tradisce
il mirino del M24. Solleva le braccia per ostacolare la visuale del
tiratore e grida a Zackary di gettarsi a terra, ma il colpo è già partito e
corre veloce nell’aria. Il tempo di girarsi di nuovo e vedere brandelli
di sangue esplodere dal cranio di Barkley e spargersi sulle pareti della
cucina.
«Darla, Dan, è sulla villa dietro la casa di Barkley!» urla nella
ricetrasmittente.
«Ma cosa è successo?!» gracchia Ranucci mentre scende dall’auto
parcheggiata nella strada di fronte.
«Gli hanno sparato in testa! È sul tetto, correte presto!»
Julian corre verso la casa vicina, oltrepassa il cancello della
staccionata ed entra nel giardino. Fa segno a Darla di girare di dietro e
a Ranucci di fermarsi in quella posizione.
«Hai visto qualcuno da quel lato?»
«No, Julian. Ho chiamato O’Malley, saranno qui entro un quarto
d’ora con i corpi speciali.»
Una donna anziana si affaccia alla porta della veranda.
«Ehi, via dal mio giardino!»
«Mi scusi, signora» si avvicina Julian sollevando le mani, «è sola
in casa?»
«Lei chi è?»
153
«Siamo della polizia. È sola in casa?» chiede di nuovo
avvicinandosi, mentre Dan tiene sotto tiro la signora.
«Sono sola. Cosa volete? Il tecnico della televisione mi sta
riparando l’antenna.»
«Va tutto bene, signora, venga fuori.»
La signora apre la porta tenendo una borsa di tela in mano.
«Lasci subito quella borsa!» gli urla Julian puntandole contro la
pistola.
«Mi ha detto che sareste venuti», aggiunge continuando a dirigersi
verso di loro con le mani alzate.
«Abbassi la borsa immediatamente! Non si muova e appoggi la
borsa a terra!». Julian fa segno a Dan di fare un passo indietro. Darla
ricompare dal lato sinistro della casa con la Smith & Wesson in mano.
«Mi ha detto anche questo. Mi ha detto che mi avreste minacciato.»
«Signora, se non si ferma le dovrò sparare.»
«Non mi sparate», li supplica con voce tremante. Si ferma al centro
del giardino, il rumore di un’auto che sgomma dal lato opposto della
villetta. Dan inizia a correre in quella direzione.
«Mi ha detto che avrebbe ucciso il mio George, se non vi avessi
consegnato questa borsa», singhiozza abbassando la sacca a terra.
«Ora si allontani!»
«Mi dispiace, ma è l’unica cosa che mi rimane», insiste chinandosi
sulla borsa.
«Signora, non la apra. Si fermi o le sparo!» Julian la tiene sotto
tiro.
«Mi ha detto di aprirla, se no lo avrebbe ucciso.»
154
Le lacrime le rigano il volto e le mani si avvicinano tremanti alla
cerniera della sacca.
Un colpo di pistola in aria.
La signora solleva lo sguardo distrutto e incrocia gli occhi di
Julian. Poi qualcosa che esce dalla porta socchiusa della veranda.
«George!» esclama.
Julian si volta a osservare il grosso persiano dal pelo grigio
muoversi verso il nocciolo del giardino
«Ma è un gatto?!» esclama Darla sollevandosi in piedi e
avvicinandosi.
«Fermati Darla! Signora, ora che ha ritrovato il suo gatto lo prenda
e si allontani!»
La signora dà un’ultima occhiata alla borsa e infine si solleva
dirigendosi verso il nocciolo. Julian fa segno a Darla di raggiungere
Dan dietro la casa e rimane solo in giardino a osservare l’anziana
stringere il persiano tra le braccia. Poi un tenue bagliore sul collare di
George, il presentimento di un piano contorto e crudele, disegnato per
guadagnare tempo e prendersi gioco di loro.
«Lo lasci, signora, ora lo lasci andare!» tenta di convincerla
avvicinandosi un poco. La signora non sembra accorgersi di nulla: ora
esistono solo lei e il suo George. Julian prende la mira e spara un
colpo che va a colpire il tronco del nocciolo. George si libera dalla
padrona e corre impaurito verso la staccionata, la supera con un balzo
e guadagna il giardino del vicino. Il tempo di atterrare sul prato di
Zackary Barkley che i duecento grammi di tritolo esplodono
infiammando l’aria circostante e producendo un’onda d’urto che fa
155
tremare le finestre di tutto l’isolato. Julian si getta a terra coprendosi il
volto col braccio; la signora viene spinta con forza contro il tronco
dell’albero e infine cade a terra priva di sensi.
Agli occhi di O’Malley e delle forze speciali si presenta una scena
da guerriglia urbana: una densa nuvola di fumo si erge verso il cielo a
partire da un cratere di circa tre metri. La signora anziana è stata
spostata sul dondolo della veranda e adesso è assistita da Darla,
intenta a prenderle i parametri vitali. Julian, in piedi vicino al cratere,
indica a O’Malley e agli artificieri la borsa al centro del prato. Il capo
della squadra si avvicina alla sacca con circospezione, poi, notando
che si tratta di una sacca di tela, incide il tessuto con la lama del
coltello. Indossa un guanto di latice, introduce la mano attraverso una
fessura di pochi centimetri e ne esplora il contenuto: è presente un
piccolo vasetto di vetro con il tappo rivestito di carta stagnola, non
collegato a fili o a dispositivi elettronici. Allarga di poco la fessura,
estrae il vaso lentamente e resta ad osservarlo inorridito, prima di
mostrarlo a Julian e O’Malley.
Il pollice di un bambino galleggia in un liquido trasparente. Sul
vasetto un’etichetta bianca su cui è riportata una data.
05-04-1975.
Julian si avvicina per osservare meglio e fa cenno a Darla di
raggiungerlo.
«Ecco svelato il mistero delle impronte.»
«Dici che corrispondano?» chiede Darla, prendendo in mano il
vasetto. Poi, soffermandosi sull’etichetta aggiunge, «Potrebbe essere
156
la data di nascita della vittima o il giorno in cui le è stato amputato il
dito. Che ne pensi?»
Julian osserva il pezzo in controluce senza rispondere.
«Scommetto la mia auto da quarantamila dollari che si tratta del
pollice di Laski» prosegue Darla, tirando fuori il suo taccuino. «Non
mi ha detto quando l’ha perso, ma è successo molto tempo fa,
quand’era piccolo. Nel 1975 Laski aveva sei anni e, a un prima esame,
direi che questo potrebbe essere il dito di un bambino di sei o sette
anni.»
«Perché credi che ci stia lasciando tutti questi indizi?»
«Perché ha smesso di curarsi e vuole farsi prendere?» butta lì con
un sorriso.
«Davvero. Non ti sembra un po’ anomalo per un serial killer?
Capisco che voglia divertirsi e prendersi gioco di noi, ma ora si sta
spingendo oltre ogni limite. Ha sparato a Zackary Barkley dal tetto di
questa villetta pur sapendo che tu e Dan eravate appostati in
macchina. Si è fidato di quella signora per guadagnare pochi minuti e
fuggire in macchina. Direi che hai ragione: ha deciso di farla finita e
di chiudere tutti i conti.»
«Il problema è che se si trova in una fase maniacale potrebbe fare
una carneficina.»
Dan li raggiunge.
«Julian, puoi venire un attimo?»
Darla lo guarda sorpresa, poi si allontana verso la casa di Zackary
Barkley, dove gli uomini della scientifica hanno iniziato ad effettuare i
primi rilevamenti.
157
«Dimmi Dan, che succede?»
«Guarda là» gli risponde indicandogli un punto preciso, oltre il
giardino dei Barkley. Julian si volta e incrocia lo sguardo di Peter
May, in piedi dietro alla staccionata, intento a fumare un sigaro
cubano.
«Ma cosa sta facendo?!» domanda dirigendosi verso di lui. Dan
l’afferra per un braccio.
«Julian.», attende prima di proseguire, poi butta gli occhi atterra.
«Quando sono corso dietro la villa, ho visto una Chevy nera che
svoltava l’angolo.»
«Dan, che cosa diavolo stai dicendo?!»
«Niente, sarà un caso, ma...» lancia un’occhiata all’amico in fondo
alla strada. «Ma sono quasi sicuro che fosse la macchina di Peter.»
«Ah sì?!» esclama avvicinandosi al viso di Dan. «E pensi che sia
stato lui a sparare a Zackary Barkley?! E’ questo che pensi?! Avanti,
rispondi!», gli urla, afferrandolo per il bavero della giacca.
«Ma che fai?!» interviene Darla da dietro. «Ora lascialo, Julian!»
Julian abbassa le braccia, si libera della presa di Darla con uno
strattone e raggiunge Peter sul marciapiede.
«Che cosa cazzo ci fai qui?! Non ti è chiaro il concetto Sospensione
dal servizio?!»
Peter inspira una boccata di fumo che trattiene in gola per una
decina di secondi, poi la espira dalle narici.
«Se vuoi ti dico che macchina ha il nostro amico.»
«Di cosa stai parlando?»
«Mi ero appostato anch’io, ma sul lato nord. Poi ho sentito la tua
158
comunicazione via radio e dopo poco una Mustang nera mi è
sfrecciata davanti. Ho provato a seguirla, ma al terzo isolato l’ho
letteralmente persa. È sparita nel nulla.»
«Una Mustang, dici? Peter, so che sei incazzato, ma non ti voglio
più vedere in giro. Hai quasi due mesi di ferie: vai al mare o dove ti
pare, ma non interferire più con le indagini. È molto probabile che tu
venga reintegrato nella squadra, ma devi aspettare fino a settembre. Se
non esegui gli ordini, non credo che potrò fare nulla per te.»
Peter tira una nuova boccata di fumo.
«Quindi non ci credi? Non t’interessa il numero di targa?»
Julian lo guarda spazientito.
«Lo so, potrebbe essere rubata.»
«Potrebbe? Sicuramente è stata rubata. Ora vai, se no m’incazzo
davvero!»
Julian torna da Dan e Darla.
«Andiamo a dare un’occhiata alla casa di Zackary Barkley. Non so
com’è, ma ho l’impressione che troveremo delle sorprese.»
«Won't you come into my room, I wanna show you all my wares. I
just want to see your blood, I just want to stand and stare. See the
blood begin to flow as it falls upon the floor.
Iron Maiden can't be fought, Iron Maiden can't be sought.«
Bravo Julian, ci eri quasi riuscito. Nascondi i tuoi uomini nei
vicoli, mi lanci i tuoi cani contro e infine salvi pure vite umane. Mi
piace, mi riporti ai tempi della Bosnia. Ma ci vuole altro per fottermi.
Oggi ho sentito il tuo odore, l’odore della disperazione e della
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vergogna. È così difficile leggere il mio disegno, capire perché faccio
quello che faccio? È strano, da bambino tutti sapevano perché lo
facevo e tutti sapevano come fermarmi. Tu, invece, non riesci a
capirlo. Vuoi che ti aiuti a vedere, ad aprire gli occhi e a guardare il
mondo coi miei? Se vuoi lo faccio, ma dovrò alzare la posta e tu
dovrai mettere in gioco ciò che hai di più caro. Sei pronto a farlo?
Non dici nulla, Julian? Come fai a dormire dopo quello che hai
trovato nello scantinato, oggi? Hai tanto combattuto per non
diventare come uno di loro che alla fine hai ceduto, senza neanche
accorgertene. Il sangue non ti dà più fastidio e i demoni della notte
ora ti lasciano riposare tranquillo. Bene, se è questo che desideri,
cercherò di accontentarti: alziamo la musica e iniziamo a ballare!
«Oh well, wherever, wherever you are, Iron Maiden's gonna get
you, no matter how far. See the blood flow watching it shed up above
my head. Iron Maiden wants you for dead.»
«È morto all’istante, centrato al primo colpo.»
L’agente O’Malley indietreggia di qualche passo per lasciare
entrare la squadra dell’FBI.
«Lo so, purtroppo ho visto la scena in diretta.»
Julian si china per osservare meglio il cadavere di Zackary Barkley.
«Indossa biancheria intima femminile?»
«Sì. Crediamo che stesse chattando, prima di essere assassinato. Il
PC della camera da letto era acceso e in collegamento con un sito di
chat erotiche. Credo che al dottor Barkley piacesse il sado-maso»,
replica mostrando a Julian una sacchetto contenente strumenti di
160
tortura e giochi erotici.
«Con chi era collegato?»
«L’ultimo collegamento video risulta essere con una certa Luana.»
«Avete rintracciato l’IP del server?»
«Sì, ha sede legale in Romania», sbuffa O‘Malley, appoggiando il
sacchetto sul pavimento.
«La moglie dov’è?»
O’Malley alza le spalle.
«Abbiamo telefonato al suo capoufficio: ci ha detto che è assente
da cinque giorni. Lunedì scorso gli ha mandato una email dicendogli
che non si sentiva bene, poi non l’ha più sentita.»
«Avete già controllato il resto della casa?»
«La casa e il garage sono a posto, manca lo scantinato.»
Julian si solleva in piedi appoggiandosi al pianale della cucina. Poi
si volta verso Darla.
«Sei pronta?»
Dan fa un passo in avanti.
«Posso andare io, se preferisci?»
«Grazie Dan, ma ce la faccio.»
Darla afferra la torcia elettrica di O’Malley ed estrae la revolver
dalla fondina.
«Se noti qualcosa di sospetto, fermati immediatamente. Non mi
stupirei se il nostro amico avesse piazzato qualche trappola.»
Darla apre la porta dello scantinato e illumina la ripida scala che
scende per oltre tre metri sottoterra. La mano di O’Malley si allunga
nel tentativo di premere l’interruttore, ma viene bloccata da Ranucci.
161
«Vuoi farci saltare tutti in aria?», gli sussurra in un orecchio.
O’Malley ritrae la mano, con la stessa espressione di quando sua
madre lo trovava a frugare nella borsa alla ricerca di qualche
spicciolo.
Darla avanza con cautela sui gradini di legno ammuffito. Ad ogni
passo le assi scricchiolano minacciose e i chiodi ne imitano il suono
con un cigolio sinistro. Giunta in fondo alla scala, solleva il fascio di
luce per illuminare l’ambiente di circa quaranta metri quadrati zeppo
di cianfrusaglie e circondato da scaffalature di metallo ripiene di
strumenti da lavoro. La lampadina del soffitto ha un secondo
interruttore a catenella, alla cui estremità è appeso qualcosa. Darla di
avvicina e nota che si tratta di una vecchia chiave arrugginita. Decide
di non toccarla e di continuare a esplorare lo scantinato, partendo dalla
parete più vicina alla scala. Ammassati sugli scaffali, vecchi testi di
medicina e appunti del corso di laurea della Yale. Un teschio in
policarbonato da cui sono stati rimossi alcuni denti, strumenti
odontotecnici vintage e un proiettore degli anni sessanta.
Darla scorre con attenzione tutte e quattro le pareti fino a tornare al
punto di partenza.
«Trovato niente?», le chiede Julian dalla sommità delle scale.
«Ancora un’istante.»
Darla si guarda nuovamente intorno, fa un rapido calcolo della
metratura, solleva lo sguardo al soffitto e infine alla parete in fondo
allo scantinato.
«Julian, le misure non tornano!», esclama.
«Cosa intendi dire?»
162
«Dammi ancora un minuto.»
Attraversa la stanza piena di vecchi mobili e raggiunge la parete
opposta. Punta la luce tra gli oggetti sui ripiani: la schiena della
scaffalatura è di legno compensato con piccoli fori verticali di circa un
centimetro di diametro. Darla rimuove alcuni oggetti e crea uno spazio
sufficiente per osservare meglio: punta il fascio di luce tra i fori e nota
che, oltre il compensato, vi è uno spazio vuoto che s’illumina al
passaggio della torcia. Afferra un grosso cacciavite e, facendo leva
all’interno di un foro, ne aumenta le dimensioni fino a quando non
riesce ad inserire l’intero pugno.
«Darla, cosa stai facendo?!»
«Venite giù!»
Julian scende le scale, seguito da Ranucci e O’Malley.
Raggiungono Darla, impegnata nel liberare l’intera scaffalatura.
«Datemi una mano, c’è qualcosa là dietro!»
Dopo alcuni minuti i ripiani sono completamente vuoti. Darla
allunga il manico di una zappa a Dan che lo infila nel pertugio e,
facendo leva di lato, ne scardina i chiodi che lo fissavano ai montanti.
«C’è un vecchio armadio, lì dietro!», esclama illuminando
l’anfratto con la torcia.
Darla si china carponi e supera la parete di compensato,
ritrovandosi in un vano profondo poco più di un metro e occupato
quasi completamente da un enorme armadio in acciaio. L’odore che
l’assale è forte e pungente, una miscela di carne in putrefazione e
metano. Darla si copre il viso con un foulard e inizia a esplorare la
superficie liscia con i guanti in latice.
163
«Forse so perché la moglie non è andata al lavoro questa
settimana», aggiunge rivolta ai colleghi che la osservano da dietro la
scaffalatura.
«Ma come cazzo ha fatto a metterla lì dentro con questo caldo?!»,
esclama Dan, continuando a illuminare l’armadio con la torcia. «Non
poteva usare il freezer?»
O’Malley lo guarda con aria preoccupata, poi si allontana di corsa
per trattenere un conato di vomito.
«Ah, poliziotti locali...» sbuffa seguendolo con lo sguardo.
«Non riesco ad aprirlo!»
Julian le passa il cacciavite a stella.
«Forza la serratura.»
«Aspetta, forse so dov’è la chiave. Ce n’é una appesa di fianco alla
lampadina.»
Dan recupera la chiave e la passa a Darla.
«Non credo che riuscirai ad aprirla, è troppo arrugginita.»
Darla la introduce nella serratura e tenta di ruotarla verso destra,
ma senza riuscire a sbloccare il chiavistello.
«È incastrata!»
«Prova a ungerla un po’», esclama Julian allungandole un barattolo
di lubrificante per motore a due tempi.
«Agente Smoke!»
Julian si gira verso l’agente O’Malley che è rientrato nello
scantinato.
«Posso disturbarla un secondo?»
«Mi dica.»
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«Un mio agente mi ha detto che è arrivata una persona.»
Julian si solleva in piedi e si avvicina di un passo a O’Malley.
«Una persona?»
«Sì, ecco, in giardino c’é una donna che dice di essere la signora
Barkley.»
«La moglie di Zackary Barkley?!»
«Sì. I miei uomini l’hanno fermata, ma stando di matto e vuole
sapere cosa è successo al marito. Ha detto di aver passato gli ultimi
giorni in Canada, da una cugina.»
Julian si abbassa nuovamente e infila il busto tra le scaffalature.
«Darla, stai molto attenta. Ho una pessima sensazione!»
20.
165
«Buongiorno, ha fatto presto.»
Alice si sofferma qualche istante a osservare il completo nero e la
camicia grigia dell’uomo sulla soglia della camera d’albergo.
«Buongiorno, signorina Duvall. La ringrazio di aver accettato di
incontrarmi senza preavviso.»
La prima impressione è quella di averlo già visto da qualche parte.
Alice è brava a ricordare le persone che incontra, ma questa volta la
sensazione è molto sfumata, esile, della stessa consistenza fugace dei
sogni al risveglio.
«Di cosa voleva parlarmi don Elia?»
L’uomo vestito di nero segue Alice nel piccolo soggiorno.
«Come le ho anticipato al telefono, sono successe delle cose nella
nostra parrocchia, a Denton.»
Alice si siede e invita don Elia ad accomodarsi sul divanetto di
fronte a lei.
«Vada avanti.»
«Immagino che avrà sentito di Remi Sullivan.»
«Ho seguito la vicenda sui giornali. Al telefono mi ha accennato di
una suora che si è smarrita a Denton, ma non riesco a capire in che
modo potrei esserle utile.»
166
Don Elia estrae dalla giacca una foto e la mostra ad Alice.
«Quando pensa di rientrare a Denton?» le chiede alzandosi in piedi.
Alice lo segue avvicinarsi alla finestra e osservare il traffico
sottostante.
«È questa la donna?»
«Esatto.», risponde continuando a guardare fuori.
«La foto è molto vecchia e rovinata.»
«Lo so.»
Alice scruta attentamente il volto giovane della donna che sorride
nell’immagine in bianco e nero.
«Non l’ho mai vista prima», aggiunge sicura.
L’uomo si volta verso Alice e sorride.
«Lei lavoro presso il Poliambulatorio Centrale di Denton, non è
così?»
«Sì», risponde appoggiando le fotografie sul comodino, di fianco al
cellulare. Don Elia segue il movimento con lo sguardo.
«Suor Odette si è recata presso il vostro Poliambulatorio ad aprile,
per un forte mal di denti. Mi chiedevo se l’era capitato di incontrarla.
Adesso è molto più anziana rispetto alla fotografia e il giorno della
scomparsa indossava l’abito religioso della sua congregazione, un
abito celeste con una riga rossa verticale.»
Alice torna a prendere in mano la fotografia, ma poco dopo scuote
nuovamente la testa.
«Non mi sembra proprio di averla mai incontrata. Tra l’altro, ad
aprile sono stata in ferie una settimana. Non ricorda il giorno
preciso?»
167
«Il diciotto.»
«Mi dispiace, non credo di poterle essere utile», aggiunge alzandosi
in piedi.
Dal bagno si sente il rumore dell’acqua che scorre nel lavandino e,
poco dopo, la porta si apre. L’uomo vestito di nero incrocia lo sguardo
severo della donna anziana che entra nel soggiorno con un bicchiere in
mano e una scatola di medicine nell’altra.
