Il giovane favoloso
Transcript
Il giovane favoloso
“Il giovane favoloso” di Mario Martone Era un’impresa da far tremare i polsi allestire un biopic su Giacomo Leopardi avendo ben presenti i limiti tipici del genere, ma progettando il film con una tensione inventiva che ne contenesse i rischi e tentasse magari di infrangerli facendo leva su una fedeltà non pedissequa, su un verosimile non timoroso, su una narrazione non costretta dalle date canoniche e dalle stazioni rituali. E Mario Martone è riuscito a costruire un’opera avvincente, strutturata per Atti racchiusi in unità spaziotemporali, in modo da evitare le strettoie di una scrupolosa ed impacciata cronologia e conferirle un movimento libero e arioso. Intervallati con misura da inserti esplicitamente onirici e dalla recitazione di versi in forma di monologo, i blocchi si succedono ubbidendo ad un ritmo fortemente teatrale. La solida sceneggiatura elaborata da Mario Martone e Ippolita di Majo per Il giovane favoloso fa una scelta interpretativa chiara e coerente. Giacomo Leopardi veste da subito i panni di un giovane ribelle, insofferente della claustrale educazione che gli viene propinata, tenacemente proiettato oltre le mura del Palazzo avito, desideroso di contatti e dialoghi con chi può capire la furia della sua ricerca, l’irrefrenabile sete di gloria che lo agita. L’attacco inquadra un viottolo da cui di lì a poco irromperanno, vocianti, Giacomo, Carlo e Paolina: tre fratelli accomunati dagli stessi sogni, affaccendati in duelli che simulano eroiche gesta, immersi nel nebbioso verde dell’infanzia. «Nei giuochi e nelle battaglie romane – confiderà Carlo al Viani a proposito di Giacomo –, che noi fratelli facevamo nel giardino, egli si metteva sempre primo». Le parti iniziali su Recanati alternano la calda luminosità di paesaggi ricalcati su passi del poeta a solenni interni, che intimoriscono per l’aulica severità. È stato un privilegio impagabile avere come set quelle stesse stanze che per lunghe ore furono rifugio a Giacomo: le pareti traboccano di libri in bell’ordine, e i quadri coi «figurati armenti» idealizzano una benevola mitizzata natura. Don Vincenzo Diotallevi sorveglia e impartisce comandi, è sempre alle calcagna con l’occhiuta premura ispettiva di un precettore che non dà scampo: ha la traballante allure di una macchietta da commedia buffa. La madre Adelaide è una mummia autoritaria. Il padre Monaldo s’inorgoglisce del figlio che dà prova del suo precoce ingegno davanti al compassato uditorio dell’Oratorio dei Nobili. Martone ne esalta l’irruenta generosità e ne addolcisce le asprezze. Nelle note di regia, dettate per il pressbook diffuso al Lido durante la Mostra del cinema, Martone precisa che il suo film «vuole essere la storia di un’anima», raccontata «con tutta libertà». La formula, come si sa, designa un’opera effettivamente progettata – nel 1825 – da Leopardi e non realizzata. Attribuita ad un tal Giulio Rivalta, eteronimo dell’autore, si sarebbe trattato di un resoconto autobiografico, incentrato non su fatti memorabili ma nutrito dall’analisi dei moti interiori di un uomo senza qualità, travagliato dalle «intime vicende di un qualsivoglia animo umano». Senonché il film è arte eminentemente figurativa e anche quando si prefigga di illuminare i sussulti psicologici e le fantasie individuali non può far a meno di concretizzarsi in immagini, dando volti ai protagonisti e voce ai pensieri. Il giovane favoloso tenta felicemente un equilibrio tra parola e vita, muovendo dalla convinzione – da discutere e dimensionare correttamente – che di Leopardi si può affermare che «non c’è un suo rigo che non sia autobiografico». Di qui un ardito parallelismo tracciato dal regista napoletano con Proust e Beckett. L’anima deve di necessità farsi icona, diventare personaggio e avventurarsi nel “mondo”. La