la carita` luce di dio
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la carita` luce di dio
Dio è Luce e in lui non ci sono Tenebre (1 GV 1,5b) LA CARITA' LUCE DI DIO Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che ora vi annunziamo: Dio è luce e in lui non ci sono tenebre. Se diciamo che siamo in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, mentiamo e non mettiamo in pratica la verità. Ma se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri, e il sangue di Gesù, suo Figlio, ci purifica da ogni peccato. 1 Gv 1,5-7 La traduzione del vs 1,5 della prima lettera di Giovanni non rende ragione della ricchezza del termine originale greco: là si parla di aver udito e di annunziare l’anghelìa. È il termine che Giovanni usa una sola volta nel suo Vangelo, sotto forma di verbo, quando riferisce di Maria di Magdala che, avendo incontrato il Signore Gesù risorto, lo annuncia ai discepoli. Non si tratta dunque di un semplice messaggio, ma del messaggio centrale della fede; un suo composto ha dato origine alla parola evangelo, buona notizia, annuncio che dà gioia… Questo è dunque il lieto annuncio che Giovanni nella sua prima lettera proclama: Dio è luce e in lui non ci sono tenebre. Nel suo Vangelo egli aveva definito diverse volte Gesù come luce, ma mai aveva attribuito questa “qualità” a Dio, come accade normalmente nell’Antico Testamento. L’autore dell’Esodo per esempio presenta la gloria di Dio come fiamma abbagliante (Es 3,2), Isaia lo dice luce eterna (Is 60,19). era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l'hanno accolta (va forse meglio tradotto sopraffatta). Venne un uomo mandato da Dio e il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per rendere testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Egli non era la luce, ma doveva render testimonianza alla luce. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo (1,4-9). Solo in questo Vangelo assistiamo all’attribuzione al Figlio Nel prologo di Giovanni invece si legge: In lui (nel Verbo di Dio, il Figlio) di una così fondamentale caratteristica del Padre; nella prima lettera si torna invece ad attribuirla a Dio. Non è difficile dedurne l’uguaglianza nella natura, la comune capacità di fare luce nel mondo, nella storia, nella coscienza. Non è forse la Parola di Dio ad aver tratto dal buio la luce all’alba della storia?Forse però se ne può trarre un’altra importante conseguenza, che alla fine ci riguarda da vicino: il Padre è luce, anzi, la luce che il Figlio è venuto ad annunciare al mondo. Questo ministero di annuncio, che il Figlio ha da sempre, perché è la Parola del Padre, rende anche Lui luce, anzi la luce. Non si ferma qui il cammino della luce: in un primo momento essa, come elemento divino, entra nell’esistenza dell’uomo che si lascia pervadere da lei, trasforma la sua vita, le sue convinzioni; oppure al contrario, se la rifiuta, le tenebre diventano ospiti dell’uomo, ispirando le sue scelte secondo i valori del padre delle tenebre. Così in Giovanni: di nuovo Gesù parlò loro: <<Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita (Gv 8,12), oppure nel vangelo di Luca: Bada dunque che la luce che è in te non sia tenebra (Lc 11,35). Il discepolo di Cristo partecipa della luminosità di Dio, come Mosè scendendo dal monte portava il riflesso della sua gloria: Gli Israeliti, guardando in faccia Mosè, vedevano che la pelle del suo viso era raggiante. Poi egli si rimetteva il velo sul viso, fin quando fosse di nuovo entrato a parlare con lui (Es 34,35). Il grande mediatore tra Dio e il suo popolo comunica la luce della Rivelazione perché è stato in comunione con la sua stessa fonte. Il popolo è illuminato nelle sue scelte tramite questo profeta. Ma quando la Luce viene nel mondo, nonostante che le tenebre tentino di opporsi, è tutto il mondo che viene irradiato dalla sua presenza. Ogni uomo che accoglie questo splendore ne viene trasformato, ma la forza della luce è tale che la stessa persona