Qui - Casa editrice Le Lettere

Transcript

Qui - Casa editrice Le Lettere
ELENA AGAZZI
W.G. Sebald:
in difesa dell’uomo
Le Lettere
Indice
Prefazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p.
7
1.La natura e la Storia. Gli esordi di Sebald
come critico letterario
Le cicatrici di Sternheim . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 15
Sebald interprete di Döblin. Con un excursus sul
rapporto tra Storia e narrazione letteraria. . . . . . . . . . . . » 36
L’erranza e l’impossibile ritorno a casa. Franz Kafka. . . » 61
2.Costellazioni saturnine
Kafka in Italia (Vertigini, 1990). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 73
Le immagini sfocate del passato (Gli emigrati, 1992). . . . » 93
Il tempio di Gerusalemme (Gli anelli di Saturno, 1995) . . »115
3.Emigrati, dispersi
Austerlitz (2001) e il filo spezzato della Storia . . . . . . . . » 141
The Lost (Gli scomparsi, 2006). Dedicato a Sebald
per sei milioni di vittime . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 167
4.L’angelo della Storia
Civilizzazione e distruzione. Conclusioni . . . . . . . . . . . . »175
Bibliografia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »189
2
COSTELLAZIONI SATURNINE
Kafka in Italia (Vertigini, 1990)
Kafka diventa nel corso degli anni Novanta del secolo scorso una
presenza imprescindibile nel­l’opera letteraria di Sebald, che dissemina la propria narrazione di suggestioni tratte dai suoi scritti,
sottolineando momenti di particolare empatia con la personalità
melanconica del­l’autore praghese. Nella gestualità dei personaggi
kafkiani si inscrivono talora le emozioni del­l’Io-narrante, che si racconta come pellegrino e come visitatore di vari luoghi del­l’Europa
in cerca di occasioni di dialogo con la Storia per mezzo di biografie
sovrastate dal­l’ombra delle grandi tragedie del Novecento. La gestualità delle figure di Kafka, valorizzata da Walter Benjamin nel
già citato saggio del 1934 dedicatogli nel decimo anniversario dalla
morte, si concentra in particolare nelle prime pagine di Die Ringe
des Saturn (Gli anelli di Saturno, 1995). Nel­l’incipit del­l’opera si
apprende che l’Io-narrante, qui come in altre occasioni alter-ego di
Sebald, viene interessato da una seria debilitazione fisica per eccesso di lavoro e deve essere ricoverato per degli accertamenti in una
clinica del Suffolk. Tutta la sua attenzione è rivolta a un tratto di
cielo che gli è concesso di contemplare attraverso una finestra protetta da una grata nera, chiaro simbolo della percezione luttuosa
che in quel momento permea la sua esistenza. La contrazione spasmodica del corpo, che impedisce ogni movimento naturalmente
consono a un individuo abituato a procedere in posizione eretta,
coincide con l’annaspare di Gregor Samsa, protagonista di La metamorfosi (1915) durante un risveglio che lo vede improvvisamente tramutato in un repellente insetto. Sulla finestra, che diventa la
74
elena agazzi
meta di un tentativo di evasione dal­l’incubo, viene proiettata la
sensazione di essere preda di una vertigine esistenziale e di essere
di fronte a una realtà totalmente aliena:
Il desiderio, affacciatosi già più volte in me nel corso della giornata, di
potermi riappropriare – grazie a uno sguardo da quella finestra d’ospedale stranamente velata da un reticolo nero – della realtà che temevo scomparsa per sempre, si fece così intenso al calare del crepuscolo
che, dopo essere in qualche modo riuscito, un po’ mettendomi prono
un po’ tenendomi sul fianco, a scivolare giù al letto sul pavimento e a
raggiungere a gattoni la parete, nonostante il dolore che così pativo mi
levai in piedi, reggendomi con fatica al davanzale della finestra. Tutto contratto come una creatura che ha assunto per la prima volta la
stazione eretta, me ne stavo appoggiato al vetro e, senza volerlo, finii
per pensare alla scena in cui il povero Gregor, aggrappandosi con le
zampette tremanti allo schienale della poltrona, guarda fuori dalla sua
stanzina nel vago ricordo, così sta scritto, della sensazione di libertà che
provava un tempo per il solo fatto di potersi affacciare alla finestra. E
proprio come Gregor, che con la sua vista offuscata non riconosceva
più la tranquilla Charlottenstraße, dove da anni abitava con i suoi, e la
scambiava per un grigio deserto, anche a me quella città a suo tempo
familiare, che si estendeva dai cortili del­l’ospedale sino a grande distanza sul filo del­l’orizzonte, pareva adesso totalmente estranea1.