società del borgo amato-odiato è messa in scena nei suoi vacui appuntamenti. La piazzetta che si apre davanti al Palazzo è percorsa da gente laboriosa, echeggia consueti traffici. La morte (30 ottobre 1818) di Teresa Fattorini, la dirimpettaia intravista da Giacomo mentre lavora alla «faticosa tela» – sarà sublimata successivamente in Silvia – dà l’appiglio ad una pagina intrisa di insistito patetismo. La distanza delle classi vi è evocata con incisiva discrezione. Quindi si coglie al balzo la 1 vicenda della tentata fuga e della richiesta di passaporto candidamente rivolta al conte Saverio Broglio di Macerata per immettere un inserto di ben giostrata resa drammatica. Non sfuggirà come l’uso della “Sala dell’Eneide” di palazzo Buonaccorsi sia un modo assai pregnante e puntuale per mettere in risalto l’affascinante presenza in Leopardi del mondo classico, virgilianamente modulato, nella fase che precede il primo soggiorno in Roma e il crollo del sistema di stampo russoviano tratteggiato con totale trasporto. L’irruzione di Pietro Giordani nella silenziosa quiete delle ombrose stanze di famiglia è anch’essa spunto per uno scambio di battute che consentono, durante una cena, un’ulteriore teatralizzazione di nascosti conflitti e sottaciute divergenze. Si campisce, a contrasto, la figura di un grifagno e burbero Carlo Antici, che incarna con altezzoso stile il paradigma di un ceto voglioso di contrastare un opprimente destino di decadenza. Con un salto deciso, da Recanati ci si trasferisce quindi in riva d’Arno: a Firenze, dieci anni dopo. Siamo al secondo Atto. Lo stacco è persuasivo e rivela con quanta sensibilità il film derivi da una conoscenza approfondita dell’esperienza leopardiana, con quanto fine intelligenza aderisca all’inquieto peregrinare di un giovane che si trasforma in homme révolté. Giacomo è calato in un panorama culturalmente molto vivace ed è stretto nelle spire d’una tempesta amorosa dagli oscuri risvolti. Non era per niente agevole padroneggiare i due piani evitando riferimenti eruditi inafferrabili per i più e divagazioni sensazionali da intrigante feuilleton. L’incolmabile divario con la variegata intellighenzia fiorentina è raccontato con proprietà. Dapprima in uno degli affollati appuntamenti accolti al Gabinetto Vieusseux, a palazzo Buondelmonti, quindi davanti al sinedrio degli impettiti cruscanti che emettono un’impietosa sentenza: il premio – bandito nel ’30 – al quale concorrevano le Operette morali era stato attributo al Botta! Non c’è incidente più clamoroso per documentare la distanza che separava la posizione filosofica leopardiana dal fervido e fiducioso liberalismo promosso da Giampietro Vieusseux e propagandato dalla sua «Antologia». La caricatura di un tronfio Tommaseo che se la prende con “l’arrogante mediocrità” di un autore irriso e sbeffeggiato aggiunge alla carrellata un elemento importante. Il marchese Gino Capponi difende, piuttosto, un rigido cattolicismo e, se condanna implacabile le idee di Giacomo, è però l’unico ad esprimersi a favore di un libro che per contenuti doveva apparirgli del tutto inaccettabile. Martone non può più di tanto soffermarsi su sfumature e atteggiamenti che avrebbero spinto il film verso una complessa rassegna di ideologie. Rimane semmai appena sfiorata la solidarietà che gli amici di Toscana ebbero nei confronti di un letterato di cui percepivano la straordinaria grandezza e compativano la grave penuria di mezzi e le indicibili afflizioni della carne. A Firenze si produce una svolta profonda: Leopardi, tramite Alessandro Poerio, conosce Antonio Ranieri, un gagliardo napoletano ventunenne che accoppiava la melanconia dell’esule ad un anticonformistico empito patriottico. L’insaziabile dandy è destinato a diventare un compagno insostituibile, fino alle ultime ore. Tra i due si sviluppa una solidarietà