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L’ONNIVORO di Andrea Bedini Sono pronto a testimoniare i miei crimini, ma vi prego di non tormentarmi con i loro dettagli: la mia psiche non sarebbe capace di sopportarli Andrei Chikatilo E gli domandò: «Come ti chiami?» «Mi chiamo Legione, perché siamo in molti» Marco 5, 9 2 Prologo La sala è ormai piena e il vociferare della gente si attenua fino al silenzio. Le luci sfumano lentamente e sullo schermo appare un piccolo chalet di montagna. Tutt’intorno la neve, caduta per giorni e giorni nelle ultime due settimane. A vederlo così, si ha l’impressione che il tetto possa crollare da un momento all’altro, sotto il peso della neve. Il piccolo camino si scorge appena, o meglio, se ne intuisce la presenza dal rivolo di fumo chiaro che sale verso il cielo plumbeo. I primi alberi di conifere sono a una cinquantina di metri e si aggregano fitti in una boscaglia che scende uniforme verso la vallata sottostante. L’aria è fredda e contrasta con la luce gialla che trapela dalla finestra, sul lato nord del capanno. Attraverso il vetro è possibile scorgere due figure. La prima appartiene a un uomo alto e robusto, ben piantato sulle gambe massicce che appoggiano sul pavimento di abete chiaro. Indossa una pesante camicia di flanella, pantaloni di velluto e grossi scarponi da montagna. É in piedi di fronte al camino, con le braccia protese verso il fuoco nel tentativo di riacquistare un po’ di calore. Il cranio è tondo, lucido e incredibilmente piccolo rispetto al resto del corpo. Le guance sono piene e arrossate e gli occhi ridotti a due sottili fessure. L’uomo 3 vorrebbe stendersi sul pagliericcio vicino al tavolo, ma è troppo infreddolito per muoversi. Le dita dei piedi sono raggelate negli scarponi e ogni piccolo movimento gli procura un dolore sordo che dalla pianta si estende fino ai polpacci. Dan Ranucci. Un uomo semplice, con alcuni punti fermi nella vita: mangiare, bere, scopare, e ammazzare qualche cervo ogni tanto. Ma non è mai stato bravo in questo e da alcuni anni ha sostituito il suo fucile da caccia con uno a canne mozze. Quando centra il bersaglio metà dell’animale si disperde nell’aria tra schizzi di sangue e brandelli di carne. A Dan piace il rumore che produce quando preme il grilletto, lo fa sentire forte, e compensa ciò che non è mai riuscito ad ottenere dalla vita, conferendogli quel senso di dominio che avrebbe sempre voluto esercitare sulle persone che incontrava. Ma Dan non è solo nel capanno. É con Peter May. Occhi freddi, come l’aria rarefatta all’esterno, e sangue freddo. Peter May è abituato al freddo, anche se il suo corpo non ne è fornito di alcuna protezione. É asciutto e teso, un nervo che s’inerpica per centottanta centimetri verso l’alto senza un filo di grasso. Il volto sembra scavato nel ghiaccio, con zigomi alti, sporgenti e il mento lungo, acuto, a chiudere un ovale duro sotto il cappello di cuoio; i denti sono piccoli e fitti, logorati dal tartaro e dal tabacco colombiano. É seduto sulla sedia a dondolo nell’angolo opposto al camino, al riparo dal tepore del fuoco. Ha per le mani il suo vecchio Winchester, modificato alcuni anni fa per essere più efficace al momento dell’impatto. Lo maneggia con cura, rimuovendo ogni traccia di polvere e umidità dagli ingranaggi del cane. Lo considera 4 parte di sé, un’estroflessione del suo braccio, della sua vista, della sua mente; una proiezione della sua crudeltà nel mondo esterno. Peter May è consapevole del proprio carattere e delle proprie emozioni. Cinismo allo stato puro, una roccia di granito da cui il tempo e la vita hanno spazzato via ogni traccia di pietà e senso dell’umorismo. Dan Ranucci ruota il capo in direzione dell’amico. Vorrebbe chiedergli qualcosa, rompere il silenzio che ha invaso il capanno e spezzare quel senso di angoscia che gli sta lacerando il petto. Da un punto oscuro del suo animo, sepolto sotto quintali d’immondizia, sente qualcosa che si muove, che tenta di emergere, di scuoterlo, di richiamarlo alla ragione e ricondurlo sui binari di un’eticità di cui a stento ricorda le fattezze. Sa di avere sbagliato a lasciarsi coinvolgere, ma sa anche che basterebbero poche parole per cancellare il senso di colpa che lo attanaglia. Il silenzio permane all’interno del rifugio e anche all’esterno è appena interrotto dal fruscio dei rami sferzati dal vento. Man mano che l’inquadratura si apre e si allontana dal capanno, l’oscurità si fa sempre più intensa e nonostante l’occhio non sia più in grado di distinguere nulla, le cose ci sono e oltre le cose i sentimenti, le paure, più vive e accese che un rogo d’estate. L’uomo disteso sotto un sottile strato di neve apre gli occhi e rimane a fissare le tenebre, col corpo attraversato da brividi di freddo e terrore. Dopo pochi istanti le pupille si dilatano sino al margine più esterno dell’iride e l’uomo inizia a distinguere i rami degli alberi che si biforcano e s’intrecciano a creare un fitto reticolo nodoso. Ha l’impressione di scorgere nell’oscurità alcune frasi, parole, lettere 5 impigliate nei rami, sostantivi e aggettivi che avvolgono i tronchi e scendono fino alle radici, in profondità, per poi riemergere dal manto gelato. Con estrema fatica solleva il capo, le braccia, il dorso e, nonostante il dolore alla schiena, riesce a mettersi in piedi. Ha un abbigliamento inadeguato per quella stagione: una giacca di camoscio , una camicia di cotone, un paio di jeans e scarpe da ginnastica. Julian Smoke cerca di riordinare le idee e recuperare i frammenti di vita che hanno preceduto il suo risveglio. Il nulla riaffiora e galleggia nella sua mente come uno spettro sull’acqua, divertito dall’incoscienza e dal disordine emotivo del suo ospite. La bocca è arida e la gola infiammata: a ogni respiro, l’aria penetra nel torace e dilata i polmoni producendo un rumore acuto, metallico. Barcolla, ma riesce a compiere alcuni passi appoggiandosi al tronco degli alberi; con la mano si porta un pugno di neve alla bocca, nel tentativo di rimuovere quel gusto acre di ammoniaca che gli pervade il palato. In lontananza, la luce fioca del capanno. Raggiunge l’ingresso, ma qui è assalito da un terribile presentimento ed esita prima di bussare alla porta. Poi desiste. Appoggia la mano alla parete di legno e la lascia scorrere fino allo stipite della finestra. Col cuore che martella furioso, getta lo sguardo oltre il vetro appannato. Da qui la sequenza degli eventi è troppo rapida per essere assimilata, codificata, interpretata. L’uomo sotto il cappello di cuoio si gira di scatto verso quello in piedi, di fronte al camino: due lampi di fuoco illuminano la stanza e la detonazione provoca una forte vibrazione di vetri. Il piccolo cranio di Dan Ranucci esplode nell’aria e il suo contenuto gelatinoso va a tingere di rosso le pareti e il soffitto 6 del rifugio. Il corpo si mantiene in equilibrio ancora qualche istante, prima di crollare in avanti, tra le braci del focolare. Julian Smoke indietreggia atterrito e, cadendo all’indietro, esce dal campo visivo di Peter May che si è voltato di scatto verso la finestra. Con la mente annebbiata inizia a strisciare nella neve, dirigendosi verso il buio e raggiungendo rapidamente la boscaglia attorno al capanno. Si ripara dietro un grosso tronco, con la sensazione di essere giunto anzitempo alla conclusione della storia. La porta del rifugio si apre e il cono di luce è presto interrotto dalla figura dell’uomo col cappello che guarda nella sua direzione. Senza pensare a nulla, Julian inizia a correre dalla parte opposta, verso la discesa ripida che scende a valle. Urta contro i tronchi e i rami bassi degli alberi, ma prosegue la fuga, con la sola speranza di svegliarsi al più presto da quell’incubo. La suola di gomma fatica a reggerlo sul fondo innevato e più volte si ritrova a precipitare in avanti, col terrore di non riuscire più ad alzarsi. Poi, a cento metri dal capanno, un botto violento contro la lamiera di un furgone nascosto nel bosco. L’impatto è duro e le braccia non riescono ad attutire lo schianto del volto. Julian si rialza e senza voltarsi in dietro, inizia a tastare la carrozzeria fino a trovare la maniglia della portiera. La apre ed entra. Le chiavi sono inserite nel pannello dei comandi. Prova a mettere in moto e dopo un paio di tentativi, il motore si accende. Un boato all’esterno anticipa di poco la frantumazione del lunotto posteriore. Julian ingrana la prima e pesta sull’acceleratore mettendo in moto il furgone: i rami davanti al parabrezza vengono spazzati ai lati del piccolo stradello nel bosco. Un 7 secondo sparo, ma Julian è già troppo lontano perché Peter May possa arrestare la sua fuga. Dopo cento metri, il sentiero sbocca su una strada asfaltata e Julian sterza bruscamente a sinistra, facendo pattinare le ruote posteriori. Alla luce dei fanali la neve sembra azzurra e si allarga dai bordi della strada verso il bosco scuro. Dopo mezz’ora il cuore non ha ancora ripreso un ritmo regolare: la paura, l’adrenalina e il freddo continuano a circolare nel sangue, nel cuore della notte, nel cuore del nulla. Poi ecco in lontananza un minuscolo punto luminoso che si fa più intenso col procedere del furgone. Nel parcheggio della stazione di servizio solo due vetture. Julian parcheggia nella zona più scura, dietro a un TIR con rimorchio. Scende e s’incammina verso l’ingresso del locale. All’interno poche persone: il barista, un ciccione al tavolo, un uomo al bancone vestito di scuro e, in fondo alla stanza, una donna attempata, dai vestiti succinti, che ondeggia i fianchi al ritmo di Suspicious minds. Julian riceve uno sguardo di superficie dal barista, intento a sciacquare un boccale di birra, e uno più curioso dal camionista al tavolo. «Non dovresti essere qui.» gli sibila da dietro l’uomo in abito nero. Il tempo di girarsi, e un colpo alla nuca gli fa perdere l’equilibrio in avanti. Si appoggia al bancone, portandosi la mano alla testa, ma un secondo colpo gli oscura completamente la vista e il contatto con la realtà. 8 1. «Qualcuno mi sente? Sono qui!» Le grida sono smorzate dalle pareti spesse dell’anfratto. L’aria del buco è viziata, umida e c’è odore di urina. Il terreno è fresco, a tratti bagnato, e dove sono presenti avvallamenti più profondi si trasforma in fango denso. Da circa mezz’ora l’oscurità è divelta da un raggio di luce che penetra da una sottile fessura a una decina di metri dal terreno. Sarah adesso riesce a mettere a fuoco l’ambiente in cui è contenuta, lo spazio che, durante la notte, le è parso infestato da insetti e falene assassine. Adesso può comprendere meglio la sua situazione e quante probabilità ha di uscirne indenne. I polsi e le caviglie sono stretti a lunghe catene che originano dalla parete rocciosa. La tana in cui si trova è larga circa sei metri e si estende in lunghezza per otto, assottigliandosi all’estremità. Un grosso portone di legno è posto a circa metà della parete; non sono presenti lucchetti o serrature e guardando con più attenzione sembra solo accostato. Il primo pensiero è di raggiungere la porta e guardare oltre, raggiungere il suo rapitore e tentare di spiegare che si è sbagliato, che non può aver preso la persona giusta, che la sua famiglia non è ricca e che c’è stato 9 sicuramente un malinteso. E se non fossero i soldi quello che vuole? Un brivido di orrore la pervade. Ora è immobile, atterrita, tesa. Piccole gocce di sudore le scivolano lungo la schiena, fredde come rugiada, affilate come bisturi. I pensieri, il respiro e i battiti cardiaci non sono più sincronizzati, ma divelti in una danza spasmodica che porta troppo ossigeno al cervello: la vista si appanna e forti capogiri l’assalgono, a stento trattiene un primo conato, ma il secondo è più forte, intenso, improvviso. «Ti prego.» sussurra, «Non ho fatto niente di male.» «Lo so.» Sarah sobbalza all’indietro emettendo un gemito strozzato. La voce proviene dall’estremità buia dell’anfratto. «Chi c’è?» sussurra con un filo di voce. Il buio non risponde. Il silenzio si fa più intenso, avvolgente, quasi denso; l’aria è irrespirabile, torrida, e per alcuni istanti il respiro di Sarah si interrompe, mentre il cuore continua a correre forsennato, lacerandole il petto e la mente. Con un movimento impercettibile allunga il collo verso la parete più lontana del buco cercando di mettere a fuoco un punto nell’oscurità: ha l’impressione di scorgere un tenue bagliore, il luccichio di un anello o di un orecchino, un piccolo oggetto di metallo che riflette debolmente il fascio di luce dal soffitto. «La vorresti?» Ecco di nuovo quella voce roca, bassa, di chi ha fumato tanto e per tanto tempo. La reazione di Sarah è meno drammatica, simile a quella 10 di chi sente un cane abbaiare oltre un cancello, meno orrenda, più razionale, la reazione del topo che prende fiato non appena il gatto fa per andarsene. Dopo un lungo sospiro risponde al suo interlocutore. «Farò tutto quello che vuoi.» «Davvero?» «Te lo giuro! Tutto quello che vuoi, ma adesso liberami.» «Cosa faresti, per me?» Silenzio. «Cosa faresti, Sarah?» Allora non si è sbagliato, non è stato un errore. «Cosa faresti, per me, Sarah Barkley?» «Tutto!» grida con la voce rotta dal pianto. «Tutto cosa?» Silenzio. «Se vuoi posso...toccarti.» sussurra Sarah. «Bene. E poi?» Silenzio. «Sei vergine, Sarah Barkley?» Buio. «Ti ho chiesto se sei vergine, Sarah?!» Una leggera brezza si alza nell’anfratto e accarezza il volto di Sarah rinfrescandole il collo e le spalle. Ora vede il piccolo oggetto avvicinarsi e dietro di lui un’ombra alta, dalle spalle larghe, leggermente inclinata a destra. Il capo è coperto dal cappuccio di una felpa o di una giacca sportiva. A due metri da lei si ferma, allunga un braccio verso il suo viso e le mostra l’oggetto metallico. 11 «La vorresti?» Una piccola chiave di ferro le penzola davanti agli occhi. «Ti prego, lasciami andare» singhiozza nuovamente. «Non voglio che tu mi tocchi, voglio che tu mi nutra.» Sarah emette un sospiro di sollievo. «Davvero?» accenna un sorriso. L’ombra si china su di lei, le annusa i capelli e con il dorso della mano le sfiora una guancia. Sarah si scosta inorridita; la mano scende quindi lungo al collo, le sfiora un seno e risale verso la spalla e il braccio umido. «Sai di buono.» Appoggia le lebbra socchiuse sul collo di Sarah, ne inspira l’odore, un bouquet di orchidea e biancospino; la punta della lingua scorre nell’incavo del collo e risale fino al mento. Il sapore di sale e paura gli trasmette una forte eccitazione: si ferma un istante mentre il corpo di Sarah è scosso da un fremito continuo. Si allunga fino alla bocca, le giovani labbra sono serrate, contratte; il respiro di Sarah è frequente, affannoso, e l’uomo può sentire il calore dell’aria che esce violentemente dalle narici. «Sei fortunata, sei così giovane e bella.» Sarah scosta la testa di lato tenendo gli occhi e le labbra chiuse. Vorrebbe reagire, urlare, ma è paralizzata. Nella mente scorrono frammenti di una preghiera che la nonna le recitava da bambina, prima di addormentarsi. Sono ricordi offuscati e le parole di quella invocazione non trovano un ordine sensato. Le lacrime si fanno breccia tra le palpebre e scendono oltre gli zigomi e le guance in 12 fiamme. «Perché...?» riesce a sussurrare. L’uomo si scosta appena. «Perché a me?» «Credi che le tue lacrime sarebbero meno amare se ti dicessi il perché?» Con la lingua ne assaggia il gusto intenso. Sarah socchiude gli occhi, tenendo la testa china verso il basso: le scarpe dell’uomo sono pesanti, da montagna, con macchie scure sulla tomaia, come schizzi. Può sentire il profumo del suo rapitore, un aroma naturale, non alterato da artefatti chimici, una miscela di fragranze forti, selvagge, che spaziano dalla resina al fango, dalla carne di maiale al fieno bagnato. Sente odore di pioggia. Un tuono irrompe nell’anfratto. La luce, che prima penetrava decisa dal soffitto, ora è più tenue. Un secondo tuono devasta il silenzio e alcune gocce iniziano a cadere all’interno del buco. «Puoi andare.» Le braccia di Sarah crollano lungo il corpo, inermi, con i polsi dolenti per le catene che li hanno stretti da oltre dodici ore. Solleva terrorizzata il capo e prova a scrutare oltre il cappuccio che si trova a meno di mezzo metro da lei. È un attimo, ma distoglie subito lo sguardo. Le labbra si stirano nell’abbozzo di un sorriso. Scivola con la schiena lungo la parete rocciosa ed esce dall’ombra del suo rapitore, ruota il corpo di centottanta gradi e, continuando a fissare le spalle 13 dell’uomo, indietreggia verso il portone. Lo raggiunge, ne tasta il legno massiccio, lo apre e inizia a correre lungo il corridoio buio. Dopo una ventina di metri, la corsa si fa più incerta e Sarah è costretta a rallentare per evitare di cadere a terra. Senza fermarsi, si volta indietro: il portone è spalancato, ma nessuno la insegue. Procede ansimante ancora qualche metro, poi il corridoio si allarga aprendosi in una stanza da cui partono altri vicoli stretti. Senza pensarci, imbocca il primo a sinistra, procede alla cieca tastando le pareti di roccia, inciampa una prima volta. Si rialza, barcolla in avanti con le gambe tremanti, inciampa di nuovo, procede a carponi fino a una porta socchiusa. Si rialza e la spalanca con forza, ritrovandosi in un anfratto identico a quello in cui si è risvegliata, ma nel quale è in scena la più terribile delle esecuzioni. Appeso alla parete un uomo sulla cinquantina, con le braccia incatenate, le gambe inermi e il capo chino sul petto. E’ completamente nudo. La pelle dell’addome è stata rimossa, lasciando intravedere la muscolatura purpurea e i legamenti più chiari. Il fianco destro è scavato, asimmetrico, meno regolare rispetto al sinistro. Sarah è una statua di granito, immobile al centro della camera, con gli occhi sbarrati, la bocca spalancata e il cuore che continua a pompare sangue alle tempie ad una velocità eccessiva. L’odore del sangue è forte, pungente e pervade l’intera stanza. Le gambe dell’uomo sono magre e ricoperte da grumi scuri; ai piedi, un secchio di metallo ove è stato raccolto il sangue. In uno stato di semi-coscienza, Sarah tenta di muovere le gambe in direzione dell’uomo: il tempo per compiere il primo passo appare 14 infinito. Ne compie un secondo lentissimo e si ferma a due metri da quel corpo seviziato. Un movimento quasi impercettibile del capo fa riscuotere Sarah dallo stato di shock. L’uomo solleva leggermente la testa; Sarah di nuovo immobile, terrorizzata; un altro piccolo movimento che rende visibile la fronte; in Sarah un primo bagliore, una sensazione d’orrore; ancora una lieve estensione e quegli occhi chiari che l’hanno osservata per anni. «Sarah...» in un soffio. «Nooo!» Sarah si getta al collo del padre, lo afferra, si allunga per raggiungere le catene a cui sono legati i polsi, inciampa nel secchio e rovescia il sangue a terra. «Resisti papà, adesso chiamo qualcuno!» Si volta e scorge l’ombra nell’ombra. «Cosa hai fatto, maledetto!» si scaglia contro l’uomo che resta immobile. Lo scontro è violento e Sarah cerca di colpire il suo volto ancora celato dall’oscurità; picchia forte, lo strattona, ma anche allungando le braccia non riesce ad arrivare al capo, data la differenza di altezza. «Sei un bastardo!» continua a urlare piangendo. «Maledetto, maledetto!» Con un salto riesce a colpire il mento dell’uomo che si sbilancia a destra; con un secondo salto afferra il lembo del cappuccio e lo sfila di lato. Sarah rimane immobile a fissare quei lineamenti così familiari. «Sei...tu?!» 15 «Non era difficile da capire.» Il movimento dell’uomo è fulmineo, spalanca la bocca e azzanna il collo di Sarah lacerandole carotide e trachea. Un tenue vagito fuoriesce dalla bocca, seguito dal ribollire dell’aria nel sangue; gli occhi verdi bagnati dal dolore e dall’angoscia di morire, le braccia flesse contro il petto in un debole tentativo di liberarsi dal suo assassino. Il morso è feroce e violento; con una rotazione del capo verso l’alto solleva il corpo di Sarah di alcuni centimetri, risucchiandone le ultime tracce di vita. Quando il corpo di Sarah smette di contrarsi, molla la presa facendolo cadere a terra. Si china sul cadavere, estrae un grosso coltello da caccia e lo passa lungo i bottoni della camicetta. Li fa saltare ad uno ad uno, poi scende all’elastico dei pantaloni da jogging, lo taglia di netto e sfila gli slip e il reggiseno. Si ferma alcuni istanti a contemplare la pelle diafana, i seni piccoli e tondi, l’ombelico perfetto sul ventre piatto e i peli rossi del pube. Poi si spoglia e si rannicchia accanto a lei. Sente che l’eccitazione si sta spegnendo e con essa il vigore delle ultime ore; si sente svuotato di ogni forza, energia, ma sa che il lavoro non è ancora finito. Chiude gli occhi e si lascia trasportare dal profumo di Sarah, alla villetta dove è cresciuta, nella prima periferia di Denver. La vede correre sul prato di fronte a casa, cercando di catturare due scoiattoli che fuggono sul grande acero in giardino. È primavera e non sa di essere osservata. Dalla strada lui riesce a distinguere molto bene i lineamenti regolari del viso, la netta somiglianza col padre, la voce dal timbro vivace. Non avrà più di diciassette anni e sembra felice della 16 vita. Ad un tratto lei si ferma e volge lo sguardo nella sua direzione: è impossibile che l’abbia visto, seduto com’é sui sedili posteriori e con i vetri oscurati. Eppure lei sorride e solleva il braccio salutandolo con la mano. Continua a sorridere, ma solo con le labbra: gli occhi appaiono tristi e oppressi da un dolore lontano, irrisolto. Quello sguardo lo cattura e dopo un attimo di esitazione decide di abbassare il finestrino per vederla meglio; lei continua a sorridere e i loro sguardi si incrociano per un tempo indefinito. Poi una voce dall’interno della casa. «Sarah, è pronto!» Lei si gira e corre fino alla porta senza più voltarsi. Quando riapre gli occhi, si rende conto di avere dormito per almeno mezz’ora; quella breve pausa gli ha permesso di recuperare le forze. Si solleva in ginocchio e inizia a lavorare sul corpo di Sarah. Mentre incide la cute dell’addome, gli occhi si bagnano e alcune lacrime cadono sul petto e si perdono nel terreno umido. 17 2. «...Non dovresti essere qui.» Julian Smoke accenna ad aprire le palpebre. Sente ancora freddo, sente ancora quel rumore metallico e quel gusto di ammoniaca in bocca. «Non so se hai realmente capito la gravità della situazione?» «Non ti preoccupare, é tutto sotto controllo.» «Sotto controllo?! Questa mattina Jennifer Wayne della NBC è riuscita ad entrare in ufficio e mi ha fatto un sacco di domande sulle indagini, sulla ragazza ritrovata e sulla sua identità. Non so per quanto potrà reggere ancora il nostro No comment!». Julian socchiude gli occhi, le due ombre nere accanto al letto si muovono velocemente, si guardano, si parlano. La più grossa allunga un braccio e gli sfiora la mano. Julian tenta di allontanarsi, ma resta immobile: il corpo è pesante e restio a rispondere ad ogni comando. «Guarda, ha aperto gli occhi!» Peter May si avvicina al letto. «Julian, mi senti? Sapevo che non ci avresti abbandonato.» «È andato di nuovo.» osserva Dan. «Credi che sarà in grado di ricordare qualcosa?» 18 «Non lo so. Metti due agenti alla porta e fammi chiamare non appena riprende i sensi.» Julian apre gli occhi. La stanza è in penombra e dalle persiane filtrano tenui i raggi del sole. Solleva faticosamente il braccio e si porta la mano alla bocca. Un tubo di plastica gli penetra in gola e, ogni volta che gli insuffla aria nei polmoni, emette un sibilo acuto. Ruota il capo e osserva un’infermiera sulla cinquantina, con fianchi e seni abbondanti, che canticchia Suspicious minds. Sta trafficando con una flebo e si accorge che è sveglio. «Bentornato», risponde al suo sguardo. Julian socchiude le palpebre e corruga la fronte. Infermiera D. Morales, legge sulla divisa. Torna un istante alla flebo color ruggine e poi inizia a guardarsi intorno; nella stanza sono presenti altri cinque letti che ospitano pazienti in condizioni simili alle sue. Solo la signora di fronte sembra essere in leggero vantaggio sugli altri, seduta sul letto a leggere il giornale. Cosa diavolo è successo?! Nessun ricordo è abbastanza nitido da poter essere utilizzato come testimone affidabile. Ha memoria delle indagini in Texas e degli omicidi di quello che la squadra aveva definito il Fornaio di Denton. I sospetti erano ricaduti su Remi Sullivan, un fantasma senza un passato, un’ombra nella notte. Ma da lì in avanti non ricorda nulla. L’infermiera Morales gli aggiusta il lenzuolo e prima di allontanarsi lo saluta strizzandogli l’occhio. La signora del letto di fronte lo sta osservando: ha il volto gonfio e le braccia enormi, il 19 colore della pelle arancione e anche le orbite degli occhi hanno cambiato colore virando verso il giallo limone. I raggi del sole non trapelano più dalla finestra e il cielo, oltre il vetro, appare di un intenso blu cobalto. Julian si sente molto stanco. Tenta di sollevare il busto, ma non appena si muove, il monitor inizia a suonare e due infermieri corrono a controllare il tracciato. Uno dei due gli inietta in vena una sostanza bianca e pochi istanti dopo, tutto si tinge di piombo. Quando si risveglia, Peter May è in piedi di fianco al letto. Sorride mostrando la dentatura fitta e tenendo tra le labbra un sigaro spento. «Vecchio porco, ce l’hai fatta anche questa volta!» Julian tenta di rispondere, ma sente la bocca arida. Non ha più nessun tubo in trachea e riesce a respirare autonomamente. «Dove...sono?» riesce a chiedere con un filo di voce. «Sei in terapia intensiva, all’Ospedale Pubblico di Denton. Sei ricoverato da cinque settimane. Non ricordi nulla?» Accenna un no con la testa. «L’hai ammazzato quel figlio di puttana. Il problema é che sei precipitato con lui da dodici metri e ti sei perforato un polmone.» Julian si tocca il torace con una mano. «Il polmone destro. Remi Sullivan è morto sul colpo, tu sei stato più fortunato. Siete volati giù dal tetto del suo forno. Sai quanti resti abbiamo trovato nella fornace? Nessuno. Però aveva un archivio dove sono stati ritrovati nove crani e nove paia di scarpe, tutte corrispondenti a quelle indossate dalle ragazze il giorno della 20 scomparsa.» Non ricordo nulla! Julian annuisce debolmente con la testa e accenna a Peter di proseguire. «Non c’è molto altro: non sappiamo il movente, né se Sullivan abbia ucciso altre volte in passato. Conduceva una vita isolata e non aveva parenti. Abbiamo perquisito la sua casa e non abbiamo trovato nessun oggetto delle vittime: com’è possibile che non conservasse a casa qualcosa che gli potesse ricordare quelle ragazze?» «...il divano?» «Non c’era nulla, né sotto, né tra i cuscini.» «...il divano», insiste stremato. Peter si ferma un istante, poi estrae il telefono dalla giacca e chiama. «Manda subito qualcuno a casa di Sullivan a controllare il divano. Lo devono aprire e controllare all’interno, centimetro per centimetro. Ora!» Riattacca e torna a guardare Julian negli occhi. «Come stai?» «...ho fatto un sogno strano.» «Ci credo, sei imbottito di morfina.» «Ammazzavi Dan.» Peter abbassa la voce e lo sguardo. «Julian, sono venuti gli affari interni.» «Signore, l’orario di visita è finito. Si deve accomodare.» L’infermiera Morales incrocia lo sguardo di Peter May, lo sguardo 21 da killer che riserva all’umanità e dal quale sono esclusi solo pochi eletti. L’infermiera risponde con un sorriso teso e aggiunge: «Può restare ancora cinque minuti.» «Sono venuti, ci hanno interrogato, ma nessuno ha parlato. Non hanno nulla in mano.» Julian continua a osservarlo. È sempre stato bravo in questo: ha quello che nell’ambiente viene chiamato Il dono, ed è in grado di smascherare qualsiasi bluff o balla che gli propinano. Nel bene e nel male. È stato grazie a questo suo talento che aveva scoperto la relazione della moglie. «Charlotte?» «Sta bene, è passata a trovarti anche la settimana scorsa.» Julian inspira profondamente. «Ora vado, ci vediamo domani.» Julian torna ad osservare Peter e si rende conto che non è lui che sta bluffando. È qualcosa che si muove alle sue spalle, sono movimenti meccanici, poco naturali, occhiate fugaci, furtive, una combinazione di gesti artificiosi e piccoli particolari tipici di una personalità meschina. Si allunga sul letto per vedere meglio, ma l’uomo in abito scuro si è già allontanato. «Chi è …quell’uomo?» Peter si volta, ma non vede nessuno. «Quale uomo?» «...seguilo», aggiunge sfinito. «Facciamo che adesso ti riposi e non pensi a niente. Julian, c’è un’altra cosa che ti devo dire.» 22 Julian torna ad appoggiarsi al letto. «È scomparsa una ragazza a Denver, due mesi fa, ed è stata ritrovata ieri nei boschi attorno a Coal Creek. Era in condizioni pessime, sia per il clima, sia per come l’avevano ridotta. Ci sono molti punti oscuri e...abbiamo bisogno del tuo aiuto.» Julian non risponde. «Va beh, torno a trovarti domani.» Julian osserva l’amico allontanarsi dalla stanza. Inspira più volte, avvertendo un dolore acuto al torace, seguito da alcuni colpi di tosse. Si copre la bocca con un tovagliolo che si sporca di sangue. Tenta di piegare le gambe, ma restano immobili come due barre di ferro. Dopo numerosi tentativi, riesce a flettere di pochi millimetri l’alluce destro. Un primo passo, verso il mondo esterno. Julian Smoke ha un polmone perforato, è immobile in un letto d’ospedale da cinque settimane ed è uscito dal coma da meno di ventiquattro ore. È molto stanco e vorrebbe chiudere gli occhi per altri trenta giorni, ma sa che la sua convalescenza è terminata oggi, con la visita di Peter May. 23 3. «Guarda come si è vestito oggi!» bisbiglia all’amica. «Dai, Cloe, sei davvero cattiva. Però, hai ragione», sorride Laura. «Ti ricordi ieri sera, alla festa di Harold? Si è avvicinato a Margaret e ha provato a chiederle qualcosa. Io ti giuro non ci credevo, non ce l’ho fatta e sono scoppiata a ridergli in faccia.» «Che stronza.» «Stronza io? Ma scusa, ti sembra giusto mettere in imbarazzo Margaret con quel maglione a scacchi,... oddio non riuscivo a smettere di ridere.» «Va bene, anche tu però a lasciargli quel messaggio sulla scrivania: Alla festa di Harold avrò una camicetta bianca e una gonna rossa, non mi deludere. Che troia, lo sapevi dal pomeriggio come si sarebbe vestita.» «Lo so, ma sarebbe stata una festa noiosissima e volevo ravvivarla un po’.» «Beh dai, non ti mancherà un po’ il vecchio Harold, ora che va in pensione?» «Il vecchio porco Harold, vorrai dire?» «Cloe, ma qual’è il tuo problema oggi, cosa hai combinato ieri 24 sera?» «Non ho combinato proprio nulla. Ho aspettato il mio ragazzo fino all’una, in guepierre e calze nere, ma quel coglione ha preferito giocare a poker tutta la notte. Cazzo, ma ti rendi conto? Ho ventisette anni, passo in palestra otto ore alla settimana, ho un corpo levigato come il marmo e quel finocchio preferisce stare con i suoi quattro amici a giocarsi la paghetta della settimana. Ne ho le palle piene, ho voglia di cambiare e stasera esco a cercarmi un vero uomo. Tu ci sei?» «Guarda, si sta alzando.» «Ha la camicia infilata nei mutandoni di lana!» «E che scarponi, ma dove vive?» «Oddio, si è girato e viene verso di noi. Non, non venire qui, non chiederci nulla.» «Scu...scusate» «Smettila di sghignazzare» sussurra Laura all’amica. «Scu..scusate cosa!?» e giù a ridere. «A...avreste un tem...temperino?» «Ma che cosa dici, Earl, non siamo a scuola. E poi a cosa ti serve, a fare la punta alla tua matita?!» Cloe si piega sulle ginocchia con le lacrime agli occhi. Earl inspira e chiude gli occhi per qualche secondo. Quando li riapre, lo sguardo è meno spento. Laura smette di ridere e tira una gomitata all’amica ancora piegata in avanti. Cloe alza la testa e incrocia lo sguardo freddo di Earl. «Cosa c’é, ti sei arrabbiato?» inizia calma alzandosi, «Qui davanti non ci devi più passare, capito!» grida sbattendo i pugni sulla 25 scrivania. Earl inspira di nuovo e con la mano si stringe il polso destro conficcandosi le unghie nella carne. «Cosa fai ancora qui, smamma!» «C’è qualche problema, ragazze?» chiede Harold, buttando la testa oltre il paravento della sua scrivania. «C’è che Earl si è soffermato un po’ troppo a guardare le gambe di Laura.» «E come dargli torto.» «Sei il solito coglione!» Earl si gira, raddrizza la schiena e torna alla propria scrivania con passo lento. «E dire che non sarebbe neanche brutto, se non fosse...così.», bisbiglia Laura guardandolo da dietro. «Ma per favore! Certo che anche tu sei in astinenza dura, eh? Da quanto tempo non ti fai una bella scopata?» «Ma che dici, la mia vita sessuale è molto attiva, anche se non lo sbandiero ai quattro venti.» «Vedremo stasera, ci stai a fare un gioco?» «Sentiamo.» «Andiamo al Sixty Five e vediamo chi ne rimorchia di più. Chiamiamo anche Margaret» «E cosa si vince?» «Facciamo che non si vince niente, ma che si può perdere tutto.» «In che senso?» «Chi perde inviterà a cena Earl Laski, ci stai?» 26 «Wow, certo che tu non sei normale. Perfetto, aspetta allora che prenoto una seduta al Beauty Inn per le sei.» «Paura di perdere, eh?» Alle cinque e trenta Earl marca il cartellino d’uscita e s’incammina verso il corridoio principale della Friederich West Company. Preme il tasto e dopo pochi secondi le porte dell’ascensore si aprono. Nello specchio osserva l’immagine di un uomo che non troverà mai posto in questo mondo. I capelli castani e arruffati cadono sulle tempie e sulle spalle a ciocche irregolari. I piccoli occhi celesti si muovono nervosamente dietro la montatura nera degli occhiali. La pelle del viso è pallida, ma di un colore violaceo sulle guance; la mascella è squadrata e ricoperta da pochi millimetri di barba ispida. La camicia a piccoli quadretti verdi e nocciola non contribuisce a migliorare l’aspetto di Earl che ora è all’interno dell’ascensore. Preme lo zero continuando a fissare la sua immagine allo specchio. Si passa una mano tra i capelli, piega la testa di lato e inarca un sopracciglio: vorrebbe essere diverso, normale, riuscire a parlare senza incepparsi ogni volta, sorridere a una ragazza senza avvertire un forte senso di nausea, uscire con i colleghi d’ufficio qualche volta, a bersi una birra e a parlare di sport. Ma in cuor suo sa benissimo che non potrà mai cambiare la sua natura: il burattino è difettoso dalla nascita e non c’é modo di ripararlo. Ci hanno provato tante volte senza ottenere alcun risultato. Ricorda ancora quando i suoi genitori l’avevano accompagnato, a sette anni, dal neuropsichiatra infantile. Erano preoccupati perché lo 27 vedevano sempre triste, apatico. Ma quello che li aveva letteralmente sconvolti era stato trovarlo nel letto abbracciato a un gatto morto. L’indomani, avevano preso un appuntamento dal migliore specialista della città e alle quattro in punto si era ritrovato in uno studio del centro, di fronte ad un’elegante donna di colore. «Ciao Earl, io sono la dottoressa Leclerc, ma tu puoi chiamarmi Francisca.» Gli aveva allungato la mano esile e scura che lui aveva scrutato con interesse, senza tuttavia ricambiare il saluto. «Quanti anni hai?» gli aveva chiesto sorridendo e stringendo appena gli occhi. «Earl non parla molto volentieri con gli estranei.» era intervenuto il suo papà. «Mi piacerebbe rimanere qualche minuto da sola con lui, se non vi dispiace.» I genitori avevano accettato volentieri accomodandosi nella sala d’aspetto. «Mi hanno detto che sei un bambino molto bravo, è vero?» aggiunse Francisca, non appena rimasti soli. Lui continuava a guardarla giocherellando con le dita. «Ho qualcosa che potrebbe piacerti, lo vuoi vedere?» Annuì leggermente. Francisca si alzò e si avvicinò alla libreria, prese un unicorno di legno bianco e glielo appoggiò davanti. «Ti piace?» Annuì di nuovo, allungando le mani verso il giocattolo. Lo prese e 28 se lo portò vicino alla bocca, lo annusò e infine lo assaggiò con la lingua. Francisca osservò la scena impassibile, poi si avvicinò a Earl e gli appoggiò una mano sulla spalla. «È bello vero? Si chiama Duffy.» Mentre ancora parlava iniziò a stringergli il muscolo del collo, dapprima delicatamente, poi sempre con maggiore forza. Earl continuò ad annusare il cavallo, con gli occhi socchiusi, senza più considerare ciò che gli accadeva attorno. Quando i suoi genitori rientrarono, si fermarono a parlare con la dottoressa in una stanza adiacente allo studio. Nei mesi successivi, incontrò la dottoressa Leclerc numerose volte e ci fu un periodo in cui gli sembrò di sentirsi meglio. Ma fu per un periodo breve. Le porte dell’ascensore si aprono ed Earl s’incammina verso il parcheggio. Il viaggio verso casa è breve, nonostante i lavori sulla Andrews. E’ una giornata afosa, ma all’orizzonte si intravedono nuvole scure che si avvicinano a valle. «Pioverà ancora.» bisbiglia. Parcheggia il pick-up davanti al garage e scende lentamente. Prima di entrare in casa butta lo sguardo verso il cielo e annusa l’aria. «Sarà una notte speciale. Ti prometto che non ti farò male.» Entra in casa per una decina di minuti, poi esce con una grossa sacca di tela e una giacca sportiva impermeabile. Monta sul pick-up e si dirige a ovest, sulla settantesima, in direzione del Coal Creek Canyon. Dopo circa un’ora abbandona la strada principale e imbocca un 29 sentiero sterrato che sale verso l’alto per due chilometri. Parcheggia vicino all’imbocco di una galleria abbandonata, prende il borsone ed entra facendosi luce con una torcia elettrica. Estrae dalla tasca dell’impermeabile un sandwich al formaggio, lo addenta senza piacere e prosegue verso le viscere della montagna. Giunto in un cunicolo più stretto, illumina la porta di legno che gli sbarra la strada; si cala il cappuccio sul capo, gira la chiave di ferro ed entra nella stanza. La ragazza distesa a terra sta ancora dormendo; ha i polsi legati dietro la schiena e le gambe serrate alle caviglie. La bocca è coperta dal nastro adesivo; la camicetta bianca è strappata, la gonna rossa infangata. Si ferma un istante a guardarla, poi si china e con forbici da giardino le taglia gli indumenti. Apre la sacca di tela e ne estrae un abito da sera turchese impreziosito da paillette. Distende la ragazza sopra un lenzuolo, la slega e la veste facendo attenzione a non rovinare l’abito; prima di infilarle i sandali con i tacchi, le bacia il dorso del piede. «Grazie di aver accettato il mio invito, Margaret.» le sussurra con voce morbida. Margaret accenna un movimento del capo, ma è ancora troppo stordita dal cloroformio. Earl le si avvicina e le sfiora le labbra con le dita: la bocca è carnosa e scura, la pelle olivastra, il taglio degli occhi orientale. Dopo un lungo sospiro, si alza e si cambia gli abiti, indossando una camicia bianca e lo smoking che ha portato da casa. Apparecchia un piccolo tavolo da campeggio, si siede sulla sedia e si accende una sigaretta. 30 «Ti piace il posto che ho scelto?» Margaret si muove di nuovo e questa volta mugugna qualcosa, un lamento. «Si, dimmi cara, hai appetito?» «Dove...dove sono?» chiede tenendosi la testa con la mano. «Siamo da Silvio, non ricordi?» Earl è meravigliato di com’è sciolto e spigliato questa volta. Non ha ancora balbettato ed è difronte a una delle ragazze più belle che abbia mai incontrato. Aveva ragione lui, non c’era più bisogno di tutte quelle medicine: aveva fatto bene a sospenderle all’inizio dell’anno. 31 4. Sono dieci giorni che nessuno della sua squadra si fa vedere in ospedale. La situazione a Denver dev’essere particolarmente tesa. Dan Ranucci entra nella stanza con passo pesante, la testa inclinata e le sopracciglia inarcate. «Ciao Julian, come va?» Si sofferma a guardare l’amico, poi risponde. «Sei ingrassato in modo spaventoso, Dan. Non ti eri messo a dieta?» Dan si guarda intorno e si tocca la pancia. «Sono ancora a dieta, ma credo di avere il metabolismo lento.» «Cazzo Dan, riprendi a fumare, inizia a drogarti, o fai qualsiasi cosa per dimagrire, sennò tra qualche mese ci sarai tu in un letto d’ospedale!» «Abbiamo controllato la casa di Sullivan. Due cuscini del divano erano imbottiti con i capelli delle vittime.» «Avete già controllato se c’è corrispondenza con le ragazze?» «In realtà si, ed effettivamente non c’è una corrispondenza assoluta. Sono stati ritrovati i capelli raccolti in ciocche, e sembrano appartenere a dieci persone diverse.» 