Ma nella prosa sebaldiana una delle figure certamente più ricorrenti è quella del “cacciatore” Gracco, cui è dedicato un racconto
concepito da Kafka mentre si sottoponeva per la seconda volta ad
alcune cure presso il Sanatorio di Riva del Garda2. Esso concerne
1
W.G. Sebald, Gli anelli di Saturno. Un pellegrinaggio in Inghilterra, trad. di A.
Vigliani, Adelphi, Milano 2010, p. 15. D’ora in avanti l’opera viene segnalata nel testo
come AS.
2
«Il significato della reiterazione letteraria del viaggio a Riva del Garda non è
così scarso da poter essere ignorato. Si può quasi dire che i soggiorni rivani abbiano
coinciso con momenti emblematici della parabola umana dello scrittore praghese: la
mitologia del­l’evasione (viaggio a Riva del 1909), la ricerca di un recupero psicofisico
(viaggio a Riva del 1913), la coscienza del­l’irresolubile precarietà della propria condizione esistenziale (viaggio immaginario della morte-vita del cacciatore Gracco)»; A.
Tonelli, Ai confini della Mitteleuropa. Il Sanatorio von Hartungen di Riva del Garda – Dai fratelli Mann a Kafka gli ospiti della cultura europea, Biblioteca Civica-Museo
Civico, Comune di Riva del Garda 1997, p. 244.
costellazioni saturnine
75
il destino di un personaggio costretto a vagare sulla linea di confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti, ma anche quello di tutti
gli artisti che si presentano nel­l’opera di Sebald. I Doppelgänger
dello scrittore, quegli spiriti che ne guidano le riflessioni e che
evocano le indelebili suggestioni che segnano il suo cammino di
pellegrino in terra straniera, non sono necessariamente figure persecutorie, ma piuttosto le ossessioni letterarie alle quali Sebald volentieri si abbandona. In Vertigini, però, l’ingresso di Kafka sullo
sfondo della narrazione, mediato dal ricordo che anche Stendhal
(pseudonimo di Marie-Henri Beyle, 1783-1842), di cui si parla al­
l’inizio del libro, si recò sul Garda per una gita con una delle tante
donne che corteggiò durante la vita, viene procrastinato, sebbene
l’autore praghese torni in seguito a fare capolino in diversi punti
del­l’opera.
L’immagine di un’incisione che rappresenta un paesaggio alpino in cui ai piedi di monti coperti da una spessa coltre di neve
soldati a cavallo muovono in truppa in direzione di un varco, apre
infatti la prima parte del primo testo in prosa di W.G. Sebald, Vertigini, intitolata Beyle o lo strano fenomeno del­l’amore. La disparità
tra l’inquietante cornice naturale, in cui sullo sfondo le erte pareti
rocciose delle Alpi simili alla corporatura massiccia di giganti dominano l’azione che si svolge alla loro base, e la misura insignificante delle figure umane, che incedono in parte in ordine sparso
in groppa ai cavalli, infonde da subito un’idea di smarrimento, ma
anche di agone fra grandezze diversamente date come quella dei
numeri e quella estetica. Questa sfida fra grandezze è facilmente
riconducibile alle riflessioni sul sublime formulate da Kant nella
Critica del giudizio, in particolare quando egli si sofferma nel § 28
sul problema della «natura in quanto potenza». Qui si argomenta
infatti che se «la natura, per essere giudicata dinamicamente sublime, deve essere rappresentata come suscitante timore» e comparata in base alla «grandezza della resistenza», allora si proverà
una gioia particolare sentendosi al riparo dalla minaccia di questa
grandezza incommensurabile, mentre allo stesso tempo ci si farà
incitare «a non riconoscere nella potenza naturale un duro imperio
su di noi e sulla nostra personalità, al quale dovremmo piegarci».
La formula di Kant è pertanto che «La natura qui non è dunque
chiamata sublime se non perché eleva l’immaginazione a rappre-
76
elena agazzi
sentare quei casi in cui l’animo può sentire la sublimità della propria destinazione, anche al di sopra della natura»3.