«Buona
sera»,
interviene
senza
distogliere
lo
sguardo
dall’espressione di stupore dell’uomo.
«Don Elia, lei è la signora Caruso» aggiunge Alice con un sorriso.
La signora si avvicina all’uomo porgendogli la mano.
«Buonasera signora Caruso».
Al contatto con l’uomo, la signora avverte un intenso calore al
palmo e ritrae bruscamente la mano. Don Elia abbozza un sorriso che
non riceve risposta.
«Condividete la stanza?»
«No, ci siamo conosciute in aereo e stasera andiamo a cena
insieme», risponde Alice avvicinandosi alla signora e stringendola
sotto braccio. «Se solo sapesse quali straordinari poteri ha questa
donna minuta. La sua fede potrebbe essere messa a dura prova»,
aggiunge sorridendo.
«La sua fede è già in crisi, Don Elia. Non è così?» interviene
tagliente la signora Caruso.
«La fede è un seme, se non viene innaffiato costantemente può
seccare e morire in breve tempo.», risponde dopo un attimo di
esitazione. L’uomo si avvicina di un passo e poi supera le due donne
168
mantenendo le mani in tasca. Nell’uscire dal soggiorno inciampa nel
comodino e a stento riesce a mantenere l’equilibrio. Poi si china a
massaggiarsi la caviglia.
«Sì è fatto male?» chiede Alice preoccupata.
«No, grazie, non è nulla.»
Riacquistata la posizione eretta, si volge verso la donna anziana.
«Lei non crede, signora?»
«Molto più di lei», replica fredda.
«Credo di non piacerle molto. Mi capita spesso di dare una cattiva
impressione, al primo incontro, e purtroppo questo non è un bene, per
il mio lavoro.»
«Non credo che non le piaccia», interviene Alice. «Elisabetta è solo
un po’ stanca e forse affamata. Non è così?»
La signora non risponde.
«Bene, credo che sia meglio che io vada. Posso usare il bagno, per
favore?»
«Certo.»
Don Elia entra nella piccola toilette chiudendosi la porta alle spalle.
Apre la mano sinistra e osserva il cellulare di Alice raccolto da terra.
Esplora l’archivio fotografico e scorre le immagini fino a trovare ciò
che gli interessa. L’immagine raffigura Sean Stolnhouse in aereo che
accenna un sorriso imbarazzato. Alle sue spalle c’è un uomo con un
cappuccio in testa che tenta di coprirsi il volto con la mano.
«Eccola.», sussurra.
Seleziona la fotografia e la elimina dal telefonino. Poi scorge la
boccetta sul lavandino.
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«Soffri di pressione alta, signora Caruso? Non dovrebbe esagerare
con gli spaghetti e le lasagne.»
Dalla tasca della giacca estrae una seconda boccetta, prende una
decina di compresse e la versa nella boccetta della signora Caruso.
Apre il lavandino, si sciacqua il volto, poi esce dal bagno.
«Alice, ancora grazie del tempo che mi ha dedicato. Ora devo
proprio andare. Vi auguro di passare un buona serata.»
«Grazie Don Elia, spero che possiate ritrovare suor Odette.»
La signora Caruso continua a seguirlo fino a che non raggiunge la
porta e non esce dalla stanza.
«Se quello è un prete io sono miss Italia», aggiunge con un
grugnito.
«Dai, Elisabetta, non fare così. Pensa che adesso ti porto da Silvio,
il migliore ristorante della città.»
Elisabetta continua a fissare la porta, poi si volta verso Alice, con
occhi preoccupati.
«Sei sicura di volere uscire? Potremmo ordinare qualcosa e restare
qui. Se vuoi ti faccio i tarocchi, ma ti prego, non andiamo: sono molto
preoccupata.»
«Non avevi detto che non leggevi più le carte? Dai, vedrai che ci
divertiremo. Prendi la giacca che usciamo.»
21.
170
«Fatemi entrare, pezzi di merda!»
«Signora, si calmi.»
«Dov’è mio marito! Voglio sapere cosa gli è successo!»
I due agenti faticano a trattenere la signora oltre la staccionata della
villetta.
«Vai a chiamare O’Malley immediatamente!» urla uno dei due
agenti a un terzo che stazione sulla soglia di casa. Dopo due minuti
O’Malley raggiunge la signora Barkley che continua a dimenarsi tra
grida e singhiozzi di pianto.
«Dove sei Zac? Cosa ti hanno fatto?!»
«Stia calma signora.» Poi, rivolto a un agente, «Chiamate i
paramedici e fatele dare qualcosa per calmarla.»
«Testa di cazzo, non voglio calmarmi. Voglio sapere cosa è
successo a mio marito!»
«È morto, va bene?!» si lascia sfuggire in un impeto d’ira.
La signora si blocca di colpo e gli occhi si svuotano di ogni traccia
di vita. Si appoggia alla staccionata, poi le gambe non reggono e
cedono al peso del dolore. I due agenti la reggono per le braccia e la
accompagnano dolcemente a terra, sul marciapiedi
«Presto, un medico!» grida O’Malley tornando velocemente alla
171
villa.
Julian segue Darla da dietro i ripiani.
«Sei riuscita ad aprirla?»
«No, anche così la chiave non gira. Ho paura di forzarla troppo e
spezzarla dentro il lucchetto.
«Non importa, girala di scatto e con forza.»
Darla si stacca un attimo dalla serratura, si stira la schiena, poi
torna ad impugnare il lucchetto.
«Ok, ci riprovo.»
Con un movimento secco e deciso ruota la chiave in senso orario e
fa scattare la serratura del grosso lucchetto.
«Ce l’ho fatta, è aperto!» grida voltandosi verso Julian.
«Attenta!» le urla di rimando Julian. I due corpi le cadono addosso
facendola sbattere contro i ripiani. Julian e Dan si allontanano di
colpo e afferrano la struttura metallica, evitando che precipiti a terra.
«O’Malley!» grida, «Vieni a darci una mano!»
Il sergente li raggiunge di corsa e si pone al fianco di Ranucci, con
le mani tese sui ripiani.
«Ma cosa c’era dentro?!»
«Darla, riesci a passare?»
«Sì, ora esco.»
Darla gattona fuori dall’anfratto e si alza voltandosi verso i
colleghi.
«Faccio scendere qualcuno a darci una mano.»
172
La struttura metallica viene rimossa, dando la possibilità di
osservare meglio i corpi distesi sul pavimento grigio. Le due donne
giacciono nude, in un abbraccio innaturale: i palmi dell’una restano
fissi sulla schiena dell’altra, immobili, come se fossero stati incollati. I
capelli della donna più giovane sono lisci, tagliati sopra delle spalle, di
un colore rosso acceso; quelli dell’anziana sono radi e tinti di un
grigio argenteo, con riflessi azzurrognoli. L’addome della ragazza è
stato scuoiato, in modo del tutto simile a quello di Sarah Barkley e di
Margaret Lee. Il corpo della donna anziana, invece, appare integro,
senza lesioni apparenti; una benda viola le copre gli occhi e dalla
bocca socchiusa sporge qualcosa.
Darla si avvicina e con un paio di pinze estrae dalla bocca una carta
dei tarocchi. La pone all’interno di una busta di plastica e la mostra a
Julian.
«È l’Angelo. Nell’antica Grecia, il termine ànghelos era adoperato
per riferirsi a Hermes, il messaggero degli Dei e protettore dei
viaggiatori. Nei tarocchi, l’Angelo rappresenta un messaggio che ci
arriva dalla dimensione spirituale; questo messaggio può essere visto e
compreso, oppure ignorato: questa è una nostra libera scelta.»
Julian e Dan l’ascoltano perplessi, poi Julian indica la benda sugli
occhi.
«Quindi, la signora potrebbe non aver voluto vedere qualcosa o non
aver voluto ascoltare un messaggio, magari un avvertimento?»
Darla scuote appena la testa.
«Non credo. La carta dell’Angelo infilata in bocca e la benda sugli
occhi mi fanno pensare più al ruolo che aveva questa donna. Credo
173
che fosse lei a portare il messaggio o il segreto. Il colore viola, che
viene usato nei riti funebri, ha inoltre un significato istituzionale e
potrebbe riferirsi, appunto, al ruolo della donna in vita. Mi verrebbe
da pensare al ruolo di giudice, o di sacerdote, comunque a qualcosa
che aveva a che fare con il giudizio. Forse era un’insegnante.»
Julian si china sull’anziana.
«E se fosse suor Magdalena? Don Elia mi ha detto che è rientrata in
Francia, ma potrebbe aver mentito. Bisogna contattarlo e recuperare
qualcosa di personale della suora per eseguire un confronto del
DNA.»
«Sai che ruolo avesse suor Magdalena nel suo istituto, se fosse la
Madre Superiore o ricoprisse un ruolo autorevole?»
«Non saprei.»
«L’avete riconosciuta?» interviene Ranucci indicando la ragazza
scuoiata.
«È Alice Duvall», risponde Julian chinandosi sul volto pallido della
giovane.
Darla si abbassa al fianco di Julian. «È la terza vittima del volo
AA5674, dopo i fratelli Stolnhouse. Mi viene il dubbio che anche la
donna anziana fosse su quell’aereo.»
Julian si solleva e si rivolge a Ranucci.
«Dan, fatti inviare dall’American Airlines l’elenco completo dei
passeggeri di quel volo. Non è da escludere che fosse presente anche il
nostro uomo.»
Darla torna a osservare i corpi sul pavimento, al modo con cui sono
stati preparati e disposti post-mortem.
174
«Julian,» gli sussurra all’orecchio, «e se fosse tutta una messa in
scena? Inizio a pensare che il nostro amico sia meno disturbato di
quello che vorrebbe farci credere. Se anche la signora era su
quell’aereo, l’assassino potrebbe aver temuto di essere riconosciuto e
aver deciso di eliminare due possibili testimoni.»
«E potrebbe aver disposto i corpi in una sorta di scena rituale per
confonderci ulteriormente? È possibile. Occorre stabilire al più presto
l’identità della donna e sapere se era presente sul quel volo.»
Julian guarda i volti stanchi dei suoi colleghi.
«È stata una giornata dura. Lasciamo che gli uomini della
scientifica finiscano il loro lavoro e torniamo alla centrale. Domani
interrogherò di nuovo Laski. Fatemi sapere se Norman ha trovato
qualcosa sul suo passato, qualcosa che lo possa collegare a Remi
Sullivan.»
Il traffico corre veloce sulla tangenziale e O’Malley supera
rapidamente le autovetture in transito. La mente di Julian torna, per un
attimo, al volto di Charlotte, al suo sguardo triste ma sereno e, pur
avvertendo un forte senso di distacco, non riesce a provare rabbia.
Infila la mano nella giacca ed estrae la busta di plastica con la lettera
che gli ha consegnato quella mattina. La solleva e la guarda in
controluce; ha l’impressione che sia aumentata di peso e che
all’interno non sia presente solo una lettera. Indossa un paio di guanti,
estrae la busta di carta e la scuote leggermente, avvertendo che
all’interno è presente un piccolo oggetto solido, forse un ciondolo.
Facendo attenzione a non rovinare i bordi, apre la busta con una
175
matita e versa l’oggetto sul palmo della mano.
Il peso del piccolo anello non è proporzionato ai carati dell’oro con
cui è stato forgiato. Il calore che invade la mano di Julian si estende
rapidamente al braccio e al capo. Sente le congiuntive divampare in
un rogo atroce, insopportabile, che si accentua con la chiusura delle
palpebre. La frequenza cardiaca ha raddoppiato i suoi battiti, mentre la
quantità di ossigeno introdotta a ogni respiro è diminuita
drasticamente. Julian si porta una mano al collo e con l’indice e il
medio esercita una lieve pressione sulla carotide. I battiti del cuore si
riducono, migliorando anche la respirazione e la vista. Abbassa lo
schienale e si distende, continuando a fissare l’anello.
«Tutto bene?», gli chiede O’Malley, senza perdere d’occhio la
strada.
Julian non risponde.
Ma come è possibile?!
Solleva l’anello e lo pone in posizione orizzontale, all’altezza degli
occhi.
Charlotte, 11-5-1998, legge sul bordo interno.
«Sergente, mi porti immediatamente al mio albergo.»
O’Malley si volta perplesso, poi torna a fissare la striscia d’asfalto
davanti a sé, aumentando la pressione sull’acceleratore.
«Agli ordini, capo!», risponde, accendendo le sirene.
«A che ora raccolgono il vetro?»
Dopo un attimo di esitazione, O’Malley solleva la ricetrasmittente
e si mette in contatto con la centrale.
«Dimmi Jack.», gracchia una voce femminile.
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«Ciao Donna, ho bisogno del tuo aiuto. Sai dirmi a che ora passa il
camion del vetro?», poi, rivolto a Julian, «tu stai al Western, non è
vero?»
Julian accenna un si con la testa.
«Donna, voglio sapere il giro del vetro nella zona del Western
Union.»
«Subito Jack. Secondo gli orari della compagnia, in quella zona
raccolgono il vetro alle sette di sera.»
«Grazie, sei un angelo.»
O’Malley guarda l’orologio.
«Sono le sette meno dieci. Non so se arriveremo in tempo.»
Julian lascia sfilare la lettera contenuta nella busta ed esita qualche
istante prima di leggerla.
La carta è sottile e dai i bordi ingialliti, come se fosse stata
conservata a lungo, prima di essere utilizzata. La calligrafia è elegante
ed infantile allo stesso tempo, con le lettere in corsivo ben disposte sul
foglio a righe. In alcuni punti sono presenti tratti di inchiostro rosso,
parole adulte che sovrastano quelle infantili, cancellate. Lo sguardo di
Julian si porta dapprima alla data, New York, 2 aprile 1977, poi al
titolo del tema, Cosa farò da grande.
E nuovamente il dolore al braccio, esteso al collo e al capo. La
sensazione di essere in un labirinto di vetro, di girare in tondo senza
trovare la via d’uscita e percorrere un corridoio dalle pareti sempre più
strette e anguste. Il terrore di trovarsi per le mani un pezzo del proprio
passato.
Da grande non sarò più un bambino e non bagnerò più il letto. Da
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grande sarò bravo e non farò più arrabbiare il mio papà così poi
quando torna a casa tardi la sera non si arrabbia più con la mamma e
con me.
Gli occhi non riescono a leggere oltre, l’inchiostro si espande nella
vista bagnata e le parole di bimbo si sciolgono nelle lacrime
dell’uomo che ora siede nell’abitacolo di una macchina troppo stretta
per poter respirare. Solleva il tronco dallo schienale, abbassa il
finestrino dell’auto e si sporge completamente al di fuori del vetro per
riprendere fiato.
«Ma che cazzo...?!» esclama O’Malley, rallentando la corsa.
«Non ti fermare!» gli urla Julian dall’esterno.
Dopo un attimo di esitazione, O’Malley torna a correre veloce,
intervallando l’attenzione per la strada a quella per il suo passeggero.
Passata una ventina di minuti, l’auto della polizia di Denver si arresta
davanti all’ingresso del Western Union. Julian esce di corsa e
raggiunge i bidoni della spazzatura, a un centinaio di metri dall’hotel.
La campana per la raccolta del vetro è vuota. Si appoggia alla struttura
di ferro, poi le gambe cedono e Julian scivola a sedere sul
marciapiedi. La testa gira vorticosamente e il senso di nausea non
accenna a diminuire.
«Julian, ma che succede?!»
O’Malley non riesce a trovare altre parole per poter proseguire la
conversazione. Di fronte a lui, accasciato a terra, il responsabile delle
indagini sulla peggior serie di delitti nella storia di Denver. Il terrore
che stia gettando la spugna e che si stia arrendendo lo paralizza. Il
cellulare continua a squillare nella giacca di Julian, ma lui non sembra
178
accorgersene. O’Malley si avvicina e, senza chiedergli il permesso, lo
estrae e risponde alla chiamata.
«Dottoressa Hemingway, abbiamo un problema.»
Quando riapre gli occhi, Darla lo accoglie con un sorriso.
Gli basta una breve occhiata per riconoscere la sua camera
d’albergo. A fianco del letto, Ranucci e O’Malley lo guardano con
aria stanca e preoccupata.
«Ti ricordi cosa è successo?», gli chiede Darla avvicinandosi.
Julian si solleva e butta le gambe giù dal letto.
«Certo!», risponde con tono brusco.
Darla solleva gli occhi verso Dan, poi torna a Julian che ora si sta
allacciando le scarpe.
«Forse è meglio che rimani un po’ qui a riposare.»
«Julian,» interviene il sergente O’Malley, «sei stato molto male e
mi sono preoccupato. Non credo che ti dovresti alzare.»
Julian si ferma sul letto, dà un’occhiata al comodino e si allunga
per prendere la busta che Charlotte gli ha consegnato quella mattina.
«Sapete cos’é questo?»
«O’Malley ci ha detto che ti sei sentito male, dopo averla letta. Ci
ho dato un’occhiata, ma non ho capito perché ti abbia sconvolto
tanto», risponde Darla.
Julian si solleva in piedi.
«Quello che mi ha sconvolto è che l’ho scritto io, quel tema, quasi
quarant’anni fa. Inoltre, questa mattina ho gettato la mia fede nuziale
nella campana della raccolta del vetro, qui di fronte, e me la sono
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ritrovata in questa busta. E la busta è stata spedita, oltre un mese fa,
dalla Francia.»
«Questo cambia di molto le cose» accenna Darla, osservando il
foglio di carta.
«Lo so», risponde Julian allacciandosi i bottoni della camicia.
«Scusate, di cosa state parlando?» chiede O’Malley con aria
spaesata.
Darla incrocia lo sguardo di Julian che gli accenna un si con la
testa.
«Significa che, probabilmente, il nostro amico ha un conto in
sospeso con l’agente speciale Smoke e che tutte le ipotesi formulate
fino ad oggi perdono, sostanzialmente, di valore. Se l’Onnivoro agisce
per rancore, tutto quello che ha commesso finora potrebbe essere stato
costruito, architettato, solo per prendersi gioco di Julian. E la cosa più
pericolosa è che sembra conoscerlo molto bene. Vedete questo tema?
È stato scelto appositamente tra i tanti che ha scritto durante la scuola
elementare, ed è stato scelto perché parla sia del suo passato,
descrivendo il rapporto conflittuale con suo padre, sia del suo futuro,
rivelando il suo desiderio di diventare poliziotto. L’Onnivoro voleva
comunicare a Julian che sa tutto di lui e che non ha speranza di
catturarlo perché è in grado di prevedere ogni sua mossa.»
«E l’anello?» chiede O’Malley.
Julian lo sfila dalla busta di carta e torna ad osservare l’incisione
all’interno.
«Questo è l’anello che mi ha dato mia moglie Charlotte, il giorno
del nostro matrimonio. Non è una copia, ne sono certo per via di
180
quella irregolarità sulla lettera C. La cosa più probabile è che io abbia
buttato via una copia. Il nostro uomo potrebbe averla sostituita mentre
ero in coma, all’ospedale di Denton.»
Dan si schiarisce la voce prima di prendere la parola.
«Quindi potrebbe essere qualcuno che hai arrestato in passato.
Dovremmo vedere quelli che sono stati rilasciati di recente e iniziare
da loro. Se mi prepari l’elenco, mi metto subito a controllare.»
«Grazie Dan, ottima idea. Le altre cose da fare sono: ottenere
l’elenco dei passeggeri del volo su cui era Alice Duvall, contattare
don Elia per il riconoscimento della signora trovata nello scantinato
dei Barkley e parlare con Earl Laski.»
Darla appoggia la lettera sul comodino.
«Julian, credo che sia meglio mettere sotto protezione Charlotte.»
Julian inspira profondamente.
«Non la prenderà bene. Questa mattina mi ha detto di essere
incinta.»
«Oh, Julian!» esclama Darla. «Mi dispiace.»
O’Malley lancia un’occhiata interrogativa a Ranucci che scuote
leggermente la testa.
«Sono d’accordo, sarebbe meglio metterla sotto protezione. Se quel
bastardo volesse colpirmi, partirebbe proprio da Charlotte. Le parlerò
questa sera.»
Julian fa una breve pausa, poi prende in mano la busta con il timbro
postale di Marsiglia.
«Darla, dovremmo fare un salto in Francia e al più presto.»
«Non credi che sia un modo per confonderci e allontanarci dalla
181
scena del crimine?»
«È possibile, ma l’unico modo per scoprirlo è andare di persona a
visitare la comunità delle Sorelle di Maria Vergine, a Marsiglia.
Considera che anche il caso di Sullivan riconduceva a quella
comunità.»
«D’accordo. Allora prenoto i biglietti per il fine settimana. Ho
telefonato ad Adam Swan e gli ho detto che volevi parlare con Earl
Laski. Ci aspetta domattina in centrale?»
«Va bene.»
182
22.
Io ed Earl siamo a caccia di lucertole, mentre gli altri bambini
corrono nel prato, dietro la casa dai mattoni gialli. Abbiamo costruito
una piccola capanna di stecchi, sotto il fico in giardino, e vogliamo
che tutto sia pronto per quando tornerà Jamad. Glielo abbiamo
promesso e una promessa è una promessa. Puoi essere piccolo quanto
vuoi, ma se non mantieni le promesse meriti solo di essere punito. E
non diventerai mai grande. Jamad lo dice sempre: la parola data può
valere oro o merda, dipende da quello che sei disposto a fare per
mantenerla. Glielo abbiamo promesso e così sarà. Ne manca solo una.