32 «Stai dicendo che manca una ragazza all’appello? Non c’erano nove crani nell’archivio?» «Più che una ragazza, mancherebbe una donna: nove ciocche sono di colore rosso, mentre una è di capelli grigi, avvizziti.» «Questo effettivamente stona un po’. Per quanto ne sappiamo Remi Sullivan era solo al mondo, ma occorre eseguire il test del DNA per escludere che si tratti di una parente. Inoltre, a parte il forno, Sullivan non aveva altre proprietà: dobbiamo ribaltare quella casa e trovare i resti della decima vittima, probabilmente la più significativa. Sfondate i muri e scavate in giardino: il caso non è ancora chiuso.» «Credo che dovremo attendere l’autorizzazione del giudice, ma sarà questione di un paio d’ore. Chiamo Peter.» «Dan,» Julian si raddrizza sul letto guardandolo dritto negli occhi, «Peter mi ha detto che sono venuti quelli degli affari interni.» «Non ne sapevo nulla!», risponde allarmato. «E cosa hanno detto? Io ho sparato perché Charles Trentassi aveva estratto la pistola. Stava per sparare in testa a quel ragazzino, te lo giuro!» La voce inizia a tremare. «Cazzo, si è riparato dietro di lui, si è difeso col suo corpo!» «Questo me l’hai già detto prima che andassi in coma. Però, voglio sapere chi vi ha detto che Trentassi aveva rapito il bambino. Vi siete precipitati a casa sua in piena notte senza un mandato e avete fatto fuori un bambino, cazzo. Non suona benissimo, vero?» «Sì, suona di merda. Ma Peter mi ha detto di aver ricevuto una telefonata anonima e io gli ho creduto. È uno stronzo ed è un vero bastardo, ma lo conosco da vent’anni e sa fare il suo mestiere.» «Ok, Dan. E mi spieghi cosa è successo dopo?» 33 «Dopo che il bambino è stato ucciso e che la pallottola ha colpito la spalla di Trentassi, Peter ha perso la testa: si è avvicinato a Charles e ha iniziato a colpirlo a mani nude. Il fatto è che lui continuava a ridere, e a dire che l’avremmo pagata cara quella cazzata. E più picchiava, più quel mostro rideva. Alla fine l’ha portato al piano di sopra, lo ha appeso a testa in giù e l’ha fatto precipitare di sotto. Io ho provato a fermarlo, ma ero sconvolto per il bambino.» Julian prende fiato e sta per aggiungere qualcosa, poi si blocca. In realtà sa benissimo che avrebbe fatto lo stesso. «E che mi dici di Denver?» «Certo che il nostro è proprio un bel paese. Sarah Barkley è stata ritrovata a Coal Creek sotto un cumulo di rami secchi. La gola squarciata da un morso umano e l’addome scuoiato, in avanzato stato di putrefazione. Non contento, l’assassino ha pensato di rallegrare il volto della donna cucendole le labbra con uno spago in modo che potesse continuare a sorridere anche da morta.» Julian ripercorre velocemente le immagini delle vittime di Sullivan, tutte tra i venti e trent’anni, tutte sorridenti, nelle foto che aveva appeso sulla lavagna dello studio. «Altri particolari?» «Inizialmente si pensava che potesse essere stato il padre, scomparso lo stesso giorno con la figlia. La moglie ha sempre negato tale possibilità, dicendo che il padre e la figlia avevano un rapporto stupendo. In realtà, sul PC del signor Barkley abbiamo trovato numerosi contatti in chat con giovani ragazze. I sospetti sono stati fugati dal ritrovamento del suo cadavere, poco lontano dal luogo dove 34 è stata ritrovata Sarah. Anche il padre aveva subito delle sevizie: era stato scuoiato nella regione addominale ed erano presenti delle lacerazioni che perforavano la parete a destra, sotto l’arcata costale. Oggi il patologo dovrebbe inviarci l’esame tossicologico e la causa di morte per entrambi.» «Che lavoro faceva il signor Barkley?» «Lavorava per una ditta tessile. Era responsabile delle vendite.» «Quindi sempre in viaggio. Dan, domani mi fanno uscire dalla terapia intensiva e mi trasferiscono in reparto. Potresti portarmi il fascicolo di Sullivan?» «Va bene, se ci sono novità te le faccio sapere. Non dire nulla a Peter riguardo alla storia di Trentassi.» Julian finge di ascoltare ancora, ma con la mente si è già trasferito nella contea di Denver, ai piedi delle montagne rocciose. Sta osservando le vie che portano a Coal Creek, passando per i canyon meridionali. Annusa l’aria calda, che si rinfresca salendo di quota, avverte l’odore di resina e di pino, l’eco della valle e il silenzio dei boschi. Poi torna in città e scorge la casa dell’assassino, una villetta bianca, regolare, anonima, col prato ben curato per non dare nell’occhio. Entra in casa e osserva le foto alla parete. Ti piace la gente che sorride o ti attraggono le persone tristi e pensi che il tuo compito sia di rallegrarle? Un movimento di fronte lo riporta alla realtà. Suona il campanello e dopo un minuto arriva l’infermiera Morales. «Dove stanno portando la signora?» «In sala operatoria.» 35 «Può dirmi come si chiama, signorina Morales.» «Ho cinquantacinque anni e due divorzi alle spalle, comunque grazie. Non posso dirle niente, mi dispiace.» «Sa chi sono, vero?» «Certo, è l’agente speciale Julian Smoke. Ma le regole sono regole.» «Mi dica solo chi è venuto a trovarla qualche giorno fa.» «Ogni tanto viene un parroco di Denton. Non credo che abbia parenti, forse un lontano nipote.» «Don Elia?!» «Si, lo conosce?» «Ci ho parlato una volta, due mesi fa.» Julian si mette a sedere con le gambe giù dal letto. Si massaggia le spalle, si stira le braccia e il collo. Don Elia?! Ricorda di averlo interrogato durante le indagini perché la sua parrocchia distava solo un centinaio di metri dalla casa di Remi Sullivan. Don Elia gli aveva detto di non conoscerlo e di non averlo mai visto in chiesa. Tutte le volte che era passato a casa di Sullivan per le benedizioni, non lo aveva mai trovato o se c’era non gli aveva aperto. Don Elia gli era sembrata una persona normale, un po’ fredda per essere un giovane prete, ma nulla di particolare. Quindi, è lui l’uomo dell’altro giorno! Prova a focalizzare meglio la figura che si muoveva di fianco al letto della signora, ma non riesce a ricordare molto. Il giorno in cui si è svegliato dal coma aveva in corpo dosi di morfina molto elevate e 36 tutto gli era apparso confuso; la realtà si mescolava alla fantasia, ai sogni delle settimane precedenti e ora Julian ha il dubbio se aver visto o meno quell’uomo. La buona notizia è che si sente meglio e sta riacquistando le forze; ha molto appetito e respirare non è più una tortura. I medici sono soddisfatti e hanno preventivato la sua dimissione in settimana. Si distende sul letto e allunga un braccio per afferrare il Washington Post. In prima pagina un articolo sulla tenue ripresa economica. Volta pagina e un biglietto sfila tra i fogli del giornale e cade sul letto. Lo raccoglie e nota che si tratta di una carta da gioco: l’asso di fiori. La classe operaia. L’asso di fiori è sempre stata la sua carta preferita, sin da quando era bambino. Non ricorda di aver mai perso una mano con l’asso di fiori; se aveva qualche dubbio di non poter vincere passava, ma se giocava vinceva sempre. Nel poker classico i fiori rappresentavano la classe operaia e questo a Julian è sempre piaciuto. S’immaginava operai disperati giocarsi l’intero stipendio contro i datori di lavoro nelle bische clandestine, andare in all-in con sette e due di fiori e far passare donna e jack di quadri al pre-flop (i quadri rappresentavano anticamente i mercanti). Osserva la carta sollevandola con un tovagliolo di carta, come se fosse la prova della scena di un crimine. La avvicina e ne scruta la superficie in controluce: la facciata è regolare e senza imperfezioni, mentre il dorso rileva un disegno particolare che cambia col movimento della mano. 37 È una carta truccata. Nell’angolo superiore sinistro due lettere, SJ. Agli angoli inferiori due numeri, 33 e 13020. Julian chiama l’infermiere e gli chiede se conosce chi consegna i giornali in ospedale. «Nessuno consegna i giornali in terapia intensiva. Quello», indicando il Washington Post, «dev’essere della signora del letto quattro che è appena stata trasferita.» «E com’è finito sul mio comodino?» «Non saprei. Mi scusi ma devo andare.» Qualcuno vuole invitarmi a giocare. Si guarda intorno: tutti i pazienti sono attaccati a un ventilatore e in coma farmacologico. Osserva i due infermieri che parlano al bancone centrale e l’infermiera Morales che sta pulendo la tracheostomia del signore al letto uno. Brutta storia. Abbassa lo schienale del letto e chiude gli occhi. Chissà cosa sta facendo Charlotte in questo momento. Annusa l’aria e prova a ricordare il suo profumo dolce che lo avvolgeva tutte le volte che tornava a casa. Al termine di un’indagine, dopo aver assistito alle peggiori crudeltà del genere umano, sapeva che c’era un posto in cui gli orrori del suo lavoro sbiadivano e perdevano il loro potere distruttivo. Si smarriva nei sui occhi celesti e intravedeva un bagliore di speranza per il mondo, per il loro matrimonio, per la loro vita. Ma erano bastati sei anni di quell’inferno, di quell’unione vissuta a distanza, lui a inseguire le tracce dell’ultimo 38 predatore seriale e lei ad aspettarlo a casa in preda a incubi feroci, per distruggere un legame di quindici anni. Lui aveva notato i primi segnali della loro crisi dalla freddezza con cui lei aveva iniziato a rispondere al telefono, dalle sue chiamate sempre più rade, dall’imbarazzo che non riusciva a celare quando lui tornava a casa. Più volte le aveva chiesto se c’erano problemi, se stava cambiando qualcosa nel loro amore, se poteva ancora fidarsi di lei. Charlotte abbassava lo sguardo e, dopo pochi istanti, tornava a guardarlo con gli occhi umidi, senza parlare. Lo stringeva a sé, lo prendeva per mano e lo accompagnava in camera. Le candele erano sempre accese e la notte facevano l’amore, ma sempre più spesso aveva l’impressione di essere solo nella loro stanza e nella loro vita. Avrebbe voluto fare qualcosa per evitare quella deriva, ma tutte le volte che vedeva i volti delle donne e dei bambini scomparsi, non poteva fare a meno di pensare alla loro paura, alla disperazione dei loro familiari e sentiva che l’unico lavoro che poteva fare in questa vita era dare la caccia a quelle belve. Una sera aveva chiamato Charlotte da Chicago e lei aveva risposto con una voce così radiosa e piena di gioia che l’aveva sconvolto. Un pensiero tanto terribile, quanto concreto lo aveva assalito e l’indomani le aveva fatto recapitare a casa un mazzo di rose rosse senza biglietto. Era il giocatore di poker che andava a vedere la mano del suo avversario senza nemmeno una coppia. Aveva deciso di mettere tutto nel piatto, di giocarsi tutto in quella mano, sapendo già di come sarebbe andata a finire. Se non l’avesse richiamato, avrebbe avuto la conferma della sua relazione. Attese invano per tre giorni, senza 39 sentire Charlotte. Il suo amante aveva sicuramente fatto suo quel gesto romantico, svelando il loro rapporto. Il quarto giorno tornò a casa verso le otto di sera e trovò Charlotte in bagno, mentre finiva di truccarsi, con abito nero e tacchi alti. Julian non riuscì a dire nulla, abbozzò un sorriso sincero e proseguì verso la camera da letto. Charlotte gli corse dietro, cercando di parlargli, di arrabbiarsi, di scusarsi, ma Julian era ormai lontano. Prese una borsa dall’armadio e la riempì con alcuni indumenti, mentre Charlotte cominciò a piangere e a colpirlo sulla schiena. Julian si voltò verso di lei. «Sono felice per te, davvero», riuscì a dirle con voce ferma. Charlotte si mise a sedere sul letto, con le mani davanti agli occhi. Julian tirò fuori dalla giacca un biglietto e lo appoggiò sul letto di fianco alla moglie. «Questo doveva arrivare con le rose, ma forse è stato meglio così.» Lei alzò gli occhi devastatati dal mascara e lo seguì mentre usciva dalla stanza. Esitò alcuni secondi, poi prese il biglietto e lo lesse con la vista appannata dalle lacrime. Cara Charlotte, se potessi diventare come tu mi vuoi lo farei all’istante. Ma ciò che più desidero è che tu sia felice, in qualsiasi modo, anche a costo di perderti. Julian Julian sospira, poi apre gli occhi e incrocia quelli di Peter May, in piedi in fondo al letto. «Abbiamo avuto dei problemi con la casa di Sullivan. La 40 perquisizione di ieri non è stata autorizzata dal procuratore della contea. Ho chiamato l’avvocato di Sullivan per raggiungere un compromesso, ma dovremo attendere comunque qualche giorno. Mi dispiace.» «Non importa, tanto Remi Sullivan non può più scappare.» 5. «Benvenuti sul volo AA5674, Denton-Denver. La durata prevista del volo é di un’ora e quindici minuti.» Alice Duvall non riesce a smettere di armeggiare con la cintura di sicurezza e di guardare fuori dal finestrino. La signora di fianco le appoggia una mano sul braccio. «Stai tranquilla, andrà tutto bene?» 41 «Mi scusi...Ma ogni volta è la stessa storia, non riesco ad abituarmi.» «Ognuno ha le sue paure, io per esempio ho paura dei cani randagi.» Alice sorride. Il rumore dei motori sale progressivamente mentre il velivolo inizia ad accelerare. Si appoggia allo schienale, socchiude gli occhi e inspira profondamente. «C’è una storia. Si dice che chi ha paura di volare ha paura di amare, ma forse non sono le parole che vorresti sentire in questo momento.» L’aereo si stacca dal suolo e Alice avverte una fitta allo stomaco, forse accentuata dalle parole della signora. Al primo vuoto d’aria non resiste e afferra il sacchetto di carta dove rimette la colazione del mattino. «Adesso passa, vedrai. Io soffro di mal di mare e una volta ho rimesso per sei ore, ma il mal di mare è molto peggio.» Alice è sopraffatta da un secondo conato. Vorrebbe essere in un luogo diverso, o almeno in un posto a sedere differente. La fronte è imperlata di sudore, alcune ciocche di capelli sono bagnate e schiacciate sulle tempie. L’aereo prende quota e si raddrizza, si spegne l’allarme delle cinture di sicurezza e alcuni passeggeri si alzano per sgranchirsi le gambe. «Come stai?» «Meglio, grazie.» A mente fredda Alice ripensa alle parole della signora. In effetti è il 42 suo problema maggiore, lasciarsi andare nelle relazioni. Anche questa volta è stata lei a prendere la decisione di separarsi per qualche tempo. In realtà sa benissimo che le probabilità di tornare con lui sono minime, e non perché abbia qualcosa che non vada. Il problema è lei, lo è sempre stato. «A cosa pensi, cara?» «A quello che mi ha detto prima. Credo che in parte abbia ragione.» «Ti riferisce alla paura di volare? E’ una cosa che mi sono inventata lì per lì, per distrarti.» Alice la guarda imbarazzata, poi abbassa gli occhi mentre le gote si tingono di rosso. «Non ci sono regole, ciascuno ama a modo suo. Il problema, semmai, è scegliere la persona giusta.» «Si vede che scelgo sempre quella sbagliata.» «Mia cara, la maggior parte delle persone segue degli schemi mentali predefiniti e tende a ripeterli in situazioni analoghe. E’ come se tu pretendessi di parlare a un eschimese nella tua lingua e ti lamentassi perché non ti capisce. Devi imparare il linguaggio della persona che ami, o sceglierne una che usi il tuo linguaggio.» «È interessante, non me l’aveva mai detto nessuno. Cosa fa nella vita.» «Leggo le carte. Ma ora sono in pensione.» «Le chiromanti vanno in pensione?» «Alcune lo fanno, o sono obbligate a farlo.» Alice sorride di nuovo, ma i suoi occhi non riescono a mascherare 43 il pregiudizio che ha nei confronti dei tarocchi. Anche la signora sorride, poi estrae un foglietto di carta dalla borsetta e lo porge alla ragazza. «L’ho scritto questa mattina, prima di uscire di casa.» Alice lo prende incuriosita, lo apre e ne legge il nome scritto elegantemente. Alice Duval. Spalanca la bocca incredula, poi si gira verso la signora ridendo. «In realtà Duvall si scrive con due elle.» «Lo so, ma tu sei bella anche con una sola.» «La ringrazio.» Alice è raggiante. Era da mesi che non si sentiva così euforica e per di più a tremila metri di altezza. «Mi dica, e come mai è andata in pensione? Mi sembra una brava persona, in grado di aiutare la gente.» «È vero, per anni ho aiutato molte persone. Ma ora sono stanca e ho voglia di ritirarmi» risponde con tono serio. Alice continua a guardarla come se stesse osservando un animale delle fiabe. «Ma è incredibile...io non ci ho mai creduto. E guardi, sono una persona molto razionale.» La signora le accenna un sorriso, poi si volta verso il finestrino. Alice si ricompone e si rende conto di aver perso il controllo. «Mi scusi se l’ho importunata.» aggiunge con tono dimesso. «Non è per te. Stavo aiutando un ragazzo che aveva problemi a scuola e i suoi genitori erano convinti che non avesse disturbi 44 psicologici e mi avevano chiesto di parlargli. Dopo alcune sedute li avevo avvisati di un certo malessere e che loro figlio poteva avere bisogno di uno specialista. Loro hanno continuato a portarlo da me, perché avevano notato dei miglioramenti. Ventinove giorni fa si è tolto la vita gettandosi da un viadotto.» Alice è senza parole. Alza la mano per toccare quella della signora, poi si arresta; gli occhi della donna sono umidi e persi in un dolore profondo. La ragazza prende un fazzoletto di carta e lo allunga alla signora. «Grazie, cara. Stai attenta a Denver, è l’unico consiglio che posso darti», prosegue con il volto verso il cielo scuro. Alice ha un sussulto, poi ritira la mano e si gira dalla parte opposta, facendo finta di non avere sentito. Si aggiusta la gonna di organza e chiama l’hostess. «Potrei avere un bicchiere di vino?» «Glielo porto subito.» Dopo cinque minuti la signorina della American Airlines torna con un bicchiere di Chardonnay e delle arachidi. «La ringrazio.» Beve un sorso di vino ghiacciato e si sofferma sull’anello che porta al dito. Questa pausa mi farà bene. «Scusa, posso chiederti una cosa?» Alice si gira verso il ragazzo che siede oltre il corridoio centrale, sulla stessa fila di sedili. Ha la pelle abbronzata, gli occhi chiari, molto elegante in un gessato nocciola e camicia bianca. Ad Alice non sono 45 mai piaciuti i biondi, ma decide di dargli una chance. «Come dici?» «Ciao, mi chiamo Sean. Potrei sapere che profumo hai?» «Te la vuoi giocare così, Sean? Va bene, è Eau de pamplemousse rose.» Sean cerca di mantenere il sorriso integro e gli occhi sicuri, ma sa di camminare su un filo di lana. L’emozione non l’aiuta e aggiunge vagamente, «È molto buono. Ci devono aver messo degli agrumi dentro.» «Sì, il pompelmo rosa fa ancora parte della famiglia degli agrumi», risponde tornando a guardare il sedile davanti a sé. Anche Sean si rimette in posizione e poi si volta verso il fratello che continua a sghignazzare. «Vaffanculo Tom, quella è un dieci, non come le fighette che ti rimorchi tu al pub.» «Sarà anche un dieci, ma ti ha rifilato un bel due!» continuando a ridere. «Non urlare che mi fai fare la figura dello sfigato!» «L’hai già fatta. Ma dai, pamplemousse rose è abbastanza facile da capire, perché le hai detto quella stronzata sugli agrumi?» «Non lo so, ma quando mi ha guardato negli occhi mi sono sentito male. Hai visto come sono scuri? Non avevo mai incontrato una rossa con due occhi così neri.» «Sì, ho visto, ma mettici una pietra sopra.» «Scordatelo, prima di arrivare ci riprovo.» Tom sorride, ma sa che quando Sean prende una decisione è 46 irremovibile. Il fratello intanto torna a fissare il bracciale di platino che decora la caviglia di Alice. «Succede spesso?» La signora si è calmata e ora sorride ad Alice, serena. «In realtà no, è molto raro che qualcuno mi rivolga la parola.» «Strano...comunque dovresti dargli una seconda possibilità, ha avuto coraggio a parlarti davanti a tutti.» «Lei crede?» «Penso che tu sia molto severa, soprattutto con te stessa. Lasciati andare e goditi la vita.» «La ringrazio di nuovo. Si, è davvero brava a parlare con le persone.» Nonostante i vuoti d’aria, l’atterraggio va molto meglio tanto che Alice quasi non se ne accorge, intenta a parlare con la signora di fianco. Quando l’aereo si ferma e le cappelliere si aprono, Sean aiuta Alice a prendere il bagaglio a mano. Lei lo guarda seria, poi si apre nell’accenno di un sorriso. «Se vuoi assaggiare il migliore aperitivo al pompelmo della città, chiamami un giorno.» Nella mano tesa, il biglietto che la signora le aveva dato dopo il decollo. Alice Duval. Sean è in estasi. «E dove ti trovo?», riesce ad aggiungere incredulo. «Questo lo devi scoprire da te» risponde sventolandogli il cellulare davanti al viso. Poi si arresta, lo inquadra e gli scatta una foto. Sean abbozza un sorriso imbarazzato e, infine, la guarda allontanarsi verso 47 l’uscita. «Cazzo! Potevo provarci io.» sussurra il fratello sbalordito. Tom e Sean escono dall’aeroporto e si dirigono verso il parcheggio sotterraneo. A un tratto Sean si blocca, si volta indietro e inizia a correre. «Torno subito» grida al fratello, «tu intanto prendi la macchina!» Tom lo segue con lo sguardo. «Ma dove vai?» Dopo venti minuti, Sean si ripresenta nel parcheggio con in mano un sacchetto della profumeria, ma, non vedendo il fratello, s’incammina verso il parcheggio interrato. La macchina è dove l’avevano lasciata, la settimana precedente. Cosa sta facendo Tom? Si avvicina per vedere meglio, per capire cosa stia controllando sotto l’auto. «Perde olio?» Tom non risponde. Sean lo tocca con la punta del piede «Cazzo fai?» Fa per chinarsi sul fratello, quando una scarica di cinquantamila volt lo colpisce al collo e lo trapassa con violenza fino a terra. Per alcuni secondi il corpo di Sean è martoriato da spasmi muscolari e dolori atroci, infine il taser viene spento e Sean crolla in stato di shock. Viene afferrato per le caviglie e trascinato verso il furgone parcheggiato di fianco all’auto. L’uomo carica, prima Sean, poi il fratello e li deposita nel retro del furgone. 48 Quando Sean si risveglia, ha la certezza di essere già morto. La sensazione di freddo che avverte è così intensa che non è più in grado di percepire il suo corpo e il respiro così superficiale d’avere l’impressione di non introdurre più ossigeno. Attingendo a un’esigua riserva di forze, flette il capo sul petto e osserva ciò che ricopre il suo corpo: è in una vasca colma di ghiaccio, con le mani appoggiate sul bordo, di un pallore cadaverico. Anche la testa è libera, ma non riesce a ruotarla. La stanza è grigia, senza decori, illuminata da un neon alla parete di fronte. Sotto la luce riesce a intravedere lo stipite di una porta, forse di metallo, dal riflesso arancione. Tenta di ampliare il campo visivo muovendo gli occhi di lato, ma l’aria ghiacciata e la luce gli procurano un dolore pungente. Chiude ripetutamente le palpebre e le lacrime faticano a staccarsi dalle ciglia: si solidificano precocemente, formando gocce di rugiada salata. Anche la pelle del volto è pallida e ricoperta da uno strato di brina; le labbra sono solcate da piccole fessure che diventano più profonde agli angoli laterali. La lingua è secca e s’incolla al palato non appena tenta di buttar fuori un nome. Tom. Sean prova a sollevare la mano, ma i muscoli restano immobili, in una rigidità post-morte. Il battito cardiaco è lento e malinconico, come le campane a un funerale. La porta si apre stridendo sul pavimento e un’ombra alta entra nella stanza. Chi sei? vorrebbe chiedere. 49 L’uomo si sposta di lato, s’inginocchia sul pavimento e si abbassa il cappuccio. «Anche tu vorresti sapere il perché, come tuo fratello?», gli sussurra all’orecchio. «Che dire? Giorno sbagliato, volo sbagliato, profumo sbagliato?» Non è il primo morso a togliere la vita a Sean e nemmeno il secondo, all’altezza dell’orecchio. La cute anestetizzata dal freddo attenua in parte il dolore, ma non può nulla contro la rottura del setto nasale. Il sangue inizia a riversarsi posteriormente, lungo il rinofaringe e Sean evita che invada le vie aeree serrando la glottide. Ingurgita sangue per una decina di minuti, poi l’emorragia diventa più copiosa: l’aria entra in trachea, seguita da una montata di sangue che invade i bronchi ed infine i polmoni. L’ossigeno non è più trasportato al cervello che inizia a soffrire. L’ultima cosa alla quale pensa sono gli occhi neri di Alice, a come l’avevano guardato prima di scendere dall’aereo. Poi una crisi epilettica solleva il corpo sino al bordo facendo straripare i cubetti di ghiaccio all’esterno. La crisi dura a lungo, con la lingua stretta tra i denti, schiuma bianca e i bulbi oculari riversi dietro le palpebre semichiuse. Poi tutto finisce e il corpo di Sean scivola lentamente sotto lo strato ghiacciato, con gli occhi ancora aperti e lo sguardo perso in un mare nero. L’uomo si alza e si dirige nella seconda stanza: il corpo di Tom pende dal soffitto a testa in giù. La cute dell’addome è stata rimossa e il sangue stravasato ha tinto di rosso il torace e le braccia. Anche il volto è scuro, con gli occhi spalancati e avvolti da una ragnatela di capillari finissimi. 50 «Allora, mi sai rispondere o no?» Tom lo guarda terrorizzato. «Cosa hai fatto a Sean?» sussurra con la bocca amara che sa di ferro e bile. Lui si avvicina, spinge il busto di Tom dal lato opposto e allarga le gambe mettendosi in posizione. Il corpo esegue un’ampia oscillazione e, non appena torna verso di lui, inizia a prenderlo a pugni. «Non sai cosa deve avere un Uomo di valore?» Danza sulle gambe muovendosi attorno a quell’improvvisato sacco da boxe, sferra pugni veloci e precisi; insiste col destro e il sinistro in sequenza, destro-sinistro, destro-sinistro, poi una serie di ganci da sinistra e infine il diretto spietato. Il pugno che rompe lo sterno è violento e l’arresto cardiaco istantaneo. L’uomo si ferma, esausto, con i capelli sudati e il volto imbrattato di sangue. Nei pugni, il sangue di Tom si mescola col suo, la vita di Tom entra nelle sue vene, nel suo corpo. Si porta una mano alla bocca e ne assapora il gusto dolce e amaro. «L’Uomo di valore, innanzitutto, deve avere dei valori.» 6. 51 «Finalmente!» esclama Cloe aprendo la portiera della Mustang. «Ma quanto ci hai messo?» «Dai, non iniziare. E Margaret?» chiede Laura entrando nell’auto decappottabile. «È tutto il pomeriggio che provo a chiamarla. Il telefono suona, ma non risponde.» «Passiamo a prenderla comunque?» «Fino a Destiny Road? Te lo scordi, facciamo che verrà un’altra volta.» Laura s’incanta a osservare l’amica, i capelli color miele raccolti in un elegante chignon, il collo lungo ed esile, la scollatura pronunciata del vestito bianco, la carnagione dorata dalla recente esposizione ai raggi della lampada UVA. Sorride e si sofferma sulle labbra rosso scarlatto e sullo smalto dello stesso colore. «Non è che hai un po’ esagerato? Sei uno schianto, Cloe. Se ti vedesse il tuo ragazzo, gli verrebbe un colpo.» «Grazie, ma per favore stasera non me ne parlare. Anche tu sei bellissima, è nuovo?», indicando il top di seta bordeaux sui jeans attillati. «Sì, mi è costato una fortuna. Allora andiamo? Ho una gran voglia 52 di bere.» Cloe ingrana la prima e parte facendo pattinare le ruote posteriori sull’asfalto. Laura afferra la maniglia della portiera per attutire il colpo contro il sedile di pelle. «Andiamo!» grida nell’aria fresca della sera. Dopo circa mezz’ora, sono in coda all’esterno del Sixty Five. Il buttafuori all’ingresso le intravede tra la gente in fila e fa un cenno con la mano per farle passare. Si avvicinano e Cloe passa una mano sul petto del ragazzo. «Grazie, Martin.» «Siete bellissime, ragazze.» Laura e Cloe sfilano giù per gli scalini del club con l’eleganza di due fotomodelle. Il locale è strapieno e invaso dalle note di basso di una house music vecchia scuola. Le due amiche si dirigono verso il bar tenendosi per mano e scivolando tra la folla accalcata. Con fatica raggiungono il bancone e ordinano un Daiquiri e un Inferno. Bevono il primo cocktail e ne ordinano un altro, eccitate dalla musica dei Run DMC. Vicino a loro due ragazzi bevono vodka e discutono animatamente. Sono entrambi alti poco più di un metro e ottanta, il biondo vestito elegantemente in gessato, quello moro in modo casual, con jeans e felpa. Laura fa un cenno a Cloe in direzione dei due ragazzi. L’amica si sporge sul bancone per vedere meglio poi, tornando a Laura, le grida nell’orecchio. «Io mi prendo quello moro!» Tom sta spiegando a Sean perché ha sbagliato ad acquistare certi titoli hi-tech nel pomeriggio, garantendogli il crollo del prezzo entro 53 pochi giorni. Sean è distratto e continua a fissare il bicchiere di vodka semivuoto che ha tra le mani. Poi il riflesso di uno sguardo, l’immagine di un volto armonioso appena distorto dall’acciaio del bancone. Si volta nella direzione di Laura che indugia alcuni secondi prima di abbassare gli occhi con un sorriso. Sean si avvicina alle due amiche. «Ciao, cosa bevete ragazze?» Laura continua a tenere gli occhi abbassati e a giocare con una ciocca di capelli. Cloe si avvicina a Sean e gli domanda: «Come te la cavi con i particolari?» Lui spalanca gli occhi, non sicuro di aver compreso bene la domanda. «I preliminari?» «No, cretino, con i particolari?» gli risponde alzando la voce. Tom guarda il fratello ridendo e butta giù l’intero bicchiere di vodka in un sorso. Sean sorride, si sistema più comodamente sullo sgabello e prosegue. «Sono un mago con i particolari, non mi sfugge nulla.» «Fantastico, allora dimmi: azzurri o verdi?» Sul volto di Sean compare nuovamente un’espressione dubbiosa, ma dopo un attimo di esitazione si butta. «Gli occhi della tua amica? Sono verdi.» «Sbagliato!» grida Cloe sopra le note dei Fun Young Cannibale. Poi si gira verso Tom e gli lancia un’occhiata di sfida. «Marrone chiaro» risponde distratto, mentre cerca di attirare l’attenzione della barista per un altro giro di vodka. 54 «Wow, tu si che hai occhio!» aggiunge meravigliata, senza staccare lo sguardo dalla bocca appena imperfetta di Tom. «Ma come hai fatto?!» gli chiede il fratello. Tom gli strizza l’occhio con l’aria di chi sa il fatto suo, poi, rivolto alle ragazze, «Cosa bevete? Io mi chiamo Tom e lui è mio fratello Sean.» «Ciao, io sono Cloe e lei è Laura» risponde con voce calda e allargando le labbra in un sorriso radioso. Sean osserva sbigottito il loro gioco di sguardi, poi deglutisce e si rivolge a Laura. «Non ci credo che siano marroni. Posso controllare?» Lei alza il volto sbattendo le palpebre, imbarazzata. Ha ragione! «Come mai siete vestiti così diversamente?» chiede Cloe. «Tu Sean sembri uscito da un processo, e tu da un video di Eminem.» «È vero», ride Tom sbattendo la mano sulla spalla di Sean «sembri uscito da un processo di mafia.». Le ragazze ridono, mentre Sean storce il naso e scimmiotta la voce del fratello. «Sembri uscito da un processo di mafia. Che ridere!» «A me piace il tuo vestito.», aggiunge Laura con la voce troppo bassa perché Cloe possa sentire. «Davvero? Ehi, questa canzone mi fa impazzire, ti va di ballare?» Senza aspettare la risposta, Sean l’afferra per la mano e la trascina in pista. «Allora, cosa fai nella vita, il rapper?» 55 Cloe si avvicina e si siede sullo sgabello dove era seduto Sean. Tom attende qualche istante prima di rispondere, piega la testa di lato e stringe appena le palpebre, come per vedere cosa si nasconde dietro ai suoi occhi. «Vuoi sapere un segreto?» Cloe sorride eccitata. «Si dai, che bello!» Tom si china verso il suo orecchio, poi all’ultimo momento cambia direzione e appoggia le labbra sulle sue. Lei non si muove, socchiude gli occhi e inspira il suo odore che sa di limone e aria di mare. Dischiudendo leggermente la bocca, Cloe può percepire l’imperfezione del labbro superiore, un avvallamento centrale che potrebbe essere l’esito di una vecchia cicatrice. Poi apre gli occhi e lui si discosta appena, rimanendo a pochi centimetri dal suo viso. «E il tuo segreto?» Lui continua a guardarla, poi si avvicina alle sue labbra, le sfiora, inspira di nuovo il suo profumo e infine sussurra. «Ho gli organi invertiti.» Cloe scoppia a ridere allontanandosi di qualche centimetro. «Scusa, ma mi devo preoccupare?» «Oh sì, soprattutto nelle sere di luna piena.», ride anche lui. Cloe gli afferra i margini del cappuccio e lo tira a sé. «Vieni qua, invertito». Apre la bocca e gli morde il labbro superiore, poi gli passa la lingua tra i denti e sul palato. Si alza dallo sgabello senza staccarsi dalle labbra di Tom e si fa largo tra le sue gambe. Gli scorre le mani 56 lungo la schiena, solleva la felpa e inizia ad accarezzargli la pelle calda e morbida. «Ehi ragazzi, se volete di sopra c’é il priveé» interviene il barista da oltre il bancone. Tom non accenna minimamente a interrompere il suo colloquio ravvicinato: le sue mani sfilano sui fianchi di Cloe e raggiungono i glutei tesi, sotto il vestito di raso. Li afferra e li stringe con forza, mentre Cloe si stacca dalla bocca emettendo un gemito di piacere. «Oh, oh, ragazzi, non esageriamo!» urla il barista afferrando Tom per la spalla. «Scusa Trevor, ma qual’è il tuo problema?» «Dai, andate di sopra, qui al bancone è un casino, mi bloccate la gente che deve ordinare.» «Tu che ne dici, vuoi salire?», rivolto a Cloe. «Scusa, ma tu hai il pass per il priveé?» «Dai vieni!» «Aspetta che lo dico a Laura.» «Lasciali perdere, vieni con me.» Cloe prova a scorgere la figura dell’amica nella pista, ma non riesce a distinguere nulla per colpo delle luci stroboscopiche. «Vieni con me», le sussurra di nuovo all’orecchio. Un brivido di eccitazione le scorre lungo la schiena e le inturgidisce i capezzoli. Si volta di scatto. «Andiamo!» col fuoco negli occhi. L’uomo col cappuccio sale le scale seguendo l’ondeggiare dei 57 fianchi sotto il vestito di raso. È un movimento sinuoso che gli ricorda l’ondeggiare delle barche nel porto di Marsiglia. Un movimento che lo scaraventa indietro nel tempo, lontano, all’età di undici anni, quando doveva fare i salti mortali per arrivare a sera, con la certezza che, anche quella sera, la dose di frustate sarebbe aumentata. Il movimento dei glutei continua fino alla cima delle scale, poi si fa meno accentuato, ma prosegue fino alla zona più buia del locale. I glutei sprofondano in un divano di velluto, mentre il ragazzo che li ha tastati per tutto il tragitto si mette a cavalcioni sulle cosce tese di lei. Il vestito bianco sparisce dietro le spalle del ragazzo che ora si getta sul suo collo mordendolo delicatamente. La fame sale. È qualcosa di ancestrale, ma difficilmente comprensibile per chi non l’ha mai provata. La chimica di quell’appetito affonda le radici nella notte dei tempi, è alla base dell’istinto primordiale che muove ogni cosa in natura, ma che la società umana e civile hanno cercato di addolcire, smussare, attenuare, fino a relegarla in un meandro nascosto dell’anima, che si fa sentire solo in alcune circostanze. Ma lui ne conserva una traccia più viva. E questa traccia lo ha accompagnato nella vita, tirandolo, strattonandolo, portandolo su strade battute da pochi. Fino al punto di non ritorno, il punto in cui non riesci più a resistere a quella chimica e decidi di darle soddisfazione. L’esplosione neuro-ormonale che ne consegue è devastante e illuminante allo stesso tempo: l’essere che diventa desiderio e il desiderio che trascende l’essere. E dopo resta solo la dipendenza. L’uomo si avvicina a tal punto che può sentire i gemiti della 58 ragazza e il profumo di chi le sta sopra. Si ferma alle sue spalle a fissare un punto sul collo, poi estrae la mano nella classica forma a pistola, lecca l’indice e lo appoggia sul collo di Tom. Lui non si accorge di nulla, intento com’é ad esplorare ogni angolo del corpo di Cloe. L’uomo apre le dita della mano e le passa tra i capelli del ragazzo; Tom inarca la schiena, flette il capo all’indietro con gli occhi socchiusi e con le mani si slaccia i bottoni dei jeans. La mano dell’uomo raggiunge la fronte, poi indietreggia graffiandogli dolcemente il cuoio capelluto fino alla nuca. Infine si stacca dai due che continuano a toccarsi nell’oscurità, si ferma ancora un istante a osservarli, poi si volta e scende le scale. «Anche tu qui, stasera?» L’uomo col cappuccio alza appena gli occhi, ma non si ferma e prosegue mescolandosi tra la folla. «Ma tu guarda che stronzo!» «Lo conosci?» gli chiede Laura tenendolo per mano mentre salgono le scale. Sean non risponde, ma segue con lo sguardo il cappuccio scuro che sovrasta la maggior parte delle teste che gli passano accanto. «Andiamo, dai! Voglio sapere dove sono finiti Cloe e tuo fratello.» «Scusami, ma devo parlare con una persona.» «No Sean, non mi lasciare qui!», lo supplica mentre si stacca da lei e torna nella sala centrale della discoteca. Cammina velocemente, ma la sua marcia è ostacolata dalla folla in delirio per la musica dei Clash. Intravede l’uomo che passa a fianco della toilette e guadagna l’uscita. 59 Alla luce dell’atrio la sua statura sembra meno imponente e le spalle meno ricurve. Ora è fermo davanti al guardaroba e sta parlando con la signorina dietro al bancone. «Ehi, dove scappi?» gli intima afferrandolo per un braccio. Sean si volta sorpreso di quella stretta e osserva il ragazzo dai folti ricci castani che lo osserva sorridendo da dietro gli occhiali. «Oh, sei tu Michael. Senti, adesso non posso fermarmi.» Si volta a cercare nuovamente l’uomo nell’atrio: sta indossando una giacca di nylon mentre s’incammina verso l’uscita. «Dai Sean, vieni a bere una cosa, sono mesi che non ci vediamo.» «Davvero, non posso.» Si libera dell’amico e corre verso l’uscita. Varcata la soglia si gira a destra e lo vede incamminarsi sul marciapiede fumando una sigaretta. «Ehi, non puoi uscire senza il pass!» Martin gli si piazza di fronte bloccandogli il passaggio. «Tieni cinquanta dollari, è un’emergenza,» risponde guardando oltre le sue spalle per timore di perdere di vista l’uomo col cappuccio. Poi fa per superarlo di lato, ma viene afferrato da un secondo buttafuori. «Hai sentito cosa ha detto? Passa alla cassa!» Sean li guarda interdetto, poi si rassegna. «Va bene, va bene, ho capito. E lasciami la giacca, cazzo!» Fa per rientrare, poi si gira di scatto e si getta alla sinistra di Martin superandolo di un soffio. Il buttafuori allunga un braccio per acciuffarlo, ma colpisce involontariamente il secondo gorilla che inciampa giù per i gradini. Sean continua a correre, raggiunto solo 60 dalle minacce verbali del buttafuori che si è fermato a raccogliere il collega. Svoltato l’angolo, vede l’uomo col cappuccio sotto la luce di un lampione. Lo raggiunge e si arresta a un paio di metri da lui. «Perché non ti sei fermato?» L’uomo non risponde e continua a fumare. Ad ogni boccata la brace della sigaretta gli illumina gli angoli spigolosi del volto, lasciando in ombra gli occhi incavati. «Hai sentito di Denton? Julian Smoke è uscito dal coma e oggi pomeriggio un agente mi ha chiamato perché vuole che scenda giù per vedere cosa hanno trovato nella casa di Sullivan.» L’uomo continua a osservarlo in silenzio e a Sean pare di intravedere un leggero sorriso sulle labbra. «Tu lo conoscevi bene, non è vero?» «Lo conoscevo.» «C’è qualcosa che potresti dirmi per aiutare gli inquirenti nelle indagini?» «Certo, ma non sarebbe corretto nei confronti dei tuoi soci: ricevi un salario piuttosto cospicuo, o sbaglio?» «Stronzo,» bisbiglia a denti stretti. «Cos’hai detto?!» L’uomo si avvicina di un passo, sovrastandolo con lo sguardo, il capo, le spalle e tutto il corpo. Sean tiene il volto abbassato e non può fare a meno di sentire l’alito dell’uomo che sa di alcol e fumo. «Dove diavolo sei finito Sean?» «Raggiungimi fuori.» 61 «Guarda che Laura sta davvero incazzata!» «Non importa, vieni fuori che andiamo.» Tom riattacca il cellulare. «Ragazze, non ho parole. Vi chiedo scusa per il comportamento di mio fratello. Mi dispiace davvero, ma adesso devo andare.» Cloe e Laura lo guardano senza rispondere. Tom fa per girarsi quando si sente afferrare per il braccio. «Questo è il mio numero.» Cloe gli allunga un biglietto da visita della Friederich West Company. Tom esita un istante, poi prende il biglietto e le sorride. «Allora ti chiamo la prossima settimana, quando torno da Denton.» 7. 62 «Abbiamo trovato un altro corpo.» Julian è seduto con i piedi giù dal letto e continua a guardare le gambe esili. Si massaggia i muscoli atrofizzati poi, appoggiandosi alla sponda del letto, si solleva in piedi. «È la decima donna. È stata trovata nel giardino di Sullivan, sepolta sotto dei tulipani.» «Quindi questa è La vittima, la donna alla quale tutte le altre assomigliavano, almeno in gioventù, e per la quale tutte le altre sono morte, prima di lei. E il test del DNA?» «Non c’è corrispondenza tra il DNA di Sullivan e nessuna delle vittime. C’è però una novità: anche questa donna aveva l’addome scuoiato, come i due corpi ritrovati a Denver.» Julian rimane immobile per qualche istante, poi prosegue a piccoli passi fino alla porta della camera, ruota su sé stesso e alza le mani a mezz’aria per mantenere l’equilibrio. «Questo significa, caro Peter, che il caso Sullivan non è ancora chiuso.» «Direi proprio di no.» «Come avete fatto a convincere il procuratore a perquisire nuovamente la casa?» 63 «L’avvocato di Sullivan non ha posto nessun divieto. E’ venuto a Denton tre giorni fa e ha dato il permesso.» «È venuto a Denton da dove?» «Non saprei, è di fuori.» «Si sa già chi è la donna e a quando risale la morte?» «Non sappiamo chi sia. Dopo un’analisi preliminare, il coroner ha ipotizzato che il decesso dovrebbe essere avvenuto circa due mesi fa. È il corpo di una donna anziana, sulla settantina.» Julian si dirige verso l’armadietto da cui estrae un paio di jeans e una polo. Si toglie il camicione della clinica e inizia a vestirsi con movimenti molto lenti. «Cosa diavolo stai facendo?» gli chiede Peter esterrefatto. «E’ ora di tornare al lavoro. Cosa mi dici dei Barkley?» Peter May gli allunga una cartellina blu su cui è stampato il logo della FPD, un’aquila di mare che afferra un serpente con gli artigli. La FPD, la Federal Predator Division, era stata istituita dall’FBI nel 2001, dopo l’aumento dei predatori seriali in tutti gli stati del paese. L’Unità era costituita da quattro agenti e un informatico. Il più anziano era proprio Peter May, ex militare dal carattere scontroso e la totale mancanza di diplomazia. Questi tratti gli avevano impedito di avanzare in carriera, rimanendo a lavorare sul campo, in strada, a toccare con mano i corpi freddi delle vittime e il sangue rappreso agli angoli delle ferite. Grazie alla sua esperienza e anzianità era riuscito a salvare il compagno Dan Ranucci, del quale l’FBI avrebbe voluto disfarsi in più di un’occasione per negligenza e scarso intuito. Nel 2006 era giunto nell’Unità l’agente speciale Julian Smoke, distintosi 64 in diverse indagini a New York City e a Chicago. In breve tempo era divenuto il leader carismatico del gruppo, con promozione a responsabile dell’Unità nel 2008. Gli ultimi in forza erano la dottoressa Darla Hemingway, specializzata in psichiatria forense e Norman Jackson, esperto informatico laureato a Harvard. «La morte di Sarah Barkley è avvenuta per soffocamento: la trachea e la vena giugulare interna sono state recise da un morso, ma il decesso è avvenuto per mancanza di ossigeno. Il padre di Sarah è deceduto per emorragia: l’addome è stato scuoiato quando era ancora in vita ed ha perso sangue fino al collasso cardiaco. Anche Sarah è stata scuoiata, ma dopo la morte. Su entrambi i corpi, il medico legale ha riscontrato la presenza di una perforazione sul fianco destro. A livello del margine inferiore del fegato era presente una lesione circolare di cinque millimetri, da cui partiva un canale verso l’interno. Al termine del cunicolo è stato ritrovato un calcolo di circa un centimetro di diametro. È molto probabile che questo cunicolo sia stato creato da uno strumento appuntito, come un cacciavite o un punteruolo.» «Cosa voleva fare, toglierlo o inserirlo?» «Non saprei.» risponde Peter, mentre estrae il portasigarette di metallo dalla giacca sportiva di nylon. «Ci sono impronte?» «Sapevo che me lo avresti chiesto.» Si guarda intorno per essere sicuro che non ci sia nessuno del personale medico e si accende la sigaretta di marjuana. «È stata ritrovata un’impronta sul collo di Sarah.» 65 «Stai scherzando?!» «No.» Peter May chiude gli occhi. La prima boccata di fumo gli riempie i polmoni di un aroma caldo e dolce, un sapore di terre lontane che gli ricorda le lunghe notti in trincea. Trattiene il fiato per qualche istante e il fumo gli passa in circolo raggiungendo rapidamente le terminazioni nervose: la testa gira appena e le mani sono invase da un leggero formicolio. Quando riapre gli occhi, l’immagine di Julian Smoke è vagamente distorta, annebbiata. Attende ancora qualche istante, poi espira il fumo dalle narici, flette il collo all’indietro e si passa una mano sulla nuca rasata. «È l’impronta di un bambino.» 