Il giovane favoloso

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Il giovane favoloso
“Il giovane favoloso” di Mario Martone
Era un’impresa da far tremare i polsi allestire un biopic su Giacomo Leopardi avendo ben presenti i
limiti tipici del genere, ma progettando il film con una tensione inventiva che ne contenesse i rischi
e tentasse magari di infrangerli facendo leva su una fedeltà non pedissequa, su un verosimile non
timoroso, su una narrazione non costretta dalle date canoniche e dalle stazioni rituali. E Mario
Martone è riuscito a costruire un’opera avvincente, strutturata per Atti racchiusi in unità spaziotemporali, in modo da evitare le strettoie di una scrupolosa ed impacciata cronologia e conferirle un
movimento libero e arioso. Intervallati con misura da inserti esplicitamente onirici e dalla
recitazione di versi in forma di monologo, i blocchi si succedono ubbidendo ad un ritmo fortemente
teatrale.
La solida sceneggiatura elaborata da Mario Martone e Ippolita di Majo per Il giovane favoloso fa
una scelta interpretativa chiara e coerente. Giacomo Leopardi veste da subito i panni di un giovane
ribelle, insofferente della claustrale educazione che gli viene propinata, tenacemente proiettato oltre
le mura del Palazzo avito, desideroso di contatti e dialoghi con chi può capire la furia della sua
ricerca, l’irrefrenabile sete di gloria che lo agita.
L’attacco inquadra un viottolo da cui di lì a poco irromperanno, vocianti, Giacomo, Carlo e Paolina:
tre fratelli accomunati dagli stessi sogni, affaccendati in duelli che simulano eroiche gesta, immersi
nel nebbioso verde dell’infanzia. «Nei giuochi e nelle battaglie romane – confiderà Carlo al Viani a
proposito di Giacomo –, che noi fratelli facevamo nel giardino, egli si metteva sempre primo». Le
parti iniziali su Recanati alternano la calda luminosità di paesaggi ricalcati su passi del poeta a
solenni interni, che intimoriscono per l’aulica severità. È stato un privilegio impagabile avere come
set quelle stesse stanze che per lunghe ore furono rifugio a Giacomo: le pareti traboccano di libri in
bell’ordine, e i quadri coi «figurati armenti» idealizzano una benevola mitizzata natura. Don
Vincenzo Diotallevi sorveglia e impartisce comandi, è sempre alle calcagna con l’occhiuta premura
ispettiva di un precettore che non dà scampo: ha la traballante allure di una macchietta da
commedia buffa. La madre Adelaide è una mummia autoritaria. Il padre Monaldo s’inorgoglisce del
figlio che dà prova del suo precoce ingegno davanti al compassato uditorio dell’Oratorio dei Nobili.
Martone ne esalta l’irruenta generosità e ne addolcisce le asprezze.
Nelle note di regia, dettate per il pressbook diffuso al Lido durante la Mostra del cinema, Martone
precisa che il suo film «vuole essere la storia di un’anima», raccontata «con tutta libertà». La
formula, come si sa, designa un’opera effettivamente progettata – nel 1825 – da Leopardi e non
realizzata. Attribuita ad un tal Giulio Rivalta, eteronimo dell’autore, si sarebbe trattato di un
resoconto autobiografico, incentrato non su fatti memorabili ma nutrito dall’analisi dei moti
interiori di un uomo senza qualità, travagliato dalle «intime vicende di un qualsivoglia animo
umano». Senonché il film è arte eminentemente figurativa e anche quando si prefigga di illuminare i
sussulti psicologici e le fantasie individuali non può far a meno di concretizzarsi in immagini, dando
volti ai protagonisti e voce ai pensieri.
Il giovane favoloso tenta felicemente un equilibrio tra parola e vita, muovendo dalla convinzione –
da discutere e dimensionare correttamente – che di Leopardi si può affermare che «non c’è un suo
rigo che non sia autobiografico». Di qui un ardito parallelismo tracciato dal regista napoletano con
Proust e Beckett. L’anima deve di necessità farsi icona, diventare personaggio e avventurarsi nel
“mondo”.