È difficile far stare le lucertole nella capanna di stecchi, perché tutte le
volte che apriamo il tetto, cercano di scappare fuori. Tre lucertole
hanno perso la coda, si è staccata non appena la mia mano le ha
schiacciate. Abbiamo tenuto anche quelle, le abbiamo messe in un
vasetto di vetro che abbiamo rubato dalla cucina. Se suor Odette ci
vedeva si arrabbiava moltissimo. Per fortuna c’era suor Magdalena
che, quando mi vede, mi sorride e fa sempre finta di niente. Io le
voglio bene e da grande la sposo.
«Cazzo fai, dormi con gli occhi aperti?!»
Mi volto e lo vedo avvicinarsi con un barattolo di latta in mano.
183
Balbetto qualcosa, poi chiamo Earl che continua a nascondersi dietro
il tronco.
«Allora, bambocci, avete mantenuto la promessa?!»
«Si, ehm... Ne abbiamo catturate nove.» rispondo indicando la
casetta.
«Nove?!» scuote la testa guardando verso terra. «Cosa vi avevo
chiesto questa mattina?»
«Avevi detto di catturarne dieci prima di sera. Ma... Il sole non è
ancora tramontato ed Earl sta cercando l’ultima.»
«Che idioti che siete. Ma va bene lo stesso, il nove è un numero
che mi piace tantissimo.»
Jamad si avvicina alla piccola capanna di stecchi.
«Sono qui dentro?»
«Si, ma stai attento che scappano.»
Jamad solleva il tetto di foglie per vedere quei piccoli rettili che si
arrampicano gli uni su gli altri.
«Molto bene», aggiunge alzandosi di nuovo in piedi. «Chiama
Earl.»
«Earl, vieni, presto!»
Sorrido eccitato.
Earl si avvicina con passo lento, mantenendo le manine incrociate
davanti ai pantaloncini di lana.
«Che coglione!» sussurra Jamad guardandolo avvicinarsi. «Bene,
cari amici», esclama sollevando le braccia al cielo, «ora faremo
qualcosa per consacrare la nostra amicizia.»
«La nostra amicizia», sussurra Earl.
184
«Da oggi in poi saremo uniti per la vita e tutte le volte che dovrete
prendere una decisione, chiederete il mio parere e la mia
approvazione. Siamo tutti d’accordo?»
Guardo dapprima Earl, poi Jamad che continua a mantenere le
braccia al cielo con il barattolo di latta in mano.
«Tutte le decisioni...importanti?» chiedo.
Jamad mi squadra con fastidio e disprezzo.
«Ho detto tutte le decisioni!»
«Per me va bene.» farfuglia Earl alle mie spalle.
«Anche per me.» aggiungo.
«Bene, allora possiamo continuare. Ora verserò quest’acqua sulle
nostre creature e chiederò alla loro anima di aiutarci nella nostra
missione.»
Jamad versa un po’ di acqua sulla capanna e un altro po’ in bocca,
senza mandarla giù. Tira fuori una scatola di fiammiferi, ne accende
uno a pochi centimetri dalla bocca e poi sputa il liquido in direzione
della capanna. La nuvola di fuoco colpisce la piccola casetta di legno
che s’incendia all’istante. Sento dei versi strani, come dei gridolini
che provengono dalle fiamme e che si mescolano allo scoppiettare dei
rametti di legno. Earl si ripara gli occhi dietro le manine bianche,
mentre io non riesco a muovere un muscolo come se un ragno mi ha
morso e iniettato un veleno micidiale che mi sta facendo sciogliere i
muscoli e le budella. Sento qualcosa che mi brucia nella pancia e
penso alle lucertole nel forno. Vorrei muovere la gamba, dare un
calcio alla capanna in fiamme, ma quei gridolini mi stanno facendo
impazzire. Jamad ride come un matto sbattendo forte le mani e i piedi.
185
Mi sta chiedendo qualcosa. Ora si è avvicinato e mi dà uno spintone.
Cado a terra. Forse ho la febbre.
Adam Swan è elegantissimo nel suo completo grigio e Darla, da
dietro il vetro oscurato, fatica a distogliere lo sguardo. Adam è nella
stanza degli interrogatori con Laski che, tuttavia, non sembra
comprendere molto di quello che gli sta dicendo: lo sguardo fisso
davanti a sé, oltre il tavolo di formica, la bocca semichiusa, gli
occhiali leggermente appannati. Adam gli sta mostrando un foglio con
delle annotazioni a biro. L’interfono è spento, dato che l’interrogatorio
non è ancora iniziato. A un certo punto Laski sembra destarsi da quel
torpore e riprendere contatto con la realtà: inclina di poco il capo
verso Adam, prende la biro e, dopo un attimo di esitazione, solleva lo
sguardo verso lo specchio della stanza.
Darla ha la netta sensazione che la stia guardando; si avvicina e
appoggia la fronte al vetro per osservare meglio. Le labbra di Laski si
uniscono, poi si aprono lentamente e infine si distendono per mostrare
la fila di denti regolari.
Ma-si-la
«Hai visto?!»
Darla si volta verso Julian che sta osservando la scena accanto a lei.
«Sì, cos’ha detto?»
«Masila, mi sembra.»
Earl fissa ancora qualche istante il vetro, poi si china sul foglio
bianco e inizia a scrivere.
Julian ha un sussulto. «Maledizione, non è possibile!»
186
Darla si volta col volto pallido e lo sguardo terrorizzato.
«Ha detto Marsiglia!»
Escono dalla stanza, percorrono i pochi metri fino alla stanza
accanto ed entrano senza bussare.
«Ehi, ma che succede?!» chiede Adam allarmato.
«Figlio di puttana, cos’hai detto un attimo fa?»
Julian lo afferra per la camicia e lo solleva in piedi.
«Fermati Julian!», lo supplica Darla da dietro.
«Agente Smoke», interviene Adam, «lasci subito il mio cliente!»
Earl Laski non risponde, mantenendo il capo chino e le mani libere,
lungo i fianchi.
«Dimmi cos’hai detto, bastardo!» ripete con la fronte attaccata alla
tempia di Laski.
«Agente Smoke», insiste l’avvocato alzandosi in piedi, «questa è la
confessione dell’omicidio di Margaret Lee. Ora lo lasci, per favore.»
«Avvocato, il suo cliente sa molto di più di quello che ci vuole far
credere.»
«Questo lo deciderà la giuria. Ora lo lasci.», ripete appoggiando la
mano sul braccio di Julian
Julian libera Laski dalla presa, afferra il foglio della confessione,
gli dà un’occhiata veloce e lo passa a Darla. Poi, si rivolge ad Adam
Swan.
«E per l’omicidio dei fratelli Stolnhouse?!»
L’avvocato riprende il foglio e li invita a sedersi.
«Si dichiara innocente. Il mio cliente dichiara di non aver mai
incontrato Sean e Tom Stolnhouse, né tantomeno di aver usato
187
violenza contro di loro.»
«Se non ha usato violenza contro di loro, mi sa spiegare cosa ci
facevano le gambe e il tronco di Tom Stolnhouse in un sacco insieme
alla testa di Margaret Lee?!» ribatte Julian con una punta di ironia.
«Il mio cliente dichiara di non aver tagliato in due il corpo di
Margaret Lee e di non averlo gettato giù dal viadotto di Stelton.»
Julian si volta incuriosito verso Darla, poi torna a fissare il suo
interlocutore.
«Scusi, e lei come fa a sapere dov’è stato ritrovato il cadavere di
Margaret Lee?»
«Mi perdoni, agente Smoke, ma è da qualche anno che faccio
questo lavoro e, come posso dire?», fa una breve pausa mettendosi a
posto la giacca. «Diciamo che ho le mie fonti interne.»
«Allora, diciamo che anch’io faccio questo lavoro da qualche anno
e che anch’io ho le mie fonti interne. Se dovessi scoprire che attinge
ancora informazioni da fonti non ufficiali, la denuncerò all’ordine
degli avvocati per lo scherzetto che ieri ha tirato al suo cliente.»
Adam Swan flette il capo verso il basso e dopo un attimo di
esitazione, replica.
«Ok, ho afferrato il messaggio. Resta il fatto che Earl Laski si
dichiara innocente ed estraneo a tutti gli eventi che non riguardano
l’assassinio di Margaret Lee.»
«Va bene, direi che per oggi può bastare», interviene Darla
alzandosi in piedi.
Julian dà un’ultima occhiata a Laski, seduto al fianco del suo
avvocato. Ha l’aria spaesata, smarrita, come un ragazzino al suo primo
188
giorno di scuola. Non ha aperto bocca, non ha proferito parola durante
tutto l’interrogatorio, come un innocente condotto al patibolo, senza
più nessuna possibilità d’appello. Julian si alza in piedi, sfila dalla
giacca la foto di suor Odette e la lascia cadere sul tavolo. Eral Laski
rimane immobile sulla sedia, ma il respiro si fa più frequente, quasi
affannato. Julian e Darla restano a guardare la scena dall’alto, mentre
Adam Swan si china per sistemare la documentazione nella
ventiquattrore. Con un movimento lentissimo, Laski solleva il braccio
e porta la mano ad accarezzare il volto in bianco e nero della suora.
Gli occhiali si appannano e il respiro si fa più rumoroso. Adam Swan
si volta e rimane sorpreso nel vedere la scena.
«E questa chi sarebbe?» chiede, strappando la foto dalle mani di
Earl.
Il verso che ne segue è più simile ad un grugnito che a un fonema
umano. I denti serrati e la gola contratta accentuano il timbro acuto del
suono emesso, quasi con forza, con rabbia. Gli occhi gonfi e il volto
arrossato, la vena giugulare turgida. Adam si volta perplesso verso
Laski e appoggia la foto sul tavolo.
«La conosci?»
Earl torna a fissare l’immagine, con gli occhi umidi. Solleva la foto
lentamente, la osserva per qualche istante da vicino, senza dire nulla.
Infine la ripone sul tavolo, sfiorandola un’ultima volta col dito.
«Hai ragione, Julian, occorre fare quel viaggio in Francia al più
presto».
23.
189
Darla Hemingway è al telefono con l’American Airlines, quando
vede passare Adam Swan. Lo saluta e gli accenna di aspettarla
nell’atrio.
«Le ho detto che è molto importante. È in corso un’indagine
federale e ho bisogno di quell’elenco immediatamente.»
La pausa è breve.
«Certo, vi ho inviato la richiesta circa un’ora fa. Lo chieda al suo
collega. Bene, attendo quell’elenco al più presto.»
Aggancia la cornetta del telefono e raggiunge Adam che sta
selezionando una bevanda al distributore automatico.
«Come lo prendi?», le chiede senza voltarsi.
«Sto bene così, grazie.»
Il fremito nella voce di Darla è quasi impercettibile, ma lui ne
riesce a cogliere l’ombra e se lo mette in tasca con un leggero sorriso
sulle labbra.
«Cosa hai combinato là dentro?»
Adam si gira verso di lei e beve un sorso di caffè, prima di
rispondere.
«Cosa vuoi dire?»
«Hai capito benissimo. Vuoi farci credere che Earl Laski ha deciso,
190
spontaneamente, di confessare l’omicidio di Margaret Lee? Dimmi
cosa gli hai detto.»
Adam finisce il caffè e butta il bicchiere di plastica nel cestino.
«Non sei contenta?»
«Adam, vorrei solo sapere cosa sta succedendo. Ma scusa, non vuoi
sapere anche tu chi ha ucciso Sean Stolnhouse?»
«Certo e parlando con Laski mi sono reso conto che non ne sa
nulla. Ho passato con lui tutta la giornata di ieri e gran parte della
sera, e dopo ore di silenzio ha iniziato ad aprirsi e a parlare di cosa era
successo. Sono riuscito a catturare la sua fiducia e gli ho spiegato che
collaborare con voi poteva essere l’unico modo per evitare la sedia
elettrica.»
«Quindi si è spaventato all’idea di finire nel braccio della morte?»
«No, non direi. Posso confermarti che Earl Laski non ha nessuna
paura di morire. Credo che sia ancora al mondo solo perché nessuno
lo ha fatto fuori, ma di certo lui non si preoccupa più di tanto della sua
incolumità. Mi ha detto che ha incontrato Margaret Lee ad una cena di
lavoro, ma questo lo sapete già, non è vero?»
Darla resta ad ascoltarlo in silenzio spostando di tanto in tanto
l’attenzione sul completo grigio e sul petto atletico che si intravede al
di sotto della camicia bianca.
«L’ha rapita prima che rientrasse a casa e l’ha portata a Coal
Creek.»
«Un momento, l’ha portata a Coal Creek? Ti ha detto dove
esattamente?»
«No, ma posso farmelo dire.»
191
«Bene, poi cosa è successo?»
«Laski dice che l’ha tenuta sequestrata alcuni giorni. Poi Margaret
l’ha deriso e lui le ha stretto le mani al collo per farla smettere. Ha
abbandonato il corpo in questa specie di galleria e il giorno
successivo, quando è andato a riprenderla per farla sparire, aveva
l’addome squartato. Da lì in avanti i ricordi sono confusi, ma insiste
nel dire che non è stato lui a gettarla giù dal viadotto.»
«Il coroner dice che c’è stata violenza sessuale.»
Adam infila le mani in tasca, abbassa il capo come per guardarsi la
punta delle scarpe e distende le labbra in un sorriso compiaciuto.
«Non è vero e mi piacerebbe che tu fossi più sincera.»
Darla si avvicina al distributore e seleziona una bottiglia d’acqua
senza ribattere.
«Se vogliamo collaborare, bene. Se no, non ci sono problemi. Basta
saperlo.»
«Ok, scusa», risponde cercando di ruotare il tappino di plastica
dell’acqua. Adam si avvicina, le sfila la bottiglia dalle mani e l’apre
con facilità.
«È che ci sono troppi punti in comune con gli altri omicidi: il posto
del ritrovamento, la pelle dell’addome scuoiata. Se non è stato Laski,
sicuramente conosce il responsabile degli altri omicidi e, inoltre,
aveva lo stesso legale di Remi Sullivan.»
«Scusa, Darla, ma avete già scoperto se Laski e Sullivan si
conoscevano?»
«Non lo sappiamo. Per entrambi non sembra esistere un passato
documentabile. Riusciamo ad andare indietro di una decina di anni,
192
ma poi tutto sparisce nel nulla: non sappiamo niente della loro
infanzia, delle loro famiglie, della loro istruzione. Adam...» Darla si
guarda attorno per essere sicura di non essere osservata. «Ti devo fare
una confidenza. Crediamo che possano essere cresciuti all’estero.»
Adam si china su di lei e si riempie i polmoni del suo profumo.
Darla socchiude gli occhi e flette leggermente la testa verso di lui,
sfiorandogli il mento con la fronte. Sospira, prima di riportarsi a una
ventina di centimetri.
«Te la senti di indagare sul passato di Laski? Non dovrebbe essere
difficile, ora che siete così in confidenza.»
Adam continua a fissare l’area delimitata dalla punta del suo naso e
gli angoli della bocca.
«Ci proverò.» risponde infine.
«Darla, al telefono!», gli grida O’Malley dalla consolle centrale.
Darla si concede ancora qualche secondo prima di congedarsi. Lo
sguardo di Adam la segue per alcuni passi, poi si distrae, e scivola si
fianchi e sulle gambe che si muovono sinuose.
Quando Ranucci entra nella stanza, Norman è di fronte al monitor
da trentadue pollici e sta osservando un elenco di nomi.
«Hai fatto presto», osserva Dan portandosi alle sue spalle.
«Beh, quaranta minuti non sono pochi per un periodo di quindici
anni. Comunque, questo è l’elenco degli animali arrestati da Julian dal
1998. Ti ho evidenziato in giallo quelli usciti negli ultimi cinque
anni.»
Dan si allunga per osservare meglio il foglio elettronico.
193
«Scusami, ma non c’è nessun nome evidenziato.»
«Esatto» risponde Norman sorridendo.
«Intendi dire che nessuno è mai stato rilasciato?»
«Bravo Dan, e bravo Julian. Tutte personcine con crimini leggeri,
come puoi vedere.»
«Ma quanti sono?» chiede facendo scorrere l’elenco verso il basso.
«Centosettantatre.»
Dan raddrizza il busto e si passa la mano sul cranio sudato. Si
slaccia l’ultimo bottone della camicia e si avvicina alla finestra,
socchiudendo il vetro.
«Accidenti!», esclama, «Mi sono cacciato proprio in un bel guaio.»
Norman ruota la sedia nella sua direzione e lo guarda con aria
perplessa.
«Ho detto a Julian che avrei valutato tutte le persone che potevano
avere un conto in sospeso con lui, ma quell’elenco è troppo lungo.»
«Devi fare una selezione. Se vuoi ti posso aiutare.»
Gli occhi di Ranucci si ravvivano.
«Oh, te ne sarei molto grato», risponde avvicinandosi nuovamente.
«Iniziamo a eliminare i reati di carattere esclusivamente sessuale o
di altra natura, dove non sia stato commesso un omicidio.»
«Hai ragione, perfetto!» esclama Dan battendo la mano sulla spalla
di Norman.
«Guarda come si riduce l’elenco, ne restano solo novantotto.»
«Wow!»
«Ora selezioniamo quei casi in cui l’arma del delitto è stata un
coltello, un’ascia o un’altra arma da taglio, o dove la vittima è stata
194
bruciata.»
«Perché?», chiede Dan perplesso.
«Hai già dimenticato come faceva fuori le sue ragazze Sullivan?»
Dan annuisce abbassando lo sguardo.
«E voilà, trentotto.»
«Trentotto mi sembra un numero più che ragionevole, Norman. Sei
un genio.»
«Aspetta, possiamo fare di meglio. Guarda l’elenco e dimmi chi
possiamo eliminare ancora. È facile.»
Dan si avvicina al monitor e scorre con lo sguardo la lista senza
trovare indizi rilevanti. Poi Norman fa scivolare lentamente il mouse
su tre nomi:
Sheela Kaur
Melissa Del Cigno
Clarissa Brent
«Maledizione, Norman, elimina dall’elenco tutte le donne!»
«Bravo, vedi che con un po’ d’aiuto diventa tutto più facile. Mi
sembra molto improbabile che una donna abbia potuto commettere
quegli omicidi. Inoltre, le impronte dei morsi ritrovati su Sarah
Barkley e Sean Stolnhouse fanno presumere che si tratti di un uomo.
Purtroppo, le donne sono solo tre e l’elenco resta di trentacinque
soggetti.»
«Norman, stai facendo un ottimo lavoro, ma abbiamo bisogno di
restringere ancora il campo. Prova a vedere chi è stato in Francia o in
Europa, prima di essere arrestato.»
Norman digita alcuni codici e, dopo una manciata di secondi,
195
restano solo quattro nomi.
Francois Durac
Henry Tillebaut
Jack Strauss
Tiago Suarez
«Norman, sei un fenomeno!» esclama in estasi, davanti alla
schermata.
«Vuoi sapere dove stanno scontando la pena? Strauss è a Seattle e
Tillebaut a New York.» Esegue una breve pausa, poi riprende a
pestare i tasti della tastiera, «Tiago Suarez è stato assassinato sei mesi
fa a Philadelphia. Invece Francois Durac risulta...Oh merda!»
«Che succede?!»
«Francois Durac è qui a Denver, nel penitenziario della contea.»
«Stai scherzando?! Informo immediatamente Julian. Riesci a farmi
una stampata di tutti i nomi? Corro a telefonare al penitenziario della
contea per sapere se possono riceverci domattina. Ancora grazie!»
Julian continua ad osservare il foglio che gli ha presentato Ranucci.
«Julian, ho appena parlato con il direttore del penitenziario; ha
detto di presentarci quando vogliamo.»
«Sei stato molto bravo, Dan.»
«Veramente Norman mi ha dato una mano», risponde portando i
piccoli occhi da furetto al pavimento in linoleum.
«Non importa, bravo lo stesso. Domattina andremo a far visita a
Francois Durac.»
«Va bene.» Poi, dopo un attimo di esitazione, «Per che cosa l’avevi
196
arrestato?»
Julian solleva gli occhi dall’elenco dei centosettantatre nomi e
accenna un sorriso tanto flebile quanto il desiderio di rincontrare
Durac.
«Ho arrestato Francois Durac dodici anni fa in Alabama. È stato
condannato a cinque ergastoli per aver violentato, accoltellato e fatto a
pezzi nove studentesse nell’area di Tuscaloosa. Mi era giunta voce che
aveva avuto dei problemi in carcere, in Alabama, ma non sapevo che
fosse stato trasferito qui.»
«Ci sono altri motivi, oltre all’arresto, per cui dovrebbe avercela
con te?»
Julian prende una matita dalla scrivania e inizia a cerchiare alcuni
nomi dell’elenco.
«Molte delle persone che ho arrestato mi hanno spedito delle lettere
minatorie. Queste arrivavano per lo più in ufficio o a Quantico.
Francois Durac è l’unico che ha continuato a spedirmi lettere
direttamente a casa, fino a quando, tre anni fa, non ho deciso di
trasferirmi. Il tema era sempre lo stesso: si dichiarava innocente ed
estraneo agli omicidi per i quali l’avevo fatto condannare e mi
prometteva che gli anni che avrebbe scontato in carcere sarebbero stati
l’anticipo della condanna per lo stupro e l’omicidio di Charlotte.»
«Accidenti, Julian. Potrebbe essere lui l’uomo che stiamo
cercando!»
«Sì. Il problema è che Francois Durac è ancora in carcere», osserva
infilandosi l’elenco in tasca.