che è più di un’amicizia, ed è corroborata da una profonda consonanza di idee. Martone li immagina entrambi entusiasti a congratularsi, in camerino, con la fiorentina Maria Maddalena Signorini Pelzet, detta Lena o Lenina, dopo un’applaudita rappresentazione della tragedia Giovanni da Procida di Giovanni Battista Niccolini, alla presenza dello stesso Niccolini. La Lena, attrice che aveva conquistato una certa fama oltre che per le sue lodate qualità drammatiche anche per il reticolo dei suoi rapporti, era corteggiatissima da Ranieri. Che l’avrebbe poi seguita a Roma trascinando con sé, in un deprecato soggiorno, l’amico. Dal 1830, proprio l’anno della rappresentazione del Giovanni – soggetto la rivolta dei “Vespri siciliani” per esplicite finalità nazional-patriottiche –, tra il bell’Antonio e Giacomo si stabilisce un sodalizio che sopravvivrà ad ogni sospetto. Martone è ellittico: si limita a inquadrare Antonio che esce nudo dal bagno mentre Giacomo posa appena lo sguardo sul prestante e atletico corpo senza alcuna piega di morbosità. L’approvazione piuttosto per il lavoro del Niccolini enfatizza il ruolo di una linea classicistica e laica già sottolineato nel determinante Giordani e rafforza una storicizzazione alla quale il regista-autore è tutt’altro che indifferente. Non a caso Martone ha richiamato il legame con 2 il precedente Noi credevamo invitando a leggere Il giovane favoloso anche come capitolo di un’indagine sul nostro Ottocento condotta con accanimento documentale. Ma sullo sfondo di una Firenze mondana e letterata acquista via via risalto lo strano e sbilenco triangolo che si forma tra Leopardi, Ranieri e Fanny Targioni-Tozzetti. È la fase che si riflette nei canti accomunati dalla stoica esaltazione di Amore e Morte, deità che sublimano in mitiche figure un adulto senso di angoscia. L’amara coscienza di essere solo un tramite tra la spigliata Fanny e il focoso Antonio è accennata con ritegno, come l’affannoso corteggiamento di Leopardi, che nel dono alla donna dell’autografo di Alfieri manifesta una predilezione che lo coinvolge anche personalmente. Altro intelligente passaggio che serve a lumeggiare le ambizioni letterarie da collezionista della dama e la devozione mai sottaciuta di Giacomo verso il fiero astigiano. Così i vezzi di un costume bohémien – la finestra dell’appartamento preso in affitto dai due inquadra la cupola del Cestello – s’intrecciano col dolore di una sconfitta che Giacomo avverte definitiva. E pertinentemente risuona in un’irata battuta ritagliata dalla confessione rivolta a Fanny nella lettera del 5 dicembre 1831: «Sapete ch’io abbomino la politica, perché credo, anzi vedo che gl’individui sono infelici sotto ogni forma di governo, colpa della natura che ha fatto gli uomini all’infelicità, e rido della felicità delle masse, perché il mio piccolo cervello non concepisce una massa felice, composta d’individui non felici». Per timore di una strumentale annessione alla populistica vague di moda, la sceneggiatura taglia l’inizio sul secco rifiuto della politica e circoscrive la citazione allo scherno sulla felicità impossibile delle masse. Il pubblico presente all’anteprima in sala Darsena, al Lido di Venezia, tributò un caloroso plauso alla recisa affermazione: chi avrebbe mai pensato che una sentenza stesa in una confidenziale missiva sollecitasse un consenso così immediato e convinto? Miracoli del cinema. Quindi l’ultima scena nel quadro fastoso e ostile della Roma papalina. La retorica erudizione e la mania antiquaria sono teatralizzate in un colloquio da incubo tra l’affranto Giacomo e monsignor Cupis, amico di Monaldo, sviluppando un esile spunto offerto da una lettera del 22 dicembre 1831: «Fui già da Mons. Cupis, ed egli tornò da me, e mi fece amorevolezze, pregandomi molto a vederlo spesso, e promettendo di farmi