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INTERVISTA A GASTONE MOSCHIN :: Venerdi, 11 maggio 2007
di Arnaldo Casali
E’ stato don Camillo dopo Fernandel e prima di Terence Hill e uno dei leggendari “Amici miei”, ma anche il
vescovo di Don Matteo e il nonno di Sei forte maestro.
Gastone Moschin ha segnato con la sua aristocratica eleganza la storia del cinema italiano degli ultimi
quarant’anni, attraversando con i suoi caratteri ogni genere della settima arte, dai capolavori indimenticabili ai
momenti più leggeri. Nella sua filmografia figurano Tiro al piccione e Rimini Rimini 2, Paolo il caldo e
L’erotomane, e ancora Il delitto Matteotti, Signore e signori, Il Padrino parte II, Il conformista, Donne con le
gonne, e I soliti ignoti passando per Fiorina la vacca e Il leone del deserto.
Con più di cinquant’anni di carriera alle spalle, Gastone Moschin ha lavorato in alcune pietre miliari del
cinema, il teatro e la televisione. Il pubblico, però, continua ad identificarlo con il Melandri di Amici miei. E’ il
destino dei grandi successi, e Moschin non se ne rammarica. Anzi, alla platea che lunedì 8 maggio lo ha
accolto al Fedora per l’inaugurazione del Festival Cinema è/& lavoro, che lo ha visto nella veste di presidente
di giuria, ha regalato ghiotte curiosità sulla lavorazione di un film diventato uno dei film-culto del cinema
italiano.
“Quando abbiamo girato la celebre scena alla stazione di Amici miei, Monicelli non aveva avvisato le
comparse che stavano sul treno di cosa li aspettava. Solo aveva raccomandato loro di sporgersi bene per
salutare. E noi li riempivamo si schiaffi. Il problema è che al secondo ciak tutti tiravano indietro la testa”.
Amici miei si ispira ad una storia vera. Quale?
“La sceneggiatura era nata dal racconto che ci aveva fatto un architetto, che è poi proprio il personaggio
che interpreto io. Tanto che una volta mi ha telefonato il vero marito della donna che il mio personaggio
vuole sedurre, dicendomi: vuoi mia moglie? E allora prenditi pure i figli!”.
E’ vero che Spielberg aveva opzionato il film per gli Usa?
“Sì, perché nel 1975 Lo squalo era primo in tutto il mondo, tranne che in Italia, dove c’eravamo noi. Quando
l’ha visto, però, non ci ha capito niente e ha rinunciato”.
Un’altra delle scene più celebri del film è quella dell’esecuzione del Vaffanzum.
“Abbiamo girato la scena a Pistoia. Anche in quel caso le comparse non erano state avvertite, anzi,
fu raccomandato a tutti di venire con vestiti da sera, molto eleganti. Quando abbiamo cominciato a
cantare vedevamo la gente impallidire”.
Ci sono mai stati attriti con gli altri protagonisti?
“No, eravamo davvero molto affiatati. Sul set si respirava un’atmosfera davvero goliardica,
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zingaresca. Si partiva alle 8 di mattina in auto con Monicelli cantando a squarciagola. L’unico
dispiacere c’è stato quando la produzione ha deciso di sostituire Del Prete con Montagnani. Anche
se pure con Renzo ci fu poi grande affiatamento”.
C’è qualche film a cui tiene molto e che è stato dimenticato?
“Tante cose che ho fatto sono affogate nel tempo. Ma ad esempio la mia interpretazione in Porzus
era una cosa notevole. Si tratta di un film che racconta la vicenda di alcuni partigiani - tra cui il fratello di
Pasolini e il cognato di De Gregori - uccisi da altri partigiani, durante la secoda guerra mondiale. Un
personaggio molto difficile, per il quale ho creato tante sfumature, alcune delle quali si sono perse, per
volontà del regista. Il film sarà criticabile però la cosa a cui tenuto molto farla. Ecco, questa non ha avuto
nessunissimo riscontro. Poi ci sono film che non ricordi. E spesso non li ricordi perché li hanno dimenticati gli
altri e allora li dimentichi anche tu. La lista è lunga. Più che altro, comunque, le cose che ricordo in modo più
vivo sono quelle che ho fatto in teatro e anche in televisione”.
Lei ha lavorato con tanti registi. Chi le ha insegnato di più?
“Non saprei. I registi italiani non sono dei maestri, non ti dicono mai quello che devi fare, per questo è molto
importante arrivare sul set preparato”.
Con Germi, che l’ha diretta in Signore e signori, come era il rapporto?
“E’ stato un incontro straordinario, un rapporto di affetto e di stima reciproca”.
E’ vero che era il terrore degli attori?