Un uomo che ha risposto imperiosamente a questa sollecitazione
è stato Napoleone, che rappresenta una pietra miliare delle riflessioni di Sebald sulla Storia, sulla memoria del pensiero d’Occidente
e sulla catastrofe. Napoleone è per Sebald l’iniziatore di un sogno
europeo in cui si sarebbe dovuto fare di un disordinato continente
qualcosa di «più ordinato, di più regolato, estremamente organizzato e dotato di estremi poteri»4, utilizzando grandi masse di uomini e
di armamenti a costo di determinare spaventosi spargimenti di sangue, di distruggere intere foreste al fine di costruire navi da guerra e
di aprire un varco a quella cultura del sangue e della conquista del
territorio di cui i nazionalsocialisti sarebbero stati i più attivi corifei.
Napoleone rappresenta per lo scrittore tedesco la cifra di una mentalità imperialistica che ha segnato il destino della Germania con notevole ritardo rispetto ai grandi schemi politici internazionali; essa ha
assunto un ruolo egemone a partire dalla battaglia di Sedan (1870),
la «guerra di distruzione guidata dal Feldmaresciallo von Moltke»,
che consacrò l’inizio del Secondo Impero Germanico.
I trentaseimila uomini, fra i quali vi era Stendhal, che discesero
dal Gran San Bernardo nel 1800 per combattere contro le truppe
3
Le citazioni sono tratte dall’edizione: I. Kant, Critica del giudizio, a cura di A.
Gargiulo, Laterza, Bari 1982, pp. 111-113.
4
«Non considero la catastrofe causata dai tedeschi, per quanto spaventosa essa
fosse, come un caso unico – essa si è sviluppata con una certa logica dalla storia europea e in seguito, anche per questo motivo, essa è penetrata in modo erosivo nella
storia d’Europa. A ragione di ciò, tracce di questa catastrofe sono visibili nell’Europa
intera, sia che esse si trovino a Nord della Scozia, o in Corsica o a Corfù. Ciò che vi
stava dietro, era il sogno della politica di potere – inseguito al più tardi da Napoleone –, di fare di questo continente europeo assai caotico un continente molto più
ordinato, regolamentato, organizzato ed estremamente potente. Ed è naturalmente
un’ironia del tutto particolare della storia il fatto che i tedeschi, che per secoli, dalla
fine della Guerra dei Trent’anni, rappresentavano la nazione più arretrata d’Europa,
abbiano fatto propri questi sogni alla fine del XIX secolo e a seguito di questi sogni di
potere si siano incamminati per vie che nessuno voleva, in realtà, percorrere». Questa
riflessione è tratta da un’intervista che Sebald rilasciò a Uwe Pralle poco prima di morire, nel 2001: U. Pralle, “Mit einem kleinen Strandspaten”. Abschied von Deutschland
nehmen. Am 14 November starb der Schriftsteller W.G. Sebald: Ein Gespräch aus dem
Nachlaß über das Wandern, das Graben und das Schreiben, in «Süddeutsche Zeitung»,
22 dicembre 2001.
costellazioni saturnine
77
della Seconda coalizione non si accinsero soltanto ad affrontare
una delle battaglie più spettacolari di cui il primo Console di Francia fu protagonista, quella di Marengo del 14 giugno di quel­l’anno,
ma prima di tutto a organizzare «un’impresa che fino a quel momento veniva ritenuta praticamente impossibile»: lo spostamento
di un simile numero di soldati, accompagnati da pesanti cannoni,
altri armamenti e vettovaglie di ogni genere attraverso una delle
zone più impervie d’Europa.
La vita di Stendhal viene fortemente segnata da quel­l’esperienza,
giacché egli decide di arruolarsi nel­l’armata di Napoleone, ma senza essere poi direttamente coinvolto nel­l’episodio più cruento di
quei mesi. Il terribile scenario di morte, che gli si dischiude davanti
agli occhi quando il 27 settembre del 1801 visita l’ampia spianata
vicino a Tortona in cui hanno perso la vita migliaia di uomini, gli
procura un grave senso di vertigine, perché finora la fanfara gloriosa della vittoria napoleonica ha principalmente coperto nell’immaginazione popolare le urla disperate dei morenti durante il fragore
della battaglia.
Sebald descrive quest’uomo dalla fervida fantasia e dalla vita votata alla ricerca del­l’amore perfetto proprio come colui che «prova
un senso di sollievo» nel sentirsi al riparo dalle gravi minacce che
l’“incommensurabilmente grande” riserba agli individui sopraffatti
da un senso di sublime, ma che non trova mai pace, perché passato,
presente e futuro si affollano nella sua mente. Il suo incontrollato
desiderio di vivere ogni esperienza fino in fondo lo porta a compensare le delusioni amorose e il suo senso di inadeguatezza abbandonandosi tra le braccia di una prostituta, che un anno dopo dal suo
arrivo a Milano gli trasmette una malattia venerea. Il naturale stato
di esaltazione della sua mente si mescola da questo momento in poi
con attacchi febbrili che solo cure specifiche riescono a mitigare.