sentire e leggere un migliaio e mezzo che egli ha tra Sonetti, canzoni e Capitoli di sua fattura, ch’egli vorrebbe poi farmi rivedere o limare. Questa volta mi ha spaventato talmente, che malgrado il bene che gli voglio e le gentilezze che mi fa, non ho avuto il coraggio di ritornarci». Un uso quanto mai abile dell’epistolario. Alle Operette morali Martone attinge immaginando in un’aria da inquietante sogno un cruciale pezzo del Dialogo della Natura e di un Islandese e, en plein air, un brano del Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere. Il terzo grandioso e tragico Atto del film ha per scene la Napoli funestata dal colera. Martone, a casa sua, si prende qualche libertà in più. E calca la mano su un città vitale e plebea, percorsa da macchinose processioni. Leopardi vi passeggia solitario, goloso di sorbetti e avido di incontri, siede in osterie partecipando agli alterchi di avvinazzati clienti. Dove era ben noto e appellato volgarmente “’o ranavuottolo”, il rospetto. È, la sua, come un’immersione nel popolo – un’identificazione col popolo – di vaga assonanza pasoliniana. Non disdegna di chiacchierare con ribaldi in vena di scherzacci, con ragazzi di vita che emanano un imbarazzante fascino. A proposito del fatto che di tanto in tanto usasse invitarne qualcuno nell’appartamento condiviso con Ranieri e pretendesse di restar solo in incontri del genere sono state scritte pagine zeppe di compiaciuto gossip. Martone se la cava egregiamente pensando a una divertita chiacchierata sui Paralipomeni: ciò che gli consente di aggirare dicerie fantasiose e di accordare uno spazio per quanto esiguo allo scabroso poema. In una sorta di estrema discesa agli inferi Leopardi è accompagnato da Ranieri in un lupanare, disegnato alla maniera grottesca del Satyricon felliniano. Da una tenda ad un certo punto esce un ermafrodita, simbolo del desiderio d’inoltrarsi oltre ogni limite, di abbattere ogni residuo confine. La costruzione a crescendo culmina nel messaggio testamentario della Ginestra. Il Vesuvio erutta minacciosamente fuoco di morte. Un sereno cielo sfacciatamente trapunto di stelle è il sipario che cala sullo scarno melodramma. 3 A Venezia il film di Martone ha registrato un’ottima accoglienza. Premi – per quanto valgono – non ne ha avuti, anche per le difficoltà di comprensione da parte di una scombinata giuria internazionale. È un film intelligente e sofisticato, che parla molto a chi ha qualche familiarità con la biografia di Leopardi e può risultare di faticosa decriptazione a chi lo consideri una pur atipica narrazione: declinata in termini teatrali, debitrice qua e là di un temperato, non imitativo, viscontismo. Nel giudicarlo bisogna attenersi a quello che è. Gli studiosi di Leopardi saranno inevitabilmente portati a chiosare, precisare, prendere le distanze o consentire, ma un prodotto esige di esser valutato per le potenzialità espressive che può offrire, per i risultati che consente. Guai a pretendere di vedere il proprio film o a dettarne un rifacimento a proprio gusto. Si fa critica di ciò che è stato fatto, tentando di penetrare negli obiettivi perseguiti e di soppesare gli effetti ottenuti. Innegabile è l’efficacia didattica e il prudente rigore della scrittura. L’intera orchestrazione merita un autentico consenso. Del resto Martone aveva già dato prova della sua acuta adesione all’universo del pensatore-poeta con la bellissima versione teatrale delle Operette, e qui conferma che il suo incontro con Leopardi non ha nulla di casuale o esteriore: è filtrato da un aggiornato armamentario bibliografico e discende da una personale voglia di capire. Qualche perplessità può manifestarsi. Tutto è troppo bello. Si desidererebbe un racconto più sgualcito, meno coerentemente “costumato”, meno fluido: non esente da smagliature e lacerazioni. I protagonisti