8. 66 Alice Duvall è svegliata dal suono del cellulare appoggiato sul comodino. Allunga il braccio nell’oscurità e a tentoni raggiunge il telefono che viene spento con un gesto automatico. Dopo due minuti torna a squillare. «Pronto?» «Alice Duvall?» «Si, chi parla?» «Sono la dottoressa Darla Hemingway dell’FBI. Avrei necessità di incontrarla per farle alcune domande.» Alice si solleva a sedere e accende la luce. «Scusi, ma che ore sono?» «Sono le cinque. Può dirmi dove si trova che le mando una macchina a prenderla?» «Sono al Bristol Hotel, sulla settantaduesima. Ma cosa è successo?» «Preferirei parlarle a quattrocchi. Si prepari e si faccia trovare nella hall dell’albergo tra venti minuti.» Alice rimane con l’orecchio incollato al telefono ancora qualche secondo, poi si alza e si veste rapidamente. Le pareti chiare del bagno e la luce al neon rendono la pelle del viso ancora più pallida, quasi diafana. Si pettina in fretta e scende nella hall senza trucco. Ad aspettarla, un agente in divisa, dalla carnagione olivastra. «Buongiorno signorina Duvall, sono l’agente Santiago. Se vuole 67 seguirmi, la dottoressa Hemingway la sta aspettando in centrale.» Alice gli stringe debolmente la mano e con passo incerto lo segue fino alla macchina parcheggiata davanti all’ingresso. Dopo circa mezz’ora giungono alla centrale di polizia di Denver. «Buongiorno Alice, sono la dottoressa Darla Hemingway.» «Buongiorno, cosa è successo?» «Lei conosceva l’avvocato Stolnhouse?» «No.» La dottoressa Hemingway estrae una foto dalla cartellina azzurra appoggiata sul tavolo e gliela mostra. «Questo è Sean!» esclama prendendo la foto in mano. «Esatto, è l’avvocato Sean Stolnhouse. Abbiamo trovato un biglietto con il suo nome nella giacca dell’avvocato. Quando vi siete conosciuti?» «Gli è successo qualcosa?» Darla chiude la cartellina e si toglie gli occhiali. «Abbiamo trovato il suo corpo questa notte. E’ stato ucciso e temiamo anche per la vita di suo fratello Tom.» «Oh mio Dio!» esclama portandosi le mani alla bocca. Darla si alza in piedi e gira attorno alla scrivania fino a raggiungere Alice. «Vuoi un bicchiere d’acqua?» «No grazie. Ci siamo conosciuti in aereo due giorni fa. Abbiamo scambiato due chiacchiere, niente di più. Mio Dio, era così giovane!» «Sul volo AA5674, Denton-Denver?» «Sì.» 68 «Di cosa avete parlato?» Alice continua a fissare la foto davanti a sé. «Di cosa avete parlato, Alice?» le chiede nuovamente appoggiandole una mano sulla spalla. «Di nulla…E’ stato così gentile. Avrebbe dovuto chiamarmi nei prossimi giorni.» «Tu non gli hai dato il numero, vero?» «No, gli ho dato solo il mio nome.» «Ricordi qualcosa di particolare, qualche persona che vi ha sentiti parlare, che vi ha seguiti una volta scesi dall’aereo?» «No, non ricordo nulla.» «Eravate vicini?» «No, io ero seduta vicina ad una signora anziana e Sean era vicino a suo fratello, oltre il corridoio.» «Quanto ti fermi a Denver?» «Due settimane.» «Va bene. Se ti viene in mente qualcosa chiamami a questo numero. Per maggiore sicurezza ti farò sorvegliare da una pattuglia finché resti a Denver. Prima di ripartire, chiamami però.» «Va bene.» Alice si alza ed esce dalla grande sala grigia. Sulla soglia si ferma e si gira verso Darla. «Mi scusi, posso sapere com’è morto?» «No, mi dispiace.» Alice la osserva con gli occhi gonfi e arrossati, poi si volta ed esce dalla stanza. Camminando verso l’atrio della Centrale di Polizia 69 incrocia un uomo alto che indossa un cappello da cow-boy e uno più basso che avanza a fatica sorretto da due stampelle. Lo sguardo sotto il cappello di cuoio la fa rabbrividire; distoglie gli occhi che incontrano quelli neri dell’uomo claudicante. «Buongiorno signorina» le sorride Julian. «Buongiorno» sussurra lei di rimando. Darla è sulla soglia della stanza con le mani sui fianchi. «Julian Smoke, my favorite lover!» esclama andandogli incontro. «Ciao Darla, come stai?» «Julian, stai una favola! Quindi, il segreto per buttare giù dieci chili in un mese è farsi buttare giù da un palazzo! Ci farò un pensierino.» Si avvicina e lo abbraccia appoggiando le labbra sulle sue. «Che profumo di classe, Darla. Hai cambiato fidanzato?» «Horacio Suarez, maestro di tango argentino», risponde mimando la danza sudamericana. «Uomo fortunato.» «Puoi dirlo forte, Julian. Ciao Peter, come stai?» Peter May le accenna un saluto portandosi la mano alla tesa del cappello . «I delitti di Denver sono in qualche modo collegati al caso Sullivan. Questa notte ne abbiamo avuto la conferma: il corpo ritrovato è di Sean Stolnhouse, dello studio legale che difendeva Remi Sullivan.» Peter si avvicina al tavolo e prende in mano la foto di Sean. «L’ho incontrato la settimana scorsa a Denton. È sceso in merito alla perquisizione della casa di Sullivan: è stato molto collaborante.» 70 «Darla, al telefono hai detto che era rientrato a Denver con il fratello. L’avete trovato?» «No. Il corpo di Sean è stato ritrovato al bordo della statale quattordici, da una prostituta che batteva in quella zona.» «E com’era?» «Era messo peggio dei Barkley. Il volto era sfigurato da numerosi morsi: se non fosse stato per i documenti non l’avremmo mai riconosciuto. L’addome era scuoiato, come le altre vittime, ma il torace e le gambe erano gonfie e presentavano delle ustioni da congelamento. Secondo il coroner potrebbe essere morto per annegamento.» «Va bene.» interviene Julian, «Ormai sono le sei e trenta. Direi che possiamo preparare del caffè e iniziare la riunione. Abbiamo abbastanza elementi per valutare eventuali connessioni tra i due casi.» Dan Ranucci entra nella stanza accompagnato da Norman Jackson, il tecnico informatico della FPD. «Ecco, ora ci siamo tutti», aggiunge Darla avvicinandosi alla macchinetta del caffè. Julian accenna un saluto a Dan e a Norman, cammina fino all’angolo opposto della stanza, poi si gira e resta immobile finché nella stanza non scende un silenzio innaturale. «Chi era Remi Sullivan?». Il silenzio è solido e pesante. «Nessuno lo sa. Non è così, Darla?» «Esatto.» «Era un uomo di quarantacinque anni senza un passato e senza una 71 vita nella società civile: non aveva un conto in banca, né carte di credito. Nessun documento di nascita, di battesimo, diploma o un qualsiasi documento che ci possa fornire qualche informazione su dove abbia passato la sua infanzia e la sua gioventù. Non sappiamo se lavorasse e come facesse a mantenersi. Nessun precedente penale, e le sue impronte non risultano archiviate in nessun database nazionale e internazionale. In altre parole, Remi Sullivan era un fantasma con una passione sfrenata per le ragazze dai capelli rossi: in quattro anni ne ha assassinate nove. Non sappiamo se le abbia violentate prima di ucciderle, ma è presumibile pensare di si. I corpi sono stati bruciati in un forno di sua proprietà, a Denton, mentre i capelli sono stati conservati all’interno del suo divano. E Remi Sullivan sarebbe ancora vivo se qualcuno non mi avesse spedito queste.» Julian getta sul tavolo nove fotografie scattate con una Polaroid. Su ciascuna è impressa l’immagine di una ragazza con i polsi e le caviglie legate, sdraiata su un grosso tavolo di metallo. Sullo sfondo, un imponente forno industriale acceso. Tutte le fotografie sono state scattate da una piccola finestra dell’edificio che conteneva il forno. Sul retro delle fotografie, un nome e una data. «Queste fotografie sono state spedite a casa di Charlotte tre mesi fa. Mia moglie fortunatamente non ha aperto la busta perché ha notato una piccola macchia sul retro della busta, una macchia che le è sembrato sangue. Sulle foto non c’erano impronte e il sangue sulla busta è risultato essere di gruppo AB Rh negativo. Il test del DNA non ha mostrato nessuna correlazione con le vittime delle foto, ma è risultato appartenere alla decima vittima: la donna anziana ritrovata 72 nel giardino. Ora, questo significa che Sullivan tre mesi fa era già in contatto con questa donna e ha avuto modo di raccogliere il suo sangue. Secondo il coroner, la morte dell’anziana risale a due mesi fa. Quindi, possiamo desumere che è stata nelle sue mani per almeno un mese, in vita. Cosa ci abbia fatto non è ancora possibile saperlo, ma è quasi certo è che non l’abbia violentata.» «Questo è già un sollievo» butta d’un fiato Norman. «Julian, quello che non mi è chiaro è perché un uomo senza macchia e senza precedenti dovesse avere un avvocato.» «Ottima osservazione, Dan. Ora ci arrivo. Dopo aver ricevuto le foto, abbiamo iniziato a indagare partendo dall’unico indizio che avevamo: l’ufficio postale da cui erano state spedite. Abbiamo cercato la presenza di forni industriali nelle immediate vicinanze e abbiamo scoperto che ce n’era uno nella stessa via. Questo forno era intestato a un ceto Remi Sullivan. Dalle indagini sul suo conto non emergeva nulla di sospetto, se non, che era tutto troppo perfetto. Nessuna contravvenzione, nessun documento, nessun lavoro. Il pomeriggio in cui abbiamo ottenuto il mandato di perquisizione, cinque agenti sono andati a casa di Sullivan, mentre io e Peter ci siamo recati al forno. Appena arrivati, abbiamo visto che il forno era in funzione, ma che l’entrata era sbarrata. Da qui in poi, i miei ricordi sbiadiscono.» Fa cenno con la mano a Peter. «Io e Julian siamo saliti sul tetto e abbiamo visto Sullivan vicino al comignolo che trafficava con una scopa. Non appena ci ha visto ha iniziato a correre. Julian l’ha inseguito e nel tentativo di fermarlo sono caduti entrambi dal tetto.» 73 «Uno così ha un passato da nascondere e l’avvocato probabilmente sapeva di cosa si trattava», aggiunge Darla. «Esatto. È possibile che Sean Stolnhouse sapesse qualcosa che coinvolgeva sia Sullivan, sia chi l’ha tradito. Non è da escludere che possa trattarsi di un cliente dell’ufficio legale per cui lavorava Stolnhouse, ma lo ritengo poco probabile. Sicuramente qualcuno sta cercando di indirizzare le indagini in una certa direzione, ma non sarei tanto convinto che sia quella giusta. Chi mi ha spedito le foto, l’ha fatto per un motivo ben preciso e non credo per pietà nei confronti di quelle ragazze.» Peter May si alza e si avvicina alla macchina del caffè. «Resta da capire cosa c’entrano i Barkley.» «I Barkley potrebbero rappresentare il punto di connessione tra Denver e Denton. Il Sig. Barkley viaggiava molto per lavoro e potrebbe essere venuto a contatto con Sullivan. Ma ritengo più probabile che esista un rapporto diretto con il loro assassino, un legame più intimo. Darla, preferirei che andassi tu a parlare con la signora Barkley: cerca di scoprire com’erano i rapporti in famiglia e se c’erano problemi di qualsiasi tipo. Norman, voglio sapere tutti i trasferimenti del signor Barkley negli ultimi due anni, quante volte è stato a Denton e le tratte più frequenti dei suoi viaggi. Ricontrolla i file del suo PC e fammi sapere quali erano i suoi siti preferiti, i contatti delle e-mail e delle chat. Dan e Peter si occuperanno di informare la polizia locale e di collaborare con le indagini. Io andrò a parlare con i colleghi di Stolnhouse, per valutare quali erano i suoi clienti e se emergono dei sospetti. Quando avremo i risultati del 74 medico legale, Peter?» «Al più tardi, domani pomeriggio. Sono stati rimossi i calcoli dal fegato dei Barkley e domani sapremo se c’era qualcosa di analogo nel fegato di Sean Stolnhouse. Oggi dovremmo ricevere anche il rapporto autoptico dell’anziana ritrovata in giardino.» «Cosa pensi dell’impronta sul collo di Sarah?» chiede Darla prima di bere un sorso di caffè. «L’impronta del bambino? Non saprei. I Barkley non hanno altri figli e non sappiamo se Sarah avesse contatti con bambini, se facesse la baby-sitter o se aiutasse qualcuno nel dopo scuola. Informati dalla madre. Infine, resta da identificare la donna anziana che credo rappresenti la chiave del caso Sullivan e un tassello fondamentale per gli omicidi di Denver.» Julian si avvicina alla sedia a capotavola e si siede. Inspira profondamente e si porta una mano alla bocca prima di essere sopraffatto da un accesso di tosse. «Sei sicuro di sentirti bene?» gli sussurra Darla alle spalle. Julian si versa dell’acqua in un bicchiere di plastica e ne beve un sorso. «Si, grazie. C’è un’ultima cosa di cui volevo parlarvi.» Estrae l’asso di fiori e lo appoggia sulla scrivania. «Qualcuno me l’ha fatto trovare nel Washington Post mentre ero ricoverato a Denton. Non ne sono sicuro, ma forse so chi è stato.» «E sarebbe?» interviene Dan impaziente. «Durante il mio ricovero in Terapia Intensiva ho intravisto don Elia, il parroco di Denton. Non so perché, ma c’era qualcosa di 75 sospetto in lui, nei suoi movimenti e nel suo sguardo. Peter ha controllato nel suo passato ed è saltato fuori che, fino all’età di venticinque anni, ha perso metà della fortuna di suo padre giocando a poker. Poi, sembra che sia stato folgorato sulla via di damasco e si sia convertito, sia entrato in seminario e si sia fatto prete. Non risultano crimini violenti o di natura sessuale a suo carico, ma comunque va tenuto d’occhio. Ho dato disposizione di sorvegliarlo e tra qualche giorno andrò a fare una chiacchierata con lui.» Julian fa una breve pausa poi chiede: «Ci sono domande?» Norman si schiarisce la voce prima di prendere la parola. «Cosa stava bruciando Sullivan nel forno?» Julian si volta in direzione di Peter May e gli fa un cenno con la mano. «Quando le forze speciali sono entrate nell’edificio del forno, la stanza era completamente invasa dal fumo. Abbiamo spalancato le finestre e dopo circa mezz’ora siamo riusciti a recuperare il contenuto all’interno del forno: un cumulo di cenere sotto la quale abbiamo trovato i resti di uno straccio, o un pezzo di stoffa celeste, con una linea rossa lungo un bordo. L’analisi del tessuto ha dimostrato che si trattava di canapa.» Peter mostra le foto del reperto. «Non sono stati trovati resti umani. Abbiamo controllato anche la canna fumaria e, a circa un metro dal comignolo, vi era un grosso restringimento con delle incrostazioni. Suppongo che Sullivan stesse cercando di liberare il condotto con la scopa, prima che arrivassimo. Abbiamo prelevato dei campioni di quelle incrostazioni e l’analisi 76 chimica ha mostrato la presenza abbondante di calcio e colesterolo.» «Colesterolo?!» interviene Norman, aggiustandosi gli occhiali sul naso. «Sì, tessuto adiposo. L’analisi genomica ci ha poi rivelato che si trattava di grasso umano.» Peter appoggia sul tavolo una seconda fotografia che mostra l’incrostazione. «Ma è enorme!» esclama Darla. «Si, è enorme. Considera che sono state trovate incrostazioni simili nei comignoli di Auschwitz e Birkenau.» «Peter, stai dicendo che in quel forno potrebbero essere state bruciate centinaia di persone?!» «Centinaia forse no», intervenne Julian, «ma probabilmente più di nove. Sappiamo che Sullivan era proprietario del forno da oltre quindici anni e la domanda che nasce spontanea è Cosa diavolo ci facesse, se non bruciare le sue vittime?» Julian prende in mano le foto del camino e prosegue. «La polizia di Denton ci ha detto che tra il 1995 e il 2006 sono scomparse circa trenta prostitute della zona. Provate a indovinare di che colore avevano i capelli ?» «Né biondi, né mori, immagino» sospira Norman. «Esatto. Remi Sullivan era in attività da un bel po’ di tempo e solo negli ultimi anni è passato a prede più difficili.» Julian Smoke si avvicina alla grande finestra che s’affaccia sulla città: in lontananza, le cime delle montagne rocciose baciate dai primi raggi di sole e, dietro, macchie di porpora sporcano l’azzurro terso del 77 cielo. Un passero sfiora il vetro e si rialza in volo sbattendo forte le ali. Si allontana, ma è presto raggiunto da un piccolo falco che ne interrompe la fuga e la vita. 78 9. «Ehi guardate, Earl si è pisciato addosso di nuovo!» Earl abbassa il capo e osserva il cavallo dei calzoncini bagnato. Si porta una mano all’inguine e poi alle narici: l’odore di urina è forte e pungente. «Signorina Marie, Earl si è pisciato addosso!» Marie si avvicina con passo deciso, tenendo le mani sui fianchi. Si apre un varco tra il gruppo di bambini che ha accerchiato Earl Laski. «Allontanatevi subito!» esclama. Earl apre gli occhi. Tutt’attorno il buio, saturo di un’aria viziata. I pantaloni dello smoking sono bagnati, ma l’urina è ancora calda e gli da un certo piacere sentire la stoffa umida a contattato con la pelle della coscia. «Bravo Earl, l’hai fatto di nuovo.» Earl non risponde, si copre le orecchie con le mani e scuote ripetutamente la testa. «Sei bravo in quello che fai.» «Stai zitto, vai via!» grida nell’ombra. «La stanno già cercando. E tu sai che è solo una questione di 79 tempo. La troveranno e te la porteranno via.» «No, lei no! Questa volta è diverso.» «Ah si? E allora perché non riesci più a guardarla?» Earl abbassa le mani e si gira verso sinistra: Margaret Lee è appesa alla parete di roccia, con i polsi incatenati, l’addome sventrato e il viso sfigurato da numerosi morsi. «Non sono stato io», piagnucola con lo sguardo in tralice. «Devi portarla via da qui.» «Non sono stato io», insiste. «Alzati stupido!» Earl si solleva a fatica e si avvicina alla sacca di tela. Estrae un grosso sacco di iuta e lo distende ai piedi di Margaret. Si allunga sulle punte per liberare le mani dalle catene: il corpo crolla sul pavimento umido con un tonfo sordo. «…non sono stato io.» sussurra di nuovo. Darla Hemingway parcheggia il duetto color seppia davanti al giardino dei Barkley. Si aggiusta i capelli nello specchietto retrovisore e scende dall’auto portando con sé solo un taccuino nero. Si avvicina alla porta d’ingresso lungo il sentiero di pietre fluviali, mentre una brezza leggera solleva i lembi del trench color kaki. «Chi è?» Susanna Barkley socchiude la porta e si affaccia sulla veranda. Il viso è di un pallore innaturale, estremo, senza alcun artificio cosmetico per nasconderlo. Gli occhi celesti sono piccoli e arrossati, con le palpebre appesantite in un’espressione di dolore e sconforto. 80 «Sono la dottoressa Darla Hemingway.» Lo sguardo della signora Barkley si sofferma dapprima sul distintivo dell’FBI, poi su quel volto regolare e abbronzato che non stonerebbe sulla copertina di una rivista di moda. Si allaccia la vestaglia di seta e apre la porta. «Prego, entri pure.» Darla la segue in soggiorno. Attraversando l’ingresso nota, sulle pareti, una foto di Sarah nel giorno del diploma e una del padre, durante una battuta di caccia. «È un medico legale?» le chiede accomodandosi sul divano. «No, sono una psichiatra.» «Crede che sia pazza?» le chiede invitandola a sedersi sulla poltrona di fronte al divano. «No. Lavoro nell’unità investigativa che indaga sull’omicidio di suo marito e di sua figlia.» La voce di Darla è ferma e il tono lineare. Gli occhi di Susanna si abbassano e si perdono in un punto indefinito, oltre il tavolino da caffè. «So che la polizia le ha già fatto molte domande e ho letto i verbali. Io sono qui per i dettagli, per cogliere quelle sfumature che generalmente sfuggono, nelle prime ore delle indagini. Le voglio fare alcune domande che non riguardano né il giorno della scomparsa, né il delitto. Sono di carattere più generale. È d’accordo?» Susanna annuisce, continuando a fissare qualcosa oltre il vetro del tavolino. «Bene. Signora Barkley, cosa distingue la vostra famiglia da quella 81 dei vostri vicini?» «Che la nostra è stata massacrata?» risponde senza ironia. La dottoressa Hemingway continua a guardarla con l’espressione più dolce che i suoi occhi verdi possano trasmettere. «Non saprei», riprende Susanna passandosi una mano sulla fronte. «Forse che gli Harries hanno due figli maschi e il loro papà è molto più a casa di quanto non lo fosse Steve?». Prende un fazzoletto di carta e si asciuga gli occhi e il naso. «Come mai non avete avuto altri figli, dopo Sarah?» «Non sono venuti.» Susanna inspira, poi prosegue. «A trentacinque anni ho subito un intervento di isterectomia per un tumore.» «Capisco. Adesso sta bene?» «Si, la malattia si è fermata.» «E suo marito era spesso via per lavoro?» «Stava fuori città tutta la settimana e anche un weekend al mese. Era responsabile delle vendite e viaggiava per tutto il paese.» «Il lavoro di suo marito era un problema per lei? Litigavate spesso?» «All’inizio si, mi sentivo sola. Con il tempo mi sono abituata, poi è arrivata Sarah. Con il cancro, invece, Steve è diventato più premuroso e cercava di fare viaggi più brevi.» «Susanna, mi dispiace, ma dovrei farle un’altra domanda.» «La risposta è sì», la interrompe brusca Susanna. «Mio marito aveva una relazione. O meglio, l’ha avuta. Il più classico dei cliché: una relazione con la segretaria. È stato prima della malattia, quando Sarah aveva undici anni.» 82 «Avete parlato di divorzio?» «Certo. Abbiamo avuto anche una breve separazione, ma poi si è aggiustato tutto: Steve ha scelto noi e io ho preferito la famiglia al mio orgoglio. E’ stato molto difficile.» Susanna si alza ed esce dalla stanza. Torna con due bicchieri e una caraffa d’acqua. «Avete parenti, fratelli, genitori?» «Io sono orfana. I miei suoceri sono morti qualche anno fa e Steve aveva un fratello minore, Zackary.» «Dove vive?» «A Denver, ha uno studio dentistico.» «E vi vedete spesso?» «No. I rapporti tra Zackary e Steve si sono raffreddati dopo la morte dei genitori, per l’eredità della casa.» «Ho bisogno del suo indirizzo.» Susanna prende un biglietto di carta e scrive l’indirizzo e il numero di cellulare. Darla si alza dalla poltrona e si avvicina al camino. Sulla mensola di legno una foto di famiglia coi Barkley abbracciati e Sarah in primo piano. È una bella giornata di sole e sullo sfondo la foresta di conifere s’inerpica sul ripido pendio. Dietro a Steve Barkley, s’intravede l’insegna di un’autostazione: Coal Creek, Motor Oil. Darla prende in mano la foto e si volta verso Susanna. «Qui siete a Coal Creek?» «Si, la casa dei miei suoceri è lì vicino.» «Alla fine, a chi è andata la casa?» 83 «A mio cognato; ha pagato una bella somma a Steve e si è tenuto lo chalet.» Darla rimette la fotografia al suo posto. «Va bene signora Barkley, direi che per oggi abbiamo finito. Se dovessi avere altre domande tornerò a disturbarla.» Susanna si alza in piedi e accompagna Darla alla porta. «Lo prenderete?» le chiede senza guardarla negli occhi. «Faremo tutto il possibile.» Dopo un istante di pausa prosegue. «Un’ultima domanda Susanna: lei lo ha mai tradito?» «Adesso esca», risponde con un fremito di rancore nella voce. Darla percorre nuovamente il sentiero che attraversa il giardino con gli occhi della signora Barkley puntati sulla schiena. Prima di entrare in auto si volta verso la veranda dove Susanna è in piedi, con le braccia sul ventre e un’espressione di rabbia e dolore. L’uomo percorre la statale settantuno che scende da Coal Creek verso Denver. Giunto in prossimità del viadotto di Stelton, rallenta e accende le quattro frecce. Accosta nella piazzola per le soste di emergenza, proprio nel punto più alto del ponte. Si tira su il cappuccio e scende dal pick-up, estrae il triangolo dal baule e lo posiziona a un centinaio di metri dalla vettura. Nel tornare indietro, alza lo sguardo verso la telecamera che inquadra la piazzola: si porta l’indice e il medio alle labbra e manda un bacio all’obiettivo. Sono le quindici e trenta e il traffico sul ponte è scarso. L’uomo attende che non passi nessuno e abbassa lo sportello posteriore. Afferra il sacco di iuta che ora è pesante, voluminoso e dalla forma 84 allungata; se lo carica sulle spalle e si avvicina alla ringhiera del viadotto. Sale sul gradino di cemento per superare la paratia, guarda un’ultima volta la telecamera e poi lo getta giù dal ponte. Il sacco precipita per cinquanta metri e sparisce nella fitta boscaglia con un fragore intenso di rami spezzati. 85 10. «Ha un appuntamento?» «Crede che mi serva?» risponde mostrando il distintivo. La segretaria dello studio legale Adam J. Swan si allunga da dietro la scrivania per leggere meglio. «Agente speciale Julian Smoke? Attenda un istante.» Nella voce si scorge una punta di astio mascherata dalla memoria di un accento scozzese. Julian si accomoda sul divanetto Le Courbusier della sala d’aspetto. Sulla parete di fronte, un quadro contemporaneo che raffigura l’amore improbabile tra una rana e un toro, firmata da Roda. Su quella laterale, un’opera minimalista su tela grezza, dallo sfondo celeste e con una linea verticale color magenta. Julian guarda l’orologio da polso, diciotto e quarantacinque. Attende ancora cinque minuti, poi si solleva sulle stampelle e torna dalla segretaria. «Qual’è l’ufficio di Adam Swan?» «Deve aspettare, è al telefono.» Senza attendere oltre, Julian s’incammina verso il lungo corridoio 86 che porta agli uffici dei soci. «Aspetti», gli intima la segretaria da dietro la scrivania, «le ho detto che deve aspettare!» Svoltato a destra, Julian si ritrova in un secondo atrio circolare dal quale si accede a cinque stanze. Sulla prima porta il nome di Sean Stolnhouse. Si avvicina alla porta centrale ed entra senza bussare. L’ufficio è enorme, con le pareti in quercia e un’ampia parete di cristallo che si affaccia sulla città. Adam Swan è di spalle, rivolto verso la vetrata. «Stai tranquillo, la cauzione per la libertà vigilata non può superare il milione.» Esegue una rotazione di novanta gradi e con l’occhio scorge la figura di Julian, appena oltre la soglia. «Scusami, ti posso richiamare?» Attende ancora qualche secondo al telefono, poi riattacca. Conclude la rotazione della sedia e appoggia i gomiti sulla scrivania. «Posso esserle utile?» Julian rimane molto sorpreso nel vedere che il socio più importante dello studio non supera i trentacinque anni di età. Fa per avanzare sulle stampelle quando viene raggiunto dalla segretaria alle sue spalle. «Avvocato, mi scusi, è entrato senza permesso.» «Non si preoccupi, Sonia. A cosa devo il piacere della sua visita? Ha ucciso qualcuno di recente?» domanda allentandosi il nodo della cravatta. «Io no, e lei?» replica avvicinandosi. «Avvocato», interviene Sonia, «questo è l’agente speciale Julian 87 Smoke, della FBI.» Adam Swan si arresta un istante, poi riprende la parola. «Mi scusi per la battuta. In cosa posso esserle utile, agente?» chiede, invitandolo a sedersi. Julian raggiunge la poltrona, lancia un’ultima occhiata al viso senza rughe dell’avvocato, ed infine cede alla tentazione. «Perdoni la domanda, ma quanti anni ha?» «Quarantasei, ma ne dimostro molti meno. A cosa devo la sua visita, agente Smoke?» «Da quanto tempo lavora per lei, Sean Stolnhouse?» «Da circa due anni, perché?» «E’ stato ucciso. Il suo corpo è stato trovato stanotte.» «Oh mio Dio! Nessuno ci ha avvertiti», esclama drizzandosi sulla schiena. «È una cosa terribile! Com’è successo?!» Julian non risponde e continua a osservare la reazione dell’avvocato. «Mi scusi, ma devo bere qualcosa, sono sconvolto!», prosegue alzandosi in piedi e portandosi al mobiletto del bar. Versa del whisky in due bicchieri, beve in un fiato il primo e porge il secondo al Julian che lo osserva senza muoversi. «Era solo un ragazzo!» e beve il secondo bicchiere. «Devo parlare con i suoi genitori, sono dei cari amici.» «Capisco il momento, ma dovrei farle alcune domande. Sarò breve.» «Ma certo, dica pure.» risponde tornando a sedere. «È lei che ha affidato Sullivan a Sean?» 88 «Remi Sullivan? No, è uno dei pochi clienti che Sean seguiva prima di entrare nello studio.» «Sa perché Sullivan avesse chiesto un avvocato?» «Non saprei. A dire il vero non ne avevo mai sentito parlare, prima che fosse ucciso. Mi aveva accennato che seguiva un cliente a Denton per una vecchia eredità, da un parente in Europa.» «Può darmi il file di Sullivan?» Adam Swan si appoggia allo schienale della poltrona e si porta la mano al mento. «Purtroppo è coperto dal segreto professionale.» Julian sa bene che l’Ordine degli Avvocati impone il segreto professionale anche dopo il decesso del cliente. Tuttavia, in caso di morte anche del legale si può attingere ai dati del cliente, se un parente ne è in possesso. Nel caso di un socio del legale defunto, la questione diventa molto più complicata. «Avrei bisogno dell’elenco dei clienti di Sean.» Adam resta a fissare Julian con il bicchiere in mano, poi abbassa lo sguardo e butta giù l’ultimo sorso. «E va bene, Diavolo! Se è per incastrare quel figlio di puttana lo prenda pure.» Alza la cornetta e digita il nove. «Sonia, faccia avere all’agente Smoke l’elenco dei clienti di Sean.» «La ringrazio» interviene Julian non appena Adam riattacca. Si alza in piedi e fa per stringergli la mano, quando l’occhio gli cade su un quadro appeso alla parete di sinistra. «Non ci credo!», esclama. 89 «Si intende di arte, agente?» «No, ma la mia ex moglie era un’appassionata del periodo espressionista.» «Dunque lo ha riconosciuto?» «Non mi dica che è autentico.» «Un Soutine originale, acquistato a Parigi tre anni fa. Pensi che è stato ritrovato in una vecchia cantina abbandonata.» «Varrà una fortuna.» «È probabile, ma non importa, non ho intenzione di separarmene.» Il dipinto raffigura il corpo di un vitello sventrato, con gli arti legati e serrati a quattro pali di legno. «Sa perché Soutine dipingeva questi animali?» «L’interpretazione più diffusa è che questi animali rappresentino i membri della famiglia del pittore. Soutine aveva uno spiccato istinto omicida.» «È vero. Sa che esiste anche un quadro che raffigura un uomo nella stessa posizione, con il corpo squartato?» «Sì, è di un collezionista italiano. Avvocato, grazie ancora per l’elenco. Potrei avere ancora bisogno di lei.» «Venga pure quando vuole.» Adam Swan gli stringe la mano dopo avergli aperto la porta. Nel parcheggio, Julian continua a scorrere l’elenco dei nomi che gli ha fornito Sonia, ma nessuno gli ricorda un caso o un’indagine particolare: tutti nomi sterili, senza un passato, senza un eco nelle cronache nazionali, senza alcun interesse. Sa che dovrà incontrarli tutti, uno dopo l’altro. Visiterà le loro case, le loro stanze, per cogliere 90 quella fotografia o quell’oggetto che li tradirà. Parlerà con loro di quello che fanno nella vita e di ciò che dà loro piacere, starà ad osservare la mimica facciale, come inarcano il sopracciglio o come si flette la voce nel rispondere ad una domanda inaspettata. Osserverà i loro gesti involontari, le loro mani che toccano parti del corpo lontane, per la comparsa di un prurito improvviso. Osserverà i loro sguardi sfuggenti, la danza dei loro occhi in un balletto di falsità e inganni. E inizierà proprio dall’ultimo della lista: Earl Laski. 91 11. Darla Hemingway entra nella sala riunioni dove sono già presenti Julian e Peter May. «Avete letto il giornale stamattina?» «Stavamo appunto parlando di questo», risponde Julian. «Gli hanno dato un nome e a questo seguirà il panico generale.» «Lo so. Ma la cosa peggiore è che gli hanno dato quello che voleva: un pubblico e un palcoscenico. D’ora in avanti sarà ancora più scenografico: ha ottenuto l’attenzione dei media e non vorrà certo deluderli. D’ora in poi, per tutti sarà L’Onnivoro e si porterà questo nome fino alla tomba. Oggi, per lui, è il giorno del battesimo.» «Qualcuno deve avere parlato dall’interno. La stampa non può sapere che chiamiamo così il predatore che sceglie le vittime senza preferenza di sesso, razza ed età.» «Esatto. Occorre stare molto attenti a fornire le informazioni alla polizia locale. Cerchiamo di essere concordi sui punti chiave dell’indagine. Da qui in avanti parlerò con le autorità locali esclusivamente io, li aggiorneremo una volta a settimana. Non possiamo rischiare di dare troppo vantaggio al nostro uomo con altre 92 fughe di notizie.» In quel momento, bussa alla porta il sergente O’Malley, della Polizia Stradale di Denver. «Scusate, dovete vedere una cosa.» Entra con un CD in mano. Julian gli fa cenno di avvicinarsi al computer portatile sul tavolo. «È stato registrato ieri pomeriggio, da una telecamera di sorveglianza, sul viadotto di Stelton.» Inserisce il CD nel portatile e sulla schermata compare l’inquadratura di una piazzola d’emergenza. Il video è in bianco e nero, ma la qualità è buona. L’orologio in alto a destra segna le quattro e quarantatré pomeridiane. L’uomo che esce dal furgone ha una giacca con cappuccio. Si allontana dal pick-up e dopo un minuto torna nell’inquadratura. Si ferma e alza il capo in direzione della telecamera: il volto è coperto da una maschera di gomma. Avvicina la mano alla bocca e manda un bacio all’obiettivo. Torna al furgone, estrae un sacco e si avvicina alla ringhiera del viadotto. Un ultimo sguardo alla telecamera, prima di gettare il sacco oltre la paratia. «Ci accompagni immediatamente al viadotto» esclama Peter May indossando la giacca. «Ho già mandato una squadra sotto il ponte e un’auto vi sta aspettando fuori per accompagnarvi.» «Avete controllato il pick-up?» chiede Julian seguendo il sergente lungo il corridoio. «Risulta rubato. La denuncia è stata fatta una quindicina di giorni 93 fa e il proprietario si chiama... » prosegue sfogliando il taccuino, «... ecco! Si chiama Earl Laski.» Julian si arresta di colpo. «Come ha detto?» «Earl Laski. Ha denunciato il furto due settimane fa.» «Non può essere», esclama con lo sguardo oltre la vetrata d’ingresso. Estrae la lista dei clienti di Sean Stolnhouse e controlla. «Darla, Peter, voi andate al viadotto. Io vado col sergente a casa del proprietario del furgone.» «Va bene» risponde Darla guardando Peter con aria interrogativa. Dopo circa mezz’ora la volante della stradale si ferma davanti a una villetta bianca in Washington street Julian osserva la casa oltre il vetro del finestrino. È proprio come la immaginavo. Scende dall’auto e s’incammina verso la porta d’ingresso. Dalla finestra a pian terreno scorge il movimento leggero di una tenda e accelera il passo. Il sergente O’Malley bussa tre colpi alla porta. «Polizia di Denver.» Dalla casa non giunge alcuna risposta. «È in casa, l’ho visto alla finestra.» «Aprite, polizia di Denver!», ripete bussando con più energia. Julian costeggia la parete frontale della casa e getta lo sguardo oltre la staccionata di legno, sul lato destro del giardino. Nel retro della villa, nota un ampio spazio con un barbecue ancora fumante. La siepe è poco curata e gli alberi hanno rami secchi, spogli e disordinati. 94 Torna all’ingresso, dove il sergente O’Malley continua a bussare. «Qui non c’è nessuno.» «Quanto ci vuole per un mandato?» «Agente Smoke, Laski ha solo denunciato il furto del suo furgone, non credo che il giudice dia l’autorizzazione a perquisire la sua casa.» «Ha ragione. Mi faccia un favore, però: mi controlli cosa sta bruciando nel barbecue sul retro.» «Agente, è proprietà privata.» «Lo so, ma se non ci va lei, scavalco la staccionata con le stampelle e ci vado io.» «Va bene, va bene. Mi spetti qui.» Il sergente scavalca il recinto e arriva fino al barbecue. Si china sulle braci per vedere meglio, poi si volta verso Julian. «E’ solo un pezzo di stoffa!» «Accidenti, lo tiri via dal fuoco!» O’Malley estrae una penna dal taschino e solleva il lembo di stoffa fumante. Lo getta a terra e lo calpesta per spegnerlo. Tornato da Julian gli porge il reperto. «Doveva proprio calpestarlo? Ora la scientifica saprà dove ha camminato negli ultimi trenta giorni.» «Mi scusi.» risponde guardandosi le suole degli anfibi. Julian sorregge la stoffa con la penna e la depone in un busta di plastica. Il materiale sembra cotone, spesso pochi millimetri, di colore rosso. «Mi faccia avere quel mandato al più presto. Ora andiamo al viadotto.» 95 Dal ponte si possono intravedere le casacche blu degli agenti di polizia e quelle gialle della scientifica. Al centro della valle il fiume Carlson, ridotto a poco più che un rigagnolo d’acqua che scende tortuoso tra le rocce. Julian si avvicina alla paratia e dall’alto gli sembra di scorgere il trench di Darla. La ricetrasmittente del sergente O’Malley gracchia un paio di volte prima di liberare la voce di Peter May. «Mi passi l’agente Smoke.» «Sono qui, Peter.», risponde prendendo la cornetta in mano. «Il sacco conteneva un corpo», replica con timbro metallico. «Il problema è che lo schianto con i rami ha tagliato la tela e il corpo si è diviso in due. Stiamo cercando il tronco e la testa. Le gambe sono quelle di un giovane uomo.» «Ha un tatuaggio sulla gamba destra?» «Si, un tribale. Dovrebbe corrispondere a quello di Tom Stolnhouse, il fratello dell’avvocato.» «Va bene, chiamami appena trovate la testa.» Julian estrae dalla tasca il pezzo di stoffa trovato nel giardino di Laski e il quaderno di appunti dove aveva riportato la descrizione dei fratelli Stolnhouse. Né Sean, né Tom indossavano indumenti rossi. Su di un lato del pezzo di stoffa è presente un bordo di pizzo. «Sergente, le risulta che sia sparita qualche prostituta, negli ultimi mesi?» «Non mi sembra. Due giorni fa, però, una ragazza è passata in centrale dicendo di essere preoccupata perché da qualche giorno 96 un’amica non rispondeva al cellulare. Abbiamo mandato una pattuglia a casa e sembrava tutto in ordine: la macchina non c’era e la porta era chiusa senza effrazioni. Probabilmente si è allontanata da Denver per qualche giorno.» «Si ricorda se le persiane erano abbassate?» «Questo è l’unico particolare che stonava: l’agente della stradale che ha controllato ha detto che erano alzate e non ha avuto l’impressione di una casa disabitata.» La ricetrasmittente gracchia di nuovo. «L’abbiamo trovata.» «E non si tratta di Tom Stolnhouse, vero?» «Il torace e la testa sono separati, e non potrebbe essere altrimenti. Il torace infatti è di un uomo, ma la testa é di una ragazza, una donna dai tratti orientali. Julian, qui qualcuno ci sta prendendo per il culo.» «Venite sù al più presto.» «Sergente, voglio un mandato di arresto per Earl Laski e i dati della donna scomparsa. Porta questo pezzo di stoffa alla scientifica e fammi avere un’analisi preliminare entro sera.» «D’accordo. Potrei farle una domanda?» «Vuole sapere perché Earl Laski avrebbe dovuto denunciare il furto del suo pick-up e poi usarlo per trasportare due cadaveri? Ci provi a pensare.» «Per crearsi un alibi?» «È un’ipotesi. O qualcun altro lo sta mettendo in mezzo, proprio com’è successo con Sullivan.» Julian getta lo sguardo oltre il ponte, inspira l’aria che sa di polvere 97 e smog, poi s’incammina verso la volante. Una fitta gli trapassa il torace. Si appoggia al cofano dell’auto ed estrae, dalla giacca, una compressa di ossicodone che ingoia senz’acqua.» 98 12. All’interno della stanza Earl Laski continua a giocherellare con le mani sul tavolo, tenendo il corpo leggermente flesso in avanti. La camicia è bagnata di sudore e fini gocce scendono dalla fronte lungo il profilo del naso. Le grosse lenti da vista si appannano frequentemente ed Earl è costretto a pulirle col bordo della camicia. «Ha detto qualcosa?» chiede Julian entrando nella stanza accanto. A passi lenti si avvicina al grande vetro a specchio. Darla lo saluta dandogli un bacio sulla guancia. «Non ha detto nulla. Non ha chiesto nemmeno del suo avvocato.» «Forse perché se l’è mangiato» aggiunge Dan con, un sorriso triste. Julian e Darla lo guardano senza parlare. «Scusate.» «Avete spento il condizionatore?» «Sì. Lo interroghi tu?» «Forse è meglio che ci vada tu, Darla. Non credo che abbia un buon rapporto con le donne e penso che tu possa ottenere molte più informazioni rispetto a ciascuno di noi. Cerca di assecondarlo e 99 addolcirlo, poi fatti accompagnare nei suoi luoghi preferiti, dove ama rifugiarsi quando è solo.» «Vedo che ti hanno fatto bene le sedute dallo strizzacervelli.» «È vero, mi sono fatto delle belle dormite sul tuo lettino», replica sorridendo. Darla entra nella stanza con una cartellina in mano. Earl la sfiora con lo sguardo, mantenendo il capo chino. «Buongiorno, sono la dottoressa Hemingway. Lei invece si chiama...» finge di leggere il nome su un foglio, «...Earl Laski, è corretto?» Earl non risponde e con una mano si tocca la maglietta bagnata, sotto la camicia. «Le hanno detto che ha diritto ad un avvocato?» Nessuna risposta. «Va bene.» Darla si slaccia il bottone della camicetta e si china sul tavolo per incrociare gli occhi di Earl. Lo sguardo di Laski cade un istante sul seno di Darla, poi torna sul piano in formica della scrivania. «Di che cosa mi vuoi parlare?» gli sussurra a una ventina di centimetri dal viso. Questa volta le parole entrano nella mente di Earl e raggiungono un punto indefinito del sistema limbico, nascosto da anni d’imbarazzi e mortificazioni, tentativi di riscatto e delusioni. Solleva appena il capo con occhi meno spenti. «Io non ho fatto nulla.» risponde col sopracciglio destro leggermente inarcato e con la voce di un bambino colpevole. 100 Darla si gira dapprima verso il grande specchio della parete, poi torna a guardare quell’uomo che sembra uscito da un film dei fratelli Choen. «Quindi non sei stato tu?» prosegue con lo stesso tono. «Io non ho fatto nulla.» «Non le volevi fare del male?» «No.» sussurra. Darla gira attorno al tavolo e si siede al suo fianco. «Ti piaceva?» gli chiede sfiorandogli la mano. Al contatto con Darla, Earl ritira il braccio allarmato e gira la testa dalla parte opposta. «Non devi avere paura, sono qui per aiutarti.» Earl chiude gli occhi e si ritrova nello studio della dottoressa Leclerc. «Non devi avere paura» le ripete stringendogli il muscolo del collo. Apre gli occhi e Francisca Leclerc è seduta sulla scrivania davanti a lui. La sua pelle è così scura che i raggi del sole filtratati dalla finestra la rendono lucida. Lui è solo un bambino di otto anni, ma sa bene perché l’hanno accompagnato lì. «È sempre colpa di Jamad?», gli chiede Francisca. «Sì» «È lui che ti dice quello che devi fare?» «Sì» «E questa volta cosa ti ha detto?» Earl si volta a guardare il braccio di Francisca che continua a stringergli il muscolo del collo. 101 «Di soffocare il gatto. Ma io gli volevo bene e gli ho detto di no. Ma lui ha iniziato a picchiarmi sulla schiena.» «Fammi vedere.» Earl solleva la maglietta e mostra i graffi sulle spalle. «E tu cos’hai fatto?» «Gli ho chiesto di smetterla, ma non smetteva. Allora ho preso il gatto e l’ho stretto forte, perché così Jamad non gli faceva male. Poi s’è addormentato e l’ho portato a letto con me.» «Come tre anni fa, ti ricordi?» «No, quello era un gatto che non mi piaceva.» «Ma qui non stiamo parlando di gatti, vero Earl?» Earl apre gli occhi e torna a fissare quella donna dagli occhi verdi e la carnagione chiara, con una voce così calda che gli verrebbe voglia di farsi raccontare una storia. «Come hai conosciuto Margaret Lee?» Ora c’é una lieve flessione nella sua voce. «Lasciami stare.» «Dove l’hai conosciuta?» «Voglio il mio avvocato.» bisbiglia guardando un punto indefinito oltre le spalle di Darla. «Non ce l’hai più un avvocato, non ricordi? Gli hai mangiato la faccia e l’hai scaricato in una piazzola sulla statale.» Earl non risponde. «Dove hai conosciuto Margaret Lee?» insiste Darla. Earl attende qualche secondo, poi risponde. «A una festa.» 