Ma le amanti della buona borghesia non mancano nella vita di Henri Beyle alias Stendhal e chi ne conosce la biografia sa che egli non
esita a porsi obiettivi sempre più difficili, sfidando le ire dei legittimi
compagni delle donne e non solo in astratto, ma talora in duello:
Nello scritto Del­l’amore si racconta di un viaggio, che Beyle dichiara
di aver intrapreso partendo da Bologna in compagnia di una certa
Madame Gherardi, da lui talora chiamata semplicemente la Ghita.
78
elena agazzi
Questa Ghita, che comparirà ancora alcune volte a margine dell’opera tarda, è una figura misteriosa, per non dire fantomatica. C’è motivo
di supporre che Beyle abbia fatto di Ghita un nome in codice per
diverse sue amanti quali Adèle Rebuffel, Angéline Bereyter e non ultima Matilde Dembowski, e che Madame Gherardi, la cui vita, come
egli stesso scrive in un punto, potrebbe facilmente riempire un intero
romanzo, in realtà, a dispetto del­l’abbondante documentazione al riguardo, non sia mai esistita e abbia rappresentato soltanto una sorta
di figura virtuale, cui Beyle è rimasto fedele per decenni5.
L’altra faccia del­l’amore è appunto, come si è detto, quella degli
esiti di improvvidi incontri amorosi che costano a Stendhal un’affezione luetica accompagnata da vertigini, da difficoltà nel deglutire e da gonfiori sotto le ascelle e i testicoli. Non può dunque sfuggire nel corso della narrazione sebaldiana che uno dei temi ricorrenti
è l’abbinamento amore-malattia e scrittura-malattia, che interessa
tanto le vite di Stendhal e di Franz Kafka, quanto quella del poeta
austriaco Ernst Herbeck (1920-1991). Egli fa la propria apparizione nel terzo racconto di Vertigini, intitolato Al­l’estero. Il luogo
in cui il narratore extradiegetico intreccia idealmente i destini di
Stendhal e di Kafka e Riva del Garda. Stendhal, durante una gita,
assiste con Madame Gherardi alla scena che viene raccontata nel
Cacciatore Gracco di Kafka.
Mentre Stendhal, che nonostante la passione per il bel mondo e per gli incontri galanti non esita ad affrontare ogni orrore a
viso aperto (compresa la successiva campagna di Russia alla quale
partecipa nel 1812), Madame Gherardi non regge alla vista di una
bara che viene trasportata da due uomini lugubremente vestiti dalle acque del lago sulla terra ferma. Sebald non chiarisce se l’ansia
di Madame Gherardi si leghi più a una generica sensibilità femminile, che così si esprime a fronte a presagi luttuosi, o alla preoccupazione che, come nella storia di Kafka, l’uomo disteso nella
bara possa aprire gli occhi al­l’improvviso e discutere con i vivi sulla
propria sorte sciagurata:
5
W.G. Sebald, Vertigini, trad. di A. Vigliani, Adelphi, Milano 2003, p. 28 (ed.
orig. Schwindel Gefühle, 1990). D’ora in avanti citato infratesto come V con relativo
numero di pagina.
costellazioni saturnine
79
Subito l’uomo adagiato nella bara aprì gli occhi, si rivolse con un
mesto sorriso e disse: “E tu chi sei?”. Senza dar cenni di stupore,
quel­l’altro abbandonò la posizione in ginocchio e alzandosi in piedi
rispose: “Il sindaco di Riva” […]. “Lo sapevo bene, signor sindaco, ma al primo istante ho sempre un’amnesia totale, mi si confonde
ogni cosa ed è meglio che io domandi, anche se so già tutto. Anche
Lei probabilmente sa che io sono il cacciatore Gracco”. “Sicuro”,
disse il sindaco […]. “Lei è morto?”. “Sì”, disse il cacciatore, “come
Lei vede. Molti anni fa, ma deve proprio trattarsi di moltissimi anni
fa, precipitai da una rupe nella Selva Nera – che si trova in Germania – mentre inseguivo un camoscio. Da allora sono morto”. “Eppure
Lei è anche vivo”, disse il sindaco. “In un certo qual modo”, disse il
cacciatore, “in un certo qual modo sono anche vivo. La barca con
il mio cadavere sbagliò rotta, un giro di timone sbagliato, una svista momentanea del timoniere, una diversione attraverso la mia terra
stupenda; non so bene cosa sia stato, so soltanto che sono rimasto
sulla terra e che da allora la mia barca solca acque terrestri. Così io
che volevo vivere solo tra i monti, dopo la mia morte viaggio per tutti
i paesi della terra”6.