dànno talvolta l’impressione di muoversi sulla ribalta, con punte di istrionismo che accrescono il timbro, appunto, teatrale di un’opera comunque riuscita alla grande. Aggiungo chiose e noterelle esemplificative, in una non professionale recensione per leopardisti. I dialoghi sono elaborati pescando essenzialmente nell’epistolario e badando a non sbrigliarsi in improbabili fantasie. Ne deriva spesso una sintassi forbita che ben si sarebbe prestata ad una recitazione estraniata. L’intarsio delle citazioni è sottile, mirabile, accettabile la stringata antologia. E non disturbano certi slittamenti cronologici, mai gratuiti. Come quando Giacomo assai dopo il giugno del ’23 pronuncia le ferme persuasioni confessate allo Jacopssen: «O non bisognerebbe vivere, o bisognerebbe sempre sentire, sempre amare, sempre sperare…». O come quando viene ripresa la dolente esclamazione di un disperata lettera da Roma: «Amami, per Dio. Ho bisogno d’amore, amore, amore, fuoco, entusiasmo, vita» ( 25 novembre 1822). Della lettera più citata, tra le due uniche pervenuteci tra quelle inviate all’altera Fanny, si è detto, rimproverando un taglio che sa di accorta e attualizzante censura. Piazzate al punto giusto le energiche parole di protesta indirizzate a Luigi de Sinner con la vibrante epistola del 24 maggio 1832. Talvolta si estraggono considerazioni e repliche dalle Operette. E dallo Zibaldone (aprile 1826) è echeggiata la postilla alla Teodicea di Leibniz che chiarisce quanto sia stato improprio etichettare sotto l’abusata categoria di pessimismo (variamente aggettivato) un pensiero mobile, aperto a sbocchi di ben diversa radicalità: non mi sbilancerei, sostiene Giacomo, nell’affermare che «l’universo esistente è il peggiore degli universi possibili, sostituendo così all’ottimismo il pessimismo: chi può conoscere i limiti della possibilità?». Il rifiuto della distorcente, e limitativa, etichetta è condensato in una battuta. C’è da augurarsi che sia afferrata nel suo valore. Pensare che è andata a finire anche nel trailer. Sicché le è assicurata un’imprevedibile, vastissima circolazione. Come mettere in scena alcuni versi almeno? Martone ha optato per brevi monologhi che a teatro avrebbero assunto la forma dell’assólo. Forse non era male staccarli dal resto, distinguendoli con specifici accorgimenti figurativi. È lecito prendere (sommessamente) in esame la questione delle verisimiglianze, perché Martone non trascura affatto lo spinosissimo problema, che risolve ricorrendo a una ponderata analogia fisionomica e curando con scrupolo le ambientazioni e le architetture. Recanati è ritratta con coerenza ammirevole. Martone ha sfruttato al meglio la generosità degli eredi Leopardi che gli hanno messo a disposizione le stanze che in ogni angolo ritengono dettagli e memorie di una vita. 4 Ognuno s’è fatto un’immagine di Casa Leopardi, delle relazioni intrattenute da Giacomo, dei salotti frequentati, delle vie predilette. Venendo ad un’analisi più ravvicinata qualche appunto insorge: trascrivendolo s’intende solo suggerire esempi di riflessioni o dubbi che non offuscano il giudizio complessivo. Non è simpatico rivedere le bucce, ma elencare doverosamente crediti e commentare soluzioni sì: esercizio da praticare più da leopardisti incalliti che da un’ottica da critico cinematografico – mestiere del resto sempre più improbabile – e riconoscendo a Martone il coraggio di una ricerca sobria, di rado distratta da una spettacolarità esibita più del necessario. È doveroso fare un po’di nomi e fermarsi su qualche momento, non per sfoggiare un’erudizione fuori posto, ma per richiamare astuzie e trovate, tessere lodi e abbozzare rimbrotti. Partendo dal casting. Anzitutto il Giacomo di Elio Germano: vengono privilegiati l’attitudine nevrotica, gli scoppi d’ira, i baleni d’abbandono. Ha la rabbia di un eroe