La società del borgo amato-odiato è messa in scena nei suoi vacui appuntamenti. La piazzetta che si
apre davanti al Palazzo è percorsa da gente laboriosa, echeggia consueti traffici. La morte (30
ottobre 1818) di Teresa Fattorini, la dirimpettaia intravista da Giacomo mentre lavora alla «faticosa
tela» – sarà sublimata successivamente in Silvia – dà l’appiglio ad una pagina intrisa di insistito
patetismo. La distanza delle classi vi è evocata con incisiva discrezione. Quindi si coglie al balzo la
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vicenda della tentata fuga e della richiesta di passaporto candidamente rivolta al conte Saverio
Broglio di Macerata per immettere un inserto di ben giostrata resa drammatica. Non sfuggirà come
l’uso della “Sala dell’Eneide” di palazzo Buonaccorsi sia un modo assai pregnante e puntuale per
mettere in risalto l’affascinante presenza in Leopardi del mondo classico, virgilianamente modulato,
nella fase che precede il primo soggiorno in Roma e il crollo del sistema di stampo russoviano
tratteggiato con totale trasporto. L’irruzione di Pietro Giordani nella silenziosa quiete delle ombrose
stanze di famiglia è anch’essa spunto per uno scambio di battute che consentono, durante una cena,
un’ulteriore teatralizzazione di nascosti conflitti e sottaciute divergenze. Si campisce, a contrasto,
la figura di un grifagno e burbero Carlo Antici, che incarna con altezzoso stile il paradigma di un
ceto voglioso di contrastare un opprimente destino di decadenza.
Con un salto deciso, da Recanati ci si trasferisce quindi in riva d’Arno: a Firenze, dieci anni dopo.
Siamo al secondo Atto. Lo stacco è persuasivo e rivela con quanta sensibilità il film derivi da una
conoscenza approfondita dell’esperienza leopardiana, con quanto fine intelligenza aderisca
all’inquieto peregrinare di un giovane che si trasforma in homme révolté. Giacomo è calato in un
panorama culturalmente molto vivace ed è stretto nelle spire d’una tempesta amorosa dagli oscuri
risvolti. Non era per niente agevole padroneggiare i due piani evitando riferimenti eruditi
inafferrabili per i più e divagazioni sensazionali da intrigante feuilleton. L’incolmabile divario con
la variegata intellighenzia fiorentina è raccontato con proprietà. Dapprima in uno degli affollati
appuntamenti accolti al Gabinetto Vieusseux, a palazzo Buondelmonti, quindi davanti al sinedrio
degli impettiti cruscanti che emettono un’impietosa sentenza: il premio – bandito nel ’30 – al quale
concorrevano le Operette morali era stato attributo al Botta! Non c’è incidente più clamoroso per
documentare la distanza che separava la posizione filosofica leopardiana dal fervido e fiducioso
liberalismo promosso da Giampietro Vieusseux e propagandato dalla sua «Antologia». La
caricatura di un tronfio Tommaseo che se la prende con “l’arrogante mediocrità” di un autore irriso
e sbeffeggiato aggiunge alla carrellata un elemento importante. Il marchese Gino Capponi difende,
piuttosto, un rigido cattolicismo e, se condanna implacabile le idee di Giacomo, è però l’unico ad
esprimersi a favore di un libro che per contenuti doveva apparirgli del tutto inaccettabile. Martone
non può più di tanto soffermarsi su sfumature e atteggiamenti che avrebbero spinto il film verso una
complessa rassegna di ideologie. Rimane semmai appena sfiorata la solidarietà che gli amici di
Toscana ebbero nei confronti di un letterato di cui percepivano la straordinaria grandezza e
compativano la grave penuria di mezzi e le indicibili afflizioni della carne. A Firenze si produce una
svolta profonda: Leopardi, tramite Alessandro Poerio, conosce Antonio Ranieri, un gagliardo
napoletano ventunenne che accoppiava la melanconia dell’esule ad un anticonformistico empito
patriottico. L’insaziabile dandy è destinato a diventare un compagno insostituibile, fino alle ultime
ore. Tra i due si sviluppa una solidarietà che è più di un’amicizia, ed è corroborata da una profonda
consonanza di idee. Martone li immagina entrambi entusiasti a congratularsi, in camerino, con la
fiorentina Maria Maddalena Signorini Pelzet, detta Lena o Lenina, dopo un’applaudita
rappresentazione della tragedia Giovanni da Procida di Giovanni Battista Niccolini, alla presenza
dello stesso Niccolini. La Lena, attrice che aveva conquistato una certa fama oltre che per le sue
lodate qualità drammatiche anche per il reticolo dei suoi rapporti, era corteggiatissima da Ranieri.