197
Il metal detector Garrett continua a suonare tutte le volte che passa
in prossimità del torace di Ranucci.
«Sono i punti metallici della sternotomia» ripete in tono
malinconico. «Mi hanno messo tre bypass nel duemilacinque.
L’agente Smoke ve lo può confermare.»
La guardia si volta in direzione di Julian che accenna un si con la
testa.
«Ok, passate pure», li congeda infine.
Il direttore Williams li raggiunge a metà del corridoio che porta al
suo ufficio.
«Agente Smoke, è un onore averla qui. Come procedono le
indagini sull’Onnivoro?»
«Grazie per averci ricevuto, direttore. Le indagini ci hanno portato
nel vostro istituto. Ha già avvisato Francois Durac del nostro arrivo?»
Williams li invita ad entrare nello studio, ma Julian interviene. «Le
chiederei di poter incontrare subito Durac: il tempo a nostra
disposizione è davvero molto poco.»
Williams distende le labbra in un sorriso di circostanza, poi estrae
la pipa dalla tasca della giacca e se la porta alla bocca. «Agente
Smoke, lei sa perché Durac è stato trasferito qui da noi?»
Julian scuote la testa.
«Circa un anno fa è stato aggredito e sfigurato brutalmente, in
Alabama. Gli hanno versato del gas liquido in volto e gli hanno dato
fuoco. Sembra che il mandante sia lo zio di una delle sue ultime
vittime.»
Il direttore William estrae un fiammifero e accende il tabacco
198
stipato nel legno di quercia.
«Io ho parlato con Durac e...» inspira una boccata di fumo,
«all’inizio non era molto convinto di volerti incontrare. Poi, diciamo,
ho cercato di convincerlo promettendogli una cella più grande e in una
sezione più tollerante, dove non vedono di malocchio gli stupratori di
ragazzine.»
«La ringrazio per il suo interessamento. Le prometto che segnalerò
la sua collaborazione ai miei superiori.»
«Grazie a voi, ragazzi», sorride, stringendo gli occhi e la mano ai
suoi ospiti. «E cercate di incastrarlo, quel figlio di puttana!»
Il tempo impiegato per stampare l’elenco dei passeggeri del volo
AA5674 sembra infinito. Darla è in piedi, di fronte alla stampante,
con la matita in bocca e le dita della mano che tamburellano
impazienti sulla scrivania.
«Dai, dai...» lo incita tirando il margine superiore. «Ecco!» esclama
infine. Si siede alla scrivania e inizia a scorrere i nomi dell’elenco con
la matita in mano. Identifica per primo quello di Alice Duvall e quelli
di Sean e Tom Stolnhouse, nella fila di fianco. Vicino ad Alice era
seduta una certa Elisabetta Caruso.
Che sia lei la donna ritrovata insieme ad Alice nello scantinato dei
Barkley?
Osserva la data di nascita che, di fatto, potrebbe corrispondere.
Darla continua a controllare i nomi degli altri passeggeri,
allontanandosi dal posto di Alice, verso la coda. Scorre l’elenco
lentamente, con minuziosa attenzione. Scorre i posti uno a uno, prima
199
quelli di destra, poi quelli di sinistra, i posti finestrino e i posti
corridoio, dalla cabina del comandante fino alla coda. Fino a
quell’ultimo nome, in fondo, quasi nascosto. Quel nome breve, corto,
quasi abbozzato, forse un errore, quel nome che Darla non avrebbe
mai voluto vedere sulla lista di potenziali assassini.
24.
200
Julian Smoke, come del resto chiunque l’avesse incontrato in
passato, non avrebbe mai potuto riconoscerlo. Il volto di Francois
Durac non è semplicemente deturpato: la pelle della fronte, della
guancia e del mento si sono completamente fuse sul lato sinistro della
faccia, determinando una trazione sui muscoli che lascia esposta gran
parte della dentatura e del bulbo oculare. Il cranio è calvo e lucido e
l’unica memoria della folta chioma corvina è presente in un ciuffo di
peli radi che nasce, appena sopra l’orecchio, e scende fino a lambire
l’angolo della mandibola. L’espressività è inesistente, immodificabile,
l’abbozzo di un ritratto futurista su di un cadavere in decomposizione.
A ogni atto respiratorio, l’aria penetra nella bocca deformata,
producendo un sibilo acuto, un cigolio sinistro, arrugginito.
Dan lancia un’occhiata a Julian che continua a fissare Durac,
scortato dai due agenti. Viene fatto sedere al piccolo tavolo di ferro e
le manette vengono fissate ad un’anella centrale.
«Per qualsiasi cosa ci chiami, siamo qui fuori.»
«Grazie agente», risponde senza distogliere gli occhi da quelli di
Durac.
«Dan, ti dispiace lasciarci soli?», chiede passandogli una mano sul
braccio.
201
«Certo, ci vediamo dopo.»
La stanza si svuota e i secondi diventano ben presto minuti, senza
che nessuno dei due s’incarichi del compito di infrangere la precarietà
di quel silenzio.
È Durac a rompere il ghiaccio. Solleva la manica della casacca
arancione e mostra a Julian un tatuaggio.
Je vis pour la vengeance.
Poi un suono distorto. Le labbra si muovono appena e le parole
sibilano tra i denti come l’avvertimento di un crotalo diamantino.
«Sei tu che mi dai la forza per andare avanti.»
Julian si appoggia allo schienale della sedia e accavalla le gambe.
«Mi dispiace per la tua faccia.»
«Non ti preoccupare, ho segnato anche questo sul tuo conto.»
Un filo di bava si allunga dall’angolo della bocca verso il basso.
Con un movimento della spalla, Durac si asciuga la saliva.
«Ho saputo che siete nei casini, qui a Denver. Avevi bisogno del
mio aiuto, Julian?» aggiunge, cercando di accompagnare la frase a un
sorriso ironico.
Julian sa di essere in una posizione di svantaggio e che le
probabilità di ottenere qualcosa da Durac sono bassissime. Ha iniziato
a giocare una partita a scacchi senza la regina e senza possibilità di
errori. Mantiene gli occhi fissi sul suo avversario e decide di andare
dritto al sodo.
«Devo chiederti una cosa.»
«So cosa vuoi chiedermi.»
Julian rimane immobile.
202
«Dov’è?»
Durac piega in avanti il busto e flette leggermente il capo. Il suono
che segue assomiglia più ad un rasoio arrugginito, che ad una risata.
«Pensi che ci sia io dietro a tutto questo? Certo che hai una bella
fantasia.»
«Dov’è tuo fratello?»
«Dici il mio fratellino Antoine? Je ne sais pas? Sono anni che non
lo sento e non lo vedo.»
Sorride, o pare che lo faccia.
Julian si proietta in avanti e pone le mani sul tavolo. È ora di
tentare l’attacco al re: scacco matto in due mosse, o la va o la spacca.
Estrae dalla tasca una bustina di plastica e la pone sul tavolo, vicino
alle mani del pluriomicida di Tuscaloosa. Francois Durac inarca il
sopracciglio destro e allunga appena il collo per osservare meglio
quell’oggetto misterioso. La forma è esile, sottile, un insieme di
palline colorate serrate da un filo di nylon. La reazione è improvvisa,
inaspettata, e il tentativo di mascherarne la forza determina la
comparsa di spasmi al collo e alla spalla destra. Il braccio trema un
paio di secondi prima che Durac riesca a ritrovare il controllo della
sua muscolatura e della sua psiche. Vorrebbe distogliere lo sguardo
dal braccialetto di Nicole Ketz, la sua seconda vittima, ma le
immagini che è stato in grado di rievocare nella sua mente sono così
vivide e intense che ne è ipnotizzato.
«Lo vorresti toccare?»
Julian lo avvicina di poco alle sue mani.
Il mignolo destro si sposta di pochi millimetri verso la busta di
203
plastica, quasi inconsapevolmente. Durac non parla, continuando a
fissare il braccialetto di perline che aveva conservato sotto una
mattonella in cucina.
La riserva per i momenti di magra, l’aveva chiamata.
Poi un sospiro profondo e la testa che si appoggia sul petto.
«Cosa vuoi sapere?» bisbiglia infine.
«Ho provato a rintracciare tuo fratello, ma non l’ho trovato. Dov’è
finito?»
Inspira di nuovo. Poi, senza convinzione: «Posso toccarlo?»
Julian ha un attimo di esitazione, poi avvicina ulteriormente la
busta. Le dita di Durac la sfiorano e ora la bava di saliva che pende
dalla sua bocca si fa più abbondante e fluida. Gli occhi si ravvivano e
iniziano a muoversi velocemente al di sotto di quell’ammasso di pelle
e muscoli fusi assieme.
«Non è che potresti...tirarlo fuori?»
«Francois,» risponde lentamente Julian, «dimmi dove posso trovare
tuo fratello.»
Durac solleva il capo e incrocia gli occhi stanchi di Julian.
«Non sei riuscito a trovarlo perché è morto. Dopo che mi hai fatto
arrestare, hanno iniziato a dargli la caccia per vendicarsi delle ragazze
che dicevano che avevo ucciso. Tuscaloosa e, ben presto, tutta
l’Alabama, sono diventate un posto troppo pericoloso per lui, e quindi
ha deciso di trasferirsi in Sud America. I problemi si sono ripresentati
quando è tornato negli Stati Uniti. Per proteggersi ha cambiato
identità, ma ha fatto l’errore di scrivermi e qui leggono tutta la
corrispondenza. La notizia ha fatto il giro del carcere e poche
204
settimane dopo mi è stato recapitato un messaggio anonimo in cui si
diceva che mio fratello era morto.»
Julian riprende la busta in mano, la apre e fa scivolare il
braccialetto sul palmo della mano. Durac segue il movimento con la
stessa premura che un gatto ha per un passero ferito.
«Sai dove è stato sepolto?», continua Julian, giocherellando con le
palline colorate.
«Antoine è stato bruciato. Non credo che sia rimasto molto di lui.»
«Cosa sai dirmi dei delitti di Denver?» gli chiede, allungando la
mano verso di lui.
«Non ne so molto», risponde sfiorando l’idea di poter stringere tra
le dita il braccialetto di Nicole. «Era più informato il mio avvocato.»
Julian si drizza sulla sedia e ritira il braccialetto verso di sé.
«Cosa vuoi dire?»
Durac si volta verso Julian divertito.
«Cazzo Julian, pensavo che lo sapessi. Vuoi dirmi che sei venuto
fin qui per chiedermi di mio fratello e non del mio avvocato? Sto
parlando di Sean Solnhouse?»
Julian lo squadra di lato e poi abbozza un sorriso.
«Francois, abbiamo la lista dei clienti di Stolnhouse e tu non ci sei.
Questo scherzetto ti costerà caro», prosegue alzandosi in piedi.
«Aspetta!» tenta di fermarlo mentre Julian ripone il bracciale nella
giacca. «Non ti ho mentito. Stolnhouse è stato il mio avvocato nei
primi mesi in cui sono stato trasferito a Denver. Poi ho deciso di
cambiarlo perché mi aveva fatto capire che non c’erano speranze per
un nuovo appello.»
205
Julian si arresta davanti alla porta della stanza.
«Perché avevi scelto proprio lui?» gli chiede senza voltarsi.
«Me l’hanno consigliato qui dentro. Mi hanno detto che non si
fermava davanti a nulla e che accettava i casi più difficili.»
Julian si volta e lo guarda dritto negli occhi.
«Su una cosa aveva ragione.»
Durac continua a osservarlo senza ribattere.
«Non hai speranza per un nuovo appello e resterai in galera fino
alla morte. Però potresti migliorare la tua posizione qui dentro.
Sicuramente qualcuno sa qualcosa e credo che anche tu mi stia
nascondendo delle informazioni. Cosa ne dici, vuoi fare un salto di
qualità o vuoi rimanere a navigare in terza classe per il resto dei tuoi
giorni?»
Durac abbassa gli occhi sul tavolo, emette un profondo sospiro e,
infine, apre i palmi delle mani in segno di resa.
«È vero. C’è qualcun altro che ce l’ha a morte con te. Ma non so
chi sia e nemmeno il perché. È qualcuno che hai fatto incazzare molti
anni fa e ora ha deciso di fartela pagare. Circa due anni fa c’era un
tizio qui dentro che diceva queste cose sul tuo conto, poi è stato
scarcerato.»
«Dimmi chi era.»
«È stato dentro per poco, un paio di mesi per un reato minore. Non
ricordo come si chiamava.»
«Per che reato?»
Durac solleva il capo e fa un cenno con la testa in direzione della
giacca. Julian estrae nuovamente la busta contenete il braccialetto di
206
Nicole, la solleva a mezz’aria e rimane in attesa della risposta.
«Mi sembra di ricordare che fosse dentro per una truffa di gioco.»
25.
207
La guardia penitenziaria gli consegna la pistola e il telefono
cellulare. Julian osserva il display: otto chiamate da un numero che
conosce molto bene. Preme il tasto Ok e resta in attesa.
«Pronto, Julian?! Finalmente mi hai richiamata, ma dov’eri
finito?!»
«Ero in carcere.»
«Quanto ci metti a rientrare in centrale?»
«Circa mezz’ora.»
Darla fa una breve pausa, poi riprende.
«Fai in fretta, ho l’elenco dell’American Airlines. Non puoi
neanche immaginare chi fosse presente su quel volo.»
«Ok, adesso arriviamo.»
«Questa mattina Jamad si è svegliato di cattivo umore. A colazione
non ha salutato nessuno e non ha mangiato nulla, neanche lo yogurt
alla fragola. Poi, quando eravamo a catechismo, suor Odette è venuta
e l’ha portato dal direttore. Quando è tornato in aula, camminava tutto
storto e non riusciva più a sedersi sulla sedia.»
Earl mi ascolta senza interrompere. Ha una pezza bagnata sulla
fronte e un fazzoletto che gli gira attorno alla testa e fa un grosso
208
nodo in cima.
«Suor Magdalena ha detto che ho gli orecchioni.»
«Davvero? Si può anche morire!»
Earl mi guarda spaventato. Non riesce a respirare bene e tutta la
notte ha dovuto respirare con la bocca aperta e io, che ho il letto
vicino al suo, ho dormito pochissimo perché faceva un gran rumore.
«Mi fa male la gola.»
Earl ha la faccia rossa e gonfia. Anche gli occhi sono gonfi e
bagnati. Mi sa che non lo prendono più i suoi genitori. L’hanno
riportato indietro un mese fa e gli avevano promesso che sarebbero
tornati a riprenderlo. Ma se lo vedono così non lo riprendono più.
Anch’io ho un po’ paura che mi attacca la febbre e non mi piace
perché le medicine mi fanno vomitare.
«Vengono lo stesso domenica, vero?»
Io lo guardo e non riesco a rispondergli subito. Poi gli accenno un
si con la testa, ma so che dopo quello che ha fatto non lo riprendono
più.
«Dove l’avevi trovato il gattino?»
Earl non mi risponde. Gli tocco la fronte e scotta, avrà la febbre a
quaranta e di sicuro me l’attacca. Prendo la pezza di cotone e vado a
bagnarla con l’acqua fresca.
«Stai tranquillo che tornano a prenderti.»
Credo che stia morendo. Dovrei chiamare suor Odette, per
avvisarla, ma forse se muore poi diventa un angelo e non è più solo.
Un angelo con gli orecchioni.
Mi viene da ridere e mentre penso che lo prenderanno in giro anche
209
in cielo, vedo che gli occhi sono aperti per metà, ma che non c’è
niente dentro, solo del bianco. Subito dopo il suo corpo inizia a
muoversi forte, a saltare sul letto, a sobbalzare. Lo chiamo, gli provo a
urlare, ma non mi sente e continua a muoversi così veloce che sembra
diventato un altro. Le braccia e i piedi sono tutti duri, durissimi, e mi
fa vedere i denti, con una schiuma nella bocca che prendo paura e
scappo via.
Dan parcheggia l’auto di fronte alla centrale e, prima che possano
uscire dal veicolo, Darla li raggiunge con il fax in mano.
«Julian, guarda, è pazzesco!»
Julian prende il foglio, ma non lo legge immediatamente. Esce
dall’auto e alza gli occhi verso l’alto: il cielo è azzurro e giallo, e
l’aria è calda. Non c’è umidità e non c’è smog. E’ una bella giornata
estiva, una di quelle giornate in cui le famiglie portano i bambini in
piscina o a fare una passeggiata in montagna. Il pensiero corre a
Charlotte, al bambino che porta in grembo e al fatto che, per lui,
resterà sempre un estraneo. Si chiede se n’é valsa la pena. Si chiede se
ne vale la pena. Ha la sensazione di aver fatto tutto inutilmente, di non
avere più nulla tra le mani, di essersi spezzato la schiena per una
campo che ben presto verrà abbandonato e lasciato essiccare.
«Julian?!» esclama di nuovo Darla.
Si porta la mano al volto e si sfrega gli occhi con l’indice e il
pollice. Poi scende con lo sguardo al foglio dell’American Airlines.
Individua subito il posto di Alice Duvall e, poco distanti, quelli dei
fratelli Stolnhouse. Subito dietro ad Alice, un passeggero dal nome
210
tanto familiare quanto evanescente. Julian si sforza di ricordare, ma la
sensazione di smarrimento che lo attanaglia non gli permette di
concentrarsi. Lo sguardo prosegue lentamente fino alla coda
dell’aereo, fino all’ultimo posto, vicino alla toilette e alla cucina.
«Hai visto chi c’era?»
Julian solleva gli occhi dal foglio.
«Cosa pensi, Darla?»
«Sono esterrefatta!»
Julian si volta verso Dan e gli fa cenno di avvicinarsi.
«Tu lo sapevi?» gli chiede mostrandogli il foglio.
Ranucci dà un’occhiata veloce e poco dopo individua il nocciolo
della questione.
«Peter May.» sussurra.
«Non siete rientrati insieme, dopo la perquisizione alla casa di
Sullivan?»
Dan si guarda le scarpe impolverate poi solleva il capo riparandosi
dal sole con la mano.
«Peter è rientrato in treno. Mi ha detto che aveva bisogno di
riflettere sul caso e voleva stare da solo. Non so perché figuri sul quel
volo.»
Julian si volta verso Darla.
«Hai provato a chiamarlo?»
«Non risponde.»
Julian compone il numero e resta in attesa per circa un minuto.
«Maledizione!» esclama alla fine.
«Julian, pensi che possa essere coinvolto negli omicidi?»
211
L’espressione di Darla ha qualcosa di catastrofico: i lineamenti del
viso appaiono irregolari, scomposti, come se avessero subito i colpi
ripetuti di un vignettista crudele. Il verde acceso degli occhi ha
lasciato il posto ad una tonalità meno viva che si avvicina mestamente
al fango. Il prendere coscienza di non conoscere minimamente chi ha
lavorato al proprio fianco per anni, la fa naufragare in una pozza di
incertezze e paure. Il dubbio di non aver riconosciuto i tratti di una
mente criminale che ordiva piani sotto i propri occhi fa svanire la
sicurezza con cui ha sempre affrontato ogni caso.
Julian continua a osservare il foglio che insignisce Peter May come
il candidato più probabile degli assassini di Denver.
«Scusate, ma io non ci credo.»
La voce di Julian è arida, come il vento sulle distese di sale della
Death Valley. Darla non ha la forza di ribattere.
«Non ha senso», interviene Dan. «Perché mai avrebbe dovuto
commettere questi omicidi?»
«Per farsi giustizia...» sussurra Darla.
Julian si volta verso di lei con l’espressione di chi ha appena avuto
un’illuminazione.
«Esatto! Il nostro uomo vuole farsi giustizia. Ha un conto in
sospeso con il mondo, con la giustizia e con me. È qualcuno che si
vuole vendicare per un torto subito e del quale mi ritiene responsabile.
Ma in che modo Peter potrebbe essere coinvolto? Non è un tipo
ambizioso e non credo che abbia mai ambito a diventare capo della
squadra. Negli otto anni in cui abbiamo lavorato insieme non c’è mai
stato un diverbio; abbiamo sempre agito prendendo le decisioni
212
insieme e non sono mai emersi attriti. Ma proviamo ad analizzare i
delitti: che cosa hanno in comune le vittime?»
Dan si gratta il piccolo cranio e si allenta il nodo della cravatta.
«Direi ben poco. Sicuramente Steve e Zackary Barkley non erano
dei cittadini modello, entrambi appassionati di chat erotiche. Sarah
Barkley e Alice Duvall mi sembrano invece due vittime innocenti, con
un passato tanto breve quanto immacolato. L’omicidio di Margaret
Lee non è ancora chiaro se possa essere attribuito a Earl Laski o
all’Onnivoro e la suora ritrovata nel giardino di Sullivan collega gli
omicidi di Denver a quelli di Denton, ma nulla di più.»
«Sbagliato! Se i casi sono collegati, anche le vittime di Sullivan
dovrebbero essere messe nel computo degli omicidi: tutte ragazze
giovani, come Sarah, Alice e Margareth, e tutte con i capelli rossi,
come Alice Duvall e Sarah Barkley. Ma quello che voglio dire, è che
l’Onnivoro potrebbe davvero aver agito per un senso di giustizia: se ci
pensate bene, ci ha inviato le foto del forno di Remi Sullivan
permettendoci di arrivare a lui. Non ha fatto nulla per mascherare la
targa del pick-up di Laski in modo che lo potessimo arrestare. Ha
eliminato direttamente Zackary Barkley, mentre si stava divertendo
alle spalle della moglie, fuori casa. Ho l’impressione che si senta in
diritto di intervenire dove le autorità non riescano ad arrivare. Se
consideriamo che Alice Duvall e la signora uccisa con lei potrebbero
essere
state
eliminate
in
quanto
testimoni
scomodi,
allora
mancherebbe solo da chiarire perché ha ucciso Sarah Barkley e i
fratelli Stolnhouse.»