102 Darla devia leggermente lo sguardo in direzione della parete a specchio, poi torna a fissare Earl. «Ti ricordi com’era vestita?» Questa volta la pausa é un po’ più lunga. «Aveva una gonna rossa.» Julian si gira verso Norman. «È il pezzo di stoffa che abbiamo trovato nel barbecue.» «E dopo la festa dove l’hai portata?» «L’ho invitata a casa mia.» «Ma lei non voleva venire, vero?» Earl non risponde. «E a casa cosa avete fatto.» «Ho preparato tutto.» «Tutto per cosa?» «Per andare da Silvio.» «Il ristorante?» «Si, ma non quello in centro.» «E Margaret era felice?» Earl si guarda le unghie sporche di terra. «Non parlava molto.» «Siete andati a Coal Creek?» Earl annuisce leggermente con la testa. «È lì che l’hai uccisa?» sussurra avvicinandosi. Earl continua a fissare le mani intrecciate. «Io non ho fatto niente. È stato Jamad.» «Chi?» chiede Darla drizzandosi sulla schiena. «Jamad.» ripete con voce calma. 103 Darla cammina verso la parete a specchio, fa un ampio giro della stanza e si pone alle spalle di Earl. «È un tuo amico?» Silenzio. «Da quanto lo conosci?» «Da quando ero piccolo.» «È lui che ha buttato i corpi giù dal ponte?» Earl solleva le spalle. Darla appoggia sul tavolo la cartellina con le foto dei corpi mutilati ed esce dalla stanza. «Chi è questo Jamad?» chiede Darla a Julian, una volta entrata nella camera a fianco. «Non saprei. Norman, fai subito una ricerca in tutti i database.» «Sei stata molto brava.» «Grazie. Vuoi che torni dentro? Secondo me è sul punto di crollare.» «Va bene. Il giudice ha autorizzato la perquisizione della casa. Cosa ne pensi, può essere lui il nostro uomo?» «Credo che possa aver sequestrato e ucciso Margaret, ma non mi spiego tutto il resto. Quello che la stampa chiama l’Onnivoro ha una personalità completamente diversa. E’ un uomo forte che sa quello che vuole e sa come ottenerlo. Ha una personalità dominante, decisa, estremamente narcisista. Earl Laski è tutto l’opposto e al massimo può svolgere un ruolo da gregario.» Julian si appoggia alla parete e solleva la testa verso la luce al neon. 104 «Sono d’accordo. Dobbiamo scoprire il legame tra Laski e il nostro predatore. Sta continuando a prendersi gioco di noi e credo che si stia divertendo un sacco. Dì a Norman di passare al setaccio la vita di Earl Laski e di scoprire chi diavolo è questo Jamad.» 13. 105 «Sono denti!», esclama entrando nella stanza senza bussare. Dan Ranucci ha in mano una busta gialla e nell’altra il referto del medico legale. «Grazie Dan, ma non c’erano molti dubbi», risponde Peter senza distogliere lo sguardo dal video. «Non le impronte sul collo, Peter. I due calcoli nel fegato dei Barkley. Sono dei molari.» Darla gli va incontro per leggere il referto del coroner. «Dov’è Julian?» «È partito per Denton. Voleva interrogare don Elia e poi, al rientro, il fratello del signor Barkley.» «Il dentista?» chiede Dan con la sorpresa di un bambino che ha appena avuto un’intuizione. Julian si ferma davanti all’entrata della chiesa. L’edificio è enorme e sovrasta, come una madre gelosa, le numerose villette del quartiere residenziale. Si avvicina al grosso portone di bronzo su cui sono raffigurati i quattro evangelisti. Al centro, una piccola croce dalla forma strana, non convenzionale: il braccio superiore e quelli laterali sono corti e arrotondati, mentre quello inferiore si allarga all’estremità 106 e termina con una sezione piana. L’asso di fiori è la prima cosa che gli viene in mente. Sei tu che non riesci a smettere di giocare o è il gioco che non ti lascia cambiare vita? Julian fa per entrare, ma la porta è bloccata. Gira sul lato destro e raggiunge l’ingresso della canonica. La porta è socchiusa, ma Julian suona il campanello senza entrare. «E’ qui per le confessioni?» Ad una prima occhiata, Julian ha l’impressione che don Elia sia molto più stanco ed invecchiato rispetto a qualche mese prima. «Un momento, ma lei è quell’agente della FBI...?» «Esatto, vedo che ha buona memoria.» «Non dimentico mai una faccia.» «È una dote utile nel poker.» Don Elia si blocca, poi cerca con lo sguardo il quadrante dell’orologio al polso. «Deve andare da qualche parte?» «Sto aspettando una persona. Aveva bisogno di qualcosa?» «Volevo farle qualche domanda su Remi Sullivan.» «Le ho già detto che non lo conoscevo.» Le mani del parroco non trovano pace, prima in tasca, poi libere sui fianchi ed infine ad alleviare un prurito insopportabile alla nuca. Julian lo scruta immobile, senza distogliere lo sguardo dal suo. Ecco come hai perso tutti quei soldi a poker: non sai bluffare. «Chi era la donna che assistevi in ospedale?» Don Elia si sorprende del tono confidenziale con cui adesso gli 107 rivolge la parola. «Quale donna?» «Ti ho visto in Terapia Intensiva un mese fa.» «Era mia madre», risponde sollevando lo sguardo a sinistra. «Balle!» Julian si avvicina di un passo. «Mi scusi, ma cosa vuole da me?» «La verità.» «Devo chiamare il mio avvocato?» «Di solito questa la prendiamo per un’ammissione di colpa.» Julian si avvicina ancora e ormai è a pochi centimetri dal volto del parroco. Piccole gocce di sudore imperlano la sua fronte, la cute è arrossata e le pupille sono ridotte a due capocchie di spillo. «E va bene», riprende abbassando lo sguardo. «Si trattava di suor Magdalena. È stata ospite della nostra comunità per alcuni mesi, insieme ad una consorella, suor Odette. Appartenevano a un piccolo ordine del sud della Francia, Le sorelle di Maria Vergine. Suor Magdalena era gravemente ammalata ed era in attesa di un trapianto di midollo. Aveva un gruppo sanguigno molto raro e le probabilità di trovare un donatore erano esigue. Stava perdendo le speranze quando è stato trovato un donatore compatibile a Denton. È stata fatta venire qui dalla Francia, è stata ricoverata e ha iniziato ad eseguire tutti i controlli per il trapianto. Purtroppo la procedura ha richiesto diversi interventi per stabilizzare le sue condizioni e non è stato possibile effettuare immediatamente l’intervento. Sono passate alcune settimane e quando era tutto pronto per il trapianto è successa una cosa terribile.» 108 Julian ascolta il racconto, appoggiato alle grucce di alluminio. «Il giorno prima dell’intervento, il donatore è morto.» Julian flette il collo a destra. Da un minuto il braccio è contratto da uno spasmo di dolore che si estende alla spalla e alla mascella. Si libera delle stampelle e inizia a massaggiarlo con la mano. «Com’è morto?» chiede storcendo le labbra. Don Elia osserva i movimenti di Julian, l’insofferenza delle mani e il pallore del viso. La congiuntiva è arrossata e una lacrima stravasa oltre il bordo oculare, scendendo lungo la guancia smagrita. «Si sente bene?» «Com’è morto il donatore?» ripete la domanda. Don Elia estrae un piccolo rosario dalla tasca dei pantaloni. «È precipitato dal tetto di un edificio.» Peter May è di fianco al tavolo anatomico, con gli occhi puntati all’interno della gabbia toracica. «Sono denti molto vecchi; uno è cariato fino alla radice, l’altro è scheggiato e ampiamente usurato.» «Dottore, sa dirmi se sono di un uomo o di una donna?» Il dottor Koening esegue un’ampia incisione sull’addome di Margaret Lee. «Il test del DNA ci dice che appartengono a una donna.» Fa una breve pausa asciugandosi il sudore dalla fronte con la manica del camice. «Dallo stato dei denti, direi una donna anziana.» Peter May sfoglia le immagini del cadavere ritrovato nel giardino di Remi Sullivan. 109 Una donna anziana. «Mi stai dicendo che il pluriomicida Remi Sullivan era un donatore di midollo osseo?!» Julian s’interrompe e a fatica estrae la carta da gioco dalla tasca della giacca. «E cosa mi dici di questa?» Don Elia prende in mano l’asse di fiori. «Dove l’ha trovata?» «Me l’hanno fatta recapitare in ospedale. Ne sai qualcosa?» Don Elia non risponde. «E’ vero che hai perso un sacco di soldi a poker?» «Questa non è una carta da gioco. E’ l’Angelo bambino.» «Cos’è?» «È l’Angelo bambino. Alla fine dell’ottocento, un frate provenzale, Henri De Bois, ha fondato una piccola congregazione che aveva lo scopo di aiutare i bambini di strada. Il simbolo scelto per rappresentare la comunità è l’Angelo bambino che gli è apparso in sogno indicandogli il fine della sua missione.» «Come mai il simbolo è presente sulla porta della tua chiesa?» «L’ho fatto aggiungere quando sono venuto qui. Anche noi aiutiamo bambini orfani e ragazze in difficoltà.» Julian si riprende la carta e la gira mostrando il retro a don Elia. «E questi numeri, hanno qualche significato?» Il parroco osserva la carta leggermente inclinata. «Non mi dicono nulla.» 110 «Le due consorelle sono tornate in Francia?» Don Elia fa una lunga pausa. «Suor Magdalena è tornata in Francia dieci giorni fa. Purtroppo i medici le hanno dato poche settimane di vita. Suor Odette, invece, è scomparsa alcuni giorni dopo il suo arrivo a Denton. Soffriva di una grave depressione e pensiamo che si sia allontanata perdendosi per le vie della città. Abbiamo denunciato la scomparsa alla polizia, ma non ne abbiamo saputo più nulla.» «Ha una foto di suor Odette?» «Sì. Venga nel mio ufficio.» Julian segue don Elia lungo il corridoio illuminato dalle ampie vetrate colorate. Sulle pareti, le quattordici stazioni della Via crucis. Il parroco entra nello studio e si avvicina alla scrivania di legno scuro. «Ecco, è in questa busta.» Julian si porta alla finestra per osservare meglio la busta bianca su cui è incollato un francobollo da due euro raffigurante l’Arc de Trionf. Estrae la fotografia in cui suor Odette è ritratta in una giornata di sole. Avrà una ventina d’anni, col volto fresco e gli occhi umidi. Sullo sfondo una siepe scura che contrasta con l’abito azzurro dell’ordine. Al collo, di nuovo quella croce dalla forma strana. L’Angelo bambino. «Suor Odette e suor Magdalena appartengono all’ordine di De Bois?» «Esatto.» Don Elia si avvicina a Julian e gli mostra la denuncia di scomparsa di suor Odette. Julian gli dà un’occhiata veloce, poi torna ad osservare la busta bianca che conteneva la foto. Il timbro postale è sbiadito, ma 111 qualcosa attira la sua attenzione: è qualcosa di familiare, conosciuto, già visto. 13020. Il codice d’avviamento postale! «Da dove è stata spedita?» «Da Marsiglia.» Julian estrae nuovamente l’asso di fiori e confronta le cifre sul retro con quelle del timbro postale. In un angolo, 13020. Nell’altro 33. «Come hai detto che si chiama l’ordine di suor Odette?» «Le Sorelle di Maria Vergine.» «Hai l’indirizzo?» Don Elia controlla l’indirizzo nella rubrica. «Rue de Maupassant 33.» Dopo un momento, Julian torna a guardare il parroco di Denton. «Va bene don Elia, grazie della collaborazione. Se non ti dispiace, terrei questa foto.» «Non c’è problema», risponde stringendogli la mano. Julian s’incammina verso l’uscita poi, sulla soglia, si gira nuovamente. «Un’ultima cosa. Che visita doveva fare suor Odette, il giorno della scomparsa?» «Soffriva di un forte mal di denti e quel giorno aveva prenotato una visita odontoiatrica.» «Sai dirmi il nome del medico che avrebbe dovuto visitarla?» «No, ha prenotato la visita direttamente in ospedale.» «Grazie ancora», risponde prima di girarsi e incamminarsi verso il taxi. 112 Il telefono squilla ripetutamente, mentre l’acqua tiepida scorre sulla schiena di Darla. Horacio le afferra il bacino e le spinge il busto in avanti. I movimenti si fanno sempre più rapidi, decisi e i gemiti più acuti. Lei allarga le gambe, appoggiandosi al vetro del boxe doccia per non perdere l’equilibrio. Maledizione, rispondi! Il taxi percorre velocemente la settima strada in direzione del centro. L’orologio al polso segna le dieci e trenta. «Si fermi qui, grazie.» «Ma il Bristol è a due isolati.» «Non si preoccupi. Tenga il resto.» Julian allunga al tassista una banconota da venti dollari ed esce dalla macchina appoggiandosi alle stampelle. Dopo pochi metri, raggiunge un drugstore illuminato a giorno. Perlustra gli scaffali di tutte e quattro le corsie e, non trovando quello che cerca, si presenta alla cassa con la boccetta di ossicodone in mano. «Me ne potrebbe dare un’altra?» chiede al ragazzo del bancone. Il commesso prende in mano il farmaco, poi torna a Julian con un mezzo sorriso. «Sa che può dare dipendenza?» Julian non risponde, continuando a fissarlo immobile. «Mi sa che è già dipendente», bisbiglia alzando la cornetta. «Cos’hai detto, testa di cazzo?!» «Sicurezza, potete intervenire al 342 della settima...» La stampella si schianta sul telefono distruggendone il corpo di 113 plastica. «Ma è impazzito?! Non posso distribuire oppiacei senza una prescrizione medica!» «E che problema c’è?», risponde estraendo la ricetta con il timbro della dottoressa Hemingway. Il ragazzo solleva il foglio con la mano tremante. «Ma non poteva dirlo subito?» «Non me l’hai chiesta, brutto stronzo!» A mezzanotte e un quarto il cellulare di Julian inizia a vibrare nella tasca dei jeans. «Ciao Darla, come va a Denver?» «Hai letto l’e-mail che ti ho mandato? Abbiamo scoperto cosa conteneva il fegato delle vittime: non erano calcoli. I Barkley, Margaret e i fratelli Stolnhouse avevano dei denti infilati nelle vie biliari. Si tratta di denti abbastanza vecchi e il coroner dice che appartengono alla stessa persona. Una donna. Sono in corso i test per valutare la corrispondenza con le altre vittime.» Julian ascolta sulla poltrona della camera d’albergo. «Julian, ci sei?» «Sì, continua pure.» «Sono stati inseriti dall’esterno, dopo aver scuoiato l’addome. Sono tutti denti malconci, usurati e cariati. Tuttavia, quello trovato nel fegato di Margaret Lee presentava i segni di una recente otturazione.» «Forse so a chi appartengono. Circa due mesi fa è scomparsa una suora francese a Denton. Don Elia mi ha detto che il giorno della 114 scomparsa ha eseguito una visita odontoiatrica. Ha prenotato una visita in ospedale e le hanno fissato un appuntamento in un ambulatorio pubblico, dove esercitano medici volontari. Domani andrò a controllare chi ha prestato servizio il giorno della scomparsa.» «Hai detto una suora francese? E cosa centra con gli omicidi?» «È un po’ complicato da spiegare al telefono. Hai saputo qualcosa dell’impronta di bambino trovata sul collo di Sarah Barkley?» «Nulla, mi dispiace.» «Riepilogando: troviamo padre e figlia seviziati e trucidati su un picco delle montagne rocciose, in un’area piuttosto isolata, e sul collo della ragazza sedicenne è presente l’impronta di un bambino. Ora, viene da chiedersi se era presente un bambino durante l’omicidio, o se un bambino ha trovato il cadavere di Sarah e l’ha toccato. Nel secondo caso potrebbe essere avvenuto durante un’escursione, magari con la scuola o con i genitori. Tuttavia, mi sembra improbabile in quanto, nessuno ha segnalato il corpo... Un momento, chi ha telefonato alla polizia per avvisare del ritrovamento di Sarah?» «Abbiamo già controllato. È stato un certo Malo. La polizia l’ha interrogato e anche Peter gli fatto visita quando eri ancora in ospedale. È una persona a posto, nulla da segnalare. Vive a Denver, ma va a caccia nella zona di Coal Creek durante i week-end. Non mi risulta che abbia figli.» «Darla, torna a interrogarlo e fatti spiegare nei minimi dettagli com’é avvenuto il ritrovamento. Domani rientrerò a Denver e vi aggiornerò su quello che ho scoperto. Tu intanto prepara le valige: la prossima settimana si va in Francia.» 115 «Wow, erano anni che volevo visitare la città dell’amour e tu guarda il caso: mi ci porta il lavoro.» «In realtà non andremo a Parigi, ma a Marsiglia.» «Vieni anche tu?! Ma C’est fantastic, mon cheri! Allora a domani.» 14. 116 «Che stupido che sei stato.» «Lasciami stare, vai via!» «Ma sei tu che mi hai chiamato, Earl.» «Vai via! E’ per colpa tua se sono in questo posto.» «Che stupido!» Dan Ranucci va incontro a Peter May che esce dalla stazione di polizia. «Ha detto qualcosa?» «No», risponde secco senza guardarlo in faccia. Con la mano destra controlla la magnum nella fondina sotto la giacca, poi la piccola revolver alla caviglia. «Darla mi ha detto che c’è di mezzo una suora.» Peter continua a camminare verso l’auto parcheggiata in divieto di sosta, seguito dal collega. Strappa il foglio della contravvenzione e sale in macchina. «Hai sentito cosa ho detto?» «Ho sentito.» «C’è qualcosa che non va, Peter?» «Mi hanno sospeso. Gli affari interni.» 117 «Che cosa?! Ma siamo nel bel mezzo di un’indagine e con Julian che si muove su due stampelle. Ma come ragionano a Quantico?» «Mi hanno chiamato stamattina e lui era d’accordo.» «Julian? Stai scherzando?» «No. Adesso devo andare.» La Chevy nera parte grattando il pneumatico anteriore contro il marciapiedi. Dan la segue mentre si allontana e incrocia il duetto di Darla che giunge dalla direzione opposta. Parcheggia contromano di fronte a Dan ed esce continuando a fissare la macchina di Peter in lontananza. «Tu lo sapevi?» «Me l’ha detto ieri Julian.» «Cazzo, sono sempre l’ultimo a essere informato! Ma perché Julian non si é opposto? Trentassi era un maniaco pedofilo e la società dovrebbe fare un monumento a Peter per averlo eliminato.» Darla si volta verso di lui. «Non è solo per Trentassi.» «Cosa?» «È da un po’ che la disciplinare lo teneva sotto controllo. Sono state intercettate delle telefonate a un ex militare venezuelano, un certo Vatiero, che la CIA sorvegliava per traffico d’armi. Non so che cosa si siano detti, ma è stato sufficiente per farlo sospendere. Julian mi ha detto che a settembre ci sarà un inchiesta e si valuterà il da farsi.» «Cazzate, un mare di cazzate. Peter mi aveva parlato di questo Vatiero: l’ha conosciuto al tempo della guerra in Bosnia ed era il suo 118 contatto durante un’indagine di due anni fa.» «Senti, ne parliamo stasera con Julian. Devo rivolgere alcune domande a Laski e poi torno a interrogare l’uomo che ha ritrovato i corpi dei Barkley. Vieni con me?» «No, ci vediamo più tardi; dovrebbero esserci novità dalla Medicina Legale.» «Buongiorno, dottoressa Hemingway.» L’incontro è inaspettato. «Buongiorno avvocato.» Il volto di Darla si distende e accoglie lo sguardo di Adam con un sorriso. «L’agente Smoke torna questa sera. Aveva bisogno di qualcosa?» «Sono venuto a parlare con Earl Laski. Era un cliente dell’avvocato Stolnhouse, ma il nostro studio preferirebbe non seguire il caso, date le circostanze. Ci sono novità nelle indagini?» Darla incrocia le braccia attorno alla cartellina di cuoio e scuote la testa continuando a fissare gli occhi chiari dell’avvocato Swan. «Se non lo difendete voi, chi lo farà?» «Gli verrà assegnato un avvocato d’ufficio. Tra gli studi di Denver si è sparsa la voce che potrebbe essere stato lui ad uccidere Sean e non c’è molto entusiasmo nel difenderlo.» «Condanna massima, allora?» «Direi che la pena di morte non gliela leverà nessuno.» «E se non fosse stato lui?» «Allora... Sarà anche colpa vostra.» Darla allarga di poco le labbra e si aggiusta una ciocca di capelli 119 dietro l’orecchio destro. Sostiene ancora un’istante lo sguardo dell’avvocato Swan e poi abbassa gli occhi. Il collo abbronzato, la camicia azzurra sul petto teso, l’abito scuro in fresco lana e una brezza d’incenso nell’aria. Socchiude le palpebre, lasciandosi trasportare per alcuni istanti sulle rive di un’isola tropicale. «Allora, dottoressa, a che ora la passo a prendere, stasera?» Darla riapre gli occhi. «Allora, dottoressa, a che ora torna stasera?» «L’agente Smoke? Verso le otto; aveva bisogno di parlargli?» «Sì, mi sono ricordato di una cosa che potrebbe essere importante per le indagini?» «Se vuole può riferire a me. L’agente Smoke adesso non è in città, ma dovrebbe rientrare in serata.» «Oh, beh, in questo caso lo chiamerò stasera. Mi ha lasciato il suo numero. Allora buona giornata.» La mano è fresca e ben curata; Darla avverte un leggero brivido lungo la schiena al contatto della stretta decisa di Adam. «Che male c’è nel difenderlo? Se troverà indizi o avrà informazioni controproducenti per la sua difesa, potrà sempre rinunciare in un secondo momento.» «Ero molto legato a Sean e alla sua famiglia.» «Una ragione in più per conoscere la verità, non crede?» L’avvocato si porta la mano al petto e poi all’orologio da taschino in oro massiccio. «Devo parlarne con gli altri soci dello studio.» «Molto bene, allora conto di rivederla al rientro dalla Francia.» 120 «In vacanza nel bel mezzo di un’indagine?» «Mi scusi, ma ora devo andare. Buona giornata.» Earl Laski è in piedi nella cella di isolamento. Sul tavolo il piatto con l’hamburger freddo e l’insalata scondita. «Non hai fame?» Earl continua a guardare la ragnatela tesa tra la piccola finestra e l’angolo del soffitto, incantato dall’eleganza con cui si muove il ragno violino. Solleva la mano sinistra e si porta il pollice alla bocca. «Ancora quel brutto vizio?» Si volta alla ricerca dello sguardo rassicurante di Francisca Leclerc, ma la stanza è vuota. Oltre le sbarre la dottoressa della FBI che aveva incontrato il giorno dell’arresto; gli sta chiedendo qualcosa, ma la sua voce è priva di suono. Ha la pelle dorata e una luce amica negli occhi, gli allunga un sacchetto bianco, ma lui resta immobile e la fissa con il dito in bocca. «È rimasto a fissare il muro tutta la notte, dottoressa.» L’agente di sorveglianza apre la cella e Darla lo ringrazia con un sorriso. «Buongiorno Earl, non hai mangiato nulla ieri sera? Ho portato delle ciambelle, ne vuoi una?» Poi, rivolgendosi all’agente, «Ci può lasciare soli?» Earl osserva le immagini che gli passano davanti come se fosse difronte ad un acquario: le persone nuotano nell’aria, hanno movimenti rallentati ed emettono frasi mute. Gli occhi arrossati dalla notte insonne, la barba ispida e la camicia intrisa di sudore. 121 «Forse è giunto il momento di confessare», vorrebbe poter dire. Il pollice è rosso e bagnato, lo mostra alla dottoressa: ha grandi occhi verdi, potrebbe guardarli per ore. Gli ricordano la signorina Marie. «Posso aiutarti. So che non hai fatto tutte quelle cose: chi ha buttato i corpi giù dal ponte?» È proprio come la signorina Marie. La voce e le parole sono accessorie, superflue, un contorno che vorrebbe evitare, proprio come l’insalata. Occhi negli occhi, gocce che si fondono e diventano un tutt’uno nella sua mente; gocce di rugiada su un prato verde, lui disteso a osservare la danza delle nubi nel cielo, le mani aggrappate ai fili d’erba, il profumo del mattino e un dolore sordo nel petto. «Ne vuoi una, sono buone?» Allunga la mano e prende una ciambella. Lo zucchero a velo gli sporca le dita della mano destra. Il pollice mozzato. «Quando ti sei tagliato?» Earl torna a fissare il muro mentre si porta un boccone alla bocca. «È stato molto tempo fa.» Darla si siede e appoggia il sacchetto sul tavolino. «Quando eri ancora piccolo?» Gli occhi si tingono di ricordi. «Sì, ero piccolo. È stato per gioco.» Darla sa che il momento è delicato, un filo sottile la tiene legata a quell’uomo dal passato infelice. Un gesto avventato o una parola sbagliata potrebbero spezzare quel legame fragile che si è appena creato, farle perdere la possibilità di conoscere meglio le ragioni che hanno spinto Earl a rapire Margaret. 122 «Che giochi ti piaceva fare da bambino?» «Giocavo sempre da solo.» «Anche a me piace stare da sola, ogni tanto. Mi dà la possibilità di pensare e di fare delle scelte.» «Tu...Tu sei una brava persona.» Earl si volta e con movimenti lenti si siede di fronte a lei. Gli occhi più vivi e un sorriso stirato sulle labbra. «Perché credi che io sia una brava persona?» «Non lo sei?» Darla è immobile, con le mani incrociate sul tavolo e la testa appena flessa di lato. «Ho fatto scelte giuste e scelte sbagliate. Spero che, alla fine, quelle giuste avranno maggiore importanza.» Earl continua a fissarla. Un secondo boccone e lo zucchero che gli tinge le labbra di bianco. «Mi hanno fatto delle cose cattive.» «Mi dispiace molto, Earl. Credo che anche tu sia una persona buona.» Sorride e addenta di nuovo la ciambella. «Se fossi una persona buona, io non sarei qui e Margaret non sarebbe morta.» Si pulisce con la manica della camicia. «Vuoi dirmi cosa è successo?» «Non ricordo molto. Quando si è svegliata le ho chiesto se voleva mangiare, ma lei ha iniziato a gridare. Io ero calmo. Mi sono avvicinato e le ho detto che non doveva avere paura, ma continuava a 123 gridare e mi ha calciato. Poi, mentre mi allontanavo, si è messa a ridere e mi ha detto quella cosa.» Earl si lecca le dita della mano e porta lo sguardo al sacchetto sul tavolo. «Ne posso avere un’altra?» Darla gli sorride e gli allunga una seconda ciambella. Earl segue il movimento del braccio e si sofferma sul bracciale d’argento e al piccolo unicorno che pende dal polso. Duffy. «Che cosa ti ha detto, Earl?» «Mi ha detto che mia madre mi aveva concepito durante uno stupro.» «E questo ti ha fatto arrabbiare?», chiede con tono calmo. «Non so come l’abbia saputo.» «È successo davvero?» «È quello che mi hanno sempre detto, ma io non ci ho mai creduto. Sono stato portato nella casa dai mattoni gialli perché mia mamma doveva lavorare. Mi aveva promesso che sarebbe tornata a prendermi, ma poi ha avuto un incidente.» «È allora che ti sei arrabbiato con Margaret?» Earl finisce la ciambella e beve un bicchiere d’acqua. «Non ricordo nulla. Sì, devo essermi arrabbiato, ma non credo di averle fatto del male.» «Chi é Jamad?» «È il bambino più forte del mondo», esclama in un sorriso radioso. «Era con te nella grotta?» 124 Earl si alza in piedi e si stira allungando le braccia oltre il capo. «Lui é sempre con me e sa sempre cosa si deve fare.» Darla lo segue mentre si avvicina alla piccola finestra nel muro. «Ti ha aiutato lui a gettare i corpi dal ponte?» Earl si volta con aria stupita. «Perché continui a dire i corpi? Jamad mi ha detto di mettere Margaret nel sacco e di caricarlo nel pick-up. Cosa ne ha fatto dopo non lo so?» «Sai che verrai processato per questo e che rischi la pena di morte?» Earl si avvicina e si siede sul tavolino. «Vuoi usare questa nostra conversazione come una confessione?» aggiunge afferrando il polso della dottoressa. Darla ha un sussulto e si volta indietro alla ricerca dell’agente di sorveglianza. «La tua guardia si è allontanata da qualche minuto. Allora, vuoi incastrarmi e farmi condannare a morte, Darla?» «Lasciami o inizio a gridare?» La sicurezza che cerca di trasmettere è tradita da un’impercettibile flessione nel tono della voce. «Potrei azzannarti il collo e, prima che il nostro soldatino trovi le chiavi, potresti incontrare Margaret Lee e le altre ragazze che si sono prese gioco di me.» Darla cerca di sostenere il suo sguardo con apparente calma. Prima regola: non fare vedere che hai paura; la paura lo eccita e se capisce di avere il dominio ha vinto la partita. Seconda regola: non prenderti gioco di lui; ecco l’errore di Margaret e delle altre ragazze. Terza 125 regola: prendi la pistola e sparagli un colpo senza esitare; ma devi avere una pistola e quella di Darla è in consegna all’agente all’ingresso. Earl abbassa il capo su di lei e ne annusa il profumo intriso di adrenalina: sì, la paura delle sue vittime lo eccita. Le sfiora i capelli con le labbra, stringe maggiormente il polso e infine si allontana riaprendo gli occhi. «Lasciala immediatamente!» Earl solleva lo sguardo e incrocia quella di Dan Ranucci dietro la canna di una Beretta calibro nove. «Lasciale il polso o ti freddo in questo istante, brutto stronzo!» Earl allenta la presa con un sorriso e quindi solleva entrambe le braccia. «Credi ancora che io sia una brava persona?» Darla si solleva in piedi e, con le mani tremanti e gli occhi umidi, indietreggia verso la porta senza distogliere lo sguardo dal volto raggiante di Laski. «Ti sei dimenticata di chiedermi se volevo un avvocato. E’ per questo che non potrai usare la mia deposizione come confessione.», aggiunge sorridendo. «Su questo ti sbagli, Earl.» La figura elegante di Adam Swan emerge alle spalle di Ranucci. «Ho accettato di difenderti dalle accuse di omicidio e ho ascoltato la tua deposizione. Dal punto di vista legale è tutto regolare. Come tuo avvocato ti consiglio di non aggiungere altro.» L’espressione di Earl muta rapidamente: l’euforia di pochi istanti 126 prima lascia il posto alla malinconia che lo ha accompagnato per oltre quarant’anni. Porta le mani dietro alla nuca e si inginocchia sul pavimento; Darla estrae le manette dalla cintura e gli serra i polsi. «Dicevo davvero: penso che tu sia una brava persona, ma con dei grossi problemi», gli sussurra all’orecchio. Il sole del mattino e già alto, nel cielo del Texas, e i raggi si riflettono sulla vetrata a specchio del Poliambulatorio di Denton. Due infermieri in pausa sigaretta discutono animatamente della partita di baseball. Julian riceve un’occhiata di superficie dal più grosso dei due che, infine, lancia il mozzicone oltre la siepe. «Che giorno ha detto?», chiede osservando il tesserino dell’FBI. La ragazza alla reception non avrà più di venticinque anni, lunghi capelli castani, un volto pieno di lentiggini e fini occhiali dalla montatura dorata. La voce ha l’allegria tipica di chi non ha ancora ricevuto troppe delusioni dalla vita. «Il diciotto aprile.» La notte di Julian è stata piena di incubi e frequenti risvegli. L’ossicodone sta perdendo il suo effetto e probabilmente il commesso della farmacia non aveva tutti i torti: si potrà parlare già di dipendenza? Il dolore al torace l’ha tormentato fino all’alba e, della boccetta di farmaco, alle sei del mattino ne restava meno della metà. «Il diciotto aprile avrebbe dovuto esserci il dottor Singh», risponde sfogliando il registro dell’ambulatorio. «Però non si è sentito bene e ha telefonato per dirci che avrebbe mandato un sostituto.» «Mi sa dire il suo nome, per favore?» 127 Julian continua a massaggiarsi il torace nel tentativo di alleviare il dolore. Prende una pastiglia e se la porta alla bocca. «Sì, l’ho annotato in quest’altro registro», prosegue aprendo una piccola agenda. «Ecco qui: il diciotto ha prestato servizio il dottor...» La signorina si aggiusta gli occhiali sul naso e poi li allontana per leggere meglio. «...Ma, non è possibile!» «Che cosa, signorina?» Solleva lo sguardo dal registro e incrocia quello perplesso di Julian. «Non mi sta prendendo in giro, vero?», aggiunge con un sorriso imbarazzato. «Mi dia quel nome, la prego.» «Qui c’è scritto che ha prestato servizio il dottor... Julian Smoke.» «Stai bene?» «Sì, grazie», risponde dopo aver bevuto un sorso di caffè. Darla accarezza l’unicorno d’argento che pende dal suo bracciale: é freddo, senz’anima. «Non pensavo potesse diventare pericoloso: era così calmo all’inizio.» Lui le appoggia la mano sulla spalla senza parlare. «Adam, sei sicuro che sia tutto legale?» «In realtà potrei essere radiato dall’ordine, ma non credo che il giudice crederà alla versione di Earl Laski. Probabilmente chiederà di essere difeso da un altro avvocato e mi sta bene.» Darla sorride senza distogliere lo sguardo dal bracciale. Sente i suoi occhi che la osservano da dietro e un leggero imbarazzo tingerle le 128 gote di porpora. «Se stai meglio, io andrei». Adam si porta di fronte a lei e abbozza un sorriso chinandosi sul tavolino. Finalmente Darla riesce a vedere chiaramente ciò che l’ha attratta dal primo momento in cui l’ha visto: il velo di tristezza che ne ricopre lo sguardo è disarmante e ipnotico. Avrebbe voglia di alzarsi e stringerlo forte a sé; avrebbe voglia di ascoltare la sua storia o semplicemente restargli distesa accanto, occhi negli occhi, accarezzando i suoi capelli scuri. «Sì, sto meglio, grazie ancora.» Le labbra le sfiorano il dorso della mano e poi si chiudono nel silenzio di un addio. Allontanandosi verso l’uscita, Adam incrocia lo sguardo di Dan Ranucci appoggiato al bancone dell’ingresso: non è uno sguardo di minaccia, ma il tacito avvertimento di non prendersi gioco di una persona cara. «Hai bisogno di qualcosa?», le chiede porgendogli il foglio con la deposizione dell’accaduto. «No, grazie Dan. Mi hai salvato la vita.» Il sorriso di Darla è uno dei motivi per cui non ha ancora lasciato l’unità. «Non dovevi andare dal coroner?» «Ho preferito aspettarti. Vedi, anch’io ogni tanto ho qualche buona intuizione.» Darla gli accarezza la mano e abbassa gli occhi sul tavolo. «Ho telefonato per sapere le novità: hanno trovato la stessa impronta di bambino anche sul collo dei fratelli Stolnhouse. Credo che possa essere considerata la firma del nostro uomo...o bambino.» 129 «Mi hai risparmiato l’interrogatorio al signor Malo. Evidentemente l’assassino le ha lasciate di proposito: ora, viene da chiedersi, chi diavolo mostrerebbe a un bambino dei corpi seviziati in quel modo?» «Magari è suo figlio e lo sta istruendo a proseguire la sua opera.» «Può essere, anche se mi sembra poco coerente con il tipo di personalità che abbiamo delineata. Istruire un giovane apprendista nell’arte di uccidere richiede un legame e un’empatia che non riesco ad intravedere nel modus operandi dell’Onnivoro. Ho, invece, il timore che si tratti dell’ennesima burla nei nostri confronti.» 15. 130 L’immagine sullo schermo trema alcuni istanti prima di lasciare il posto ad uno sfondo nero su cui compare la scritta Fine primo tempo. Le luci si accendono, ma l’uomo non ha nessuna intenzione di alzarsi. Intorno poche persone, una donna alla sua destra, qualche posto più in là, e una coppia alle sue spalle che continua a baciarsi nonostante l’atmosfera meno intima. Lui ruota il capo e con la coda dell’occhio osserva il profilo di lei: gli sembra di averla già vista qualche anno prima, a scuola o in un negozio del centro. Forse l’inizio di un nome, Samantha, forse la voce sussurrata all’orecchio nel buio di un locale. Cerca di ricordare, ma l’immagine è troppo sbiadita. Decide di voltarsi per osservare meglio. Ti guarda, ma è ancora troppo lontano; appoggia le mani sullo schienale e si mette in piedi sulla poltrona di velluto. Ora si può allungare, raggiungere le parole con le mani, farsi largo tra spazi delle parole. Si fa largo gli tra le righe per vedere cosa succede oltre la sua gabbia di carta, per sapere se il male che prova 131 dentro è un mio regalo o lo provi anche tu, ogni tanto. le p a r o l e per A p r e g u a r d a r t i. «Non è colpa mia.» E’ forse colpa mia? «Fammi uscire, non ho fatto niente.» Se ti facessi uscire, dovrei farlo io e le mie mani farebbero molto più male. Guarda: sta leggendo la tua voce e forse vorrebbe che ti liberassi. Ma come la penserebbe se avesse le mie mani attorno al collo. Eh, come la penseresti? «Sei crudele.» E tu, lettore, pensi che io sia crudele? Vedi, non risponde. Continua a leggere e credo che ti lascerà soffocare tra queste pagine. O peggio, smetterà di leggere e tu resterai un ricordo vago che si dissiperà nel giro di pochi giorni, il tempo di prendere in mano un nuovo racconto, una nuova storia di sangue. «Non farò quello che mi hai chiesto.» Certo che lo farai, non hai scelta. 132 «Una possibilità ce l’ho e ce l’ho esattamente ora, nel momento in cui tu stai scrivendo questa ridicola parentesi. Io ti vedo: sei scalzo, nella stanza, mentre torturi i tasti del tuo computer. È estate, fa caldo e vorresti essere altrove, ma stai lì a scrivere queste pagine, non tanto nella speranza che un giorno qualcuno avrà la voglia di sfogliarle, ma per saziare un tuo bisogno puerile, forse adolescenziale. Tu non scrivi per paura della morte o per paura di essere dimenticato: tu scrivi per parlare con me.» Oh, certo. Ed è certo che le farai le cose che ho scritto per te! «Esiste la psicanalisi, ma a te non piace parlare di queste cose con gli estranei, non é vero? Ti piace avere sempre il controllo.» Sto cambiando la pellicola, ti conviene rimetterti a sedere. «Allora lo dico a te, lettore: se chiudi il libro adesso, saprai che io sono qua dentro, intrappolato tra le virgole d’inchiostro, ma fermo qui, in piedi su questa poltrona. Potrai ricordarmi così, non come una brava persona, ma come qualcuno che sta cercando di cambiare. Chiudi il libro adesso e non commetterò più crimini. Chiudi il libro, e ti dirò chi sono.» Pensi che ti permetterò di farlo? 133 «Sai che ho molta più forza di te; se non fosse così, non mi avresti dato una voce.» Sorrido. «Ti diverti? Non sai che ho il potere di rovinare il tuo libro? Allora, se chiudi adesso ti dirò chi sono. Puoi leggere il mio nome alla ottava riga, pagina...» Sorrido di nuovo. «...» Parla, dai, confidati con il tuo lettore. «Pagina duecentodiciannove.» Cambierò quel nome prima che possa arrivare a quella pagina. «Leggi il nome e poi chiudi. Le ragioni sono sempre le stesse, le stesse che hanno spinto lui a scrivere questa storia.» Sorrido di nuovo. E cambio la pellicola. «Un’ultima cosa.» 134 Ora siediti! Le luci ancora accese e lo schermo scuro, Secondo tempo. 16. 135 Zackary Barkley parcheggia la grossa Mercedes-Benz nel vialetto di casa. Entra dalla porta sul retro, si slaccia la cravatta e la cintura, fa volare le stringate inglesi sul tappeto e si precipita al piano superiore. «Sei tornato, finalmente.» Si avvicina alla webcam del monitor e manda un bacio alla ragazza mulatta inquadrata nel video. «Ho fatto il prima possibile», risponde togliendosi la camicia. «Sei uno sporco maiale, lo sai vero?» «Si, lo so. Dimmi cosa devo fare per farmi perdonare.» «Chiudi gli occhi, maiale!» «Oh si, e adesso cosa succede?» chiede portandosi una mano nei pantaloni. «Tieni gli occhi chiusi e non parlare.» «Non ce la faccio, sono troppo eccitato.» «Hai ancora le mutandine rosse?» Zackary apre gli occhi e guarda sotto la cintola. «Si, le indosso tutti i giorni, da quando me le hai spedite.» «Che pervertito, non ti vergogni?! Un uomo di successo come te che indossa biancheria femminile!» «Lo so, sono malato», sospira chiudendo gli occhi di nuovo. 136 «E hai fatto quella cosa per me?» Zackary solleva il sacchetto di carta. «È qui dentro.» «Non ti avevo detto di comprarlo», gli urla dal monitor. «Ti avevo ordinato di rubarlo!» «Ma l’ho rubato, Luana. Guarda, c’è ancora il coso antitaccheggio», replica mostrando un completo intimo viola, taglia extra-extra-large. «Bene, Zac. Ora vatti a cambiare che voglio vedere come stai.» Dei colpi alla porta. «Non vai ad aprire?» «Ma chi cazzo è che rompe?!» «Forse è tua moglie», esclama ridendo dal monitor. «È in Canada, la stronza.» I colpi continuano senza tregua. «Smetteranno prima o poi», aggiunge dirigendosi nel bagno della camera da letto. Esce dopo pochi minuti con indosso il completo femminile viola. «Ma stai un favola, amore!», esclama la ragazza da un punto indefinito del web. «Ora vai carponi sul letto, ma resta nell’inquadratura.» Zackary esegue ogni comando come un cagnolino addestrato. «Adesso ulula!» «Ahuuuu», sussurra. «Più forte, brutto cagnaccio!» «Ma potrebbe sentirmi qualcuno.» «Ulula, è un ordine!» 137 «Ahuuu!» grida con tutto il fiato che ha in gola. «Bravo. E ora pisciati addosso!» «Oh, sì, come facevi a sapere che mi piace farlo.» Un tonfo dal piano di sotto e poi il rumore di vetri. «Ma cosa...?! Aspettami qui, torno subito» esclama alzandosi e indossando una vestaglia. Scende di corsa le scale e si porta in cucina. Il vetro della porta è rotto e in controluce la figura di un uomo alto, in piedi sulla soglia. «E tu chi cazzo sei?!» esclama avvicinandosi con passo deciso. A un metro si arresta per leggere il tesserino che l’uomo tiene in mano. «FBI?!» Poi lo vede: un piccolo puntino rosso sulla mano che lentamente risale lungo il braccio, poi alla spalla e infine alla ricerca della fronte. «Nooo!» Zackary si volta e inizia a correre, ma il proiettile da 7,62 millimetri lo raggiunge all’istante, aprendogli una voragine nel cranio. 17. 138 La prima cosa che nota nella sala d’attesa dell’aeroporto è il suo vestito color pesca. Gli sguardi degli uomini che le passano accanto sono dolci e sporchi allo stesso tempo, fantasie private e sconce, a volte il desiderio di un grande amore. Sta leggendo la biografia di Ed Gein, il macellaio di Plainfield, e non si è accorta che l’uomo si sta avvicinando. A un paio di metri da lei, si ferma e rimane a fissarla per alcuni secondi. Il respiro della giovane donna è regolare, sotto la scollatura pronunciata; un collier d’oro rosa in tono con gli orecchini a pendente, lo smalto color prugna alle mani e ai piedi, le gambe accavallate, sandali chiari con tacchi alti. Quando lei solleva il capo, incrocia il suo sguardo e si apre in un sorriso radioso. «Julian!» esclama alzandosi in piedi. «Se fossi Horacio, non ti lascerei uscire di casa.» L’abbraccia appoggiandosi alla stampella. «Sei sempre più bella, Darla», aggiunge guardandola dritta negli occhi. «Grazie, amore. Tu, invece, ai due pupille da tossico e l’aria da spacciatore. Non è che stai esagerando con le pillole?» «Sto benissimo, grazie. Comunque hai qualcosa che non mi 139 convince, qualcosa di diverso.» Socchiude gli occhi, inspira profondamente, poi, di nuovo l’espressione da tossico in fase attiva, «Ma certo, hai cambiato profumo! Essenza al terebinto?» «Non so neanche cosa sia il terebinto, Julian. Davvero, sei sicuro di voler partire per la Francia? Non sarebbe meglio aspettare che tu stia meglio?» Le passa il braccio attorno alla vita e s’incamminano verso l’uscita. «Ma ci pensi, io e te in Francia con Horacio a mangiarsi il fegato dall’invidia, mentre sorseggiamo un Bordeaux dell’ottantadue a spese della FBI?» «Che programma invitante. Ma si può sapere cosa ci andiamo a fare a Marsiglia?» «A parlare con una suora che é stata ospite di Don Elia. Doveva ricevere un trapianto di midollo e prova a dire chi era il donatore? Remi Sullivan. Ora, non ho studiato medicina, ma ho discusso innumerevoli casi con medici legali ed esperti di genetica: se hai un gruppo sanguigno molto raro, quali sono le prime persone che potrebbero essere compatibili?» «I tuoi parenti?» «Brava. La mia ipotesi è che Sullivan avesse qualche legame di parentela con questa donna: forse era un lontano nipote. Non sappiamo nulla del passato di Sullivan, non sappiamo dove abbia passato l’infanzia e penso che questa pista possa rivelare informazioni importanti anche per i casi di Denver. Inoltre, credo che il corpo ritrovato nel suo giardino possa appartenere a una seconda suora, della stessa congregazione religiosa. Dobbiamo fare in fretta perché le resta 140 poco da vivere.» «E Zackary Barkley?» «Ho telefonato al suo studio e la segretaria mi ha detto che si è preso una settimana di ferie, ma senza prenotare viaggi. Nei prossimi giorni andrò a fargli una visitina e vedremo cosa ha da dirci.» «Io, invece, ho incontrato Adam Swan e mi ha detto che vorrebbe parlarti.» «E di cosa?» «Ha detto di avere alcune informazioni che potrebbero essere importanti per l’omicidio dei fratelli Stolnhouse. C’é solo un problema: questo me l’ha detto prima di accettare di difendere Earl Laski.» «Difenderà Laski?!» «Sì, all’inizio non voleva. Poi, diciamo, che io ho un po’ insistito», aggiunge con un filo di voce. «Darla, di che cosa stiamo parlando?» «Dai, l’hai visto anche tu. È...