Che l’avrebbe poi seguita a Roma trascinando con sé, in un deprecato soggiorno, l’amico. Dal 1830,
proprio l’anno della rappresentazione del Giovanni – soggetto la rivolta dei “Vespri siciliani” per
esplicite finalità nazional-patriottiche –, tra il bell’Antonio e Giacomo si stabilisce un sodalizio che
sopravvivrà ad ogni sospetto. Martone è ellittico: si limita a inquadrare Antonio che esce nudo dal
bagno mentre Giacomo posa appena lo sguardo sul prestante e atletico corpo senza alcuna piega di
morbosità. L’approvazione piuttosto per il lavoro del Niccolini enfatizza il ruolo di una linea
classicistica e laica già sottolineato nel determinante Giordani e rafforza una storicizzazione alla
quale il regista-autore è tutt’altro che indifferente. Non a caso Martone ha richiamato il legame con
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il precedente Noi credevamo invitando a leggere Il giovane favoloso anche come capitolo di
un’indagine sul nostro Ottocento condotta con accanimento documentale.
Ma sullo sfondo di una Firenze mondana e letterata acquista via via risalto lo strano e sbilenco
triangolo che si forma tra Leopardi, Ranieri e Fanny Targioni-Tozzetti. È la fase che si riflette nei
canti accomunati dalla stoica esaltazione di Amore e Morte, deità che sublimano in mitiche figure
un adulto senso di angoscia. L’amara coscienza di essere solo un tramite tra la spigliata Fanny e il
focoso Antonio è accennata con ritegno, come l’affannoso corteggiamento di Leopardi, che nel
dono alla donna dell’autografo di Alfieri manifesta una predilezione che lo coinvolge anche
personalmente. Altro intelligente passaggio che serve a lumeggiare le ambizioni letterarie da
collezionista della dama e la devozione mai sottaciuta di Giacomo verso il fiero astigiano. Così i
vezzi di un costume bohémien – la finestra dell’appartamento preso in affitto dai due inquadra la
cupola del Cestello – s’intrecciano col dolore di una sconfitta che Giacomo avverte definitiva. E
pertinentemente risuona in un’irata battuta ritagliata dalla confessione rivolta a Fanny nella lettera
del 5 dicembre 1831: «Sapete ch’io abbomino la politica, perché credo, anzi vedo che gl’individui
sono infelici sotto ogni forma di governo, colpa della natura che ha fatto gli uomini all’infelicità, e
rido della felicità delle masse, perché il mio piccolo cervello non concepisce una massa felice,
composta d’individui non felici». Per timore di una strumentale annessione alla populistica vague di
moda, la sceneggiatura taglia l’inizio sul secco rifiuto della politica e circoscrive la citazione allo
scherno sulla felicità impossibile delle masse. Il pubblico presente all’anteprima in sala Darsena, al
Lido di Venezia, tributò un caloroso plauso alla recisa affermazione: chi avrebbe mai pensato che
una sentenza stesa in una confidenziale missiva sollecitasse un consenso così immediato e
convinto? Miracoli del cinema. Quindi l’ultima scena nel quadro fastoso e ostile della Roma
papalina. La retorica erudizione e la mania antiquaria sono teatralizzate in un colloquio da incubo
tra l’affranto Giacomo e monsignor Cupis, amico di Monaldo, sviluppando un esile spunto offerto
da una lettera del 22 dicembre 1831: «Fui già da Mons. Cupis, ed egli tornò da me, e mi fece
amorevolezze, pregandomi molto a vederlo spesso, e promettendo di farmi sentire e leggere un
migliaio e mezzo che egli ha tra Sonetti, canzoni e Capitoli di sua fattura, ch’egli vorrebbe poi farmi
rivedere o limare. Questa volta mi ha spaventato talmente, che malgrado il bene che gli voglio e le
gentilezze che mi fa, non ho avuto il coraggio di ritornarci». Un uso quanto mai abile
dell’epistolario. Alle Operette morali Martone attinge immaginando in un’aria da inquietante sogno
un cruciale pezzo del Dialogo della Natura e di un Islandese e, en plein air, un brano del Dialogo
di un venditore d’almanacchi e di un passeggere.