Darla prende fiato prima di intervenire. Non è sicura delle sue
213
intuizioni, non è più sicura di nulla.
«Sean Stolnhouse era l’avvocato di Laski, di Sullivan e di molti
altri criminali e potrebbe essere stato eliminato dal nostro uomo
proprio perché difensore di esseri spregevoli.»
Si ferma, poi solleva il capo e fissa Julian negli occhi.
«Come fai a escludere Peter con certezza? Se ci pensi bene, non
sappiamo nulla del suo passato. Per quanto ne so, potrebbe aver
pianificato tutto molto tempo fa, ancor prima che tu entrassi nella
squadra.»
Dan è indeciso, continua a massaggiarsi il collo e poi interviene.
«È già da un po’ di tempo che Peter è cambiato. Non è solo per la
storia di Trentassi e per l’omicidio di quel bambino. Negli ultimi mesi
è stato spesso assorto nei suoi pensieri, distaccato dalla realtà,
facilmente irritabile. Ho provato a chiedergli se ci fossero problemi,
ma non ne ha mai voluto parlare.»
Julian torna a fissare l’elenco dei passeggeri e quel nome che
continua a ronzargli nella testa senza trovare un volto preciso.
«Sapete cosa mi ha detto Durac?»
Darla solleva appena le spalle.
«Circa due anni fa un tizio è stato arrestato per truffa e ha sparso la
voce che qualcuno ce l’aveva con me e che me l’avrebbe fatta
pagare.»
Il nome sul foglio inizia ad avere un suono più familiare.
Samuel Jethro.
«Avete capito? Non uno stupratore, un pedofilo o un omicida
seriale. Un truffatore.»
214
Sul foglio una macchia scura, un acquerello sporco, la sagoma di
un volto che si dilata e inizia ad avere contorni più definiti.
«Un truffatore che ce l’aveva con me.»
La carnagione è scura, gli zigomi alti, le labbra carnose e umide.
Appena più in basso, una camicia nera.
Julian estrae il suo quaderno di appunti e inizia a sfogliarlo.
«Bingo!» esclama dopo pochi secondi.
Dan si allunga per osservare meglio.
«Sapete chi è questo signore?» chiede indicando il posto dietro a
quello di Alice Duvall.
Darla legge il nome con un filo di voce.
«Samuel Jethro? Non ricordo.»
«L’ho interrogato la settimana scorsa a Denton.»
Darla rimane con le parole a mezz’aria.
Julian sorride.
«Samuel Jethro è don Elia!»
215
26.
Afferri un minuto, ne perdi altri cento. È il tempo, che lesto si
gonfia di tue cellule morte.
L’ago viene inserito nella vena brachiale senza che lui possa
emettere alcun gemito. Il nastro adesivo gli serra le labbra
ermeticamente e l’aria attraversa le narici con un flusso accelerato per
la nausea e la paura di morire. Il sangue rifluisce nel tubo di gomma e
scende fino alla base di marmo. Attraverso un secondo cateterino, il
liquido trasparente penetra nel corpo dell’uomo, dalla vena giugulare.
Gli occhi iniziano ad agitarsi come topi di laboratorio in una gabbia
rovente, alla ricerca di un posto sicuro. La formaldeide invade il letto
circolatorio e trasforma le arterie in rami duri e avvizziti; la pelle del
tronco assume un colore pallido, della tonalità dell’ambra, che vira
ben presto verso il verde pistacchio. Ancora pochi istanti e gli occhi
smettono di danzare all’interno del cranio; le pupille si dilatano e la
congiuntiva si riveste di una patina opalescente.
Ora il nastro adesivo può essere rimosso: la bocca spalancata, la
lingua arida, le gengive dello stesso colore putrido della cute.
216
Se avessi avuto tempo, sarei potuto cambiare. Avrei potuto amare.
Mi sono illuso che ci fosse ancora tempo e, quando la signora in nero
mi ha trovato con il sangue caldo tra le mani, non ho saputo fare altro
che abbozzare un timido sorriso.
Julian attende che gli uomini della SWAT forzino le porte della
chiesa prima di invadere la navata centrale. L’altare, in fondo
all’edificio, è illuminato da un fascio di luce viola che penetra dalle
vetrate della facciata posteriore. Il piano di marmo non è libero: quelle
che sembrano le spoglie di un uomo giacciono supine sulla pietra
fredda. Sul lato sinistro un’asta che sostiene un flacone di vetro vuoto.
Darla è la prima a raggiungere il cadavere di don Elia.
L’espressione del viso le ricorda la Medusa di Caravaggio: la
proiezione del dolore che si estende oltre la morte, in una smorfia di
orrore e reale attaccamento alla vita. Il corpo è stato privato di
entrambe le mani, tagliate di netto all’altezza dei polsi.
Julian la raggiunge poco dopo e si ferma ai piedi dell’altare per
osservare meglio quello scempio. Darla si sposta di lato e si china sul
volto dell’uomo per annusarne la bocca spalancata. Poi estrae il
deflussore della fleboclisi e lo annusa per avere la conferma che si
tratti di formaldeide.
«Lo hanno imbalsamato mentre era ancora vivo.»
Julian si avvicina a piccoli passi, poi scorge qualcosa al di sopra del
polso destro. La cute è scollata dalla fascia muscolare e tra i due
tessuti è inserito un foglio di carta.
L’asso nella manica!
217
Lo estrae con una pinza di metallo, lo solleva e lo avvicina al fascio
di luce delle vetrate.
«È il biglietto del volo AA 5674, Denton-Denver.»
«E lui non è sicuramente l’Onnivoro», aggiunge Darla con una
punta di rammarico nella voce.
«Le mani tagliate, il biglietto in quella posizione, come se fosse
stato l’asso nascosto nella manica di una camicia, ci indicano il
movente dell’assassino.»
«Sì. Ha tutta l’aria di essere l’esecuzione di un truffatore, un baro,
che ha fatto il trucco sbagliato all’uomo sbagliato.»
Julian ha il terrore di proseguire il ragionamento: è la quinta
persona assassinata del volo che vedeva tra i passeggeri anche Peter
May.
«O l’ennesima messa in scena per eliminare un altro testimone»,
aggiunge con un filo di voce.
Negli occhi di Darla, la stessa sensazione di smarrimento.
Julian torna ad osservare il biglietto.
«Questo ce l’ha messo per ricordarci che sa tutto quello che
facciamo, che sa anticipare ogni nostra mossa e che non riusciremo
mai a prenderlo.»
Darla si avvicina a Julian e gli appoggia la mano sulla spalla.
«Resta una sola cosa da fare.»
Julian annuisce senza voltarsi.
«Chiedi un mandato d’arresto per Peter May.»
Sarò sempre avanti a te. Sono la corrente che ti spinge indietro, e
218
sarò sempre avanti a te. Sono il gorgo che ti tira a fondo, e sarò
sempre avanti a te, avanti a te. Quando penserai d’avermi raggiunto e
allungherai la tua mano per afferrarmi la spalla, sentirai toccarti da
dietro. Ti volterai, vedrai la tua immagine e allora capirai, capirai
perché non puoi prendermi, senza aver fatto prima i conti con i tuoi
demoni.
Da quando ha avuto gli orecchioni, Earl non è stato più lo stesso.
Jamad è cambiato e forse anche io sto cambiando. Sono passati gli
anni, nella casa dai mattoni gialli, e sono passati bambini e genitori,
mamme e papà con le paste in mano, volti sorridenti che venivano a
trovare i loro figli, di domenica in domenica, finché un giorno non se
li portavano via. Noi siamo cresciuti insieme, con la speranza di una
nuova famiglia e la paura di un nuovo rifiuto. Forse abbiamo sbagliato
tutto.
Oggi compio dodici anni, e mamma e papà verranno ancora a
trovarmi. Domenica scorsa non ho parlato molto e quando mi hanno
portato sulla ruota panoramica ho avuto il forte desiderio di gettarmi
giù dal punto più alto. Non credo che sarei mancato a qualcuno.
Ormai non tollero più nessuno, non sopporto chi si avvicina a meno di
mezzo metro da me. Odio l’aria che respiro e odio parlare dell’aria
che respiro perché mi fa stare male.
Oggi compio dodici anni e il mio tempo è scaduto.
Mi chiamo Remi, e se mamma e papà Sullivan decideranno che
non vado più bene per loro, verrò trasferito nell’istituto per i ragazzi
più grandi.
219
Ecco i miei genitori! Li vedo arrivare dalla finestra, ma non credo
che mi porteranno a casa con loro. Ho scelto di indossare la camicia
bianca perché mi ricorda la pelle chiara di suor Magdalena. Se mi
porteranno in America, non la rivedrò più, ma voglio ricordarla così,
coi capelli sciolti mossi dal vento, come quella volta che durante la
gita del primo maggio mi ha preso in disparte, mi ha fatto sedere su
una pietra bianca, e mi ha detto che ero il suo preferito. Io ho chiuso
gli occhi dalla gioia e lei mi ha dato un bacio in fronte. Me la voglio
ricordare con gli occhi grandi e la pelle giovane perché, quando la
guardo dentro gli occhi, vedo lo stesso colore dei miei e la stessa
speranza che le cose possano cambiare. Se i miei genitori mi
sceglieranno, forse un giorno tornerò e spero di poter dire a suor
Magdalena che sono cambiato, che sono diventato buono, che non ho
più fame, che so dire basta, che so che quello che c’è dentro di me non
mi può fare del male. E vorrei dirle che sono diventato buono.
Prima i padri, poi i figli, poi di nuovo i padri e i figli. Ma sono le
madri le custodi del male e te lo possono donare nel modo più
innocente, omettendo di offrirti il bene.
220
27.
La prima cosa che si nota, entrando in rue de Maupassant, è il
grande cancello in ferro battuto, in fondo alla strada. Oltre il cancello,
l’imponente edificio di inizio ottocento con mattoni gialli e le persiane
verdi alle finestre. Sui lati, due querce secolari e, oltre il tetto, le
fronde dei pioppi che salgono sulla collina dietro casa.
Il taxi si arresta davanti all’entrata. Darla è la prima a scendere
dall’auto seguita, dopo pochi istanti, da Julian.
«Il coroner ha confermato che la donna uccisa insieme ad Alice
Duvall era Elisabetta Caruso. Sembra che lavorasse a Denton come
chiromante. Questo spiegherebbe la carta dell’Angelo in bocca e la
benda viola sugli occhi.»
Julian solleva lo sguardo per comprendere meglio le dimensioni
della tenuta che ha di fronte.
«Immagino che non si sappia nulla di Peter?», chiede
avvicinandosi al cancello.
Darla lo raggiunge senza rispondere. Si avvicina alla targa in
bronzo che riporta il nome della congregazione religiosa.
221
Le Sorelle di Maria Vergine
«Ma Nostra Signora non era figlia unica?», butta lì con poca
convinzione. Julian si volta senza sorridere. Poi si china su di lei e la
bacia sulla guancia.
«Grazie per avermi accompagnato.»
Darla si sofferma a guardarlo per un tempo indefinito, scorgendo
una fragilità che non aveva mai notato prima. Il grande Julian Smoke,
il fiore all’occhiello di Quantico, il prototipo dell’eroe moderno:
colpito e affondato, nella vita privata e professionale. Solleva la mano
e gli accarezza una guancia.
«Vedrai, andrà tutto bene.»
Un vecchio con grandi stivali di gomma e un cappello di paglia
viene loro incontro zoppicando.
«Bonjour, vous êtes madame et monsieur Smoke?» chiede con un
sorriso sincero. Senza attendere risposta, apre il cancello d’ingresso e
li invita ad entrare.
«Bienvenue à Marseille, Sœur Marie vous attend.» aggiunge
incamminandosi verso il portone.
L’atrio della casa è ampio e fresco. Alle pareti due arazzi
raffiguranti scene di caccia e al soffitto un lampadario in ferro battuto.
Julian e Darla seguono il vecchio lungo la scala di marmo fino al
primo piano, poi lungo un corridoio dalle pareti alte e strette. Si
arresta davanti a una porta su cui è affissa un’effige della madonna
nera di Guadalupe. Bussa due colpi.
«Vous pouvez entrer.» si ode dall’interno.
Il vecchio li introduce nell’ufficio di suor Marie, la Madre
222
Superiora dell’Ordine.
«Merci Maurice», li accoglie alzandosi da dietro la scrivania.
«Buongiorno, sono suor Marie. Avete fatto buon viaggio?»
Non avrà più di sessantacinque anni, ma la pelle del viso e delle
mani è eccessivamente raggrinzita e scura. Il volto è scarno e
ricoperto da una leggera peluria, appena sopra il labbro superiore. Il
vestito azzurro presenta una linea rossa verticale che parte dalla spalla
destra e scende fino all’orlo inferiore; in vita, una cinta bianca.
Julian e Darla le stringono la mano e si siedono di fronte alla
scrivania.
«Al telefono mi avete detto che ci sono notizie di Suor Odette.
Come sta? Siamo tutti molto preoccupati.»
Darla si volta verso Julian, poi torna a guardare suor Marie.
«Parla bene la nostra lingua» osserva.
«Per molti anni questo istituto si è occupato di adozioni
internazionali, soprattutto dall’Inghilterra, Canada e Stati Uniti.»
«Non abbiamo visto bambini in giardino. E nella casa c’è un
silenzio quasi innaturale.» aggiunge Darla.
«L’ultimo ragazzo è stato adottato dieci anni fa. Siamo rimasti in
poche persone e tutte un po’ malconce.» Sorride. «Purtroppo c’è crisi
di vocazioni.»
Julian fa un cenno quasi impercettibile a Darla. Lei lo nota con la
coda dell’occhio e prosegue.
«Suor Marie, io e l’agente Smoke stiamo indagando su una serie di
omicidi a Denver. Abbiamo ragione di pensare che uno dei sospettati
possa essere stato un vostro ospite, in passato.»
223
Suor Marie rimane impassibile, sostenendo lo sguardo di Darla e il
lungo silenzio che segue. Julian estrae una foto e la pone sul tavolo.
«Pensiamo che tra le vittime possa esserci anche suor Odette.»
Suor Marie prende in mano la foto che raffigura suor Odette
davanti alla siepe del giardino. I piccoli occhi di cenere si gonfiano
quel tanto da modificare completamente l’espressione dura del volto:
il viso di una bambina al funerale della madre.
«L’ha trovata...» sospira.
«Come ha detto?» chiede Darla allungandosi verso di lei.
Suor Marie si sfrega gli occhi con la mano, scuote la testa e infine
prende il fazzoletto di stoffa dalla manica del vestito.
«No, scusate. Dicevo, l’avete trovata.»
Julian la fissa senza intervenire. Nonostante gli avvenimenti degli
ultimi giorni, continua a leggere il linguaggio del corpo con estrema
naturalezza. È qualcosa di involontario, istintivo, e che gli permette di
cogliere ogni indizio, traccia, informazione. Suor Marie si tocca la
punta del naso e poi la spalla destra, per un prurito insistente. Le
pupille arrossate tornano, infine, ai suoi ospiti d’oltreoceano, ma senza
mai fissarli direttamente negli occhi.
«Dove l’avete trovata?»
«Purtroppo c’è un’indagine in corso e non possiamo fornirle queste
informazioni.»
Darla si volta verso Julian, poi prosegue.
«Sappiamo che suor Magdalena è rientrata in Francia. Come sta?»
«Non bene.» risponde tornando a guardare la foto. «Era molto
giovane. Sapete...» aggiunge aprendosi in un sorriso malinconico,
224
«...questa foto l’ho scattata io. Era il giorno in cui suor Odette
prendeva i voti perenni.»
Julian si alza in piedi, seguito dallo sguardo di Darla e e di suor
Marie. È attratto da un’altra fotografia, alla parete dello studio. Circa
trentina bambini, di età compresa tra i quattro e i dieci anni, accalcati
insieme per rientrare nel campo dell’obiettivo. Ai lati del gruppo, tre
suore e un uomo in abito scuro. Dai vestiti e dalla qualità della foto,
ha l’impressione che si tratti di una foto di fine anni settanta. Julian
scorre lo sguardo dei ragazzi, fino a incrociare quello più timido,
dietro a spesse lenti da miope.
Earl Laski.
«Chi è quest’uomo?» chiede senza voltarsi.
Suor Marie si allunga per vedere meglio.
«È il signor Millerau. È stato il direttore del nostro istituto per
quasi quarant’anni. È andato in pensione dopo che l’ultimo ragazzo è
stato adottato. Ormai siamo rimasti in pochi all’interno dell’istituto:
io, Maurice il giardiniere, suor Magdalena e due consorelle che hanno
deciso di proseguire la loro vita religiosa in totale clausura.»
Dalla finestra, i raggi del sole attraversano i rami della quercia
creando un gioco di luci che attrae l’attenzione di Darla.
«Le dispiace se continuiamo a parlare in giardino? È una così bella
giornata.»
Dietro la casa di mattoni gialli, il giardino si estende per oltre
duecento metri su per una collina dalla pendenza lieve. Il campo è
delimitato da due file di pioppi, mentre all’interno sono presenti
numerose piante da frutto. Suor Marie s’incammina lentamente verso
225
la cima, fermandosi poi all’ombra di un vecchio castagno.
«Mi sembra di sentire ancora le voci dei bambini che giocano nel
prato.» Si appoggia al tronco per riprendere fiato. «Sotto quest’albero
si ritrovavano i ragazzi più grandi a giocare a ruba bandiera e a
guardie e ladri. Là infondo, invece, i più piccoli si scambiavano le
figurine e disegnavano con i colori a pastello.»
Inspira e poi guarda l’orologio.
Darla si avvicina al tronco. Ci sono numerose incisioni, lettere e
brevi frasi in francese. Poi, quella che sembra essere una firma, sotto
una serie di croci.
Jamad.
Fa un cenno impercettibile a Julian e poi prosegue.
«Suor Marie, avete avuto dei problemi con qualche ragazzo?»
La suora batte il palmo della mano sul vestito, come a rimuovere
residui di una polvere immaginaria. Poi solleva il capo. Negli occhi
una tristezza lontana, la fatica di chi ha lottato allo stremo per
migliorare il futuro di persone emarginate, senza avere la certezza di
essere riuscita davvero a cambiare le cose.
«Il nostro istituto ha raccolto ragazze giovanissime dalla strada e ha
cercato di trovare una famiglia per i loro figli. Alcune di esse sono
riuscite a voltare pagine e a cambiare vita. Suor Odette, per esempio,
ha trovato la fede e ha preso i voti. Ma per altre persone non è stato
facile. Il nostro programma di adozioni prevedeva che i bambini
rimanessero qui per un periodo inferiore ai due anni, per evitare che si
istituzionalizzassero. Purtroppo, in alcuni casi, non è stato così.»
Julian si sposta di lato e, passando dietro a Darla, le sfiora la spalla
226
invitandola a continuare. Poi si incammina verso una pianta di
amarene, poco distante.
«E Jamad, rientra in uno di questi casi?» chiede Darla con voce
calma.
Suor Marie è colta da un brivido improvviso. Si stringe le mani al
ventre e poi si volta verso il castagno.
«Come fate a conoscerlo?»
Darla si avvicina di qualche passo.
«Ce ne ha parlato Earl Laski. Erano molto legati.»
«Ha incontrato Earl?!» esclama voltandosi col volto raggiante.
«Come sta?!»
«Credo che abbia avuto una vita difficile, anche dopo che è stato
adottato. È stato arrestato a Denver per sequestro di persona. Ma ci ha
parlato di un certo Jamad. Che cosa ci può dire?»
In viso, di nuovo quell’alone di incertezza.
«Povero Earl, mi dispiace.» Si appoggia con la schiena al tronco e
si lascia scivolare sull’erba. «È sempre stato così fragile. Abbiamo
cercato di difenderlo e di farlo adottare al più presto, ma sono passati
gli anni, ed è rimasto qui con Jamad.» Fa una breve pausa. Con la
mente torna indietro nel tempo, a quando aveva preso i voti da poco
ed è venuto alla luce Jamad.
«La sua storia è diversa. Jamad è nato all’interno dell’istituto.»
Ha un’incertezza e non sa se continuare. Darla si siede accanto a
lei.
«È importante che ci racconti tutto quello che sa. Se non lo
fermiamo al più presto, potrebbe fare del male a molte persone.»
227
Il volto scuro di suor Marie è deformato dal dolore. Inizia a
singhiozzare, coprendosi gli occhi con le mani.
«Non avremmo dovuto lasciarlo andare.»
Darla le appoggia una mano sulla spalla e infine l’abbraccia.
«Suor Odette non era incinta, quando è stata raccolta dalla strada
all’età di quindici anni. Dopo due anni che stava da noi, ha dato alla
luce Jamad, ma non ci ha mai voluto dire chi fosse il padre.»
Darla le porge un fazzoletto di carta.
«Pensa che possa essere stato qualcuno che lavorava all’interno
dell’istituto?»
Suor Marie continua a piangere e a disperarsi.
«Era solo una bambina!»
Al suono della campanella, Charlotte si alza dalla cattedra e segue
divertita gli alunni correre fuori dall’aula. Il movimento che segue è
istintivo, involontario, e la proietta in avanti nel tempo, di sei o sette
anni, quando suo figlio inizierà la scuola elementare: la mano scivola
sul ventre ancora piatto, alla ricerca della vita che contiene all’interno.