Vertigini è anche un libro delle ossessioni numeriche, del calcolo
delle previsioni e della scoperta di strane coincidenze, che ruotano
intorno a una data e ad anniversari di questa data: il 1913. Nel
1913, infatti, mentre Kafka sta proseguendo il lavoro su Amerika,
pubblica Das Urteil (La condanna) e Der Heizer (Il fochista) e si
mette poi in viaggio, spinto da grande inquietudine, transitando
per Vienna, Trieste, Venezia, Verona, Desenzano, per approdare
infine a Riva del Garda. In Al­l’estero, l’Io-narrante ambienta la
propria esperienza di viaggio nel 1980, ma essa è a grandi linee
ricalcata su quella che l’autore praghese fece molti decenni prima,
in solitudine, tra Austria e Italia. Questo capitolo, come il quarto,
rappresenta un “viaggio fisico del­l’Io-narrante”, mentre il primo e
il terzo seguono il filo delle testimonianze di Stendhal e di Kafka,
ricavati dai diari e dal racconto dei loro spostamenti in terra straniera. La prima tappa a Vienna però richiama alla mente l’ultima
dimora di Kafka, che prima di spegnersi fu degente nella stessa
6
F. Kafka, Il cacciatore Gracco (dicembre 1916-inizio aprile 1917), in Id., I racconti, a cura di G. Schiavoni, Rizzoli, Milano 1985, pp. 380-385, qui pp. 382-383.
80
elena agazzi
clinica in cui è ricoverato Ernst Herbeck, il poeta afflitto da gravi
disturbi nervosi.
Klosterneuburg è la clinica in cui il noto psichiatra Leo Navratil
si è occupato in particolare di casi di schizofrenici che esprimono nella loro malattia una profonda attitudine per l’arte, sia essa
poetica o figurativa. Di questo non vien fatto cenno nella narrazione sebaldiana, ma un anno dopo il menzionato viaggio del­l’Ionarrante venne inaugurato lo Haus der Künstler, dedicato a questi
soggetti, versati in una forma di creatività che può essere ascritta
al­l’Art Brut.
L’insistenza sul rapporto forzato di Herbeck con il mondo militare, prima come manovale in una fabbrica di armi e poi come
arruolato del­l’ultima ora nel 1944 – come si apprende dal breve
profilo biografico tratteggiato dal­l’Io-narrante –, conferma l’impressione che si voglia sottolinearne la fuga da una realtà dettata
dal­l’orrore per la violenza. La sua mitezza gli vale infine un trasferimento in una casa di riposo per anziani, dove si conclude la sua
vita, anche se in realtà sappiamo che questa non è che una proiezione di Sebald, giacché Herbeck è morto l’11 settembre del 1991
nella clinica “Maria Gugging” a Klosterneuburg.
Due elementi caratterizzano l’arte scrittoria di Herbeck: il fatto
che essa esprima Sprachzerfall (disgregazione linguistica) e il fatto
che possa essere definita kleine Literatur, ovvero che sia connotata da una povertà di mezzi materiali che denunciano la debolezza
mentale del­l’artista, ma allo stesso tempo anche la sua indipendenza7. Questa indipendenza e questa estraneità al codice dei comportamenti, tipici degli individui riconosciuti come in possesso di
tutte le normali facoltà mentali, può far sembrare “sovversivo” un
verso apparentemente solo strano, tratto da Sebald da una poesia
di Herbeck: «La sigaretta/ è un monopolio e deve/ essere fumata.
Acciocché finisca in fiamme» (V, 51).
Questo riferimento al fuoco, come molti altri al­
l’elemento
igneo, non è casuale. Il fuoco è sempre segnale di ulteriori associazioni di idee, cui si legano aspetti fobici e rappresentazioni di catastrofi, che in parte hanno segnato la storia della famiglia di Sebald.