Il terzo grandioso e tragico Atto del film ha per scene la Napoli funestata dal colera. Martone, a casa
sua, si prende qualche libertà in più. E calca la mano su un città vitale e plebea, percorsa da
macchinose processioni. Leopardi vi passeggia solitario, goloso di sorbetti e avido di incontri, siede
in osterie partecipando agli alterchi di avvinazzati clienti. Dove era ben noto e appellato
volgarmente “’o ranavuottolo”, il rospetto. È, la sua, come un’immersione nel popolo –
un’identificazione col popolo – di vaga assonanza pasoliniana. Non disdegna di chiacchierare con
ribaldi in vena di scherzacci, con ragazzi di vita che emanano un imbarazzante fascino. A proposito
del fatto che di tanto in tanto usasse invitarne qualcuno nell’appartamento condiviso con Ranieri e
pretendesse di restar solo in incontri del genere sono state scritte pagine zeppe di compiaciuto
gossip. Martone se la cava egregiamente pensando a una divertita chiacchierata sui Paralipomeni:
ciò che gli consente di aggirare dicerie fantasiose e di accordare uno spazio per quanto esiguo allo
scabroso poema. In una sorta di estrema discesa agli inferi Leopardi è accompagnato da Ranieri in
un lupanare, disegnato alla maniera grottesca del Satyricon felliniano. Da una tenda ad un certo
punto esce un ermafrodita, simbolo del desiderio d’inoltrarsi oltre ogni limite, di abbattere ogni
residuo confine. La costruzione a crescendo culmina nel messaggio testamentario della Ginestra. Il
Vesuvio erutta minacciosamente fuoco di morte. Un sereno cielo sfacciatamente trapunto di stelle è
il sipario che cala sullo scarno melodramma.
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A Venezia il film di Martone ha registrato un’ottima accoglienza. Premi – per quanto valgono – non
ne ha avuti, anche per le difficoltà di comprensione da parte di una scombinata giuria
internazionale. È un film intelligente e sofisticato, che parla molto a chi ha qualche familiarità con
la biografia di Leopardi e può risultare di faticosa decriptazione a chi lo consideri una pur atipica
narrazione: declinata in termini teatrali, debitrice qua e là di un temperato, non imitativo,
viscontismo. Nel giudicarlo bisogna attenersi a quello che è. Gli studiosi di Leopardi saranno
inevitabilmente portati a chiosare, precisare, prendere le distanze o consentire, ma un prodotto esige
di esser valutato per le potenzialità espressive che può offrire, per i risultati che consente. Guai a
pretendere di vedere il proprio film o a dettarne un rifacimento a proprio gusto.
Si fa critica di ciò che è stato fatto, tentando di penetrare negli obiettivi perseguiti e di soppesare gli
effetti ottenuti. Innegabile è l’efficacia didattica e il prudente rigore della scrittura. L’intera
orchestrazione merita un autentico consenso. Del resto Martone aveva già dato prova della sua
acuta adesione all’universo del pensatore-poeta con la bellissima versione teatrale delle Operette, e
qui conferma che il suo incontro con Leopardi non ha nulla di casuale o esteriore: è filtrato da un
aggiornato armamentario bibliografico e discende da una personale voglia di capire. Qualche
perplessità può manifestarsi. Tutto è troppo bello. Si desidererebbe un racconto più sgualcito, meno
coerentemente “costumato”, meno fluido: non esente da smagliature e lacerazioni. I protagonisti
dànno talvolta l’impressione di muoversi sulla ribalta, con punte di istrionismo che accrescono il
timbro, appunto, teatrale di un’opera comunque riuscita alla grande.