«Signora Smoke?»
Charlotte ha un sussulto e poi si volta e sorride al nuovo bidello
della scuola.
«Mi dica?»
L’uomo la guarda senza riuscire a mantenere il capo diritto. È
intimorito dai lineamenti fini del suo volto, dal rosso vivace dei suoi
capelli che cadono morbidi sul golfino in cashmere. Nel Montana le
donne hanno tutte le ossa grosse, le spalle larghe e vestono con
228
pantaloni di lana o gonne di fustagno. La signora Smoke è diversa e
gli ricorda la mamma di una pubblicità di cereali che ha visto su una
rivista. E con la quale si è masturbato numerose volte.
«È arrivata questa per lei.»
Charlotte prende la busta gialla e guarda l’indirizzo del mittente. È
una casella postale di Orlando.
Maledizione Julian, quando finirà questo incubo!
Poi la scuote, e sente che c’è qualcosa di rigido all’interno. La
tentazione di scoprirne il contenuto è forte; analizza l’esterno per
vedere che non ci siano tracce di liquidi organici e poi si decide ad
aprirla.
Due biglietti omaggio per lo spettacolo di sabato sera. Sul retro dei
biglietti, una pubblicità di cereali.
«Ma che bello!» Poi, voltandosi verso il bidello, «Grazie, mi ha
portato fortuna.»
229
28.
Ora ricordo. È il primo giorno di maggio ed è il primo giorno di
sole dopo tre settimane. Io ed Earl siamo i primi ad uscire per la
ricreazione. Ho tutte le ossa indolenzite per il lungo periodo in cui
siamo rimasti in casa, senza mai uscire a giocare. Sappiamo che la
cagnetta di Maurice dovrebbe aver partorito in questi giorni e
sappiamo dove può essere andata.
Io corro più veloce di Earl e raggiungo il capanno degli attrezzi.
Sento guaire all’interno, ma la porta non si apre. Maurice deve aver
deciso di chiuderli dentro per paura che potessero scappare, spaventati
dai tuoni. Giro attorno alla rimessa e quando raggiungo il lato
posteriore scopro di non essere stato il primo.
Jamad è salito sopra a un bidone di lamiera e si allunga per vedere
oltre la piccola finestra del capanno. Quando mi vede, mi lancia
un’occhiataccia e mi fa segno di stare zitto. Io mi arresto di colpo e
faccio lo stesso gesto a Earl che sta arrivando.
Lo raggiungo e mi azzardo a tirargli l’orlo dei pantaloni. Lui mi
scosta con un calcio che per fortuna mi sfiora solo l’orecchio. Mi
guarda e si mette a ridere.
«Vieni a vedere», e mi fa segno di salire.
230
All’inizio ho un po’ di paura e penso che mi voglia spingere giù dal
bidone. Ma il desiderio di vedere quei cuccioli è più grande e salgo in
piedi. Il vetro è tutto sporco e non riesco a vedere quasi nulla. Poi
Jamad mi dice di guardare proprio sotto la finestra. Mi alzo in punta di
piedi e vedo muoversi qualcosa, qualcosa che mi ricorda la coda di un
cavallo. A un certo punto la coda si muove in avanti e mi accorgo che
sono dei lunghi capelli rossi, attaccati alla testa di una ragazza che
viene spinta avanti e indietro da un uomo calvo.
«Hai visto chi è?»
Guardo meglio e nello spingermi in avanti sbatto la testa contro il
vetro. Lui si gira di scatto nella nostra direzione e io dallo spavento
cado all’indietro.
«Corri, che ci ha visto! Corri!»
Vedo Jamad scappare verso la collina. Io provo ad alzarmi e a
seguirlo, ma zoppico perché ho preso una brutta storta alla caviglia.
Dico a Earl di venire con me e ci nascondiamo dietro al vecchio aratro
di Maurice, poco distante dal capanno. Aspettiamo un po’ per vedere
se esce qualcuno, ma non esce nessuno e dopo circa venti minuti
torniamo in classe.
Jamad non è più rientrato. Guardo il suo banco vuoto e penso che
l’uomo pelato lo ha trovato sulla collina e lo sta tagliando a fettine. Mi
chiedo se mancherà a qualcuno. Mi volto verso Earl e penso che a lui
non mancherà di sicuro, dopo lo scherzo del dito. Glielo ha tagliato di
netto con l’accetta. In pronto soccorso volevano riattaccarglielo, ma
nessuno lo ha più trovato. Secondo me Jamad se lo è tenuto come
trofeo, perché aveva vinto la scommessa.
231
A mezzogiorno entra in classe Maurice, con il suo cappello di
paglia in testa. Non l’ho mai visto senza e non so nemmeno se sotto ha
i capelli oppure no. Nelle mani ha qualcosa di molto piccolo che si
muove lentamente e guaisce. Ci avviciniamo per vedere meglio.
Maurice dice che è l’unico cucciolo della sua cagnetta che è
sopravvissuto. Ci spiega che nel mondo animale funziona così, che
non c’è posto per tutti, e che il più forte sopravvive per continuare la
specie. Secondo me è così anche nel regno degli uomini. È solo un
piccolo batuffolo di pelo marrone, con gli occhi ancora chiusi e senza
neanche un dente. A pensare che è il più forte dell’intera cucciolata mi
viene da ridere e mi fa sperare che anch’io forse potrò sopravvivere.
Maurice non gli ha ancora dato un nome e ci chiede se vogliamo
sceglierlo noi. Gridiamo in coro di sì, ma poi ciascuno ha in mente un
nome diverso e non riusciamo a metterci d’accordo. Alla fine
decidiamo di fare una votazione e il nome che ho scelto io viene
votato dalla maggioranza.
Primo Maggio.
Mi sembra un bel nome, visto che è nato questa mattina.
Darla aggiunge un’altra zolletta di zucchero al tè.
«Suor Marie, sarebbe possibile avere il nome dei genitori che
hanno adottato Jamad?»
Suor Marie non risponde subito. Con lo sguardo segue il
movimento del braccio di Julian che solleva la tazzina di caffè e se la
porta alla bocca.
«Lei non parla molto, signor Smoke.»
232
Julian beve un sorso poi torna ad appoggiare la tazzina sul tavolino.
«Darla è più brava a parlare con la gente. Diciamo che riesce a
capire lo stato d’animo delle persone e a fare le domande nel modo
corretto. È una qualità preziosa nel nostro mestiere.»
Suor Marie lo ascolta attentamente.
«Mi interessa sapere cosa pensa di tutta questa storia. Non voglio
conoscere i dettagli delle vostre indagini, ma vorrei capire se quello
che sto per fare avrà delle conseguenze negative o positive. Quando
un bambino viene adottato, noi stringiamo un patto di segretezza con i
genitori adottivi. Ma non è solo questo. Nello statuto del nostro ordine
è stato inserito il patto di segretezza e quando prendiamo i voti
perpetui, promettiamo di mantenere questo segreto. È un’ulteriore
forma di tutela nei confronti dei bambini, che spesso vengono da
situazioni molto difficili.»
Il tempo sta cambiando e dal mare si alza il maestrale che fa
sbattere la finestra. Suor Marie chiude i vetri, mentre Julian finisce di
bere il caffè e si schiarisce la voce.
«Suor Marie, l’assassino su cui stiamo indagando ha ucciso nove
persone e non ha intenzione di fermarsi. Molti indizi ci fanno pensare
che si tratti di Jamad, ma non ne siamo certi.»
Fa una breve pausa, come se volesse dare il tempo a suor Marie di
assimilare queste informazioni.
«Come le ha detto la dottoressa Hemingway, abbiamo incontrato
Earl Laski che ci ha parlato di Jamad. Quello che non le ha detto,
però, è che il corpo di suor Odette è stato ritrovato nel giardino di un
altro uomo, che crediamo possa aver vissuto qui, nel vostro istituto, i
233
primi anni della sua vita.»
Guarda per un istante Darla, poi prosegue.
«Il suo nome è Remi Sullivan.»
L’espressione di suor Marie ricorda una lapide bianca senza nome.
La carnagione scura ha lasciato il posto a un fine strato di gesso e le
rughe sembrano svanire sotto la tensione del viso. Julian sa che il
momento è drammatico, ma decide di proseguire senza indugi.
«Sullivan è morto. Riteniamo che sia responsabile di numerosi
omicidi in Texas. Ora, conoscere l’identità dei genitori adottivi di
Jamad, ci permetterebbe di dimostrare la sua innocenza o
colpevolezza.»
Si interrompe, senza distogliere lo sguardo dagli occhi colmi di
dolore di suor Marie. Darla si avvicina col busto alla suora, per entrare
in maggior empatia.
«Pensiamo che Jamad abbia un conto in sospeso con l’agente
Smoke e conoscere il suo passato ci permetterebbe di fermarlo. Suor
Marie, dovrebbe sapere di cosa è capace. Non è così?»
Ora, di fronte a loro, solo il fantasma della madre superiore.
«Che cosa abbiamo fatto? Che Dio ci perdoni.», sussurra.
Inspira ed espira più volte, come se volesse eliminare il dolore e il
senso di colpa che le attanaglia la gola. Darla è preoccupata e teme
che continuare potrebbe mettere a rischio la sua salute.
«Si sente bene?»
La dimensione in cui si trova suor Marie è più simile al sogno che
alla realtà. Le figure che le passano davanti hanno contorni sfumati e
l’eco dei suoni è ovattato. Poi un fermo immagine, la mano di Earl che
234
zampilla sangue dal punto in cui il pollice è stato tagliato. Al suo
fianco Jamad, o il demonio che se n’è impossessato.
«Suor Marie!»
Darla le porge un bicchiere d’acqua.
«Va tutto bene?»
Gli occhi di vetro si rianimano. Si volta versa di lei e poi scuote la
testa come se volesse liberarsi di un peso che l’ha oppressa per
trent’anni.
«È vero, so di che cosa è capace. Forse non avremmo dovuto
lasciarlo andare, ma come si poteva fare?»
Si alza con fatica e raggiunge il quadro della trinità, dietro la
scrivania. Lo rimuove dalla parete, digita alcuni numeri sulla tastiera
ed infine estrae dalla cassaforte un piccolo registro rivestito in cuoio
nero. Si siede alla scrivania, apre la pagina all’anno 1979, e inizia a
scorrere l’elenco dei nomi, dall’alto al basso.
Eccolo!
Individua il nome di Jamad e, nella colonna a fianco, quello dei
genitori adottivi. Li trascrive su un foglio di carta che consegna a
Julian.
«Spero che possa salvare la vita a Jamad e alle sue prossime
vittime».
Julian apre il foglio, legge i due nomi e ha l’impressione che la
storia inizi ad assumere contorni più definiti.
Jamad mi ha detto che l’uomo nel capanno era il direttore, il signor
Millerau. E mi ha detto che si stava sbattendo una poco di buono. In
235
realtà lui ha detto un puttana, ma suor Magdalena non vuole che
diciamo le parolacce. L’unica volta che mi ha sgridato è stato quando
mi ha sentito che dicevo a Earl: «Ti sbrighi, cazzo!» Dice che le
parolacce sporcano le persone che le ascoltato, ma soprattutto le
persone che le dicono.
Comunque, anche se adesso non dico più parolacce, da quando ho
visto il signor Millerau chiavare quella poco di buono, non faccio altro
che sentirmi sporco. E sento sempre caldo, sia di giorno, che di notte e
ho sempre davanti agli occhi l’immagine dei suoi capelli rossi che si
muovono e si agitano come le fiamme di un forno. L’ho detto a don
Pietro, una volta che mi sono confessato, ma lui mi ha risposto di non
dire delle stupidaggini. Ho deciso di non parlarne più con nessuno e di
cercare di dimenticare tutto, ma tutte le volte che incontro Jamad, mi
sorride e fa avanti e indietro col bacino, imitando il signor Millerau.
Charlotte sta preparando un’insalata con le noci. Alla mattina, ha
sempre un po’ di nausea e dei crampi che durano pochi minuti, poi
passano. La dottoressa le ha detto che non c’è da preoccuparsi e che
può continuare a insegnare, ma non deve rimanere molto tempo in
piedi. Ultimamente, ha sempre voglia di noci: le mangerebbe con
qualsiasi cosa e a tutte le ore. La scorsa notte si è alzata e si è
preparate un panino con formaggio, prosciutto e arachidi (si era
accorta tardi di averle finite). Dopo un’ora ha vomitato tutto, poi è
stata meglio.
Prende i pomodorini, li affetta fini e li aggiunge all’insalata. Si
asciuga le mani e risponde al telefono.
236
«Ciao, come stai? Ti avevo cercato per sapere cosa facevi sabato
sera.»
Pausa.
«Oh, che peccato. Avevo due biglietti omaggio per il cinema. No,
Marc è fuori città e volevo andarci con te. Beh, se ti liberi dimmi
qualcosa. A presto.»
Resta a guardare fuori dalla finestra con la cornetta appoggiata al
mento. L’annaffiatoio si è messo in funzione e le gocce d’acqua
disperse nell’aria creano un piccolo arcobaleno colorato che si proietta
oltre la siepe. È in quel momento che lo vede. È solo un attimo perché,
appena si accorge che lei lo sta guardando, si abbassa e scompare
dietro la barriera verde di lauro.
«Ma che fa qui?», si chiede uscendo dalla porta della cucina.
Raggiunge il cancello e butta l’occhio oltre la siepe per vedere se
c’è ancora, ma la strada è deserta.
Charlotte torna in casa e, dopo un attimo di esitazione, decide di
chiudere le finestre e la porta con il chiavistello.
«Stai calma. Devi stare calma.», si ripete portandosi la mano al
ventre. «Adesso passa tutto.»
29.
237
Julian è nella sala conferenze della stazione di polizia. Sul tavolo, il
foglio che gli ha consegnato suor Marie, a Marsiglia. Dan si avvicina
e legge i nomi ad alta voce.
«Daniel Torquoise e Melissa Del Cigno. E chi sarebbero?»
Darla lo affianca e solleva il foglio.
«Sono i genitori adottivi di Jamad. Tuttavia, non è stato trovato
nessun Jamad Torquoise o Jamad Del Cigno nel nostro database, né in
quello dell’Interpol. Ma la cosa più sconvolgente», aggiunge tirando
fuori un secondo foglio, «è che uno di questi due nomi risulta anche in
questo elenco.»
Appoggia il foglio sul tavolo. L’elenco riporta le centosessantatre
persone che sono state arrestate da Julian negli ultimi quindici anni. In
rosso è evidenziato il nome di Melissa Del Cigno.
Dan si rivolge a Julian.
«Ecco spiegato il movente! Per cosa l’avevi arrestata?»
Julian resta in piedi accanto alla finestra.
«Melissa del Cigno è stata arrestata per l’omicidio del marito; lo ha
accoltellato ventisette volte e alla fine gli ha tagliato i genitali e li ha
seppelliti in giardino. Il motivo di tale gesto è stata la scoperta della
relazione tra il padre e la figliastra. Melissa Del Cigno è morta tre anni
238
fa in carcere e forse questo spiegherebbe l’ira di Jamad nei miei
confronti. L’omicidio è avvenuto molti anni fa, quando ancora non
lavoravo per l’FBI.»
Silenzio.
«Ok.» Julian riprende il discorso. «Non è tutto. Abbiamo
controllato l’identità della figlia di Melissa Del Cigno e abbiamo
scoperto una cosa molto interessante. Non era la figlia di un suo
precedente matrimonio, come avevamo pensato all’inizio, ma è stata
adottata anche lei.»
«Cazzo.»
Dan alza la mano in segno di scuse.
«Quindi i Torquoise hanno adottato sia Jamad, sia la figlia?»
«Esatto. E sapete come si chiama?»
Dan solleva le spalle.
«Susanna Torquoise. Oggi conosciuta anche come Susanna
Torquoise Barkley!»
«No?! La madre di Sarah Barkley è la sorella adottiva di Jamad?!»
Dan è perplesso.
«Un momento. Ma quando abbiamo controllato l’identità di
Susanna Barkley, dopo l’omicidio del marito e della figlia, non è
emerso nulla riguardo la morte dei suoi genitori.»
Darla interviene.
«Probabilmente qualcuno ha cancellato il suo fascicolo dai nostri
database. I sospetti ricadono su qualcuno che lavora o ha lavorato
nella FBI o in polizia. O comunque che ha la possibilità di accedere a
queste informazioni.» Si guarda intorno e poi prosegue. «Non si è più
239
saputo niente di Peter?»
Dan scuote la testa.
«Abbiamo controllato gli aeroporti e le stazioni ferroviarie e non
sembra che abbia lasciato il paese. La sua abitazione a Orlando è sotto
controllo, ma ci hanno detto, stasera, che non si è fatto vivo.»
Julian osserva lo sguardo teso dei suoi colleghi.
«Mentre eravamo in viaggio da Marsiglia, ho contattato O’Malley
e gli ho chiesto di portare Susanna Barkley in centrale. Purtroppo,
anche lei non era in casa. Abbiamo emesso un mandato di
comparizione e inviato la foto segnaletica a tutte le stazioni di polizia,
agli aeroporti, alle stazioni ferroviarie e a quelle dei bus.»
Fa una breve pausa, poi chiede a Darla di proseguire.
«Ormai il cerchio si sta chiudendo, anche se rimangono alcuni
punti da chiarire. L’assassino che stiamo cercando, tale Jamad, ha
passato molti anni in un orfanotrofio a Marsiglia. Pare che la madre di
Jamad fosse una ragazza giovanissima raccolta dalla strada.
All’interno dell’istituto potrebbe aver subito degli abusi ed essere
rimasta incinta di Jamad. Successivamente, si è fatta suora e a noi è
nota come suor Odette. All’età di dodici anni, il ragazzo è stato
adottato da una coppia americana che aveva già adottato una bambina
di nome Susanna. Immaginiamo che Jamad abbia continuato ad essere
un ragazzo difficile anche dopo l’adozione e che si sia allontanato
precocemente dalla famiglia adottiva, forse cambiando nome. È anche
possibile che abbia mantenuto un legame forte con la madre adottiva e
che, dopo il suo arresto e la sua morte, abbia iniziato a nutrire odio nei
confronti di chi l’aveva mandata in carcere. Jamad potrebbe aver
240
ucciso il marito e la figlia della sorella adottiva, cioè Sara e Steve
Barkley, per vendicarsi del fatto che la sorella, Susanna, aveva avuto
una relazione col padre adottivo e che aveva, di fatto, scatenato la
furia omicida della madre. Da qui in poi ha continuato a uccidere,
probabilmente riallacciando contatti con i due compagni di infanzia,
Earl Laski e Remi Sullivan.»
Dan si accarezza la nuca, poi butta fuori uno dei tanti dubbi che gli
arrovellano il cervello.
«Scusami Darla, ma non riesco a capire perché abbia dovuto
uccidere Sean e Tom Stolnhouse.»
«Questo non è ancora del tutto chiaro e forse lo sarà quando
scopriremo la nuova identità di Jamad. Quello che è certo è che sia
Earl Laski, sia Susanna Barkley conoscono l’Onnivoro. Dobbiamo
fare in fretta, perché sicuramente Jamad sa che gli siamo vicini e non
penso che uno così abbia voglia di finire sulla sedia elettrica. Credo
che sappia di essere alle battute finali e immagino che vorrà uscire di
scena in modo teatrale. Per cui dobbiamo ottenere tutte le
informazioni possibili dai nostri due testimoni.»
Julian riprende la parola.
«Per stasera è tutto. Darla ed io abbiamo fatto un lungo viaggio ed
è meglio riposarci alcune ore. Domani sarà una giornata intensa e vi
voglio tutti lucidi e freschi.»
Julian si avvicina a Dan e lo prende sottobraccio. Il tono è basso,
discreto.
«Che cosa è emerso dall’autopsia di don Elia?»
«La causa del decesso è stato l’arresto cardiaco indotto dalla
241
formaldeide. Il corpo era già imbalsamato quando il coroner ha
iniziato a sezionarlo. Per il resto, non sono state riscontrate impronte
digitali, né altri elementi significativi.»
«Io e Darla crediamo che non abbia mai preso quel volo e che
l’assassino abbia usato la sua identità per fare il biglietto e salire a
bordo. Se riuscissimo a dimostrare questo, potremmo anche
scagionare Peter. Domattina mettiti in contatto con la segretaria di don
Elia e cerca di scoprire se ha preso davvero quel volo o era da qualche
altra parte.»
La sera prima di partire, Jamad mi ha detto una cosa. E credo che
l’abbia fatto per darmi un dolore, perché sa che anch’io verrò adottato
e che prima o poi dovrò lasciare l’istituto. Mi ha detto che suor
Magdalena è mia madre e che siamo stati raccattati per strada, pochi
giorni dopo la mia nascita. Ha sentito il signor Millerau che lo diceva
a qualcuno, nel suo studio. Jamad era stato richiamato per una delle
sue diavolerie, ma poi si era scocciato di aspettare e se n’era andato.
All’inizio non ci volevo credere, perché significava che anche mio
padre era un puttaniere o uno stupratore, come il papà di tutti i
bambini dell’istituto. Mi piaceva pensare che fosse qualcuno di
importante e che fosse troppo impegnato a salvare il mondo per
occuparsi di me. Immaginavo di incontrarlo, un giorno, magari
all’uscita di scuola, in uno di quei giorni in cui pensi che non ti possa
capitare nulla di buono. Sarei uscito con lo zaino in spalla e l’avrei
riconosciuto subito.