è un bel tipo.» «Scusami Darla, e Horacio, il tango, la noche argentina?» «Lo so, lo so, è che sono un po’ confusa, ultimamente.» «Ultimamente?! Non ricordo una relazione più lunga di sei mesi. Capisco che non facciamo un lavoro semplice, ma santo cielo, un minimo di sentimento!» Darla sorride. «Sei proprio invecchiato, Julian. Parli come mio padre.» «Pronto? Avvocato Swan?» 141 «Si, chi parla?» «Sono l’agente Smoke, dell’FBI. Mi ha detto la dottoressa Hemingway che mi voleva parlare.» Un attimo di silenzio, in sottofondo le note di una vecchia canzone jazz. «Ah, sì. Le avevo detto che l’avrei chiamata stasera. In effetti c’é una cosa che mi ha detto Sean che mi ha un po’ sorpreso.» «Di cosa si tratta?» «Preferirei parlarne a quattrocchi, se non le dispiace. Se è in città potremmo incontrarci al Red Rose Café, sulla trentaduesima. Facciamo tra un’ora?» «Va bene, a dopo.» Riattacca e incrocia gli sguardi curiosi di Darla e Dan Ranucci. La sala riunioni è grigia e spoglia, illuminata dalla luce al neon; sul tavolo alcune scatole di cibo cinese, una Diet Coke e due Heineken. «Mi vuole incontrare al Red Rose, a due isolati da qui.» «Non ti ha anticipato nulla?» chiede Darla. Accenna un no con la testa. Dan Ranucci si avvicina e gli mostra i dati della donna seppellita nel giardino di Sullivan. «I denti ritrovati nei corpi dei Barkley, di Margaret e dei fratelli Stolnhouse appartengono a lei, una donna sulla sessantina, morta per asfissia. Nei bronchi era presente del terriccio e si presume che sia stata seppellita viva.» «Questo conferma che i casi di Denton e Denver sono collegati. Proviamo a riassumere gli indizi in nostro possesso: 142 - Sean Stolnhouse conosceva sia Sullivan che Laski e, nonostante la giovane età, li rappresentava legalmente entrambi. Probabilmente uno dei due ha conosciuto Sean e lo ha consigliato all’altro come avvocato. Sullivan e Laski hanno un passato oscuro e le loro storie s’incrociano molti anni fa. - I denti di una donna seppellita a Denton, forse una suora francese, sono stati ritrovati nei corpi di cinque vittime uccise a Denver. - Un’impronta di bambino è stata riscontrata sul collo di Sarah Barkley e dei fratelli Stolnhouse. Questo collega le vittime, ma non Sullivan a Laski. - Il massacro dei Barkley non è ancora ben chiaro: l’unico punto da chiarire è il ruolo di Zackary Barkley, dentista di Denver e proprietario di un capanno a Coal Creek. Ho chiesto a Norman di indagare sul suo passato, ma non è emerso nulla di rilevante, se non una passione sfrenata per le hot-line e le chat-porno. - Margaret Lee è stata sequestrata da Earl Laski e probabilmente uccisa dallo stesso Laski. Tuttavia, in questo caso, il modus operandi sembra differente rispetto agli altri omicidi: secondo la deposizione di Laski, ciò che l’avrebbe fatto infuriare sarebbe stata la derisione e il rifiuto di Margaret. Non credo davvero che sia successo lo stesso con i Barkley e i fratelli Stolnhouse. - Infine, con Sullivan deceduto e Laski in prigione dovremmo aspettarci un arresto degli omicidi. Ma non credo che ciò avverrà; penso che sia coinvolto qualcun altro, qualcuno che conosceva bene i nostri due amici, le loro debolezze e che le ha usate contro di loro e per prendersi gioco di noi. Ci sta osservando da tempo e segue le 143 nostre mosse: a Denton ha usato il mio nome per entrare nell’ambulatorio dentistico e prestare assistenza a suor Odette.» «Pensi che Laski e Sullivan si siano conosciuti in Francia?» chiede Darla sfogliando la carpetta di cartone contenente le foto della donna seppellita in giardino. «È possibile ed è quello che dobbiamo scoprire durante il nostro viaggio.» «Perché credi che riduca le sue vittime in questo modo? Perché le scuoia a livello dell’addome?» chiede Dan giocherellando con la bottiglia di Heineken vuota. «Probabilmente», interviene Darla «ha qualche esperienza di caccia o ha eseguito studi di medicina o veterinaria. L’addome, nell’inconscio umano, ha un simbolismo molto forte e rimanda al periodo fetale. Non importa che si tratti di uomo o donna, l’addome è la culla dove dormiamo serenamente per nove mesi, a stretto contatto con nostra madre. Per le persone abbandonate in tenera età, rappresenta l’unico periodo in cui sono state accettate ed accolte dal genitore. La violazione dell’addome potrebbe rimandare ad un abbandono o a una gravidanza non desiderata.» «Se non sbaglio, Laski avrebbe accennato di essere stato concepito durante uno stupro», la interrompe Dan. «Esatto. Se fosse vero, sarebbe un motivo più che sufficiente per indurre una persona con gravi disturbi psichici a violare l’addome delle sue vittime. Sicuramente Laski è responsabile di molti crimini, ma non penso che abbia una struttura mentale abbastanza solida da poter organizzare una caccia così estesa ed articolata. Sono d’accordo 144 con Julian: è coinvolto qualcun altro, con un livello culturale e una stima di sé molto più elevati.» Julian solleva la busta bianca che gli ha consegnato Don Elia. «Suor Odette e Suor Magdalena appartengono ad un ordine che aiuta bambini di strada e giovani donne in difficoltà.» «Un fucina si serial killer», aggiunge Darla con un sorriso amaro. «Me ne dia un’altra.» Il barista estrae dal frigo una Bud ghiacciata e gliela versa nel bicchiere. Nonostante il locale sia semivuoto, l’aria è viziata, acida; la moquette del pavimento e la carta da parati bordeaux conferiscono al bar un’atmosfera retrò, una via di mezzo tra un vecchio saloon e un bordello anni trenta. Sono passati oltre quaranta minuti dall’ora dell’appuntamento, ma di Adam Swan nemmeno l’ombra. Prova nuovamente al numero di cellulare. «Lasciate un messaggio dopo il segnale acustico.» «Sono l’agente Smoke. Immagino che abbia avuto un contrattempo; mi chiami quando riesce a liberarsi.» Appoggia una banconota da dieci dollari sotto la bottiglia e s’incammina verso l’uscita. Adam Swan entra in quell’istante con l’aria trafelata. «Mi scusi per il ritardo!» «Impegni di lavoro?» chiede Julian tornando verso il bancone. «Credo che sia meglio sederci là», replica indicando il tavolino in fondo alla stanza. Julian si volta incuriosito, poi lo segue fino alla parete scura 145 ricoperta di vecchie fotografie. «Di cosa voleva parlarmi?» chiede mettendosi a sedere. «Sean mi ha detto...» S’interrompe quando il barista li raggiunge al tavolo. «Cosa vi porto?» «Una vodka liscia.» «Io sono a posto», aggiunge Julian senza distogliere lo sguardo dalla mimica facciale dell’avvocato Swan. «Stavo dicendo», riprende dopo che il barista si è allontanato, «che Sean mi ha detto di aver incontrato un uomo, la sera prima della partenza per Denton.» Julian nota una leggera contrattura della guancia sinistra, una tensione che determina una minima deviazione della bocca da quel lato. Gli è già capitato di incontrare giocatori con quel tipo di tic, giocatori con un buon punto in mano che non hanno saputo massimizzare la vincita perché traditi dall’entusiasmo o dall’eccitazione. «Era un vecchio amico o un vecchio cliente, non ricordo bene. Comunque, nessuno che lui seguisse ancora. Mi ha telefonato la mattina presto per dirmi che gli aveva rivelato cosa avreste trovato nel giardino di Sullivan.» S’interrompe, accende una sigaretta e fa segno al barista di portargli un’altra vodka. Julian continua a osservarlo in silenzio e ad attingere informazioni, sia dal linguaggio verbale, sia da quello del corpo. A New York, nel momento in cui stava per rinunciare a un piatto da seimila dollari con un tris di kappa in mano, Bari Chang 146 aveva tirato fuori il suo portasigarette di pelle e si era acceso una sigaretta aspirando una quantità di fumo eccessiva. Julian era andato a vedere il suo rilancio, smascherando il suo bluff. «Ehi, non si può fumare all’interno!» esclama il barista. «Mi scusi», risponde spegnendo la sigaretta nel bicchiere. Estrae l’orologio dal taschino e torna a fissare Julian negli occhi. «Mi sembrava un’informazione interessante», aggiunge allargando le braccia. «È vero che difenderà Earl Laski?» Inizia a tamburellare le dita sul tavolo. «All’inizio pensavo che potesse essere poco rispettoso nei confronti di Sean, di Tom e dei loro famigliari. Poi ho parlato con la sua collega, la dottoressa Hemingway, e ho capito che difendere Laski poteva permetterci di arrivare alla verità il prima possibile. Così ho accettato il caso.» «E quest’uomo con cui ha parlato Sean», chiede mantenendo lo sguardo fisso su Adam, «non potrebbe essere stato Earl Laski?» «Se fosse così non sarei qui a parlarle. Comunque, no, Sean me lo avrebbe confidato. Mi ha detto che era una persona piuttosto influente e che non era prudente discuterne al telefono. Avremmo dovuto incontrarci subito dopo il suo rientro a Denver, ma...» Si sofferma a guardare il mozzicone di sigaretta galleggiare nel bicchiere di vodka. «...Non l’ho più rivisto.» 18. 147 «Ciao Julian.» Il dolore è pressoché istantaneo. La voce che lo raggiunge alle spalle ha un’inclinazione leggermente diversa da quella che lo ha accompagnato per oltre quindici anni. Finge di non aver sentito e continua a sorseggiare il caffè bollente, con lo sguardo perso nel vuoto. L’illusione di poter relegare il passato in un luogo privo di emozioni gli ha permesso di andare avanti per un paio d’anni, senza precipitare nell’alcol e nella disperazione. Charlotte resta in piedi dietro di lui, in mancanza di gesti o parole che possano accorciare la distanza che si è creata tra loro. Poi Julian decide, si asciuga le labbra col tovagliolo e ruota il busto di novanta gradi. «Accomodati», la invita indicandole la sedia di fronte a lui. Charlotte si avvicina a passi lenti, poi si siede senza guardarlo in viso. Il tempo che segue non trova confini definiti, ma si dilata oltre la stanza e oltre il quadrante dell’orologio appeso al muro. I loro corpi restano sospesi in una sorta di condensa priva di ossigeno e faticano a muoversi, guardarsi, pensarsi. Poi un sussurro. «Come stai?» gli sembra di udire. 148 Julian continua a fissarla incredulo. Ha l’impressione di avere di fronte a sé un fantasma ed è tentato di toccarle il braccio per accertarsi che sia reale. «Sto bene», risponde prima di un accesso di tosse. «Sono stato in coma per un po’, ma ora sto bene.» «Lo so, sono passata a trovarti.» C’è qualcosa di diverso in Charlotte, qualcosa che, tuttavia, non riesce a comprendere immediatamente. Il colore del viso è più intenso, vivace, le guance più floride, l’espressione degli occhi più dolce. Le braccia scendono sotto il tavolo e le mani poggiano sul ventre come quando, a scuola, aveva il terrore di essere interrogata. E all’improvviso qualcosa si accende nella mente di Julian: l’illuminazione è fulminea, improvvisa e, con la stessa violenza di una valanga primaverile, spazza via ogni speranza di un possibile recupero nella loro storia. L’emicrania è feroce e la vista tende a offuscarsi. «Sei incinta?!» esclama all’improvviso. Charlotte non risponde, ma il colore del viso si accentua e gli occhi continuano a danzare tra il piatto e il tovagliolo, senza mai incrociare lo sguardo di Julian. Inspira. Il tempo continua a danzare sopra il tavolo apparecchiato per la colazione, sopra le briciole di pane e le posate sporche di marmellata. Il profumo del caffè non ha più odore e i petali della rosa bianca nel piccolo vaso di vetro hanno cominciato a ingiallire e a perdere di vigore. «Sono felice per te», aggiunge sfiorandole il braccio. Un brivido la scuote e finalmente solleva il capo per guadare in 149 faccia il suo interlocutore. «Avrei voluto che andasse diversamente, tra di noi.» riesce a pronunciare in un soffio, prima che la voce venga definitivamente rotta dal pianto. Julian rimane a fissarla in silenzio. Dopo lo shock iniziale, sente che qualcosa sta già cambiando e che quel peso che si portava dentro da mesi, ora si sta sgretolando pian, piano. L’aria è meno satura e sente le spalle più leggere. Si volta verso la finestra del bar: è una tersa giornata di fine giugno e, per la prima volta, da quando si sono lasciati, Julian avverte una gran voglia di vivere. Si alza in piedi, raggiunge il cestino del ristorante, estrae il barattolo di ossicodone e ne versa l’intero contenuto. Charlotte lo segue con gli occhi bagnati, poi si asciuga il naso e tira fuori una busta dalla borsa. «Ora ti devo salutare, mi stanno aspettando in centrale» l’anticipa rimanendo in piedi. «Julian», lo ferma con il braccio. «È arrivata questa e pensavo che fosse importante.» Julian esita qualche secondo prima di prenderla in mano. Ha riconosciuto immediatamente il tipo di carta e il timbro postale di Marsiglia, identico a quello che gli aveva mostrato don Elia a Denton. «Quando è arrivata?» «Lunedì scorso.» Prima che io andassi a Denton e prima che don Elia me la mostrasse. Estrae un sacchetto di plastica dalla giacca e la pone all’interno. «Grazie.» Poi, tornando a Charlotte, «Spero che vada tutto bene.» 150 Charlotte sorride e gli tocca la mano. Fuori, Julian si incammina deciso verso la centrale. Riesce a mantenere la stazione eretta senza difficoltà e anche il torace non gli fa più male. Raggiunto il primo punto di raccolta dei rifiuti, abbandona la stampella che l’ha sostenuto nelle ultime settimane, si sfila la fede nuziale e la lascia cadere nella campana della raccolta del vetro. 19. 151 Al centotrenta della Cornell avenue tutte le persiane sono abbassate. Ha bussato per venti minuti senza ottenere risposta; sul vetro della Merceds-Benz parcheggiata nel vialetto, il permesso dell’ospedale di Denver; sopra il sedile del passeggero, un sacchetto di plastica del «1969-Sexy Toys». I vetri posteriori sono oscurati e non permettono di intravedere all’interno. Poi, il guaire di un cane proveniente dal piano superiore attira la sua attenzione; decide di spostarsi sul retro della villetta dove la porta finestra lascia intravedere l’ampia cucina hi-tech. Si accosta, nuovamente dei versi, forse delle grida soffocate. Afferra una pietra dal giardino e colpisce con forza la maniglia; un secondo tentativo manda in frantumi il vetro della parte superiore. Introduce il braccio nel pertugio affilato e ruota la chiave in senso antiorario; apre la porta restando sulla soglia. Dopo alcuni secondi si trova di fronte a un uomo affannato, dalla corporatura massiccia, fasciato in una vestaglia di seta nera; il cranio pallido, lucido, bagnato di sudore, il viso gonfio, due fessure grigie all’altezza degli occhi. «E tu chi cazzo sei?!» si sente sbraitare contro. Estrae il tesserino dalla giacca e glielo mostra. Julian Smoke, legge. 152 «FBI?» chiede con gli occhi stretti nel tentativo di mettere a fuoco la foto sul distintivo. Poi lo vede, un piccolo puntino rosso sulla mano che risale lungo il braccio, la spalla e infine alla ricerca della fronte. Anche Julian lo nota e si volta di scatto per capire dove si sia posizionato il cecchino: un bagliore sul tetto della casa vicina tradisce il mirino del M24. Solleva le braccia per ostacolare la visuale del tiratore e grida a Zackary di gettarsi a terra, ma il colpo è già partito e corre veloce nell’aria. Il tempo di girarsi di nuovo e vedere brandelli di sangue esplodere dal cranio di Barkley e spargersi sulle pareti della cucina. «Darla, Dan, è sulla villa dietro la casa di Barkley!» urla nella ricetrasmittente. «Ma cosa è successo?!» gracchia Ranucci mentre scende dall’auto parcheggiata nella strada di fronte. «Gli hanno sparato in testa! È sul tetto, correte presto!» Julian corre verso la casa vicina, oltrepassa il cancello della staccionata ed entra nel giardino. Fa segno a Darla di girare di dietro e a Ranucci di fermarsi in quella posizione. «Hai visto qualcuno da quel lato?» «No, Julian. Ho chiamato O’Malley, saranno qui entro un quarto d’ora con i corpi speciali.» Una donna anziana si affaccia alla porta della veranda. «Ehi, via dal mio giardino!» «Mi scusi, signora» si avvicina Julian sollevando le mani, «è sola in casa?» «Lei chi è?» 153 «Siamo della polizia. È sola in casa?» chiede di nuovo avvicinandosi, mentre Dan tiene sotto tiro la signora. «Sono sola. Cosa volete? Il tecnico della televisione mi sta riparando l’antenna.» «Va tutto bene, signora, venga fuori.» La signora apre la porta tenendo una borsa di tela in mano. «Lasci subito quella borsa!» gli urla Julian puntandole contro la pistola. «Mi ha detto che sareste venuti», aggiunge continuando a dirigersi verso di loro con le mani alzate. «Abbassi la borsa immediatamente! Non si muova e appoggi la borsa a terra!». Julian fa segno a Dan di fare un passo indietro. Darla ricompare dal lato sinistro della casa con la Smith & Wesson in mano. «Mi ha detto anche questo. Mi ha detto che mi avreste minacciato.» «Signora, se non si ferma le dovrò sparare.» «Non mi sparate», li supplica con voce tremante. Si ferma al centro del giardino, il rumore di un’auto che sgomma dal lato opposto della villetta. Dan inizia a correre in quella direzione. «Mi ha detto che avrebbe ucciso il mio George, se non vi avessi consegnato questa borsa», singhiozza abbassando la sacca a terra. «Ora si allontani!» «Mi dispiace, ma è l’unica cosa che mi rimane», insiste chinandosi sulla borsa. «Signora, non la apra. Si fermi o le sparo!» Julian la tiene sotto tiro. «Mi ha detto di aprirla, se no lo avrebbe ucciso.» 154 Le lacrime le rigano il volto e le mani si avvicinano tremanti alla cerniera della sacca. Un colpo di pistola in aria. La signora solleva lo sguardo distrutto e incrocia gli occhi di Julian. Poi qualcosa che esce dalla porta socchiusa della veranda. «George!» esclama. Julian si volta a osservare il grosso persiano dal pelo grigio muoversi verso il nocciolo del giardino «Ma è un gatto?!» esclama Darla sollevandosi in piedi e avvicinandosi. «Fermati Darla! Signora, ora che ha ritrovato il suo gatto lo prenda e si allontani!» La signora dà un’ultima occhiata alla borsa e infine si solleva dirigendosi verso il nocciolo. Julian fa segno a Darla di raggiungere Dan dietro la casa e rimane solo in giardino a osservare l’anziana stringere il persiano tra le braccia. Poi un tenue bagliore sul collare di George, il presentimento di un piano contorto e crudele, disegnato per guadagnare tempo e prendersi gioco di loro. «Lo lasci, signora, ora lo lasci andare!» tenta di convincerla avvicinandosi un poco. La signora non sembra accorgersi di nulla: ora esistono solo lei e il suo George. Julian prende la mira e spara un colpo che va a colpire il tronco del nocciolo. George si libera dalla padrona e corre impaurito verso la staccionata, la supera con un balzo e guadagna il giardino del vicino. Il tempo di atterrare sul prato di Zackary Barkley che i duecento grammi di tritolo esplodono infiammando l’aria circostante e producendo un’onda d’urto che fa 155 tremare le finestre di tutto l’isolato. Julian si getta a terra coprendosi il volto col braccio; la signora viene spinta con forza contro il tronco dell’albero e infine cade a terra priva di sensi. Agli occhi di O’Malley e delle forze speciali si presenta una scena da guerriglia urbana: una densa nuvola di fumo si erge verso il cielo a partire da un cratere di circa tre metri. La signora anziana è stata spostata sul dondolo della veranda e adesso è assistita da Darla, intenta a prenderle i parametri vitali. Julian, in piedi vicino al cratere, indica a O’Malley e agli artificieri la borsa al centro del prato. Il capo della squadra si avvicina alla sacca con circospezione, poi, notando che si tratta di una sacca di tela, incide il tessuto con la lama del coltello. Indossa un guanto di latice, introduce la mano attraverso una fessura di pochi centimetri e ne esplora il contenuto: è presente un piccolo vasetto di vetro con il tappo rivestito di carta stagnola, non collegato a fili o a dispositivi elettronici. Allarga di poco la fessura, estrae il vaso lentamente e resta ad osservarlo inorridito, prima di mostrarlo a Julian e O’Malley. Il pollice di un bambino galleggia in un liquido trasparente. Sul vasetto un’etichetta bianca su cui è riportata una data. 05-04-1975. Julian si avvicina per osservare meglio e fa cenno a Darla di raggiungerlo. «Ecco svelato il mistero delle impronte.» «Dici che corrispondano?» chiede Darla, prendendo in mano il vasetto. Poi, soffermandosi sull’etichetta aggiunge, «Potrebbe essere 156 la data di nascita della vittima o il giorno in cui le è stato amputato il dito. Che ne pensi?» Julian osserva il pezzo in controluce senza rispondere. «Scommetto la mia auto da quarantamila dollari che si tratta del pollice di Laski» prosegue Darla, tirando fuori il suo taccuino. «Non mi ha detto quando l’ha perso, ma è successo molto tempo fa, quand’era piccolo. Nel 1975 Laski aveva sei anni e, a un prima esame, direi che questo potrebbe essere il dito di un bambino di sei o sette anni.» «Perché credi che ci stia lasciando tutti questi indizi?» «Perché ha smesso di curarsi e vuole farsi prendere?» butta lì con un sorriso. «Davvero. Non ti sembra un po’ anomalo per un serial killer? Capisco che voglia divertirsi e prendersi gioco di noi, ma ora si sta spingendo oltre ogni limite. Ha sparato a Zackary Barkley dal tetto di questa villetta pur sapendo che tu e Dan eravate appostati in macchina. Si è fidato di quella signora per guadagnare pochi minuti e fuggire in macchina. Direi che hai ragione: ha deciso di farla finita e di chiudere tutti i conti.» «Il problema è che se si trova in una fase maniacale potrebbe fare una carneficina.» Dan li raggiunge. «Julian, puoi venire un attimo?» Darla lo guarda sorpresa, poi si allontana verso la casa di Zackary Barkley, dove gli uomini della scientifica hanno iniziato ad effettuare i primi rilevamenti. 157 «Dimmi Dan, che succede?» «Guarda là» gli risponde indicandogli un punto preciso, oltre il giardino dei Barkley. Julian si volta e incrocia lo sguardo di Peter May, in piedi dietro alla staccionata, intento a fumare un sigaro cubano. «Ma cosa sta facendo?!» domanda dirigendosi verso di lui. Dan l’afferra per un braccio. «Julian.», attende prima di proseguire, poi butta gli occhi atterra. «Quando sono corso dietro la villa, ho visto una Chevy nera che svoltava l’angolo.» «Dan, che cosa diavolo stai dicendo?!» «Niente, sarà un caso, ma...» lancia un’occhiata all’amico in fondo alla strada. «Ma sono quasi sicuro che fosse la macchina di Peter.» «Ah sì?!» esclama avvicinandosi al viso di Dan. «E pensi che sia stato lui a sparare a Zackary Barkley?! E’ questo che pensi?! Avanti, rispondi!», gli urla, afferrandolo per il bavero della giacca. «Ma che fai?!» interviene Darla da dietro. «Ora lascialo, Julian!» Julian abbassa le braccia, si libera della presa di Darla con uno strattone e raggiunge Peter sul marciapiede. «Che cosa cazzo ci fai qui?! Non ti è chiaro il concetto Sospensione dal servizio?!» Peter inspira una boccata di fumo che trattiene in gola per una decina di secondi, poi la espira dalle narici. «Se vuoi ti dico che macchina ha il nostro amico.» «Di cosa stai parlando?» «Mi ero appostato anch’io, ma sul lato nord. Poi ho sentito la tua 158 comunicazione via radio e dopo poco una Mustang nera mi è sfrecciata davanti. Ho provato a seguirla, ma al terzo isolato l’ho letteralmente persa. È sparita nel nulla.» «Una Mustang, dici? Peter, so che sei incazzato, ma non ti voglio più vedere in giro. Hai quasi due mesi di ferie: vai al mare o dove ti pare, ma non interferire più con le indagini. È molto probabile che tu venga reintegrato nella squadra, ma devi aspettare fino a settembre. Se non esegui gli ordini, non credo che potrò fare nulla per te.» Peter tira una nuova boccata di fumo. «Quindi non ci credi? Non t’interessa il numero di targa?» Julian lo guarda spazientito. «Lo so, potrebbe essere rubata.» «Potrebbe? Sicuramente è stata rubata. Ora vai, se no m’incazzo davvero!» Julian torna da Dan e Darla. «Andiamo a dare un’occhiata alla casa di Zackary Barkley. Non so com’è, ma ho l’impressione che troveremo delle sorprese.» «Won't you come into my room, I wanna show you all my wares. I just want to see your blood, I just want to stand and stare. See the blood begin to flow as it falls upon the floor. Iron Maiden can't be fought, Iron Maiden can't be sought.« Bravo Julian, ci eri quasi riuscito. Nascondi i tuoi uomini nei vicoli, mi lanci i tuoi cani contro e infine salvi pure vite umane. Mi piace, mi riporti ai tempi della Bosnia. Ma ci vuole altro per fottermi. Oggi ho sentito il tuo odore, l’odore della disperazione e della 159 vergogna. È così difficile leggere il mio disegno, capire perché faccio quello che faccio? È strano, da bambino tutti sapevano perché lo facevo e tutti sapevano come fermarmi. Tu, invece, non riesci a capirlo. Vuoi che ti aiuti a vedere, ad aprire gli occhi e a guardare il mondo coi miei? Se vuoi lo faccio, ma dovrò alzare la posta e tu dovrai mettere in gioco ciò che hai di più caro. Sei pronto a farlo? Non dici nulla, Julian? Come fai a dormire dopo quello che hai trovato nello scantinato, oggi? Hai tanto combattuto per non diventare come uno di loro che alla fine hai ceduto, senza neanche accorgertene. Il sangue non ti dà più fastidio e i demoni della notte ora ti lasciano riposare tranquillo. Bene, se è questo che desideri, cercherò di accontentarti: alziamo la musica e iniziamo a ballare! «Oh well, wherever, wherever you are, Iron Maiden's gonna get you, no matter how far. See the blood flow watching it shed up above my head. Iron Maiden wants you for dead.» «È morto all’istante, centrato al primo colpo.» L’agente O’Malley indietreggia di qualche passo per lasciare entrare la squadra dell’FBI. «Lo so, purtroppo ho visto la scena in diretta.» Julian si china per osservare meglio il cadavere di Zackary Barkley. «Indossa biancheria intima femminile?» «Sì. Crediamo che stesse chattando, prima di essere assassinato. Il PC della camera da letto era acceso e in collegamento con un sito di chat erotiche. Credo che al dottor Barkley piacesse il sado-maso», replica mostrando a Julian una sacchetto contenente strumenti di 160 tortura e giochi erotici. «Con chi era collegato?» «L’ultimo collegamento video risulta essere con una certa Luana.» «Avete rintracciato l’IP del server?» «Sì, ha sede legale in Romania», sbuffa O‘Malley, appoggiando il sacchetto sul pavimento. «La moglie dov’è?» O’Malley alza le spalle. «Abbiamo telefonato al suo capoufficio: ci ha detto che è assente da cinque giorni. Lunedì scorso gli ha mandato una email dicendogli che non si sentiva bene, poi non l’ha più sentita.» «Avete già controllato il resto della casa?» «La casa e il garage sono a posto, manca lo scantinato.» Julian si solleva in piedi appoggiandosi al pianale della cucina. Poi si volta verso Darla. «Sei pronta?» Dan fa un passo in avanti. «Posso andare io, se preferisci?» «Grazie Dan, ma ce la faccio.» Darla afferra la torcia elettrica di O’Malley ed estrae la revolver dalla fondina. «Se noti qualcosa di sospetto, fermati immediatamente. Non mi stupirei se il nostro amico avesse piazzato qualche trappola.» Darla apre la porta dello scantinato e illumina la ripida scala che scende per oltre tre metri sottoterra. La mano di O’Malley si allunga nel tentativo di premere l’interruttore, ma viene bloccata da Ranucci. 161 «Vuoi farci saltare tutti in aria?», gli sussurra in un orecchio. O’Malley ritrae la mano, con la stessa espressione di quando sua madre lo trovava a frugare nella borsa alla ricerca di qualche spicciolo. Darla avanza con cautela sui gradini di legno ammuffito. Ad ogni passo le assi scricchiolano minacciose e i chiodi ne imitano il suono con un cigolio sinistro. Giunta in fondo alla scala, solleva il fascio di luce per illuminare l’ambiente di circa quaranta metri quadrati zeppo di cianfrusaglie e circondato da scaffalature di metallo ripiene di strumenti da lavoro. La lampadina del soffitto ha un secondo interruttore a catenella, alla cui estremità è appeso qualcosa. Darla di avvicina e nota che si tratta di una vecchia chiave arrugginita. Decide di non toccarla e di continuare a esplorare lo scantinato, partendo dalla parete più vicina alla scala. Ammassati sugli scaffali, vecchi testi di medicina e appunti del corso di laurea della Yale. Un teschio in policarbonato da cui sono stati rimossi alcuni denti, strumenti odontotecnici vintage e un proiettore degli anni sessanta. Darla scorre con attenzione tutte e quattro le pareti fino a tornare al punto di partenza. «Trovato niente?», le chiede Julian dalla sommità delle scale. «Ancora un’istante.» Darla si guarda nuovamente intorno, fa un rapido calcolo della metratura, solleva lo sguardo al soffitto e infine alla parete in fondo allo scantinato. «Julian, le misure non tornano!», esclama. «Cosa intendi dire?» 162 «Dammi ancora un minuto.» Attraversa la stanza piena di vecchi mobili e raggiunge la parete opposta. Punta la luce tra gli oggetti sui ripiani: la schiena della scaffalatura è di legno compensato con piccoli fori verticali di circa un centimetro di diametro. Darla rimuove alcuni oggetti e crea uno spazio sufficiente per osservare meglio: punta il fascio di luce tra i fori e nota che, oltre il compensato, vi è uno spazio vuoto che s’illumina al passaggio della torcia. Afferra un grosso cacciavite e, facendo leva all’interno di un foro, ne aumenta le dimensioni fino a quando non riesce ad inserire l’intero pugno. «Darla, cosa stai facendo?!» «Venite giù!» Julian scende le scale, seguito da Ranucci e O’Malley. Raggiungono Darla, impegnata nel liberare l’intera scaffalatura. «Datemi una mano, c’è qualcosa là dietro!» Dopo alcuni minuti i ripiani sono completamente vuoti. Darla allunga il manico di una zappa a Dan che lo infila nel pertugio e, facendo leva di lato, ne scardina i chiodi che lo fissavano ai montanti. «C’è un vecchio armadio, lì dietro!», esclama illuminando l’anfratto con la torcia. Darla si china carponi e supera la parete di compensato, ritrovandosi in un vano profondo poco più di un metro e occupato quasi completamente da un enorme armadio in acciaio. L’odore che l’assale è forte e pungente, una miscela di carne in putrefazione e metano. Darla si copre il viso con un foulard e inizia a esplorare la superficie liscia con i guanti in latice. 163 «Forse so perché la moglie non è andata al lavoro questa settimana», aggiunge rivolta ai colleghi che la osservano da dietro la scaffalatura. «Ma come cazzo ha fatto a metterla lì dentro con questo caldo?!», esclama Dan, continuando a illuminare l’armadio con la torcia. «Non poteva usare il freezer?» O’Malley lo guarda con aria preoccupata, poi si allontana di corsa per trattenere un conato di vomito. «Ah, poliziotti locali...» sbuffa seguendolo con lo sguardo. «Non riesco ad aprirlo!» Julian le passa il cacciavite a stella. «Forza la serratura.» «Aspetta, forse so dov’è la chiave. Ce n’é una appesa di fianco alla lampadina.» Dan recupera la chiave e la passa a Darla. «Non credo che riuscirai ad aprirla, è troppo arrugginita.» Darla la introduce nella serratura e tenta di ruotarla verso destra, ma senza riuscire a sbloccare il chiavistello. «È incastrata!» «Prova a ungerla un po’», esclama Julian allungandole un barattolo di lubrificante per motore a due tempi. «Agente Smoke!» Julian si gira verso l’agente O’Malley che è rientrato nello scantinato. «Posso disturbarla un secondo?» «Mi dica.» 164 «Un mio agente mi ha detto che è arrivata una persona.» Julian si solleva in piedi e si avvicina di un passo a O’Malley. «Una persona?» «Sì, ecco, in giardino c’é una donna che dice di essere la signora Barkley.» «La moglie di Zackary Barkley?!» «Sì. I miei uomini l’hanno fermata, ma stando di matto e vuole sapere cosa è successo al marito. Ha detto di aver passato gli ultimi giorni in Canada, da una cugina.» Julian si abbassa nuovamente e infila il busto tra le scaffalature. «Darla, stai molto attenta. Ho una pessima sensazione!» 20. 165 «Buongiorno, ha fatto presto.» Alice si sofferma qualche istante a osservare il completo nero e la camicia grigia dell’uomo sulla soglia della camera d’albergo. «Buongiorno, signorina Duvall. La ringrazio di aver accettato di incontrarmi senza preavviso.» La prima impressione è quella di averlo già visto da qualche parte. Alice è brava a ricordare le persone che incontra, ma questa volta la sensazione è molto sfumata, esile, della stessa consistenza fugace dei sogni al risveglio. «Di cosa voleva parlarmi don Elia?» L’uomo vestito di nero segue Alice nel piccolo soggiorno. «Come le ho anticipato al telefono, sono successe delle cose nella nostra parrocchia, a Denton.» Alice si siede e invita don Elia ad accomodarsi sul divanetto di fronte a lei. «Vada avanti.» «Immagino che avrà sentito di Remi Sullivan.» «Ho seguito la vicenda sui giornali. Al telefono mi ha accennato di una suora che si è smarrita a Denton, ma non riesco a capire in che modo potrei esserle utile.» 166 Don Elia estrae dalla giacca una foto e la mostra ad Alice. «Quando pensa di rientrare a Denton?» le chiede alzandosi in piedi. Alice lo segue avvicinarsi alla finestra e osservare il traffico sottostante. «È questa la donna?» «Esatto.», risponde continuando a guardare fuori. «La foto è molto vecchia e rovinata.» «Lo so.» Alice scruta attentamente il volto giovane della donna che sorride nell’immagine in bianco e nero. «Non l’ho mai vista prima», aggiunge sicura. L’uomo si volta verso Alice e sorride. «Lei lavoro presso il Poliambulatorio Centrale di Denton, non è così?» «Sì», risponde appoggiando le fotografie sul comodino, di fianco al cellulare. Don Elia segue il movimento con lo sguardo. «Suor Odette si è recata presso il vostro Poliambulatorio ad aprile, per un forte mal di denti. Mi chiedevo se l’era capitato di incontrarla. Adesso è molto più anziana rispetto alla fotografia e il giorno della scomparsa indossava l’abito religioso della sua congregazione, un abito celeste con una riga rossa verticale.» Alice torna a prendere in mano la fotografia, ma poco dopo scuote nuovamente la testa. «Non mi sembra proprio di averla mai incontrata. Tra l’altro, ad aprile sono stata in ferie una settimana. Non ricorda il giorno preciso?» 167 «Il diciotto.» «Mi dispiace, non credo di poterle essere utile», aggiunge alzandosi in piedi. Dal bagno si sente il rumore dell’acqua che scorre nel lavandino e, poco dopo, la porta si apre. L’uomo vestito di nero incrocia lo sguardo severo della donna anziana che entra nel soggiorno con un bicchiere in mano e una scatola di medicine nell’altra. «Buona sera», interviene senza distogliere lo sguardo dall’espressione di stupore dell’uomo. «Don Elia, lei è la signora Caruso» aggiunge Alice con un sorriso. La signora si avvicina all’uomo porgendogli la mano. «Buonasera signora Caruso». Al contatto con l’uomo, la signora avverte un intenso calore al palmo e ritrae bruscamente la mano. Don Elia abbozza un sorriso che non riceve risposta. «Condividete la stanza?» «No, ci siamo conosciute in aereo e stasera andiamo a cena insieme», risponde Alice avvicinandosi alla signora e stringendola sotto braccio. «Se solo sapesse quali straordinari poteri ha questa donna minuta. La sua fede potrebbe essere messa a dura prova», aggiunge sorridendo. «La sua fede è già in crisi, Don Elia. Non è così?» interviene tagliente la signora Caruso. «La fede è un seme, se non viene innaffiato costantemente può seccare e morire in breve tempo.», risponde dopo un attimo di esitazione. L’uomo si avvicina di un passo e poi supera le due donne 168 mantenendo le mani in tasca. Nell’uscire dal soggiorno inciampa nel comodino e a stento riesce a mantenere l’equilibrio. Poi si china a massaggiarsi la caviglia. «Sì è fatto male?» chiede Alice preoccupata. «No, grazie, non è nulla.» Riacquistata la posizione eretta, si volge verso la donna anziana. «Lei non crede, signora?» «Molto più di lei», replica fredda. «Credo di non piacerle molto. Mi capita spesso di dare una cattiva impressione, al primo incontro, e purtroppo questo non è un bene, per il mio lavoro.» «Non credo che non le piaccia», interviene Alice. «Elisabetta è solo un po’ stanca e forse affamata. Non è così?» La signora non risponde. «Bene, credo che sia meglio che io vada. Posso usare il bagno, per favore?» «Certo.» Don Elia entra nella piccola toilette chiudendosi la porta alle spalle. Apre la mano sinistra e osserva il cellulare di Alice raccolto da terra. Esplora l’archivio fotografico e scorre le immagini fino a trovare ciò che gli interessa. L’immagine raffigura Sean Stolnhouse in aereo che accenna un sorriso imbarazzato. Alle sue spalle c’è un uomo con un cappuccio in testa che tenta di coprirsi il volto con la mano. «Eccola.», sussurra. Seleziona la fotografia e la elimina dal telefonino. Poi scorge la boccetta sul lavandino. 169 «Soffri di pressione alta, signora Caruso? Non dovrebbe esagerare con gli spaghetti e le lasagne.» Dalla tasca della giacca estrae una seconda boccetta, prende una decina di compresse e la versa nella boccetta della signora Caruso. Apre il lavandino, si sciacqua il volto, poi esce dal bagno. «Alice, ancora grazie del tempo che mi ha dedicato. Ora devo proprio andare. Vi auguro di passare un buona serata.» «Grazie Don Elia, spero che possiate ritrovare suor Odette.» La signora Caruso continua a seguirlo fino a che non raggiunge la porta e non esce dalla stanza. «Se quello è un prete io sono miss Italia», aggiunge con un grugnito. «Dai, Elisabetta, non fare così. Pensa che adesso ti porto da Silvio, il migliore ristorante della città.» Elisabetta continua a fissare la porta, poi si volta verso Alice, con occhi preoccupati. «Sei sicura di volere uscire? Potremmo ordinare qualcosa e restare qui. Se vuoi ti faccio i tarocchi, ma ti prego, non andiamo: sono molto preoccupata.» «Non avevi detto che non leggevi più le carte? Dai, vedrai che ci divertiremo. Prendi la giacca che usciamo.» 21. 170 «Fatemi entrare, pezzi di merda!» «Signora, si calmi.» «Dov’è mio marito! Voglio sapere cosa gli è successo!» I due agenti faticano a trattenere la signora oltre la staccionata della villetta. «Vai a chiamare O’Malley immediatamente!» urla uno dei due agenti a un terzo che stazione sulla soglia di casa. Dopo due minuti O’Malley raggiunge la signora Barkley che continua a dimenarsi tra grida e singhiozzi di pianto. «Dove sei Zac? Cosa ti hanno fatto?!» «Stia calma signora.» Poi, rivolto a un agente, «Chiamate i paramedici e fatele dare qualcosa per calmarla.» «Testa di cazzo, non voglio calmarmi. Voglio sapere cosa è successo a mio marito!» «È morto, va bene?!» si lascia sfuggire in un impeto d’ira. La signora si blocca di colpo e gli occhi si svuotano di ogni traccia di vita. Si appoggia alla staccionata, poi le gambe non reggono e cedono al peso del dolore. I due agenti la reggono per le braccia e la accompagnano dolcemente a terra, sul marciapiedi «Presto, un medico!» grida O’Malley tornando velocemente alla 171 villa. Julian segue Darla da dietro i ripiani. «Sei riuscita ad aprirla?» «No, anche così la chiave non gira. Ho paura di forzarla troppo e spezzarla dentro il lucchetto. «Non importa, girala di scatto e con forza.» Darla si stacca un attimo dalla serratura, si stira la schiena, poi torna ad impugnare il lucchetto. «Ok, ci riprovo.» Con un movimento secco e deciso ruota la chiave in senso orario e fa scattare la serratura del grosso lucchetto. «Ce l’ho fatta, è aperto!» grida voltandosi verso Julian. «Attenta!» le urla di rimando Julian. I due corpi le cadono addosso facendola sbattere contro i ripiani. Julian e Dan si allontanano di colpo e afferrano la struttura metallica, evitando che precipiti a terra. «O’Malley!» grida, «Vieni a darci una mano!» Il sergente li raggiunge di corsa e si pone al fianco di Ranucci, con le mani tese sui ripiani. «Ma cosa c’era dentro?!» «Darla, riesci a passare?» «Sì, ora esco.» Darla gattona fuori dall’anfratto e si alza voltandosi verso i colleghi. «Faccio scendere qualcuno a darci una mano.» 172 La struttura metallica viene rimossa, dando la possibilità di osservare meglio i corpi distesi sul pavimento grigio. Le due donne giacciono nude, in un abbraccio innaturale: i palmi dell’una restano fissi sulla schiena dell’altra, immobili, come se fossero stati incollati. I capelli della donna più giovane sono lisci, tagliati sopra delle spalle, di un colore rosso acceso; quelli dell’anziana sono radi e tinti di un grigio argenteo, con riflessi azzurrognoli. L’addome della ragazza è stato scuoiato, in modo del tutto simile a quello di Sarah Barkley e di Margaret Lee. Il corpo della donna anziana, invece, appare integro, senza lesioni apparenti; una benda viola le copre gli occhi e dalla bocca socchiusa sporge qualcosa. Darla si avvicina e con un paio di pinze estrae dalla bocca una carta dei tarocchi. La pone all’interno di una busta di plastica e la mostra a Julian. «È l’Angelo. Nell’antica Grecia, il termine ànghelos era adoperato per riferirsi a Hermes, il messaggero degli Dei e protettore dei viaggiatori. Nei tarocchi, l’Angelo rappresenta un messaggio che ci arriva dalla dimensione spirituale; questo messaggio può essere visto e compreso, oppure ignorato: questa è una nostra libera scelta.» Julian e Dan l’ascoltano perplessi, poi Julian indica la benda sugli occhi. «Quindi, la signora potrebbe non aver voluto vedere qualcosa o non aver voluto ascoltare un messaggio, magari un avvertimento?» Darla scuote appena la testa. «Non credo. La carta dell’Angelo infilata in bocca e la benda sugli occhi mi fanno pensare più al ruolo che aveva questa donna. Credo 173 che fosse lei a portare il messaggio o il segreto. Il colore viola, che viene usato nei riti funebri, ha inoltre un significato istituzionale e potrebbe riferirsi, appunto, al ruolo della donna in vita. Mi verrebbe da pensare al ruolo di giudice, o di sacerdote, comunque a qualcosa che aveva a che fare con il giudizio. Forse era un’insegnante.» Julian si china sull’anziana. «E se fosse suor Magdalena? Don Elia mi ha detto che è rientrata in Francia, ma potrebbe aver mentito. Bisogna contattarlo e recuperare qualcosa di personale della suora per eseguire un confronto del DNA.» «Sai che ruolo avesse suor Magdalena nel suo istituto, se fosse la Madre Superiore o ricoprisse un ruolo autorevole?» «Non saprei.» «L’avete riconosciuta?» interviene Ranucci indicando la ragazza scuoiata. «È Alice Duvall», risponde Julian chinandosi sul volto pallido della giovane. Darla si abbassa al fianco di Julian. «È la terza vittima del volo AA5674, dopo i fratelli Stolnhouse. Mi viene il dubbio che anche la donna anziana fosse su quell’aereo.» Julian si solleva e si rivolge a Ranucci. «Dan, fatti inviare dall’American Airlines l’elenco completo dei passeggeri di quel volo. Non è da escludere che fosse presente anche il nostro uomo.» Darla torna a osservare i corpi sul pavimento, al modo con cui sono stati preparati e disposti post-mortem. 