7
Cfr. W.G. Sebald, Eine kleine Traverse. Das poetische Werk Ernst Herbecks, in
Id., Die Beschreibung des Unglücks, cit., pp. 131-148.
costellazioni saturnine
81
Il 27 agosto del 1943 il padre di Sebald era appena partito per
Dresda per combattere. Nei pressi della città di Norimberga, che
di lì a poco venne bombardata dal cielo, aveva trovato riparo la madre. Fu proprio allora che la madre constatò di essere incinta. Così
il destino volle che Sebald vedesse la luce il giorno del­l’Ascensione
del 1944 e che un evento singolare ne suggellasse la nascita:
Quando il giorno del­l’Ascensione/ del­l’anno quarantaquattro io venni al mondo,/ davanti a casa nostra stava giusto passando,/ al suono
della banda dei pompieri,/la processione propiziatoria diretta ai campi fioriti/ del maggio. La mamma, sulle prime,/ lo ritenne un buon
auspicio, ignara/ che la costellazione di quel­l’ora/ fosse sotto l’egida del freddo pianeta Saturno/ e che sui monti/ già s’annunciasse il
temporale, destinato/ a disperdere gli oranti e a fulminare uno/ dei
quattro, intenti a portare il baldacchino8.
L’associazione fra le fiamme, che devastano la città di Norimberga,
e il fulmine che colpisce per una funesta congiuntura astrale un
malcapitato, nasce da una vera e propria ossessione/fascinazione di
Sebald, che rinnova il proprio interesse per la plurima simbologia
del fuoco in vari passaggi della sua opera. Il giudizio universale
è annunciato nel­l’Apocalisse di Giovanni tramite il primo Angelo
per mezzo del fuoco, che venne dal cielo e che distrusse prima di
tutto «la terza parte degli alberi e bruciò tutta l’erba verde» (Apocalisse, 8,7). Il senso della fine è fin dal­l’origine collegato al­l’idea
della distruzione per mezzo del fuoco, ma l’Apocalisse è a sua volta
espressione di profezie che, come scrive Frank Kermode in The
Sense of an Ending, «anche se simboliche, possono essere prese alla
lettera: ciò vuol dire che è assai probabile che tutto ciò che avverrà
si conformi a quelle immagini»9.
La coincidenza tra la nascita di Sebald e il giorno dell’Ascensione, in cui riti propiziatori vengono interrotti da un violento
temporale, si ispira alle feste del fuoco organizzate in varie parti
d’Europa durante la Quaresima per scongiurare le calamità natu8
W.G. Sebald, Secondo natura. Un poema degli elementi, trad. di A. Vigliani,
Adelphi, Milano 2009, p. 81. D’ora in avanti citato come SN.
9
F. Kermode, Il senso della fine. Studi sulla teoria del romanzo, trad. di G. Montefoschi, Rizzoli, Milano 1972, p. 20.
82
elena agazzi
rali come la grandine e la siccità10. Tali feste hanno dunque luogo
prima del­l’Ascensione, solitamente nei tre giorni che precedono
la Pasqua.
Il fuoco è associato sia alla dimensione prometeica del­l’inizio
della civiltà, sia al sacrificio, ma diventa anche metafora sessuale,
come argomenta Bachelard nel suo studio La psychanalyse du feu
(La psicoanalisi del fuoco, 1967)11, che compare insieme agli altri
testi dedicati dal francese al­l’interpretazione degli elementi naturali nella bibliografia usata da Sebald per scrivere la sua tesi di dottorato su Döblin. La polivalenza del fuoco continua a esercitare
la propria influenza anche in Nach der Natur (Secondo natura), il
poema pubblicato da Sebald nel 1988, soprattutto nelle qualità di
«demoniaco» – pensando alle fiamme del­l’inferno – e di «purificante», se si pensa al quadro di Altdorfer, Lot e le sue figlie [SN, 3,
I vv. 95 ss.], che compare nella terza parte del poema. In quest’ultimo quadro si celebra un «punto di indifferenza», prodotto dal­
l’incontro tra la procreazione dei capostipiti dei Moabiti e degli
Ammonniti in seguito al­l’incesto che si consuma tra Lot e le figlie,
e la distruzione di Sodoma, capitale dei più turpi vizi (1 Mosé, 19).
Il parallelo con le fiamme che divorano Norimberga al­l’epoca della
nascita di Sebald, nonché il riferimento a una nuova fase della civilità con la fine della Seconda Guerra Mondiale, conferisce a questo
rimando incrociato il significato di un “momento del­l’inizio e della
fine” che potrebbe alludere alla Urszene freudiana.