scettico, è un angry young man di ieri e di oggi. Era la scommessa più ardua da vincere ed è stata vinta, tutto sommato. Anche nella recitazione di pochi ma essenziali versi, che hanno il taglio di arie inframezzate all’azione. A mezza strada tra mimesi e reinvenzione il protagonista attira simpatia e stimola identificazione. L’idea di accrescere con gli anni la deformità del corpo, e in particolare la gibbosità, disegna un diagramma, traduce visivamente il disagio e la lotta per contrastarlo. L’Antonio Ranieri di Michele Riondino invece è personaggio troppo lineare – quasi un Ussoni-Girotti, se è permesso citare un film, Senso, molto caro al regista –, un carbonaro disciplinato e un dongiovanni intraprendente. Tutte le testimonianze convergono nel descrivere un massiccio ed estroso biondone dagli occhi celesti, spiritato e frenetico. Il Monaldo di Massimo Popolizio eccede in protettivo paternalismo: è pienamente riscattato, rotondo e solenne, senza ombre. Più registrati e credibili il magnifico Carlo Antici di Paolo Graziosi e il polemico Pietro Giordani di Valerio Binasco. Al fastidioso precettore Sandro Lombardi presta l’espressività di un correttore pressante ma indulgente. La bella Isabella Ragonese indossa le vesti della sorella Paolina, che, si sa, era «piccola e gracile – stando alla descrizione della Boghen-Conigliani –, aveva capelli bruni e corti, occhi di un azzurro incerto, viso olivastro e rotondetto», e lei stessa si pigliava in giro per il naso retroussé. Perché, allora, coinvolgere la Ragonese? Non si tratta di una quisquilia. Tra Giacomo e la sorella, della stessa sua pasta, vi era una speculare corrispondenza. L’imperiosa Fanny di Anna Mouglalis ha la scostante alterigia della cinica Aspasia. La Lenina ha le cordiali fattezze di un’espansiva Giorgia Salari. La figura di Teresa Fattorini è impersonata dall’esordiente Gloria Ghergo: bellina come una madonnetta, decisamente fuori fuoco. La sequenza del funerale diventa oleografica, anche per un corpo che non ha niente a che spartire con le «negre chiome» né reca i segni del debilitante morbo. La ragazza «era – testimonia il Piergili – biancastrinella, secchettina, civiloccia, non familiare con altri». Martone e la Di Majo hanno dei veri colpi di genio nell’inventare situazioni che tratteggiano con efficacia occasioni e intrecci emblematici sia dal punto di vista sentimentale che nella sostanza delle idee. La parte su Firenze è a questo riguardo colma di accortezze. Giacomo e Ranieri assistono all’attesa tragedia di Giovanni Battista Niccolini Giovanni da Procida che andò in scena il 29 gennaio 1830 al Teatro del Cocomero. Si sa che riscosse un travolgente successo politico. Leopardi e Ranieri non erano presenti. Vieusseux informò con gioia il poeta, che si trovava a Recanati, con una lettera del 28 febbraio 1830: «questa composizione drammatica desta tanto stupore e meraviglia che conviene stare con ragione al giudizio inappellabile del pubblico». È un tipico espediente, questo, nel quale la falsificazione si fa veicolo di realtà. La Pelzet era davvero in profonda confidenza col Niccolini, al quale confidò con franca amicizia il disagio che gli procurava l’ossessivo corteggiamento del Ranieri: «Con mio marito non posso aver pace se non abbandono Tonino» (lettera del 10 novembre 1831). Portare in primo piano la convergenza ideale con il Niccolini allarga la rete delle relazioni fiorentine più note. Giustamente si escludono momenti che avrebbero creato non poco imbarazzo, come il citatissimo incontro con Manzoni, avvenuto in palazzo Buondelmonti la sera del 3 settembre 1827. Finissima è la ricostruzione (in palazzo Pitti) 5 del prestigioso salotto di Carlotta Lenzoni, arredato pure con la cosiddetta prima Psiche di Pietro Tenerani, scultore apprezzato sia da Leopardi che da Giordani: che tessé un