diventa ospite della luce, l’uomo diventa figlio della luce, che nel linguaggio semitico indica l’appartenenza al suo mondo: Mentre avete la luce credete nella luce, per diventare figli della luce (Gv 12,26). Chi è portatore di una verità così potente è da essa trasformato e diventa lui stesso luce. Non è arroganza allora attribuire al credente una qualità che è propria di Dio, a condizione che egli non se ne appropri o se ne glori come di un bene personale, invece di richiamarsi alla sua sorgente: ogni buon regaloe ogni dono perfetto viene dall'alto e discende dal Padre della luce (Gc 1,17). Occorre essere consapevoli della responsabilità per non tradire un ministero di annuncio che richiede, perché Dio la richiede, la mediazione della nostra vita: Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli (Mt 5,16). Diventa allora necessario che il credente si confronti con le esigenze della luce, perché la sua presenza nel mondo non risulti svuotata da ogni senso. Come Gesù, luce del Padre, anche il cristiano è chiamato a illuminare, si potrebbe dire, di luce riflessa il mondo. Si comprende allora la continuazione del testo della prima lettera di Giovanni e le sue esigenze etiche: Se diciamo che siamo in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, mentiamo e non mettiamo in pratica la verità. Ma se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri, e il sangue di Gesù, suo Figlio, ci purifica da ogni peccato (1,6s). Non si può dire di essere uniti a Dio (e a Cristo), se le nostre azioni non sono trasparenza della Sua realtà: la comunione con Cristo richiede che le nostre opere siano opere della luce, come si legge ancora nel Vangelo di Giovanni: E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere. Ma chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio (Gv 19,21). Le nostre azioni sono così condizione ed effetto dell’irruzione della luce nella nostra vita. Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli (Mt 5,14-16). Possiamo allora in verità sentirci dire: La verità della nostra esistenza è di essere luce; non si tratta di un’esortazione o di un comando da parte del Signore Gesù, ma di una caratteristica da lui stesso dichiarata coessenziale all’essere suoi discepoli. Aveva appena affermato: voi siete il sale della terra (Mt 5,13). Il credente è ciò che dà sapore alla convivenza umana, le svela il senso del suo esistere, fa sì che la vita dell’intera umanità sia un’offerta gradita al Padre. Ora la ministerialità dei credenti viene espressa con la categoria della luce. Non si tratta di essere luce solo per la propria casa, per la propria cerchia di amici o per la comunità: la luce dei discepoli è per il mondo. Senza avere quella connotazione negativa che troviamo nel Vangelo di Giovanni, anche Matteo si riferisce al mondo quando vuole indicare ciò che è destinato a finire. In questo contesto imperfetto e temporaneo i discepoli sono la luce. È appena terminata la proclamazione delle beatitudini con l’annuncio della pienezza della gioia per chi fa le scelte del Maestro, l’umiltà, la povertà, la passione per la giustizia, la mitezza… e subito i discepoli sono proiettati nel mondo, nella storia: voi siete il sale della terra… voi siete la luce del mondo… Il mondo ha bisogno di sapore, di senso, come ha bisogno di illuminazione per comprendere la chiamata del Padre. La stessa vita del credente è un faro che orienta il cammino dell’umanità. Dietro alla città collocata sopra un monte non è difficile scorgere Gerusalemme, perché la sua posizione geografica la distingue da ogni altra città. Tuttavia al lettore di Matteo, che conosce la Bibbia, immediatamente viene alla mente anche il testo di Isaia (2,2s): Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà eretto sulla cima dei monti e sarà più alto dei colli; ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno: <<Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci indichi le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri>>. Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore. Il monte del tempio (= della casa) del Signore è il monte Sion, centro del centro del mondo che è Gerusalemme, perché luogo santissimo della dimora di Dio, quello che lui ha scelto; ora sul monte, nuovo tempio della gloria di Dio, Matteo indica i credenti in Cristo. Sono loro a diventare una luce di attrazione per gli uomini. La visione di Isaia è già universale (tutti i monti, tutti i colli), come se lo sguardo si allontanasse, oltre che nel tempo anche nello spazio; anche così, da lontano, Sion emerge e diventa oggetto di un movimento centripeto: da tutto il mondo, tutte le nazioni pagane salgono verso Sion. La nuova Sion ora è la chiesa, la comunità di coloro che hanno accolto la luce di Cristo e sono diventati sue lampade, a condizione che a brillare siano le opere buone. Non si tratta certo solo delle opere di misericordia, anche se a queste ultime Matteo riserva un’attenzione particolare (25,31-46); la sua espressione siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste (5,48) ci conferma che la prospettiva è ben più ampia. Un testo di Qumran più o meno della stessa epoca sviluppa la concezione corrente nel giudaismo. L’autore afferma di aver scritto la sua opera per condurre i membri della comunità a fare il bene e ciò che è retto davanti a Lui (…), nonché ad amare tutto ciò che Egli ha scelto e a odiare tutto ciò che ha rifiutato, ad allontanarsi da ogni male e a dedicarsi a tutte le opere buone, a praticare la giustizia e il diritto sulla terra (1 QS 1,2-6). Anche alcuni testi del Nuovo Testamento confermano questa impressione: Fate tutto senza mormorazioni e senza critiche, perché siate irreprensibili e semplici, figli di Dio immacolati in mezzo a una generazione perversa e degenere, nella quale dovete splendere come astri nel mondo, tenendo alta la parola di vita (Fil 2,14-16); oppure La vostra condotta tra i pagani sia irreprensibile, perché mentre vi calunniano come malfattori, al vedere le vostre buone opere giungano a glorificare Dio nel giorno del giudizio (1 Pt 2,12); o anche: Esorta ancora i più giovani a essere assennati, offrendo te stessocome esempio in tutto di buona condotta, con purezza di dottrina,dignità, linguaggio sano e irreprensibile, perché il nostro avversarioresti confuso, non avendo nulla di male da dire sul conto nostro(Tit 2,6-8). "Voi siete la luce del mondo", il Signore ci chiama luce del mondo perché Lui è Luce, Egli non ha paura di dire a ciascuno di noi che siamo luce del mondo. noi siamo luce per tutti, siamo luce del mondo, non dei buoni, dei cristiani, di quelli che ci stanno, ma del mondo intero, siamo il senso della storia e portatori della unica vita. La Luce permette alla terra di non marcire e di produrre vita. Il coraggio di annunciare la Luce salva l'umanità, i credenti infatti si pongono in una condizione di società alternativa, di pensare che di fronte ad una società che privilegia il successo, l'efficacia, l'effimero in provvisorio, il godimento, la potenza, la vendetta, il conflitto la guerra propongono i valori della Luce cioè la pace, il perdono, la misericordia, la gratuità, lo spirito di sacrificio, la croce di salvezza. "Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini": Gesù vuole che compiamo il bene per se stesso, senza cercare gratificazioni, soddisfazioni, compensi. Tuttavia il bene fatto non può non riverberarsi intorno. Abbiamo la responsabilità di essere luce, non per essere noi al centro, ma per mettere in rapporto con la Luce-Parola. Ci dice che siamo luce per gli altri quando vogliamo vivere il Vangelo e quando siamo decisi ad essere discepoli, siamo il nutrimento degli altri quando compiamo le opere evangeliche. Possiamo dire che la Luce di Cristo è una "Forza transitiva" che passa da Lui allo Spirito, dallo Spirito a noi. La Luce apparsa con la incarnazione della parola continua a brillare e risplende come Luce di Cristo. Dopo la