Aggiungo chiose e noterelle esemplificative, in una non professionale recensione per leopardisti. I
dialoghi sono elaborati pescando essenzialmente nell’epistolario e badando a non sbrigliarsi in
improbabili fantasie. Ne deriva spesso una sintassi forbita che ben si sarebbe prestata ad una
recitazione estraniata. L’intarsio delle citazioni è sottile, mirabile, accettabile la stringata antologia.
E non disturbano certi slittamenti cronologici, mai gratuiti. Come quando Giacomo assai dopo il
giugno del ’23 pronuncia le ferme persuasioni confessate allo Jacopssen: «O non bisognerebbe
vivere, o bisognerebbe sempre sentire, sempre amare, sempre sperare…». O come quando viene
ripresa la dolente esclamazione di un disperata lettera da Roma: «Amami, per Dio. Ho bisogno
d’amore, amore, amore, fuoco, entusiasmo, vita» ( 25 novembre 1822). Della lettera più citata, tra le
due uniche pervenuteci tra quelle inviate all’altera Fanny, si è detto, rimproverando un taglio che sa
di accorta e attualizzante censura. Piazzate al punto giusto le energiche parole di protesta indirizzate
a Luigi de Sinner con la vibrante epistola del 24 maggio 1832. Talvolta si estraggono considerazioni
e repliche dalle Operette. E dallo Zibaldone (aprile 1826) è echeggiata la postilla alla Teodicea di
Leibniz che chiarisce quanto sia stato improprio etichettare sotto l’abusata categoria di pessimismo
(variamente aggettivato) un pensiero mobile, aperto a sbocchi di ben diversa radicalità: non mi
sbilancerei, sostiene Giacomo, nell’affermare che «l’universo esistente è il peggiore degli universi
possibili, sostituendo così all’ottimismo il pessimismo: chi può conoscere i limiti della
possibilità?». Il rifiuto della distorcente, e limitativa, etichetta è condensato in una battuta. C’è da
augurarsi che sia afferrata nel suo valore. Pensare che è andata a finire anche nel trailer. Sicché le è
assicurata un’imprevedibile, vastissima circolazione.
Come mettere in scena alcuni versi almeno? Martone ha optato per brevi monologhi che a teatro
avrebbero assunto la forma dell’assólo. Forse non era male staccarli dal resto, distinguendoli con
specifici accorgimenti figurativi.
È lecito prendere (sommessamente) in esame la questione delle verisimiglianze, perché Martone
non trascura affatto lo spinosissimo problema, che risolve ricorrendo a una ponderata analogia
fisionomica e curando con scrupolo le ambientazioni e le architetture. Recanati è ritratta con
coerenza ammirevole. Martone ha sfruttato al meglio la generosità degli eredi Leopardi che gli
hanno messo a disposizione le stanze che in ogni angolo ritengono dettagli e memorie di una vita.
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Ognuno s’è fatto un’immagine di Casa Leopardi, delle relazioni intrattenute da Giacomo, dei salotti
frequentati, delle vie predilette. Venendo ad un’analisi più ravvicinata qualche appunto insorge:
trascrivendolo s’intende solo suggerire esempi di riflessioni o dubbi che non offuscano il giudizio
complessivo. Non è simpatico rivedere le bucce, ma elencare doverosamente crediti e commentare
soluzioni sì: esercizio da praticare più da leopardisti incalliti che da un’ottica da critico
cinematografico – mestiere del resto sempre più improbabile – e riconoscendo a Martone il
coraggio di una ricerca sobria, di rado distratta da una spettacolarità esibita più del necessario.