caldo elogio dell’opera sulle pagine dell’ «Antologia» (1o novembre 1826). La Napoli a forti tinte del largo finale non cade in folcloristici scivoloni. Discutibile è semmai la comparsa nel sordido bordello, a sorpresa, dell’ermafrodita. Martone l’ha giustificata come citazione-omaggio da Partitura di Enzo Moscato. In testi leopardiani non si rinvengono riscontri che la legittimino. Nel foglietto di esercizi mnemonici suggeriti dalla dinamica inconscia delle associazioni verbali si legge un fuggevole accenno: «Ecclissi, armonia, ermafrodita. Arcadi. Tessali. Leonora – sogno – lontano. sventure. crepuscolo. nulla. pianto nella maggiore allegrezza». Una rapida riflessione sul tema affiora nello Zibaldone in data 22 settembre 1823 a commento di un passo del Convivio di Platone: «Gli antichi non trovarono maggior difficoltà a comporre i due sessi umani, il maschio e la femmina, negli immaginari ermafroditi». Sulla Napoli turpe e notturna della deriva ultima aveva già insistito, in un libro curiosamente barocco, Vladimiro Bottone (L’Ospite della Vita, Avagliano, Cava de’ Tirreni 1999), dove il poeta è colpito e calamitato dallo «schiamazzo di un lupanare», da un’«epifania malsana»: «I battimani, gli scoppi di risa sguaiate e sguarratissime vibrano, per forza, per forza percussiva fin nel profondo dei suoi polpastrelli, fino alla radici delle terminazioni nervose». Altra licenza teatrale: Martone fa assistere, da una palchetto del San Carlo, Leopardi e l’inseparabile Tonino ad una scena della rossiniana Matilde di Shabran, della quale Martone stesso ha curato la regia. In realtà l’opera, un melodramma giocoso in due atti, era andata in scena a Napoli al Teatro del Fondo l’11 dicembre 1821. Leopardi non la vide di certo, ma non fosse che per la furbesca inclusione in essa di pezzi dell’ammiratissima La donna del lago la scelta è da approvare e denota ancora la capacità di coniugare estro e pertinenza. Gli slittamenti cronologici non scandalizzano, non sono mai dissonanti. Si veda ad esempio l’autocitazione che Leopardi fa nella chiassosa taverna napoletana della canzone giovanile dedicata A un vincitore nel pallone: il pensiero di qualche spettatore correrà a Maradona o, più appropriatamente a Messi, il cui ceppo familiare ha radici a due passi da Recanati… La fotografia di Renato Berta elude indugi pittoricistici e non si fa intrappolare nelle malie del verismo ottocentesco. Sui costumi di Ursula Patzak qualche cavilloso esperto ha borbottato: sembra che il guardaroba sia déplacé en avant. Non saprei. Della colonna musicale non si può che essere entusiasti. Ottimo si è rivelato l’affidamento a Sascha Ring, noto come Apparat, delle tracce contemporanee, che cooperano all’operazione svecchiamento insinuando melodie esotiche, melanconiche, mai patetiche e “romantiche”. Folgorante il ricorso per la parte “storica” alle musiche di Rossini: il prezioso andantino della quarta sonata a quattro, composto da Rossini dodicenne, ricorre in punti salienti. E poi due brani dallo Stabat Mater e frammenti dalla Matilde e dal Guglielmo Tell. Tre antiche canzoni napoletane (Lo cardillo, Lo guarracino, Fenesta vascia) dànno un’anima inconfondibile alla Napoli canora del finale approdo. Il titolo del film è citazione da un affettuoso elzeviro (del 1939) di Anna Maria Ortese: la scrittrice vi riferiva di un suo primaverile vagabondaggio terminato davanti alla dotta epigrafe murata sulla tomba del poeta: «Così ho pensato di andare verso la Grotta, in fondo alla quale, in un paese di luce, dorme da cento anni il giovane favoloso». E “favoloso” sarà da leggere non solo per geniale, ma anche come affabulante. Leopardi «ebbe fin da fanciullo – scrisse il fratello Carlo – l’abilità straordinaria d’inventar fole o novelle, e di seguitarne alcuna per più giorni, come un romanzo». ROBERTO BARZANTI 6