174 «Julian,» gli sussurra all’orecchio, «e se fosse tutta una messa in scena? Inizio a pensare che il nostro amico sia meno disturbato di quello che vorrebbe farci credere. Se anche la signora era su quell’aereo, l’assassino potrebbe aver temuto di essere riconosciuto e aver deciso di eliminare due possibili testimoni.» «E potrebbe aver disposto i corpi in una sorta di scena rituale per confonderci ulteriormente? È possibile. Occorre stabilire al più presto l’identità della donna e sapere se era presente sul quel volo.» Julian guarda i volti stanchi dei suoi colleghi. «È stata una giornata dura. Lasciamo che gli uomini della scientifica finiscano il loro lavoro e torniamo alla centrale. Domani interrogherò di nuovo Laski. Fatemi sapere se Norman ha trovato qualcosa sul suo passato, qualcosa che lo possa collegare a Remi Sullivan.» Il traffico corre veloce sulla tangenziale e O’Malley supera rapidamente le autovetture in transito. La mente di Julian torna, per un attimo, al volto di Charlotte, al suo sguardo triste ma sereno e, pur avvertendo un forte senso di distacco, non riesce a provare rabbia. Infila la mano nella giacca ed estrae la busta di plastica con la lettera che gli ha consegnato quella mattina. La solleva e la guarda in controluce; ha l’impressione che sia aumentata di peso e che all’interno non sia presente solo una lettera. Indossa un paio di guanti, estrae la busta di carta e la scuote leggermente, avvertendo che all’interno è presente un piccolo oggetto solido, forse un ciondolo. Facendo attenzione a non rovinare i bordi, apre la busta con una 175 matita e versa l’oggetto sul palmo della mano. Il peso del piccolo anello non è proporzionato ai carati dell’oro con cui è stato forgiato. Il calore che invade la mano di Julian si estende rapidamente al braccio e al capo. Sente le congiuntive divampare in un rogo atroce, insopportabile, che si accentua con la chiusura delle palpebre. La frequenza cardiaca ha raddoppiato i suoi battiti, mentre la quantità di ossigeno introdotta a ogni respiro è diminuita drasticamente. Julian si porta una mano al collo e con l’indice e il medio esercita una lieve pressione sulla carotide. I battiti del cuore si riducono, migliorando anche la respirazione e la vista. Abbassa lo schienale e si distende, continuando a fissare l’anello. «Tutto bene?», gli chiede O’Malley, senza perdere d’occhio la strada. Julian non risponde. Ma come è possibile?! Solleva l’anello e lo pone in posizione orizzontale, all’altezza degli occhi. Charlotte, 11-5-1998, legge sul bordo interno. «Sergente, mi porti immediatamente al mio albergo.» O’Malley si volta perplesso, poi torna a fissare la striscia d’asfalto davanti a sé, aumentando la pressione sull’acceleratore. «Agli ordini, capo!», risponde, accendendo le sirene. «A che ora raccolgono il vetro?» Dopo un attimo di esitazione, O’Malley solleva la ricetrasmittente e si mette in contatto con la centrale. «Dimmi Jack.», gracchia una voce femminile. 176 «Ciao Donna, ho bisogno del tuo aiuto. Sai dirmi a che ora passa il camion del vetro?», poi, rivolto a Julian, «tu stai al Western, non è vero?» Julian accenna un si con la testa. «Donna, voglio sapere il giro del vetro nella zona del Western Union.» «Subito Jack. Secondo gli orari della compagnia, in quella zona raccolgono il vetro alle sette di sera.» «Grazie, sei un angelo.» O’Malley guarda l’orologio. «Sono le sette meno dieci. Non so se arriveremo in tempo.» Julian lascia sfilare la lettera contenuta nella busta ed esita qualche istante prima di leggerla. La carta è sottile e dai i bordi ingialliti, come se fosse stata conservata a lungo, prima di essere utilizzata. La calligrafia è elegante ed infantile allo stesso tempo, con le lettere in corsivo ben disposte sul foglio a righe. In alcuni punti sono presenti tratti di inchiostro rosso, parole adulte che sovrastano quelle infantili, cancellate. Lo sguardo di Julian si porta dapprima alla data, New York, 2 aprile 1977, poi al titolo del tema, Cosa farò da grande. E nuovamente il dolore al braccio, esteso al collo e al capo. La sensazione di essere in un labirinto di vetro, di girare in tondo senza trovare la via d’uscita e percorrere un corridoio dalle pareti sempre più strette e anguste. Il terrore di trovarsi per le mani un pezzo del proprio passato. Da grande non sarò più un bambino e non bagnerò più il letto. Da 177 grande sarò bravo e non farò più arrabbiare il mio papà così poi quando torna a casa tardi la sera non si arrabbia più con la mamma e con me. Gli occhi non riescono a leggere oltre, l’inchiostro si espande nella vista bagnata e le parole di bimbo si sciolgono nelle lacrime dell’uomo che ora siede nell’abitacolo di una macchina troppo stretta per poter respirare. Solleva il tronco dallo schienale, abbassa il finestrino dell’auto e si sporge completamente al di fuori del vetro per riprendere fiato. «Ma che cazzo...?!» esclama O’Malley, rallentando la corsa. «Non ti fermare!» gli urla Julian dall’esterno. Dopo un attimo di esitazione, O’Malley torna a correre veloce, intervallando l’attenzione per la strada a quella per il suo passeggero. Passata una ventina di minuti, l’auto della polizia di Denver si arresta davanti all’ingresso del Western Union. Julian esce di corsa e raggiunge i bidoni della spazzatura, a un centinaio di metri dall’hotel. La campana per la raccolta del vetro è vuota. Si appoggia alla struttura di ferro, poi le gambe cedono e Julian scivola a sedere sul marciapiedi. La testa gira vorticosamente e il senso di nausea non accenna a diminuire. «Julian, ma che succede?!» O’Malley non riesce a trovare altre parole per poter proseguire la conversazione. Di fronte a lui, accasciato a terra, il responsabile delle indagini sulla peggior serie di delitti nella storia di Denver. Il terrore che stia gettando la spugna e che si stia arrendendo lo paralizza. Il cellulare continua a squillare nella giacca di Julian, ma lui non sembra 178 accorgersene. O’Malley si avvicina e, senza chiedergli il permesso, lo estrae e risponde alla chiamata. «Dottoressa Hemingway, abbiamo un problema.» Quando riapre gli occhi, Darla lo accoglie con un sorriso. Gli basta una breve occhiata per riconoscere la sua camera d’albergo. A fianco del letto, Ranucci e O’Malley lo guardano con aria stanca e preoccupata. «Ti ricordi cosa è successo?», gli chiede Darla avvicinandosi. Julian si solleva e butta le gambe giù dal letto. «Certo!», risponde con tono brusco. Darla solleva gli occhi verso Dan, poi torna a Julian che ora si sta allacciando le scarpe. «Forse è meglio che rimani un po’ qui a riposare.» «Julian,» interviene il sergente O’Malley, «sei stato molto male e mi sono preoccupato. Non credo che ti dovresti alzare.» Julian si ferma sul letto, dà un’occhiata al comodino e si allunga per prendere la busta che Charlotte gli ha consegnato quella mattina. «Sapete cos’é questo?» «O’Malley ci ha detto che ti sei sentito male, dopo averla letta. Ci ho dato un’occhiata, ma non ho capito perché ti abbia sconvolto tanto», risponde Darla. Julian si solleva in piedi. «Quello che mi ha sconvolto è che l’ho scritto io, quel tema, quasi quarant’anni fa. Inoltre, questa mattina ho gettato la mia fede nuziale nella campana della raccolta del vetro, qui di fronte, e me la sono 179 ritrovata in questa busta. E la busta è stata spedita, oltre un mese fa, dalla Francia.» «Questo cambia di molto le cose» accenna Darla, osservando il foglio di carta. «Lo so», risponde Julian allacciandosi i bottoni della camicia. «Scusate, di cosa state parlando?» chiede O’Malley con aria spaesata. Darla incrocia lo sguardo di Julian che gli accenna un si con la testa. «Significa che, probabilmente, il nostro amico ha un conto in sospeso con l’agente speciale Smoke e che tutte le ipotesi formulate fino ad oggi perdono, sostanzialmente, di valore. Se l’Onnivoro agisce per rancore, tutto quello che ha commesso finora potrebbe essere stato costruito, architettato, solo per prendersi gioco di Julian. E la cosa più pericolosa è che sembra conoscerlo molto bene. Vedete questo tema? È stato scelto appositamente tra i tanti che ha scritto durante la scuola elementare, ed è stato scelto perché parla sia del suo passato, descrivendo il rapporto conflittuale con suo padre, sia del suo futuro, rivelando il suo desiderio di diventare poliziotto. L’Onnivoro voleva comunicare a Julian che sa tutto di lui e che non ha speranza di catturarlo perché è in grado di prevedere ogni sua mossa.» «E l’anello?» chiede O’Malley. Julian lo sfila dalla busta di carta e torna ad osservare l’incisione all’interno. «Questo è l’anello che mi ha dato mia moglie Charlotte, il giorno del nostro matrimonio. Non è una copia, ne sono certo per via di 180 quella irregolarità sulla lettera C. La cosa più probabile è che io abbia buttato via una copia. Il nostro uomo potrebbe averla sostituita mentre ero in coma, all’ospedale di Denton.» Dan si schiarisce la voce prima di prendere la parola. «Quindi potrebbe essere qualcuno che hai arrestato in passato. Dovremmo vedere quelli che sono stati rilasciati di recente e iniziare da loro. Se mi prepari l’elenco, mi metto subito a controllare.» «Grazie Dan, ottima idea. Le altre cose da fare sono: ottenere l’elenco dei passeggeri del volo su cui era Alice Duvall, contattare don Elia per il riconoscimento della signora trovata nello scantinato dei Barkley e parlare con Earl Laski.» Darla appoggia la lettera sul comodino. «Julian, credo che sia meglio mettere sotto protezione Charlotte.» Julian inspira profondamente. «Non la prenderà bene. Questa mattina mi ha detto di essere incinta.» «Oh, Julian!» esclama Darla. «Mi dispiace.» O’Malley lancia un’occhiata interrogativa a Ranucci che scuote leggermente la testa. «Sono d’accordo, sarebbe meglio metterla sotto protezione. Se quel bastardo volesse colpirmi, partirebbe proprio da Charlotte. Le parlerò questa sera.» Julian fa una breve pausa, poi prende in mano la busta con il timbro postale di Marsiglia. «Darla, dovremmo fare un salto in Francia e al più presto.» «Non credi che sia un modo per confonderci e allontanarci dalla 181 scena del crimine?» «È possibile, ma l’unico modo per scoprirlo è andare di persona a visitare la comunità delle Sorelle di Maria Vergine, a Marsiglia. Considera che anche il caso di Sullivan riconduceva a quella comunità.» «D’accordo. Allora prenoto i biglietti per il fine settimana. Ho telefonato ad Adam Swan e gli ho detto che volevi parlare con Earl Laski. Ci aspetta domattina in centrale?» «Va bene.» 182 22. Io ed Earl siamo a caccia di lucertole, mentre gli altri bambini corrono nel prato, dietro la casa dai mattoni gialli. Abbiamo costruito una piccola capanna di stecchi, sotto il fico in giardino, e vogliamo che tutto sia pronto per quando tornerà Jamad. Glielo abbiamo promesso e una promessa è una promessa. Puoi essere piccolo quanto vuoi, ma se non mantieni le promesse meriti solo di essere punito. E non diventerai mai grande. Jamad lo dice sempre: la parola data può valere oro o merda, dipende da quello che sei disposto a fare per mantenerla. Glielo abbiamo promesso e così sarà. Ne manca solo una. È difficile far stare le lucertole nella capanna di stecchi, perché tutte le volte che apriamo il tetto, cercano di scappare fuori. Tre lucertole hanno perso la coda, si è staccata non appena la mia mano le ha schiacciate. Abbiamo tenuto anche quelle, le abbiamo messe in un vasetto di vetro che abbiamo rubato dalla cucina. Se suor Odette ci vedeva si arrabbiava moltissimo. Per fortuna c’era suor Magdalena che, quando mi vede, mi sorride e fa sempre finta di niente. Io le voglio bene e da grande la sposo. «Cazzo fai, dormi con gli occhi aperti?!» Mi volto e lo vedo avvicinarsi con un barattolo di latta in mano. 183 Balbetto qualcosa, poi chiamo Earl che continua a nascondersi dietro il tronco. «Allora, bambocci, avete mantenuto la promessa?!» «Si, ehm... Ne abbiamo catturate nove.» rispondo indicando la casetta. «Nove?!» scuote la testa guardando verso terra. «Cosa vi avevo chiesto questa mattina?» «Avevi detto di catturarne dieci prima di sera. Ma... Il sole non è ancora tramontato ed Earl sta cercando l’ultima.» «Che idioti che siete. Ma va bene lo stesso, il nove è un numero che mi piace tantissimo.» Jamad si avvicina alla piccola capanna di stecchi. «Sono qui dentro?» «Si, ma stai attento che scappano.» Jamad solleva il tetto di foglie per vedere quei piccoli rettili che si arrampicano gli uni su gli altri. «Molto bene», aggiunge alzandosi di nuovo in piedi. «Chiama Earl.» «Earl, vieni, presto!» Sorrido eccitato. Earl si avvicina con passo lento, mantenendo le manine incrociate davanti ai pantaloncini di lana. «Che coglione!» sussurra Jamad guardandolo avvicinarsi. «Bene, cari amici», esclama sollevando le braccia al cielo, «ora faremo qualcosa per consacrare la nostra amicizia.» «La nostra amicizia», sussurra Earl. 184 «Da oggi in poi saremo uniti per la vita e tutte le volte che dovrete prendere una decisione, chiederete il mio parere e la mia approvazione. Siamo tutti d’accordo?» Guardo dapprima Earl, poi Jamad che continua a mantenere le braccia al cielo con il barattolo di latta in mano. «Tutte le decisioni...importanti?» chiedo. Jamad mi squadra con fastidio e disprezzo. «Ho detto tutte le decisioni!» «Per me va bene.» farfuglia Earl alle mie spalle. «Anche per me.» aggiungo. «Bene, allora possiamo continuare. Ora verserò quest’acqua sulle nostre creature e chiederò alla loro anima di aiutarci nella nostra missione.» Jamad versa un po’ di acqua sulla capanna e un altro po’ in bocca, senza mandarla giù. Tira fuori una scatola di fiammiferi, ne accende uno a pochi centimetri dalla bocca e poi sputa il liquido in direzione della capanna. La nuvola di fuoco colpisce la piccola casetta di legno che s’incendia all’istante. Sento dei versi strani, come dei gridolini che provengono dalle fiamme e che si mescolano allo scoppiettare dei rametti di legno. Earl si ripara gli occhi dietro le manine bianche, mentre io non riesco a muovere un muscolo come se un ragno mi ha morso e iniettato un veleno micidiale che mi sta facendo sciogliere i muscoli e le budella. Sento qualcosa che mi brucia nella pancia e penso alle lucertole nel forno. Vorrei muovere la gamba, dare un calcio alla capanna in fiamme, ma quei gridolini mi stanno facendo impazzire. Jamad ride come un matto sbattendo forte le mani e i piedi. 185 Mi sta chiedendo qualcosa. Ora si è avvicinato e mi dà uno spintone. Cado a terra. Forse ho la febbre. Adam Swan è elegantissimo nel suo completo grigio e Darla, da dietro il vetro oscurato, fatica a distogliere lo sguardo. Adam è nella stanza degli interrogatori con Laski che, tuttavia, non sembra comprendere molto di quello che gli sta dicendo: lo sguardo fisso davanti a sé, oltre il tavolo di formica, la bocca semichiusa, gli occhiali leggermente appannati. Adam gli sta mostrando un foglio con delle annotazioni a biro. L’interfono è spento, dato che l’interrogatorio non è ancora iniziato. A un certo punto Laski sembra destarsi da quel torpore e riprendere contatto con la realtà: inclina di poco il capo verso Adam, prende la biro e, dopo un attimo di esitazione, solleva lo sguardo verso lo specchio della stanza. Darla ha la netta sensazione che la stia guardando; si avvicina e appoggia la fronte al vetro per osservare meglio. Le labbra di Laski si uniscono, poi si aprono lentamente e infine si distendono per mostrare la fila di denti regolari. Ma-si-la «Hai visto?!» Darla si volta verso Julian che sta osservando la scena accanto a lei. «Sì, cos’ha detto?» «Masila, mi sembra.» Earl fissa ancora qualche istante il vetro, poi si china sul foglio bianco e inizia a scrivere. Julian ha un sussulto. «Maledizione, non è possibile!» 186 Darla si volta col volto pallido e lo sguardo terrorizzato. «Ha detto Marsiglia!» Escono dalla stanza, percorrono i pochi metri fino alla stanza accanto ed entrano senza bussare. «Ehi, ma che succede?!» chiede Adam allarmato. «Figlio di puttana, cos’hai detto un attimo fa?» Julian lo afferra per la camicia e lo solleva in piedi. «Fermati Julian!», lo supplica Darla da dietro. «Agente Smoke», interviene Adam, «lasci subito il mio cliente!» Earl Laski non risponde, mantenendo il capo chino e le mani libere, lungo i fianchi. «Dimmi cos’hai detto, bastardo!» ripete con la fronte attaccata alla tempia di Laski. «Agente Smoke», insiste l’avvocato alzandosi in piedi, «questa è la confessione dell’omicidio di Margaret Lee. Ora lo lasci, per favore.» «Avvocato, il suo cliente sa molto di più di quello che ci vuole far credere.» «Questo lo deciderà la giuria. Ora lo lasci.», ripete appoggiando la mano sul braccio di Julian Julian libera Laski dalla presa, afferra il foglio della confessione, gli dà un’occhiata veloce e lo passa a Darla. Poi, si rivolge ad Adam Swan. «E per l’omicidio dei fratelli Stolnhouse?!» L’avvocato riprende il foglio e li invita a sedersi. «Si dichiara innocente. Il mio cliente dichiara di non aver mai incontrato Sean e Tom Stolnhouse, né tantomeno di aver usato 187 violenza contro di loro.» «Se non ha usato violenza contro di loro, mi sa spiegare cosa ci facevano le gambe e il tronco di Tom Stolnhouse in un sacco insieme alla testa di Margaret Lee?!» ribatte Julian con una punta di ironia. «Il mio cliente dichiara di non aver tagliato in due il corpo di Margaret Lee e di non averlo gettato giù dal viadotto di Stelton.» Julian si volta incuriosito verso Darla, poi torna a fissare il suo interlocutore. «Scusi, e lei come fa a sapere dov’è stato ritrovato il cadavere di Margaret Lee?» «Mi perdoni, agente Smoke, ma è da qualche anno che faccio questo lavoro e, come posso dire?», fa una breve pausa mettendosi a posto la giacca. «Diciamo che ho le mie fonti interne.» «Allora, diciamo che anch’io faccio questo lavoro da qualche anno e che anch’io ho le mie fonti interne. Se dovessi scoprire che attinge ancora informazioni da fonti non ufficiali, la denuncerò all’ordine degli avvocati per lo scherzetto che ieri ha tirato al suo cliente.» Adam Swan flette il capo verso il basso e dopo un attimo di esitazione, replica. «Ok, ho afferrato il messaggio. Resta il fatto che Earl Laski si dichiara innocente ed estraneo a tutti gli eventi che non riguardano l’assassinio di Margaret Lee.» «Va bene, direi che per oggi può bastare», interviene Darla alzandosi in piedi. Julian dà un’ultima occhiata a Laski, seduto al fianco del suo avvocato. Ha l’aria spaesata, smarrita, come un ragazzino al suo primo 188 giorno di scuola. Non ha aperto bocca, non ha proferito parola durante tutto l’interrogatorio, come un innocente condotto al patibolo, senza più nessuna possibilità d’appello. Julian si alza in piedi, sfila dalla giacca la foto di suor Odette e la lascia cadere sul tavolo. Eral Laski rimane immobile sulla sedia, ma il respiro si fa più frequente, quasi affannato. Julian e Darla restano a guardare la scena dall’alto, mentre Adam Swan si china per sistemare la documentazione nella ventiquattrore. Con un movimento lentissimo, Laski solleva il braccio e porta la mano ad accarezzare il volto in bianco e nero della suora. Gli occhiali si appannano e il respiro si fa più rumoroso. Adam Swan si volta e rimane sorpreso nel vedere la scena. «E questa chi sarebbe?» chiede, strappando la foto dalle mani di Earl. Il verso che ne segue è più simile ad un grugnito che a un fonema umano. I denti serrati e la gola contratta accentuano il timbro acuto del suono emesso, quasi con forza, con rabbia. Gli occhi gonfi e il volto arrossato, la vena giugulare turgida. Adam si volta perplesso verso Laski e appoggia la foto sul tavolo. «La conosci?» Earl torna a fissare l’immagine, con gli occhi umidi. Solleva la foto lentamente, la osserva per qualche istante da vicino, senza dire nulla. Infine la ripone sul tavolo, sfiorandola un’ultima volta col dito. «Hai ragione, Julian, occorre fare quel viaggio in Francia al più presto». 23. 189 Darla Hemingway è al telefono con l’American Airlines, quando vede passare Adam Swan. Lo saluta e gli accenna di aspettarla nell’atrio. «Le ho detto che è molto importante. È in corso un’indagine federale e ho bisogno di quell’elenco immediatamente.» La pausa è breve. «Certo, vi ho inviato la richiesta circa un’ora fa. Lo chieda al suo collega. Bene, attendo quell’elenco al più presto.» Aggancia la cornetta del telefono e raggiunge Adam che sta selezionando una bevanda al distributore automatico. «Come lo prendi?», le chiede senza voltarsi. «Sto bene così, grazie.» Il fremito nella voce di Darla è quasi impercettibile, ma lui ne riesce a cogliere l’ombra e se lo mette in tasca con un leggero sorriso sulle labbra. «Cosa hai combinato là dentro?» Adam si gira verso di lei e beve un sorso di caffè, prima di rispondere. «Cosa vuoi dire?» «Hai capito benissimo. Vuoi farci credere che Earl Laski ha deciso, 190 spontaneamente, di confessare l’omicidio di Margaret Lee? Dimmi cosa gli hai detto.» Adam finisce il caffè e butta il bicchiere di plastica nel cestino. «Non sei contenta?» «Adam, vorrei solo sapere cosa sta succedendo. Ma scusa, non vuoi sapere anche tu chi ha ucciso Sean Stolnhouse?» «Certo e parlando con Laski mi sono reso conto che non ne sa nulla. Ho passato con lui tutta la giornata di ieri e gran parte della sera, e dopo ore di silenzio ha iniziato ad aprirsi e a parlare di cosa era successo. Sono riuscito a catturare la sua fiducia e gli ho spiegato che collaborare con voi poteva essere l’unico modo per evitare la sedia elettrica.» «Quindi si è spaventato all’idea di finire nel braccio della morte?» «No, non direi. Posso confermarti che Earl Laski non ha nessuna paura di morire. Credo che sia ancora al mondo solo perché nessuno lo ha fatto fuori, ma di certo lui non si preoccupa più di tanto della sua incolumità. Mi ha detto che ha incontrato Margaret Lee ad una cena di lavoro, ma questo lo sapete già, non è vero?» Darla resta ad ascoltarlo in silenzio spostando di tanto in tanto l’attenzione sul completo grigio e sul petto atletico che si intravede al di sotto della camicia bianca. «L’ha rapita prima che rientrasse a casa e l’ha portata a Coal Creek.» «Un momento, l’ha portata a Coal Creek? Ti ha detto dove esattamente?» «No, ma posso farmelo dire.» 191 «Bene, poi cosa è successo?» «Laski dice che l’ha tenuta sequestrata alcuni giorni. Poi Margaret l’ha deriso e lui le ha stretto le mani al collo per farla smettere. Ha abbandonato il corpo in questa specie di galleria e il giorno successivo, quando è andato a riprenderla per farla sparire, aveva l’addome squartato. Da lì in avanti i ricordi sono confusi, ma insiste nel dire che non è stato lui a gettarla giù dal viadotto.» «Il coroner dice che c’è stata violenza sessuale.» Adam infila le mani in tasca, abbassa il capo come per guardarsi la punta delle scarpe e distende le labbra in un sorriso compiaciuto. «Non è vero e mi piacerebbe che tu fossi più sincera.» Darla si avvicina al distributore e seleziona una bottiglia d’acqua senza ribattere. «Se vogliamo collaborare, bene. Se no, non ci sono problemi. Basta saperlo.» «Ok, scusa», risponde cercando di ruotare il tappino di plastica dell’acqua. Adam si avvicina, le sfila la bottiglia dalle mani e l’apre con facilità. «È che ci sono troppi punti in comune con gli altri omicidi: il posto del ritrovamento, la pelle dell’addome scuoiata. Se non è stato Laski, sicuramente conosce il responsabile degli altri omicidi e, inoltre, aveva lo stesso legale di Remi Sullivan.» «Scusa, Darla, ma avete già scoperto se Laski e Sullivan si conoscevano?» «Non lo sappiamo. Per entrambi non sembra esistere un passato documentabile. Riusciamo ad andare indietro di una decina di anni, 192 ma poi tutto sparisce nel nulla: non sappiamo niente della loro infanzia, delle loro famiglie, della loro istruzione. Adam...» Darla si guarda attorno per essere sicura di non essere osservata. «Ti devo fare una confidenza. Crediamo che possano essere cresciuti all’estero.» Adam si china su di lei e si riempie i polmoni del suo profumo. Darla socchiude gli occhi e flette leggermente la testa verso di lui, sfiorandogli il mento con la fronte. Sospira, prima di riportarsi a una ventina di centimetri. «Te la senti di indagare sul passato di Laski? Non dovrebbe essere difficile, ora che siete così in confidenza.» Adam continua a fissare l’area delimitata dalla punta del suo naso e gli angoli della bocca. «Ci proverò.» risponde infine. «Darla, al telefono!», gli grida O’Malley dalla consolle centrale. Darla si concede ancora qualche secondo prima di congedarsi. Lo sguardo di Adam la segue per alcuni passi, poi si distrae, e scivola si fianchi e sulle gambe che si muovono sinuose. Quando Ranucci entra nella stanza, Norman è di fronte al monitor da trentadue pollici e sta osservando un elenco di nomi. «Hai fatto presto», osserva Dan portandosi alle sue spalle. «Beh, quaranta minuti non sono pochi per un periodo di quindici anni. Comunque, questo è l’elenco degli animali arrestati da Julian dal 1998. Ti ho evidenziato in giallo quelli usciti negli ultimi cinque anni.» Dan si allunga per osservare meglio il foglio elettronico. 193 «Scusami, ma non c’è nessun nome evidenziato.» «Esatto» risponde Norman sorridendo. «Intendi dire che nessuno è mai stato rilasciato?» «Bravo Dan, e bravo Julian. Tutte personcine con crimini leggeri, come puoi vedere.» «Ma quanti sono?» chiede facendo scorrere l’elenco verso il basso. «Centosettantatre.» Dan raddrizza il busto e si passa la mano sul cranio sudato. Si slaccia l’ultimo bottone della camicia e si avvicina alla finestra, socchiudendo il vetro. «Accidenti!», esclama, «Mi sono cacciato proprio in un bel guaio.» Norman ruota la sedia nella sua direzione e lo guarda con aria perplessa. «Ho detto a Julian che avrei valutato tutte le persone che potevano avere un conto in sospeso con lui, ma quell’elenco è troppo lungo.» «Devi fare una selezione. Se vuoi ti posso aiutare.» Gli occhi di Ranucci si ravvivano. «Oh, te ne sarei molto grato», risponde avvicinandosi nuovamente. «Iniziamo a eliminare i reati di carattere esclusivamente sessuale o di altra natura, dove non sia stato commesso un omicidio.» «Hai ragione, perfetto!» esclama Dan battendo la mano sulla spalla di Norman. «Guarda come si riduce l’elenco, ne restano solo novantotto.» «Wow!» «Ora selezioniamo quei casi in cui l’arma del delitto è stata un coltello, un’ascia o un’altra arma da taglio, o dove la vittima è stata 194 bruciata.» «Perché?», chiede Dan perplesso. «Hai già dimenticato come faceva fuori le sue ragazze Sullivan?» Dan annuisce abbassando lo sguardo. «E voilà, trentotto.» «Trentotto mi sembra un numero più che ragionevole, Norman. Sei un genio.» «Aspetta, possiamo fare di meglio. Guarda l’elenco e dimmi chi possiamo eliminare ancora. È facile.» Dan si avvicina al monitor e scorre con lo sguardo la lista senza trovare indizi rilevanti. Poi Norman fa scivolare lentamente il mouse su tre nomi: Sheela Kaur Melissa Del Cigno Clarissa Brent «Maledizione, Norman, elimina dall’elenco tutte le donne!» «Bravo, vedi che con un po’ d’aiuto diventa tutto più facile. Mi sembra molto improbabile che una donna abbia potuto commettere quegli omicidi. Inoltre, le impronte dei morsi ritrovati su Sarah Barkley e Sean Stolnhouse fanno presumere che si tratti di un uomo. Purtroppo, le donne sono solo tre e l’elenco resta di trentacinque soggetti.» «Norman, stai facendo un ottimo lavoro, ma abbiamo bisogno di restringere ancora il campo. Prova a vedere chi è stato in Francia o in Europa, prima di essere arrestato.» Norman digita alcuni codici e, dopo una manciata di secondi, 195 restano solo quattro nomi. Francois Durac Henry Tillebaut Jack Strauss Tiago Suarez «Norman, sei un fenomeno!» esclama in estasi, davanti alla schermata. «Vuoi sapere dove stanno scontando la pena? Strauss è a Seattle e Tillebaut a New York.» Esegue una breve pausa, poi riprende a pestare i tasti della tastiera, «Tiago Suarez è stato assassinato sei mesi fa a Philadelphia. Invece Francois Durac risulta...Oh merda!» «Che succede?!» «Francois Durac è qui a Denver, nel penitenziario della contea.» «Stai scherzando?! Informo immediatamente Julian. Riesci a farmi una stampata di tutti i nomi? Corro a telefonare al penitenziario della contea per sapere se possono riceverci domattina. Ancora grazie!» Julian continua ad osservare il foglio che gli ha presentato Ranucci. «Julian, ho appena parlato con il direttore del penitenziario; ha detto di presentarci quando vogliamo.» «Sei stato molto bravo, Dan.» «Veramente Norman mi ha dato una mano», risponde portando i piccoli occhi da furetto al pavimento in linoleum. «Non importa, bravo lo stesso. Domattina andremo a far visita a Francois Durac.» «Va bene.» Poi, dopo un attimo di esitazione, «Per che cosa l’avevi 196 arrestato?» Julian solleva gli occhi dall’elenco dei centosettantatre nomi e accenna un sorriso tanto flebile quanto il desiderio di rincontrare Durac. «Ho arrestato Francois Durac dodici anni fa in Alabama. È stato condannato a cinque ergastoli per aver violentato, accoltellato e fatto a pezzi nove studentesse nell’area di Tuscaloosa. Mi era giunta voce che aveva avuto dei problemi in carcere, in Alabama, ma non sapevo che fosse stato trasferito qui.» «Ci sono altri motivi, oltre all’arresto, per cui dovrebbe avercela con te?» Julian prende una matita dalla scrivania e inizia a cerchiare alcuni nomi dell’elenco. «Molte delle persone che ho arrestato mi hanno spedito delle lettere minatorie. Queste arrivavano per lo più in ufficio o a Quantico. Francois Durac è l’unico che ha continuato a spedirmi lettere direttamente a casa, fino a quando, tre anni fa, non ho deciso di trasferirmi. Il tema era sempre lo stesso: si dichiarava innocente ed estraneo agli omicidi per i quali l’avevo fatto condannare e mi prometteva che gli anni che avrebbe scontato in carcere sarebbero stati l’anticipo della condanna per lo stupro e l’omicidio di Charlotte.» «Accidenti, Julian. Potrebbe essere lui l’uomo che stiamo cercando!» «Sì. Il problema è che Francois Durac è ancora in carcere», osserva infilandosi l’elenco in tasca. 197 Il metal detector Garrett continua a suonare tutte le volte che passa in prossimità del torace di Ranucci. «Sono i punti metallici della sternotomia» ripete in tono malinconico. «Mi hanno messo tre bypass nel duemilacinque. L’agente Smoke ve lo può confermare.» La guardia si volta in direzione di Julian che accenna un si con la testa. «Ok, passate pure», li congeda infine. Il direttore Williams li raggiunge a metà del corridoio che porta al suo ufficio. «Agente Smoke, è un onore averla qui. Come procedono le indagini sull’Onnivoro?» «Grazie per averci ricevuto, direttore. Le indagini ci hanno portato nel vostro istituto. Ha già avvisato Francois Durac del nostro arrivo?» Williams li invita ad entrare nello studio, ma Julian interviene. «Le chiederei di poter incontrare subito Durac: il tempo a nostra disposizione è davvero molto poco.» Williams distende le labbra in un sorriso di circostanza, poi estrae la pipa dalla tasca della giacca e se la porta alla bocca. «Agente Smoke, lei sa perché Durac è stato trasferito qui da noi?» Julian scuote la testa. «Circa un anno fa è stato aggredito e sfigurato brutalmente, in Alabama. Gli hanno versato del gas liquido in volto e gli hanno dato fuoco. Sembra che il mandante sia lo zio di una delle sue ultime vittime.» Il direttore William estrae un fiammifero e accende il tabacco 198 stipato nel legno di quercia. «Io ho parlato con Durac e...» inspira una boccata di fumo, «all’inizio non era molto convinto di volerti incontrare. Poi, diciamo, ho cercato di convincerlo promettendogli una cella più grande e in una sezione più tollerante, dove non vedono di malocchio gli stupratori di ragazzine.» «La ringrazio per il suo interessamento. Le prometto che segnalerò la sua collaborazione ai miei superiori.» «Grazie a voi, ragazzi», sorride, stringendo gli occhi e la mano ai suoi ospiti. «E cercate di incastrarlo, quel figlio di puttana!» Il tempo impiegato per stampare l’elenco dei passeggeri del volo AA5674 sembra infinito. Darla è in piedi, di fronte alla stampante, con la matita in bocca e le dita della mano che tamburellano impazienti sulla scrivania. «Dai, dai...» lo incita tirando il margine superiore. «Ecco!» esclama infine. Si siede alla scrivania e inizia a scorrere i nomi dell’elenco con la matita in mano. Identifica per primo quello di Alice Duvall e quelli di Sean e Tom Stolnhouse, nella fila di fianco. Vicino ad Alice era seduta una certa Elisabetta Caruso. Che sia lei la donna ritrovata insieme ad Alice nello scantinato dei Barkley? Osserva la data di nascita che, di fatto, potrebbe corrispondere. Darla continua a controllare i nomi degli altri passeggeri, allontanandosi dal posto di Alice, verso la coda. Scorre l’elenco lentamente, con minuziosa attenzione. Scorre i posti uno a uno, prima 199 quelli di destra, poi quelli di sinistra, i posti finestrino e i posti corridoio, dalla cabina del comandante fino alla coda. Fino a quell’ultimo nome, in fondo, quasi nascosto. Quel nome breve, corto, quasi abbozzato, forse un errore, quel nome che Darla non avrebbe mai voluto vedere sulla lista di potenziali assassini. 24. 200 Julian Smoke, come del resto chiunque l’avesse incontrato in passato, non avrebbe mai potuto riconoscerlo. Il volto di Francois Durac non è semplicemente deturpato: la pelle della fronte, della guancia e del mento si sono completamente fuse sul lato sinistro della faccia, determinando una trazione sui muscoli che lascia esposta gran parte della dentatura e del bulbo oculare. Il cranio è calvo e lucido e l’unica memoria della folta chioma corvina è presente in un ciuffo di peli radi che nasce, appena sopra l’orecchio, e scende fino a lambire l’angolo della mandibola. L’espressività è inesistente, immodificabile, l’abbozzo di un ritratto futurista su di un cadavere in decomposizione. A ogni atto respiratorio, l’aria penetra nella bocca deformata, producendo un sibilo acuto, un cigolio sinistro, arrugginito. Dan lancia un’occhiata a Julian che continua a fissare Durac, scortato dai due agenti. Viene fatto sedere al piccolo tavolo di ferro e le manette vengono fissate ad un’anella centrale. «Per qualsiasi cosa ci chiami, siamo qui fuori.» «Grazie agente», risponde senza distogliere gli occhi da quelli di Durac. «Dan, ti dispiace lasciarci soli?», chiede passandogli una mano sul braccio. 201 «Certo, ci vediamo dopo.» La stanza si svuota e i secondi diventano ben presto minuti, senza che nessuno dei due s’incarichi del compito di infrangere la precarietà di quel silenzio. È Durac a rompere il ghiaccio. Solleva la manica della casacca arancione e mostra a Julian un tatuaggio. Je vis pour la vengeance. Poi un suono distorto. Le labbra si muovono appena e le parole sibilano tra i denti come l’avvertimento di un crotalo diamantino. «Sei tu che mi dai la forza per andare avanti.» Julian si appoggia allo schienale della sedia e accavalla le gambe. «Mi dispiace per la tua faccia.» «Non ti preoccupare, ho segnato anche questo sul tuo conto.» Un filo di bava si allunga dall’angolo della bocca verso il basso. Con un movimento della spalla, Durac si asciuga la saliva. «Ho saputo che siete nei casini, qui a Denver. Avevi bisogno del mio aiuto, Julian?» aggiunge, cercando di accompagnare la frase a un sorriso ironico. Julian sa di essere in una posizione di svantaggio e che le probabilità di ottenere qualcosa da Durac sono bassissime. Ha iniziato a giocare una partita a scacchi senza la regina e senza possibilità di errori. Mantiene gli occhi fissi sul suo avversario e decide di andare dritto al sodo. «Devo chiederti una cosa.» «So cosa vuoi chiedermi.» Julian rimane immobile. 202 «Dov’è?» Durac piega in avanti il busto e flette leggermente il capo. Il suono che segue assomiglia più ad un rasoio arrugginito, che ad una risata. «Pensi che ci sia io dietro a tutto questo? Certo che hai una bella fantasia.» «Dov’è tuo fratello?» «Dici il mio fratellino Antoine? Je ne sais pas? Sono anni che non lo sento e non lo vedo.» Sorride, o pare che lo faccia. Julian si proietta in avanti e pone le mani sul tavolo. È ora di tentare l’attacco al re: scacco matto in due mosse, o la va o la spacca. Estrae dalla tasca una bustina di plastica e la pone sul tavolo, vicino alle mani del pluriomicida di Tuscaloosa. Francois Durac inarca il sopracciglio destro e allunga appena il collo per osservare meglio quell’oggetto misterioso. La forma è esile, sottile, un insieme di palline colorate serrate da un filo di nylon. La reazione è improvvisa, inaspettata, e il tentativo di mascherarne la forza determina la comparsa di spasmi al collo e alla spalla destra. Il braccio trema un paio di secondi prima che Durac riesca a ritrovare il controllo della sua muscolatura e della sua psiche. Vorrebbe distogliere lo sguardo dal braccialetto di Nicole Ketz, la sua seconda vittima, ma le immagini che è stato in grado di rievocare nella sua mente sono così vivide e intense che ne è ipnotizzato. «Lo vorresti toccare?» Julian lo avvicina di poco alle sue mani. Il mignolo destro si sposta di pochi millimetri verso la busta di 203 plastica, quasi inconsapevolmente. Durac non parla, continuando a fissare il braccialetto di perline che aveva conservato sotto una mattonella in cucina. La riserva per i momenti di magra, l’aveva chiamata. Poi un sospiro profondo e la testa che si appoggia sul petto. «Cosa vuoi sapere?» bisbiglia infine. «Ho provato a rintracciare tuo fratello, ma non l’ho trovato. Dov’è finito?» Inspira di nuovo. Poi, senza convinzione: «Posso toccarlo?» Julian ha un attimo di esitazione, poi avvicina ulteriormente la busta. Le dita di Durac la sfiorano e ora la bava di saliva che pende dalla sua bocca si fa più abbondante e fluida. Gli occhi si ravvivano e iniziano a muoversi velocemente al di sotto di quell’ammasso di pelle e muscoli fusi assieme. «Non è che potresti...tirarlo fuori?» «Francois,» risponde lentamente Julian, «dimmi dove posso trovare tuo fratello.» Durac solleva il capo e incrocia gli occhi stanchi di Julian. «Non sei riuscito a trovarlo perché è morto. Dopo che mi hai fatto arrestare, hanno iniziato a dargli la caccia per vendicarsi delle ragazze che dicevano che avevo ucciso. Tuscaloosa e, ben presto, tutta l’Alabama, sono diventate un posto troppo pericoloso per lui, e quindi ha deciso di trasferirsi in Sud America. I problemi si sono ripresentati quando è tornato negli Stati Uniti. Per proteggersi ha cambiato identità, ma ha fatto l’errore di scrivermi e qui leggono tutta la corrispondenza. La notizia ha fatto il giro del carcere e poche 204 settimane dopo mi è stato recapitato un messaggio anonimo in cui si diceva che mio fratello era morto.» Julian riprende la busta in mano, la apre e fa scivolare il braccialetto sul palmo della mano. Durac segue il movimento con la stessa premura che un gatto ha per un passero ferito. «Sai dove è stato sepolto?», continua Julian, giocherellando con le palline colorate. «Antoine è stato bruciato. Non credo che sia rimasto molto di lui.» «Cosa sai dirmi dei delitti di Denver?» gli chiede, allungando la mano verso di lui. «Non ne so molto», risponde sfiorando l’idea di poter stringere tra le dita il braccialetto di Nicole. «Era più informato il mio avvocato.» Julian si drizza sulla sedia e ritira il braccialetto verso di sé. «Cosa vuoi dire?» Durac si volta verso Julian divertito. «Cazzo Julian, pensavo che lo sapessi. Vuoi dirmi che sei venuto fin qui per chiedermi di mio fratello e non del mio avvocato? Sto parlando di Sean Solnhouse?» Julian lo squadra di lato e poi abbozza un sorriso. «Francois, abbiamo la lista dei clienti di Stolnhouse e tu non ci sei. Questo scherzetto ti costerà caro», prosegue alzandosi in piedi. «Aspetta!» tenta di fermarlo mentre Julian ripone il bracciale nella giacca. «Non ti ho mentito. Stolnhouse è stato il mio avvocato nei primi mesi in cui sono stato trasferito a Denver. Poi ho deciso di cambiarlo perché mi aveva fatto capire che non c’erano speranze per un nuovo appello.» 205 Julian si arresta davanti alla porta della stanza. «Perché avevi scelto proprio lui?» gli chiede senza voltarsi. «Me l’hanno consigliato qui dentro. Mi hanno detto che non si fermava davanti a nulla e che accettava i casi più difficili.» Julian si volta e lo guarda dritto negli occhi. «Su una cosa aveva ragione.» Durac continua a osservarlo senza ribattere. «Non hai speranza per un nuovo appello e resterai in galera fino alla morte. Però potresti migliorare la tua posizione qui dentro. Sicuramente qualcuno sa qualcosa e credo che anche tu mi stia nascondendo delle informazioni. Cosa ne dici, vuoi fare un salto di qualità o vuoi rimanere a navigare in terza classe per il resto dei tuoi giorni?» Durac abbassa gli occhi sul tavolo, emette un profondo sospiro e, infine, apre i palmi delle mani in segno di resa. «È vero. C’è qualcun altro che ce l’ha a morte con te. Ma non so chi sia e nemmeno il perché. È qualcuno che hai fatto incazzare molti anni fa e ora ha deciso di fartela pagare. Circa due anni fa c’era un tizio qui dentro che diceva queste cose sul tuo conto, poi è stato scarcerato.» «Dimmi chi era.» «È stato dentro per poco, un paio di mesi per un reato minore. Non ricordo come si chiamava.» «Per che reato?» Durac solleva il capo e fa un cenno con la testa in direzione della giacca. Julian estrae nuovamente la busta contenete il braccialetto di 206 Nicole, la solleva a mezz’aria e rimane in attesa della risposta. «Mi sembra di ricordare che fosse dentro per una truffa di gioco.» 