È doveroso fare un po’di nomi e fermarsi su qualche momento, non per sfoggiare un’erudizione
fuori posto, ma per richiamare astuzie e trovate, tessere lodi e abbozzare rimbrotti. Partendo dal
casting. Anzitutto il Giacomo di Elio Germano: vengono privilegiati l’attitudine nevrotica, gli
scoppi d’ira, i baleni d’abbandono. Ha la rabbia di un eroe scettico, è un angry young man di ieri e
di oggi. Era la scommessa più ardua da vincere ed è stata vinta, tutto sommato. Anche nella
recitazione di pochi ma essenziali versi, che hanno il taglio di arie inframezzate all’azione. A mezza
strada tra mimesi e reinvenzione il protagonista attira simpatia e stimola identificazione. L’idea di
accrescere con gli anni la deformità del corpo, e in particolare la gibbosità, disegna un diagramma,
traduce visivamente il disagio e la lotta per contrastarlo. L’Antonio Ranieri di Michele Riondino
invece è personaggio troppo lineare – quasi un Ussoni-Girotti, se è permesso citare un film, Senso,
molto caro al regista –, un carbonaro disciplinato e un dongiovanni intraprendente. Tutte le
testimonianze convergono nel descrivere un massiccio ed estroso biondone dagli occhi celesti,
spiritato e frenetico. Il Monaldo di Massimo Popolizio eccede in protettivo paternalismo: è
pienamente riscattato, rotondo e solenne, senza ombre. Più registrati e credibili il magnifico Carlo
Antici di Paolo Graziosi e il polemico Pietro Giordani di Valerio Binasco. Al fastidioso precettore
Sandro Lombardi presta l’espressività di un correttore pressante ma indulgente. La bella Isabella
Ragonese indossa le vesti della sorella Paolina, che, si sa, era «piccola e gracile – stando alla
descrizione della Boghen-Conigliani –, aveva capelli bruni e corti, occhi di un azzurro incerto, viso
olivastro e rotondetto», e lei stessa si pigliava in giro per il naso retroussé. Perché, allora,
coinvolgere la Ragonese? Non si tratta di una quisquilia. Tra Giacomo e la sorella, della stessa sua
pasta, vi era una speculare corrispondenza. L’imperiosa Fanny di Anna Mouglalis ha la scostante
alterigia della cinica Aspasia. La Lenina ha le cordiali fattezze di un’espansiva Giorgia Salari. La
figura di Teresa Fattorini è impersonata dall’esordiente Gloria Ghergo: bellina come una
madonnetta, decisamente fuori fuoco. La sequenza del funerale diventa oleografica, anche per un
corpo che non ha niente a che spartire con le «negre chiome» né reca i segni del debilitante morbo.
La ragazza «era – testimonia il Piergili – biancastrinella, secchettina, civiloccia, non familiare con
altri».
Martone e la Di Majo hanno dei veri colpi di genio nell’inventare situazioni che tratteggiano con
efficacia occasioni e intrecci emblematici sia dal punto di vista sentimentale che nella sostanza delle
idee. La parte su Firenze è a questo riguardo colma di accortezze. Giacomo e Ranieri assistono
all’attesa tragedia di Giovanni Battista Niccolini Giovanni da Procida che andò in scena il 29
gennaio 1830 al Teatro del Cocomero. Si sa che riscosse un travolgente successo politico. Leopardi
e Ranieri non erano presenti. Vieusseux informò con gioia il poeta, che si trovava a Recanati, con
una lettera del 28 febbraio 1830: «questa composizione drammatica desta tanto stupore e meraviglia
che conviene stare con ragione al giudizio inappellabile del pubblico». È un tipico espediente,
questo, nel quale la falsificazione si fa veicolo di realtà. La Pelzet era davvero in profonda
confidenza col Niccolini, al quale confidò con franca amicizia il disagio che gli procurava
l’ossessivo corteggiamento del Ranieri: «Con mio marito non posso aver pace se non abbandono
Tonino» (lettera del 10 novembre 1831). Portare in primo piano la convergenza ideale con il
Niccolini allarga la rete delle relazioni fiorentine più note. Giustamente si escludono momenti che
avrebbero creato non poco imbarazzo, come il citatissimo incontro con Manzoni, avvenuto in
palazzo Buondelmonti la sera del 3 settembre 1827. Finissima è la ricostruzione (in palazzo Pitti)
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del prestigioso salotto di Carlotta Lenzoni, arredato pure con la cosiddetta prima Psiche di Pietro
Tenerani, scultore apprezzato sia da Leopardi che da Giordani: che tessé un caldo elogio dell’opera
sulle pagine dell’ «Antologia» (1o novembre 1826).