sua morte e risurrezione questa Luce-parola-Cristo si rende presente con e nello Spirito, come se fosse una identificazione fusionale e dinamica tra lo Spirito e la parola. È significativo che all'interno dei "discorsi di addio" nel Vangelo di Giovanni, Gesù presenti lo Spirito come "l'altro paraclito", altro perché il primo è Lui. Lo Spirito è inoltre detto "di verità", e questa verità è Cristo (cfr Gv 14,6). Lo Spirito allora, dicendo Cristo, porta a pienezza di comprensione la luce-verità di Cristo: "vi condurrà alla verità tutta intera", lo Spirito diventa così guida e garante del cammino della Luce nei credenti. Tutto ciò che lo Spirito fa è unire a Cristo, esso illumina e rende luminosa la vita dei credenti. Va ricordato però che come già quella di Cristo, quella dello Spirito non è una pura illuminazione concettuale, ma una trasformazione interna di vita che comporta una esistenza da figli della luce. È opportuno quindi sottolineare l'aspetto trasformante della Luce-Spirito, ricorrendo alla descrizione usata da Paolo fa nei suo scritti, rendendo evidente che essere/vivere nello Spirito (Luce) significa essere/vivere nell'amore; l'agape è il faro che risplende come contrassegno della presenza di Cristo e del suo Spirito. Questa Luce/amoreè davvero la città sul monte, visibile per la sua collocazione, la lucerna sul candelabro che risplende. La contraffazione della Luce appare dalle opere delle tenebre che dicono e fanno tutto ciò che è opposto all'amore. Non conviene autodefinirsi illuminati e illuminatori, è la presenza dell'agape, operante o no in noi, a manifestare la nostra identità. L'Unitalsi si propone di essere questa visibilità della luce, cioè visibilità dell'amore che si fa attenzione, cura, presenza, affiancamento, pazienza. A noi non è richiesto di non sentire la pesantezza, l'affanno, il disagio dell'impegno, ciò che conta è l'amore che è appunto incarnazione. Questo, per essere tale, non deve essere un volontarismo, ma un lasciarsi trasformare dalla luce di Cristo. L'operatore Unitalsi sa bene che quello che conta non è quello che fa, ma come lo fa. Mettere il cuore nel servizio dei fratelli bisognosi non con l'atteggiamento efficientista di chi pensa di risolvere i problemi, ma solo con la certezza di desiderare di amare come Lui ci ama, alleviando la realtà più triste del malato, cioè l'isolamento, per vivere insieme, anche nella sofferenza, l'espressione dell'amore trinitario, che è comunione, ascolto, accoglienza vicendevole, disponibilità all'altro. Per comprendere meglio il linguaggio dell'amore cioè il linguaggio dello Spirito, possiamo rifarci a quanto Palo dice nel c. 13 della prima lettera ai Corinti. Scrivendo a questa comunità lacerata all'interno dai conflitti per il primato dei ruoli e dei doni fino al punto divisione della medesima, Paolo invita a prendere in considerazione il dono più grande, quello della carità. Nel c. 13 ci presenta il più bel canto dell'amore, divisibile in tre parti: la superiorità della carità (vv. 1-3); le opere della carità (vv. 4- 7); l'eternità dell'amore (vv. 8-13). Egli afferma anzitutto (cfr 13,1-3) che il dono delle lingue, la profezia e la conoscenza dei misteri, tutta la scienza e la fede da trasportare le montagne, la distribuzione dei beni e la prontezza al martirio sono niente senza la carità(13,1b.2d.3c). È questa un'intuizione profonda, alla quale Paolo sembra giunto per grazia divina, del resto è questo l'insegnamento di Gesù. Poi espone le qualità della carità, presentando nella seconda parte (13,4-7) le qualità della carità. Da notare che essa non può essere resa in una formula, viene invece descritta con 14 verbi (il doppio di 7) a dire che la carità è un mistero, è Dio, è indefinibile, ma non intangibile; essa è infatti reale e concreta. Due qualità sono in forma positiva, pazienza e benignità; otto in forma negativa: non prova invidia, vanità, orgoglio, disprezzo, egoismo, ira, rancore, sadismo. Può sembra una presentazione