25. 207 La guardia penitenziaria gli consegna la pistola e il telefono cellulare. Julian osserva il display: otto chiamate da un numero che conosce molto bene. Preme il tasto Ok e resta in attesa. «Pronto, Julian?! Finalmente mi hai richiamata, ma dov’eri finito?!» «Ero in carcere.» «Quanto ci metti a rientrare in centrale?» «Circa mezz’ora.» Darla fa una breve pausa, poi riprende. «Fai in fretta, ho l’elenco dell’American Airlines. Non puoi neanche immaginare chi fosse presente su quel volo.» «Ok, adesso arriviamo.» «Questa mattina Jamad si è svegliato di cattivo umore. A colazione non ha salutato nessuno e non ha mangiato nulla, neanche lo yogurt alla fragola. Poi, quando eravamo a catechismo, suor Odette è venuta e l’ha portato dal direttore. Quando è tornato in aula, camminava tutto storto e non riusciva più a sedersi sulla sedia.» Earl mi ascolta senza interrompere. Ha una pezza bagnata sulla fronte e un fazzoletto che gli gira attorno alla testa e fa un grosso 208 nodo in cima. «Suor Magdalena ha detto che ho gli orecchioni.» «Davvero? Si può anche morire!» Earl mi guarda spaventato. Non riesce a respirare bene e tutta la notte ha dovuto respirare con la bocca aperta e io, che ho il letto vicino al suo, ho dormito pochissimo perché faceva un gran rumore. «Mi fa male la gola.» Earl ha la faccia rossa e gonfia. Anche gli occhi sono gonfi e bagnati. Mi sa che non lo prendono più i suoi genitori. L’hanno riportato indietro un mese fa e gli avevano promesso che sarebbero tornati a riprenderlo. Ma se lo vedono così non lo riprendono più. Anch’io ho un po’ paura che mi attacca la febbre e non mi piace perché le medicine mi fanno vomitare. «Vengono lo stesso domenica, vero?» Io lo guardo e non riesco a rispondergli subito. Poi gli accenno un si con la testa, ma so che dopo quello che ha fatto non lo riprendono più. «Dove l’avevi trovato il gattino?» Earl non mi risponde. Gli tocco la fronte e scotta, avrà la febbre a quaranta e di sicuro me l’attacca. Prendo la pezza di cotone e vado a bagnarla con l’acqua fresca. «Stai tranquillo che tornano a prenderti.» Credo che stia morendo. Dovrei chiamare suor Odette, per avvisarla, ma forse se muore poi diventa un angelo e non è più solo. Un angelo con gli orecchioni. Mi viene da ridere e mentre penso che lo prenderanno in giro anche 209 in cielo, vedo che gli occhi sono aperti per metà, ma che non c’è niente dentro, solo del bianco. Subito dopo il suo corpo inizia a muoversi forte, a saltare sul letto, a sobbalzare. Lo chiamo, gli provo a urlare, ma non mi sente e continua a muoversi così veloce che sembra diventato un altro. Le braccia e i piedi sono tutti duri, durissimi, e mi fa vedere i denti, con una schiuma nella bocca che prendo paura e scappo via. Dan parcheggia l’auto di fronte alla centrale e, prima che possano uscire dal veicolo, Darla li raggiunge con il fax in mano. «Julian, guarda, è pazzesco!» Julian prende il foglio, ma non lo legge immediatamente. Esce dall’auto e alza gli occhi verso l’alto: il cielo è azzurro e giallo, e l’aria è calda. Non c’è umidità e non c’è smog. E’ una bella giornata estiva, una di quelle giornate in cui le famiglie portano i bambini in piscina o a fare una passeggiata in montagna. Il pensiero corre a Charlotte, al bambino che porta in grembo e al fatto che, per lui, resterà sempre un estraneo. Si chiede se n’é valsa la pena. Si chiede se ne vale la pena. Ha la sensazione di aver fatto tutto inutilmente, di non avere più nulla tra le mani, di essersi spezzato la schiena per una campo che ben presto verrà abbandonato e lasciato essiccare. «Julian?!» esclama di nuovo Darla. Si porta la mano al volto e si sfrega gli occhi con l’indice e il pollice. Poi scende con lo sguardo al foglio dell’American Airlines. Individua subito il posto di Alice Duvall e, poco distanti, quelli dei fratelli Stolnhouse. Subito dietro ad Alice, un passeggero dal nome 210 tanto familiare quanto evanescente. Julian si sforza di ricordare, ma la sensazione di smarrimento che lo attanaglia non gli permette di concentrarsi. Lo sguardo prosegue lentamente fino alla coda dell’aereo, fino all’ultimo posto, vicino alla toilette e alla cucina. «Hai visto chi c’era?» Julian solleva gli occhi dal foglio. «Cosa pensi, Darla?» «Sono esterrefatta!» Julian si volta verso Dan e gli fa cenno di avvicinarsi. «Tu lo sapevi?» gli chiede mostrandogli il foglio. Ranucci dà un’occhiata veloce e poco dopo individua il nocciolo della questione. «Peter May.» sussurra. «Non siete rientrati insieme, dopo la perquisizione alla casa di Sullivan?» Dan si guarda le scarpe impolverate poi solleva il capo riparandosi dal sole con la mano. «Peter è rientrato in treno. Mi ha detto che aveva bisogno di riflettere sul caso e voleva stare da solo. Non so perché figuri sul quel volo.» Julian si volta verso Darla. «Hai provato a chiamarlo?» «Non risponde.» Julian compone il numero e resta in attesa per circa un minuto. «Maledizione!» esclama alla fine. «Julian, pensi che possa essere coinvolto negli omicidi?» 211 L’espressione di Darla ha qualcosa di catastrofico: i lineamenti del viso appaiono irregolari, scomposti, come se avessero subito i colpi ripetuti di un vignettista crudele. Il verde acceso degli occhi ha lasciato il posto ad una tonalità meno viva che si avvicina mestamente al fango. Il prendere coscienza di non conoscere minimamente chi ha lavorato al proprio fianco per anni, la fa naufragare in una pozza di incertezze e paure. Il dubbio di non aver riconosciuto i tratti di una mente criminale che ordiva piani sotto i propri occhi fa svanire la sicurezza con cui ha sempre affrontato ogni caso. Julian continua a osservare il foglio che insignisce Peter May come il candidato più probabile degli assassini di Denver. «Scusate, ma io non ci credo.» La voce di Julian è arida, come il vento sulle distese di sale della Death Valley. Darla non ha la forza di ribattere. «Non ha senso», interviene Dan. «Perché mai avrebbe dovuto commettere questi omicidi?» «Per farsi giustizia...» sussurra Darla. Julian si volta verso di lei con l’espressione di chi ha appena avuto un’illuminazione. «Esatto! Il nostro uomo vuole farsi giustizia. Ha un conto in sospeso con il mondo, con la giustizia e con me. È qualcuno che si vuole vendicare per un torto subito e del quale mi ritiene responsabile. Ma in che modo Peter potrebbe essere coinvolto? Non è un tipo ambizioso e non credo che abbia mai ambito a diventare capo della squadra. Negli otto anni in cui abbiamo lavorato insieme non c’è mai stato un diverbio; abbiamo sempre agito prendendo le decisioni 212 insieme e non sono mai emersi attriti. Ma proviamo ad analizzare i delitti: che cosa hanno in comune le vittime?» Dan si gratta il piccolo cranio e si allenta il nodo della cravatta. «Direi ben poco. Sicuramente Steve e Zackary Barkley non erano dei cittadini modello, entrambi appassionati di chat erotiche. Sarah Barkley e Alice Duvall mi sembrano invece due vittime innocenti, con un passato tanto breve quanto immacolato. L’omicidio di Margaret Lee non è ancora chiaro se possa essere attribuito a Earl Laski o all’Onnivoro e la suora ritrovata nel giardino di Sullivan collega gli omicidi di Denver a quelli di Denton, ma nulla di più.» «Sbagliato! Se i casi sono collegati, anche le vittime di Sullivan dovrebbero essere messe nel computo degli omicidi: tutte ragazze giovani, come Sarah, Alice e Margareth, e tutte con i capelli rossi, come Alice Duvall e Sarah Barkley. Ma quello che voglio dire, è che l’Onnivoro potrebbe davvero aver agito per un senso di giustizia: se ci pensate bene, ci ha inviato le foto del forno di Remi Sullivan permettendoci di arrivare a lui. Non ha fatto nulla per mascherare la targa del pick-up di Laski in modo che lo potessimo arrestare. Ha eliminato direttamente Zackary Barkley, mentre si stava divertendo alle spalle della moglie, fuori casa. Ho l’impressione che si senta in diritto di intervenire dove le autorità non riescano ad arrivare. Se consideriamo che Alice Duvall e la signora uccisa con lei potrebbero essere state eliminate in quanto testimoni scomodi, allora mancherebbe solo da chiarire perché ha ucciso Sarah Barkley e i fratelli Stolnhouse.» Darla prende fiato prima di intervenire. Non è sicura delle sue 213 intuizioni, non è più sicura di nulla. «Sean Stolnhouse era l’avvocato di Laski, di Sullivan e di molti altri criminali e potrebbe essere stato eliminato dal nostro uomo proprio perché difensore di esseri spregevoli.» Si ferma, poi solleva il capo e fissa Julian negli occhi. «Come fai a escludere Peter con certezza? Se ci pensi bene, non sappiamo nulla del suo passato. Per quanto ne so, potrebbe aver pianificato tutto molto tempo fa, ancor prima che tu entrassi nella squadra.» Dan è indeciso, continua a massaggiarsi il collo e poi interviene. «È già da un po’ di tempo che Peter è cambiato. Non è solo per la storia di Trentassi e per l’omicidio di quel bambino. Negli ultimi mesi è stato spesso assorto nei suoi pensieri, distaccato dalla realtà, facilmente irritabile. Ho provato a chiedergli se ci fossero problemi, ma non ne ha mai voluto parlare.» Julian torna a fissare l’elenco dei passeggeri e quel nome che continua a ronzargli nella testa senza trovare un volto preciso. «Sapete cosa mi ha detto Durac?» Darla solleva appena le spalle. «Circa due anni fa un tizio è stato arrestato per truffa e ha sparso la voce che qualcuno ce l’aveva con me e che me l’avrebbe fatta pagare.» Il nome sul foglio inizia ad avere un suono più familiare. Samuel Jethro. «Avete capito? Non uno stupratore, un pedofilo o un omicida seriale. Un truffatore.» 214 Sul foglio una macchia scura, un acquerello sporco, la sagoma di un volto che si dilata e inizia ad avere contorni più definiti. «Un truffatore che ce l’aveva con me.» La carnagione è scura, gli zigomi alti, le labbra carnose e umide. Appena più in basso, una camicia nera. Julian estrae il suo quaderno di appunti e inizia a sfogliarlo. «Bingo!» esclama dopo pochi secondi. Dan si allunga per osservare meglio. «Sapete chi è questo signore?» chiede indicando il posto dietro a quello di Alice Duvall. Darla legge il nome con un filo di voce. «Samuel Jethro? Non ricordo.» «L’ho interrogato la settimana scorsa a Denton.» Darla rimane con le parole a mezz’aria. Julian sorride. «Samuel Jethro è don Elia!» 215 26. Afferri un minuto, ne perdi altri cento. È il tempo, che lesto si gonfia di tue cellule morte. L’ago viene inserito nella vena brachiale senza che lui possa emettere alcun gemito. Il nastro adesivo gli serra le labbra ermeticamente e l’aria attraversa le narici con un flusso accelerato per la nausea e la paura di morire. Il sangue rifluisce nel tubo di gomma e scende fino alla base di marmo. Attraverso un secondo cateterino, il liquido trasparente penetra nel corpo dell’uomo, dalla vena giugulare. Gli occhi iniziano ad agitarsi come topi di laboratorio in una gabbia rovente, alla ricerca di un posto sicuro. La formaldeide invade il letto circolatorio e trasforma le arterie in rami duri e avvizziti; la pelle del tronco assume un colore pallido, della tonalità dell’ambra, che vira ben presto verso il verde pistacchio. Ancora pochi istanti e gli occhi smettono di danzare all’interno del cranio; le pupille si dilatano e la congiuntiva si riveste di una patina opalescente. Ora il nastro adesivo può essere rimosso: la bocca spalancata, la lingua arida, le gengive dello stesso colore putrido della cute. 216 Se avessi avuto tempo, sarei potuto cambiare. Avrei potuto amare. Mi sono illuso che ci fosse ancora tempo e, quando la signora in nero mi ha trovato con il sangue caldo tra le mani, non ho saputo fare altro che abbozzare un timido sorriso. Julian attende che gli uomini della SWAT forzino le porte della chiesa prima di invadere la navata centrale. L’altare, in fondo all’edificio, è illuminato da un fascio di luce viola che penetra dalle vetrate della facciata posteriore. Il piano di marmo non è libero: quelle che sembrano le spoglie di un uomo giacciono supine sulla pietra fredda. Sul lato sinistro un’asta che sostiene un flacone di vetro vuoto. Darla è la prima a raggiungere il cadavere di don Elia. L’espressione del viso le ricorda la Medusa di Caravaggio: la proiezione del dolore che si estende oltre la morte, in una smorfia di orrore e reale attaccamento alla vita. Il corpo è stato privato di entrambe le mani, tagliate di netto all’altezza dei polsi. Julian la raggiunge poco dopo e si ferma ai piedi dell’altare per osservare meglio quello scempio. Darla si sposta di lato e si china sul volto dell’uomo per annusarne la bocca spalancata. Poi estrae il deflussore della fleboclisi e lo annusa per avere la conferma che si tratti di formaldeide. «Lo hanno imbalsamato mentre era ancora vivo.» Julian si avvicina a piccoli passi, poi scorge qualcosa al di sopra del polso destro. La cute è scollata dalla fascia muscolare e tra i due tessuti è inserito un foglio di carta. L’asso nella manica! 217 Lo estrae con una pinza di metallo, lo solleva e lo avvicina al fascio di luce delle vetrate. «È il biglietto del volo AA 5674, Denton-Denver.» «E lui non è sicuramente l’Onnivoro», aggiunge Darla con una punta di rammarico nella voce. «Le mani tagliate, il biglietto in quella posizione, come se fosse stato l’asso nascosto nella manica di una camicia, ci indicano il movente dell’assassino.» «Sì. Ha tutta l’aria di essere l’esecuzione di un truffatore, un baro, che ha fatto il trucco sbagliato all’uomo sbagliato.» Julian ha il terrore di proseguire il ragionamento: è la quinta persona assassinata del volo che vedeva tra i passeggeri anche Peter May. «O l’ennesima messa in scena per eliminare un altro testimone», aggiunge con un filo di voce. Negli occhi di Darla, la stessa sensazione di smarrimento. Julian torna ad osservare il biglietto. «Questo ce l’ha messo per ricordarci che sa tutto quello che facciamo, che sa anticipare ogni nostra mossa e che non riusciremo mai a prenderlo.» Darla si avvicina a Julian e gli appoggia la mano sulla spalla. «Resta una sola cosa da fare.» Julian annuisce senza voltarsi. «Chiedi un mandato d’arresto per Peter May.» Sarò sempre avanti a te. Sono la corrente che ti spinge indietro, e 218 sarò sempre avanti a te. Sono il gorgo che ti tira a fondo, e sarò sempre avanti a te, avanti a te. Quando penserai d’avermi raggiunto e allungherai la tua mano per afferrarmi la spalla, sentirai toccarti da dietro. Ti volterai, vedrai la tua immagine e allora capirai, capirai perché non puoi prendermi, senza aver fatto prima i conti con i tuoi demoni. Da quando ha avuto gli orecchioni, Earl non è stato più lo stesso. Jamad è cambiato e forse anche io sto cambiando. Sono passati gli anni, nella casa dai mattoni gialli, e sono passati bambini e genitori, mamme e papà con le paste in mano, volti sorridenti che venivano a trovare i loro figli, di domenica in domenica, finché un giorno non se li portavano via. Noi siamo cresciuti insieme, con la speranza di una nuova famiglia e la paura di un nuovo rifiuto. Forse abbiamo sbagliato tutto. Oggi compio dodici anni, e mamma e papà verranno ancora a trovarmi. Domenica scorsa non ho parlato molto e quando mi hanno portato sulla ruota panoramica ho avuto il forte desiderio di gettarmi giù dal punto più alto. Non credo che sarei mancato a qualcuno. Ormai non tollero più nessuno, non sopporto chi si avvicina a meno di mezzo metro da me. Odio l’aria che respiro e odio parlare dell’aria che respiro perché mi fa stare male. Oggi compio dodici anni e il mio tempo è scaduto. Mi chiamo Remi, e se mamma e papà Sullivan decideranno che non vado più bene per loro, verrò trasferito nell’istituto per i ragazzi più grandi. 219 Ecco i miei genitori! Li vedo arrivare dalla finestra, ma non credo che mi porteranno a casa con loro. Ho scelto di indossare la camicia bianca perché mi ricorda la pelle chiara di suor Magdalena. Se mi porteranno in America, non la rivedrò più, ma voglio ricordarla così, coi capelli sciolti mossi dal vento, come quella volta che durante la gita del primo maggio mi ha preso in disparte, mi ha fatto sedere su una pietra bianca, e mi ha detto che ero il suo preferito. Io ho chiuso gli occhi dalla gioia e lei mi ha dato un bacio in fronte. Me la voglio ricordare con gli occhi grandi e la pelle giovane perché, quando la guardo dentro gli occhi, vedo lo stesso colore dei miei e la stessa speranza che le cose possano cambiare. Se i miei genitori mi sceglieranno, forse un giorno tornerò e spero di poter dire a suor Magdalena che sono cambiato, che sono diventato buono, che non ho più fame, che so dire basta, che so che quello che c’è dentro di me non mi può fare del male. E vorrei dirle che sono diventato buono. Prima i padri, poi i figli, poi di nuovo i padri e i figli. Ma sono le madri le custodi del male e te lo possono donare nel modo più innocente, omettendo di offrirti il bene. 220 27. La prima cosa che si nota, entrando in rue de Maupassant, è il grande cancello in ferro battuto, in fondo alla strada. Oltre il cancello, l’imponente edificio di inizio ottocento con mattoni gialli e le persiane verdi alle finestre. Sui lati, due querce secolari e, oltre il tetto, le fronde dei pioppi che salgono sulla collina dietro casa. Il taxi si arresta davanti all’entrata. Darla è la prima a scendere dall’auto seguita, dopo pochi istanti, da Julian. «Il coroner ha confermato che la donna uccisa insieme ad Alice Duvall era Elisabetta Caruso. Sembra che lavorasse a Denton come chiromante. Questo spiegherebbe la carta dell’Angelo in bocca e la benda viola sugli occhi.» Julian solleva lo sguardo per comprendere meglio le dimensioni della tenuta che ha di fronte. «Immagino che non si sappia nulla di Peter?», chiede avvicinandosi al cancello. Darla lo raggiunge senza rispondere. Si avvicina alla targa in bronzo che riporta il nome della congregazione religiosa. 221 Le Sorelle di Maria Vergine «Ma Nostra Signora non era figlia unica?», butta lì con poca convinzione. Julian si volta senza sorridere. Poi si china su di lei e la bacia sulla guancia. «Grazie per avermi accompagnato.» Darla si sofferma a guardarlo per un tempo indefinito, scorgendo una fragilità che non aveva mai notato prima. Il grande Julian Smoke, il fiore all’occhiello di Quantico, il prototipo dell’eroe moderno: colpito e affondato, nella vita privata e professionale. Solleva la mano e gli accarezza una guancia. «Vedrai, andrà tutto bene.» Un vecchio con grandi stivali di gomma e un cappello di paglia viene loro incontro zoppicando. «Bonjour, vous êtes madame et monsieur Smoke?» chiede con un sorriso sincero. Senza attendere risposta, apre il cancello d’ingresso e li invita ad entrare. «Bienvenue à Marseille, Sœur Marie vous attend.» aggiunge incamminandosi verso il portone. L’atrio della casa è ampio e fresco. Alle pareti due arazzi raffiguranti scene di caccia e al soffitto un lampadario in ferro battuto. Julian e Darla seguono il vecchio lungo la scala di marmo fino al primo piano, poi lungo un corridoio dalle pareti alte e strette. Si arresta davanti a una porta su cui è affissa un’effige della madonna nera di Guadalupe. Bussa due colpi. «Vous pouvez entrer.» si ode dall’interno. Il vecchio li introduce nell’ufficio di suor Marie, la Madre 222 Superiora dell’Ordine. «Merci Maurice», li accoglie alzandosi da dietro la scrivania. «Buongiorno, sono suor Marie. Avete fatto buon viaggio?» Non avrà più di sessantacinque anni, ma la pelle del viso e delle mani è eccessivamente raggrinzita e scura. Il volto è scarno e ricoperto da una leggera peluria, appena sopra il labbro superiore. Il vestito azzurro presenta una linea rossa verticale che parte dalla spalla destra e scende fino all’orlo inferiore; in vita, una cinta bianca. Julian e Darla le stringono la mano e si siedono di fronte alla scrivania. «Al telefono mi avete detto che ci sono notizie di Suor Odette. Come sta? Siamo tutti molto preoccupati.» Darla si volta verso Julian, poi torna a guardare suor Marie. «Parla bene la nostra lingua» osserva. «Per molti anni questo istituto si è occupato di adozioni internazionali, soprattutto dall’Inghilterra, Canada e Stati Uniti.» «Non abbiamo visto bambini in giardino. E nella casa c’è un silenzio quasi innaturale.» aggiunge Darla. «L’ultimo ragazzo è stato adottato dieci anni fa. Siamo rimasti in poche persone e tutte un po’ malconce.» Sorride. «Purtroppo c’è crisi di vocazioni.» Julian fa un cenno quasi impercettibile a Darla. Lei lo nota con la coda dell’occhio e prosegue. «Suor Marie, io e l’agente Smoke stiamo indagando su una serie di omicidi a Denver. Abbiamo ragione di pensare che uno dei sospettati possa essere stato un vostro ospite, in passato.» 223 Suor Marie rimane impassibile, sostenendo lo sguardo di Darla e il lungo silenzio che segue. Julian estrae una foto e la pone sul tavolo. «Pensiamo che tra le vittime possa esserci anche suor Odette.» Suor Marie prende in mano la foto che raffigura suor Odette davanti alla siepe del giardino. I piccoli occhi di cenere si gonfiano quel tanto da modificare completamente l’espressione dura del volto: il viso di una bambina al funerale della madre. «L’ha trovata...» sospira. «Come ha detto?» chiede Darla allungandosi verso di lei. Suor Marie si sfrega gli occhi con la mano, scuote la testa e infine prende il fazzoletto di stoffa dalla manica del vestito. «No, scusate. Dicevo, l’avete trovata.» Julian la fissa senza intervenire. Nonostante gli avvenimenti degli ultimi giorni, continua a leggere il linguaggio del corpo con estrema naturalezza. È qualcosa di involontario, istintivo, e che gli permette di cogliere ogni indizio, traccia, informazione. Suor Marie si tocca la punta del naso e poi la spalla destra, per un prurito insistente. Le pupille arrossate tornano, infine, ai suoi ospiti d’oltreoceano, ma senza mai fissarli direttamente negli occhi. «Dove l’avete trovata?» «Purtroppo c’è un’indagine in corso e non possiamo fornirle queste informazioni.» Darla si volta verso Julian, poi prosegue. «Sappiamo che suor Magdalena è rientrata in Francia. Come sta?» «Non bene.» risponde tornando a guardare la foto. «Era molto giovane. Sapete...» aggiunge aprendosi in un sorriso malinconico, 224 «...questa foto l’ho scattata io. Era il giorno in cui suor Odette prendeva i voti perenni.» Julian si alza in piedi, seguito dallo sguardo di Darla e e di suor Marie. È attratto da un’altra fotografia, alla parete dello studio. Circa trentina bambini, di età compresa tra i quattro e i dieci anni, accalcati insieme per rientrare nel campo dell’obiettivo. Ai lati del gruppo, tre suore e un uomo in abito scuro. Dai vestiti e dalla qualità della foto, ha l’impressione che si tratti di una foto di fine anni settanta. Julian scorre lo sguardo dei ragazzi, fino a incrociare quello più timido, dietro a spesse lenti da miope. Earl Laski. «Chi è quest’uomo?» chiede senza voltarsi. Suor Marie si allunga per vedere meglio. «È il signor Millerau. È stato il direttore del nostro istituto per quasi quarant’anni. È andato in pensione dopo che l’ultimo ragazzo è stato adottato. Ormai siamo rimasti in pochi all’interno dell’istituto: io, Maurice il giardiniere, suor Magdalena e due consorelle che hanno deciso di proseguire la loro vita religiosa in totale clausura.» Dalla finestra, i raggi del sole attraversano i rami della quercia creando un gioco di luci che attrae l’attenzione di Darla. «Le dispiace se continuiamo a parlare in giardino? È una così bella giornata.» Dietro la casa di mattoni gialli, il giardino si estende per oltre duecento metri su per una collina dalla pendenza lieve. Il campo è delimitato da due file di pioppi, mentre all’interno sono presenti numerose piante da frutto. Suor Marie s’incammina lentamente verso 225 la cima, fermandosi poi all’ombra di un vecchio castagno. «Mi sembra di sentire ancora le voci dei bambini che giocano nel prato.» Si appoggia al tronco per riprendere fiato. «Sotto quest’albero si ritrovavano i ragazzi più grandi a giocare a ruba bandiera e a guardie e ladri. Là infondo, invece, i più piccoli si scambiavano le figurine e disegnavano con i colori a pastello.» Inspira e poi guarda l’orologio. Darla si avvicina al tronco. Ci sono numerose incisioni, lettere e brevi frasi in francese. Poi, quella che sembra essere una firma, sotto una serie di croci. Jamad. Fa un cenno impercettibile a Julian e poi prosegue. «Suor Marie, avete avuto dei problemi con qualche ragazzo?» La suora batte il palmo della mano sul vestito, come a rimuovere residui di una polvere immaginaria. Poi solleva il capo. Negli occhi una tristezza lontana, la fatica di chi ha lottato allo stremo per migliorare il futuro di persone emarginate, senza avere la certezza di essere riuscita davvero a cambiare le cose. «Il nostro istituto ha raccolto ragazze giovanissime dalla strada e ha cercato di trovare una famiglia per i loro figli. Alcune di esse sono riuscite a voltare pagine e a cambiare vita. Suor Odette, per esempio, ha trovato la fede e ha preso i voti. Ma per altre persone non è stato facile. Il nostro programma di adozioni prevedeva che i bambini rimanessero qui per un periodo inferiore ai due anni, per evitare che si istituzionalizzassero. Purtroppo, in alcuni casi, non è stato così.» Julian si sposta di lato e, passando dietro a Darla, le sfiora la spalla 226 invitandola a continuare. Poi si incammina verso una pianta di amarene, poco distante. «E Jamad, rientra in uno di questi casi?» chiede Darla con voce calma. Suor Marie è colta da un brivido improvviso. Si stringe le mani al ventre e poi si volta verso il castagno. «Come fate a conoscerlo?» Darla si avvicina di qualche passo. «Ce ne ha parlato Earl Laski. Erano molto legati.» «Ha incontrato Earl?!» esclama voltandosi col volto raggiante. «Come sta?!» «Credo che abbia avuto una vita difficile, anche dopo che è stato adottato. È stato arrestato a Denver per sequestro di persona. Ma ci ha parlato di un certo Jamad. Che cosa ci può dire?» In viso, di nuovo quell’alone di incertezza. «Povero Earl, mi dispiace.» Si appoggia con la schiena al tronco e si lascia scivolare sull’erba. «È sempre stato così fragile. Abbiamo cercato di difenderlo e di farlo adottare al più presto, ma sono passati gli anni, ed è rimasto qui con Jamad.» Fa una breve pausa. Con la mente torna indietro nel tempo, a quando aveva preso i voti da poco ed è venuto alla luce Jamad. «La sua storia è diversa. Jamad è nato all’interno dell’istituto.» Ha un’incertezza e non sa se continuare. Darla si siede accanto a lei. «È importante che ci racconti tutto quello che sa. Se non lo fermiamo al più presto, potrebbe fare del male a molte persone.» 227 Il volto scuro di suor Marie è deformato dal dolore. Inizia a singhiozzare, coprendosi gli occhi con le mani. «Non avremmo dovuto lasciarlo andare.» Darla le appoggia una mano sulla spalla e infine l’abbraccia. «Suor Odette non era incinta, quando è stata raccolta dalla strada all’età di quindici anni. Dopo due anni che stava da noi, ha dato alla luce Jamad, ma non ci ha mai voluto dire chi fosse il padre.» Darla le porge un fazzoletto di carta. «Pensa che possa essere stato qualcuno che lavorava all’interno dell’istituto?» Suor Marie continua a piangere e a disperarsi. «Era solo una bambina!» Al suono della campanella, Charlotte si alza dalla cattedra e segue divertita gli alunni correre fuori dall’aula. Il movimento che segue è istintivo, involontario, e la proietta in avanti nel tempo, di sei o sette anni, quando suo figlio inizierà la scuola elementare: la mano scivola sul ventre ancora piatto, alla ricerca della vita che contiene all’interno. «Signora Smoke?» Charlotte ha un sussulto e poi si volta e sorride al nuovo bidello della scuola. «Mi dica?» L’uomo la guarda senza riuscire a mantenere il capo diritto. È intimorito dai lineamenti fini del suo volto, dal rosso vivace dei suoi capelli che cadono morbidi sul golfino in cashmere. Nel Montana le donne hanno tutte le ossa grosse, le spalle larghe e vestono con 228 pantaloni di lana o gonne di fustagno. La signora Smoke è diversa e gli ricorda la mamma di una pubblicità di cereali che ha visto su una rivista. E con la quale si è masturbato numerose volte. «È arrivata questa per lei.» Charlotte prende la busta gialla e guarda l’indirizzo del mittente. È una casella postale di Orlando. Maledizione Julian, quando finirà questo incubo! Poi la scuote, e sente che c’è qualcosa di rigido all’interno. La tentazione di scoprirne il contenuto è forte; analizza l’esterno per vedere che non ci siano tracce di liquidi organici e poi si decide ad aprirla. Due biglietti omaggio per lo spettacolo di sabato sera. Sul retro dei biglietti, una pubblicità di cereali. «Ma che bello!» Poi, voltandosi verso il bidello, «Grazie, mi ha portato fortuna.» 229 28. Ora ricordo. È il primo giorno di maggio ed è il primo giorno di sole dopo tre settimane. Io ed Earl siamo i primi ad uscire per la ricreazione. Ho tutte le ossa indolenzite per il lungo periodo in cui siamo rimasti in casa, senza mai uscire a giocare. Sappiamo che la cagnetta di Maurice dovrebbe aver partorito in questi giorni e sappiamo dove può essere andata. Io corro più veloce di Earl e raggiungo il capanno degli attrezzi. Sento guaire all’interno, ma la porta non si apre. Maurice deve aver deciso di chiuderli dentro per paura che potessero scappare, spaventati dai tuoni. Giro attorno alla rimessa e quando raggiungo il lato posteriore scopro di non essere stato il primo. Jamad è salito sopra a un bidone di lamiera e si allunga per vedere oltre la piccola finestra del capanno. Quando mi vede, mi lancia un’occhiataccia e mi fa segno di stare zitto. Io mi arresto di colpo e faccio lo stesso gesto a Earl che sta arrivando. Lo raggiungo e mi azzardo a tirargli l’orlo dei pantaloni. Lui mi scosta con un calcio che per fortuna mi sfiora solo l’orecchio. Mi guarda e si mette a ridere. «Vieni a vedere», e mi fa segno di salire. 230 All’inizio ho un po’ di paura e penso che mi voglia spingere giù dal bidone. Ma il desiderio di vedere quei cuccioli è più grande e salgo in piedi. Il vetro è tutto sporco e non riesco a vedere quasi nulla. Poi Jamad mi dice di guardare proprio sotto la finestra. Mi alzo in punta di piedi e vedo muoversi qualcosa, qualcosa che mi ricorda la coda di un cavallo. A un certo punto la coda si muove in avanti e mi accorgo che sono dei lunghi capelli rossi, attaccati alla testa di una ragazza che viene spinta avanti e indietro da un uomo calvo. «Hai visto chi è?» Guardo meglio e nello spingermi in avanti sbatto la testa contro il vetro. Lui si gira di scatto nella nostra direzione e io dallo spavento cado all’indietro. «Corri, che ci ha visto! Corri!» Vedo Jamad scappare verso la collina. Io provo ad alzarmi e a seguirlo, ma zoppico perché ho preso una brutta storta alla caviglia. Dico a Earl di venire con me e ci nascondiamo dietro al vecchio aratro di Maurice, poco distante dal capanno. Aspettiamo un po’ per vedere se esce qualcuno, ma non esce nessuno e dopo circa venti minuti torniamo in classe. Jamad non è più rientrato. Guardo il suo banco vuoto e penso che l’uomo pelato lo ha trovato sulla collina e lo sta tagliando a fettine. Mi chiedo se mancherà a qualcuno. Mi volto verso Earl e penso che a lui non mancherà di sicuro, dopo lo scherzo del dito. Glielo ha tagliato di netto con l’accetta. In pronto soccorso volevano riattaccarglielo, ma nessuno lo ha più trovato. Secondo me Jamad se lo è tenuto come trofeo, perché aveva vinto la scommessa. 231 A mezzogiorno entra in classe Maurice, con il suo cappello di paglia in testa. Non l’ho mai visto senza e non so nemmeno se sotto ha i capelli oppure no. Nelle mani ha qualcosa di molto piccolo che si muove lentamente e guaisce. Ci avviciniamo per vedere meglio. Maurice dice che è l’unico cucciolo della sua cagnetta che è sopravvissuto. Ci spiega che nel mondo animale funziona così, che non c’è posto per tutti, e che il più forte sopravvive per continuare la specie. Secondo me è così anche nel regno degli uomini. È solo un piccolo batuffolo di pelo marrone, con gli occhi ancora chiusi e senza neanche un dente. A pensare che è il più forte dell’intera cucciolata mi viene da ridere e mi fa sperare che anch’io forse potrò sopravvivere. Maurice non gli ha ancora dato un nome e ci chiede se vogliamo sceglierlo noi. Gridiamo in coro di sì, ma poi ciascuno ha in mente un nome diverso e non riusciamo a metterci d’accordo. Alla fine decidiamo di fare una votazione e il nome che ho scelto io viene votato dalla maggioranza. Primo Maggio. Mi sembra un bel nome, visto che è nato questa mattina. Darla aggiunge un’altra zolletta di zucchero al tè. «Suor Marie, sarebbe possibile avere il nome dei genitori che hanno adottato Jamad?» Suor Marie non risponde subito. Con lo sguardo segue il movimento del braccio di Julian che solleva la tazzina di caffè e se la porta alla bocca. «Lei non parla molto, signor Smoke.» 232 Julian beve un sorso poi torna ad appoggiare la tazzina sul tavolino. «Darla è più brava a parlare con la gente. Diciamo che riesce a capire lo stato d’animo delle persone e a fare le domande nel modo corretto. È una qualità preziosa nel nostro mestiere.» Suor Marie lo ascolta attentamente. «Mi interessa sapere cosa pensa di tutta questa storia. Non voglio conoscere i dettagli delle vostre indagini, ma vorrei capire se quello che sto per fare avrà delle conseguenze negative o positive. Quando un bambino viene adottato, noi stringiamo un patto di segretezza con i genitori adottivi. Ma non è solo questo. Nello statuto del nostro ordine è stato inserito il patto di segretezza e quando prendiamo i voti perpetui, promettiamo di mantenere questo segreto. È un’ulteriore forma di tutela nei confronti dei bambini, che spesso vengono da situazioni molto difficili.» Il tempo sta cambiando e dal mare si alza il maestrale che fa sbattere la finestra. Suor Marie chiude i vetri, mentre Julian finisce di bere il caffè e si schiarisce la voce. «Suor Marie, l’assassino su cui stiamo indagando ha ucciso nove persone e non ha intenzione di fermarsi. Molti indizi ci fanno pensare che si tratti di Jamad, ma non ne siamo certi.» Fa una breve pausa, come se volesse dare il tempo a suor Marie di assimilare queste informazioni. «Come le ha detto la dottoressa Hemingway, abbiamo incontrato Earl Laski che ci ha parlato di Jamad. Quello che non le ha detto, però, è che il corpo di suor Odette è stato ritrovato nel giardino di un altro uomo, che crediamo possa aver vissuto qui, nel vostro istituto, i 233 primi anni della sua vita.» Guarda per un istante Darla, poi prosegue. «Il suo nome è Remi Sullivan.» L’espressione di suor Marie ricorda una lapide bianca senza nome. La carnagione scura ha lasciato il posto a un fine strato di gesso e le rughe sembrano svanire sotto la tensione del viso. Julian sa che il momento è drammatico, ma decide di proseguire senza indugi. «Sullivan è morto. Riteniamo che sia responsabile di numerosi omicidi in Texas. Ora, conoscere l’identità dei genitori adottivi di Jamad, ci permetterebbe di dimostrare la sua innocenza o colpevolezza.» Si interrompe, senza distogliere lo sguardo dagli occhi colmi di dolore di suor Marie. Darla si avvicina col busto alla suora, per entrare in maggior empatia. «Pensiamo che Jamad abbia un conto in sospeso con l’agente Smoke e conoscere il suo passato ci permetterebbe di fermarlo. Suor Marie, dovrebbe sapere di cosa è capace. Non è così?» Ora, di fronte a loro, solo il fantasma della madre superiore. «Che cosa abbiamo fatto? Che Dio ci perdoni.», sussurra. Inspira ed espira più volte, come se volesse eliminare il dolore e il senso di colpa che le attanaglia la gola. Darla è preoccupata e teme che continuare potrebbe mettere a rischio la sua salute. «Si sente bene?» La dimensione in cui si trova suor Marie è più simile al sogno che alla realtà. Le figure che le passano davanti hanno contorni sfumati e l’eco dei suoni è ovattato. Poi un fermo immagine, la mano di Earl che 234 zampilla sangue dal punto in cui il pollice è stato tagliato. Al suo fianco Jamad, o il demonio che se n’è impossessato. «Suor Marie!» Darla le porge un bicchiere d’acqua. «Va tutto bene?» Gli occhi di vetro si rianimano. Si volta versa di lei e poi scuote la testa come se volesse liberarsi di un peso che l’ha oppressa per trent’anni. «È vero, so di che cosa è capace. Forse non avremmo dovuto lasciarlo andare, ma come si poteva fare?» Si alza con fatica e raggiunge il quadro della trinità, dietro la scrivania. Lo rimuove dalla parete, digita alcuni numeri sulla tastiera ed infine estrae dalla cassaforte un piccolo registro rivestito in cuoio nero. Si siede alla scrivania, apre la pagina all’anno 1979, e inizia a scorrere l’elenco dei nomi, dall’alto al basso. Eccolo! Individua il nome di Jamad e, nella colonna a fianco, quello dei genitori adottivi. Li trascrive su un foglio di carta che consegna a Julian. «Spero che possa salvare la vita a Jamad e alle sue prossime vittime». Julian apre il foglio, legge i due nomi e ha l’impressione che la storia inizi ad assumere contorni più definiti. Jamad mi ha detto che l’uomo nel capanno era il direttore, il signor Millerau. E mi ha detto che si stava sbattendo una poco di buono. In 235 realtà lui ha detto un puttana, ma suor Magdalena non vuole che diciamo le parolacce. L’unica volta che mi ha sgridato è stato quando mi ha sentito che dicevo a Earl: «Ti sbrighi, cazzo!» Dice che le parolacce sporcano le persone che le ascoltato, ma soprattutto le persone che le dicono. Comunque, anche se adesso non dico più parolacce, da quando ho visto il signor Millerau chiavare quella poco di buono, non faccio altro che sentirmi sporco. E sento sempre caldo, sia di giorno, che di notte e ho sempre davanti agli occhi l’immagine dei suoi capelli rossi che si muovono e si agitano come le fiamme di un forno. L’ho detto a don Pietro, una volta che mi sono confessato, ma lui mi ha risposto di non dire delle stupidaggini. Ho deciso di non parlarne più con nessuno e di cercare di dimenticare tutto, ma tutte le volte che incontro Jamad, mi sorride e fa avanti e indietro col bacino, imitando il signor Millerau. Charlotte sta preparando un’insalata con le noci. Alla mattina, ha sempre un po’ di nausea e dei crampi che durano pochi minuti, poi passano. La dottoressa le ha detto che non c’è da preoccuparsi e che può continuare a insegnare, ma non deve rimanere molto tempo in piedi. Ultimamente, ha sempre voglia di noci: le mangerebbe con qualsiasi cosa e a tutte le ore. La scorsa notte si è alzata e si è preparate un panino con formaggio, prosciutto e arachidi (si era accorta tardi di averle finite). Dopo un’ora ha vomitato tutto, poi è stata meglio. Prende i pomodorini, li affetta fini e li aggiunge all’insalata. Si asciuga le mani e risponde al telefono. 236 «Ciao, come stai? Ti avevo cercato per sapere cosa facevi sabato sera.» Pausa. «Oh, che peccato. Avevo due biglietti omaggio per il cinema. No, Marc è fuori città e volevo andarci con te. Beh, se ti liberi dimmi qualcosa. A presto.» Resta a guardare fuori dalla finestra con la cornetta appoggiata al mento. L’annaffiatoio si è messo in funzione e le gocce d’acqua disperse nell’aria creano un piccolo arcobaleno colorato che si proietta oltre la siepe. È in quel momento che lo vede. È solo un attimo perché, appena si accorge che lei lo sta guardando, si abbassa e scompare dietro la barriera verde di lauro. «Ma che fa qui?», si chiede uscendo dalla porta della cucina. Raggiunge il cancello e butta l’occhio oltre la siepe per vedere se c’è ancora, ma la strada è deserta. Charlotte torna in casa e, dopo un attimo di esitazione, decide di chiudere le finestre e la porta con il chiavistello. «Stai calma. Devi stare calma.», si ripete portandosi la mano al ventre. «Adesso passa tutto.» 29. 