Ora invece ci credo. Suor Magdalena ha gli occhi grandi e
242
luminosi, ma se li guardo a lungo vedo qualcosa che non vorrei
vedere, una tristezza profonda che cerca di mascherare con il sorriso.
Forse non è la vita che avrebbe voluto vivere.
La luci della camera sono spente e l’uomo si muove all’interno
orientandosi con una piccola torcia elettrica. Si avvicina alla finestra e
scosta le tende quel tanto da permettergli di tenere d’occhio la strada e
l’ingresso del cinema. L’attesa si prolunga più del previsto e proprio
quando sta per perdere la speranza, ecco che un taxi si ferma sotto la
finestra del suo albergo. La prima cosa che vede uscire sono le gambe
esili, seguite dal vestito blu che fascia la vita stretta e il seno quasi
piatto. La donna compie alcuni passi sul marciapiede e poi entra nello
stabile. L’attesa lo eccita e la consapevolezza che da lì a poco le
stringerà i fianchi gli procura un lieve giramento di testa. La frequenza
cardiaca aumenta e il respiro si fa più caldo, affannato. Si sposta verso
la porta d’ingresso e dà un ultimo sguardo alla stanza.
Tutto è pronto.
La tessera magnetica fa scattare la serratura e la porta si apre
lasciando penetrare un fascio di luce gialla all’interno della camera.
La donna lancia le scarpe nell’atrio e si dirige verso il bagno, senza
attendere che le luci della stanza si accendano.
Una mano le afferra la vita e una seconda il collo magro e fragile.
L’urlo è subito smorzato dal palmo che sale alle labbra e le preme la
testa all’indietro.
Le luci si accendono e la donna può osservare com’é stata
preparata la camera: il letto è coperto di rose e, sul tavolino
243
dell’anticamera, un secchiello con una bottiglia di champagne.
«Ti voglio», le sussurra all’orecchio.
Lei tenta di divincolarsi e di allontanarsi, ma lui la tiene stretta a sé,
impedendole qualsiasi movimento. Il suo corpo la sovrasta.
«So che anche tu mi vuoi.»
La spinge in avanti di un passo e i due corpi si avvicinano al
secchiello dello champagne. Lei continua a fissare il cassetto del
tavolino dove tiene lo spray anti-aggressione e cerca di assecondare i
suoi movimenti in quella direzione.
Si avvicinano ancora di un passo.
«È da tanto che volevo passare un po’ di tempo con te.»
Nella voce qualcosa di familiare, ma anche un timbro ovattato,
come se fosse camuffato da un passamontagna o da una bandana.
Mantieni la calma e ne uscirai viva. Resta lucida e non ti
succederà nulla di male.
Cerca di ricordare le raccomandazioni di Julian, quei consigli che
le aveva ripetuto tante volte e che le aveva detto che le avrebbero
potuto salvare la vita.
Poi il suono del suo cellulare che fende l’aria della stanza come la
lama affilata del suo salvatore. Lui molla la presa alla vita e afferra il
cellulare per vedere chi la sta cercando.
«Pensa sempre a te», le dice sorridendo.
Le mostra il display illuminato.
Julian.
«Vuoi che risponda?»
Ora è più libera, ma non è ancora il momento di agire.
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L’uomo preme il tasto di risposta e resta in attesa.
Sente la voce di Julian che la chiama, ma invece che infonderle
coraggio, la getta nel panico.
Piange.
«Dove sei? Dimmi dove sei?!»
Silenzio e lacrime.
Poi la voce dell’uomo.
«Sei pronto a pagare i tuoi debiti?»
«Se le torci un capello...»
Fine della comunicazione.
Arriverà presto? Forse.
«È un peccato che ci abbia rovinato la serata. Il posto dove ti
porterò sarà meno confortevole.»
Lei chiude gli occhi e si lascia guidare, senza opporre resistenza. È
un tronco che galleggia sulle rapide, segue la corrente. Sa che non può
fare altro, non può arrestare un fiume in piena. Sa di cosa è capace e
sa che, dopo, le toglierà la vita.
Almeno un figlio.
Nuova luce, nuova forza.
Lui le tocca i seni piccoli e le annusa la pelle dietro la nuca. Deve
aver sollevato il passamontagna perché non lo avverte quando le
appoggia le labbra sul collo. La morde piano.
Non ha profumo.
L’odore di lei, invece, è una mistura di sudore e vaniglia. Gli
ricorda l’ultima merenda all’istituto, quando suor Magdalena aveva
riunito tutti i ragazzi nel salone e aveva portato la sua torta preferita,
245
alla crema e pinoli. Chiude un momento gli occhi. Lei lo sente
inspirare.
È questo il momento?
Un istante ancora. Inspira anche lei, rilassa i muscoli, chiude gli
occhi e visualizza nella mente la sequenza di immagini che
seguiranno, poi parte.
Flette la testa in avanti e poi un colpo deciso all’indietro che va a
colpire qualcosa di duro.
Il mento o il naso? Non c’è tempo!
Lui emette un gemito, ma non molla la presa. Poi una gomitata allo
stomaco e lei che si libera, raggiunge il tavolino e afferra lo spray al
peperoncino. Si scaglia contro di lui, spruzzandogli il gas all’altezza
del viso. Si ripara con le mani, ma gli occhi iniziano a gonfiarsi e a
lacrimare copiosamente. La vista è offuscata.
Adesso o mai più!
La donna afferra la bottiglia di champagne e gliela scaglia contro,
poi il secchiello e la lampada sul tavolino. Ma lui è enorme e le blocca
il passaggio verso la porta.
Corre alla finestra, la apre e scavalca il ballatoio. Il cornicione é
sottile e la stanza è al terzo piano.
Pur con difficoltà, la raggiunge e l’afferra per i capelli,
trascinandola nuovamente all’interno della camera. Estrae una siringa
dall’ago sottile e l’avvicina alla vena giugulare. Lei si dimena e tenta
di rialzarsi, ma la stringe al collo e non riesce più a respirare. Non può
fare altro che desistere. L’ago nel collo e i muscoli che si rilassano
piano piano, fino al torpore generalizzato. Non riesce più ad avere il
246
controllo del suo corpo, ma riesce a vedere tutto, tutto quello che le
accade attorno. Lui che è sopra di lei, lui che si solleva il
passamontagna, lui che ride, lui che scende sulla sua bocca. Lui,
l’insospettabile.
247
30.
«Attenzione», bisbiglia. «Tre, due, uno. Ora!»
La porta viene spalancata, ma Julian resta dietro lo stipite con la
pistola in mano. Sul lato opposto Dan. La stanza è in penombra e dalla
finestra s’iniziano a intravedere le prime luci dell’alba. Julian entra
nella camera: nel piccolo atrio scene di lotta, una bottiglia di
champagne versata a terra, la lampada da tavolo rotta e sul letto un
tappeto di rose. La finestra aperta. Julian si sporge all’esterno.
«Deve aver tentato di fuggire, ma era troppo alto.»
Dan ha le mani che tremano ed è visibilmente turbato.
«Julian, dobbiamo trovarla prima che...»
«Non ti preoccupare», cerca di rassicurarlo. «Darla è in gamba e sa
badare al fatto suo. Voglio parlare immediatamente con Laski: è
l’unico che conosce l’identità di Jamad.»
Tutto è buio. Il baule dell’auto è stretto e c’è un forte odore di
funghi e benzina. Dopo una quarantina di minuti, l’auto inizia a
percorrere una strada secondaria, ricca di curve e tornanti. La nausea
si accentua. Darla tenta di muovere le braccia, ma la muscolatura è
ancora troppa anestetizzata. Dopo un’altra mezz’ora, l’auto si arresta.
248
Quando il baule viene aperto, la luce del mattino invade il piccolo
abitacolo costringendo Darla a chiudere gli occhi.
Bastardo!
Indossa un casco da minatore. Ride di nuovo e la solleva tra le
braccia.
«Vedrai, ti piacerà quello che ho preparato per te.»
Entrano in una vecchia miniera, da cui si dipartono numerosi
cunicoli oscuri. Scendono, percorrono forse cinquecento metri, aiutati
dalla torcia sul casco. Giungono a un portone di legno, chiuso da un
grosso lucchetto d’acciaio. L’uomo fa scattare la serratura e apre la
porta.
La stanza è completamente piastrellata, il pavimento, le pareti e la
volta. Piastrelle bianche lucide, come quelle di un obitorio. Al centro,
un letto matrimoniale in legno, su cui non è posto un materasso, ma un
contenitore in compensato che copre tutta la superficie del letto.
Man mano che si avvicinano, Darla ha modo di vedere cosa è
presente nel contenitore e di realizzare l’incubo che la sta aspettando.
Si contorce in braccio al suo rapitore, cerca di afferrargli la giacca, ma
le dita sono contratte e scivolano sul tessuto di nylon.
«Vedi quei piccoli insetti che riempiono il letto? Sono imenotteri,
della specie Scleroderma domesticum. I tarli e le termiti non attaccano
l’uomo, perché si nutrono di legno. Loro invece ne vanno matti,
soprattutto in mancanza di cibo. E ti assicuro che questa colonia l’ho
affamata per benino e non vede l’ora di banchettare con te.»
La solleva e la lascia cadere sul giaciglio infestato di acari. «Buon
appetito!».
249
Uscendo dalla stanza, si volta per un ultimo saluto.
«So che sei allergica agli acari della polvere. Ma stai tranquilla, lo
shock anafilattico non insorgerà prima di un paio d’ore.»
Julian attende ancora cinque minuti, poi entra nella stanza dove
Earl Laski è seduto, con una tazza di caffè in mano. Dan lo segue e gli
bisbiglia qualcosa all’orecchio.
«Il suo avvocato sarà qui a momenti. Abbiamo qualche minuto per
interrogarlo da soli.»
Julian si volta e gli risponde ad alta voce.
«Non me ne frega un cazzo del suo avvocato!»
Poi si rivolge a Earl.
«Ti piace il caffè?»
Si siede di fronte e inizia fissarlo.
So che con quelli come te non serve la violenza. Il mondo ve ne ha
regalata fin troppa e adesso non ne sapete più fare a meno. Ricevete
violenza e offrite violenza. Ma non oggi, non oggi, caro Earl.
Continua a fissare Julian, mentre sorseggia dalla tazza. Appare più
sereno rispetto al giorno dell’arresto, come se sapesse qualcosa che a
loro ancora sfugge, la fine della storia, le battute finali di un incubo da
cui anche lui non vede l’ora di uscire.
«So che Jamad è tuo amico e non voglio che tu lo tradisca.
Facciamo un patto: io ti regalo questa foto e tu mi dici dove hai
portato Margaret Lee. So che siete stati a Coal Creek, ma lassù è pieno
di miniere e cunicoli. Io voglio sapere il punto preciso. Ci stai, Earl?»
Appoggia sul tavolo la foto in cui suor Odette sorride nella luce del
250
mattino. Earl si china sull’immagine per osservarla meglio e infine la
prende in mano. Resta a fissarla a lungo, quasi in trance, con l’altra
mano che regge ancora la tazza di caffè vuota. Poi lo sguardo scavalca
la fotografia e raggiunge gli occhi scuri di Julian. Il movimento del
capo è quasi impercettibile, ma Julian ne è sicuro: ha detto di sì.
Sorride, si alza in piedi e invita Earl a fare altrettanto.
«Allora andiamo!»
La macchina corre veloce lungo la statale e, dopo circa un’ora,
raggiunge l’ingresso di una miniera abbandonata. Earl non ha
spiaccicato una sola parola, fornendo le indicazioni per la strada con
piccoli movimenti del braccio e del capo. Fanno scendere Earl, lo
ammanettano e lo invitano a precederli all’interno della montagna.
Dopo un quarto d’ora di cammino e una decina di incroci, arrivano ad
un portone di legno. La serratura è arrugginita e senza lucchetto.
Spalancano la porta, ritrovandosi in una grotta umida e scura, con al
centro un tavolino da campeggio e, alle pareti, delle lunghe catene di
ferro.
«Sei sicuro che sia questo, il posto?»
Accenna un sì con la testa.
Negli occhi di Dan la paura di un bambino che si è perso nel bosco
e che sa che presto farà freddo e buio.
«E adesso?!»
Julian sa che deve restare calmo, anche se ormai il tempo a
disposizione è davvero poco.
«Quante stanze ci sono, come questa?»
251
Earl all’inizio sembra non comprendere la domanda, poi si avvicina
al punto dove era incatenata Margaret e appoggia l’orecchio alla
parete. Dan e Julian seguono i suoi movimenti e infine lo raggiungono
per scoprire cosa stia ascoltando. Nella roccia calcarea, l’eco lontano
di una voce di donna. Parole incomprensibili, grida che tendono a
spegnersi e a ridursi di intensità man mano che passa il tempo.
«È Darla!» esclama Dan con gli occhi lucidi.
Julian si avvicina a Earl e gli appoggia una mano sulla spalla.
«Grazie per quello che stai facendo. Sai dirmi come si raggiunge
quella stanza?»
Earl inclina la testa di lato. Sovrasta Julian di almeno quindici
centimetri, ma nel momento in cui inizia a ridere la differenza si
accentua a dismisura. Un brivido di terrore pervade il corpo di Julian.
«Non mi ringraziare. È stato un vero piacere!»
La risata risuona all’interno della grotta e rimbomba come una
fucilata a bruciapelo.
«Cazzo, Julian, ci ha presi in giro fin dall’inizio. Non è questo
l’ingresso!»
Dan inizia a camminare avanti e indietro e alla fine afferra Earl per
la camicia.
«Figlio di puttana, dimmi come si raggiunge quella stanza!»
Lo strattona, lo spinge contro la parete e infine lo scaraventa a
terra.
«Bastardo! Se le succede qualcosa ti ammazzo con queste mani!»
Gli salta addosso e inizia a stringergli il collo. Julian lo blocca e lo
solleva di peso.
252
«Dan, Non perdere la testa! Mi servi lucido. Se ci ha portato qui è
perché sapeva che non l’avremmo trovata e che era nella stanza di
fianco. È d’accordo con Jamad: gli ha fatto guadagnare tempo.»
Si china a fianco di Earl.
«Non è così? Te l’ha chiesto Jamad di portarci qui, non è vero?»
Si rialza, afferra il tavolino da campeggio e lo scaglia ripetutamente
contro la parete di roccia, senza scalfirla minimamente.
«Questa parete è molto spessa, ma se si riesce a sentire la voce di
Darla, dev’essere stata perforata.»
Dan solleva lo sguardo e poi esclama, «Julian, le catene!»
«Hai ragione!», risponde ponendo il tavolino contro la roccia
dov’era stata legata Margaret. Vi sale in piedi e raggiunge il punto da
cui le catene partono, scoprendo che due lunghi cilindri cavi
attraversano la parete fino a raggiungere la caverna adiacente. Lo
spessore non supera il mezzo metro.
«Darla, riesci a sentirmi?!», grida all’interno di uno dei due tubi
metallici. Dalla stanza opposta ancora dei gemiti e dei versi
incomprensibili, poi un nome, quasi come un lamento.
«Julian...»
«Resisti, stiamo arrivando!»
Julian scende dal tavolo e si avvicina ad Earl. Inspira, cercando di
mantenere il tono della voce calmo.
«Earl, ci devi aiutare a liberare la dottoressa Hemingway.»
Laski è disteso su un fianco, con le mani legate dietro la schiena.
Solleva lo sguardo in direzione di Julian: ora lo sguardo è meno
altezzoso, spavaldo. Ha di nuovo quell’aria sofferente e precaria che
253
aveva il giorno del loro primo incontro. Non risponde nulla, le labbra
stirate.
«Earl, perché lo continui a proteggere. Ormai è tutto finito e non
potrà più farti del male. Dimmi come si arriva all’altra stanza e
cercherò di fare il possibile per aiutarti in tribunale.»
Earl si allontana spaventato, come se avesse visto qualcosa nel
buio, dietro le spalle di Julian.
«Non vuoi che ti aiuti?»
Julian si alza e si volta in direzione di Dan.
«Forse vuole marcire in galera», butta lì senza quasi pensarci.
Julian guarda Dan, con il volto illuminato.
«Ma certo! Ora ho capito!»
Torna al fianco di Earl e inizia parlargli a pochi centimetri di
distanza.
«Hai deciso di accollarti anche questo omicidio, per essere sicuro
di finire sulla sedia elettrica. Sei stanco di vivere una vita di
emarginazione e soprusi e hai deciso di farla finita, non è così? È
questo che ti ha promesso Jamad? Che se la dottoressa Hemingway
morirà, sarai condannato a morte? Bene, Earl, ora te la faccio io una
promessa e ti giuro che farò di tutto per mantenerla, se non ci aiuti. Ti
prometto che ti difenderò ad oltranza, testimonierò che hai collaborato
con noi e che hai fatto tutto il possibile per salvarla. Ti farò dare
l’ergastolo, ma non verrai mai giustiziato. Su questo puoi contarci!»
Earl si guarda intorno ancor più spaventato, poi si solleva e si mette
in ginocchio. Un primo singhiozzo.
«Fatemi fuori», sussurra. «Vi prego.»
254
Il capo chino, ciondolante sul petto.
«Earl, adesso dimmi come si arriva nell’altra stanza e dopo ne
parliamo.»
«Fatemi fuori. Adesso.»
Dan lo afferra per la camicia.
«Porca puttana, dicci come si entra in quella stanza!»
Solleva il volto, continuando a fissare il vuoto, poi si alza in piedi
ed esce dalla grotta. Dan e Julian lo seguono in silenzio e dopo cinque
minuti di cunicoli e strettoie si ritrovano davanti ad un secondo
portone di legno. Questa volta la serratura è chiusa con un grosso
lucchetto.
«Julian spostati!»
Dan estrae la Beretta e spara due colpi in direzione del lucchetto.
Gli ingranaggi di metallo vengono scardinati e Dan spalanca la porta
con un calcio.
«Darla!»
Julian la raggiunge e la solleva tra le braccia. La pelle del volto, del
collo e delle braccia è piena di grossi pomfi arrossati; le palpebre
gonfie non le permettono di tenere gli occhi aperti e l’edema della
laringe la costringe a respirare con difficoltà.
«Darla, resisti!» corre fuori della stanza. «Dan, sta per avere uno
shock anafilattico! Corriamo all’ospedale.»
Il sergente O’Malley entra nella sala d’attesa con due tazze di
caffè. Julian è a sedere sulla panchina di legno, flesso in avanti, con in
mano l’elenco degli arrestati negli ultimi anni.
255
«Come sta?», chiede porgendogli la tazza.
«Le hanno fatto una tracheotomia per farla respirare?»
«Cose la hanno fatto?!»
«Un tubo in gola», risponde indicando il collo. «Adesso è in coma
farmacologico. L’abbiamo portata qui il prima possibile, ma i medici
non escludono che ci possano essere stati dei danni cerebrali. Aveva la
laringe completamente ostruita e non riusciva a respirare.»
Beve un sorso di caffè.
«Bastardo!» O’Malley, non riesce ad aggiungere altro.
«Hai qualche notizia di Susanna Barkley?»
Scuote il capo.
Dan entra nella sala di corsa.
«Allora?!»
«Aspettiamo. Adesso non riescono a svegliarla perché deve
respirare con il ventilatore. Forse domani.»
Dan si siede a fianco di Julian.
«Avevi ragione: don Elia non ha mai preso quell’aereo. Il giorno
del volo era a Denton e ha celebrato due funzioni. Mi ha detto la sua
segretaria che ci sono almeno un centinaio di testimoni.»
«Questo scagiona Peter, forse. Potrebbe aver deciso di rientrare a
Denver in aereo senza dirti nulla. E l’Onnivoro, invece, deve aver
utilizzato l’identità di don Elia per nascondere la sua presenza su quel
volo.»
Dan si guarda le mani e, dopo un attimo di esitazione, glielo
chiede.
«Ma come ha fatto, Jamad, a comunicare con Earl Laski e a dirgli
256
dov’era nascosta Darla? Pensi che possa aver organizzato tutto prima
dell’arresto di Laski.»
Julian scuote la testa. «Non lo so.»
Poi, dopo un attimo di esitazione, si alza in piedi e si volta verso
Dan con un sorriso.
«Forse, però, so chi potrebbe darci una risposta.»
257
31.
Non pensavo che Jamad mi potesse mancare tanto. Da quando se
n’è andato, sono molto più triste e non mi diverto più come prima.
Earl mi segue sempre e mi chiede cosa è giusto e cosa è sbagliato, ma
io non so cosa rispondere. Era Jamad che aveva tutte le risposte e
anche se era un po’ strano, credo che in fondo ci volesse bene.
La settimana scorsa mi è arrivata una sua lettera da Orlando. Mi ha
scritto poche righe.
Caro Remi,
l’America fa schifo e si mangia da schifo. La mia famiglia che mi
ha adottato non è male, anche se lui mi rompe sempre il cazzo per
ogni cosa che faccio. Mia madre è molto bella e buona. Mia sorella è
una stronza. Dovreste venire anche voi, tu ed Earl, perché secondo
me ci divertiremo.
Ciao, Jamad
P.S.: salutami quel cazzone di Earl (si è ripreso dopo gli
orecchioni?)
Si, credo che Jamad ci volesse un po’ bene.