L’Io-narrante prosegue il proprio viaggio in Italia recandosi a
Venezia. Strani incontri lo attendono qui, ma viene colto anche dalla costante sensazione di essere seguito. La carta carbone delle sue
impressioni veneziane è rappresentata dalle pagine del Diario del
viaggio in Italia (1819) dello scrittore austriaco Franz Grillparzer
(1791-1872), dai racconti di prigionia nelle carceri dei Piombi di
Venezia di Giacomo Casanova e ancora una volta da un substrato
di riferimenti al­l’Antico Testamento:
10
Cfr. J. Frazer, Le feste del fuoco in Europa, in Id., Il ramo d’oro. Studio della
magia e della religione, Bollati Boringhieri, Torino 1990, pp. 712-746.
11
G. Bachelard, L’intuizione del­l’istante. La psicoanalisi del fuoco, con un’introduzione di J. Lescure sulla poetica di Bachelard, Edizioni Dedalo, Bari 1973.
costellazioni saturnine
83
Io stesso quella sera del 31 ottobre – nel bar sulla Riva degli Schiavoni dove avevo fatto ritorno dopo cena – mi ero messo a conversare
con un veneziano di nome Malachio, che aveva studiato astrofisica
a Cambridge e che, come ben presto risultò, guardava a ogni cosa,
e non solamente alle stelle, da un’estrema lontananza. Verso mezzanotte, sulla sua barca ormeggiata al molo, risalimmo la coda di drago
del Canal Grande e, passando davanti alla Ferrovia e al Tronchetto,
uscimmo in mare aperto […]. Il prodigio della vita nata dal carbonio – sentii dire a Malachio – si consuma tra le fiamme. Il motore
ripartì, la barca si alzò di prua sul­l’acqua e facendo un ampio giro
entrammo nel Canale della Giudecca. Con un cenno la mia guida
mi indicò, dal­l’altra parte, l’inceneritore comunale sul­l’isola senza
nome che si trova a ovest della Giudecca. Un blocco di cemento, immerso in un silenzio sepolcrale sotto un pennacchio di fumo bianco.
Quando gli domandai, se fosse in funzione anche di notte, Malachio
rispose: Sì, di continuo. Brucia continuamente […]. Malachio disse
che, negli ultimi tempi, aveva meditato a lungo sulla resurrezione e
si era domandato il senso della frase secondo cui le nostre ossa e i
nostri corpi verranno un giorno trasportati dagli angeli al cospetto di
Ezechiele […]. La barca accostò. Ci demmo la mano. Ero già a riva
[…]. Malachio fece ancora un gesto di saluto e gridò: Ci vediamo a
Gerusalemme (V, 62-63)12.
La costellazione in cui si colloca questa esperienza veneziana di
Sebald è chiaramente riferita al­l’esaltazione del momento escatologico della venuta del messaggero di Dio, che premierà i buoni e
punirà i cattivi, di cui si parla nel “libro di Malachia”. Ma ancora,
si deve pensare al libro di Ezechiele contenuto nella Bibbia ebraica (Tanakh) e cristiana, in cui si annuncia la vittoria del popolo
d’Israele e la ricostruzione del tempio di Gerusalemme, distrutto
da Nabucodonosor dopo la profanazione nel 586 a.C. Il «silenzio
sepolcrale» e il rimando al fuoco che brucia i corpi, nonché il fumo
alto che si leva dal­l’inceneritore sono indirette allusioni alla Shoah.
A distanza di anni e con sguardo del profeta rivolto al­l’indietro,
l’“astrofisico” Malachio rievoca la persecuzione degli ebrei con
questa macabra descrizione del luogo preposto al­l’incenerimento,
opportunamente collocato in un luogo distante dalle abitazioni, ma
I corsivi sono nostri salvo che negli ultimi due casi.
12
84
elena agazzi
non così lontano da non poterne cogliere la presenza minacciosa.
Questa è l’ultima esperienza serena del viaggiatore nel 1980, prima
che una sorta di invincibile senso di nausea mista ad angoscia lo
induca a lasciare Verona e a ritornare in tutta fretta per la via del
Brennero in Germania. Presagi di morte e strane presenze, come
quella di due giovani dai quali si sente spiato nel giardino Giusti
di Verona – nel loro modo di procedere appaiati simili ad Artur e
Jeremias del Castello di Kafka – rendono ormai insopportabile il
soggiorno a questo straniero dai chiari tratti psicotici, per cui Verona è anche l’ultima tappa di un viaggio che lo riporterà in tutta
fretta al di là delle Alpi, al riparo da emozioni che restano tuttavia
profondamente impresse nella sua memoria.