La Napoli a forti tinte del largo finale non cade in folcloristici scivoloni. Discutibile è semmai la
comparsa nel sordido bordello, a sorpresa, dell’ermafrodita. Martone l’ha giustificata come
citazione-omaggio da Partitura di Enzo Moscato. In testi leopardiani non si rinvengono riscontri
che la legittimino. Nel foglietto di esercizi mnemonici suggeriti dalla dinamica inconscia delle
associazioni verbali si legge un fuggevole accenno: «Ecclissi, armonia, ermafrodita. Arcadi.
Tessali. Leonora – sogno – lontano. sventure. crepuscolo. nulla. pianto nella maggiore allegrezza».
Una rapida riflessione sul tema affiora nello Zibaldone in data 22 settembre 1823 a commento di un
passo del Convivio di Platone: «Gli antichi non trovarono maggior difficoltà a comporre i due sessi
umani, il maschio e la femmina, negli immaginari ermafroditi».
Sulla Napoli turpe e notturna della deriva ultima aveva già insistito, in un libro curiosamente
barocco, Vladimiro Bottone (L’Ospite della Vita, Avagliano, Cava de’ Tirreni 1999), dove il poeta è
colpito e calamitato dallo «schiamazzo di un lupanare», da un’«epifania malsana»: «I battimani, gli
scoppi di risa sguaiate e sguarratissime vibrano, per forza, per forza percussiva fin nel profondo dei
suoi polpastrelli, fino alla radici delle terminazioni nervose».
Altra licenza teatrale: Martone fa assistere, da una palchetto del San Carlo, Leopardi e l’inseparabile
Tonino ad una scena della rossiniana Matilde di Shabran, della quale Martone stesso ha curato la
regia. In realtà l’opera, un melodramma giocoso in due atti, era andata in scena a Napoli al Teatro
del Fondo l’11 dicembre 1821. Leopardi non la vide di certo, ma non fosse che per la furbesca
inclusione in essa di pezzi dell’ammiratissima La donna del lago la scelta è da approvare e denota
ancora la capacità di coniugare estro e pertinenza. Gli slittamenti cronologici non scandalizzano,
non sono mai dissonanti. Si veda ad esempio l’autocitazione che Leopardi fa nella chiassosa taverna
napoletana della canzone giovanile dedicata A un vincitore nel pallone: il pensiero di qualche
spettatore correrà a Maradona o, più appropriatamente a Messi, il cui ceppo familiare ha radici a
due passi da Recanati…
La fotografia di Renato Berta elude indugi pittoricistici e non si fa intrappolare nelle malie del
verismo ottocentesco. Sui costumi di Ursula Patzak qualche cavilloso esperto ha borbottato: sembra
che il guardaroba sia déplacé en avant. Non saprei.
Della colonna musicale non si può che essere entusiasti. Ottimo si è rivelato l’affidamento a Sascha
Ring, noto come Apparat, delle tracce contemporanee, che cooperano all’operazione svecchiamento
insinuando melodie esotiche, melanconiche, mai patetiche e “romantiche”. Folgorante il ricorso per
la parte “storica” alle musiche di Rossini: il prezioso andantino della quarta sonata a quattro,
composto da Rossini dodicenne, ricorre in punti salienti. E poi due brani dallo Stabat Mater e
frammenti dalla Matilde e dal Guglielmo Tell. Tre antiche canzoni napoletane (Lo cardillo, Lo
guarracino, Fenesta vascia) dànno un’anima inconfondibile alla Napoli canora del finale approdo.
Il titolo del film è citazione da un affettuoso elzeviro (del 1939) di Anna Maria Ortese: la scrittrice
vi riferiva di un suo primaverile vagabondaggio terminato davanti alla dotta epigrafe murata sulla
tomba del poeta: «Così ho pensato di andare verso la Grotta, in fondo alla quale, in un paese di luce,
dorme da cento anni il giovane favoloso». E “favoloso” sarà da leggere non solo per geniale, ma
anche come affabulante. Leopardi «ebbe fin da fanciullo – scrisse il fratello Carlo – l’abilità
straordinaria d’inventar fole o novelle, e di seguitarne alcuna per più giorni, come un romanzo».
ROBERTO BARZANTI
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