237 Julian è nella sala conferenze della stazione di polizia. Sul tavolo, il foglio che gli ha consegnato suor Marie, a Marsiglia. Dan si avvicina e legge i nomi ad alta voce. «Daniel Torquoise e Melissa Del Cigno. E chi sarebbero?» Darla lo affianca e solleva il foglio. «Sono i genitori adottivi di Jamad. Tuttavia, non è stato trovato nessun Jamad Torquoise o Jamad Del Cigno nel nostro database, né in quello dell’Interpol. Ma la cosa più sconvolgente», aggiunge tirando fuori un secondo foglio, «è che uno di questi due nomi risulta anche in questo elenco.» Appoggia il foglio sul tavolo. L’elenco riporta le centosessantatre persone che sono state arrestate da Julian negli ultimi quindici anni. In rosso è evidenziato il nome di Melissa Del Cigno. Dan si rivolge a Julian. «Ecco spiegato il movente! Per cosa l’avevi arrestata?» Julian resta in piedi accanto alla finestra. «Melissa del Cigno è stata arrestata per l’omicidio del marito; lo ha accoltellato ventisette volte e alla fine gli ha tagliato i genitali e li ha seppelliti in giardino. Il motivo di tale gesto è stata la scoperta della relazione tra il padre e la figliastra. Melissa Del Cigno è morta tre anni 238 fa in carcere e forse questo spiegherebbe l’ira di Jamad nei miei confronti. L’omicidio è avvenuto molti anni fa, quando ancora non lavoravo per l’FBI.» Silenzio. «Ok.» Julian riprende il discorso. «Non è tutto. Abbiamo controllato l’identità della figlia di Melissa Del Cigno e abbiamo scoperto una cosa molto interessante. Non era la figlia di un suo precedente matrimonio, come avevamo pensato all’inizio, ma è stata adottata anche lei.» «Cazzo.» Dan alza la mano in segno di scuse. «Quindi i Torquoise hanno adottato sia Jamad, sia la figlia?» «Esatto. E sapete come si chiama?» Dan solleva le spalle. «Susanna Torquoise. Oggi conosciuta anche come Susanna Torquoise Barkley!» «No?! La madre di Sarah Barkley è la sorella adottiva di Jamad?!» Dan è perplesso. «Un momento. Ma quando abbiamo controllato l’identità di Susanna Barkley, dopo l’omicidio del marito e della figlia, non è emerso nulla riguardo la morte dei suoi genitori.» Darla interviene. «Probabilmente qualcuno ha cancellato il suo fascicolo dai nostri database. I sospetti ricadono su qualcuno che lavora o ha lavorato nella FBI o in polizia. O comunque che ha la possibilità di accedere a queste informazioni.» Si guarda intorno e poi prosegue. «Non si è più 239 saputo niente di Peter?» Dan scuote la testa. «Abbiamo controllato gli aeroporti e le stazioni ferroviarie e non sembra che abbia lasciato il paese. La sua abitazione a Orlando è sotto controllo, ma ci hanno detto, stasera, che non si è fatto vivo.» Julian osserva lo sguardo teso dei suoi colleghi. «Mentre eravamo in viaggio da Marsiglia, ho contattato O’Malley e gli ho chiesto di portare Susanna Barkley in centrale. Purtroppo, anche lei non era in casa. Abbiamo emesso un mandato di comparizione e inviato la foto segnaletica a tutte le stazioni di polizia, agli aeroporti, alle stazioni ferroviarie e a quelle dei bus.» Fa una breve pausa, poi chiede a Darla di proseguire. «Ormai il cerchio si sta chiudendo, anche se rimangono alcuni punti da chiarire. L’assassino che stiamo cercando, tale Jamad, ha passato molti anni in un orfanotrofio a Marsiglia. Pare che la madre di Jamad fosse una ragazza giovanissima raccolta dalla strada. All’interno dell’istituto potrebbe aver subito degli abusi ed essere rimasta incinta di Jamad. Successivamente, si è fatta suora e a noi è nota come suor Odette. All’età di dodici anni, il ragazzo è stato adottato da una coppia americana che aveva già adottato una bambina di nome Susanna. Immaginiamo che Jamad abbia continuato ad essere un ragazzo difficile anche dopo l’adozione e che si sia allontanato precocemente dalla famiglia adottiva, forse cambiando nome. È anche possibile che abbia mantenuto un legame forte con la madre adottiva e che, dopo il suo arresto e la sua morte, abbia iniziato a nutrire odio nei confronti di chi l’aveva mandata in carcere. Jamad potrebbe aver 240 ucciso il marito e la figlia della sorella adottiva, cioè Sara e Steve Barkley, per vendicarsi del fatto che la sorella, Susanna, aveva avuto una relazione col padre adottivo e che aveva, di fatto, scatenato la furia omicida della madre. Da qui in poi ha continuato a uccidere, probabilmente riallacciando contatti con i due compagni di infanzia, Earl Laski e Remi Sullivan.» Dan si accarezza la nuca, poi butta fuori uno dei tanti dubbi che gli arrovellano il cervello. «Scusami Darla, ma non riesco a capire perché abbia dovuto uccidere Sean e Tom Stolnhouse.» «Questo non è ancora del tutto chiaro e forse lo sarà quando scopriremo la nuova identità di Jamad. Quello che è certo è che sia Earl Laski, sia Susanna Barkley conoscono l’Onnivoro. Dobbiamo fare in fretta, perché sicuramente Jamad sa che gli siamo vicini e non penso che uno così abbia voglia di finire sulla sedia elettrica. Credo che sappia di essere alle battute finali e immagino che vorrà uscire di scena in modo teatrale. Per cui dobbiamo ottenere tutte le informazioni possibili dai nostri due testimoni.» Julian riprende la parola. «Per stasera è tutto. Darla ed io abbiamo fatto un lungo viaggio ed è meglio riposarci alcune ore. Domani sarà una giornata intensa e vi voglio tutti lucidi e freschi.» Julian si avvicina a Dan e lo prende sottobraccio. Il tono è basso, discreto. «Che cosa è emerso dall’autopsia di don Elia?» «La causa del decesso è stato l’arresto cardiaco indotto dalla 241 formaldeide. Il corpo era già imbalsamato quando il coroner ha iniziato a sezionarlo. Per il resto, non sono state riscontrate impronte digitali, né altri elementi significativi.» «Io e Darla crediamo che non abbia mai preso quel volo e che l’assassino abbia usato la sua identità per fare il biglietto e salire a bordo. Se riuscissimo a dimostrare questo, potremmo anche scagionare Peter. Domattina mettiti in contatto con la segretaria di don Elia e cerca di scoprire se ha preso davvero quel volo o era da qualche altra parte.» La sera prima di partire, Jamad mi ha detto una cosa. E credo che l’abbia fatto per darmi un dolore, perché sa che anch’io verrò adottato e che prima o poi dovrò lasciare l’istituto. Mi ha detto che suor Magdalena è mia madre e che siamo stati raccattati per strada, pochi giorni dopo la mia nascita. Ha sentito il signor Millerau che lo diceva a qualcuno, nel suo studio. Jamad era stato richiamato per una delle sue diavolerie, ma poi si era scocciato di aspettare e se n’era andato. All’inizio non ci volevo credere, perché significava che anche mio padre era un puttaniere o uno stupratore, come il papà di tutti i bambini dell’istituto. Mi piaceva pensare che fosse qualcuno di importante e che fosse troppo impegnato a salvare il mondo per occuparsi di me. Immaginavo di incontrarlo, un giorno, magari all’uscita di scuola, in uno di quei giorni in cui pensi che non ti possa capitare nulla di buono. Sarei uscito con lo zaino in spalla e l’avrei riconosciuto subito. Ora invece ci credo. Suor Magdalena ha gli occhi grandi e 242 luminosi, ma se li guardo a lungo vedo qualcosa che non vorrei vedere, una tristezza profonda che cerca di mascherare con il sorriso. Forse non è la vita che avrebbe voluto vivere. La luci della camera sono spente e l’uomo si muove all’interno orientandosi con una piccola torcia elettrica. Si avvicina alla finestra e scosta le tende quel tanto da permettergli di tenere d’occhio la strada e l’ingresso del cinema. L’attesa si prolunga più del previsto e proprio quando sta per perdere la speranza, ecco che un taxi si ferma sotto la finestra del suo albergo. La prima cosa che vede uscire sono le gambe esili, seguite dal vestito blu che fascia la vita stretta e il seno quasi piatto. La donna compie alcuni passi sul marciapiede e poi entra nello stabile. L’attesa lo eccita e la consapevolezza che da lì a poco le stringerà i fianchi gli procura un lieve giramento di testa. La frequenza cardiaca aumenta e il respiro si fa più caldo, affannato. Si sposta verso la porta d’ingresso e dà un ultimo sguardo alla stanza. Tutto è pronto. La tessera magnetica fa scattare la serratura e la porta si apre lasciando penetrare un fascio di luce gialla all’interno della camera. La donna lancia le scarpe nell’atrio e si dirige verso il bagno, senza attendere che le luci della stanza si accendano. Una mano le afferra la vita e una seconda il collo magro e fragile. L’urlo è subito smorzato dal palmo che sale alle labbra e le preme la testa all’indietro. Le luci si accendono e la donna può osservare com’é stata preparata la camera: il letto è coperto di rose e, sul tavolino 243 dell’anticamera, un secchiello con una bottiglia di champagne. «Ti voglio», le sussurra all’orecchio. Lei tenta di divincolarsi e di allontanarsi, ma lui la tiene stretta a sé, impedendole qualsiasi movimento. Il suo corpo la sovrasta. «So che anche tu mi vuoi.» La spinge in avanti di un passo e i due corpi si avvicinano al secchiello dello champagne. Lei continua a fissare il cassetto del tavolino dove tiene lo spray anti-aggressione e cerca di assecondare i suoi movimenti in quella direzione. Si avvicinano ancora di un passo. «È da tanto che volevo passare un po’ di tempo con te.» Nella voce qualcosa di familiare, ma anche un timbro ovattato, come se fosse camuffato da un passamontagna o da una bandana. Mantieni la calma e ne uscirai viva. Resta lucida e non ti succederà nulla di male. Cerca di ricordare le raccomandazioni di Julian, quei consigli che le aveva ripetuto tante volte e che le aveva detto che le avrebbero potuto salvare la vita. Poi il suono del suo cellulare che fende l’aria della stanza come la lama affilata del suo salvatore. Lui molla la presa alla vita e afferra il cellulare per vedere chi la sta cercando. «Pensa sempre a te», le dice sorridendo. Le mostra il display illuminato. Julian. «Vuoi che risponda?» Ora è più libera, ma non è ancora il momento di agire. 244 L’uomo preme il tasto di risposta e resta in attesa. Sente la voce di Julian che la chiama, ma invece che infonderle coraggio, la getta nel panico. Piange. «Dove sei? Dimmi dove sei?!» Silenzio e lacrime. Poi la voce dell’uomo. «Sei pronto a pagare i tuoi debiti?» «Se le torci un capello...» Fine della comunicazione. Arriverà presto? Forse. «È un peccato che ci abbia rovinato la serata. Il posto dove ti porterò sarà meno confortevole.» Lei chiude gli occhi e si lascia guidare, senza opporre resistenza. È un tronco che galleggia sulle rapide, segue la corrente. Sa che non può fare altro, non può arrestare un fiume in piena. Sa di cosa è capace e sa che, dopo, le toglierà la vita. Almeno un figlio. Nuova luce, nuova forza. Lui le tocca i seni piccoli e le annusa la pelle dietro la nuca. Deve aver sollevato il passamontagna perché non lo avverte quando le appoggia le labbra sul collo. La morde piano. Non ha profumo. L’odore di lei, invece, è una mistura di sudore e vaniglia. Gli ricorda l’ultima merenda all’istituto, quando suor Magdalena aveva riunito tutti i ragazzi nel salone e aveva portato la sua torta preferita, 245 alla crema e pinoli. Chiude un momento gli occhi. Lei lo sente inspirare. È questo il momento? Un istante ancora. Inspira anche lei, rilassa i muscoli, chiude gli occhi e visualizza nella mente la sequenza di immagini che seguiranno, poi parte. Flette la testa in avanti e poi un colpo deciso all’indietro che va a colpire qualcosa di duro. Il mento o il naso? Non c’è tempo! Lui emette un gemito, ma non molla la presa. Poi una gomitata allo stomaco e lei che si libera, raggiunge il tavolino e afferra lo spray al peperoncino. Si scaglia contro di lui, spruzzandogli il gas all’altezza del viso. Si ripara con le mani, ma gli occhi iniziano a gonfiarsi e a lacrimare copiosamente. La vista è offuscata. Adesso o mai più! La donna afferra la bottiglia di champagne e gliela scaglia contro, poi il secchiello e la lampada sul tavolino. Ma lui è enorme e le blocca il passaggio verso la porta. Corre alla finestra, la apre e scavalca il ballatoio. Il cornicione é sottile e la stanza è al terzo piano. Pur con difficoltà, la raggiunge e l’afferra per i capelli, trascinandola nuovamente all’interno della camera. Estrae una siringa dall’ago sottile e l’avvicina alla vena giugulare. Lei si dimena e tenta di rialzarsi, ma la stringe al collo e non riesce più a respirare. Non può fare altro che desistere. L’ago nel collo e i muscoli che si rilassano piano piano, fino al torpore generalizzato. Non riesce più ad avere il 246 controllo del suo corpo, ma riesce a vedere tutto, tutto quello che le accade attorno. Lui che è sopra di lei, lui che si solleva il passamontagna, lui che ride, lui che scende sulla sua bocca. Lui, l’insospettabile. 247 30. «Attenzione», bisbiglia. «Tre, due, uno. Ora!» La porta viene spalancata, ma Julian resta dietro lo stipite con la pistola in mano. Sul lato opposto Dan. La stanza è in penombra e dalla finestra s’iniziano a intravedere le prime luci dell’alba. Julian entra nella camera: nel piccolo atrio scene di lotta, una bottiglia di champagne versata a terra, la lampada da tavolo rotta e sul letto un tappeto di rose. La finestra aperta. Julian si sporge all’esterno. «Deve aver tentato di fuggire, ma era troppo alto.» Dan ha le mani che tremano ed è visibilmente turbato. «Julian, dobbiamo trovarla prima che...» «Non ti preoccupare», cerca di rassicurarlo. «Darla è in gamba e sa badare al fatto suo. Voglio parlare immediatamente con Laski: è l’unico che conosce l’identità di Jamad.» Tutto è buio. Il baule dell’auto è stretto e c’è un forte odore di funghi e benzina. Dopo una quarantina di minuti, l’auto inizia a percorrere una strada secondaria, ricca di curve e tornanti. La nausea si accentua. Darla tenta di muovere le braccia, ma la muscolatura è ancora troppa anestetizzata. Dopo un’altra mezz’ora, l’auto si arresta. 248 Quando il baule viene aperto, la luce del mattino invade il piccolo abitacolo costringendo Darla a chiudere gli occhi. Bastardo! Indossa un casco da minatore. Ride di nuovo e la solleva tra le braccia. «Vedrai, ti piacerà quello che ho preparato per te.» Entrano in una vecchia miniera, da cui si dipartono numerosi cunicoli oscuri. Scendono, percorrono forse cinquecento metri, aiutati dalla torcia sul casco. Giungono a un portone di legno, chiuso da un grosso lucchetto d’acciaio. L’uomo fa scattare la serratura e apre la porta. La stanza è completamente piastrellata, il pavimento, le pareti e la volta. Piastrelle bianche lucide, come quelle di un obitorio. Al centro, un letto matrimoniale in legno, su cui non è posto un materasso, ma un contenitore in compensato che copre tutta la superficie del letto. Man mano che si avvicinano, Darla ha modo di vedere cosa è presente nel contenitore e di realizzare l’incubo che la sta aspettando. Si contorce in braccio al suo rapitore, cerca di afferrargli la giacca, ma le dita sono contratte e scivolano sul tessuto di nylon. «Vedi quei piccoli insetti che riempiono il letto? Sono imenotteri, della specie Scleroderma domesticum. I tarli e le termiti non attaccano l’uomo, perché si nutrono di legno. Loro invece ne vanno matti, soprattutto in mancanza di cibo. E ti assicuro che questa colonia l’ho affamata per benino e non vede l’ora di banchettare con te.» La solleva e la lascia cadere sul giaciglio infestato di acari. «Buon appetito!». 249 Uscendo dalla stanza, si volta per un ultimo saluto. «So che sei allergica agli acari della polvere. Ma stai tranquilla, lo shock anafilattico non insorgerà prima di un paio d’ore.» Julian attende ancora cinque minuti, poi entra nella stanza dove Earl Laski è seduto, con una tazza di caffè in mano. Dan lo segue e gli bisbiglia qualcosa all’orecchio. «Il suo avvocato sarà qui a momenti. Abbiamo qualche minuto per interrogarlo da soli.» Julian si volta e gli risponde ad alta voce. «Non me ne frega un cazzo del suo avvocato!» Poi si rivolge a Earl. «Ti piace il caffè?» Si siede di fronte e inizia fissarlo. So che con quelli come te non serve la violenza. Il mondo ve ne ha regalata fin troppa e adesso non ne sapete più fare a meno. Ricevete violenza e offrite violenza. Ma non oggi, non oggi, caro Earl. Continua a fissare Julian, mentre sorseggia dalla tazza. Appare più sereno rispetto al giorno dell’arresto, come se sapesse qualcosa che a loro ancora sfugge, la fine della storia, le battute finali di un incubo da cui anche lui non vede l’ora di uscire. «So che Jamad è tuo amico e non voglio che tu lo tradisca. Facciamo un patto: io ti regalo questa foto e tu mi dici dove hai portato Margaret Lee. So che siete stati a Coal Creek, ma lassù è pieno di miniere e cunicoli. Io voglio sapere il punto preciso. Ci stai, Earl?» Appoggia sul tavolo la foto in cui suor Odette sorride nella luce del 250 mattino. Earl si china sull’immagine per osservarla meglio e infine la prende in mano. Resta a fissarla a lungo, quasi in trance, con l’altra mano che regge ancora la tazza di caffè vuota. Poi lo sguardo scavalca la fotografia e raggiunge gli occhi scuri di Julian. Il movimento del capo è quasi impercettibile, ma Julian ne è sicuro: ha detto di sì. Sorride, si alza in piedi e invita Earl a fare altrettanto. «Allora andiamo!» La macchina corre veloce lungo la statale e, dopo circa un’ora, raggiunge l’ingresso di una miniera abbandonata. Earl non ha spiaccicato una sola parola, fornendo le indicazioni per la strada con piccoli movimenti del braccio e del capo. Fanno scendere Earl, lo ammanettano e lo invitano a precederli all’interno della montagna. Dopo un quarto d’ora di cammino e una decina di incroci, arrivano ad un portone di legno. La serratura è arrugginita e senza lucchetto. Spalancano la porta, ritrovandosi in una grotta umida e scura, con al centro un tavolino da campeggio e, alle pareti, delle lunghe catene di ferro. «Sei sicuro che sia questo, il posto?» Accenna un sì con la testa. Negli occhi di Dan la paura di un bambino che si è perso nel bosco e che sa che presto farà freddo e buio. «E adesso?!» Julian sa che deve restare calmo, anche se ormai il tempo a disposizione è davvero poco. «Quante stanze ci sono, come questa?» 251 Earl all’inizio sembra non comprendere la domanda, poi si avvicina al punto dove era incatenata Margaret e appoggia l’orecchio alla parete. Dan e Julian seguono i suoi movimenti e infine lo raggiungono per scoprire cosa stia ascoltando. Nella roccia calcarea, l’eco lontano di una voce di donna. Parole incomprensibili, grida che tendono a spegnersi e a ridursi di intensità man mano che passa il tempo. «È Darla!» esclama Dan con gli occhi lucidi. Julian si avvicina a Earl e gli appoggia una mano sulla spalla. «Grazie per quello che stai facendo. Sai dirmi come si raggiunge quella stanza?» Earl inclina la testa di lato. Sovrasta Julian di almeno quindici centimetri, ma nel momento in cui inizia a ridere la differenza si accentua a dismisura. Un brivido di terrore pervade il corpo di Julian. «Non mi ringraziare. È stato un vero piacere!» La risata risuona all’interno della grotta e rimbomba come una fucilata a bruciapelo. «Cazzo, Julian, ci ha presi in giro fin dall’inizio. Non è questo l’ingresso!» Dan inizia a camminare avanti e indietro e alla fine afferra Earl per la camicia. «Figlio di puttana, dimmi come si raggiunge quella stanza!» Lo strattona, lo spinge contro la parete e infine lo scaraventa a terra. «Bastardo! Se le succede qualcosa ti ammazzo con queste mani!» Gli salta addosso e inizia a stringergli il collo. Julian lo blocca e lo solleva di peso. 252 «Dan, Non perdere la testa! Mi servi lucido. Se ci ha portato qui è perché sapeva che non l’avremmo trovata e che era nella stanza di fianco. È d’accordo con Jamad: gli ha fatto guadagnare tempo.» Si china a fianco di Earl. «Non è così? Te l’ha chiesto Jamad di portarci qui, non è vero?» Si rialza, afferra il tavolino da campeggio e lo scaglia ripetutamente contro la parete di roccia, senza scalfirla minimamente. «Questa parete è molto spessa, ma se si riesce a sentire la voce di Darla, dev’essere stata perforata.» Dan solleva lo sguardo e poi esclama, «Julian, le catene!» «Hai ragione!», risponde ponendo il tavolino contro la roccia dov’era stata legata Margaret. Vi sale in piedi e raggiunge il punto da cui le catene partono, scoprendo che due lunghi cilindri cavi attraversano la parete fino a raggiungere la caverna adiacente. Lo spessore non supera il mezzo metro. «Darla, riesci a sentirmi?!», grida all’interno di uno dei due tubi metallici. Dalla stanza opposta ancora dei gemiti e dei versi incomprensibili, poi un nome, quasi come un lamento. «Julian...» «Resisti, stiamo arrivando!» Julian scende dal tavolo e si avvicina ad Earl. Inspira, cercando di mantenere il tono della voce calmo. «Earl, ci devi aiutare a liberare la dottoressa Hemingway.» Laski è disteso su un fianco, con le mani legate dietro la schiena. Solleva lo sguardo in direzione di Julian: ora lo sguardo è meno altezzoso, spavaldo. Ha di nuovo quell’aria sofferente e precaria che 253 aveva il giorno del loro primo incontro. Non risponde nulla, le labbra stirate. «Earl, perché lo continui a proteggere. Ormai è tutto finito e non potrà più farti del male. Dimmi come si arriva all’altra stanza e cercherò di fare il possibile per aiutarti in tribunale.» Earl si allontana spaventato, come se avesse visto qualcosa nel buio, dietro le spalle di Julian. «Non vuoi che ti aiuti?» Julian si alza e si volta in direzione di Dan. «Forse vuole marcire in galera», butta lì senza quasi pensarci. Julian guarda Dan, con il volto illuminato. «Ma certo! Ora ho capito!» Torna al fianco di Earl e inizia parlargli a pochi centimetri di distanza. «Hai deciso di accollarti anche questo omicidio, per essere sicuro di finire sulla sedia elettrica. Sei stanco di vivere una vita di emarginazione e soprusi e hai deciso di farla finita, non è così? È questo che ti ha promesso Jamad? Che se la dottoressa Hemingway morirà, sarai condannato a morte? Bene, Earl, ora te la faccio io una promessa e ti giuro che farò di tutto per mantenerla, se non ci aiuti. Ti prometto che ti difenderò ad oltranza, testimonierò che hai collaborato con noi e che hai fatto tutto il possibile per salvarla. Ti farò dare l’ergastolo, ma non verrai mai giustiziato. Su questo puoi contarci!» Earl si guarda intorno ancor più spaventato, poi si solleva e si mette in ginocchio. Un primo singhiozzo. «Fatemi fuori», sussurra. «Vi prego.» 254 Il capo chino, ciondolante sul petto. «Earl, adesso dimmi come si arriva nell’altra stanza e dopo ne parliamo.» «Fatemi fuori. Adesso.» Dan lo afferra per la camicia. «Porca puttana, dicci come si entra in quella stanza!» Solleva il volto, continuando a fissare il vuoto, poi si alza in piedi ed esce dalla grotta. Dan e Julian lo seguono in silenzio e dopo cinque minuti di cunicoli e strettoie si ritrovano davanti ad un secondo portone di legno. Questa volta la serratura è chiusa con un grosso lucchetto. «Julian spostati!» Dan estrae la Beretta e spara due colpi in direzione del lucchetto. Gli ingranaggi di metallo vengono scardinati e Dan spalanca la porta con un calcio. «Darla!» Julian la raggiunge e la solleva tra le braccia. La pelle del volto, del collo e delle braccia è piena di grossi pomfi arrossati; le palpebre gonfie non le permettono di tenere gli occhi aperti e l’edema della laringe la costringe a respirare con difficoltà. «Darla, resisti!» corre fuori della stanza. «Dan, sta per avere uno shock anafilattico! Corriamo all’ospedale.» Il sergente O’Malley entra nella sala d’attesa con due tazze di caffè. Julian è a sedere sulla panchina di legno, flesso in avanti, con in mano l’elenco degli arrestati negli ultimi anni. 255 «Come sta?», chiede porgendogli la tazza. «Le hanno fatto una tracheotomia per farla respirare?» «Cose la hanno fatto?!» «Un tubo in gola», risponde indicando il collo. «Adesso è in coma farmacologico. L’abbiamo portata qui il prima possibile, ma i medici non escludono che ci possano essere stati dei danni cerebrali. Aveva la laringe completamente ostruita e non riusciva a respirare.» Beve un sorso di caffè. «Bastardo!» O’Malley, non riesce ad aggiungere altro. «Hai qualche notizia di Susanna Barkley?» Scuote il capo. Dan entra nella sala di corsa. «Allora?!» «Aspettiamo. Adesso non riescono a svegliarla perché deve respirare con il ventilatore. Forse domani.» Dan si siede a fianco di Julian. «Avevi ragione: don Elia non ha mai preso quell’aereo. Il giorno del volo era a Denton e ha celebrato due funzioni. Mi ha detto la sua segretaria che ci sono almeno un centinaio di testimoni.» «Questo scagiona Peter, forse. Potrebbe aver deciso di rientrare a Denver in aereo senza dirti nulla. E l’Onnivoro, invece, deve aver utilizzato l’identità di don Elia per nascondere la sua presenza su quel volo.» Dan si guarda le mani e, dopo un attimo di esitazione, glielo chiede. «Ma come ha fatto, Jamad, a comunicare con Earl Laski e a dirgli 256 dov’era nascosta Darla? Pensi che possa aver organizzato tutto prima dell’arresto di Laski.» Julian scuote la testa. «Non lo so.» Poi, dopo un attimo di esitazione, si alza in piedi e si volta verso Dan con un sorriso. «Forse, però, so chi potrebbe darci una risposta.» 257 31. Non pensavo che Jamad mi potesse mancare tanto. Da quando se n’è andato, sono molto più triste e non mi diverto più come prima. Earl mi segue sempre e mi chiede cosa è giusto e cosa è sbagliato, ma io non so cosa rispondere. Era Jamad che aveva tutte le risposte e anche se era un po’ strano, credo che in fondo ci volesse bene. La settimana scorsa mi è arrivata una sua lettera da Orlando. Mi ha scritto poche righe. Caro Remi, l’America fa schifo e si mangia da schifo. La mia famiglia che mi ha adottato non è male, anche se lui mi rompe sempre il cazzo per ogni cosa che faccio. Mia madre è molto bella e buona. Mia sorella è una stronza. Dovreste venire anche voi, tu ed Earl, perché secondo me ci divertiremo. Ciao, Jamad P.S.: salutami quel cazzone di Earl (si è ripreso dopo gli orecchioni?) Si, credo che Jamad ci volesse un po’ bene. 258 Io invece continuo a pensare sempre al signor Millerau che si sbatte la ragazza dai capelli rossi nel capanno. Un mese fa, a forza di pensarci, ho bagnato il letto e da allora ci penso tutti i giorni. Adesso, quando vedo una donna con i capelli rossi, mi viene un po’ male alla pancia, o più in basso, e mi devo toccare. Credo che da grande cercherò una ragazza così, le chiederò di sposarmi e costruirò un capanno in giardino. Charlotte butta sul letto il vestito marrone, poi torna in bagno per finire di truccarsi. L’uomo entra in casa dalla porta principale, cercando di non fare rumore. In mano, un mazzo di rose. Sale le scale in punta di piedi fino a raggiungere il corridoio che porta alla camera da letto. Prima di entrare nella stanza, si sfila le scarpe per non essere sentito. Depone il mazzo sul letto e si avvicina al bagno. Charlotte è completamente nuda, con i capelli bagnati che le cadono pesanti sulle spalle esili. Il seno abbondante, voluttuoso, l’addome appena pronunciato, una gamba sulla vasca da bagno che viene massaggiata dalle mani intrise di crema idratante. «Wow!» esclama. Charlotte ha un sussulto e si volta spaventata. Poi lo riconosce. «Oh mio Dio, Marc! Mi hai fatto prendere un colpo!» Gli va incontro e lo abbraccia. «Che bello che tu sia qui. Ma non dovevi rientrare dopodomani?» Lui la guarda con la faccia forzatamente imbronciata. «Ma come, non sei contenta che sia tornato prima? Avevo voglia di vederti», risponde slacciandosi la camicia. Poi estrae dalla tasca, un 259 piccolo sacchetto color corda. «Che cos’è, amore!» «Aprilo.» Rovescia il sacchetto e lascia sfilare il ferma capelli in madreperla sul palmo della mano. «Oh, Marc, ma è bellissimo!» Lo bacia sulla bocca e gli passa una mano tra i folti capelli brizzolati. Lui la solleva per i glutei e l’appoggia sul comò in noce. «Allora, vieni al cinema con me stasera?!» gli chiede ridendo. «Al cinema?! Charlotte, io in realtà avevo altri programmi.» «Dai, ti prego, ho anche i biglietti gratis. Poi ti prometto che quando torniamo a casa...», lascia la frase in sospeso e riprende a baciarlo. Se solo avessi avuto più tempo, sarei potuto cambiare. Il mio nome è Remi Sullivan, ma non per molto ancora. Il mio nome non mi piace perché è un nome triste, il nome di un orfanello che cerca la sua mamma per il mondo, con un vecchio saltimbanco rincoglionito. Mi piace Primo Maggio perché l’ho inventato io. Mi piace Primo Maggio perché mi ricorda il giorno in cui suor Magdalena mi ha messo su una pietra bianca e mi ha dato un bacio in fronte. Mi piace Primo Maggio perché è un nome coraggioso. Julian si ferma davanti alla segretaria che interrompe, momentaneamente, la conversazione al telefono. «Non è ancora arrivato.» 260 «L’aspetto.» Si siede sul divano in pelle ed estrae l’elenco dei clienti dell’avvocato Stolnhouse. Remi Sullivan, Earl Laski, e un’altra ventina di nomi. Ma come è possibile che un avvocato così giovane seguisse dei soggetti tanto pericolosi. Ambizioso, certo, ma davvero lo studio legale gli aveva affidato personaggi di questo calibro? O li conosceva già da prima? Julian estrae dalla giacca il foglio con l’elenco dei suoi arresti. Melissa Del Cigno. La madre di Jamad. Da alcuni giorni, ha qualcosa in testa che continua a tormentarlo, senza tregua, qualcosa che tuttavia non riesce a definire con precisione. È l’ombra di un dubbio, la sensazione di essere vicino alla soluzione dell’enigma, a cui manca, però, un tassello fondamentale. Ne avverte l’odore, il sapore, ma non riesce ancora ad afferrarlo. Solleva il capo e si sofferma sul quadro minimalista appeso alla parete. Azzurro con una banda verticale rossa. «Aspetta un attimo!» Si alza per osservarlo meglio. Estrae la fotografia che aveva regalato a Earl Laski. Suor Odette in abito azzurro, con una striscia verticale rossa. «Oh no!» Si volta verso la porta di ingresso, dov’è riportato il nome dello studio legale. Adam J. Swan & Soci «Ovvero, J Amad Swan.» Pausa. 261 «J A MA D !» Torna all’elenco delle persone arrestate. Melissa Del Cigno. «Del Cigno, Swan.» Corre dalla segretaria e le strappa la cornetta dalle mani. «Dov’è Adam Swan?!» Sonia lo guarda impaurita. «Ma che fa?!» «Mi dica dove è?!», le urla appoggiando la pistola sul bancone. Sonia è terrorizzata. «Mi aveva detto di non dirlo a nessuno, in particolare a lei.» Fa una breve pausa, poi prosegue. «Ha detto che passava in ospedale, a far visita a una parente.» «Oh mio Dio! Darla!» Corre verso l’uscita, componendo il numero di Dan. Rispondi! Arriva alla macchina e mette in moto. «Pronto?» «Dan! Jamad è Adam Swan. Hai capito?! Sta venendo in ospedale: fermalo, non farlo entrare da Darla!» «Julian...?» «Dan, hai capito?!» «Sei proprio sicuro?» il tono della voce si è abbassato. «Si, ne sono sicuro! Dan, non farlo arrivare a Darla, io sto arrivando.» «È già qui.», sussurra. «Sta parlando con i medici. È amico del 262 primario e sta chiedendo come sta Darla.» «Arrestalo ora!» Dan si volta nella sua direzione. Lui lo sta osservando e quando Dan se ne accorge si sposta dandogli le spalle. «Mi ha visto che lo guardavo. Non vorrei che scappasse.» «Fallo scappare, ma non farlo avvicinare a Darla!» Dan si gira di nuovo, ritrovandosi di fronte il torace di Adam Swan. «Me lo vuoi passare?» chiede puntandogli una pistola al fianco. Dan si blocca e si lascia sfilare il cellulare dalla mano. «Eccoci qua, Julian. Io con i miei scacchi ancora tutti in gioco e tu, invece, privato dei tuoi pezzi migliori: Peter May, Darla e adesso Dan.» Pensa! Pensa come lui. Ragiona come lui. Non farti ingannare, c’é sempre una via d’uscita. Julian guida velocemente, superando le macchine che gli stanno davanti. «Hai vinto!» esclama. In sottofondo il traffico della tangenziale. Adam non risponde immediatamente. «Ho vinto, dici? Credi che sia questa la mossa che ti farà vincere la partita?» «Tu hai vinto e io ho perso, non mi è rimasto nulla.» Adam sorride. «Sei bravo Julian e mi sono divertito. Tu credi che io ce l’abbia con te perché hai arrestato mia madre, ma ti sbagli. Sinceramente non mi frega di nessuno a questo mondo. Ti ho selezionato perché avevo 263 bisogno del migliore, per dimostrare che l’unica cosa che conta, in questa vita, è la paura. Se l’uomo ha paura, fa le cose giuste, altrimenti fa di testa sua e, prima o poi, sbaglia. E tradisce.» «È per questo che hai ucciso i Barkley e don Elia, perché li ritenevi dei deboli, dei viziosi?» «L’uomo di valore, innanzitutto, deve avere dei valori. Non sei d’accordo, Julian?» La macchina esce dalla tangenziale e imbocca la trentaquattresima, in direzione dell’ospedale. «Sean Stolnhouse non ha mai seguito i casi di Laski e Sullivan, non è così? Erano tuoi amici d’infanzia e, quando sono venuti in America, ti sei offerto di diventare il loro avvocato.» «Io non ho amici, ma se vuoi chiamarli così, fa pure. Diciamo che io li ho sempre considerati dei bravi cani da riporto.» Adam costringe Dan a scendere per le scale. Escono nel parcheggio esterno e raggiungono una Cadillac nera. Apre il bagagliaio, estrae una tanica di plastica e costringe Dan a entrarvi dentro. «Scacco matto in tre mosse, Julian!» Guadagna tempo, Julian, guadagna tempo! «Perché Sarah? Aveva solo sedici anni, non poteva avere delle colpe.» «La mia nipotina Sarah Barkley? Beh, con lei è stato tutto diverso: mi serviva per eseguire un test e se l’avesse superato probabilmente non ci troveremmo qui, adesso. Era l’immagine dell’innocenza ed ero certo che anche difronte alla paura più grande, avrebbe fatto le scelte giuste. E invece ha ceduto subito, si è offerta come una cagna, pur di 264 salvarsi la vita. Era sporca come sua madre, come suo padre, suo zio e andava eliminata prima che potesse riempire il mondo di altri esseri immondi.» Julian intravede in lontananza le ampie vetrate dell’ospedale. «Ok, Adam, ma cosa vuoi adesso? Ormai hai ottenuto tutto quello che volevi.» Una lunga pausa. Il bagagliaio che si chiude. Le urla soffocate di Dan. Resisti, Dan, sto arrivando! «Cosa voglio? Julian, ho scelto te perché sei il migliore, sei senza macchia, sei L’uomo di valore. Fino adesso, tutti hanno fallito, tranne te. Ma riuscirai a resistere fino alla fine?» Avvicina il cellulare al baule, le grida di Dan sono strazianti. Dal parcheggio dell’ospedale del fumo nero che sale verso il cielo. «Oh no, cosa stai facendo?!» «Julian, saluta il tuo amico per l’ultima volta.» «Fermati, non farlo!» Adam aggiunge altra benzina sulla lamiera in fiamme, poi s’incammina verso l’ingresso dell’ospedale. «Riuscirai a resistere fino alla fine senza commettere errori?» Infine lancia il cellulare nel parcheggio. «Maledizione, Adam!» Dopo pochi minuti, Julian raggiunge la Cadillac in fiamme. Scende, si togli la giacca e inizia a sbatterla sulle fiamme che stanno arroventando il baule dell’auto. Un uomo della vigilanza accorre con un estintore e si pone al fianco di Julian per tentare di domare 265 l’incendio. «Resisti, Dan, resisti!» Dal baule non si ode più nulla. Poi un sibilo acuto provenire dal tappo del serbatoio. Il vigilante afferra Julian per un braccio e lo trascina a forza dietro un furgoncino poco distante. «Venga via, sta per esplodere!» «Mi lasci!» gli grida continuando a guardare l’auto con gli occhi gonfi per il fumo e le lacrime. «Dan..!» L’esplosione della Cadillac produce un’onda d’urto che fa sobbalzare il furgone e distrugge i vetri di tutte le macchine nel raggio di trenta metri. Julian si lascia cadere sulle ginocchia. «Dan...» Se solo avessi avuto più tempo, sarei potuto cambiare. Il mio nome è Remi Sullivan e sono stato adottato nel 1980. In America non sono riuscito a farmi degli amici veri, come quelli che avevo a Marsiglia, degli amici con cui poter condividere il male di vivere. Qui, i miei compagni di scuola erano ancora dei bambini e pensavano che i confini del mondo corrispondessero ai confini del loro giardino. Quando sono partito ho chiesto a Maurice, il giardiniere, se potevo portare con me Primo Maggio, ma non ha voluto perché sarebbe mancato agli altri bambini. Primo Maggio è il nome che ho scelto per lui e ricordarmi di questo me lo ha fatto sentire più vicino. 266 Gran parte del personale medico si riversa nel parcheggio dell’ospedale per vedere cosa è successo. Due uomini della vigilanza riescono a domare le fiamme, prima che arrivino i vigili del fuoco. O’Malley è alla finestra del secondo piano e guarda la scena dall’alto. Con la coda dell’occhio intravede un uomo che attraversa la sala d’attesa e s’incammina verso le stanze di isolamento. Si volta, lo segue con lo sguardo fino all’ultima stanza, poi torna a guardare il parcheggio. Pochi minuti e sopraggiunge anche Julian, trafelato e zoppicante. Ha il volto sporco di fuliggine e piccoli tagli sulla guancia destra. «Julian!», si avvicina preoccupato, «Ma cosa è successo?!» «Hai visto passare Adam Swan?!» chiede senza fermarsi. «No», poi ci ripensa e aggiunge, «è passato un uomo cinque minuti fa, ma non penso fosse Swan.» Julian raggiunge la camera di Darla ed estrae la pistola. Abbassa la maniglia, apre la porta di pochi centimetri, poi la spalanca ed entra con l’arma puntata verso il letto. «Fermati Adam!» «Metti giù la pistola o finisco di iniettarle il pentothal.» Adam è al fianco di Darla con una siringa in mano e l’ago inserito nel cateterino venoso del braccio. Julian continua a tenerlo sotto tiro. «Un colpo e ti freddo.» «Sì, ma i due cc che le inietterò saranno sufficienti a trascinarla con me. Metti giù la pistola, Julian.» 267 Esercita una leggera pressione sullo stantuffo della siringa e il monitor inizia a suonare per l’aumento della frequenza cardiaca. «Ok, ok.» Julian solleva le mani sopra la testa, poi china lentamente il busto in avanti e appoggia la pistola sul pavimento. «Ora allontanati da lei.» Adam rimane a fissare Julian per alcuni secondi con un sorriso che lascia intendere molto più di mille parole. Julian si trova nuovamente con le spalle al muro, con poco tempo per pensare e per prendere la decisione giusta. Lentamente fa scivolare la mano nella tasca ed estrae la fotografia. «Ho visto il quadro nel tuo studio. È il vestito di suor Odette, vero?» Adam non risponde. «Sei stato tu ad ucciderla e a seppellirla nel giardino di Sullivan. Perché l’hai fatto?» «Aveva le sue colpe.» «Sapevi chi era?» Adam si allontana di un passo dal letto di Darla. «Non ti immischiare in faccende che non ti riguardano.» Il sorriso e l’espressione di sicurezza di pochi istanti prima, lasciano il posto a un sottile velo di imbarazzo. «Ho parlato con la madre superiore, a Marsiglia, e mi ha raccontato che sei nato all’interno dell’istituto.» Adam gira attorno al letto e raccoglie la pistola di Julian. «Basta così.» 268 Julian sorride. «Non dirmi che non lo sapevi.» Adam solleva la pistola. «Non sapevi che tuo padre era il signor Millerau...» La pistola puntata dritta al volto. «...E che violentava tua madre Odette, nel capanno del giardino.» Uno sparo. Poi un secondo e un terzo. Hanno sbagliato tutto. Avrebbero dovuto gettarci nel Rodano a pochi giorni di vita, quando non eravamo ancora in grado di distinguere il giorno dalla notte, il bene dal male. Perché avremmo scelto le tenebre, sempre e comunque. Ora è troppo tardi e il male che porteremo nel mondo sarà il nostro grido di vita all’umanità, il nostro modo di far sentire la nostra esistenza. Perché non ci è mai stato concesso di poter vivere e basta. Esistere. Noi possiamo solo sostituire, siamo pezzi di ricambio, surrogati per mamme sterili e padri impotenti, masturbatori incapaci del dono della vita. Vita in cambio di morte, spazio in cambio di spazio. Di molto spazio. Se noi esistiamo, noi mangiamo, e mangiamo tanto, mangiamo di tutto. Perché il vuoto che portiamo dentro non si colma mai. Julian apre gli occhi. Di fronte a sé il corpo di Adam Swan disteso a terra, con due ferite alla spalla e una in fronte. Si volta scorgendo la figura del sergente O’Malley sulla soglia, con la pistola ancora fumante in mano. 269 «Non era Adam Swan, secondo te?», chiede abbassando le braccia. «Comunque grazie.» O’Malley sorride. . 270 32. Darla si avvicina all’armadio e tira fuori un paio di jeans. «Allora vai a casa, oggi.» Si volta. «Julian! Ma dove li hai trovati?!» Gli va incontro, lo bacia sulle labbra e prende il mazzo di fiori. «I tulipani, dici? Li coltivava Sullivan in giardino. Chissà con che cosa li concimava?» Darla lo guarda di traverso. «Quanto sei scemo.» Si avvicina e l’abbraccia forte. «Dovremmo farci una bella vacanza. Che ne dici?» Lo sguardo di Julian va alla finestra e, oltre il vetro, alle nuvole basse che si stanno avvicinando dalle montagne rocciose. Darla gli passa una mano sulla guancia, poi aggiunge. «Lo so, anche a me dispiace per Dan.» Julian le prende la mano. «Non è solo per questo. Da qualche giorno ho come dei flash, dei frammenti di memoria che riemergono dalla mia mente. Frammenti del giorno in cui, io e Peter, abbiamo arrestato Sullivan.» 271 «Ti riferisci al giorno dell’incidente, quando sei caduto dal tetto del forno?» «Esatto. C’è qualcosa che non mi torna.» Darla si siede sul letto. «Cosa intendi dire?» Julian si avvicina alla finestra, le nubi si muovono velocemente. Apre il vetro e lascia entrare l’aria umida della sera. «Quando siamo saliti sul tetto, non c’era nessuno.» Darla Sorride. «Come, non c’era nessuno?» «Dal camino usciva una grande quantità di fumo e io e Peter ci siamo avvicinati. Abbiamo guardato intorno, ma non c’era nessuno.» Darla si alza e lo raggiunge alla finestra. Un fulmine in lontananza illumina il cielo di Denver. «E da dove è sbucato Remi Sullivan? Se non sbaglio, ti abbiamo trovato sopra il suo cadavere.» «Nessuno lo conosceva e l’aveva mai visto prima. Poteva essere di chiunque quel corpo.» Sorride di nuovo e gli prende il volto tra le mani. «Julian, sei stato in coma per tre settimane. È normale che i tuoi ricordi siano un po’ confusi.» Un secondo lampo e per un istante gli occhi di Darla diventano d’oro. «Forse hai ragione. Cosa ne dici delle Antille Francesi?» O’Malley entra nella stanza. «Allora, sei pronta principessa?» 272 Julian si volta con l’espressione di chi è appena stato risvegliato da un elfo. «È lui che ti accompagna a casa?! Darla, non posso permetterlo: stasera sei mia ospite. Ho già prenotato il ristorante e tutto.» Poi, rivolto al sergente, «Grazie O’Malley, ma la dottoressa è con me stasera.» O’Malley allunga il collo nella speranza che Darla intervenga in sua difesa. «Mi dispiace O’Malley, ma Julian è il mio capo e...non posso disubbidirgli. Grazie comunque.» Abbassa gli occhi e si chiude la porta alle spalle, senza aggiungere altro. Julian si volta esterrefatto. «Ma Darla, che combini?! Quello smetterà di pensare a te e a fantasticare sulla serata che avrebbe potuto passare con te, quando andrà in pensione!» Darla fa una smorfia, poi si toglie la vestaglia e s’infila i jeans e la maglietta. O’Malley entra di nuovo nella stanza. «Scusate, avevo dimenticato di consegnarvi questa. È arrivata ieri mattina.» Julian prende in mano la cartolina, sul cui fronte è raffigurata una spiaggia bianchissima bagnata da un mare di smeraldo. «Non ci posso credere, Antille Francesi!» esclama. Darla si avvicina per leggere. «È di Peter!» Caro Julian, qui il mare è una favola e i gamberoni non fanno venire l’allergia. 273 Però alla lunga mi rompo i coglioni: quando posso rientrare in servizio?! Un saluto, Peter 33. 274 Le luci della sala si accendono e sullo schermo compare la scritta FINE. La colonna sonora: una vecchia canzone di Aznavour. Le persone si alzano e s’incamminano verso l’uscita, mentre la coppia in ultima fila continua a baciarsi come due adolescenti al primo appuntamento. Ma lei ne ha trentotto di anni, e lui ha folti capelli brizzolati. Poco distante, un uomo dal volto scarno e abbronzato li sta fissando. «Devo proprio?» Silenzio. «Non mi parli più? Ormai i titoli scorrono e le pagine sono terminate.» Nessuna risposta. «Non farmelo fare.» Sei libero. 275 Lui sorride per la battuta inaspettata. I due continuano a baciarsi come se il tempo non esistesse e le loro vite dovessero durare in eterno. Lei indossa un vestito marrone, scollato sul seno abbondante; i capelli rosso fuoco sono raccolti in un fermacapelli di madreperla. Lui, e la sua mano che scivola sotto il vestito. «No, fermati Marc. Non qui», sussurra. L’uomo vicino alla coppia inspira e chiude gli occhi. Adora quella vecchia canzone, gli ricorda i pomeriggi passati al cinematografo con gli altri bambini. Il mio nome è Remi Sullivan, e sono morto. Sono morto quando ho deciso di cambiare nome, per cambiare vita. Ho preso il nome della pietra su cui mi ha baciato mia madre, suor Magdalena, e ho preso il nome e il coraggio del cagnolino di Maurice. Il mio nome è Peter May. E uccido ancora le ragazze dai capelli rossi. 276