“Sì, uno lo fece piangere in mezzo alla piazza. Questo perché lui pretendeva che gli attori
conoscessero la sceneggiatura a memoria, invece molti attori imparano brevi frammenti scena per
scena. In questo caso c’era un carrello piuttosto lungo. L’attore in questione iniziava a recitare e poi
si bloccava perché non ricordava le battute. Al terzo Germi è sbottato”.
Lei invece è sempre stato estremamente preciso.
“Io imparavo tutto, anche i fiati. Tanto che una volta, in sala di doppiaggio, non riuscivo ad andare in
sincrono e non capivo perché. Germi ride e poi mi fa: ti ho tolto un respiro”.
Lei ha recitato in tantissimi dialetti italiani.
“E non solo italiani. Ho recitato persino in greco. Beh, bisogna prepararsi un po’ per imparare.
D’altra parte l’attore deve rubare osservando la realtà”.
Ha lavorato anche in America, con Francis Ford Coppola. Che differenza ha trovato rispetto all’Italia?
“C’è più libertà. Lì non ti vengono a prendere con la macchina, ti fanno prendere il taxi. E poi la
grande organizzazione. Quando sono arrivato sul set del Padrino mi sono detto: come è possibile che
questa città sia rimasta intatta dagli anni ‘30? Non mi ero accorto nemmeno di essere sul set di un film”.
Il modo di dirigere gli attori dei registi americani è diverso?
“Non molto. Bertolucci, nel Conformista, mi aveva lasciato la massima libertà. Coppola fece lo stesso.
Non mi diede nemmeno un’indicazione. Anzi, una volta mi chiese: secondo te Bertolucci come la farebbe
questa scena?”
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Coppola l’ha anche citata come modello di attore italiano.
“Sì, in una pubblicazione sul Padrino ha scritto: agli attori italiani non sono come i nostri, non c’è bisogno
che gli dirgli niente, fanno tutto da soli. Moschin doveva fare una scena in un bar. E’ entrato, ha ordinato un
caffè e se l’è bevuto. Tutto da solo!”.
Nel 1972, interpretando don Camillo ha dovuto raccogliere un’eredità difficilissima...
“No, per fortuna non ho dovuto raccogliere nessuna eredità. E questo è il bello: io ho fatto il don
Camillo secondo i miei criteri e la mia ispirazione. Non sono voluto entrare in rivalità con un comico
straordinario come Fernandel. Sarebbe stata un’impresa impossibile, e poi io non sono un comico.
Lui ha avuto un approccio da comico, io da attore. Ho dato al personaggio un tono più realistico,
ispirandomi a parroci di campagna che conoscevo”.
Anni dopo si è poi trovato a lavorare con un altro attore che ha fatto don Camillo, Terence Hill. Avete
mai parlato di quest’esperienza comune?
“No. D’altra parte credo di aver visto il suo Don Camillo ma era una cosa molto distante dall’autore.
Quello che ho fatto io, invece, anche se non era il più bel romanzo era comununque tratto da Guareschi,
invece l’altra era una libera interpretazione”
Un’altra sua grande interpretazione è stata quella di Donne con le gonne di Nuti.
“Anche lì sono arrivato preparatissimo. Gli ho sparato il mio monologo tutto di fila. E Nuti non ha
detto una parola. Dovevo girare tre giorni. Ho finito tutto in una giornata”.
Come è nato in lei il desiderio di fare questo lavoro?
“Fin da ragazzino. Vedendo uno spettacolo di attori girovaghi che facevano l’Otello. Una compagnia
modesta, ma con un entusiasmo enorme. Mi dissi, che bella professione sarebbe”.
Lei ha interpretato grandi capolavori, ma anche film, cosiddetti di ‘serie B’. Ha vissuto con spirito
diverso queste esperienze?
“Certo. Te ne rendi conto, quando stai facendo qualcosa di importante. Ma la più grande differenza,
devo dire, è che in queste pellicole più leggere il regista è sempre molto più esigente. Per un motivo
molto semplice: ci sono meno soldi, quindi non si può sprecare la pellicola, e allora il primo ciak deve
essere quello buono. E la parte, la devi sapere bene”.
Di solito gli attori che fanno teatro tendono a sottovalutare il cinema. Fino ad oggi tutti mi hanno
detto: il teatro è mio, il cinema è del regista...
“Sicuramente è vero, perché in fondo l’interpretazione cinematografica deve accontentare troppa
gente - il produttore, il regista, il fotografo - e allora non ti appartiene del tutto. L’approccio con il
personaggio, però, io l’ho sempre imposto”.
Tanti attori, invece, tendono a prendere il cinema sottogamba. Arrivano, dicono la battuta e se ne
vanno.
“Così sanno poco la parte. Invece bisogna sempre starci dentro, immaginare anche cosa risponde
l’attore con cui reciti e fare la pausa al momento giusto. E’ una cosa che devi immaginare prima
perché lì non c’è tempo. Arrivi sul set e la parola è: fai presto perché siamo in ritardo”.