258
Io invece continuo a pensare sempre al signor Millerau che si sbatte
la ragazza dai capelli rossi nel capanno. Un mese fa, a forza di
pensarci, ho bagnato il letto e da allora ci penso tutti i giorni. Adesso,
quando vedo una donna con i capelli rossi, mi viene un po’ male alla
pancia, o più in basso, e mi devo toccare. Credo che da grande
cercherò una ragazza così, le chiederò di sposarmi e costruirò un
capanno in giardino.
Charlotte butta sul letto il vestito marrone, poi torna in bagno per
finire di truccarsi. L’uomo entra in casa dalla porta principale,
cercando di non fare rumore. In mano, un mazzo di rose. Sale le scale
in punta di piedi fino a raggiungere il corridoio che porta alla camera
da letto. Prima di entrare nella stanza, si sfila le scarpe per non essere
sentito. Depone il mazzo sul letto e si avvicina al bagno. Charlotte è
completamente nuda, con i capelli bagnati che le cadono pesanti sulle
spalle esili. Il seno abbondante, voluttuoso, l’addome appena
pronunciato, una gamba sulla vasca da bagno che viene massaggiata
dalle mani intrise di crema idratante.
«Wow!» esclama.
Charlotte ha un sussulto e si volta spaventata. Poi lo riconosce.
«Oh mio Dio, Marc! Mi hai fatto prendere un colpo!»
Gli va incontro e lo abbraccia.
«Che bello che tu sia qui. Ma non dovevi rientrare dopodomani?»
Lui la guarda con la faccia forzatamente imbronciata.
«Ma come, non sei contenta che sia tornato prima? Avevo voglia di
vederti», risponde slacciandosi la camicia. Poi estrae dalla tasca, un
259
piccolo sacchetto color corda.
«Che cos’è, amore!»
«Aprilo.»
Rovescia il sacchetto e lascia sfilare il ferma capelli in madreperla
sul palmo della mano.
«Oh, Marc, ma è bellissimo!»
Lo bacia sulla bocca e gli passa una mano tra i folti capelli
brizzolati. Lui la solleva per i glutei e l’appoggia sul comò in noce.
«Allora, vieni al cinema con me stasera?!» gli chiede ridendo.
«Al cinema?! Charlotte, io in realtà avevo altri programmi.»
«Dai, ti prego, ho anche i biglietti gratis. Poi ti prometto che
quando torniamo a casa...», lascia la frase in sospeso e riprende a
baciarlo.
Se solo avessi avuto più tempo, sarei potuto cambiare.
Il mio nome è Remi Sullivan, ma non per molto ancora. Il mio
nome non mi piace perché è un nome triste, il nome di un orfanello
che cerca la sua mamma per il mondo, con un vecchio saltimbanco
rincoglionito. Mi piace Primo Maggio perché l’ho inventato io. Mi
piace Primo Maggio perché mi ricorda il giorno in cui suor Magdalena
mi ha messo su una pietra bianca e mi ha dato un bacio in fronte. Mi
piace Primo Maggio perché è un nome coraggioso.
Julian
si
ferma
davanti
alla
segretaria
che
interrompe,
momentaneamente, la conversazione al telefono.
«Non è ancora arrivato.»
260
«L’aspetto.»
Si siede sul divano in pelle ed estrae l’elenco dei clienti
dell’avvocato Stolnhouse.
Remi Sullivan, Earl Laski, e un’altra ventina di nomi. Ma come è
possibile che un avvocato così giovane seguisse dei soggetti tanto
pericolosi. Ambizioso, certo, ma davvero lo studio legale gli aveva
affidato personaggi di questo calibro? O li conosceva già da prima?
Julian estrae dalla giacca il foglio con l’elenco dei suoi arresti.
Melissa Del Cigno. La madre di Jamad.
Da alcuni giorni, ha qualcosa in testa che continua a tormentarlo,
senza tregua, qualcosa che tuttavia non riesce a definire con
precisione. È l’ombra di un dubbio, la sensazione di essere vicino alla
soluzione dell’enigma, a cui manca, però, un tassello fondamentale.
Ne avverte l’odore, il sapore, ma non riesce ancora ad afferrarlo.
Solleva il capo e si sofferma sul quadro minimalista appeso alla
parete. Azzurro con una banda verticale rossa.
«Aspetta un attimo!»
Si alza per osservarlo meglio. Estrae la fotografia che aveva
regalato a Earl Laski. Suor Odette in abito azzurro, con una striscia
verticale rossa.
«Oh no!»
Si volta verso la porta di ingresso, dov’è riportato il nome dello
studio legale.
Adam J. Swan & Soci
«Ovvero, J Amad Swan.»
Pausa.
261
«J A MA D !»
Torna all’elenco delle persone arrestate.
Melissa Del Cigno.
«Del Cigno, Swan.»
Corre dalla segretaria e le strappa la cornetta dalle mani.
«Dov’è Adam Swan?!»
Sonia lo guarda impaurita.
«Ma che fa?!»
«Mi dica dove è?!», le urla appoggiando la pistola sul bancone.
Sonia è terrorizzata.
«Mi aveva detto di non dirlo a nessuno, in particolare a lei.» Fa una
breve pausa, poi prosegue. «Ha detto che passava in ospedale, a far
visita a una parente.»
«Oh mio Dio! Darla!»
Corre verso l’uscita, componendo il numero di Dan.
Rispondi!
Arriva alla macchina e mette in moto.
«Pronto?»
«Dan! Jamad è Adam Swan. Hai capito?! Sta venendo in ospedale:
fermalo, non farlo entrare da Darla!»
«Julian...?»
«Dan, hai capito?!»
«Sei proprio sicuro?» il tono della voce si è abbassato.
«Si, ne sono sicuro! Dan, non farlo arrivare a Darla, io sto
arrivando.»
«È già qui.», sussurra. «Sta parlando con i medici. È amico del
262
primario e sta chiedendo come sta Darla.»
«Arrestalo ora!»
Dan si volta nella sua direzione. Lui lo sta osservando e quando
Dan se ne accorge si sposta dandogli le spalle.
«Mi ha visto che lo guardavo. Non vorrei che scappasse.»
«Fallo scappare, ma non farlo avvicinare a Darla!»
Dan si gira di nuovo, ritrovandosi di fronte il torace di Adam Swan.
«Me lo vuoi passare?» chiede puntandogli una pistola al fianco.
Dan si blocca e si lascia sfilare il cellulare dalla mano.
«Eccoci qua, Julian. Io con i miei scacchi ancora tutti in gioco e tu,
invece, privato dei tuoi pezzi migliori: Peter May, Darla e adesso
Dan.»
Pensa! Pensa come lui. Ragiona come lui. Non farti ingannare, c’é
sempre una via d’uscita.
Julian guida velocemente, superando le macchine che gli stanno
davanti.
«Hai vinto!» esclama.
In sottofondo il traffico della tangenziale. Adam non risponde
immediatamente.
«Ho vinto, dici? Credi che sia questa la mossa che ti farà vincere la
partita?»
«Tu hai vinto e io ho perso, non mi è rimasto nulla.»
Adam sorride.
«Sei bravo Julian e mi sono divertito. Tu credi che io ce l’abbia con
te perché hai arrestato mia madre, ma ti sbagli. Sinceramente non mi
frega di nessuno a questo mondo. Ti ho selezionato perché avevo
263
bisogno del migliore, per dimostrare che l’unica cosa che conta, in
questa vita, è la paura. Se l’uomo ha paura, fa le cose giuste, altrimenti
fa di testa sua e, prima o poi, sbaglia. E tradisce.»
«È per questo che hai ucciso i Barkley e don Elia, perché li ritenevi
dei deboli, dei viziosi?»
«L’uomo di valore, innanzitutto, deve avere dei valori. Non sei
d’accordo, Julian?»
La macchina esce dalla tangenziale e imbocca la trentaquattresima,
in direzione dell’ospedale.
«Sean Stolnhouse non ha mai seguito i casi di Laski e Sullivan, non
è così? Erano tuoi amici d’infanzia e, quando sono venuti in America,
ti sei offerto di diventare il loro avvocato.»
«Io non ho amici, ma se vuoi chiamarli così, fa pure. Diciamo che
io li ho sempre considerati dei bravi cani da riporto.»
Adam costringe Dan a scendere per le scale. Escono nel parcheggio
esterno e raggiungono una Cadillac nera. Apre il bagagliaio, estrae
una tanica di plastica e costringe Dan a entrarvi dentro.
«Scacco matto in tre mosse, Julian!»
Guadagna tempo, Julian, guadagna tempo!
«Perché Sarah? Aveva solo sedici anni, non poteva avere delle
colpe.»
«La mia nipotina Sarah Barkley? Beh, con lei è stato tutto diverso:
mi serviva per eseguire un test e se l’avesse superato probabilmente
non ci troveremmo qui, adesso. Era l’immagine dell’innocenza ed ero
certo che anche difronte alla paura più grande, avrebbe fatto le scelte
giuste. E invece ha ceduto subito, si è offerta come una cagna, pur di
264
salvarsi la vita. Era sporca come sua madre, come suo padre, suo zio e
andava eliminata prima che potesse riempire il mondo di altri esseri
immondi.»
Julian intravede in lontananza le ampie vetrate dell’ospedale.
«Ok, Adam, ma cosa vuoi adesso? Ormai hai ottenuto tutto quello
che volevi.»
Una lunga pausa. Il bagagliaio che si chiude. Le urla soffocate di
Dan.
Resisti, Dan, sto arrivando!
«Cosa voglio? Julian, ho scelto te perché sei il migliore, sei senza
macchia, sei L’uomo di valore. Fino adesso, tutti hanno fallito, tranne
te. Ma riuscirai a resistere fino alla fine?»
Avvicina il cellulare al baule, le grida di Dan sono strazianti. Dal
parcheggio dell’ospedale del fumo nero che sale verso il cielo.
«Oh no, cosa stai facendo?!»
«Julian, saluta il tuo amico per l’ultima volta.»
«Fermati, non farlo!»
Adam aggiunge altra benzina sulla lamiera in fiamme, poi
s’incammina verso l’ingresso dell’ospedale.
«Riuscirai a resistere fino alla fine senza commettere errori?»
Infine lancia il cellulare nel parcheggio.
«Maledizione, Adam!»
Dopo pochi minuti, Julian raggiunge la Cadillac in fiamme.
Scende, si togli la giacca e inizia a sbatterla sulle fiamme che stanno
arroventando il baule dell’auto. Un uomo della vigilanza accorre con
un estintore e si pone al fianco di Julian per tentare di domare
265
l’incendio.
«Resisti, Dan, resisti!»
Dal baule non si ode più nulla. Poi un sibilo acuto provenire dal
tappo del serbatoio. Il vigilante afferra Julian per un braccio e lo
trascina a forza dietro un furgoncino poco distante.
«Venga via, sta per esplodere!»
«Mi lasci!» gli grida continuando a guardare l’auto con gli occhi
gonfi per il fumo e le lacrime.
«Dan..!»
L’esplosione della Cadillac produce un’onda d’urto che fa
sobbalzare il furgone e distrugge i vetri di tutte le macchine nel raggio
di trenta metri.
Julian si lascia cadere sulle ginocchia.
«Dan...»
Se solo avessi avuto più tempo, sarei potuto cambiare.
Il mio nome è Remi Sullivan e sono stato adottato nel 1980. In
America non sono riuscito a farmi degli amici veri, come quelli che
avevo a Marsiglia, degli amici con cui poter condividere il male di
vivere. Qui, i miei compagni di scuola erano ancora dei bambini e
pensavano che i confini del mondo corrispondessero ai confini del
loro giardino. Quando sono partito ho chiesto a Maurice, il
giardiniere, se potevo portare con me Primo Maggio, ma non ha
voluto perché sarebbe mancato agli altri bambini. Primo Maggio è il
nome che ho scelto per lui e ricordarmi di questo me lo ha fatto sentire
più vicino.
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Gran parte del personale medico si riversa nel parcheggio
dell’ospedale per vedere cosa è successo. Due uomini della vigilanza
riescono a domare le fiamme, prima che arrivino i vigili del fuoco.
O’Malley è alla finestra del secondo piano e guarda la scena dall’alto.
Con la coda dell’occhio intravede un uomo che attraversa la sala
d’attesa e s’incammina verso le stanze di isolamento. Si volta, lo
segue con lo sguardo fino all’ultima stanza, poi torna a guardare il
parcheggio.
Pochi minuti e sopraggiunge anche Julian, trafelato e zoppicante.
Ha il volto sporco di fuliggine e piccoli tagli sulla guancia destra.
«Julian!», si avvicina preoccupato, «Ma cosa è successo?!»
«Hai visto passare Adam Swan?!» chiede senza fermarsi.
«No», poi ci ripensa e aggiunge, «è passato un uomo cinque minuti
fa, ma non penso fosse Swan.»
Julian raggiunge la camera di Darla ed estrae la pistola. Abbassa la
maniglia, apre la porta di pochi centimetri, poi la spalanca ed entra
con l’arma puntata verso il letto.
«Fermati Adam!»
«Metti giù la pistola o finisco di iniettarle il pentothal.»
Adam è al fianco di Darla con una siringa in mano e l’ago inserito
nel cateterino venoso del braccio.
Julian continua a tenerlo sotto tiro.
«Un colpo e ti freddo.»
«Sì, ma i due cc che le inietterò saranno sufficienti a trascinarla con
me. Metti giù la pistola, Julian.»
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Esercita una leggera pressione sullo stantuffo della siringa e il
monitor inizia a suonare per l’aumento della frequenza cardiaca.
«Ok, ok.»
Julian solleva le mani sopra la testa, poi china lentamente il busto
in avanti e appoggia la pistola sul pavimento.
«Ora allontanati da lei.»
Adam rimane a fissare Julian per alcuni secondi con un sorriso che
lascia intendere molto più di mille parole. Julian si trova nuovamente
con le spalle al muro, con poco tempo per pensare e per prendere la
decisione giusta. Lentamente fa scivolare la mano nella tasca ed estrae
la fotografia.
«Ho visto il quadro nel tuo studio. È il vestito di suor Odette,
vero?»
Adam non risponde.
«Sei stato tu ad ucciderla e a seppellirla nel giardino di Sullivan.
Perché l’hai fatto?»
«Aveva le sue colpe.»
«Sapevi chi era?»
Adam si allontana di un passo dal letto di Darla.
«Non ti immischiare in faccende che non ti riguardano.»
Il sorriso e l’espressione di sicurezza di pochi istanti prima,
lasciano il posto a un sottile velo di imbarazzo.
«Ho parlato con la madre superiore, a Marsiglia, e mi ha raccontato
che sei nato all’interno dell’istituto.»
Adam gira attorno al letto e raccoglie la pistola di Julian.
«Basta così.»
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Julian sorride.
«Non dirmi che non lo sapevi.»
Adam solleva la pistola.
«Non sapevi che tuo padre era il signor Millerau...»
La pistola puntata dritta al volto.
«...E che violentava tua madre Odette, nel capanno del giardino.»
Uno sparo.
Poi un secondo e un terzo.
Hanno sbagliato tutto. Avrebbero dovuto gettarci nel Rodano a
pochi giorni di vita, quando non eravamo ancora in grado di
distinguere il giorno dalla notte, il bene dal male. Perché avremmo
scelto le tenebre, sempre e comunque. Ora è troppo tardi e il male che
porteremo nel mondo sarà il nostro grido di vita all’umanità, il nostro
modo di far sentire la nostra esistenza. Perché non ci è mai stato
concesso di poter vivere e basta. Esistere. Noi possiamo solo
sostituire, siamo pezzi di ricambio, surrogati per mamme sterili e
padri impotenti, masturbatori incapaci del dono della vita. Vita in
cambio di morte, spazio in cambio di spazio. Di molto spazio. Se noi
esistiamo, noi mangiamo, e mangiamo tanto, mangiamo di tutto.
Perché il vuoto che portiamo dentro non si colma mai.
Julian apre gli occhi.
Di fronte a sé il corpo di Adam Swan disteso a terra, con due ferite
alla spalla e una in fronte. Si volta scorgendo la figura del sergente
O’Malley sulla soglia, con la pistola ancora fumante in mano.
269
«Non era Adam Swan, secondo te?», chiede abbassando le braccia.
«Comunque grazie.»
O’Malley sorride.
.
270
32.
Darla si avvicina all’armadio e tira fuori un paio di jeans.
«Allora vai a casa, oggi.»
Si volta.
«Julian! Ma dove li hai trovati?!»
Gli va incontro, lo bacia sulle labbra e prende il mazzo di fiori.
«I tulipani, dici? Li coltivava Sullivan in giardino. Chissà con che
cosa li concimava?»
Darla lo guarda di traverso.
«Quanto sei scemo.»
Si avvicina e l’abbraccia forte.
«Dovremmo farci una bella vacanza. Che ne dici?»
Lo sguardo di Julian va alla finestra e, oltre il vetro, alle nuvole
basse che si stanno avvicinando dalle montagne rocciose. Darla gli
passa una mano sulla guancia, poi aggiunge. «Lo so, anche a me
dispiace per Dan.»
Julian le prende la mano.
«Non è solo per questo. Da qualche giorno ho come dei flash, dei
frammenti di memoria che riemergono dalla mia mente. Frammenti
del giorno in cui, io e Peter, abbiamo arrestato Sullivan.»
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«Ti riferisci al giorno dell’incidente, quando sei caduto dal tetto del
forno?»
«Esatto. C’è qualcosa che non mi torna.»
Darla si siede sul letto.
«Cosa intendi dire?»
Julian si avvicina alla finestra, le nubi si muovono velocemente.
Apre il vetro e lascia entrare l’aria umida della sera.
«Quando siamo saliti sul tetto, non c’era nessuno.»
Darla Sorride.
«Come, non c’era nessuno?»
«Dal camino usciva una grande quantità di fumo e io e Peter ci
siamo avvicinati. Abbiamo guardato intorno, ma non c’era nessuno.»
Darla si alza e lo raggiunge alla finestra. Un fulmine in lontananza
illumina il cielo di Denver.
«E da dove è sbucato Remi Sullivan? Se non sbaglio, ti abbiamo
trovato sopra il suo cadavere.»
«Nessuno lo conosceva e l’aveva mai visto prima. Poteva essere di
chiunque quel corpo.»
Sorride di nuovo e gli prende il volto tra le mani.
«Julian, sei stato in coma per tre settimane. È normale che i tuoi
ricordi siano un po’ confusi.»
Un secondo lampo e per un istante gli occhi di Darla diventano
d’oro.
«Forse hai ragione. Cosa ne dici delle Antille Francesi?»
O’Malley entra nella stanza.
«Allora, sei pronta principessa?»
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Julian si volta con l’espressione di chi è appena stato risvegliato da
un elfo.
«È lui che ti accompagna a casa?! Darla, non posso permetterlo:
stasera sei mia ospite. Ho già prenotato il ristorante e tutto.» Poi,
rivolto al sergente, «Grazie O’Malley, ma la dottoressa è con me
stasera.»
O’Malley allunga il collo nella speranza che Darla intervenga in
sua difesa.
«Mi dispiace O’Malley, ma Julian è il mio capo e...non posso
disubbidirgli. Grazie comunque.»
Abbassa gli occhi e si chiude la porta alle spalle, senza aggiungere
altro. Julian si volta esterrefatto.
«Ma Darla, che combini?! Quello smetterà di pensare a te e a
fantasticare sulla serata che avrebbe potuto passare con te, quando
andrà in pensione!»
Darla fa una smorfia, poi si toglie la vestaglia e s’infila i jeans e la
maglietta. O’Malley entra di nuovo nella stanza.
«Scusate, avevo dimenticato di consegnarvi questa. È arrivata ieri
mattina.»
Julian prende in mano la cartolina, sul cui fronte è raffigurata una
spiaggia bianchissima bagnata da un mare di smeraldo.
«Non ci posso credere, Antille Francesi!» esclama.
Darla si avvicina per leggere. «È di Peter!»
Caro Julian,
qui il mare è una favola e i gamberoni non fanno venire l’allergia.
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Però alla lunga mi rompo i coglioni: quando posso rientrare in
servizio?!
Un saluto,
Peter
33.
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Le luci della sala si accendono e sullo schermo compare la scritta
FINE. La colonna sonora: una vecchia canzone di Aznavour. Le
persone si alzano e s’incamminano verso l’uscita, mentre la coppia in
ultima fila continua a baciarsi come due adolescenti al primo
appuntamento. Ma lei ne ha trentotto di anni, e lui ha folti capelli
brizzolati.
Poco distante, un uomo dal volto scarno e abbronzato li sta
fissando.
«Devo proprio?»
Silenzio.
«Non mi parli più? Ormai i titoli scorrono e le pagine sono
terminate.»
Nessuna risposta.
«Non farmelo fare.»
Sei libero.
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Lui sorride per la battuta inaspettata.
I due continuano a baciarsi come se il tempo non esistesse e le loro
vite dovessero durare in eterno. Lei indossa un vestito marrone,
scollato sul seno abbondante; i capelli rosso fuoco sono raccolti in un
fermacapelli di madreperla. Lui, e la sua mano che scivola sotto il
vestito.
«No, fermati Marc. Non qui», sussurra.
L’uomo vicino alla coppia inspira e chiude gli occhi. Adora quella
vecchia canzone, gli ricorda i pomeriggi passati al cinematografo con
gli altri bambini.
Il mio nome è Remi Sullivan, e sono morto.
Sono morto quando ho deciso di cambiare nome, per cambiare vita.
Ho preso il nome della pietra su cui mi ha baciato mia madre, suor
Magdalena, e ho preso il nome e il coraggio del cagnolino di Maurice.
Il mio nome è Peter May. E uccido ancora le ragazze dai capelli rossi.
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