al negativo, ma questo significa che per Paolo l'amore anzitutto non opera il male in nessuna delle sue espressioni. E, messo alla prova, l'amore si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera tutto sopporta. Infine nella terza parte Paolo canta l'eternità dell'amore. Non è la poesia di un sognatore, è l'evidenza realista di un innamorato che contempla l'infinito amore di Dio.Si afferma quindi che tutto è destinato a sparire, tranne la carità perché non avrà mai fine. Ciò dipende dal fatto che gli altri doni, la profezia e le lingue, dipendono dalla nostra condizione attuale. Poiché ora la nostra conoscenza è imperfetta, così anche la profezia. Quando raggiungeremo la perfezione, ciò che è imperfetto scompare (13,8-10). Poiché si tratta di conoscenza delle realtà divine, usa un esempio per farsi capire. A ogni età della vita corrisponde un grado di conoscenza (13,11), così anche per le età della fede. Ora vediamo come in uno specchio, cioè non abbiamo una conoscenza diretta della realtà di Dio, ma solo riflessa nelle cose e nei simboli della fede; allora vedremo faccia a faccia (13,12a). Perciò ora la conoscenza è imperfetta, allora sarà perfetta. Conosceremo direttamente Dio, così come ora siamo conosciuti da lui (13,12b). Ad una comunità ubriaca dell'apparire e dell'emergere come personalismo autoesaltante Paolo afferma, senza mezzi termini, che senza la carità anche gli altri doni dello Spirito sono niente e perfino le azioni più eroiche non hanno alcun valore. Cita il parlare le lingue degli uomini e degli angeli, la profezia, la fede che trasporta le montagne, la conoscenza dei misteri e tutta la scienza, la generosità totale, l'eroismo fino alla morte. Tutto ciò non giova se uno non ha la carità. Questo può significare che tutti gli altri doni dello Spirito hanno il loro scopo nella carità sono, cioè, in funzione della carità e devono tendere a produrre la carità. Se manca la carità, non raggiungono il loro scopo e quindi non giovano a niente. Non compiono il servizio per cui sono dati dallo Spirito. Nel tratteggiare questo volto dell'amore Paolo pensa al volto di Cristo nella consapevolezza che la carità è un mistero, è Dio, è indefinibile, ma non intangibile, essa infatti è tanto reale e concreta da poter essere riassunta nella frase finale del v. 7: la carità copre tutto, crede tutto, spera tutto, sopporta tutto. Da ciò risulta che la fede e la speranza sono funzioni della carità. Ma quale è lo scopo della carità? Condurre anticipatamente alla conoscenza diretta di Dio, cioè alla visione faccia a faccia, come si può dedurre dalle affermazioni di 13,8-13. La carità non viene meno, non può venire meno, perché è l'amore che unisce colui che crede a Dio. Di conseguenza tale amore non può mai finire, perché proprio questo amore concede a chi crede la partecipazione alla vita di Dio, in cui ha creduto e sperato. La comunità di Corinto aveva le sue difficoltà, nell'esplicitare il nostro impegno noi dell'Unitalsi registriamo tante limitatezze umane, ma la Parola di illuminazione ci dice che il vero problema che spesso neanche consideriamo, è la mancanza di carità. È la mancanza di carità a rendere difficile ruoli e relazioni, eppure nonostante tutto le stesse situazioni scabrose hanno il senso provvidenziale di far scoppiare l'amore. È questo il formidabile messaggio di speranza che Paolo ci consegna, ed è questo che noi ci vogliamo ricordare nel concretizzare il dono della fede e della speranza. L'amore è davverosempre vincente, anche se al momento non appare, perché rimane in eterno mentre tutto il resto passa. Dunque, ciò che si è fatto per amore non avrà mai fine, pur se in questa vita non verrà riconosciuto. Questo ce lo vogliamo ricordare fraternamente in continuazione, per questo vogliamo vivere ed operare come Gesù a favore dei poveri, dei malati, dei carcerati, di coloro che non hanno voce se non la voce di chi li ama, e per noi questa voce dell'amore è anzitutto Gesù.