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Bonacelli, quando gli ho citato alcune sue intepretazioni cinematografiche molto importanti, mi ha
risposto: quello l'ha fatto il regista, non io...
“E’ stato modesto. Paolo ha fatto interpretazioni straordinarie, come ad esempio in Fuga di
mezzantote. E’ vero, al cinema non puoi scegliere più di tanto. Il trucco, per esempio, al massimo puoi
suggerirlo. Però puoi suggerire uno sguardo, e sta poi al regista sottolinearlo. E’ un lavoro che ha bisogno di
grande partecipazione. Che poi finisce, certo, nelle mani del regista. Che magari decide di tagliare la tua
parte. Fa parte del gioco”.
D'altra parte il teatro lo fanno gli attori. Al cinema può recitare anche gente di strada, persone che
fanno altri mestieri. Lei invece si è sentito valorizzato, come attore, dai registi con cui ha lavorato.
“Fellini una comparsa la faceva recitare, però gli faceva dire: Avemariapienadigrazia ilsignore èconte.
unoduetrequattrocineuqeseisetteottonovedieci. Poi finiva tutto in sede di doppiaggio. Ma quello non è un
attore”.
Un celebre regista - non ricordo se proprio Fellini o Hitckcock, disse: “Non esistono grandi attori,
esistono solo grandi registi”.
“Hitchcock non ha mai stimato gli attori. Però quelli che amava, li valorizzava eccome. Lui aveva un metodo:
la sua regia era studiatissima, tutti i movimenti di macchina erano studiati. Aveva in testa anche il montaggio.
Nel Il sipario strappato con Paul Newman, ha tagliato due scene importantissime perché non era riuscito a
girarle bene, e questo perché a Paul Newman diceva: la testa tienila ferma, non ti muovere, altrimenti non
posso attaccare questa inquadratura alla scena successiva. Ma Newman, abituato all'Actor's studio, da
questo punto di vista era indisciplinato, non lo assecondava nel suo disegno. Alla fine chi ha la responsabilità
del film è il regista. Sei subordinato a lui”
Si è mai trovato 'spiazzato' dal modo di lavorare di un regista?
“No, anche se certo, ho lavorato con registi molto diversi. Marco Ferreri, per esempio, ti guardavi intorno e ti
domandavi se c’era sul set. Non lo sentivi. Marco Vicario invece ti teneva lì inchiodato, ti faceva fare la scena
trenta volte, perché voleva girare con tutti gli obiettivi, cominciava dal 18 e arrivava al 100”.
E lei, dopo tanti anni di cinema, come mai non ha mai deciso di passare alla regia?
“Perché non ho mai avuto una storia abbastanza urgente da raccontare. Se fai un film da regista devi
farlo per raccontare una storia. Altrimenti è solo un esercizio di stile. L'unica regia che ho curato è
stata teatrale, quella di un doveroso omaggio a Ugo Betti. Un grande artista dimenticato. Tanto
dimenticato che abbiamo dovuto fare questo spettacolo anche senza i fondi del ministero”.
E’ più difficile il dramma o la commedia?
“Senza dubbio la commedia. La comicità è più difficile, perché ha dei tempi ben precisi, ed
un’aderenza alla realtà. I sentimenti fanno velo. Quando reciti la commedia questo velo non ce l’hai.
Con la tragedia sì, perché è un arte che fa leva sul sentimento. Una volta un mio amico stava
recitando Shakespeare, e si accorse che il pubblico si era distratto. Cambiò completamente il testo e
recitò un monologo che non c’entrava nulla, ma con molto pathos. Fu travolo dagli applausi. nessuno
si era accorto di niente”.
C’è un attore a cui ha guardato come modello?
“Ho imparato moltissimo da Enrico Maria Salerno, con cui ho lavorato tre anni insieme in teatro. Lo
giudico l'attore forse più interessante della seconda metà del secolo scorso. decisamente”.
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Tra gli attori più giovani, invece, c’è qualcuno che le piace in particolare?
“Ce ne sono, ogni tanto ne vedo uno. Pierfrancesco Favino, ad esempio, che ha fatto Bartali,, è
bravo. E' bravo, mi piace. Ma ce ne sono molti, certo, bisogna dare tempo al tempo”.
E i complimenti, al giovane Bartali, fresco di vittoria del David di Donatello per Romanzo criminale,
Moschin glie li ha fatti dal vivo vivo. Favino è stato infatti al festival sabato, ospite della serata insieme ad
Anita Caprioli. Durante il suo intervento ha citato proprio Moschin come uno dei suoi maestri. Poi, dietro le
quinte, mentre i due si parlavano, io sono intervenuto citando questa intervista. Davvero ha detto così?" ha
fatto Favino, incredulo. "Certo, perché lo penso" ha risposto Gastone.
I grandi attori non hanno eredi. Ma se un erede bisogna designare, non c'è dubbio che Moschin ha trovato il
suo.
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