Sette anni dopo, nel 1987, l’Io-narrante riprende da capo la via
del­l’Italia, compiendo il tragitto da Vienna a Verona, passando di
nuovo per Venezia. In questa coazione a ripetere risulta evidente che non è tanto la percezione individuale delle cose a segnare
il cammino del­l’inquieto pellegrino, ma la profezia che non gli
dà pace neppure a distanza di anni. Nella cappella degli Scrovegni di Padova, in cui compie una breve sosta per contemplare
gli affreschi di Giotto, egli nota soprattutto l’inquietante segno di
disperazione degli angeli che vi sono raffigurati, che hanno occhi
tanto serrati dal dolore che le loro palpebre sembrano cucite. Una
frase echeggia nella mente del­l’attonito osservatore: «Gli angeli
visitano la scena della disgrazia» (V, 82). Nella parte del Libro di
Ezechiele che descrive il “luogo santo” del tempio cherubini e palme si fronteggiano come dipinti posti sulle strutture lignee. Nella
cappella, invece, gli angeli accompagnano con la potente espressione dei loro volti e dei loro gesti il compianto che accompagna
la deposizione di Cristo dalla croce. Sebald intreccia con questo
riferimento il tema del­l’espiazione per i peccati terreni – da un
lato le più recenti atrocità dello sterminio degli ebrei e dal­l’altro
quello secolare per la crocefissione di Cristo – con quello della
propiziazione di un luogo di pace eterna per il quale la cappella fa
costruita. Il padre di Enrico degli Scrovegni si era infatti macchiato della colpa del prestito a usura, così che il figlio volle erigere a
gloria eterna del Signore, in cerca di perdono, tale monumento di
maestosa bellezza.
Come ricorda Henry Corbin nel Paradosso del monoteismo,
costellazioni saturnine
85
tra il mondo della percezione sensibile e il mondo astratto dell’intelletto c’è l’intermondo del­l’Immagine, luogo “dove i corpi si spiritualizzano e gli Spiriti prendono corpo”, luogo del “realismo visionario”
e della manifestazione teofanica. Un mondo, per noi moderni, perduto, ma nel ritrovamento del quale starebbe la possibilità della nostra
salvezza […]. Gli angeli – ai quali è dedicato il saggio “necessità del­
l’angelologia” – sono i necessari mediatori del Dio ineffabile: “gerarchie divine” che integrano, unificano l’Uno e il Molteplice. Senza
di loro, Dio sarebbe puramente inconoscibile o si trasformerebbe in
idolo antropomorfo13.
Subito dopo Verona, la tappa a Riva del Garda riporta di nuovo
l’Io-narrante a un intimo colloquio con Kafka, che ricorda essersi
sentito felice in quei luoghi per aver trovato finalmente una condizione di perfetta beatitudine nella solitudine. In realtà Kafka
sta passando attraverso una tempesta affettiva, avendo in mente
di rompere il legame con la fidanzata Felice Bauer. È proprio nei
Diari del luglio del 1913 che Kafka elenca «tutto ciò che è pro
e contro il matrimonio» e tra le sue note scrive: «Io devo stare
molto solo. Ciò che ho prodotto finora è tutto effetto della mia
solitudine»14. Kafka è tuttavia sempre consapevole di non sopportare la solitudine e ammette che la letteratura rappresenta l’unico
lenimento alle sue pene esistenziali e amorose.
Ciò vale anche per Sebald, benché il gioco di riferimento allusivo al­l’intreccio tra Io-narrante e esperienza autobiografica non
tenda nella sua prosa mai al raggiungimento della mimesi tra il sé
del­l’Io reale e quello del­l’Io fittizio, ma a un’operazione, piuttosto, di mimetizzazione dietro le esperienze dei personaggi da parte
dello scrittore, che lascia trapelare nella sua parola scritta quanto di loro ha letto e ha sentito dire. Che questa operazione, che
si trasforma nella quintessenza stessa della poetica di Sebald, sia
collegabile alla sua natura schiva, ribadita dal­l’esiguo numero di
suoi ritratti fotografici in bianconero che accompagnano le opere in prosa e che lo immortalano in controluce o a tale prudente
13
Cit. da S. Quinzio, Radici ebraiche del mondo moderno, Adelphi, Milano 1990,
p. 164; H. Corbin, Le paradox du monothéisme, L’Herme, Paris 1981.
14
F. Kafka, Diari 1910-1923, vol. I, a cura di M. Brod e con un’introduzione di R.
Cantoni, Arnoldo Mondadori, Milano 1959, p. 291.